Le lettere

«Vendi tutto…»

Gentile direttore, le scrivo in merito alla risposta che lei ha dato al sig. Cesare Verdi (Mc 04/2016, pag. 7). Secondo il mio parere se coloro che dovrebbero essere «luce» non riescono a capire il senso delle parole «vendi tutto… e seguimi», vuol dire che non hanno seguito Cristo.

Lei scrive: «Ci sono centinaia di case religiose vuote… ma non hanno i requisiti… e sono invendibili». Vendetele sottocosto queste proprietà e il ricavato datelo ai poveri. Aggiungo che ci sono pure i «tesori» delle basiliche e dei santuari che si potrebbero «smaltire» per l’aiuto dei poveri.

Alla Caritas arrivano i doni/pacchi del popolo e distribuire quello donato dagli altri è facile. Se non vado errando la chiesa è proprietaria di una banca.

Non si fermi a queste piccolissime considerazioni, ma vada a pensare a quante donazioni riceve la chiesa e quanto è ricca la chiesa. Se il «sale» perde il sapore…

R. S. – 12/04/2016

Ho già risposto privatamente al nostro lettore. Riprendo e aggiungo qui alcuni punti per approfondire insieme il dibattito, cominciato dalla «proposta» di mandare navi da crociera a raccogliere i profughi in mare (Mc 1-2/2016).

• Immobili religiosi.

È certamente una questione che si presta a un dibattito senza fine e potenzialmente populista. Senza tener conto che sta creando un sacco di sofferenze e disagi all’interno delle congregazioni religiose stesse. Ricordo un vecchio religioso che un giorno mi ha fatto l’elenco di ben dieci case da oltre cento posti l’una nel raggio di venti chilometri in una valle del Piemonte: vuote da anni e invendute perché nessuno le vuole, neppure regalate. Neppure i comuni le vogliono, visti i tagli alle spese cui sono costretti.

Diversi istituti sono stati fortunati riuscendo a riciclare tali edifici al servizio di onlus, associazioni di volontariato, gruppi culturali. Ma l’invecchiamento delle comunità religiose e la mancanza di vocazioni italiane farà ancora aumentare l’offerta di tali edifici. Ogni tanto questo fa notizia, soprattutto quando si tratta della chiusura di questo o di quel convento storico tra l’amarezza della popolazione locale.

• Smaltire i tesori.

Niente di nuovo in questo. Quanti santuari e chiese hanno venduto ori e pietre preziose subito dopo la seconda guerra mondiale per aiutare i poveri! Non tutto è oro quello che luccica, neppure nei santuari. Inoltre spesso questi tesori non sono neanche più di vera proprietà della Chiesa (intesa come «vescovi, preti e religiosi», almeno da come capisco la sua accezione). Questi «tesori», quando veri, sono di proprietà della comunità (Chiesa fatta di tutti i credenti) locale e normalmente registrati e controllati dal Ministero dei Beni culturali, per cui diventano inalienabili.

Non rischiamo poi di cadere in slogan populisti, tipo quello di chi proponeva la vendita del Vaticano per finanziare la lotta alla fame nel mondo. Di tutt’altro stile era Raul Follereau (chi lo ricorda ancora?) che negli anni Sessanta chiedeva a Russia e America l’equivalente del costo di due cacciabombardieri per risolvere il problema della lebbra nel mondo. E non li ha ottenuti.

• Distribuire è facile.

Forse sì. Se lo si fa ogni tanto. Ma le garantisco che chi, laico o religioso, ha la responsabilità della continuità in un progetto caritativo non può dormire sonni tranquilli, anche se si fida della Divina Provvidenza. Lo sa bene chi è dentro una onlus per aiutare i poveri, nella San Vincenzo o nella Caritas, o chi si cura di orfani, studenti, affamati e «scarti» di ogni tipo nelle periferie del mondo. Per distribuire bisogna avere, e per avere bisogna chiedere, mendicare, supplicare, tener fresca la memoria e quanto altro per creare un flusso continuo di «carità». E poi non basta «dare», occorre un dare con intelligenza, che coinvolga chi riceve, che faccia crescere, responsabilizzi, faccia uscire dall’ignoranza, dalla dipendenza. Tutto questo è un impegno grande, che non fa notizia.

• Dar l’esempio.

È vero che chi dovrebbe essere «luce» dovrebbe dare l’esempio. Ma le assicuro che l’esempio lo danno in tantissimi, anche se nei media fa notizia solo chi fa scandalo. E non lo scrivo solo per difendere la categoria. È una questione di giustizia verso un numero incredibile di cristiani, religiosi e laici, che si sono spesi e si spendono ogni giorno. Quanti missionari/e ho conosciuto che hanno canalizzato/canalizzano milioni (se non miliardi) di aiuti per i poveri, per rientrare poi a morire in Italia con una valigia da 20 chili e montagne di ricordi.

• Giustizia.

La questione di tanti immobili «ecclesiastici» sottoutilizzati o vuoti non è facile da risolvere. E non è solo una questione economica. Tali edifici sono stati costruiti con i soldi della gente ed è giusto che tornino alla gente per essere riutilizzati per il bene comune. Per chi oggi li possiede sono solo un peso di tasse e manutenzione. Basterà l’uscita dalla presente crisi economica per risolvere il problema e far sì che questi edifici siano usati per il bene comune e non svenduti a speculatori? Non sono un buon profeta a proposito, ma credo che la soluzione non stia nei soldi ma in persone nuove disposte a dare la vita per gli «scarti» del mondo e quindi capaci anche di ridare nuovo spirito a edifici che un tempo sono stati pieni di vita, gioia, generosità e sogni.

 

Europa

Egregio Direttore,
grazie per la sua risposta a commento del mio intervento pubblicato sul numero di aprile della sua rivista, risposta che giudico tuttavia debole e insoddisfacente. Anche nel mio intervento mettevo in rilievo gli errori e l’inadeguatezza della politica europea in sede di Unione e degli stati membri indistintamente, ma con l’aria che tira in Europa (Brexit, immigrazione, governi polacco e ungherese, crisi greca, movimenti populisti e xenofobi in espansione…) mi chiedo e le chiedo se si senta veramente la necessità e l’utilità di «provocazioni» quali quelle del prof. Amoroso. Con i miei migliori saluti.

Walter Cavallini – 18/04/2016

Di Afrikaneer e di Cristeros

Note su due articoli della vostra bella rivista di aprile.

1) Africaneer. Quando si parla di loro è il caso di ricordare che quelli di origine olandese erano in buona parte valdesi del Piemonte, fuggiti in Olanda nel 1686 (altri in Prussia e in Inghilterra) per sottrarsi alle feroci persecuzioni volute da Luigi XIV, succube della «compagnia del SS. Sacramento» protetta dalla moglie morganatica M.me de Maintenon. Ancora alla fine dell’egemonia afrikaneer, i nomi dei leader erano piemontesi: Malan, Botha (Botta) , Vigloner (Viglione). In Piazza Castello, a Torino, è segnato in bronzo il punto in cui, su richiesta dell’Inquisizione, fu bruciato un pastore valdese.

2) Cristeros. La persecuzione dei Cristeros nasce in seguito all’atteggiamento della Chiesa (che possedeva quasi la metà delle terre e degli immobili del Messico) ai tempi dell’occupazione franco-inglese con l’imperatore Massimiliano, dovuta al mancato pagamento degli interessi sul debito estero. Il partito conservatore e la Chiesa approvarono l’occupazione, che evitava loro confische e tasse, ma che suscitò una guerra civile finita quando gli Usa, terminata la loro guerra civile, mandarono un esercito ai confini per ripristinare la dottrina Monroe (gli Usa non tollerano presenze straniere nel continente). Dopo di che furono venduti all’asta molti beni della Chiesa e i compratori divennero massoni, anche per autodifesa.

Dalla lotta dei Cristeros contro le persecuzioni (di cui parla anche Hemingway in uno dei 49 racconti) discendono anche le basi ideali e sociali su cui un ignobile personaggio, troppo protetto in Vaticano fino a papa Benedetto, costruì il movimento dei «legionari di Cristo».

Claudio Bellavista – 02/04/2016

Grazie per l’interessante nota sugli Afrikaneer. Ma mi permetto di non concordare sull’analisi riguardo ai Cristeros. La storia del Messico, fin dalla sua indipendenza nel 1821, non è stata facile, segnata come fu da ingerenze straniere (vedi l’imperatore Massimiliano sostenuto dalla Francia) e da violenze e guerre civili. Ma chi ha interferito di più in quel paese, sono stati gli Usa che non hanno esitato a fargli guerra (1830) per poi strappargli alcuni stati importanti come la Califoia, il Texas e il New Mexico, e hanno poi sostenuto in tutti i modi un’oligarchia locale favorevole ai loro interessi. Non contenti di questo hanno promosso un’aggresiva attività missionaria protestante allo scopo di scalzare l’influenza cattolica. Hanno inoltre spalleggiato i governanti a loro favorevoli grazie alla massoneria, che nei primi decenni del Novecento era ben decisa non solo a dividere politica e religione, ma a cancellare ogni influenza della Chiesa cattolica, e non solo in Messico. Che chi ha incamerato i beni della Chiesa si sia fatto poi massone «per autodifesa» o per convenienza, non discuto e non entro neppure nel merito della discutibile dottrina Monroe del 2 dicembre 1823, che ha giustificato tutte le pesanti interferenze degli Usa nella vita dei paesi latinoamericani.

La lotta dei Cristeros fu una lotta autenticamente popolare e spontanea, pagata con migliaia di morti. La repressione, armata con le armi foite dai nordamericani, fu invece gestita da un’oligarchia strettamente collegata a interessi stranieri e spietata con il proprio popolo.

C’è poi una differenza fondamentale tra le proprietà della Chiesa e quelle delle oligarchie. Le proprietà e i beni della Chiesa in fondo rimangono sempre del popolo, perché figli del popolo erano i sacerdoti, religiosi e religiose che li gestivano, persone strettamente legate alla loro terra, alla loro gente, alle loro famiglie. Le oligarchie gestiscono le proprietà per il loro potere e per l’arricchimento, spesso ottenuto con lo sfruttamento sfacciato dei lavoratori mantenuti sistematicamente in situazioni di dipendenza e miseria.

Ne abbiamo un esempio anche oggi, con le multinazionali che, focalizzate sul massimo profitto, operano fuori di ogni controllo nazionale, spostano i loro centri di produzione dove gli operai sono meno pagati e meno sindacalmente organizzati e cercano tutti i modi di evadere le tasse.

Quanto al fondatore dei Legionari di Cristo (ordine religioso e non movimento) non credo sia legittimo usare la sua vita schizofrenica per denigrare i Cristeros, che hanno pagato con la vita la loro fedeltà a Gesù Cristo e alla Chiesa, contro un regime che, nel nome della libertà, non tollerava diversità e opposizione e, una volta raggiunto un accordo di pace, non ha mantenuto i patti, continuando a massacrare chi aveva osato pensare diverso.

Copie non recapitate

Buongiorno,
sono una vostra abbonata e leggo con molto piacere e attenzione la rivista. Non mi è arrivato il numero di marzo 2016 e pur avendo visto che è sfogliabile in internet preferisco il cartaceo perché li colleziono ed anche perché avendo una certa età riesco poco e male a leggere sul monitor. Vi sarei grata se – quando volete e potete – mi inviaste la copia.
Sempre complimenti ed un cordiale saluto.

M. C. – 23/04/2016

Prendo spunto da questa email per precisare che mandiamo sempre e a tutti con regolarità la nostra rivista perché arrivi all’inizio di ogni mese. Se non vi arriva la vostra copia (dieci all’anno con calendario a novembre e numerazione doppia a gennaio / febbraio e agosto / settembre), fatecelo sapere e ve ne mandiamo un’altra. Ma, se possibile, protestate un po’ con il vostro ufficio postale locale.

Gianni Minà

Caro Direttore,
un grazie di vero cuore, per la rivista Missioni Consolata, che puntualmente mi arriva a casa ogni mese.
I vari articoli sono sempre molto interessanti; veritieri e non di parte.
Il mensile si chiude poi con l’articolo di Gianni Minà, giornalista di alto livello, che presenta il personaggio di tuo più con il cuore che non con gli occhi, che, a mio modesto avviso, è il finale perfetto per una giusta diffusione di notizie mondiali, importanti e talvolta tragiche, esposte sempre in modo umano e sentito, mai in modo morboso e apocalittico, come purtroppo sovente capita.
Ancora un grazie, veramente sincero e buon proseguimento. Con simpatia.

Concé Canova – Corio (To), 04/04/2016

I primi in Mozambico

Carissimo Direttore,
ho letto su MC di gennaio-febbraio 2016 del novantesimo anniversario dell’arrivo dei primi cinque missionari della Consolata in Mozambico. Ma in realtà erano più di cinque. Infatti nel 1925 ne sono arrivati cinque da Torino, e quattro dal Kenya, inviati dal nostro padre Fondatore. Uno era mio cugino padre Giulio Peyrani, figlio di una sorella di mia nonna. Nel 1960 in Casa Madre mi ha raccontato tutta la sua vita, aveva ancora la lettera che aveva ricevuto dal Fondatore. Lui lavorava da diversi anni in Kenya e il Fondatore gli chiedeva per favore se era disposto a partecipare alla prima spedizione per il Mozambico e studiare la nuova lingua. Lui e altri tre accettarono e partirono. Si incontrarono con quelli arrivati da Torino e insieme partirono a piedi, passando le foreste per arrivare nella diocesi di Tete, dove fondarono la prima missione.
Grazie per l’attenzione e cari saluti.

Fratel Torta Francesco –  Cavi di Lavagna (GE)

Grazie della preziosa precisazione e per il bel ricordo che hai del tuo zio, che poi hai seguito diventando tu stesso missionario in Mozambico.

Questi sono i primi otto missionari che il 30 ottobre 1925 sbarcarono nel porto di Beira in Mozambico: i padri Vittorio Sandrone (superiore del gruppo), Giulio Peyrani, Pietro Calandri, Giovanni Chiomio e fratel Giuseppe Benedetto che avevano già fatto esperienza missionaria in Kenya, e i padri Lorenzo Sperta e Paolo Borello con lo studente Secondo Ghiglia provenienti da Torino dopo aver ricevuto il crocefisso dalle mani del beato Allamano. Il nono, padre Giuseppe Amiotti, si sarebbe aggiunto più avanti per sostituire Sperta che si ammalò subito e dovette essere accompagnato in Kenya da padre Calandri per curarsi. Da Beira risalirono il fiume Zambesi con un vaporetto e dopo una lunga e penosa navigazione sul fiume quasi in secca arrivarono a Tete il 10 gennaio 1926. Mentre padre Peyrani si fermava a Tete, gli altri proseguirono fino alla missione di Miruru, fondata tanti anni prima dai Gesuiti, ma poi abbandonata dopo la loro espulsione dal Portogallo (1759). Padre Calandri rientrò dal Kenya a giugno accompagnato da padre Giuseppe Amiotti, buon fotografo, a cui si devono alcune delle più belle foto di quegli anni. Egli lasciò poi l’Istituto per rientrare in diocesi. Alla sua morte lasciò il suo album di foto del Mozambico ai nipoti, l’ultimo dei quali lo ha recentemente donato alla rivista perché fosse conservato.

 




Cari missionari

Farinella

Spettabile redazione,
vedo che Paolo Farinella, prete, come si firma, continua a scrivere su Missioni Consolata come esperto commentatore della Bibbia. Non metto in dubbio che Farinella sia un esperto biblista, mi domando però se sia anche un cristiano. Ho ritrovato un articolo che era apparso su La Repubblica il 30 aprile dello scorso anno. Già allora avrei voluto scrivervi, ma avevo perso l’articolo in questione (nel quale Farinella attaccava apertamente Renzi come uccisore della democrazia e quindi da eliminare come  se fosse un tiranno, ndr). […] Ora io non ne faccio una questione politica ma etica; fra l’altro non sono un ammiratore del presidente del consiglio. Farinella identifica Renzi come un tiranno da uccidere, parla di andare in montagna a fare la resistenza come se Renzi fosse Mussolini, il Mussolini di Salò. Ciò mi ricorda quello che qualche intellettuale scriveva negli anni Settanta a proposito del governo e della Dc e che spinse qualche giovane a darsi al terrorismo. Ebbene, io gli anni settanta li ricordo e non voglio più leggere una rivista che ospita un collaboratore che scrive in modo simile a quegli intellettuali degli anni Settanta, che furono poi definiti «cattivi maestri». Vi prego perciò di togliere il mio nome dalla vostra mailing list.

Paolo Cozzi
Milano, 11/03/2016

I rapporti tra questa rivista e don Paolo Farinella sono ben chiari da tempo: collabora con noi soprattutto per quell’ottimo biblista che è lasciando in secondo piano il cittadino appassionatamente impegnato in politica, quella con la «p» maiuscola, la più grande virtù civica e sociale.

Separati chiaramente i due ambiti, stiamo lavorando insieme in amicizia e rispetto reciproco. Qualcuno, anche tra i miei passati superiori, ha pensato che questa fosse una scelta di comodo, come se di don Paolo noi «usassimo» solo quella parte che ci conviene chiudendo non solo un occhio, ma tutti e due, sulle sue posizioni critiche rispetto alla politica, alla Chiesa e al papa stesso. I direttori miei predecessori, e io stesso, abbiamo ricevuto forti pressioni perché don Farinella sparisse dalle pagine di questa rivista.

Lui continua a essere pubblicato su MC perché i suoi scritti sono un aiuto di grande qualità a conoscere e amare la Parola di Dio. Per questo, pur non condividendo alcune delle sue valutazioni ed esteazioni politiche ed ecclesiali, ritengo che gli scritti di don Paolo, a cui rinnovo la stima di tutta la redazione, arricchiscano queste pagine.

Certo, mi spiace che il nostro lettore si sia sentito disturbato da quello che don Farinella scrive o che scrivono di lui su altre pubblicazioni al punto da rifiutare la nostra rivista. Perdere un lettore non può essere motivo di gioia. Ricordo però che alla fine del ciclo sulle nozze di Cana, abbiamo ricevuto molte email e telefonate che esprimevano disappunto al non trovare più le pagine di «Così sta scritto».

La nostra non è una rivista che vuol piacere a tutti i costi. Conosciamo i nostri limiti e cerchiamo di servire la Verità con passione e rispetto, senza pretendere di avee il monopolio.

Quanto alla fede di don Paolo, se neppure il suo vescovo ha sentito il bisogno di sospenderlo dal ministero sacerdotale, benché sia stato apertamente criticato dallo stesso, chi sono io per giudicarlo?

Ragioni di speranza

Caro padre,
oggi è l’11 marzo, giornata mondiale delle persone con sindrome di down e il mio pensiero ha associato le tue riflessioni contenute nell’editoriale «Non si eliminano così anche gli ulivi?» a una recente esperienza che ho vissuto per ragioni di lavoro e che mi ha riempito di ammirazione e di speranza. Ho incontrato una coppia di genitori che hanno adottato un bambino down che quest’anno compie due anni; da quando è presso la famiglia adottiva, e cioè da un anno circa, ha fatto tanti progressi e la cosa più sorprendente è l’impegno che mette in atto per corrispondere alle attenzioni e agli stimoli che riceve, tanto da arrabbiarsi se non riesce a padroneggiare, ad esempio, il meccanismo del gattonamento che gli consentirebbe di spostarsi da solo. Effettua esperienze, quando non è a casa o al baby parking di logopedia, psicomotricità e musica, e i genitori sono in contatto con centri down di diverse città per essere informati riguardo tutte le possibilità educative, scolastiche, terapeutiche e giuridiche atte ad accompagnarlo nell’apprendimento e nella conquista dell’autonomia presente e futura.

Le tue parole riguardo la specificità dell’uomo che è «la capacità di gratuità, d’amore, di dono di sé, di sacrificio e di pensare “noi” e non solo “io”» l’ho vista incarnata in  questa coppia che con gioia ha confermato l’adozione di un bambino che secondo certe logiche comporterebbe molte spese sociali e molti problemi. Il loro amore è veramente generativo e contagioso e non può che sostenere la speranza che un tale tipo di amore non sia scomparso! Se la cura e il rispetto per la vita fossero anche trasferiti agli ulivi affetti da Xylella, a mio parere, in quanto figlia di un contadino con la passione per le piante, forse si troverebbe un rimedio meno drastico del loro abbattimento.

Auguro una Santa Pasqua, evento che fonda la fede che cerchiamo di vivere e anche un po’ di capire!

Milva Capoia
Collegno, 21/03/2016

A mio zio, padre Ottavio Santoro

Carissimi,

sono Vita, la nipote di Padre Ottavio Santoro. Mi piacerebbe pubblicaste il testo seguente che ho letto nella chiesa del Resurrection Garden, a Nairobi, il 24 novembre scorso durante il funerale di mio zio.

«Purtroppo ho perso un altro “pezzo” della mia famiglia. Dopo la morte di mio padre, padre Ottavio è stato un secondo padre per me. Questa per me è una grandissima perdita. Penso che lo sia anche per tutta la Comunità dei Missionari della Consolata e la Chiesa. Padre Ottavio ci ha lasciati con il corpo, ma il suo spirito rimarrà per sempre con noi. Qui, al “Resurrection Garden”, “lui” è in ogni angolo, in ogni fiore, in ogni pietra, tutto parla di “lui”.

Ha vissuto da povero, ma ha fatto delle cose meravigliose.  Ha lavorato in silenzio per dare voce a Dio con la consapevolezza del potere dell’amore e non dell’amore per il potere. La sua priorità sono sempre stati i poveri e i bambini per dare dignità a tutti davanti alla vita.

Da vent’anni la Pasqua l’ho sempre trascorsa con lui. La scorsa Pasqua mentre chiacchieravamo, mi diceva compiaciuto, che nei giorni precedenti, in un solo giorno, erano state celebrate venti Messe (da vari gruppi nelle varie chiese e cappelle del Resurrection Garden, ndr). Gli ho risposto che stava facendo concorrenza a San Pietro a Roma. Non mi ha risposto, ma il suo lungo sguardo, mi ha detto che il suo obiettivo era stato raggiunto e cominciava a fare i conti con la vita.

Alla fine di maggio (2015), quando si è definito il viaggio del Santo Padre, in una mail mi ha chiesto di raggiungerlo. Ho prenotato subito il volo, ma la sensazione che ho avuto è che sarebbe stata l’ultima volta che l’avrei visto. Vorrei ringraziare tutti coloro che l’hanno sostenuto e aiutato. Un grazie particolare a Ceghe, Anastasia, Peter, Michael, Solomon e Michael per l’amore con cui l’hanno servito. Amiamolo come “lui” ci ha amati e preghiamolo che possa riposare in pace. Che Dio ci benedica».

Chi era padre Ottavio Santoro?

95 Pope JPII - 085cutNato a Martina Franca (Ta) nel 1933, dieci anni dopo entra nel seminario dei Missionari della Consolata a Parabita (Le). Dopo il noviziato in Certosa Pesio, la filosofia a Torino e la teologia a Washington negli Usa, nel 1958 è ordinato sacerdote ed è subito destinato al Kenya dove arriva alla fine dello stesso anno. In Kenya rimane fino alla morte, a parte un breve periodo di servizio nell’animazione missionaria negli Usa tra il 1964 e il 1968. Dopo i primi anni come vice parroco, vice rettore nel seminario diocesano, professore in una scuola secondaria, nel 1972 è nominato amministratore di tutte le opere della Consolata in Kenya. In questo servizio rivela un particolare talento e buon gusto per le costruzioni, tra cui il Seminario filosofico e l’espansione della Consolata School in Nairobi, considerata ancor oggi una delle migliori scuole del Kenya. Dal 1986 al 1994 è amministratore della nascente Università Cattolica dell’Africa orientale (Cuea) a Lang’ata, Nairobi, che sotto la sua guida si arricchisce delle strutture fondamentali. Per non restare con le mani in mano, nello stesso tempo segue la costruzione del seminario teologico della Consolata, l’Allamano House, e del Tangaza College, l’università teologica della maggior parte delle congregazioni religiose che sono in Kenya. Nel 1990 il cardinal Otunga lo spinge a iniziare la costruzione del Resurrection Garden (Giardino della Resurrezione), inaugurato nel 1994. Il giardino si espande su un’area di circa otto ettari con un percorso di cappellette e piloni, decorati con mosaici e bronzi raffiguranti scene bibliche, che si conclude nel vasto santuario centrale: la chiesa della Pentecoste. Nel giardino ci sono anche 112 lapidi su cui è inciso il «Padre nostro» in altrettante lingue dei cinque continenti, una casa per esercizi spirituali, una per ritiri e incontri di formazione e varie casette per ritiri individuali. Il giardino, diventato ecumenico, è meta di pellegrinaggi, da tutte le diocesi del Kenya. Nel settembre 1995 Giovanni Paolo II vi concluse il primo Sinodo africano. Dal 2005 in una cappella del giardino riposa il corpo del cardinale Maurice Michael Otunga di cui P. Ottavio ha promosso la causa di beatificazione diventandone il primo postulatore. Padre Santoro ha ricoperto il ruolo di direttore del «Centro Ecumenico di Spiritualità Resurrection Garden» fino alla morte, avvenuta il 18/11/2015, rivelandosi non solo un raffinato costruttore, ma un uomo di grande spiritualità con una particolare attenzione ai poveri, come ben sanno gli oltre 400 bambini di cui seguiva attentamente il progresso grazie al sostegno a distanza degli amici del Grg (Gruppo Ressurrection Garden di Modena).

Vita Santoro,
Martina Franca, 16/03/2016

Padre Pierino Schiavinato

Padre Pierino Schiavinato
Padre Pierino Schiavinato

La mattina di questo Venerdì santo 2016 padre Pierino Schiavinato è andato a far compagnia ai santi. Nato nel 1939 a Montebelluna (Tv), sacerdote nel 1964, laureato in storia ecclesiastica, disciplina che insegna agli studenti di teologia, lavora per un breve periodo in questa rivista agli inizi degli anni ‘70 e poi viene inviato in Kenya, nel Meru, dove rimane fino al 1988 quando è incaricato di iniziare la rivista The Seed, che a fine 1992 consegna, ben avviata, al futuro direttore di MC. Dopo una parentesi prima a Londra, come professore di storia, e poi in Canada per animazione missionaria, rientra in Kenya con il nuovo secolo ed è inviato nella missione di Matheri, sempre nel Meru, dove rimane fino al 2014, quando è trasferito a Mukululu insieme a fratel Argese. Un’improvvisa malattia lo costringe a rientrare in Italia, dove, nonostante le lunghe cure, conclude la sua bella battaglia proprio nel giorno in cui il ricordo dell’Annunciazione del Signore e quello della sua morte coincidono.
Con noi lo piangono gli amici della Avi (Associazione Volontariato Insieme), di Montebelluna che tanto hanno collaborato con lui nell’amata terra del Meru.

Perdonino i lettori questo commento, ma alcuni parenti di missionari e anche miei confratelli hanno chiesto perché pubblichiamo la notizia della morte di alcuni confratelli e non di altri. Come regola pubblichiamo quello che i lettori ci mandano; raramente ne diamo la notizia noi stessi, come nel caso di padre Schiavinato, che ha avuto direttamente a che fare con questa rivista. Non vogliamo discriminare nessuno, ma in questi anni l’Istituto sta crescendo in Paradiso al ritmo di una ventina all’anno: 26 (2013), 18 (2014) e 20 (2015). I loro profili e i ricordi sono pubblicati in una nostra pubblicazione intea e, in forma ridotta, su «Famiglia IMC», la piccola rivista trimestrale per parenti e amici. Se qualcuno ha piacere di ricordare qualche nostro missionario su queste pagine, sappia di essere sempre benvenuto.

Clericus Cup

Il Seminario teologico internazionale IMC di Bravetta ha partecipato al mondiale di calcio pontificio. La Clericus cup è un campionato di calcio per sacerdoti, religiosi e seminaristi che studiano nelle università pontificie di Roma, promosso dal Centro Sportivo Italiano, dalla Conferenza episcopale italiana e dai Pontifici Consigli per i Laici e della Cultura. La Clericus cup è stata iniziata nel 2007 con l’obbiettivo di fare entrare lo sport nell’esperienza della vita sacerdotale, religiosa.

Nel 2016, anno della misericordia promulgato da Papa Francesco, si sta realizzando la decima edizione della coppa, che dura da febbraio fino a maggio, con il motto «la misericordia scende in campo» stampato sulle maglie.

Il Seminario teologico internazionale di Bravetta ha partecipato per la prima volta. Il campionato è un bel momento di fratellanza religiosa e di interscambio tra i vari istituti e congregazioni. Oltre alla nostra, hanno partecipato le squadre dei monaci Benedettini, del Collegio Nord-americano, degli Agostiniani e del Collegio Urbano che da due anni consecutivi è il vincitore della coppa. È stata una bella esperienza, anche se dopo una prima vittoria abbiamo subito due sconfitte consecutive e siamo stati eliminati. Ma ci stiamo già preparando all’edizione del 2017.

Eugenio Bento Cristovao
Bravetta, 14/03/2016

 




Lettere aprile 2016


Ancora sull’Ucraina

2016_04 MC Hqsm_Pagina_05
Clicca sull’immagine per il pdf sfogliabile e web-links

Da un po’ di tempo seguo con interesse la vostra rivista apprezzandola, ma dopo la lettura dell’articolo «Kiev non parla russo» del dicembre 2015 non posso fare a meno di scrivervi. Ben inteso, non ne contesto i contenuti, ritengo che quanto scritto sia plausibile e vero, ma la totale faziosità a senso unico contro la Russia mi ha sorpreso. Mi vengono spontanei quesiti e riflessioni che provo a riportare qui.

Nell’articolo si dice riguardo la Crimea: colpo di mano militare russo; «omini verdi»; Anna che scappa in Italia; le spiagge vuote. L’autodeterminazione dei popoli vale solo quando fa comodo (Kosovo)? Quando non fa comodo vale l’inviolabilità dei confini? L’84,2% della popolazione che ha votato sì (come riportato dall’articolo) non vuole dire niente? Magari citare anche gli altri referendum ivi tenutisi negli anni precedenti aiuterebbe a descrivere meglio il quadro della zona. Una intervista, una, a qualcuno favorevole alla Crimea in Russia proprio non era possibile? Riguardo ai poveri perseguitati tatari: chi ha sabotato i pali dell’alta tensione in Ucraina al fine di lasciare senza luce gli abitanti della Crimea? Come mai l’articolo non cita che la Russia ha riconosciuto agli italiani di Crimea lo status di minoranza deportata e perseguitata, cosa che in venti anni di Ucraina mai era avvenuto.

Venendo al Donbass: Natalia e Aleksandr sono scappati da Donetsk, volevano Donetsk in Ucraina, non ne facevano segreto, lui imprigionato e picchiato. Intervistare i miliziani Dnr-Lnr rilasciati dall’Ucraina dopo scambio di prigionieri? Non sia mai vero. I profughi che scappano dalla Crimea e dal Donbass per essere salvi in Ucraina cita l’articolo. Di quelli che invece scappano in Russia non c’è traccia, e dire che sono circa un milione. Strano che l’articolo citi che il 2 maggio 2013 ad Odessa siano bruciati vivi 48 manifestanti filorussi nel rogo della Casa dei sindacati. Chi ha appiccato il rogo con la complicità della polizia però non è scritto, come anche che quelli che si salvavano dalle fiamme poi venivano picchiati, ma già, i filorussi sono cattivi mentre i filoucraini bravi. Qualche accenno ai battaglioni neo-nazi Azov ed Aidar?

Non è tutto bianco o tutto nero, la situazione in Ucraina è ben più complessa, riportando solo una parte dei fatti si può benissimo dire la verità ma si distorce la realtà a proprio uso e consumo.

Mi sono preso la briga di andare a vedere cos’è Obc. Dal loro sito Inteet: «Osservatorio Balcani e Caucaso (Obc) è un think tank che si occupa di Sud-Est Europa, Turchia e Caucaso ed esplora le trasformazioni sociali, politiche e culturali di sei paesi membri dell’Unione Europea (Ue), di sette paesi che partecipano al processo di allargamento europeo e di buona parte dell’Europa post-sovietica coinvolta nella politica europea di vicinato». Ed inoltre: «Obc ha un accordo di partenariato con il Parlamento europeo e realizza progetti co-finanziati dal Ministero degli Affari Esteri italiano, dall’Unione Europea, da fondazioni private ed enti pubblici e privati italiani ed europei». Appunto un think tank: sono di parte e sono finanziati dalla Ue. Lo scopo è orientare, cosa che nel pezzo gli è riuscita benissimo. Saluti.

Luca Medico
22/01/2016

Cari missionari,
dopo aver letto l’articolo sull’Ucraina del numero di dicembre ho deciso di scrivervi. Infatti dopo quelli da me apprezzati sulla Transnistria, la Cecenia, la Bielorussia, la Turchia (e gli altri) mi è apparsa chiara la faziosità del taglio giornalistico. Ciò è sicuramente da attribuire all’Osservatorio Balcani e Caucaso che, dopo breve ricerca in rete, mi è apparsa in modo lampante una associazione con obiettivi chiari e tutt’altro che neutrali. […] La questione ucraina infatti è ben più complessa di ciò che l’autore voglia far credere. Non dico che i fatti raccontati non siano veri, ma sicuramente è stata raccontata la verità a meta distorcendo quindi la percezione del lettore. D’altra parte l’Obc è un think tank e quindi persegue esattamente questo obiettivo, per carità legittimo, ma il lettore di MC è abituato ad altra qualità e aspettativa. Dall’articolo sembrerebbe che, da un lato, ci siano gli ucraini desiderosi di scrollarsi di dosso una tutela russa che non è più accettata e, dall’altro, i russi/russofoni, naturalmente corrotti e militareschi, che ciecamente frenano un legittimo interese ucraino. Purtroppo la situazione è molto più complessa ed è da ingenui pensare che una nazione come quella russa si facesse sottrarre una zona strategica come la Crimea dove ha sede la sua base navale. La verità è che la corruzione c’è anche sull’altro fronte, per non parlare delle forze militaresche che sostengono il governo di Kiev e che la Comunità europea, sedicente esportatrice di valori (quali?), non ha esitato a sostenere dando loro il nome di forze moderate, espressione con la quale si identificano semplicemente gli amici che fanno gli interessi degli occidentali che non in pochi casi sono quelli della Nato, purtroppo.

Insomma, non voglio dire che sia tutto sbagliato ciò che produce quell’osservatorio, ma varrebbe la pena dare voce anche all’altra campana che a mio parere ha anche buone ragioni.

Andrea Sari
27/01/2016

Accogliamo le critiche all’articolo sull’Ucraina, ma non concordiamo con quelle fatte all’Obc. Ricevere finanziamenti dall’Unione europea non significa diventae i lacchè. La collaborazione tra questa rivista e l’Obc è stata finora eccellente e gli articoli che ci ha offerto su molti paesi e situazioni difficili sono stati di ottima qualità. Per questo li ringraziamo e continueremo a pubblicare i loro servizi su una parte di mondo così vicina a noi eppure così sconosciuta.

Sacerdoti amici dell’Allamano

Caro Direttore,
un caro saluto a te e a tutti i missionari della Consolata e auguri per la «nostra» rivista missionaria.

Vorrei fare un appello a te, ai tuoi superiori e ai sacerdoti diocesani. Mi piacerebbe che tanti sacerdoti approfondissero il carisma e la spiritualità «sacerdotale e missionaria» del Beato G. Allamano e che, se possibile, nascesse un gruppo di sacerdoti «amici dell’Allamano» che si impegnino a conoscere, vivere far conoscere ad altri, sacerdoti e non, il suo carisma.

La mia speranza è che si possa fare un primo incontro a Roma, nella vostra casa generalizia, il giorno 3 giugno p.v., nel pomeriggio, in occasione del giubileo dei sacerdoti. Grazie

don Vincenzo Mazzotta
21/02/2016

Don Vincenzo, i migliori auguri per questa bella iniziativa. I sacerdoti che fossero interessati possono contattare don Vincenzo a questo email: vincenzomazzotta13@gmail.com

Meno copie non è risparmio

Desidero non ricevere più la vostra rivista in cartaceo perché vi faccio spendere del denaro che può essere utilizzato diversamente da voi. Se volete potete inviarmela in email. Un saluto e un augurio per la vostra opera missionaria.

lettrice da Bologna
7/02/2016

Metto in evidenza questa email per sottolineare alcuni punti importanti per la vita di una pubblicazione come la nostra, visto che la signora non è la prima a motivare la sua disdetta del cartaceo con il «risparmio» che potremmo fare.

Preciso anzitutto che la stampa e la spedizione della rivista (stampiamo circa 50mila copie, la metà di quanto stampavamo negli anni ’60) «mangiano» circa il 40% delle spese totali. L’altro 60% va nella gestione (attrezzature, luce, riscaldamento, archivio, Inteet, ecc.) e nei salari e compensi a giornalisti e collaboratori.

Il costo di stampa e spedizione per mille copie in più o in meno è irrilevante, mentre invece ogni volta che perdiamo un lettore/amico del cartaceo, aumenta il carico di spesa su ogni singola copia. Più lettori sul web dovrebbero compensare la perdita dei lettori del cartaceo, ma le statistiche mostrano che il lettore web ama le cose gratuite; mentre il lettore del cartaceo è più cosciente di dover aiutare anche economicamente.

In realtà, per ora, l’unica maniera per risparmiare è quella di aumentare il numero di coloro che ricevono la rivista cartacea! Più sono le copie diffuse, più il costo globale per copia diminuisce.

Fine dell’Europa?

Gentile direttore,
con sorpresa ho letto l’intervista al prof. Bruno Amoroso, riportata da Missioni Consolata nel suo numero 1/2, 2016, sull’Unione Europea e sull’euro, dei quali viene decretata la fine, liquidati come fenomeni temporanei della storia.

I motivi per criticare il «governo» dell’Unione e per auspicarne un cambiamento, sono vari e disparati e trovano fondamento nella situazione di crisi evidente dell’idea di integrazione europea, ma il nostro professore dovrebbe chiedersi come mai i cittadini, di fronte a tale situazione (sono parole sue), «preferiscano non crederci perché si troverebbero di fronte a un vuoto di speranza al quale non vogliono credere». Probabilmente avvertono, come il sottoscritto, che il progetto di integrazione europea per il quale si impegnarono figure come Schumann, De Gasperi, Adenauer (spero che il Prof. Amoroso non consideri anche loro agenti della Triade, come Delors e Prodi, probabilmente) è stato un progetto di pace per superare una situazione nella quale i nazionalismi avevano ridotto l’Europa a un cumulo di rovine, un progetto per il quale vale ancora la pena battersi e sperare. Gli stessi nazionalismi che sembrano riemergere nel momento storico che stiamo vivendo, con il rischio che ognuno si ritiri nei suoi limiti, che ritornino le frontiere, le barriere, i muri… come abbiamo già potuto constatare con il problema profughi.

Preferirei leggere, specie su riviste come MC, una lettura della situazione che pur non nascondendo le difficoltà, non trascuri i motivi di speranza perché l’integrazione europea vada avanti, superi la presente crisi, si realizzi soprattutto a livello di valori, come avevano previsto i suoi fondatori. Ritengo che le idee del prof. Amoroso siano esattamente l’opposto perché privi di qualsiasi prospettiva e incapaci di dare speranza, a parte i soliti slogan e la fiducia che «l’uscita sarebbe un gesto virtuoso (!) per seguitare a governare in modo negoziale e sensato processi che, quando si manifestano in modo spontaneo e disordinato, producono danni dolorosi». Ovviamente il prof. Amoroso può pensarla come vuole, ma, anche se al fondo di pag. 4 è scritto che gli articoli pubblicati non riflettono «necessariamente» l’opinione dell’editore, mi farebbe piacere sapere se nel caso specifico lo sono o meno, considerata l’importanza degli argomenti trattati: implosione dell’UE, data per certa, e uscita dall’euro, auspicata.

Con i miei migliori saluti.

Walter Cavallini
Torino, 21/01/2016

Chiamato in causa, mi permetto una breve risposta. L’editore, che come direttore editoriale rappresento, non ha nessuna ragione per volere il dissolvimento dell’Unione Europea, ma accoglie positivamente le provocazioni del prof. Amoroso come contributo a un dibattito serio su molti aspetti discutibili e problematici che affliggono detta Ue in questi anni. Si vedano, ad esempio, tutte le contraddizioni attuali sui migranti e profughi, l’atteggiamento ambiguo con l’Ucraina, la moltiplicazione di regolamenti e norme comunitarie imposti sopra la testa di nazioni e cittadini, la mancanza di trasparenza nelle negoziazioni dei tratti economici inteazionali, come il Ttip…

Migranti e navi da crociera

Sul numero 1/2 2016 vi è una lettera con il titolo in oggetto, a firma Luciano Montenigri del 31/10/2015, nella quale si propone di usare le navi da crociera di lusso per andare a prendere coloro che soffrono e portarli senza rischi qui da noi. Ora io mi chiedo perché tutti questi buonisti siano buoni con mezzi altrui e non personalmente: al ricco fariseo che chiese al Signore cosa doveva fare per meritare la benevolenza di Dio dato che lui si comportava bene, rispettava il prossimo, seguiva tutti precetti religiosi, ecc., Gesù disse: vendi tutto, regala il ricavato ai poveri e seguimi. Non disse di dare ai poveri i beni altrui (navi da crociera) e di non far niente (salvo farsi belli a scrivere), ma di seguirlo senza niente. Ora perché i buonisti dicono sempre cosa gli altri devono fare ma non incominciano loro a dare l’esempio ospitando in casa loro qualche profugo? Mi viene in mente una barzelletta che compariva su Candido negli anni ‘50: a un operaio veniva detto, «Se tu vincessi 100 milioni cosa faresti? Metà a me e metà al partito. Se ti regalassero due automobili? Certo una a me ed una al partito. E se ti regalassero due biciclette? E no. Le due biciclette le ho e le tengo tutte e due per me». Ora se si tratta di accogliere i migranti in strutture pubbliche e private di altri è giusto farlo, ma a casa mia non c’è posto. Mi pare che il nostro attuale Papa abbia invitato tutti i religiosi ad ospitare nelle dimore ecclesiastiche vuote i migranti, ma finora non ho ancora sentito quale istituzione religiosa ha dichiarato di avere locali inutilizzati. Conosco una comunità religiosa di 4-5 religiosi che vivono in ambienti ove si può ricoverare non uno ma ben due reggimenti di soldati, ma finora nessun migrante è ancora stato accolto. Però come è bello fare i buonisti e non i realisti. Con osservanza.

Cesare Verdi
Riva presso Chieri, 24/01/2016

Caro Sig. Cesare,
più che legittimo il suo sfogo contro chi parla e non fa. Ma, a parte il fatto che non sappiamo se il sig. Montenigri non faccia nulla, il rischio è di fare di ogni erba un fascio. Ad esempio, la Chiesa italiana è impegnata in prima linea nell’accoglienza con la sua rete capillare di Caritas e Fondazione Migrantes, sia a livello diocesano che parrocchiale, oltre che con i molti centri di accoglienza e servizi vari gestiti da religiosi e religiose di tutti i tipi. Sono decine di migliaia i migranti (e non) che beneficiano di mense, dormitori, appartamenti, centri di assistenza legale e sanitaria, scuole, e quant’altro è necessario. Possiamo dirlo: la Chiesa italiana (e non parlo solo dei vescovi, ma di tutti, semplici cristiani e religiosi compresi) non si riempie la bocca di solo buonismo.

è vero che ci sono centinaia di case religiose vuote o semivuote, ma moltissime di queste stesse case/casermoni non hanno i requisiti minimi per un’accoglienza a norma di legge, essendo praticamente abbandonate da anni, e di fatto invendibili, come lo sono tante caserme dismesse che nessuno vuole. L’idea delle navi da crocera sembrava più una provocazione che una proposta, ma se c’è chi rischia di fare il «buonista», non cadiamo nell’opposto pseudo realismo arroccato e populista.

Volontari per il Catrimani

Padre Corrado Dalmonego, missionario della Consolata al Catrimani, ha scritto agli amici del Co.Ro. (Comitato Roraima), che hanno a loro volta rilanciato.

«In verità la gestione delle strutture è molto pesante e avrei proprio bisogno di qualcuno (un volontario, un laico missionario o una coppia, magari qualcuno già pensionato ma ancora con forza e buona volontà) che ci aiutasse. Il tempo che devo dedicare ai lavori manuali è un tempo che tolgo da altri lavori che sarebbe molto importante portare avanti. Questi altri lavori fanno parte del nostro specifico, come l’accompagnamento delle scuole, l’incontro con le persone, il dialogo interreligioso e la formazione in generale. E possiamo portarli avanti noi poiché conosciamo la lingua indigena… ma ci manca proprio qualcuno che si occupasse delle questioni più pratiche. Viviamo in una missione nella foresta, foiamo acqua e energia al posto di salute (ambulatorio), abbiamo strutture che ci permettono una vita abbastanza sicura e salubre quando siamo alla missione, e con le quali possiamo realizzare una serie di attività, come corsi e incontri, che sono invidiate da altre organizzazioni, ma tutto questo esige un grande sforzo. Da parte mia sono alla ricerca di volontari e laici missionari con un profilo adeguato a questa realtà. Qui in Brasile è molto difficile, ma chissà?!».

Co.Ro.

Chi fosse interessato può scrivere al dottor Miglietta, responsabile del Co.Ro.: migliettacarlo@gmail.com
oppure al nostro indirizzo, e provvederemo a recapitare l’email agli interessati.

 


L’Umanità in gioco

Toa il festival di antropologia del contemporaneo promosso dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Pistornia e Pescia e dal Comune di Pistornia, ideato e diretto da Giulia Cogoli. Tre giornate con circa 25 appuntamenti tra incontri, spettacoli, conferenze e dialoghi, che animeranno – con un linguaggio come sempre accessibile a tutti – il centro storico di Pistornia.

Filo conduttore della settima edizione sarà: «L’umanità in gioco». «Ogni epoca e ogni civiltà hanno giocato e giocheranno, perché il gioco fa parte dell’essere umano, non è solo prova di sé, ma anche di fantasia, di immaginazione, e allo stesso tempo di regole, rischio e azzardo. Il gioco è più antico della cultura, il mondo animale lo testimonia, vogliamo quindi raccontare attraverso la voce di grandi antropologi, filosofi, psicanalisti, studiosi italiani e stranieri questo tema così centrale della nostra esistenza, da quando nasciamo e giochiamo istintivamente a quando, maturi, giochiamo in borsa, su un campo da calcio, oppure online», spiega Giulia Cogoli.

Appositamente per i Dialoghi, Ferdinando Scianna realizzerà la mostra fotografica personale «In gioco», ispirata al tema del festival, che si terrà dal 27 maggio al 3 luglio presso le sale affrescate del Palazzo Comunale di Pistornia. Per informazioni: www.dialoghisulluomo.it – Ufficio stampa Delos: delos@delosrp.it.

 




Cari missionari

Messe senza gioia

Carissimi Missionari e lettori della rivista,
il recente viaggio in Africa di papa Francesco ha risvegliato in me ricordi bellissimi. Ho avuto la fortuna, quasi vent’anni fa, di condividere due mesi della mia vita con padre Aldo Vettori (1931-2008), nella sua missione di Morijo, in Kenya. Le immagini trasmesse in tv mostravano un popolo in festa: i canti e i balli coinvolgevano tutti, la gente comune, ma anche i preti e le suore! Lo stesso spirito di gioia e di partecipazione che mi coinvolgeva durante le messe di padre Aldo. È da qui che nasce la mia provocazione: perché da noi, in Italia invece, a parte rari casi, la messa è pervasa da un clima mesto e austero? Sono solo io (e la mia misera fede) a percepire questo clima che di giornioso ha veramente poco? Come pensa la Chiesa di attirare i fedeli o di convertie di nuovi? Poi ci stupiamo e ci rammarichiamo se i giovani la domenica non vanno a messa ma preferiscono l’aperitivo con gli amici, il cinema, lo stadio, o programmi televisivi che di edificante hanno poco o niente. Scusate se le mie parole sono state un po’ forti. Vorrei tanto una vostra opinione, e se lo ritenete, anche quella dei lettori. A voi tutta la mia sincera stima.

Paolo Moreschi,
Torino, 18/12/2015

Una delle tristezze più grandi che ho provato tornando in Italia, ormai ben sei anni fa, è stata quella di sentirmi dire, prima di una messa domenicale: «Sii corto. Qui mezz’ora di messa è già lunga». Venendo da un paese africano dove una messa domenicale di un’ora era considerata troppo corta, una richiesta così mi aveva lasciato senza parole. Il vangelo delle nozze di Cana, ascoltato la seconda domenica del tempo ordinario a metà gennaio, racconta di una festa di nozze senza gioia perché era venuto a mancare il vino, e il responsabile della festa manco se n’era accorto. È la parabola di una religione che ha perso la sua freschezza, che ha dimenticato la vivacità del primo amore e si è fossilizzata in ritualismi formali dell’obbligo: «Fare il precetto, prendere / non perdere / ascoltare la messa». Una religione che un tempo arrivava a discutere su quale fosse il momento dal quale fosse «valida» la messa: dall’inizio? dal Vangelo? da dopo la predica? Mentalità del passato, si dirà, ma dura a morire, nonostante il grande sforzo della riforma liturgica promossa dal Concilio Vaticano II.

«Come pensa la Chiesa di attirare i fedeli o di convertie di nuovi?», chiede Paolo. Non basta certo l’entusiasmo del solo sacerdote per rendere viva una messa, e non è neppure il ritorno al barocchismo della liturgia tridentina che può restituire la gioia alle celebrazioni delle nostre comunità destinate a essere sempre più senza eucarestia domenicale a causa della mancanza di preti. La questione di fondo è: cosa intendiamo per Chiesa? Se s’intendono i preti, allora davvero caschiamo male. Nel giro di dieci anni quasi tutte le diocesi italiane (eccetto forse quelle del Sud) avranno perso circa la metà del loro clero, e i sacerdoti, sempre più anziani, gireranno come trottole per garantire almeno una messa domenicale alle molte parrocchie che serviranno.

È urgente convertirsi e pensare «chiesa» in un modo diverso: io, tu, noi, insieme, corresponsabili, tutti attori, tutti membri vivi e attivi della stessa famiglia, tutti «concelebranti», superando il binomio attore – spettatori. Solo allora la messa diventerà quello che è di natura sua, un banchetto nunziale.

Questo è il mio commento ai pensieri di Paolo, voi che ne dite?

Sri lanka

Sono contento che abbiate dedicato un reportage allo Sri Lanka (MC n.12/15), sarei stato ancora più contento se qualche parola fosse stata dedicata ai Vedda, minoranza etnica a serissimo rischio di estinzione. Da secoli contro i Vedda viene combattuta una guerra silenziosa, subdola, una guerra fatta con le armi convenzionali, ma ancora di più con le motoseghe, con i bulldozer, con la trasformazione di splendide foreste in piantagioni di tè, di riso, di palma e di altre monocolture che sono la gioia delle multinazionali.

Speriamo che la lettura dell’Enciclica Laudato si’ stimoli almeno i cristiani dello Sri Lanka ad impegnarsi di più per salvare, insieme agli ambienti naturali, anche il piccolo popolo dei Vedda. Speriamo che chi ha rappresentato lo Sri Lanka all’ultimo summit sul clima, abbia usato la sua autorevolezza per proteggere gli ultimi aborigeni, e il loro non trascurabile patrimonio culturale, da ulteriori abusi. A guadagnarci sarà il mondo intero.

Domenico Di Roberto
16/12/2015

Ucraina

Egregio direttore,
mi scuso se vi scrivo ma vorrei rispondere ad alcune inesattezze che il sig. Elia scrive nell’articolo «Kiev non parla russo» (MC 12/2015 p. 51). Mi permetto di farlo in quanto mia moglie è russa, e io, dai primissimi anni Novanta, ho vissuto e frequento quei luoghi. Anzi ero proprio là quando l’Ucraina e altre ex repubbliche sovietiche presero l’autonomia, come pure durante tutto il periodo della guerra cecena. L’articolo, dopo aver detto giustamente a inizio di pag. 52, «La rada, il parlamento, rimase per più di due decenni (20 anni…) prigioniera di una classe politica corrotta fino al midollo controllata da un pugno di oligarchi (ancora oggi metà del Pil è nelle mani dei 50 uomini più ricchi del paese)», prosegue usando la solita propaganda anti russa, omettendo che i pravy sektor sono fanatici ucraini, molti dei quali girano col «Mein kampf» di Hitler in tasca, e che furono gli ucraini a bombardare scuole, ospedali e case nel Donbass. Migliaia di famiglie russe sono fuggite perdendo tutto. Il bel governo ucraino non ammetteva neanche l’uso della lingua russa in nessun organo di stato né nelle scuole a super maggioranza russa, etc. I bei democratici americani, l’Occidente, pagano, corrompono e ricattano da anni i politici di Kiev. Gli Usa possono bombardare inermi feste familiari, appoggiare dittatori feroci come quelli che uccisero il grande mons. Romero, spiare gli alleati europei, etc. e va tutto bene, Putin invece è cattivo, non è democratico e non è simpatico come l’attore Obama, che vende armi all’Arabia Saudita per circa 10 miliardi di dollari all’anno… Prima di affrontare eventi complessi come quelli dell’ex Unione Sovietica, bisognerebbe aver vissuto là, ed essere persone libere di mente e di cuore. Come leggiamo spesso nella bella rivista MC. Tanti saluti

Alfio Tassinari
04/12/2015

Grazie dell’intervento. In realtà avevamo pubblicato con una certa riluttanza l’articolo in questione, che purtroppo riflette l’effettiva difficoltà di scrivere con obiettività su una realtà così complessa come quella dell’Ucraina.

Quando troppo è troppo

Gentili signori,
da tempo ricevo la vostra rivista. Da tempo, precisamente dopo l’articolo da voi pubblicato sul Venezuela di Chávez, non la apro neanche. Sono nata in Venezuela e sentire che Chávez è paragonato a Gesù è un po’ troppo. Oggi, invece, l’ho sfogliata (forse per lo spirito natalizio) e ho trovato un articolo firmato da Minà dove chiama «grande vecchio» quel mostro di Castro. Un giorno troveremo scritto che Mugabe è san Pietro. Allora io la vostra rivista non la voglio. Le suore della mia scuola a Caracas erano povere religiose cacciate dal regime dei Castro e conosco tante persone che hanno dovuto lasciare Cuba per sempre. Oggi un milione di venezuelani hanno lasciato il Venezuela caduto in mano ai narcoincompetenti. Vi prego di cancellarmi dalla vostra lista di spedizione. Grazie,

Patricia Schiavoni
03/12/2015

Dossier Concilio

Carissimo Gigi,
auguroni per il meraviglioso «A cinquant’anni dalla fine del Concilio Vaticano II» dei nostri missionari Antonio, Gaetano e Diamantino. In modo speciale quello di Antonio. E per il tuo editoriale: «Ho solo queste braccia e il bene che ti voglio». Auguri a te e a tutti i collaboratori della Rivista.

Pietro Parcelli
14/12/2015

Ricordando padre Franco

Pensavo che scrivere un pensiero su p. Franco, fosse facilissimo, eppure quando mi sono seduto e ho preso la penna in mano, mi sono trovato in difficoltà. Sono nato e cresciuto con Franco: da piccoli andavamo a giocare in località Stropei insieme a don Mario Sartori. Ci divertivamo con giochi semplici come semplice è sempre stata la vita di Franco, vita donata agli ultimi (certamente era sulla stessa linea di Papa Francesco). Sì, Franco viveva per gli ultimi, per coloro che vivono senza speranza: lui era sempre lì attento alle necessità di tutti quelli che incontrava sulla sua strada.

Ricordo l’ultima volta che è venuto a Spoleto nel giugno 2014. Fu invitato a parlare a un gruppo parrocchiale: anche se già malato, con un filo di voce, volle incontrare i ragazzi e motivarli a collaborare con entusiasmo per la missione di Wamba. Andammo a cena in una trattoria nei dintorni di Spoleto: i proprietari del locale rimasero colpiti dalla testimonianza molto toccante di p. Franco. Quanto bene hai fatto! Grazie Franco, ci manchi… Grazie per tutto quello che hai realizzato e per come sei vissuto… sono certo che oggi ci sei più presente di prima.

Quanto ci manchi! La tua «assenza fisica» pesa tantissimo, anzitutto per i tuoi parenti, ma anche per tutti gli amici che ti hanno conosciuto, apprezzato e amato; pesa per tutte le persone che hai saputo consolare con «il balsamo della consolazione che viene dall’Alto»; sì, tu sapevi trovare le parole giuste per ognuno, sapevi «piangere con chi piange e giornire con chi è nella gioia».

Quante lacrime hai asciugato, quanto conforto hai saputo offrire, quanto amore concreto hai donato ai moltissimi bisognosi (bisogno di pane, medicine, cure mediche, acqua, ecc.). Sapevi farti «tutto a tutti» come dice s. Paolo. Sei stato veramente pane spezzato per sfamare qualsiasi persona attanagliata dalla povertà. Sei stato il «vero samaritano» per i tanti feriti dalla vita e costretti a portare il peso dell’ingiustizia e dell’indifferenza. Chi colmerà il vuoto della tua assenza?

Anna e Tiziano Basso
Spoleto, 28/12/2015

Ricordando Padre Vito Dominici

Dominici p Vito 20151106_03smL’11 dicembre scorso a Nairobi, Kenya, ha terminato la sua vita terrena padre Vito Dominici, missionario della Consolata. La sua lunga vita è stata veramente un esempio di bontà ed altruismo. Era nato a Romallo (Tn) il 30.11.1927 e a 14 anni entrò nella Casa della Consolata della Madonna del Monte a Rovereto. Fu ordinato sacerdote dal Cardinal Fossati a Torino il 20 giugno 1954 e celebrò la sua prima Messa a Romallo il 4 luglio 1954. Dopo vari incarichi in Italia e un periodo trascorso in Inghilterra a imparare l’inglese, fu inviato in Kenya nel 1959, 56 anni trascorsi in Kenya non sono pochi! La sua ultima Missione è stata a Mujwa distretto di Meru.

Intervistato da Vita Trentina sei anni fa così rispondeva. «Il mio primo impatto non è stato facile. All’inizio avevo quasi voglia di andarmene ma poi, con il passare del tempo, mi sono abituato e ho trovato la mia collocazione nella loro società. I momenti più belli li ho vissuti nel vedere tanti africani seguire le lezioni di catechismo ed accostarsi ai sacramenti. Ora mi sento uno di loro!». Ogni quattro anni tornava in Italia e veniva a trovare i suoi famigliari, i suoi tanti benefattori e amici, ai quali lo legava una fitta e costante corrispondenza, per esempio il gruppo missionario di Romallo, sempre sollecito ad aiutarlo finanziariamente nelle sue opere di bene e costruzioni di varie chiese.

Quest’anno era ritornato in Italia a causa della salute malferma. I suoi superiori avevano prenotato solo il viaggio di rientro in Italia. P. Vito di ciò era preoccupato, la sua patria era l’Africa e si sentiva un vero africano. Nel novembre scorso, accompagnato da sua nipote, era venuto a Castelfondo e Romallo, proveniente dalla Casa Madre della Consolata di Torino. A Romallo aveva celebrato la S. Messa seguita da un incontro significativo con il gruppo missionario. Nel corso dell’incontro p. Vito ha ribadito più volte il suo desiderio di tornare «a casa sua, tra la sua gente». Il 19 novembre scorso, con l’autorizzazione dei suoi superiori, era partito da solo, a 88 anni, dall’aeroporto di Torino, con scalo Istanbul ed arrivo a Nairobi. Aveva successivamente inviato un messaggio «sono arrivato a casa mia, sto bene», ma ai primi di dicembre la sua tempra, seppure forte, ha ceduto per un edema polmonare nell’ospedale di Nairobi.

Iddio aveva esaudito il suo desiderio «morire fra la sua gente». A Romallo domenica 18 dicembre è stato ricordato con una Santa Messa concelebrata dal parroco don Mario e don Enzo Lucchi, suo intimo amico da una vita.

Nei suoi ultimi scritti affermava: «Una cosa è certa, che non vi dimenticherò mai nelle mie preghiere e anche il bene che mi avete fatto e voluto, rimarrà sempre fisso nella mia mente fino all’ultimo respiro e oltre».

Chi ha conosciuto p. Vito ne serberà certamente un gran ricordo, era mite ma coraggioso e caparbio nell’intraprendere e portare a termine i suoi programmi, sempre a favore dei più bisognosi in terra di missione.

Clauser Renato
Romallo, 26/12/2015




Cari missionari

Clicca sulla pagina per aprire il pdf sfogliabile.
Clicca sulla pagina per aprire il pdf sfogliabile.

L’Hotel a 5 stelle

Svuoto la cassetta della posta dove, con altra corrispondenza (perlopiù bollette da pagare), c’è Missioni di Novembre. Mentre mi dirigo verso l’ascensore, tolgo alla rivista la protezione di plastica. Un brusco movimento e, per salvare l’altra corrispondenza, la rivista scivola a terra. Quasi fosse comandata da una sapiente mano, resta aperta a pagina sette mostrando un sorriso che ben conosco e che mi riporta indietro di 13 anni. A marzo 2002. Un sorriso aperto, sincero, non di facciata, non di sola cortesia. Uno di quei sorrisi, accompagnati spesso da sonore risate, che ti conciliano col mondo. Che ti fanno apprezzare la vita. Che ti fanno capire la bellezza di viverla, nonostante una parte d’umanità faccia di tutto per fare emergere il contrario. Padre Franco, che ebbi la grande fortuna di conoscere a Nairobi. Una delle figure più positive e coinvolgenti, pur nella sua semplicità priva di ogni ostentazione, che io abbia conosciuto nel mio lungo peregrinare in terre di Missione e non solo. Al mio ritorno, scrissi un articolo Hotel a 5 stelle che pubblicaste nel 2002 sia su Amico, a luglio, che MC, a ottobre. Conservo ancora gelosamente quelle pagine in suo ricordo.

La notizia della sua scomparsa mi ha sferrato un secondo potente pugno allo stomaco, dopo quello della morte di mio fratello avvenuta 5 giorni prima. Non ero al corrente della sua malattia. Avevo malauguratamente perso i contatti dopo che, per un problema di virus al suo computer, aveva pregato di astenersi dall’inviare e-mail per un certo periodo. Il suo ricordo rimarrà comunque sempre ben custodito nel mio cuore accanto alle persone più care della mia non brevissima vita.

Mario Beltrami – Sesto San Giovanni (MI), 19/11/2015

Uomini di poco conto

Caro Padre Gigi,
quando sono riuscita a leggere l’editoriale dello scorso giugno, sono rimasta colpita dalle parole di Giorgio Torelli: Se molti uomini di poco conto, in molti posti di poco conto, facessero cose di poco conto, allora il mondo potrebbe cambiare. Non posso che concordare con tale pensiero e credo, anche se probabilmente sarebbero altri a doverlo dire, di agire in tal modo nei contesti in cui sono impegnata. C’è tuttavia da considerare che, proprio perché mi sembra di avere assunto il ruolo di chi è di «poco conto» da molti anni, spesso gli eventi, le decisioni, i cambiamenti, e non parlo dei riconoscimenti che non costituiscono un obiettivo pur facendo piacere, avvengano spesso secondo logiche del tutto impreviste e non rispondano a criteri di prudenza, ragionevolezza, ponderazione, discernimento, bensì a criteri di brillantezza nell’esposizione, immagine vincente, forza nella relazione interpersonale, prevaricazione nell’azione. Più volte mi è capitato, infatti, di constatare che, pur avendo capito quale fosse il comportamento più funzionale da seguire, in ambito lavorativo in particolare, per modificare in meglio una situazione, gli eventi abbiano poi risposto a ben altre «non scelte», ossia a dinamiche attivate da forme di «astuzie» ben mascherate, a vantaggio non di tutti bensì solo di qualcuno, se non di uno. Tutto ciò non inficia la convinzione citata in precedenza, ma induce a pensare che per affermare la giustizia da parte di chi è di poco conto, in posti di poco conto e tramite cose di poco conto, occorrano non solo le virtù ma anche il riconoscimento e la tutela delle intenzioni e dei comportamenti virtuosi, ossia strumenti che, pur in modo poco visibile, impediscano ai criteri poco razionali, come l’interesse personale, di avere la meglio. Sempre riconoscente per le suggestioni.

Milva Capoia – 25/07/2015

La primavera è già iniziata

Caro Direttore,
so di scrivere in ritardo, ma lo voglio fare comunque. È difficile dire se un articolo poteva uscire meglio di un altro, ma alcuni articoli sono insuperabilmente ben riusciti. Oggi mi riferisco all’articolo di ottobre: 2 Istituti 1 Missione. Le foto gridano al sole: diversità e unità, collaborazione e complementarietà, allegria e chiarezza di obbiettivi, Dio fonte di ogni chiamata e fedeltà nella risposta. Coraggio, movimento, fermate, tutto è importante nella missione. L’intervista merita: le domande sono adeguate per rispondere quali sono i sogni dell’Istituto, le difficoltà e il grande privilegio di approssimarsi, come missionari, al mosaico plurietnico e maxi culturale…

In quell’articolo i personaggi sono giovani e «veri». Significa che la primavera già è iniziata e che Dio è fedele. Complimenti Missioni Consolata. Grazie anche per l’articolo di maggio: «La “mia” Irene». Fa bene al cuore ripassare i motivi dei nostri affetti e le conquiste di Dio. Avanti! Con stima,

sr. Leta Botta – Boa Vista, Brasile, 17/11/2015

50 anni speciali

La storia della salvezza vive anche di numeri e 50 non è un numero come gli altri. Auguri quindi, auguri di cuore per il vostro 50° anno nella terra degli Yanomami, e complimenti per il regalo che vi siete fatti e che ci avete fatto, con il dossier su Roraima. Entusiasmante leggere, tra le altre cose, tutte molto interessanti, che «gli Yanomami stanno vivendo una forte crescita demografica…» e che «nella regione del Catrimani 408 persone hanno meno di 14 anni…». Grazie.

Francesco Rondina – 28/10/2015

Navi da crociera

Cari Missionari,
io sarò anche esagerato quando, rispondendo a chi lamenta l’islamizzazione dell’Europa e invoca i «respingimenti non solo in terra ma anche in mare…» («Prima – come dice, tra gli altri, il leader della Lega M. Salvini – bisogna pensare ai disoccupati e agli esodati italiani…»), sostengo che le vittime della guerra, delle persecuzioni e dei trafficanti di uomini andrei a prenderle con le navi da crociera, ma gli eventi di questi ultimi anni mi hanno radicato sempre di più in questa convinzione.

Quando vedo che molti di coloro che annegano sono bambini piccolissimi, quando vedo che dalla Siria arrivano addirittura dei disabili con la sedia a rotelle, quando sento che i conflitti solo in Siria, hanno provocato 250mila morti e 5 milioni di profughi, quando in Croazia, dall’Afghanistan, arriva una donna come Bibihal Mirzaji, 105enne, piena di voglia di vivere e di raggiungere la Svezia, non posso che ribadire ciò che molti dei miei interlocutori si ostinano a giudicare, nella migliore delle ipotesi, come una bizzarra provocazione…

Sì, quelle navi così grandi, così attraenti, così lussuose, così avveniristiche, ma anche così fragili (il Titanic prima e, in tempi molto più recenti, la Costa Concordia, ce lo hanno insegnato e il costo è stato altissimo…) mettiamole al servizio degli ultimi, dei diseredati, degli indifesi, mettiamole al servizio del Bene. Il prossimo «inchino» i comandanti delle città galleggianti lo facciano dinanzi ai profughi siriani, iracheni, afghani e africani…

Pensino ai criteri stabiliti da Gesù nel Vangelo per banchetti e seguiti, un mesetto fa, da quella «mancata suocera» di Sacramento, in Califoia, la quale, invece di piangere per le nozze sfumate della figlia, ignobilmente tradita dal fidanzato, ha giornito e, invece di disdire tutto, ha confermato la prenotazione nel ristorante scelto per il rinfresco, ma la festa l’ha fatta invitando i poveri, gli emarginati, i senzatetto della città. Grazie per l’attenzione

Luciano Montenigri – 31/10/2015

Martirio

Caro Padre Gigi,
nella rivista del novembre scorso hai trattato delle procedure di beatificazione e canonizzazione. Da parte mia vorrei aggiungere che con papa Benedetto XVI il miracolo può essere sostituito dal martirio in odio alla fede, naturalmente comprovato (vale per i singoli martiri come per gruppi di martiri). Anche papa Francesco ha fatto ricorso a questa procedura nel suo pontificato. Merita di essere segnalato questo opportuno aggioamento nella procedura in quanto Missionari della Consolata poiché le testimonianze di martirio dei missionari oggi stesso sono numerose e patrimonio di grande santità nella testimonianza totale alla fede in Gesù. Cari saluti

Anastasio Ferrari  – Fidenza, 9/11/2015

Grazie d’averlo ricordato. Non avevo dimenticato questo aspetto, ma nel mio piccolo riassunto avevo dovuto essere più sintetico che mai. Se non sbaglio, il processo iniziato per suor Leonella, come quello per i martiri di Guiua in Mozambico, si avvale proprio di questa clausola.

Novantesimo Anniversario dell’arrivo dei missionari della Consolata in Mozambico

1925: verso la zambesia. Fratel Benedetto, padre Sandrone, padre Calandri, padre Luigi Perlo e padre Peyrani.
1925: verso la Zambesia. Fratel Benedetto, padre Sandrone, padre Calandri, padre Luigi Perlo e padre Peyrani.

DSCF3182 (1)Tra le date che non possiamo dimenticare c’è il 30 ottobre, perché è la data in cui sono arrivati i primi quattro missionari della Consolata in Mozambico, nel 1925. Per grazia di Dio quest’anno 2015 abbiamo celebrato il novantesimo anniversario. Partiti da Torino dopo aver ricevuto il crocifisso dal beato Giuseppe Allamano, i padri Paolo Borello, Lorenzo Sperta, Giovanni Chiomio e il seminarista Secondo Ghiglia, presero i loro mantelli e partirono senza esitazione ma con grande zelo apostolico per amore a Dio. Quando arrivarono in Mozambico, agirono come un agricoltore che semina e ha fiducia che quel che ha seminando germoglierà, crescerà e darà molti frutti. Però loro hanno seminato non grano ma la Parola di Dio nei cuori dei credenti. Il piccolo chicco seminato dai primi quattro missionari, oggi è diventato un grande albero, forte nelle sue radici, nelle sue foglie e nei suoi frutti; un albero che neppure un grande uragano potrebbe abbattere perché il seme è stato piantato in terra fertile nel tempo giusto.

La loro semplicità e presenza in mezzo al popolo diventò, e continua a essere, segno di vicinanza, di amore, e di fiducia. Dalla prima generazione fino a oggi le priorità pastorali dei missionari che lavorano in Mozambico si possono elencare in due gruppi principali:

  • – L’evangelizzazione: i missionari dal 1928 a oggi hanno fondato ben 39 parrocchie e moltissime cappelle e comunità di preghiera nelle diverse diocesi.
  • – La promozione umana: innumerevoli le scuole di ogni ordine e grado, le opere sociali, il centro catechistico di Guiua per la formazione dei catechisti delle varie parrocchie, la «Scuola secondaria Padre Eugenio Menegon» e tante altre attività.

In questo novantesimo anniversario, merita ricordare i vari catechisti che collaborarono e continuano a collaborare con i missionari della Consolata, tra cui il catechista Giovanni Cepinenga e i suoi compagni. Fu battezzato in Malawi, ritoò in Mozambico e cominciò a evangelizzare nel suo villaggio. Poi percorse più di 350 km a piedi per andare a cercare i missionari e, quando li trovò, li invitò ad andare a Mecanhelas. I missionari, arrivati a Mecanhelas, ebbero la sorpresa di incontrare tanti cattolici e molti catecumeni, perché loro andavano fino in Malawi per ricevere i sacramenti. Va anche ricordato che la chiesa mozambicana, provata da molti anni di guerra, in molte parti sopravvisse solo grazie ai catechisti.

Il nostro augurio e il nostro grazie va a tutti i missionari della Consolata, in modo particolare coloro che lavorarono e continuano a lavorare in Mozambico portando e seminando la Parola di Dio nei cuori dei fedeli.

Eugenio Bento Cristovão – Roma Bravetta, 23/11/2015

Un Piccolo grande missionario

IMG_2119

Carissimo Direttore,
grazie per il bel lavoro che fate nella rivista. Mi è sempre piaciuta, perché ci fa gustare il profumo della mondialità e non ha avuto paura di accettare le nuove sfide della missione, dopo il Concilio Vaticano II.

Per questo vorrei chiederti di dare un piccolo spazio a un grande missionario, il p. Vincenzo Pellegrino, un uomo che ha capito e vissuto le nuove sfide della missione, lavorando nell’animazione missionaria della Chiesa locale in Colombia, Italia e Spagna, e specialmente accompagnando il cammino delle comunità contadine e afro-colombiane in Colombia.

Ho avuto la fortuna di essere suo compagno nell’équipe di riflessione e lavoro per la formulazione prima di un nuovo progetto di animazione e di formazione alla missione, e poi di un nuovo progetto di vita e di azione missionaria.

Sono stati anni di ricerca e di sperimentazione alla luce del Concilio, in Italia dal 1973 al 1978, e poi in Colombia. Più che un compagno per me è stato un maestro, un vero discepolo missionario di Gesù animato dallo Spirito Santo. Ho sempre ammirato la sua capacità di «uscire», la sua apertura alla speranza e al futuro. Un missionario senza paure, con la porta sempre aperta alle persone e ai «segni dei tempi».

Mi fa piacere celebrare i 50 anni del Concilio Vaticano II, il grande Concilio missionario, ricordando la figura di questo piccolo-grande missionario, che visse tutta la sua vita, animato dallo spirito del Concilio, che è lo spirito di Gesù e del suo Vangelo.

Padre Antonio Bonanomi – Torino, 13/11/2015




Cari Missionari

Beati e santi

Ho letto con attenzione sugli ultimi numeri della rivista tutto quello che ha riguardato suor Irene Stefani e la sua beatificazione. (Va detto che leggo sempre da cima a fondo la vostra bella rivista). Da persona poco addentro nelle cose ecclesiastiche mi chiedo che cosa abbia determinato la sua beatificazione e che cosa abbia invece determinato la santificazione della dott.ssa Gianna Beretta Molla. Oltre 20 anni fa ho avuto modo di conoscere il marito di Gianna Beretta in Molla. Anche lui persona colta e retta. La scelta drammatica fatta nel 1962 da sua moglie è sicuramente più che rispettabile; ma è da santità? E allora perché non santificare anche la vostra consorella, a cui va la riconoscenza di tantissime persone e forse anche la «responsabilità» di una guarigione miracolosa ? Cordiali saluti, e complimenti.

Carlo May – 23/08/2015

Nella Chiesa c’è una procedura abbastanza precisa per quel che riguarda la «santificazione» di qualcuno. Proviamo intanto a mettere chiarezza nei termini. «Santificazione» non è certo la parola appropriata: vorrebbe dire che la Chiesa rende santo qualcuno. Mentre invece, la Chiesa, semplicemente riconosce come esemplare la santità di un cristiano tornato alla casa del Padre. La santità quindi c’è già. Il problema è riconoscere ufficialmente che quella persona è stata veramente santa e che quindi è un modello di vita cristiana per tutti.

Per questo c’è un lungo processo, che può richiedere anni. Il processo può iniziare solo cinque anni dopo la morte della persona e prima che siano trascorsi trenta anni dalla stessa (di modo che ci siano ancora testimoni viventi).

Il primo passo è compiuto a livello della diocesi. Il vescovo stabilisce un apposito tribunale per indagare sulla vita e sulle opere del «candidato»: testimonianze, documenti, scritti, ecc. Durante questo periodo la persona viene onorata col titolo di «servo/a di Dio».

Tutti i documenti e le conclusioni del processo diocesano vengono passati a Roma, alla «Congregazione per le cause dei Santi», che, tramite i suoi incaricati, verifica a fondo il materiale raccolto. Se passa l’esame c’è l’approvazione finale delle «virtù eroiche» durante un incontro dei Cardinali della Congregazione dei Santi, al termine della quale il papa appone la sua firma. Da quel momento la persona viene definita «venerabile». E qui si conclude la prima tappa.

Per la seconda (arrivare alla «beatificazione»), è necessario il concorso di due forze: la fede e la preghiera di chi ricorre al «venerabile», e il conseguente miracolo. Senza miracolo non si può procedere. Spesso passano anni prima che ci sia un vero miracolo, altre volte pochi mesi. Una volta ottenuto il miracolo, questo è verificato a fondo per togliere tutti i dubbi, e solo allora, superato il vaglio della commissione d’inchiesta diocesana, si può sottoporre a Roma la richiesta di approvazione, ottenuta la quale il «venerabile» può essere dichiarato «beato». È stato il caso di Giuseppe Allamano, proclamato beato il 7 ottobre 1990 e quello di Suor Irene, beatificata lo scorso 23 maggio.

La terza tappa è la «canonizzazione»: essere cioè iscritti nella lista ufficiale – canone – dei santi e presentati quindi come modelli di vita santa alla Chiesa universale. Per giungere a questo occorre un secondo miracolo, che superi gli stessi test di serietà del primo. Una volta approvato e riconosciuto ufficialmente il secondo miracolo, c’è la dichiarazione ufficiale della santità e il nostro beato o beata può essere chiamato santo/a. È il caso di santa Giovanna Molla.

Concludo dicendo che questo lungo processo aiuta a decantare emozioni, fanatismi e infatuazioni, a favore di un riconoscimento approfondito con serietà e fede. In realtà, davanti a Dio, tutto questo non aggiunge né toglie niente alla santità della persona. La serva di Dio Leonella Sgorbati e la beata Irene Stefani non sono salite di qualche gradino in più in paradiso, e il nostro beato Fondatore, che ci fa aspettare il secondo miracolo ormai da 25 anni, non è certo «meno santo» perché non ancora canonizzato.

5×1000 e Caf

In merito alla «difficoltà a firmare 5xmille», lettera del sig. Luciano Zacchero sulla rivista MC di Agosto/Settembre 2015, indico la mia esperienza: ho consegnato a un Caf i 730 di figlio, nuora, figlia e genero (il mio è stato inviato personalmente via e-mail), e mi è stato concesso di firmare regolarmente 5-8-2xmille in loro vece. Mi meraviglia quanto successo al sig. Luciano. Le consiglio di cambiare Caf. Probabilmente il funzionario di quel Caf non gradiva le sue scelte. Cordialmente saluto,

Carlo Colombo – Sesto S. Giovanni (MI) – 04/09/2015

Padre Pietro Lavini

Credo sia giusto rivolgere un pensiero a padre Pietro Lavini, francescano cappuccino che, lo scorso 9 agosto, all’età di 88 anni, ha lasciato la scena di questo mondo.

Anche se gli ultimi 45 anni li ha passati in un solo posto, impegnato com’era a far risorgere, mattone dopo mattone, l’Eremo di San Leonardo – praticamente ridotto a un rudere dopo secoli di disinteresse e incuria da parte di tutti – nella Gola dell’Infeaccio, sui Monti Sibillini, nelle Marche, io credo che questo mite, umile ma valorosissimo, seguace di Cristo e di San Francesco, sia stato un grande missionario perché ha incontrato decine di migliaia di persone – gente del posto ma soprattutto turisti, escursionisti, curiosi che arrivavano da ogni parte del mondo per immergersi nella natura dei Sibillini, ma anche perché attratti da questa figura così speciale di uomo e di frate – e perché, oltre a ridare dignità a un insediamento benedettino, è stato capace di ricostruire tante anime.

Io ho avuto la fortuna di conoscere padre Pietro attraverso […] il suo libro «Lassù sui monti», un vero giorniello, introvabile (anche nelle librerie cattoliche), edito dalla Tipografia Truentum di Ascoli Piceno. Un libro che non ha proprio nulla da invidiare a tanti altri libri che trovano con una certa facilità editori disposti a pubblicarli, critici e osservatori disposti a scrivere recensioni, librai disposti a venderli […].

Grazie per l’attenzione

Luciano Montenigri – 18/09/2015

Dialoghi di Pace

Arrivata al «decennale», l’iniziativa «Dialoghi di Pace», che per l’edizione 2016 s’intitola Vinci l’indifferenza e conquista la pace, rinnova il suo invito: copiateci! È una efficace proposta per diffondere il messaggio del papa per la Giornata mondiale della pace.

I Dialoghi di Pace sono, molto semplicemente, una lettura con musica del testo del messaggio, suddiviso in brevi e veloci battute affidate a tre voci che si rincorrono e si intrecciano come in un vero e proprio dialogo.

Per creare un contesto favorevole all’interiorizzazione dei suoi contenuti da parte di chi li ascolta, lo introducono e lo intercalano brani musicali di ogni genere (classica, jazz, blues, popolare, contemporanea…) affidati alle più diverse formazioni vocali e strumentali (dai solisti, ai trii fino a cori e piccole orchestre).

Prendendo forma artistica, il messaggio viene reso più gradevole e accessibile. Da documento del magistero che pochi leggono interamente – quando va bene, accontentandosi delle sue sintesi giornalistiche, non sempre in buona fede -, a occasione di preghiera per chi è cristiano cattolico, e momento di meditazione per chi ha spiritualità diverse, non necessariamente di ordine religioso. […]

Il risultato è che fra artisti, collaboratori e pubblico si crea un’atmosfera impossibile da spiegare a chi non la vive, un’esperienza unica e impagabile.

Il fatto che il progetto sia espressamente studiato per essere leggero e modulare, quindi senza particolari necessità logistiche ed economiche, lo rende facilissimo da riproporre autonomamente da parte di chiunque lo desideri e vorrà avvalersi del materiale e delle dettagliate indicazioni a questo scopo pubblicate sul sito (indicato qui accanto, ndr.). Tutto utilizzabile liberamente anche riadattandolo a piacimento alle diverse esigenze e disponibilità.

Per ogni necessità di chiarimento e supporto, chi ha ideato l’iniziativa ben volentieri risponderà a chi inoltrerà le sue richieste all’indirizzo sanpioxc@gmail.com. Coltivo un sogno: offrire i Dialoghi di Pace a chi in chiesa non entra, portandoli per le strade attorno al Duomo, nel centro di Milano, dove si dice: «Se la va, la g’ha i gamb»!

Giovanni Guzzi
11/09/2015

«Siamo i ragazzi della Consolata»

Suona il citofono della porta d’ingresso di casa nostra (dei missionari della Consolata a Martina Franca, ndr). Si chiede: «Chi è?». Tra tante risposte si sente anche il grido: «Siamo i ragazzi della Consolata». A volte negli incontri vicariali di Martina Franca, tra i giovani delle dodici parrocchie, si presenta un gruppo che dice, «siamo i ragazzi della Consolata». Andiamo a Taranto alla festa dei ragazzi missionari o alla festa dei popoli e risuona la voce «siamo i ragazzi della Consolata». Penso che anche in tante altre comunità missionarie Imc in Italia, si sente la voce: «Siamo i ragazzi della Consolata». Mi meraviglio nel sentire questi ragazzi che hanno preso il nome Consolata come parte della loro identità di vita. Si sentono  parte della nostra famiglia.

Mi sono permesso di guardare da vicino il Beato Giuseppe Allamano, fondatore di una famiglia missionaria di tre figli: i missionari, le missionarie e i laici della Consolata. I laici sono di tre categorie: primo i genitori dei missionari che diventano missionari a volte senza saperlo, poi i benefattori e quindi gli amici. Secondo quello che ci insegna l’Allamano non tutti possono andare in missione ma tutti possono partecipare con la preghiera o con l’aiuto materiale. Poi ci sono coloro che sentono l’esigenza di partire e a volte partecipano alla missione. Questi si sentono parte della nostra famiglia e si consumano per l’amore all’evangelizzazione, per la condivisione e l’elevazione umana. I ragazzi della Consolata si trovano in questo gruppo di laici missionari e amici.

Il nome e il significato.

Si dice che con il nome ci si specchia; con il nome si costituisce il resto della vita; il nome fa parte di noi stessi e non possiamo mai sfuggire da esso.  Non per caso tra gli africani, per dare il nome al neonato (almeno il secondo nome) si ricorre all’anziano di famiglia, il quale dopo aver analizzato tutti gli eventi che hanno accompagnato la nuova nascita suggerisce il nome che diventa automaticamente il programma di vita del nuovo membro di famiglia. A volte assumiamo il nome di un nostro antenato. Quando uno ha capito bene il suo nome vivrà a lungo, basta che i pronipoti dicano «io sono del tale». Non c’è bisogno di ulteriori spiegazioni. Quando arrivano membri di una famiglia, quando suonano il campanello, alla domanda «chi è?», rispondono «sono io». E la porta si apre. Ecco un’altra prova di come ci si specchia con il nome.

A questo punto si può dire che «i ragazzi della Consolata» si sentono parte di noi, si sentono di casa, bussano per partecipare all’opera di evangelizzazione, e lo fanno già collaborando con noi, sono nati consolati, vogliono anche loro consolare.

La domanda può essere: per quanto tempo? Sono convinto che questo seme non muore, può mancare un po’ di nutrimento ma a sua volta riprende. Quando papa Francesco dice che «non possiamo privatizzare l’amore», secondo me, per noi significa che «non possiamo privatizzare la consolazione». Grazie! Cari ragazzi, grazie per la vostra collaborazione nella consolazione.

Consolata, è un titolo mariano che significa che Maria condivide la responsabilità con noi uomini. «Consolate, consolate il mio popolo; parlate al cuore della mia gente». Nostra Madre ha fatto questo dandoci suo Figlio, la vera consolazione; noi lo possiamo fare «portando gli uni i pesi degli altri».

Danstan B. Mushobolozi da Martina Franca – 09/07/2015

Padre Franco Cellana

Proprio mentre prepariamo queste pagine, riceviamo da Milano la notizia del ritorno alla Casa del Padre di padre Franco Cellana, missionario della Consolata nativo di Tiao di Sopra (Tn).

Nato il 01/10/1942, fece i primi voti appena ventenne il 02/10/1962. Ordinato sacerdote il 17/12/1967 a Madrid, dopo dieci anni di servizio nell’animazione missionaria in Spagna, nel 1977 fu destinato al Tanzania. Nel 1991 fu richiamato in Italia per l’animazione nel Cam di Torino, che lasciò per servire l’istituto come consigliere generale dal 1993 al 1999. Scaduto il suo mandato, nel 2000 fu destinato al Kenya dove servì prima come parroco al Consolata Shrine di Nairobi e poi di Kahawa West nella periferia di Nairobi, che lasciò presto perché eletto superiore regionale. Finito il suo mandato fu nominato parroco a Wamba nel Samburu.

Generoso, zelante, effervescente, trascinatore, attentissimo ai poveri, ha lasciato un segno nel cuore delle persone che lo hanno incontrato. Ricco di iniziative, ha fatto del servizio ai poveri lo scopo della sua vita, coinvolgendo in questo i suoi tantissimi amici. Ripetutamente provato dalla malattia, ha sempre saputo reagire con profonda serenità e abbandono al Signore. Fino a quando non lo ha preso il cancro, contro il quale ha lottato con tutte le sue forze per due lunghi anni, accompagnato dalla preghiera e affetto della sua famiglia, dei confratelli e degli amici. Combattuta la buona battaglia, ha terminato la corsa il 24/09/2015, una settimana prima di compiere 73 anni. Il funerale, al suo paese, ha visto una grandissima partecipazione.

risponde il Direttore




Cari Missionari

Volontariato

Carissimi,
ho appena finito di leggere l’interessante, e in gran parte condivisibile,
esperienza del volontario Alberto Zorloni (MC 8-9/2015 p. 51). Non ho letto il
libro, ma quanto scrive Marco Bello, per me, è più che sufficiente, chiaro e
circostanziato sulla vita di Alberto.

Sono un professore universitario di lingua araba, in
pensione, appena rientrato dalla Guinea (grazie a Dio senza ebola!) completando
così i miei primi 13 anni di volontariato. I primi 5 anni in Medio Oriente,
precisamente la Palestina, dove ho potuto dare sfogo e sfoggio della lingua
locale e ricevere i migliori apprezzamenti e incredulità di fronte alla mia
ottima loquacità. Quindi sono approdato in Africa, passando in vari paesi:
Egitto, Darfour, Sudan, Burundi, Sud Sudan, e ora, per la terza volta, in
Guinea: canto ogni giorno «misericordias Domini in aeteum cantabo». Vi scrivo
per complimentarmi dell’esperienza di Alberto e volevo non solo abbracciarlo
ma, soprattutto, incoraggiarlo a continuare nel testimoniare quei valori di «ieri»
che saranno la sua corona e il suo trofeo, non da parte di qualche Ong, ma dei
bambini, delle persone, dei bisognosi che avrà incontrato. Dico spesso anch’io:
«Gli occhi dei bambini africani mi giudicheranno». La mia attività è stata ed è
nel campo educativo-scolastico e ne vale veramente la pena: ciò che ho e ricevo
è molto di più di quanto cerco di dare. Quindi, bravissimo

Alberto e sempre alla grande: questa è una grande sfida e
dobbiamo fare di tutto per lasciare questo bel mondo un po’ migliore di come
l’abbiamo ricevuto.

Un abbraccio,

Gianni
Foccoli
12/08/2015

Coi soldi dei
poveri?

Caro padre Gigi,

lei non può ricordarsi di me, ma io mi ricordo molto bene
di lei perché l’ho incontrata durante il mio primo viaggio in Kenya nel 1991,
quando lei era missionario a Maralal. Sono tornata laggiù altre volte negli
anni per accompagnare mio marito che aiutava i missionari come falegname e
fabbro. In particolare nel 1998 eravamo a Karaba, dal caro amico padre Alex
Moreschi (1944-2011), quando abbiamo avuto l’onore di conoscere e pranzare con
il vescovo John Njue (allora primo vescovo di Embu) in occasione di una grande
festa della chiesa locale. Oggi però non lo considero più un onore, alla luce
delle notizie da me apprese da fonti sicure: lussuosi palazzi a uso ufficio ed
affitto per le banche, e il progetto di un parcheggio multipiano, il tutto
costruito con le offerte raccolte tra la gente delle parrocchie di Nairobi.

La Chiesa permette ai suoi pastori di ripetere i grandi
errori della sua storia? Almeno nel Medioevo era stata costruita la basilica di
San Pietro con i soldi della povera gente… L’arcivescovo di Nairobi non vede
più gli occhi degli street boys perché forse la sua automobile ha i
vetri oscurati? Vorrei fargli arrivare il messaggio che sono sicura che sono
altre le opere di cui necessitano i suoi fratelli e sorelle kenioti: mi vengono
in mente promozione sociale e umana, tutela dell’infanzia, formazione ad un
mestiere onesto, come ci hanno indicato i miei compaesani padre Allamano e don
Bosco.

Grazie e cordiali saluti,

Caterina
S.
22/07/2015

Gentile
Caterina,
conosco il progetto a cui lei si riferisce: riguarda un’area proprio nel centro
di Nairobi, dietro alla cattedrale. Quando ho lasciato il Kenya a metà del 2009
non era ancora stato realizzato, ma era in discussione ormai da molti anni. Per
questo posso precisare i seguenti punti.

1. Il
progetto, chiamato «Cardinal Otunga plaza»,
è un edificio di nove piani con l’interrato. Sei piani sono di uffici da
affittare, mentre gli ultimi tre sono riservati per le attività della diocesi. È
costato cinque milioni di euro ed è stato inaugurato il 23 agosto 2013. Ma tale
costruzione non è frutto della fantasia del card. Njue. Quando lui è diventato
arcivescovo di Nairobi, nel 2007, il progetto era già in stato molto avanzato,
approvato dall’arcivescovo precedente, dal Consiglio economico e dal Consiglio
presbiterale dell’arcidiocesi e dalle autorità civili competenti.

2.
All’origine del progetto
c’è il desiderio della Chiesa di Nairobi di rendersi indipendente dalle
donazioni fatte dalle Chiese sorelle d’Europa e d’America, e dai sussidi di
Propaganda Fide. Essendo chiaro che le offerte dei fedeli non sono sufficienti
per le spese che una diocesi in continua crescita deve affrontare (seminario,
sacerdoti, uffici, nuove parrocchie – ce ne vorrebbero subito almeno 40 nuove
di zecca: terreno, chiesa e strutture parrocchiali) e che non si può contare in
eterno sulle donazioni dall’estero (in diminuzione, anche per la crisi
economica generalizzata), la Chiesa del Kenya ha lanciato una politica per «contare
sulle proprie forze» (self-reliance) e «auto sostenersi» (self-supporting).

3. Per quanto il progetto sia discutibile, l’idea è
valida, anche se il vecchio giardino dietro alla cattedrale era più romantico.
Una volta pagati i debiti, sarà un investimento sicuro, pulito e duraturo, pur
rimanendo sempre un fattore di rischio: l’uomo. Infatti quando ci sono di mezzo
molti soldi, anche dei buoni cattolici possono essere tentati dalla corruzione.
Forse per questo hanno dedicato la «plaza» (un nome che ben si associa con «affari»)
al card. Otunga (1923-2003) che era invece un uomo molto sobrio e staccato dai
soldi, un santo.

4. Il card.
John Njue rimane
sempre lo stesso: guida personalmente la sua auto, che non ha i vetri oscurati,
ed è sempre molto attento alle necessità dei suoi fedeli, sapendo bene che solo
un milione degli abitanti di Nairobi è benestante o davvero ricco, mentre gli
altri quattro (o più) milioni vivono sotto il livello di povertà.

5. Il
parcheggio multipiano. Non ho
informazioni in merito, ma tenendo conto del traffico ipercongestionato di
Nairobi e della cronica mancanza di parcheggi nel centro storico della città
dove si trova la cattedrale, ritengo che anche questo potrebbe essere un
investimento intelligente. A mio parere la questione dovrebbe essere vista come
un fatto positivo, perché segna un’inversione di tendenza: invece di continuare
a elemosinare aiuti dalle Chiese sorelle, la Chiesa d’Africa sta cominciando a
valorizzare le risorse locali per rispondere ai suoi crescenti bisogni.

Dio cerca l’Uomo

Cari, anzi,
carissimi missionari,
prima di tutto grazie di seguitare a mandarmi la vostra rivista… ho ormai
compiuto 90 anni, ma non ho mai finora trovato stampa che chiamasse pane al
pane e vino al vino senza paure né timidezze, svelando le occulte (ma non
tanto) violenze dei potentati.

Però ogni qual volta finisco di leggere sono impaurita
del potere demoniaco che sta stravolgendo la vita dei terrestri,
sottomettendoli al predominio del potere e dell’avere.

Certo, Cristo, e il suo popolo, cioè il corpo mistico,
seguiteranno a essere perseguitati fino alla fine del mondo. E questo mi
spaventa.

Perché vi scrivo? Sì, sono forse presuntuosa e un po’
sfacciata. Ma voglio dirvi una cosa che mi pare assai importante. L’apertura
agli altri – anche alle altre religioni – mi fu insegnata fin dai 18 anni. Mi
fu insegnato che tutti gli onesti davanti a Dio, appartengono al Logos, sono il
Suo corpo mistico – anche se non lo sanno. Ma mi fu pure insegnato, che non
tutte le religioni sono pari, come sembra indicare un certo sincretismo
religioso che si va diffondendo a macchia d’olio.

Mi fu insegnata una verità senza la quale non so davvero
se avrei potuto appartenere a una Chiesa che, allora, predicava più che altro
un perbenismo molto borghese e ipocrita, chiusa nelle forme esteriori, senza
vita spirituale. La verità è che il Cristianesimo non è una religione, (ma) è
una rivelazione!

Fin da quando Abramo parte da Ur, è Dio che lo muove, e
attraverso i secoli parla per mezzo dei profeti al popolo «di dura cervice»,
sempre disposto all’idolatria, correggendolo e sostenendolo perché «i tempi
sono maturi». Allora Dio si fa addirittura uomo.

È forse questa verità che fa paura alla gente?

Anche sfrondando tutte le sovrastrutture – liturgiche e
filosofiche –, la base è questa. Non è l’uomo che cerca Dio, ma Dio che si
rivela all’uomo. E se Gesù non fosse risorto, dimostrando di non essere un
invasato, e se chi lo ha visto risorto (dichiarando di aver faticato a crederlo
risorto) non avesse preferito morire che negare la verità, saremmo stolti a
esser cristiani.

Dio seguita a cercare l’uomo. Ma l’uomo è assente e
sordo. E specie ora che l’uomo si sente molto «evoluto», fa fatica a credere al
Risorto.

Sbattiamo continuamente in faccia la verità incredibile.Scusatemi, ma mi vedo intorno tanta nebbia. Fate chiaro
voi! A tutti!

Pina
Tiezzi Moscaldi
Asciano (Si), 01/08/2015

Padre Tarcisio

Vi sono grato per aver ricordato il fante, il semplice,
il piccolo grande Tarcisio (Crestani). L’ho incontrato nella missione di Mater
Dei
a Kimbondo, Kinshasa, dieci anni fa. Mi ha dato molte chiavi per
conoscere la Rdc. L’avevo conosciuto a Torino nei primi anni Settanta e poi più
nessuna sua notizia. Quando glielo dissi mi rispose: «Caro mio, sono stato
dimenticato, da 30 anni nessuno mi ha mai cercato, non sono nessuno».

E invece quanto conta essere semplice (la sua camera
aveva solo l’essenziale) per essere in sintonia con le persone che incontri.
Grazie Tarcisio

Maurizio
M.
02/08/2015

Scusate se mi permetto un piccolo ricordo. Padre Tarcisio
lo conoscevo, o meglio l’ho conosciuto, quando avevo tre anni (34 anni fa).
Allora gli ho regalato il fiocco rosa che era stato appeso alla porta della
nostra casa perché era appena nata la mia sorellina. Mi avevano detto che stava
partendo per l’Africa, così poteva portarlo a quei bambini là, che non ce
l’avevano.

Di
lui mi ricordo un enorme barbone nero e crespo, così lungo che mentre mi
spingeva con il triciclo mi faceva il solletico! Forse anche lui si ricorda di me, da lassù, e sorride insieme
a zio Benedetto (Bellesi) di quel lontano episodio.

Alice
Bellesi
18/08/2015

Svenditore di
Cristo

Al signor (o padre) Gigi Anataloni,
sostenitore dei negatori di Cristo (musulmani).

Sono il marito di una vostra lettrice e ho letto con vivo
rincrescimento e sgomento il suo editoriale su Missioni Consolata del
luglio u.s. Rilevo che anche lei fa parte di quei cristiani che sono pronti a
svendere Cristo e il cristianesimo purché si dica di loro che sono a posto e
accoglienti, cioè buoni e considerati tali dalla maggioranza dominante
cattocomunista e massonica.

Vorrei portare alla sua attenzione le parole
dell’apostolo Giovanni nelle sue lettere: «Chi è menzognero se non colui che
nega che Gesù è il Cristo? (musulmani). L’Anticristo è colui che nega il Padre
e il Cristo» (1Gv 2, 22). E ancora: «Se qualcuno viene a voi e non porta questo
insegnamento (di Cristo) non ricevetelo in casa e non salutatelo, poiché chi lo
saluta partecipa alle sue opere perverse» (2Gv 10-11).

Non ho bisogno di aggiungere altro alle sante parole;
soltanto la diffido dal mandare ancora al mio domicilio la sua rivista, né
ricevere alcuna risposta.

Lettera
firmata
07/08/2015

In
quasi quarant’anni di servizio missionario nella stampa me ne sono sentite dire
molte, ma mai di essere uno che svende Cristo. A «cattocomunista» mi ero
abituato, ma questa mi mancava. Comunque non è niente in confronto a quanto si
stanno sentendo dire i vescovi italiani, con mons. Galantino in testa, e
soprattutto a quanto viene vomitato sul nostro amato papa Francesco.

Venezuela Pro e
Contro

Egregio Direttore, ho letto con attenzione gli articoli
dedicati al Venezuela nel numero di agosto-settembre. Sono stupefatto della
superficialità con cui si descrive la Venezuela di oggi, e delle affermazioni
dei due personaggi intervistati. Ma questo è il tipico modo di operare del sig.
Moiola: non dare mai numeri o cifre a supporto di una tesi.

La Venezuela di oggi, e la conosco bene, è un paese con
una democrazia al limite della dittatura, perché il governo ha in mano tutte le
leve del potere e di tutti gli organismi di contrappeso. Il che permette a
Maduro di dire che il sig. Lopez, che è in carcere in attesa di giudizio, è un
assassino e va condannato. Questo è qualcosa di impensabile in qualsiasi paese
democratico. La situazione economica è disastrosa perché gli ammanicati al
potere hanno fatto sparire negli ultimi 15 anni qualcosa come 250 miliardi di
dollari (è un dato ormai accettato da tutti). Il regime attuale in Venezuela
assomiglia molto al fascismo. Il sig. Moiola dovrebbe riportare non solo
interviste di compiacenti al governo, ma anche i dati economici del paese.

Mi dispiace che una rivista del calibro di Missioni
Consolata cada nel racconto della verità.
Distinti Saluti

Alvise
Moschen
04/08/2015

Salve! Conosco e apprezzo il lavoro dei missionari e
delle missionarie della Consolata in vari paesi. Ora ho avuto modo di
apprezzare anche il lavoro della rivista (che comincerò a seguire); grazie ai
servizi di Paolo Moiola sul Venezuela. Danno voce a persone che in Venezuela
vivono, e che presentano un quadro ben diverso da quello offerto dalla
dittatura mediatica internazionale e italiana, la stessa che aiuta guerre
devastanti (in Medioriente e Africa) con la disinformazione. Cordiali saluti

Marinella
Correggia
Torri in Sabina (Ri), 18/08/2015

Due
opinioni opposte sullo stesso articolo, riflesso della difficoltà che si
incontra a voler conoscere la verità e scrivere su situazioni complesse e
polarizzate come quella del Venezuela e di altri paesi.
È un dato di fatto che gran parte dell’informazione che arriva sui nostri
quotidiani o sui nostri notiziari televisivi è controllata da poche agenzie
fortemente interconnesse con gli interessi europei e nordamericani. Pochi
giornali o televisioni possono permettersi oggi di avere propri corrispondenti
in loco.

Noi
non abbiamo la pretesa di fare concorrenza ai grandi network, non è il nostro
scopo. Ma siamo liberi da influenze politiche o economiche, e abbiamo un
vantaggio: la libertà di contattare testimoni sul posto, possibilmente
testimoni fuori dal coro, che non cantino lo stesso spartito di tutti gli
altri. Al lettore la valutazione e il confronto.

Circa il nostro
giornalista, non è vero che sia tipico suo «non dare mai numeri o cifre a
supporto di una tesi». Paolo è un professionista serio e preciso e basta una
rapida scorsa ai suoi articoli pieni di box, cartine e tabelle per avere la
conferma della sua accuratezza, a volte
persino pignola. La stessa professionalità l’ha posta nello scrivere l’articolo
che il sig. Moschen critica, anche se forse, in questo caso, s’intuisce
simpatia e una severità meno accentuata del solito nel porre domande
alle sue fonti.

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE /* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin:0cm; mso-para-margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:10.0pt; }

risponde il Direttore




Cari Missionari

EXPO 2015: la Carta di
Milano

Con l’avvio di Expo 2015 è stata resa pubblica la Carta
di Milano
. È chiesto alla società civile di aderire. A questo proposito
avanziamo 5 considerazioni:

1 – La Carta di Milano
presenta una lunga lista di suggerimenti. Si tratta di elementi ampiamente
condivisibili sulla necessità di migliorare il modello di produzione e di
consumo, di ridurre radicalmente lo spreco, con impegni da parte di tutti,
società civile e imprese, ma sorge una serie di preoccupazioni soprattutto
rispetto a quello che viene omesso.

2 – In questa lunga lista
di suggerimenti non vengono poste le priorità. I messaggi essenziali non
emergono. Ad esempio la questione della giustizia sociale per un’equa
distribuzione del cibo, enunciata con forza da papa Francesco, non viene mai
avanzata come priorità essenziale e ineludibile (solo con riferimento alla
distribuzione di cibo che altrimenti verrebbe sprecato). Allo stesso modo non
emerge con forza la necessità del cambiamento del modello di sviluppo, delle «strutture
di peccato», che causano da un lato fame e dall’altro sovrabbondanza. Gli
impegni delle imprese vanno nel senso di migliorare la produzione e la
distribuzione ma niente viene detto sul controllo dei mercati, sulla questione
della proprietà intellettuale, sulle sementi, sulle catene del valore.

3 – Non viene
colta la necessità di sostenere la piccola agricoltura familiare quale misura
indispensabile per lottare contro la fame nel sud del mondo. L’impostazione
della Carta risente di un forte approccio occidentale. Manca di una visione
veramente internazionale e di attenzione verso i paesi e i gruppi sociali più
poveri.

4 – Nonostante la lunga lista, non viene dedicata alcuna
attenzione alla questione della speculazione finanziaria e alla necessità di
adottare una tassa sulle transazioni finanziarie così come una regolazione più
stringente sui mercati finanziari. Così come non viene dedicata alcuna
attenzione alla questione delle guerre e dei conflitti, che invece sono le
prime cause di fame nei paesi fragili. Speculazione finanziaria e conflitti
sono peraltro enunciate con forza nella campagna «Cibo per tutti» promossa da
Focsiv, Caritas ed altri 25 soggetti cattolici in Italia.

5 – La rilevanza politica
della Carta è minima, in considerazione del fatto che nel 2015 le vere partite
negoziali si giocano ad Addis Abeba con riferimento alla finanza per lo
sviluppo, a New York con riferimento ai nuovi obiettivi dello sviluppo
sostenibile post 2015, ed a Parigi rispetto al cambiamento climatico. A questo
proposito la Carta di Milano manca di prendere posizione rispetto a questi
eventi.

Per queste considerazioni proponiamo di portare
all’attenzione e proporre questi emendamenti alla Carta, altrimenti non saremo
in grado di potervi aderire.

Assemblea
Focsiv
(www.focsiv.it)
Roma, 23-24/05/2015

Delusione

Spettabile redazione, mi ha dato molta tristezza la
lettura dell’articolo di Luca Bressan sul numero di giugno […].

Mi sembra un’omelia fatta di belle parole. Sinceramente,
dalla vostra rivista che conosco da tanti anni e apprezzo mi sarei aspettato un
articolo «differente». Tanti saluti e buon lavoro.

Daniele
Engaddi
23/06/2015

Il
testo, scritto prima dell’inizio dell’Expo, presenta con ottimismo le ragioni e
le speranze della presenza della Chiesa. Per quanto possibile cercheremo di
offrire un bilancio approfondito e critico a Expo conclusa.

Difficoltà a firmare
il 5×1000

Buongiorno, sono un lettore della rivista e vorrei
segnalarvi un problema nella scelta per le donazioni sul modello 730 di
quest’anno (redditi 2014).

Mi avvalgo da anni dell’assistenza del Caf ma, a
differenza degli anni precedenti, nell’ultima dichiarazione presentata non mi è
stato possibile validare la scelta del 5 e quella dell’8×1000.

Io ho sempre compilato le apposite caselle e firmato
negli spazi dedicati, sulla dichiarazione cartacea da me pre-compilata. Mio
figlio poi (io ho 80 anni e da 10 sono sulla sedia a rotelle causa ictus),
consegnava il tutto e ri-firmava al mio posto sul modello che veniva stampato
al momento al Caf, dopo le necessarie verifiche a cura dell’impiegata, delle
detrazioni/deduzioni per le spese mediche.

Secondo le nuove disposizioni dell’Agenzia delle Entrate
(così mi hanno riferito al Caf), per le scelte in oggetto, avrei dovuto recarmi
a firmare personalmente, altrimenti la mia volontà sarebbe stata disattesa,
come in effetti è avvenuto. Aggiungo che, stante il peggioramento delle mie
condizioni di salute, sono costretto a chiamare l’ambulanza per i miei
spostamenti.

Lo stato, in tal modo, è riuscito scorrettamente a
risparmiare un po’ di soldi, almeno nei casi simili al mio (che non devono
essere pochi). Oppure cosa più semplice, onesta e corretta, oltre alla
scansione di tutti gli scontrini e fatture delle spese mediche, avrebbe potuto
prevedere la scansione del foglio della denuncia dei redditi con le varie
scelte e firme da me effettuate a domicilio relativamente a 5 e 8×1000.

Spero che la mia segnalazione possa consentire alle
organizzazioni Onlus meritorie come la vostra di risolvere il problema, almeno
per il prossimo anno. Vi saluto cordialmente.

Luciano
Zacchero Gambro
Seregno (MB), 09/06/2015

Grazie
della segnalazione. Saremo felici di ospitare altre opinioni o esperienze di
lettori, mentre chiediamo a chi ha competenza in materia un parere su come il
sig. Luciano (e chi come lui) possa risolvere il problema.

Cioccolato, Ferrero e
Olio di Palma

«La coltura dell’olio di palma rispetta ambiente e
popolazione». Questa risposta che la Ferrero ha dato a Ségolène Royal dopo il
suo invito a non mangiare Nutella, non depone a favore della azienda
dolciaria italiana. Non si risponde con le bugie a chi, sia pure in modo goffo
e non troppo simpatico (né la Ferrero né tantomeno la Nutella possono diventare
il capro espiatorio di un problema come quello della deforestazione…), cerca
di invitare l’opinione pubblica a mettere in pratica il titolo di Expo 2015 e
quindi dare anche qualche scossa per stimolare un consumo alimentare più
responsabile, che tenga conto delle esigenze di tutti gli abitanti del pianeta.

I prodotti, alimentari e non, che richiedono
l’impiego di olio di palma sono tanti, e domandarsi se sono davvero così
necessari, entrare nell’ordine di idee di diminuire questa enorme produzione e
questa dipendenza, è fondamentale per la sopravvivenza di tante specie,
compresa quella umana.

La caduta di stile della Ferrero è molto più grave
di quella della Royal: come si fa a sorvolare sul fatto che le piantagioni di
palma da olio, in paesi come l’Indonesia e la Malaysia, hanno sì creato tanti
posti di lavoro, ma tanti ne hanno fatti sparire?

Che intende la Ferrero quando dice «popolazione»? Intende
i dipendenti delle piantagioni di palma da olio (come anche di caffè, di ananas,
di banane, di cacao e del mai abbastanza vituperato tabacco), o anche i popoli
indigeni, le minoranze etniche, linguistiche e religiose, le persone che non
hanno accettato lo stile di vita che i proprietari delle multinazionali
pretendono di imporre a tutti?

Cosa intende la Ferrero quando dice «ambiente»? Intende i
padiglioni dell’Expo, intende gli zoo, intende i giardini in cui sono
immerse le ville e i palazzi dei nababbi d’Oriente e d’Occidente, o intende
anche i parchi nazionali, intende gli oceani, intende gli habitat d’acqua
dolce, intende quel poco di foreste naturali che è riuscito a sopravvivere alle
guerre, ai saccheggi, al cinismo e all’indifferenza?

Chi si è tanto scandalizzato per la presa di posizione
della Royal, provi a confrontare lo status attuale della tigre, del
rinoceronte, dell’orango, della nasica, del gibbone, dell’elefante asiatico,
con quello di cent’anni fa, di cinquant’anni fa o di trent’anni fa, e poi
chieda lui (o lei) scusa per le cose che ha detto e scritto, ma anche
per ciò che ha prodotto e per come lo ha prodotto.

Non discuto la squisitezza della Nutella, del Ferrero
Rocher, del Moncherì e delle uova di cioccolata: è evidente però che chi
racconta certe frottole, assolvendo con formula piena il business della
palma da olio, ovvero contraddicendo una realtà che da decine di anni è sotto
gli occhi di tutti, non fa buona pubblicità ai suoi prodotti.

L’industria della cioccolata non può crescere
all’infinito, i primi a preoccuparsi del futuro dell’albero del Theobroma (minacciato
da parassiti antichi e modei, minacciato dalla drastica riduzione della
diversità biologica) e della qualità, oltre della quantità, dei semi contenuti
all’interno delle spettacolari capsule, sono proprio gli operatori del settore,
sono le grandi firme della gastronomia e dell’arte culinaria, sono gli
industriali, sono i buongustai. Una maggiore attenzione verso le foreste
naturali, a cominciare da quelle dei parchi indonesiani e malesi assediati
dalle piantagioni di palma da olio, procurerà dei vantaggi anche alle industrie
dolciarie italiane. Meglio qualche cioccolata in meno sugli scaffali dei
supermercati e qualche tribù autoctona in più in quei paesi tropicali a
cui dobbiamo tanto.

Colgo l’occasione per augurare una serena e proficua
estate.

Francesco
Rondina
19/06/2015

Non
è mia intenzione fare il difensore d’ufficio della Ferrero, della Nutella e
neppure dell’olio di palma. Le preoccupazioni sollevate dal sig. Francesco sono
condivise da questa rivista.

Ma
come diversi quotidiani hanno riportato dal 19 giugno: «La dottoressa Eva
Alessi, responsabile sostenibilità del Wwf, promuove la Ferrero, che dal 1°
gennaio di quest’anno utilizza esclusivamente olio di palma certificato al 100%
come sostenibile dalla “Tavola Rotonda sull’Olio di Palma Sostenibile” (Roundtable
on Sustainable Palm Oil
– Rspo). “È l’unica certificazione esistente che
assicura che le palme vengano coltivate solo in certe aree, per esempio campi
già destinati all’agricoltura, senza intaccare le foreste, e che l’irrigazione
venga fatta in modo sostenibile e consapevole, senza un utilizzo sconsiderato
di pesticidi. L’Rspo tutela non solo l’habitat naturale e le specie
animali ma anche le comunità locali che spesso vengono sfruttate dalle
multinazionali per la produzione”» (vedi box).

Scritto
questo, il problema resta. Lo denuncia con forza anche papa Francesco nella sua
recentissima «Laudato si’», soprattutto nei paragrafi 32-42, che cominciano così:
«Anche le risorse della terra vengono depredate a causa di modi di intendere
l’economia e l’attività commerciale e produttiva troppo legati al risultato
immediato». Per questo tutti devono cambiare rotta e mentalità: «Prima di tutto
è l’umanità che ha bisogno di cambiare» (n. 202). Tutti.

Pregiudizi sulla Turchia

Gentile redazione,
scrivo a proposito del mio articolo sulla Turchia pubblicato sul numero di
luglio. Non sono d’accordo a chiamare l’Akp partito «islamico». Nel testo non
lo definisco mai così. Al limite può andare bene chiamarlo «islamico moderato»
o «di ispirazione islamica». La parola «islamico» non compare né nello statuto
del partito, e nemmeno nel suo nome. Dato che ci sono già un’infinità di
pregiudizi sulla Turchia, temo che utilizzare questa etichetta non faccia altro
che creare una barriera che ostacola la comprensione delle dinamiche complesse
del paese. Spero si possa farlo sapere ai vostri lettori.

Fazila
Mat
Istanbul, 24/06/2015

Grazie
a Fazila Mat per le sue precisazioni. Pubblicando il suo articolo non era certo
nostra intenzione aumentare i pregiudizi verso il popolo turco, piuttosto
offrire elementi per una comprensione più rispettosa e oggettiva di un grande
paese che da sempre ha giocato un ruolo importante nella storia.

Sud Sudan dimenticato

Gentile direzione, mi permetto di farvi notare che nel
numero ultimo di MC di luglio, a pagina 42, manca il Sud Sudan, nuovo stato
ufficiale africano nato dopo una guerra di oltre 25 anni contro il governo
islamista di Khartoum. Sembra strana questa mancanza quando nella stessa
cartina mettete (giustamente) la nazione del Sahara Occidentale non ancora
(ahimè) riconosciuta ufficialmente dall’Onu. Voglio pensare ad una svista, non
so. Tanti saluti e sempre complimenti del vostro prezioso lavoro.

Alfio
Tassinari
Cervia, 27/06/2015

Vero,
verissimo. Ed è stata proprio una bella svista. Il problema è semplice: nei
repertori di cartine geografiche disponibili per i programmi di grafica, è
presente sì il Sahara Occidentale, registrato dal 1963 nella lista Onu dei
Territori non autonomi, ma non ancora il Sud Sudan la cui indipendenza risale
solo al 2011. Dovremmo saperlo bene, visto che nella mappa pubblicata a centro
rivista a gennaio 2015, ci siamo preoccupati di inserirlo. Spero che i
cittadini del Sud Sudan ci perdonino.

Per
concludere sulle sviste – questo mese ne abbiamo collezionate diverse – anche
uno dei miei confratelli mi ha detto scherzoso: «Sai che ho trovato un errore
in MC?». «Uno solo?», ho risposto. «Mons. Lerma non è portoghese, ma spagnolo!»
(Mc 7/2015, p. 35; in effetti è nato a Murcia, nel Sud della Spagna).

Speriamo
proprio che monsignore abbia fatto una bella risata, come abbiamo fatto noi.

Mal di Pancia

Carissimo padre Gigi,
nel leggere il tuo bellissimo articolo di fondo del luglio 2015 mi si è aperto
il cuore e non posso che congratularmi per la chiarezza dell’esposizione che
hai voluto donarci, una sintesi perfetta come portatore di fede e poi anche
come cittadino attento e sensibile alle situazioni sociali del nostro
incasinatissimo paese dove 67 milioni di italiani hanno tutti la ricetta magica
per occupare cattedre universitarie sullo scibile umano.

Bisogna però dire che anche la Chiesa deve ammettere le
sue colpe. Hanno purtroppo ragione tanti sociologi nel dire che la Chiesa
denuncia solo ciò che è già risaputo e nel tempo rimane solo un monito.

Senza essere considerato retrogrado, ricordo
sommariamente le severe prese di posizione della Chiesa, avute per molto meno,
nei lontani tempi dove chi professava il credo marxista era considerato eretico
e scomunicato; mia moglie spesso mi ricorda che suo nonno iscritto al Psiup non
aveva neanche la benedizione natalizia con grande dolore della nonna matea.

L’annuncio evangelico attualmente mi sconcerta quando
sento e vedo che anche qualche vescovo e tantissimi preti avallano con il loro
comportamento i mal di pancia sostenendo candidature che nella sostanza
portano in sé valori da far tremare il pensiero della madre Chiesa. Leghisti
che di fatto frequentano consigli pastorali e sagrestie di potere.

Ora padre mi chiedo, come si può essere cristiani e
fedelissimi del credo padano, sciupatori di inginocchiatorni e nello stesso tempo
assertori di crudeltà verso i fratelli meno fortunati?
Dobbiamo rassegnarci o pagare a caro prezzo questa nuova morale a fisarmonica?
La morale cristiana, a che livello (di interpretazione) personale vogliamo
spingerla? «Pace e bene fratelli, vogliamoci bene perché la chiesa è matea,
ma la coscienza è nostra e ce la gestiamo noi». Una bella porcata oppure no?

Sarebbe bene che la Chiesa adotti, pur rispettando la
libertà di ogni credente, una soglia o delle regole per un cattolico che vuol
essere tale a costo di rendere il gregge meno numeroso ma più fedele agli
insegnamenti evangelici.

Padre Gigi, questo è il mio mal di pancia che è continuo
e non mi lascia tregua in questi tragici momenti dove l’egoismo impera e
travalica la più bieca impudicizia.

Grazie per aver potuto leggere anche l’amico e fratello
in Cristo Paolo Farinella, prete.

Giovanni
Besana
01/07/2015

Grazie
della condivisione. Un breve commento. Non credo sia necessario che la Chiesa
detti delle «soglie minime di cristianità»: per chiunque voglia essere un po’
serio con la sua fede, c’è materiale più che abbondante a disposizione:  dal Vangelo al «Catechismo della Chiesa
Cattolica» del 1997, dal Concilio Vaticano II alle tante encicliche, non ultima
la «Laudato si’». Bisogna però sperare che questi testi non rimangano nella
libreria di casa (sempre che ci sia), e che non si preferiscano a essi il
gossip televisivo e il vento altalenante dei social.

Risponde il Direttore




Cari Missionari

La Morte
Gent.mo padre,
non so se avrà la pazienza di leggermi fino alla fine e
magari rispondere ai quesiti che Le andrò via via sottoponendo. Mi ha
particolarmente colpito la frase espressa nell’articolo dell’agosto-settembre
2013: «Alle prime ore del 3 luglio 2013 il Signore ha chiamato a sé il nostro
fratello, amico e collaboratore Padre Benedetto Bellesi». Leggo poi sulla
rivista di Ottobre 2013 a pag. 9: «Al nostro fratello, amico e collega
Benedetto Bellesi, chiamato alla Casa del Padre lo scorso 3 luglio». Alla pag.
11 dello stesso mese si afferma che nel luglio c’è stata una sua ricaduta nel
tumore, da cui non si è più ripreso, nonostante i massicci interventi. E a pag.
10 Ugo Pozzoli scrive: «Purtroppo questa carogna di una malattia ti ha portato
via troppo presto».

Padre Bellesi è morto perché il Signore l’ha chiamato
oppure è morto in seguito a un tumore, quella carogna di malattia? È proprio
vero che alla nostra morte è il
Signore che ci chiama a sé? O piuttosto è la natura, che, inclemente, detta
legge? […] Dio chiama a sé l’uomo, dice il catechismo e ce lo ripete la
liturgia. Allora: ci stiamo prendendo in giro! La morte certo non è opera di
Dio, né Egli giornisce che i vivi debbano morire.

Ora vorrei chiederLe: è possibile dire alla madre di una
bambina violentata e poi uccisa, che il Signore l’ha chiamata a sé? Quando
giungono le bare con la bandiera tricolore, i Cardinali se ne guardano bene dal
dire che «è il Signore che li ha chiamati a sé».

Ora che dirò: avevo un ragazzo di 12 anni, vivace,
intelligente, artista, una équipe di medici mascalzoni me lo ha ucciso. Al
pensiero che il Signore me lo abbia chiamato, io, quel Signore, non lo voglio
più. La scorsa settimana sono stato avvicinato da una giovane signora che
faceva proselitismo per una setta evangelica e mi ha quasi convinto a cambiare
religione. Come vede, Padre, a me sorgono molti dubbi, ma non mi preoccupo più
di tanto, perché anche molti Santi ne hanno avuti. «Quando si parla di Dio, si
parla di mistero».

Madre Teresa di Calcutta ha affermato che, più ci
avviciniamo a Dio, più aumenta la distanza. Madre Teresa ha attraversato una
lunga crisi spirituale. Nei suoi diari ha scritto che ha sempre cercato Cristo,
ma non lo ha mai trovato. […]

Ero amico di Padre Alberto Placucci della Consolata,
morto nel 1995. Alla sua morte mi sono chiesto: perché a lui e non a me? Lui
avrebbe fatto più bene di me. Se è vero che è stato il Signore che l’ha
chiamato, il Signore ha perso un valido aiuto. Qual è quel padrone che licenzia
un bravo operaio per tenersene uno scadente? Su diciamo la verità: Dio è per la
vita. La morte viene comandata dalla natura.

Nel caso volesse rispondermi però non concluda con: «Caro
figliolo, bisogna aver fede». La ringrazio in anticipo.

Guido
Dal Toso
Somma Lombardo (Va), 25/6/2014

Caro
sig. Guido,
mi sono permesso di mantenere solo l’essenziale della sua lunga lettera (sì,
per una volta una bella lunga lettera, non un’email). Il problema che lei
solleva è talmente grande che la cosa più saggia da fare sarebbe quella di un
umile silenzio. Provo comunque a condividere con lei quello che sto imparando a
mie spese, anche solo in questi ultimi cinque anni, nei quali ho dovuto vivere
da vicino molte morti oltre a quella dell’amico e collaboratore p. Bellesi: da
quella di un’amica che preparandosi al momento mi ha chiesto di far sì che il
suo funerale fosse una festa, ai nove funerali celebrati (o più spesso «assistiti»)
in parrocchia durante lo scorso agosto; dalla morte di una mia sorella più
giovane di me seguita, pochi mesi dopo, da quella di un mio pronipote, vissuto
solo 22 giorni e che ho battezzato il giorno stesso del mio ritorno dal Kenya,
a quella di altri parenti stretti. Dall’uccisione di p. Giuseppe Bertaina al
vedere la morte in faccia quando sulla collina di Mekinduri un infarto mi ha
messo ko.

In
ognuno dei casi si sa benissimo cosa ha causato la morte: tumore, leucemia, età,
violenza, incidente, malattia… La natura ha fatto il suo corso, «inclemente»! È
un dato di fatto inconfutabile. In alcuni casi c’è stato il plauso per la
natura che ha fatto il suo corso, mettendo fine a una lunga vita ben vissuta.
In altri si è accettato in pace che la morte abbia messo fine a lunghe
sofferenze. Altre volte ci si è ribellati perché la morte è stata ingiusta,
improvvisa, impietosa, violenta.

Se
è stato facile celebrare con serenità la morte di uno di 99 anni, meno facile è
stato accompagnare un bimbo di 22 giorni. Se poi si pensa a fatti come quelli
che lei racconta, diventa ancor più difficile farsene una ragione. Eppure,
quando la mia amica Anna mi ha chiesto una «festa e non un mortorio» al suo
funerale, è stato perché aveva capito il segreto della morte, la risposta alla
domanda che tutti tormenta: perché?

Molto
mi aveva fatto capire mia madre, che ha avuto solo 70 giorni di tempo dalla
diagnosi alla morte. Abbiamo passato l’ultimo mese insieme, una grazia grande,
nella consapevolezza che non c’era più cura per lei. Ed è stata lei che ha
preparato noi, suoi figli e figlie, non alla sua morte ma al passaggio, alla
nascita, all’incontro faccia a faccia con Dio e con tutte le persone amate che
l’avevano preceduta, mio padre per primo, oltre quella soglia che apre alla
Vita. Aveva 66 anni, compiuti da neppure un mese. Ovviamente è stato duro, ma
ci siamo detti «arrivederci, a Dio».

La
morte è l’evento più giusto di tutti, perché non fa distinzioni: tutti si
muore. Ci sono culture nel mondo che hanno imparato ad accettare la morte per
quel che è: un fatto naturale fuori del nostro controllo. Noi invece,
inorgogliti dai nostri successi tecnologici, attaccati alla nostra logica
economica del dare e avere, siamo passati dall’accettazione al rifiuto,
soprattutto se «il come e il quando» della morte non rientrano nei nostri
canoni e puzzano d’ingiustizia e diseguaglianza: perché alcuni «muoiono» e
altri invece «sono uccisi»? Un articolo lo chiedeva a proposito di Israeliani e
Palestinesi durante la tremenda crisi di Gaza; noi ce lo chiediamo per chi
muore di morte naturale e per chi invece è vittima di malattie, incidenti,
violenza.

La
morte è un fatto naturale e Dio non va mai contro le leggi della natura che lui
ha fatto. Davvero inutile arrabbiarsi con Lui.

Perché
allora diciamo «Dio chiama»? Chiaramente questo è un linguaggio simbolico
comprensibile per chi ha fede. Nella fede l’evento naturale della morte diventa
segno della chiamata di Dio. I detti e le parabole di Gesù sono pieni di questi
simbolismi. Ma non solo. è solo
Gesù, il figlio di Dio costretto a un’orribile e ingiusta fine, che ci ha fatto
capire come la morte non significhi «fine», ma «inizio, nascita». Quella che
noi viviamo qui non è tutta la vita, è solo la preparazione, quasi una
gestazione alla Vita. Non siamo fatti per finire e consumarci in questo tempo e
in questo spazio, il nostro io più profondo chiama l’infinito. Siamo fatti per «diventare
dei»! Il nostro Dna vero è quello di essere «immagine/icona» di Dio, non
polvere che sparisce nel nulla.

Allora,
se quella dopo il trapasso è davvero la Vita, non abbiamo ragioni per temere la
morte. S. Paolo scriveva che per lui «vivere è Cristo e morire (è) un guadagno»
(Fil 1,21) e soltanto l’amore per «coloro che aveva generato» alla fede con
tanta fatica gli rendeva sopportabile l’idea di dover ancora attendere prima di
riuscire a conquistare Colui che si era impadronito di lui (cfr. Fil 3,12)
sulla strada di Damasco. «Per Paolo come per ciascuno di noi la vita si può
vivere solo dove vive Colui di cui si è innamorati. Per i cristiani,
sull’esempio di San Paolo desiderare la morte non solo è lecito, ma anche segno
di maturità nella fede, dal momento che la morte è l’ingresso nella visione di
Dio faccia a faccia. Se i cristiani fossero coerenti dovrebbero correre verso
la morte, che dopo la risurrezione di Gesù, ha perso il suo pungiglione di
paura e di terrore (cfr. 1Cor 15,55-56) per diventare quello che dovrebbe
essere: la pienezza della vita» (P. Farinella).

Ebola

Caro don Gigi,
vorrei condividere con lei, sempre così attento a tutto ciò che succede nel Sud
del mondo, un problema che mi angustia: il dramma dell’ebola e le conseguenze
che potrebbero arrivare anche a noi, attraverso le migrazioni, purtroppo
inarrestabili, o, almeno, inarrestabili sino a quando non si interviene in
qualche modo nei luoghi di partenza. Ora, io seguo da sempre il dramma di
quelle popolazioni, anche con un coinvolgimento indiretto (sono operatrice del
Commercio Equo e Solidale e socia dell’Accri, ong di cooperazione
internazionale: tanto per farle capire come tutto questo sia per me motivo di «sofferenza»
e non di «insofferenza»). In breve, mi sembra più che giusto, soprattutto come
cristiana impegnata, condividere i problemi dei popoli impoveriti, ma
condividere anche l’ebola, va al di là della mia capacità di accoglienza:
eppure temo che presto o tardi con questo dramma dovremo confrontarci: e
allora? Già la tubercolosi, da tempo debellata, è tornata a preoccupare le
strutture sanitarie, assieme ad altre malattie frutto della promiscuità,
dell’assenza di precauzioni igienicosanitarie, e così via: lei che ne pensa? So
bene che tante malattie sin dall’inizio del periodo coloniale le abbiamo
portate noi, giungendo sino a sterminare gran parte, ad esempio, delle
popolazioni indigene del continente americano, ma non mi sembra una ragione sufficiente… Aspetto con ansia una
sua risposta, e cordialmente la saluto, congratulandomi ancora per la validità
della vostra-nostra rivista.

Silva Duda
Trieste, 25/6/2014

Con
Silva ci siamo già scambiati delle email a proposito dell’ebola. È grazie al
suo stimolo che in questo numero trovate un breve dossier sul quale i nostri
redattori hanno lavorato sodo. L’ebola è una malattia che fa paura perché sfida
la nostra illusione di onnipotenza e ci fa sentire fragili. Eppure c’è chi ci
specula sopra, pregustando i possibili lauti guadagni. È nel 1976 che i primi
280 morti in Congo RD hanno fatto notizia. Come è possibile che oggi ci si
trovi così impreparati? È forse perché non era ancora un affare abbastanza
remunerativo? E tutto quel diffondere notizie allarmanti, è davvero segno di
interesse per i malati o è un altro modo per far pressione e trasformare il
tutto in un grande business?

Quel
che è triste è costatare che ci sono due aree che permettono a chi è senza
scrupoli di fare soldi a palate sulla pelle degli altri: le guerre e le
malattie. E guarda caso, in questo nostro mondo non più controllato dalla
politica ma da una finanza senza freni, le guerre prosperano più che mai
muovendo fiumi di denaro.

Per
restare alla sua domanda sul «condividere l’ebola» come espiazione dei contagi
che un tempo noi abbiamo portato ai popoli indigeni dell’America e dell’Africa,
certamente non credo che sia il caso. Gli errori del passato non si compensano
certo con errori del presente. In più, tutte le statistiche a riguardo (vedi la
ricerca
Istat del 12 febbraio 2014, Cittadini stranieri: condizioni di salute,
fattori di rischio, ricorso alle cure e accessibilità dei servizi sanitari
)
dicono che la stragrande maggioranza degli stranieri che arrivano da noi sono «persone
in buona salute, che devono affrontare un viaggio lungo e pericoloso, che
portano come capitale da investire nel paese in cui emigrano il proprio corpo
sano. Il migrante si ammala nel paese in cui arriva come ospite a causa delle
insalubri condizioni di vita in cui spesso è costretto a inserirsi (scarsa
alimentazione, ambienti sovraffollati, lavoro faticoso e spesso senza
protezione)».

Secondo
il parere dei medici del Comitato di Collaborazione medica di Torino (Ccm), da
noi consultati, «sulla base (dei dati a disposizione) e di quanto evidenziato
in merito al concetto di “migrante sano”, è veramente improbabile che possano
insorgere epidemie, nel nostro paese, determinate da patologie d’importazione,
se non in focolai circoscritti e di scarsa rilevanza epidemiologica, come nel
caso della Chikungunya (malattia febbrile acuta virale, epidemica, trasmessa
dalla puntura di zanzare infette – it.wikipedia.org) nel Ravennate nel
2007».

Quanto
al ritorno di malattie da noi considerate debellate, come la tubercolosi, credo
che esso coinvolga più fattori: dalla sempre maggior resistenza degli agenti
patogeni agli antibiotici spesso usati troppo disinvoltamente, ai sempre
maggiori contatti globali, non solo per i flussi migratori ma anche per la
crescita esponenziale del turismo internazionale; dall’allentamento della
guardia delle nostre strutture sanitarie, alla scarsa conoscenza di queste
malattie.

Sfortunatamente
tutto questo rischia di finire per ritorcersi contro i più deboli, proprio i
migranti, visto che non manca chi è pronto a cavalcare la disinformazione per
sostenere le proprie agende xenofobe.

Il gas del Mozambico
Cari amici di MC,
ho letto su Il Sole 24 Ore del 20/7/2014 che
l’Eni avrebbe fatto la «più grande scoperta di gas della sua storia» in
Mozambico. Si tratta di 2,4 miliardi di metri cubi che consentirebbero di
soddisfare il bisogno degli italiani per 30 anni». Premesso che anch’io consumo
gas e che cerco di utilizzarlo il meno possibile per non sprecarlo (e pagarlo),
mi piacerebbe sapere per favore da voi delle Missioni della Consolata quanto di
quel gas rimarrebbe a disposizione dei poverissimi abitanti del Mozambico. Lo
sfrutteremmo tutto noi? Quale sarebbe il vantaggio per il paese africano? Che
cosa cioè guadagnerebbe dall’operazione in una parola? Ed è morale e giusto che
Mauro Moretti, attuale A.d. dell’ENI, guadagni quel che guadagna? Non è
l’Italia in condizioni disastrose? E il Mozambico come sta? Grazie.

Piergiorgio S.
20/7/2014

L’assalto
alle materie prime africane è vecchio di secoli: Romani, Egiziani, Arabi,
Indiani e perfino Cinesi hanno depredato l’Africa per secoli, se non millenni.
Poi è scoppiato il colonialismo, e dopo il colonialismo la dipendenza
economica, l’indebitamento cronico e l’instabilità politica, e poi sono tornati
i Cinesi affamati di energia e materie prime, e le crisi mediorientali che
hanno reso appetibili grandi riserve di petrolio e gas prima troppo costose. Da
sempre il nostro paese ha cercato, proprio con l’Eni, di restare indipendente
dal monopolio delle «sette sorelle» (le più grandi compagnie petrolifere
inteazionali) creando la sua rete di sicurezza per un paese come il nostro
sempre più affamato di energia. Non stupisce allora, lo dico con tristezza, che
in questa durissima competizione per le risorse, anche l’Eni si sia adeguata ai
metodi dei suoi competitori. I Cinesi prendono tutto chiudendo gli occhi su
giustizia e diritti umani e facendo lavorare i loro carcerati; i Francesi e gli
Inglesi si tengono bene legate le loro ex colonie, le multinazionali non
guardano in faccia nessuno e l’Eni paga tangenti esorbitanti che approfittano
della corruzione e l’alimentano (vedi Nigeria per fare un esempio).

Quello
che l’Eni fà rientra perfettamente nella logica economica di oggi, che è senza
scrupoli, anche se qualche volta ammantata di verde ma non certo del rosso
dell’amore e della giustizia. Questo vale per l’Eni, e si può dire delle
multinazionali del cibo, dei fiori, delle comunicazioni. L’Africa non è solo
una grande riserva di materie prime, è anche un grande bacino di manodopera a
basso costo (schiavi) per alimentare il nostro benessere e la ricchezza
ingiusta di pochi.

Non
entro in merito ai compensi di Mauro Moretti o di quelli come lui. È fin troppo
facile dire che certi stipendi sono fuori di testa e ingiusti. Anche se uno è
un dirigente, che diritto ha di prendere 10, 20, 100 volte di più di un suo
dipendente del Nord del mondo e magari anche 1000 o 2000 volte in più di uno
del Sud del mondo?

Quanto
al Mozambico (o ai vari Mozambico del mondo): se da noi va male, da loro
va certamente peggio, anche se il Fondo Monetario Internazionale dice che il
Pil delle nazioni africane è in crescita. Per l’Onu il Mozambico è 183° su 187
nella scala dello sviluppo, ma sembra andare controcorrente: da 20 anni gode di
una crescita annua del 6% e in questi ultimi anni sta sperimentando una
migrazione inversa con l’arrivo di europei alla ricerca di una vita nuova e
fortuna. In realtà chi ci guadagna è una piccola minoranza straricca, mentre i
poveri diventano sempre più poveri. La sfida cade allora sulle élite locali che
sono a un bivio: amministrare la nuova ricchezza per il proprio tornaconto o
per il vero sviluppo del proprio paese e la creazione di servizi per uscire
dalla spirale di povertà.
Certo, le storie delle bustarelle, non sono proprio incoraggianti.

Risponde il Direttore




Cari Missionari

Bahá’í
Reverendo Padre,

ho letto con piacere sulla vostra rivista di novembre
l’articolo sulla Fede Bahá’í. Vorrei congratularmi con lei e con l’autore del
documento Vittorio Stabile per l’accuratezza dell’articolo, anche nei minimi
particolari. Attendo il prossimo numero sulle persecuzioni dei Bahá’í.

Come saprà, proprio a Torino nel lontano 1880 (esattamente
il 5 e 12 dicembre), il noto naturalista e letterato piemontese Prof. Michele
Lessona tenne due conferenze sulla Fede Bahá’í. Il testo della sua relazione di
66 pagine fu pubblicato dall’editore Ermanno Loescher. Era la prima volta che
gli italiani venivano a conoscenza della Fede Bahá’í.

Ora a distanza di 134 anni, la vostra rivista aiuterà molti
altri a comprendere che la base di tutte le religioni è amore e che tutti i
profeti di Dio proclamano la medesima fede. Cordialmente,

Feri Mazlum
Locao, Svizzera, 16/11/2014

Le mani sul Mozambico

Per nessun paese il Prodotto Inteo Lordo (Pil) è un buon
indicatore del livello di benessere e il Mozambico non fa eccezione. I calcoli
alla base della determinazione del Pil hanno un valore scientifico prossimo
allo zero e nulla hanno a che vedere con le regole dell’aritmetica.

Se i Mozambicani vogliono davvero progredire, lascino da
parte la determinazione del Pil e pensino a conservare i loro tesori
naturali che si chiamano acqua, suolo agricolo, foreste, oceano…

Assieme a Malawi e Tanzania trovino il modo per tutelare
efficacemente il Lago Niassa (o Malawi) che, con i suoi 31mila chilometri
quadrati di superficie e 8400 chilometri cubi di volume, è una delle maggiori
riserve d’acqua dolce del pianeta e, con le sue oltre 500 specie endemiche di
pesci, è uno dei templi mondiali della biodiversità. Pensino a mettere in
sicurezza la Foresta del Monte Mabu che la scienza ufficiale ha scoperto,
grazie ai satelliti, solo alla fine del 2008, ma che rischia di essere
distrutta ancor prima che gli studiosi riescano a compiere delle ricerche degne
di questo nome. Pensino a valorizzare convenientemente il Parco Nazionale di
Bazzaruto e gli ecosistemi marini, il cui valore è infinitamente superiore a
quello di tutti i giacimenti di gas e petrolio presenti in Africa e nel resto
del mondo.

Quanto all’Italia e all’Eni, dopo la lettura dell’articolo
di Chiara Giovetti (MC n.10 p.29), prendo atto ancora una volta della
disinvoltura con cui il nostro paese continua a investire decine di miliardi di
euro per sfruttare le fonti di energia non rinnovabile a fronte delle cifre
irrisorie destinate a quelle rinnovabili.

Credo che ciò accada anche perché una gran parte degli
Italiani non è consapevole degli abusi e delle devastazioni che le compagnie
energetiche perpetrano nei paesi del Sud del mondo dietro il paravento dello
sviluppo, del progresso, del rilancio economico e occupazionale, della
crescita del Pil.

Gli autori anglosassoni, quelli dotati di un minimo di
sensibilità ecologica, lo chiamano «encroachment» (entrare nella proprietà
altrui senza diritti o senza permessi), in italiano una traduzione abbastanza
fedele di questo termine potrebbe essere «usurpazione».

Cari Missionari Italiani che siete in Mozambico e paesi
limitrofi per servire Dio e il prossimo, state attenti a non farVi
infinocchiare da quei nostri connazionali che arrivano in Africa soltanto per
servire la dea Europa e il dio Denaro…Cordiali saluti,

Mario Pace
Email, 30/10/2014

L’orrore di Beslan
Gentilissima Redazione,

vi leggo con attenzione da tanti anni e vi rinnovo la mia
stima, spesso la rivista è uno strumento che uso a casa o a scuola per far
avvicinare figli ed allievi a tante realtà mondiali che conosciamo poco o,
spesso, male.

Però ho fatto un balzo sulla sedia leggendo a pag. 58 del
n.11 (novembre 2014), nel trafiletto sulle guerre cecene: «2004, un gruppo di
ribelli caucasici tra cui separatisti ceceni “occupano” la scuola di Beslan». Occupano?
Ma la sapete la differenza tra occupare una scuola (termine che tra l’altro dà
l’idea di un’allegra sarabanda studentesca) e tenere in ostaggio una scuola (e
soprattutto le persone che sono lì)? Perché di questo si è trattato, non certo
di sostituirsi al normale svolgimento delle lezioni! Ho dovuto spiegare a mia
figlia tredicenne, che stava leggendo l’articolo e nulla ancora sapeva di
quell’evento atroce, che non si era affatto trattata di un’occupazione, ma di
una carneficina pianificata, e ahimè poi avvenuta; lei stessa si è detta
sconcertata dall’uso del termine, che era del tutto fuorviante.

Grazie per l’ascolto. Beslan è stato un tale orrore, che non
chiamare quel piano micidiale con il suo vero nome mi sembra un’ulteriore
offesa alle vittime.

Charlotte, mamma
Email, 11/11/2014

Gentile signora Charlotte,
concordo con Lei che «prendere in ostaggio» è un termine più appropriato e non
porta con sé le ambiguità del termine «occupare», ambiguità che non era nelle
mie intenzioni creare e che è stata causata anche dal numero ferreo di battute
in cui siamo costretti in questi box. La tragedia accaduta nella scuola di
Beslan è stato un crimine contro l’umanità.

Roberta Bertoldi
(Osservatorio Balcani e Caucaso)

Una voce in meno

Caro Padre,
ho letto l’editoriale «Una voce in meno» e mi unisco al dispiacere per la
chiusura della rivista «Popoli». Sono stata un’abbonata fino a qualche anno fa
e poi ho dovuto sospendere l’abbonamento per motivi economici e non per il
valore del contenuto. Che cosa dire? L’impegno per collaborare, tenere attivo,
vivere lo Spirito di Cristo non può venir meno perché verrebbe meno anche
l’uomo, ma il tempo presente è un tempo che impone delle riflessioni e dei
cambiamenti, che non sono motivati solo dalle ridotte risorse economiche. Sono
coinvolte l’dea di uomo e della sua pienezza, della cosa pubblica e della sua
funzione, dell’educazione e dei suoi obiettivi, della società e della sua amministrazione,
del lavoro e delle sue garanzie, della religione e delle sue forme, in ultima
analisi è in gioco l’idea della «ragione» e del suo significato. Auguro a
«Missioni Consolata» di continuare a contribuire a tali riflessioni e ad
approfondire il compito della «missione» che non può non esserci ma che deve
svincolarsi, a mio parere, da alcuni tradizionali connotati che potrebbero
indurre degli equivoci rispetto alla sua nobile funzione. Ringrazio e saluto
con tanta cordialità!

Milva Capoia
Collegno, 07/11/2014

Caro Direttore,

nel tuo editoriale di novembre racconti di esserti commosso
dopo avere appreso la notizia della chiusura di «Popoli». Sappi che io mi sono
commosso a mia volta nel leggere il tuo articolo, così ricco di solidarietà e
di stima. E anche da altri colleghi di «Missioni Consolata» mi sono arrivate
testimonianze di affetto. Ringrazio tutti voi, augurandovi ovviamente migliore
fortuna…

Quanto ai contenuti del tuo editoriale, hai certamente
centrato una questione cruciale: la crisi dell’editoria missionaria non è in
fondo specchio della crisi della stessa missione, almeno in Italia? Devo
aggiungere, però, che il caso di «Popoli» è in parte diverso e sui generis: da
tempo la rivista aveva scelto di togliersi l’etichetta di rivista missionaria
in senso stretto, provando a raccontare – naturalmente con un’ispirazione
cristiana di fondo ben riconoscibile – le questioni inteazionali con lo stile
e il linguaggio dei media laici. Questo per provare a far uscire l’informazione
su certi temi dal ghetto in cui, non sempre per scelta loro, spesso finiscono
le riviste missionarie.

In questo senso, le migliaia di giovani nuovi abbonati
conquistati in questi anni e le decine e decine di lettere arrivate in
redazione alla notizia della chiusura, ci confortano e dicono che la strada
forse non era sbagliata. Il problema è che per far sì che questo tipo di
operazione stia in piedi, e dunque stia a tutti gli effetti «sul mercato», come
dicono gli economisti, occorre che l’editore possa e voglia investire anche
nella promozione e nel marketing, cosa che nel caso di «Popoli» non è stata
fatta.

Infine una precisazione: «Popoli» non chiude perché
«strozzata dai debiti», come hai scritto. Il deficit della rivista certamente
non era piccolo, ma veniva regolarmente ripianato con altre entrate su cui può
contare l’editore della rivista, ovvero la Fondazione Culturale San Fedele di
Milano, di proprietà dei Gesuiti: in questi anni la Fondazione non si è
indebitata per un solo euro per sostenere «Popoli». Semplicemente è stato
deciso di usare diversamente tali risorse, privilegiando altre priorità.

So bene che hai scritto queste cose solo motivato da affetto
e ti ringrazio nuovamente, ma mi sembra doveroso fare arrivare questa
precisazione ai lettori per rispetto verso il lavoro mio e dei miei colleghi e
verso l’editore di «Popoli».Un abbraccio

Stefano Femminis
Direttore di «Popoli»
Email, 24/11/2014

Grazie della precisazione, che certo non addolcisce quanto è avvenuto.

Quanto all’etichetta di rivista missionaria, sai bene che dal dopo
Concilio abbiamo tutti noi fatto un grande cammino per scrollarci di dosso gli
stereotipi che ostinatamente rimangono legati a una antiquata concezione di
missione. Quanti missionari hanno pagato con la vita e a volte col sangue per
una missione nuova fatta di giustizia e pace, dialogo e rispetto, accoglienza e
incontro, e cura e difesa del creato. Una nuova visione di Chiesa popolo di
Dio, tutta missionaria perché testimone e serva dell’amore di Dio per gli
uomini, una Chiesa non clericale, una comunità di comunità, lievito e fermento
di vita e di bene nella famiglia umana. Sulle pagine delle nostre riviste, nei
nostri siti, abbiamo speso fiumi di parole per questo. Ma gli stereotipi sono
duri a morire, soprattutto quando superarli richiederebbe un profondo cambio di
mentalità, e non solo nella Chiesa. I retaggi di colonialismo, razzismo,
patealismo e superiorità culturale sono duri a morire in tutti.

Noi viviamo in una società in cui si pensa di risolvere i problemi
cambiando le parole senza modificare i contenuti e il modo di pensare. Mi sento
di dire che noi missionari, circa la Missione, non abbiamo fatto un semplice
lavoro di cosmesi o metamorfosi linguistica, ma l’abbiamo davvero liberata
dalle incrostazioni e dall’usura del tempo facendola diventare una parola
«potente», capace di rivoluzionare il mondo sullo stile di Gesù.

Forse dovremmo cambiare le testate delle nostre pubblicazioni, salvando
la sostanza. Anch’io mi sento ferito quando qualcuno, senza conoscerci, rifiuta
la nostra rivista perché, vedendo la parola «missioni», pensa a soldi e
beneficenza patealista che crea dipendenza.

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE /* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin-top:0cm; mso-para-margin-right:0cm; mso-para-margin-bottom:10.0pt; mso-para-margin-left:0cm; line-height:115%; mso-pagination:widow-orphan; font-size:11.0pt; mso-ascii- mso-ascii-theme- mso-hansi- mso-hansi-theme-}

Risponde il Direttore