È da molto tempo che nel silenzio della sera mi arrovello su problemi teologici, esistenziali, sociali. Ultimamente mi sono concentrato sulla Chiesa come istituzione. Duemila anni di storia ci hanno consegnato una struttura a piramide molto carente.
La struttura piramidale di cui inconsapevolmente facciamo parte come cristiani cattolici ci obbliga a rileggere la nostra fedeltà per non diventare come un gregge belante servito non da uomini di Dio ma da cattivi maestri. Maestri che per i media diventano specchio per ingigantire la negatività della chiesa rendendola a tutti gli effetti matrigna, rovesciandone i valori ed i contenuti.
Il servizio dei nostri maestri non dovrebbe essere quello di sfoare proseliti o vendere prodotti ma quello di formare e far crescere un fedele che non sia orbo, sordo, supino e obbediente al volere di pochi benedetti e intoccabili, ma che abbia la capacità di essere libero nei giudizi e nelle critiche, senza scomunicare chi pensa e osserva con metro di giustizia proporzionalmente diverso (vedi preti del dissenso).
Un fedele attento osservatore di un’involuzione e di atteggiamenti che nulla hanno a che fare con scelte di vita e di fratellanza di una comunità pensante e che crede a ciò che sta scritto nelle Sacre Scritture e nei Vangeli, non può che ribellarsi davanti a chi predica bene e razzola male. È la vergogna che faceva dire a tanti teologi che la preghiera senza comportamento adeguato non serve a nulla.
Che serve a Dio avere dei credenti che disconoscono le regole della frateità? Che serve a Dio avere ministri che pensano alla loro vanagloria e non vivono con coerenza la povertà? Che serve a Dio avere fedeli che uniti dalla chiesa predicante sono in sintonia con l’egoismo più becero verso fratelli che fuggono da guerre, carestie, fame, malattie e morte?
La mia rabbia da credente è che quasi tutto il clero è schierato nel chiedere, mai nel dare con una confusione totale sui compiti di loro competenza. Vedi, per esempio, quel che succede nella verde Brianza nella grande diocesi di Milano dove, grazie alle autorizzazioni della Fabbriceria del Duomo, tanti nostri maestri di fede hanno cambiato mansione diventando specialisti in architettura, paramenti, organi, arte, costruzioni e quant’altro.
Chiediamoci se questa chiesa fa parte della grande famiglia che noi amiamo e frequentiamo se poi ci dimentichiamo che la pomposità non fa parte di nessun testo teologico e ignoriamo le poverissime comunità delle diocesi africane dove i Vescovi non hanno i soldi per la benzina, ritardano le visite pastorali in diocesi estese quanto Lombardia e Piemonte e vivono come i vecchi curati di montagna senza risorse.
Non ultimo per importanza è la presa di posizione dei Vescovi italiani sulla questione dei diritti civili con una polemica che sembra implicare il non riconoscere ai fedeli la capacità di fare scelte coerenti col Vangelo. Sembra quasi che i ministri di Dio non ci ritengano un gregge consapevole. Così noi fedeli, pur non favorevoli a questa legge, siamo considerati fuori, quasi dei non credenti, nonostante don Sturzo abbia sempre sostenuto la laicità dello stato nei confronti della chiesa «Libera chiesa, in libero stato» e «date a Cesare quel che è di Cesare, date a Dio quel è che di Dio».
Giovanni Besana 28/07/2016
Caro Giovanni,
nella tua lettera sollevi molte questioni: dai sacerdoti che danno scandalo alla struttura piramidale della Chiesa, dura a morire nonostante il Concilio Vaticano II (e il Vangelo), dai preti, molto amministratori e poco pastori, ai laici considerati sempre in stato di minorità… Sono temi scottanti, resi ancora più evidenti dai tempi difficili che la nostra Chiesa sta vivendo in Italia. Essa si scopre più fragile e indebolita (invecchiamento e diminuzione del clero a causa della crisi vocazionale); abbandonata da chi pur battezzato vive solo un cristianesimo nominale; contestata nel suo insegnamento da mode, tendenze e ideologie di vario tipo; derubata dei suoi spazi e tempi (feste e domeniche occupate da mille altre iniziative); ridicolizzata e moralmente esautorata per la vita scandalosa di alcuni suoi membri; giudicata dai suoi stessi fedeli che, pur reclamando per sé più partecipazione e responsabilità, continuano a pensare la Chiesa non come un «noi», ma un «loro» (la gerarchia); oberata dal peso di mille strutture (spesso giornielli di arte) di cui non si può disfare e che mangiano tempo e denaro…
Il Concilio Vaticano II, nonostante tutte le resistenze messe in atto, ha piazzato una bomba sotto la concezione piramidale della Chiesa, riscoprendo la bellissima immagine biblica del popolo di Dio in cammino attorno al pastore che è il Signore Gesù, il Cristo crocifisso, che dà la sua vita per i suoi, si fa servo per la salvezza di tutti. Credo che non siano solo i preti e i vescovi che debbano liberarsi una volta per tutte della vecchia mentalità piramidale, ma anche i «laici», i semplici battezzati, imparando a guardare alla nostra Chiesa come alla propria famiglia, al proprio corpo, con un atteggiamento critico e responsabile ma anche misericordioso.
Mentre i media se la prendono con una Chiesa come realtà anonima, ricca, autoritaria, antiquata, corrotta, tentacolare… il cristiano nella sua quotidianità ha a che fare con quel prete, con quella suora, con quel religioso: persona concreta, umana, vicina, con i suoi lati belli e le sue fragilità. Un po’ più di amore, di con-passione, di umiltà, di sano umorismo e autornironia, aiuterebbero tutti a costruire relazioni più vere, fratee, umane, applicando alla vita della propria comunità cristiana lo spirito della famiglia e non quello della fabbrica, dell’ufficio pubblico o del centro commerciale.
Una bella iniezione di vera «misericordia» farebbe bene a tutti.
Cari missionari si scrive crisi, migranti, Valmiki e tanto altro
Tempi di crisi
Egregio padre,
leggo nel numero di maggio di MC dei tempi difficili dovuti alla crisi, molto diversa, dice Lei giustamente, da quelle passate e della quale non siamo solo spettatori ma che sta sconvolgendo il nostro modo di vivere stravolgendo valori e relazioni minando le nostre sicurezze.
Appunto perché è molto diversa da quelle del passato, è necessario debba essere trattata con maggior risolutezza. La crisi che stiamo vivendo ha ormai assunto dimensione planetaria e come tale i singoli stati non hanno né la capacità politica né quella morale di risolverla. Solo l’Onu avrebbe la possibilità di fare qualcosa per la straordinaria emergenza. L’Onu dovrebbe dire chiaro e forte quali sono gli stati dove esiste un reale «stato di guerra» e non semplici sollevazioni e diatribe politiche tra concorrenti al potere dove coloro che si sentono perseguitati vogliono cambiare semplicemente patria, da qui moltissimi migranti con tutti i problemi relativi.
Una volta individuati questi stati, le ambasciate di paesi che intendono accogliere con scopi umanitari coloro che vogliono fuggire, potrebbero essere autorizzate a farli espatriare mediante viaggi organizzati e quindi sicuri. La grande maggioranza dei migranti invece, dopo gli onerosi costi per il «passaggio», sono spesso vittime di soprusi e violenze nei luoghi di raccolta e infine corrono il rischio di perdere la vita durante il trasporto. Il tutto, spiace dirlo, con la complicità di coloro che zitti zitti (tranne qualche «bisbiglio» su alcuni organi di stampa), dovrebbero invece muoversi con decisione per evitare tale oscena barbarie. Non ci si mette dalla parte della ragione dicendo semplicemente: «accoglienza, accoglienza» sapendo per certo, (le statistiche sono lì a dimostrarlo oltre ogni ragionevole dubbio) che molti di questi poveretti periranno durante il viaggio (mentre scrivo potrebbero essere in procinto di annegare parecchie persone, bambini compresi).
Pertanto tutti quei poveri cadaveri (migliaia, dicono le statistiche), che stanno marcendo in fondo al Mediterraneo sono vittime sacrificali di: stupidità, sciocco buonismo e altruismo interessato, spesso a fini elettorali. Questo a causa del vergognoso menefreghismo di coloro che dovrebbero denunciare con decisione la condizione di abbrutimento di quei poveretti trattati come immondizia anziché come esseri umani.
Mi riferisco non solo a tutti i capi di stato e di governo, interessati al problema migratorio, ma anche a intellettuali, giornalisti, esponenti religiosi d’ogni fede, ossia gente che «conta», che dovrebbe sollecitare l’Onu per interventi miranti a fermare una volta per sempre tutte quelle organizzazioni, quasi sempre criminali, che favoriscono l’indegno commercio umano.
Il silenzio dei potenti allora diventa criminale. Papa Francesco, oltre che a Lampedusa, dovrebbe andare all’Onu, anche se non invitato, e urlare forte (magari togliendosi anche una scarpa, come ha fatto
Kruscev picchiandola sul leggio) a tutti quegli altezzosi rappresentanti del pianeta, che qualcuno definisce «maestri di imbecillità burocratica», di impegnarsi concretamente per far cessare il ributtante mercato. Mentre l’ignavia fin qui dimostrata non fa che renderli complici di inaudite violenze su vittime innocenti.
Per concludere è forse esagerato dire di coloro che potendo parlare forte invece tacciono sono anime sporche? Grazie per l’attenzione. Un cordiale saluto.
Angelo Brugnoni
Daverio (Va), 28/05/2016
Caro Angelo,
l’argomento da lei toccato è scottante e spesso affrontato in termini fuorvianti. Ne è prova la virulenza faziosa dei giorni di fine agosto, appena dopo il tragico terremoto nelle Marche e nel Lazio. Gli attacchi ai migranti che vivrebbero a spese nostre in hotel di lusso mentre i poveri terremotati battono i denti al freddo, dimostrano quanto si parli e straparli per sentito dire deformando dati che sono facilmente verificabili, usando la menzogna senza alcun pudore.
Certo l’Onu dovrebbe poter fare molto di più per prevenire le cause di tutte le migrazioni e non soltanto intervenire, come sta facendo in molti luoghi del mondo con grande competenza e professionalità, per gestire gli immensi campi dei rifugiati.
Creare ponti
Caro padre Gigi,
in riferimento all’editoriale di giugno è vero che i bambini creano spontaneamente dei ponti; sono degli «ingegneri» e degli «architetti» che non solo con i pezzi del Lego o con altri materiali giocano cercando di risolvere i problemi della staticità delle costruzioni con il vuoto sotto e gli appoggi distanziati, ma con facilità intraprendono legami interpersonali. La mia esperienza, tuttavia, mi suggerisce che se da un lato i bambini sono favoriti nella formazione di relazioni che includano, dall’altro lo fanno se trovano un contesto di adulti che li sostengano in tale percorso, con motivazioni e facilitazioni, in quanto i bambini sono anche i primi a cogliere differenze di vario genere. Creare ponti è quindi complesso a tutte le età in quanto le valutazioni, le conoscenze e l’esercizio della volontà implicati costituiscono un elevato investimento di energie. Negli ambiti in cui sono impegnata, familiare, pedagogico, giudiziario e della disabilità, è necessario creare ponti ininterrottamente per prevenire, per quanto possibile, conflitti, conclusioni sommarie ed esclusioni. Mi rendo conto però che non sono in gioco solo le differenze che si possono cogliere nell’immediatezza, quali, ad esempio, il ritardo cognitivo o il colore diverso della pelle, ma anche le idee e i meriti, ossia i valori di verità e di giustizia oltre ai diritti e agli interessi. Tali ponti domandano perciò volontà, manutenzione, ristrutturazione e, se necessario, abbattimento e ricostruzione; tutto ciò richiede non solo ingegneria ed architettura ma anche eroismo ed incessante preghiera per non essere soli nell’edificazione.
Milva Capoia
08/07/2016
Valmiki
Egregio signor Iazzolino,
innanzitutto la ringrazio di cuore. Nel marzo scorso ho trovato in chiesa una copia di MC e sono rimasto molto scosso dal suo articolo «A mani nude». Non riesco a togliermi dalla testa le realtà che lei descrive, riportando anche testimonianze dirette. Così la ringrazio e la stimo perché a mio avviso è molto importante far conoscere tali realtà in cui vivono tanti nostri fratelli. Mi sono subito abbonato alla rivista, che leggo volentieri ogni mese. Ho visto in internet delle foto di Valmiki con le ceste di vimini e le scopette, ma mi permetterei di chiederle, se può confermarmi che talvolta i manual scavengers usano addirittura le mani nude, senza scopetta (art. cit., p. 10) o se per caso non si tratta di un errore di stampa! O se per caso lei ha addirittura visto coi suoi occhi una cosa simile. La ringrazio in anticipo per la sua attenzione e resto in attesa di una sua cortese risposta. Cordiali saluti, in Cristo.
Dott. Carlo Caiato
Mestre (Ve), 05/08/2016
Gentile dott. Carlo,
la ringrazio profondamente per la sua email, che mi è stata inoltrata dalla redazione. Sono missive come la sua che danno un senso a quel che facciamo a Missioni Consolata. Con il nostro reportage dall’India, la mia collega fotografa Eloisa D’Orsi e il sottoscritto abbiamo provato a trasmettere l’intensità di un’esperienza che pure, ci rendiamo conto, abbiamo colto solo a un livello superficiale. La realtà dei Dalit, e dei raccoglitori manuali, è viva e pulsante, nelle grandi città indiane e ancora di più nelle aree rurali più remote, dove violenze e abusi sono all’ordine del giorno. Per rispondere alla sua domanda, una delle donne da noi intervistate ci ha raccontato della scopetta che oggi usa come di una conquista, realizzata anche grazie all’organizzazione che citiamo nel testo, e che sta facendo un ottimo lavoro per portare il tema al centro del dibattito politico.
Personalmente, ritengo che sia utile vedere questa situazione di violenza strutturale attraverso la lente di rapporti di potere consolidati nel tempo, e che oggi, alla luce di cambiamenti sociali ed economici epocali che l’India sta vivendo, sta provocando il colpo di coda delle caste più alte. È una realtà che sta vivendo delle trasformazioni drammatiche e, nonostante la violenza che la resistenza a queste trasformazioni sta suscitando, un numero crescente di Dalit sta acquisendo consapevolezza dei propri diritti. Non è sicuramente un processo lineare, e le trasformazioni in senso neoliberista dell’economia indiana rischiano di cambiare solo la forma, ma non la sostanza, della marginalità Dalit. Ma abbiamo conosciuto molti attivisti e persone comuni che negli ultimi anni hanno cominciato a rifiutare lo status quo.
Spero di poter tornare a raccontare presto queste trasformazioni in un paese così complesso e affascinante come l’India. La ringrazio ancora per la sua email e le porgo i miei più cordiali saluti.
Gianluca Iazzolino
08/08/2016
Caro Gianluca,
la ringrazio per la sua pronta e cortese risposta. Sono i reportage come il vostro che scuotono e fanno progredire le coscienze. Denunciare all’opinione pubblica è già un modo per combattere quelle pratiche raccapriccianti, che rovinano tante vite. Perciò spero e le auguro che Missioni Consolata ed altre pubblicazioni possano far conoscere al maggior numero di persone quelli e altri soprusi che affliggono tanti nostri fratelli. Si legge ad esempio in internet che per i membri delle caste superiori stuprare una dalit non è immorale, anzi, purifica la vittima, però mi piacerebbe sapee di più da fonti certe. Le porgo i più cordiali saluti.
Dott. Carlo Caiato
Mestre (Ve), 08/08/2016
Di migranti e di Ius soli
Carissimo padre Gigi,
dopo aver letto il numero di luglio di MC non posso fare a meno di scriverLe ancora una volta. La premessa è sempre la stessa: non sono interessato alla polemica ma semplicemente alla discussione.
Riguardo all’articolo «Risorse migranti»: lodevole l’iniziativa Coro Moro, spero di avere occasione di ascoltarli (ormai Gipo non c’è più, le canzoni nella mia lingua sono difficili da ascoltare). Ma siamo sicuri che tutti i mòro (così mi dice vada scritto Gioventura Piemontèisa) richiedenti asilo siano onesti? Non conosco le condizioni dei paesi citati, ma il collega ghanese che siede nel mio ufficio dice che non c’è ragione per loro di scappare dal Ghana. Credo all’articolo «buonista» di Giulia Bondi o al mio collega che fa il master all’Università di Ulm (Germania, ndr) e lavora part time con me?
Non è che magari loro come me hanno lasciato il paesello natio per semplici motivi economici? Hanno preso una scorciatornia, ovvero immigrare clandestinamente per poi chiedere asilo politico e sperare nelle lungaggini burocratiche? Il tutto a discapito degli stranieri regolari come il mio collega (oppure mia moglie, ora italiana, che tutte le volte che veniva in Italia da fidanzati era dotata di visto turistico ed a seguire di permesso di soggiorno).
Vengo ora all’appello per lo Ius soli. Quale sarebbe la precarietà esistenziale per gli stranieri minori nati in Italia? L’unica differenza tra un italiano e uno straniero sta nel diritto al voto, se minore comunque non può votare anche se italiano. Se un francese nasce in Italia e a due anni torna in Francia con la famiglia è italiano? Al momento penso che la cittadinanza, ai minori, vada legata alla famiglia. Quale sarà il vantaggio per la società italiana se concediamo lo Ius soli?
Luca Medico
Neu-Ulm (Germania), 13/08/2016
Caro Luca,
provo a condividere con lei alcuni punti.
Migranti economici o rifugiati politici. È un fatto ormai ben documentato che i migranti economici sono in aumento, segno anche che le nostre nazioni (nonostante la percezione negativa che noi ne abbiamo) sono ancora ben più ricche e floride di quelle da cui provengono i migranti. Le previsioni sono che i migranti economici continueranno ad aumentare anche a causa del cambiamento climatico che rafforzerà i fenomeni di siccità e fame in molti paesi. Un fatto però è certo: sta diventando sempre più difficile distinguere tra rifugiati politici e migranti economici, anche perché, in molti paesi, le due realtà (politiche vessatorie e economie disastrate o schiavizzanti) sono strettamente collegate. Tenga poi conto che molte di queste situazioni sono mantenute e sostenute da un sistema economico (di cui noi siamo parte beneficiaria e spesso anche vittima) che perpetua le ingiustizie e favorisce i regimi basati sul privilegio di un’élite, per poter continuare a sfruttare impunemente risorse naturali e umane di tanti paesi a beneficio dell’arricchimento sfacciato di pochi (i 62 super ricchi che oggi controllano metà della ricchezza mondiale, secondo l’Ong Oxfam, e diventano sempre più ricchi nonostante la crisi).
Ius soli. La proposta oggetto del nostro appello chiede che il diritto di cittadinanza venga riconosciuto «agli immigrati di seconda generazione, nati e cresciuti nel nostro paese, che oggi sono costretti ad attendere fino all’età di 18 anni prima di poter ottenere la cittadinanza. A tale obiettivo mira la riforma della legge 91 del 1992 che assicura ai figli di immigrati nati in territorio italiano da almeno un genitore con permesso di soggiorno di lungo periodo (ius soli temperato) o a seguito di un percorso scolastico (ius culturæ), il diritto a diventare cittadini». Essa è una richiesta strettamente legata alla famiglia del minore.
E non mi sembra che la differenza stia solo nel diritto di voto, pur importante. È piuttosto il sentirsi parte, l’inclusione e l’appartenenza, il sentirsi a casa. In fondo questi ragazzi vivono come in un limbo: non sono né italiani né del paese di origine dei loro genitori.
Quali i vantaggi per noi? Per noi ci sono tutti i vantaggi che vengono dall’immigrazione, senza la quale sicuramente nel 2050 saremo dieci milioni di meno di quanti siamo oggi e mediamente tutti più vecchi (vedi dati Eurostat resi noti in agosto) e con pensioni ridicole. Lo ius soli farà sì che i nuovi cittadini siano e si sentano italiani a tutti gli effetti e non apolidi appena tollerati e disprezzati.Forse non piace a certi difensori della purezza patria, ma conviene ricordare che noi italiani siamo tali proprio perché siamo una mescolanza incredibile di popoli diversi. La mescolanza di geni di genti autoctone con quelli di popoli Celti e Normanni del Nord, Arabi e nordafricani del Sud, Fenici, Greci, Ebrei, Slavi, Turchi e Mongoli dall’Est, e spagnoli e francesi dall’Ovest, ha fatto di noi quel paese bellissimo e contraddittorio che siamo. La mescolanza delle «razze» (per usare un termine scorretto e obsoleto) non porta alla degenerazione della «razza», ma la migliora e la rende più sana, intelligente e resistente alle avversità.
Moschee negate
Leggo sulla rivista di giugno l’interessante articolo sulle «Moschee negate». Nell’articolo si sottolinea il carattere «laico» dello stato. Mi si permetta di non essere d’accordo con l’aggettivo descrittivo «laico»: per molti oggi tale aggettivo connota o intende connotare uno stato non solo distante dai credenti, ma che addirittura li vorrebbe relegati in ambito «sacrestitoriale», lì zitti e buoni, solo ad incensare e far tiritere di preghiere. Mi pare ovvio che tale descrizione auspicata da tanti, non corrisponde ad una chiara posizione costituzionale sulla libertà religiosa, per cui i credenti hanno e debbono avere piena libertà d’azione e pari dignità in quanto cittadini alla pari degli altri. Allora perché non iniziate a definire lo stato come poi è in realtà per costituzione (costituenti furono anche i cattolici), come stato solo e sempre «plurale», di tutti, cioè, e per tutti?
Bruno Cellini
07/07/2016
Abbiamo chiesto all’autore dell’articolo, prof. Alessandro Ferrari un commento. Ecco quanto ci ha scritto:
Rispondo al volo.
Lo stato italiano è costituzionalmente laico proprio perché impegnato a rispettare il pluralismo confessionale e culturale, come ha affermato la Corte costituzionale nella sua notissima sentenza n. 203 del 1989. Di conseguenza, quando si parla di laicità come supremo principio costituzionale non c’è alcuna contraddizione con il principio pluralistico, anzi, lo si declina con particolare – specifica – attenzione al fattore religioso. La laicità costituzionale non è una laicità anticlericale, né una «sana laicità», non mira alla privatizzazione del fattore religioso ma ad assicurare che le legittime manifestazioni pubbliche delle fedi religiose e «convinzionali» possano esprimersi nel rispetto dell’uguale libertà di ciascuno.
Alla prossima,
Alessandro Ferrari
12/07/2016
Cari missionari 77
Padre Pietro (Parcelli)
Spett/le Redazione,
ricevo il vostro mensile da tempo, […] grazie a padre Pietro Parcelli, di cui ho letto la splendida lettera sul vostro numero di giugno. Pur essendoci pochi km di distanza fra la mia residenza e la sua, confesso che non sapevo che aveva lasciato l’Amazzonia nel 2014. Ora farò in modo di mettermi in contatto con lui. Volevo solo aggiungere che a parte le sue doti di missionario e religioso, ritengo il degno padre Parcelli uno dei pochi rimasti, per la sua missione, ad avere «passione, amore, altruismo» per il prossimo ed in particolare per i più bisognosi.
Vi ringrazio per l’ospitalità che mi concederete e mi è gradita l’occasione per distintamente e cordialmente salutarvi.
Massimo Finaldi
Trecase (Na), 13/06/2016
Fatti, non parole
Egregio Padre,
leggo nel numero di maggio della rivista Missioni Consolata dei tempi difficili dovuti alla crisi, molto diversa, dice lei giustamente, da quelle passate e della quale non siamo solo spettatori ma che sta sconvolgendo il nostro modo di vivere stravolgendo valori e relazioni minando le nostre sicurezze. Appunto perché è molto diversa da quelle del passato, è necessario debba essere trattata con maggior risolutezza.
La crisi che stiamo vivendo ha ormai assunto dimensione planetaria e come tale i singoli stati non hanno né la capacità politica né quella morale di risolverla. Solo l’Onu avrebbe la possibilità di fare qualcosa per la straordinaria emergenza. L’Onu dovrebbe dire chiaro e forte quali sono gli stati dove esiste un reale stato di «guerra» e non semplici sollevazioni e diatribe politiche tra concorrenti al potere dove coloro che si sentono perseguitati vogliono cambiare semplicemente patria, da qui moltissimi migranti con tutti i problemi relativi.
Una volta individuati questi stati, le ambasciate di paesi che intendono accogliere, con scopi umanitari coloro che vogliono da questi fuggire, potrebbero essere autorizzate a farli espatriare mediante viaggi organizzati e quindi sicuri. La grande maggioranza dei migranti invece, dopo gli onerosi costi per il «passaggio», sono spesso vittime di soprusi e violenze nei luoghi di raccolta e infine il rischio di perdere la vita durante il trasporto.
Il tutto, spiace dirlo, con la complicità di coloro che zitti zitti, (tranne qualche «bisbiglio» su alcuni organi di stampa), dovrebbero invece muoversi con decisione per evitare tale oscena barbarie. Non ci si mette dalla parte della ragione dicendo semplicemente: «accoglienza accoglienza» sapendo per certo, (le statistiche sono lì a dimostrarlo oltre ogni ragionevole dubbio) che molti di questi poveretti periranno durante il viaggio (mentre scrivo potrebbero essere in procinto di annegare parecchie persone, bambini compresi).
Pertanto tutti quei poveri cadaveri (migliaia, dicono le statistiche), che stanno marcendo in fondo al Mediterraneo sono vittime sacrificali di stupidità, sciocco buonismo, altruismo interessato, spesso a fini elettorali. Questo a causa del vergognoso «menefreghismo» di coloro che dovrebbero denunciare con decisione la condizione di abbrutimento di quei poveretti trattati come immondizia anziché come esseri umani.
Mi riferisco non solo a tutti i capi di stato e di governo, interessati al problema migratorio, ma anche a intellettuali, giornalisti, esponenti religiosi d’ogni fede, ossia gente che «conta» che dovrebbero sollecitare l’Onu per interventi miranti a fermare una volta per sempre tutte quelle organizzazioni, quasi sempre criminali, che favoriscono l’indegno commercio umano.
Il silenzio dei potenti allora diventa criminale. Papa Francesco, oltre che a Lampedusa, dovrebbe andare all’Onu, anche se non invitato, e urlare forte, (magari togliendosi anche una scarpa, come ha fatto Kruscev picchiandola sul leggio) a tutti quegli altezzosi rappresentanti del pianeta, che qualcuno definisce «maestri di imbecillismo burocratico», di impegnarsi concretamente per far cessare il ributtante mercato. Mentre l’ignavia fin qui dimostrata non fa che renderli complici di inaudite violenze su vittime innocenti.
Per concludere è forse esagerato dire di coloro che potendo parlare forte invece tacciono che sono anime sporche?
Grazie per l’attenzione. Un cordiale saluto.
Angelo Brugnoni
Daverio (VA), 28/05/2016
Vendi tutto
Caro direttore,
dopo aver letto «vendi tutto», lettera pubblicata sul numero di giugno u.s., non ho potuto fare a meno di porre mano alla penna (come si suole dire) e scriverti. L’argomento affrontato è di certo assai attuale e non fa altro che riproporre argomenti spesso utilizzati negli incontri televisivi e sulle pagine dei giornali a proposito del «tesoro della chiesa» che fa scandalo e andrebbe venduto o donato a beneficio dei poveri. Spesso anch’io confesso di trovarmi a riflettere su questi argomenti e sinceramente non so trovare risposte adeguate e convincenti. Quanto tu esponi nella risposta aiuta a capire o almeno a farsi un’idea della complessità del problema e comunque lascia aperte molte porte per ulteriori dibattiti e ricerca di nuove e rivoluzionarie soluzioni. Ti espongo qui ad alta voce una mia riflessione. La Chiesa è nata povera e ci si augurerebbe fosse ancora così, ma la storia è riuscita a sconvolgere e spesso a stravolgere il messaggio evangelico che sembra trovi molta difficoltà a penetrare nei cuori e a tradursi poi in comportamenti coerenti che applichino in concreto quanto detto dal Maestro. Ma una cosa credo sia importante da capire e che spesso, a cominciare dal sottoscritto, ci fa comodo pensare che non ci riguardi, e cioè che la Chiesa siamo anche noi, che il messaggio evangelico è anche rivolto a ciascuno di noi e che prima di pensare alla pagliuzza nell’occhio del vicino, ci si dovrebbe guardare allo specchio per controllare se magari sia opportuno che anche noi facessimo ogni tanto un po’ di pulizia e togliessimo le famose «fette di salame» che ci coprono non solo gli occhi ma anche la coscienza. Certo questo non esclude che anche la Chiesa in tutti i suoi apparati faccia un esame di coscienza per vedere se qualche cosa può essere migliorato. Aggiungo anche che è perché esiste la struttura secolare della Chiesa se molte missioni ricevono aiuti e possono continuare nell’annuncio della Buona Novella. Dimentichiamo a volte che se certe missioni sperdute nelle lande deserte o nelle foreste del mondo dove non giunge la televisione, ignorate dalla stampa scandalistica o dal politico contestatore tout court, riescono a portare silenziosamente il messaggio di speranza di Cristo con ospedali, scuole, dispensari o anche solo un sorriso, spesso lo possono perché la Chiesa tanto vituperata lo consente con il suo aiuto concreto. Anche se non spetterebbe a me citare il messaggio evangelico, ma ad altri ben più autorevoli, tuttavia ricordo quanto detto 2000 anni fa: «Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto». Messaggio stringato, ma preciso: nel «chi…» ci siamo tutti nessuno escluso. Prima di pretendere la coerenza dagli altri, cerchiamo di esigerla da noi.
Auguro a te e a tutta la tua magnifica squadra «buon lavoro» e dato il mese anche «buone ferie» delle quali anche tu avrai di sicuro bisogno e, a tutti i missionari e missionarie della Consolata, auguro un proficuo «Buon lavoro».
Giacomo Fanetti
11/06/2016
Accoglienza e solidarietà
Ci sono parole che inducono a larghe riflessioni, come, ad esempio, quelle che ha pronunciato papa Francesco, ricevendo il Premio Carlo Magno 2016, conferitogli dalla città di Acquisgrana. Egli ha rivolto un accorato appello all’Europa affinché, attingendo nuova linfa dagli ideali dei Padri Fondatori, affronti con rinvigorito spirito le sfide presenti; si renda creatrice e generatrice di nuovi processi sui quali costruire un futuro di libertà e di pace; sia culla di un nuovo umanesimo fondato sulla capacità di integrare, sulla capacità di dialogare, sulla capacità di generare.
L’Europa alla quale si rivolge il papa non è però solo quella dei capi di stato e di governo; è la «famiglia dei popoli»; sono dunque gli individui, singoli e associati, le formazioni intermedie, le istituzioni private e pubbliche, gli enti di governo fino al livello massimo rappresentato dallo Stato.
Allora, l’appello e l’auspicio del superamento dell’attuale fase di stanchezza – che esclude e sottrae dignità e libertà non solo a chi in, cerca di asilo o anche solo di cibo, preme ai confini d’Europa, ma anche a chi in essa rinviene le proprie origini e vorrebbe trovare il proprio futuro – passa necessariamente attraverso un processo che coinvolge la comunità dei popoli, oggi chiamati a dare nuovo vigore ad un concetto di unità europea fondata – usando le parole di Karl Lowith – «su un comune modo di sentire, di volere, di pensare …, a una determinata modalità di concepire e di dare forma a se stessi e al mondo».
In questa prospettiva i concetti di accoglienza e solidarietà assumono significati che trascendono la dimensione strettamente fisico–spaziale o materiale; non si tratta tanto – o solo – di trovare una sistemazione alloggiativa a chi cerca ospitalità o di somministrare mezzi di sussistenza agli indigenti; l’accoglienza e la solidarietà debbono tendere ad innescare processi di sviluppo dotati di una forza autorigenerante, capaci di generare altro sviluppo; che riservino ai beneficiari il ruolo di protagonisti e nei quali l’apporto di risorse economiche – pure indispensabile – non si risolva in sterile assistenzialismo ma costituisca mezzo per il raggiungimento di un’autonomia personale ed economica.
Oltre il territorio e l’elemosina
Il concetto di accoglienza non può e non deve dunque essere costretto in una dimensione territoriale e il concetto di solidarietà non può e non deve essere inteso come «elemosina»; una società che creda nella dignità umana deve saper trovare, proporre e realizzare modelli di vita e di sviluppo che – a prescindere dalla dimensione geografica di intervento – reintegrino l’individuo nelle condizioni indispensabili per l’esplicazione delle proprie facoltà e capacità, e lo rendano nel contempo consapevole che tutto quanto gli viene offerto costituisce un mezzo di sviluppo e di crescita di cui egli stesso diviene il principale artefice e responsabile.
Questo concetto – ne siamo convinte – è un punto chiave cui dovrebbero essere improntate le relazioni individuali e sociali tra chi offre e chi riceve accoglienza e solidarietà; è infatti il rispetto dell’uomo il fondamento dell’accoglienza e della solidarietà ed è sempre il rispetto dell’uomo – e, quindi, il rispetto innanzi tutto di se stesso e la coscienza della propria dignità – il fondamento dell’accettazione dei benefici offerti e il buon uso di essi.
La convinzione nasce dall’esperienza della cooperazione internazionale ove è stato constatato che, qualora gli interventi e gli aiuti posti in essere non si accompagnino alla formazione, nei beneficiari, della coscienza di dover essere responsabili del proprio auto-sviluppo, le iniziative intraprese sono destinate a concludersi non appena cessa la presenza degli organismi sostenitori e del flusso di denaro (vedi MC n. 7/2015, pag. 65); al contrario, laddove tale coscienza sia acquisita e presente, i processi di auto-sviluppo proseguono indefinitamente.
L’Assefa Ngo
Questa metodologia è stata, ad esempio, praticata con successo da Assefa Ngo indiana che, partendo da un piccolo gruppo formato da venticinque contadini ha raggiunto un milione di famiglie (circa cinque milioni di persone pari a più di tre volte la popolazione della Liguria) con progetti di sviluppo, e ben potrebbe essere adottata nella gestione dell’emergenza determinata dai flussi migratori verso il nostro paese e verso l’Europa; ciò al fine di evitare che le risorse messe in campo – anziché innescare processi di sviluppo e di integrazione – si esauriscano in meri interventi di somministrazione di mezzi di sussistenza (alloggio, vitto, eventuali altri interventi economici variamente denominati) e inducano ad una pretesa di essere mantenuti, senza porsi il problema del fatto che i costi vengono a gravare sui cittadini che lavorano e inducono in questi ultimi l’ostilità verso i nuovi venuti.
Responsabili del proprio autosviluppo
Crediamo, perciò, che sia fondamentale associare allo spirito di solidarietà ogni azione utile alla formazione, in capo ai beneficiari, della consapevolezza che essi stessi sono responsabili del proprio autosviluppo e che su questo principio debba basarsi la «relazione sociale» con la comunità di accoglienza. Ciò a partire dall’auto–organizzazione delle attività necessarie a provvedere agli elementari bisogni della vita quotidiana (approvvigionamento delle materie prime; preparazione dei pasti; pulizia ed igiene dei locali occupati; manutenzione ed eventuali migliorie degli stessi) fino all’offerta, a favore della comunità ospitante, di servizi e attività che costituirebbero un segno tangibile di non voler diventare un peso per la società, ma di volee divenire una componente attiva attraverso l’esercizio e lo sviluppo delle proprie capacità e abilità. Si è tentato di proporre agli immigrati un impegno volontario e gratuito, ma questo non sempre ha funzionato, come riconosceva amaramente Patrizia Calza, sindaco di Gragnano, dove i pochi immigrati che avevano accettato di fare volontariato, ad uno ad uno si sono poi ritirati: «Preferiscono fare i mantenuti» commentava in un recente convegno a Piacenza. Invece, se si trovasse modo di coinvolgere queste persone ad iniziare dalla individuazione dei progetti e inventando un qualche ritorno economico, il processo di autosviluppo potrebbe avere successo. Così è avvenuto per esempio nei comuni di Riace, Caulonia ed altri della costa jonica. E intanto si incomincia a parlare di «borse lavoro».
Questo modello di accoglienza potrebbe probabilmente attenuare le tensioni e i conflitti; favorirebbe perciò il dialogo e il processo di integrazione nei paesi ospitanti.
Si tratta di un modello che richiede di essere coltivato giorno dopo giorno; non è scevro da difficoltà ed ostacoli e forse potrà dare un ritorno immediato modesto; crediamo però che esso possa costituire un grande stimolo per riscoprire i valori della solidarietà e del rispetto della dignità umana e per restituire, a chi è disperato, un orizzonte di speranza.
Graziella De Nitto
e Itala Ricaldone
Assefa Genova Onlus
24/06/2016
Cari missionari 76
Informazioni sbagliate?
Spettabile Redazione,
ho letto il fuorviante articolo del mese di maggio 2016 di Sabina Siniscalchi sulle disuguaglianze. Non voglio commentare quanto scritto ma ritengo che almeno i riferimenti a documenti citati debbano essere corretti.
Non sono andato a cercare «Finanza-Capitalismo» di Luciano Gallino ma ritengo impossibile che affermasse che «chi ha un capitale depositato di 28000 euro paghi 5600 euro senza muovere un dito!». Per fortuna un deposito in banca non costa niente anzi forse può rendere qualcosa e in ogni caso non è segno di grande ricchezza. Se si parlasse di utile da capitale e non di deposito sarebbe diverso. Il rapporto finanziario Fisac Cgil del 2015 non dice «che un dirigente percepisce un compenso medio pari a 4 milioni 326 mila euro all’anno», ma parla di top manager! Un dirigente medio è estremamente lontano da tale importo. Sarebbe opportuno che gli articoli venissero controllati da esperti per non dare informazioni sbagliate e devianti alla massa dei lettori. Cordiali saluti.
Vittorio Bosco
17/05/2016
Egregio sig. Bosco,
lei definisce il mio articolo fuorviante e le informazioni che foisco sbagliate e devianti, questo mi stupisce molto perché il grave fenomeno della crescita delle disuguaglianze, di cui il pezzo parla, è ormai riconosciuto e suscita la preoccupazione di tutte le istituzioni pubbliche e private, non solo per i costi umani e sociali che comporta, ma perché rappresenta un freno alla crescita economica. L’Ocse nei suoi tanti rapporti sulle crescenti disuguaglianze (growing inequalities) afferma che una delle cause del fenomeno è da ricercarsi nell’indebolimento dei sindacati e dei corpi sociali intermedi. La invito a riflettere sul fatto che una debolezza di pensiero si traduce in una debolezza di azione. Quanto alle citazioni, le confermo che quella attribuita a Gallino è pienamente corretta (v. anche pag. 24 di «La lotta di classe dopo la lotta di classe»), mentre mi scuso per l’errore di traduzione del termine top manager, laddove cito non virgolettato il rapporto Fisac Cgil. Cordiali saluti,
Sabina Siniscalchi
Mi permetto di aggiungere che un commento al testo di Gallino riporta «[…] mentre un redditiere con un capitale dello stesso importo […]», avallando così quello che giustamente lei interpreta come l’utile da capitale depositato. Non serve comunque fare una battaglia di cifre. Si trattasse anche solo di top manager iperpagati, questo non diminuisce il problema delle diseguaglianze crescenti (e della «scomparsa» della classe media). Ho qui davanti a me il numero 112, giugno 2016, della rivista «In dialogo», notiziario della Rete Radié Resch. Titola: «Sergio Marchionne | Nel 2015 ha guadagnato: 54 milioni e 543 mila euro. 150 mila al giorno. | Che senso ha?». In quest’ultima domanda è sintetizzato tutto il problema: «Che senso ha?».
Islam, dialogo e pace
Buongiorno,
da qualche tempo ho in corso con un amico di infanzia recentemente ritrovato una discussione a distanza sul tema in oggetto rispetto al quale siamo su posizioni divergenti. Il sottoscritto parrebbe un «utile idiota» rispetto alle tesi dell’altro. Vista l’importanza del tema e la mia impreparazione, che ho del resto confessato all’amico, vi chiedo come vecchio lettore della vostra ottima rivista se vorrete dare adeguato spazio ancora alla questione: il Corano è inconciliabile con l’idea della convivenza pacifica con popoli di altre religioni? Il musulmano moderato è fuori dall’Islam in quanto tale? Questa e altre domande fanno parte dello scambio di opinioni con il mio amico che è partito idealmente dalla lettura del vostro editoriale di maggio. Grazie dell’attenzione che darete alla presente. Cordiali saluti
Claudio Solavagione
14/05/2016
Caro sig. Claudio,
raccogliamo il suo invito, anche se non sarà un lavoro facile. Stiamo studiando seriamente un dossier o una serie di articoli sull’argomento, ma deve avere un po’ di pazienza. Indipendentemente da questo lavoro, c’è stato un avvenimento importante che fa ben sperare: la visita del grande imam sunnita di Al Azhar, Ahamad Muhammad Al-Tayyib, a papa Francesco il 23 maggio scorso. È stato un incontro positivo e incoraggiante in questi tempi difficili. Speriamo che una possibile visita del papa al Cairo possa consolidare il cammino iniziato.
Per quanto poi possa valere la mia esperienza personale, in Kenya posso dire di aver sperimentato le due facce opposte dell’Islam: da una parte una radicalizzazione sempre più evidente, dall’altra una bellissima e duratura amicizia con alcune famiglie musulmane con cui conservo ancora legami profondi. Quando le persone riescono a incontrarsi cuore a cuore, con semplicità e umanità, allora non conta religione, ideologia, casta o razza. La tragedia scoppia quando sulle persone prevale lo stereotipo, il pregiudizio o l’ideologia, sia essa politica che religiosa.
E a questo proposito mi viene da pensare che gran parte dei guai nostri con l’islamismo più radicale – diventato una minaccia mondiale – sono frutto di una politica dissennata che ha visto alleati i fondamentalisti cristiani d’America con i fondamentalisti wahabiti dell’Arabia Saudita per far crollare le «dittature» – religiosamente tolleranti – di Saddam Hussein (Iraq), Muhammar Gheddafi (Libia) e Assad (Siria). Quegli stessi fondamentalisti che sostengono ora Trump e la sua agenda piena d’intolleranza, gli stessi che continuano a finanziare in tutto il mondo le sette cristiane più integraliste che dividono le comunità in Africa e in America latina per lasciar spazio, nella divisione, agli interessi delle multinazionali che sfruttano senza controlli (vedi RD Congo e Amazzonia sia dell’Ecuador che del Brasile). Senza dimenticare la passività, divisione e confusione della politica estera dell’Unione europea che tollera (o permette e favorisce?) in paesi come il Kosovo e l’Ucraina la crescita e il prosperare di organizzazioni fondamentaliste, incubatori di foreign fighters e terroristi.
Musulmano Ucciso per salvare cristiani
Aiuto, qualcosa mi è sfuggito, leggo diversi giornali quotidiani tutti i giorni, ma non ho letto, se non in piccolissime recensioni sulla morte, il 18/01/16, di Salah Farah. Ho letto di Valeria Soresin, morta nell’attacco al Bataclan a Parigi, ho letto su Giulio Regeni morto misteriosamente in Egitto. Tutto ciò è molto giusto. Ho guardato in internet il cognome Salah: ho visto pagine su Abdelham Salah, terrorista, ma ancora di più su Mohamed Salah, calciatore della Roma, e del suo infortunio. Ho guardato vari programmi d’informazione e denuncia, ma mai si è parlato di Salah Farah. È solo un vero eroe dimenticato, Salah è l’insegnante keniota che ha difeso con la sua vita dei cristiani da una morte certa, dicendo ai terroristi che cristiani e islamici sono tutti uguali e che dovevano uccidere tutti. Quindi, secondo me dovrebbe essere considerato un eroe sia per i cristiani che per i mussulmani. Ma nessuno ne parla, come per vergogna: il mondo islamico forse perché ha salvato dei cristiani, il mondo occidentale, forse perché nero, povero e non biondo. Io penso che meriterebbe almeno il Nobel per la pace, magari togliendolo a qualche potente, che ha reso il mondo molto pericoloso. Ora chiudo e vi incito a farvi promotori per una colletta per la sua numerosa famiglia che viveva solo con il suo stipendio.
Saluti
Stefano Graziani
08/05/2016
Ho fatto una rapida ricerca, e, a parte quattro testate, in Italia se ne è parlato poco o niente. Noi stessi abbiamo riportato solo quanto avvenuto il 21 dicembre sulla pagina Facebook della rivista. Il fatto a cui si riferisce il nostro lettore è l’agguato del 21 dicembre 2015 teso dagli Al-Shabab a un pullman diretto a Mandera, una cittadina del Kenya all’stremo Nord-Est del paese, ai confini con la Somalia. «L’uomo, al momento dell’assalto di un gruppo di uomini armati, appartenenti ai miliziani sunniti somali di al-Shabaab, si trovava a bordo di un autobus insieme a un gruppo di passeggeri cristiani e musulmani. Quando gli assalitori hanno intimato al gruppo di viaggiatori di dividersi fra musulmani e cristiani, Farah insieme ad altre persone si è rifiutato, sapendo che i cristiani sarebbero stati massacrati una volta individuati. L’insegnante musulmano si era rivolto agli uomini armati sfidandoli e dicendo loro: “Uccideteci tutti oppure lasciateci andare”. I miliziani, prima di lasciare che il bus proseguisse il suo tragitto per Mandera, avevano ucciso due delle persone a bordo e ne avevano ferite altre tre» (The Post Internazionale del 22/01/2016). «“Appena abbiamo parlato hanno sparato a un ragazzo, e a me”. Dopo quasi un mese in ospedale, Salah non ce l’ha fatta» (Avvenire del 21/01/2016). Salah Farah era un insegnate di 34 anni, padre di cinque figli.
In Kenya l’hanno onorato come un eroe e ci sono state preghiere di cordoglio da parte di tutti i gruppi religiosi ed è stata lanciata sui social media una colletta per aiutare la sua famiglia.
Resta comunque il fatto che spesso sui media non tutte le morti hanno lo stesso valore. La lista potrebbe essere lunga, dalla Nigeria alla Somalia, dalla Siria all’Iraq, non ultimo l’ennesimo massacro di civili avvenuto agli inizi di maggio nel Beni (una provincia della Repubblica democratica del Congo vicina all’Uganda) per mano di un gruppo di miliziani qaedisti ugandesi, uno dei 23 gruppi che si contendono il controllo del territorio a Est del Congo e le sue enormi risorse. Noi stessi abbiamo saputo del fatto solo perché vi sono state vittime tra i membri della famiglia allargata di un nostro missionario. Eppure non è una cosa da poco, oltre 1100 persone indifese, soprattutto donne e bambini, sono state uccise in quell’area negli ultimi tre anni e migliaia e migliaia costretti a fuggire dalle loro case.
E chi ha riportato che «è morta (il 20 maggio) suor Veronica Rackova, religiosa delle Suore Missionarie dello Spirito Santo (Ssp), la medico missionaria slovacca ferita gravemente in un agguato stradale in Sud Sudan il 16 maggio»? Ricordate l’assordante silenzio sul massacro delle quattro suore di Madre Teresa in Yemen all’inizio di marzo? Perfino papa Francesco, con la sua abituale franchezza, si sentì in dovere di stigmatizzare l’indifferenza dei media.
Notizie di questi drammi si trovano sull’informazione di «nicchia», come le agenzie missionarie, le riviste specializzate e quelle di ong e gruppi interessati a questi problemi, e qualche volta anche nelle pagine intee della grande stampa. Ma occorre avere un occhio attento, capace di andare oltre l’anestetizzante informazione di «prima pagina».
Avanti con MC
Caro padre
faccio riferimento alla lettera pubblicata su MC aprile 2016 (lettrice di Bologna), per incoraggiarvi a continuare nell’attività di stampa, spedizione e diffusione della rivista. In data odiea ho provveduto ad effettuarvi un piccolo bonifico che vorrete utilizzare per inviare la rivista a chi ne ha bisogno e trova in essa un utile strumento di informazione e formazione, soprattutto sulla chiesa missionaria ed in particolare di quella dei missionari della Consolata. Buon lavoro!
Email firmata
11/04/2016
A giorni vi faccio avere una piccola donazione per la vostra bella rivista. A volte mi chiedo se possa essere realizzabile una piccola campagna nelle mie tre parrocchie per far conoscere la rivista e favorire una cultura alternativa sui veri problemi del mondo… Forse sarà un’illusione, ma sarei lieto, magari per il mese missionario, di studiare con voi qualcosa. Se avete suggerimenti…
Don D.
17/05/2016
Grazie di cuore a tutti gli amici che ci sostengono e ci incoraggiano a continuare il nostro servizio in questi tempi duri. Come sapete questi ultimi sei anni hanno visto chiudere riviste missionarie una dopo l’altra. Altre stanno davvero lottando per la sopravvivenza proprio in questi tempi. Cose che vi abbiamo già detto altre volte. In MC stiamo facendo il possibile e l’impossibile per «fare bene il bene», convinti che se questa è un’opera voluta da Dio, Lui ci provvederà sempre la forza e i mezzi per andare avanti. Se non è opera sua, meglio chiudere.
Appello per lo ius soli
Agli immigrati di seconda generazione, nati e cresciuti in Italia, deve essere riconosciuto il diritto di cittadinanza. Lo sostengono le riviste missionarie e le associazioni per i diritti dei migranti. Che chiedono sia presentato quanto prima al Senato, per la sua definitiva approvazione, il disegno di legge sullo ius soli.
In sintonia con la campagna «L’Italia sono anch’io», sostenuta da numerose organizzazioni della società civile, noi rappresentanti della stampa missionaria e di associazioni impegnate per i diritti degli immigrati, chiediamo al Parlamento italiano di portare a termine senza ulteriori dilazioni l’iter di riforma della legge che estende il diritto di cittadinanza agli stranieri nati nel territorio italiano. In modo particolare ci rivolgiamo alla presidente della Commissione affari costituzionali, Anna Finocchiaro, affinché stabilisca quanto prima la data per presentare al Senato il disegno di legge, già approvato in prima lettura alla Camera dei deputati il 13 ottobre 2015, per la sua definitiva approvazione.
La vigente legislazione, fondata su legami di sangue, garantisce il diritto di cittadinanza a nipoti di un nonno o nonna italiani, anche senza mai aver messo piede in Italia. A maggior ragione riteniamo giusto e doveroso che lo stesso diritto venga riconosciuto agli immigrati di seconda generazione, nati e cresciuti nel nostro paese, che oggi sono costretti ad attendere fino alla età di 18 anni prima di poter ottenere la cittadinanza. A tale obiettivo mira la riforma della legge 91 del 1992 che assicura ai figli di immigrati nati in territorio italiano da almeno un genitore con permesso di soggiorno di lungo periodo (ius soli temperato) o a seguito di un percorso scolastico (ius culturæ), il diritto a diventare cittadini.
L’approvazione della nuova legge – ne siamo certi – darà un segnale importante a oltre 1 milione di giovani di origine straniera che vivono in uno stato di precarietà esistenziale, che si sentono italiani di fatto, ma non lo sono per la legge. Grazie a questa normativa più della metà di costoro, con un genitore in possesso di un permesso di lungo soggiorno, potrebbero già beneficiare della riforma. L’accesso alla cittadinanza è l’unica via in grado di consentire ai figli di immigrati di essere considerati alla pari, nei diritti e nei doveri, rispetto ai loro coetanei, figli di italiani.
Come cittadini e cittadine italiane riteniamo l’approvazione della nuova legge sulla cittadinanza agli stranieri un atto di giustizia che il nostro Parlamento è chiamato a compiere per rimediare a una discriminazione che penalizza i nostri fratelli e sorelle immigrati di seconda generazione.
Questo documento è stato firmato in data 12 maggio 2016 dai direttori delle riviste aderenti alla «Federazione della stampa missionaria italiana» (Fesmi) e dai responsabili di altri organismi solidali e impegnati nel mondo dei migranti, rifugiati e nomadi. Il testo è stato pubblicato sui siti delle varie riviste (della Fesmi), su Avvenire e Vita (e su Famiglia Cristiana) e consegnato alla presidente della Commissione affari costituzionali, all’inizio di giugno. (Nella rivista è scritto così. perché questo era il piano, ma la realtà è più difficile e si sta ancora lavorando per riuscire a consegnare il testo a chi di dovere).
Nel documento si usa l’espressione «immigrati di seconda generazione» per adeguarsi al linguaggio della legge attuale, ma tale termine non ha senso. Bambini nati in Italia da genitori che qui vivono e lavorano da tempo, non possono essere considerati migranti. Eccetto che anche noi vogliamo introdurre il termine «alieno», lo stesso stampato sulla mia carta d’identità locale quando vivevo in un paese d’Africa.
Le lettere
«Vendi tutto…»
Gentile direttore, le scrivo in merito alla risposta che lei ha dato al sig. Cesare Verdi (Mc 04/2016, pag. 7). Secondo il mio parere se coloro che dovrebbero essere «luce» non riescono a capire il senso delle parole «vendi tutto… e seguimi», vuol dire che non hanno seguito Cristo.
Lei scrive: «Ci sono centinaia di case religiose vuote… ma non hanno i requisiti… e sono invendibili». Vendetele sottocosto queste proprietà e il ricavato datelo ai poveri. Aggiungo che ci sono pure i «tesori» delle basiliche e dei santuari che si potrebbero «smaltire» per l’aiuto dei poveri.
Alla Caritas arrivano i doni/pacchi del popolo e distribuire quello donato dagli altri è facile. Se non vado errando la chiesa è proprietaria di una banca.
Non si fermi a queste piccolissime considerazioni, ma vada a pensare a quante donazioni riceve la chiesa e quanto è ricca la chiesa. Se il «sale» perde il sapore…
R. S. – 12/04/2016
Ho già risposto privatamente al nostro lettore. Riprendo e aggiungo qui alcuni punti per approfondire insieme il dibattito, cominciato dalla «proposta» di mandare navi da crociera a raccogliere i profughi in mare (Mc 1-2/2016).
• Immobili religiosi.
È certamente una questione che si presta a un dibattito senza fine e potenzialmente populista. Senza tener conto che sta creando un sacco di sofferenze e disagi all’interno delle congregazioni religiose stesse. Ricordo un vecchio religioso che un giorno mi ha fatto l’elenco di ben dieci case da oltre cento posti l’una nel raggio di venti chilometri in una valle del Piemonte: vuote da anni e invendute perché nessuno le vuole, neppure regalate. Neppure i comuni le vogliono, visti i tagli alle spese cui sono costretti.
Diversi istituti sono stati fortunati riuscendo a riciclare tali edifici al servizio di onlus, associazioni di volontariato, gruppi culturali. Ma l’invecchiamento delle comunità religiose e la mancanza di vocazioni italiane farà ancora aumentare l’offerta di tali edifici. Ogni tanto questo fa notizia, soprattutto quando si tratta della chiusura di questo o di quel convento storico tra l’amarezza della popolazione locale.
• Smaltire i tesori.
Niente di nuovo in questo. Quanti santuari e chiese hanno venduto ori e pietre preziose subito dopo la seconda guerra mondiale per aiutare i poveri! Non tutto è oro quello che luccica, neppure nei santuari. Inoltre spesso questi tesori non sono neanche più di vera proprietà della Chiesa (intesa come «vescovi, preti e religiosi», almeno da come capisco la sua accezione). Questi «tesori», quando veri, sono di proprietà della comunità (Chiesa fatta di tutti i credenti) locale e normalmente registrati e controllati dal Ministero dei Beni culturali, per cui diventano inalienabili.
Non rischiamo poi di cadere in slogan populisti, tipo quello di chi proponeva la vendita del Vaticano per finanziare la lotta alla fame nel mondo. Di tutt’altro stile era Raul Follereau (chi lo ricorda ancora?) che negli anni Sessanta chiedeva a Russia e America l’equivalente del costo di due cacciabombardieri per risolvere il problema della lebbra nel mondo. E non li ha ottenuti.
• Distribuire è facile.
Forse sì. Se lo si fa ogni tanto. Ma le garantisco che chi, laico o religioso, ha la responsabilità della continuità in un progetto caritativo non può dormire sonni tranquilli, anche se si fida della Divina Provvidenza. Lo sa bene chi è dentro una onlus per aiutare i poveri, nella San Vincenzo o nella Caritas, o chi si cura di orfani, studenti, affamati e «scarti» di ogni tipo nelle periferie del mondo. Per distribuire bisogna avere, e per avere bisogna chiedere, mendicare, supplicare, tener fresca la memoria e quanto altro per creare un flusso continuo di «carità». E poi non basta «dare», occorre un dare con intelligenza, che coinvolga chi riceve, che faccia crescere, responsabilizzi, faccia uscire dall’ignoranza, dalla dipendenza. Tutto questo è un impegno grande, che non fa notizia.
• Dar l’esempio.
È vero che chi dovrebbe essere «luce» dovrebbe dare l’esempio. Ma le assicuro che l’esempio lo danno in tantissimi, anche se nei media fa notizia solo chi fa scandalo. E non lo scrivo solo per difendere la categoria. È una questione di giustizia verso un numero incredibile di cristiani, religiosi e laici, che si sono spesi e si spendono ogni giorno. Quanti missionari/e ho conosciuto che hanno canalizzato/canalizzano milioni (se non miliardi) di aiuti per i poveri, per rientrare poi a morire in Italia con una valigia da 20 chili e montagne di ricordi.
• Giustizia.
La questione di tanti immobili «ecclesiastici» sottoutilizzati o vuoti non è facile da risolvere. E non è solo una questione economica. Tali edifici sono stati costruiti con i soldi della gente ed è giusto che tornino alla gente per essere riutilizzati per il bene comune. Per chi oggi li possiede sono solo un peso di tasse e manutenzione. Basterà l’uscita dalla presente crisi economica per risolvere il problema e far sì che questi edifici siano usati per il bene comune e non svenduti a speculatori? Non sono un buon profeta a proposito, ma credo che la soluzione non stia nei soldi ma in persone nuove disposte a dare la vita per gli «scarti» del mondo e quindi capaci anche di ridare nuovo spirito a edifici che un tempo sono stati pieni di vita, gioia, generosità e sogni.
Europa
Egregio Direttore,
grazie per la sua risposta a commento del mio intervento pubblicato sul numero di aprile della sua rivista, risposta che giudico tuttavia debole e insoddisfacente. Anche nel mio intervento mettevo in rilievo gli errori e l’inadeguatezza della politica europea in sede di Unione e degli stati membri indistintamente, ma con l’aria che tira in Europa (Brexit, immigrazione, governi polacco e ungherese, crisi greca, movimenti populisti e xenofobi in espansione…) mi chiedo e le chiedo se si senta veramente la necessità e l’utilità di «provocazioni» quali quelle del prof. Amoroso. Con i miei migliori saluti.
Walter Cavallini – 18/04/2016
Di Afrikaneer e di Cristeros
Note su due articoli della vostra bella rivista di aprile.
1) Africaneer. Quando si parla di loro è il caso di ricordare che quelli di origine olandese erano in buona parte valdesi del Piemonte, fuggiti in Olanda nel 1686 (altri in Prussia e in Inghilterra) per sottrarsi alle feroci persecuzioni volute da Luigi XIV, succube della «compagnia del SS. Sacramento» protetta dalla moglie morganatica M.me de Maintenon. Ancora alla fine dell’egemonia afrikaneer, i nomi dei leader erano piemontesi: Malan, Botha (Botta) , Vigloner (Viglione). In Piazza Castello, a Torino, è segnato in bronzo il punto in cui, su richiesta dell’Inquisizione, fu bruciato un pastore valdese.
2) Cristeros. La persecuzione dei Cristeros nasce in seguito all’atteggiamento della Chiesa (che possedeva quasi la metà delle terre e degli immobili del Messico) ai tempi dell’occupazione franco-inglese con l’imperatore Massimiliano, dovuta al mancato pagamento degli interessi sul debito estero. Il partito conservatore e la Chiesa approvarono l’occupazione, che evitava loro confische e tasse, ma che suscitò una guerra civile finita quando gli Usa, terminata la loro guerra civile, mandarono un esercito ai confini per ripristinare la dottrina Monroe (gli Usa non tollerano presenze straniere nel continente). Dopo di che furono venduti all’asta molti beni della Chiesa e i compratori divennero massoni, anche per autodifesa.
Dalla lotta dei Cristeros contro le persecuzioni (di cui parla anche Hemingway in uno dei 49 racconti) discendono anche le basi ideali e sociali su cui un ignobile personaggio, troppo protetto in Vaticano fino a papa Benedetto, costruì il movimento dei «legionari di Cristo».
Claudio Bellavista – 02/04/2016
Grazie per l’interessante nota sugli Afrikaneer. Ma mi permetto di non concordare sull’analisi riguardo ai Cristeros. La storia del Messico, fin dalla sua indipendenza nel 1821, non è stata facile, segnata come fu da ingerenze straniere (vedi l’imperatore Massimiliano sostenuto dalla Francia) e da violenze e guerre civili. Ma chi ha interferito di più in quel paese, sono stati gli Usa che non hanno esitato a fargli guerra (1830) per poi strappargli alcuni stati importanti come la Califoia, il Texas e il New Mexico, e hanno poi sostenuto in tutti i modi un’oligarchia locale favorevole ai loro interessi. Non contenti di questo hanno promosso un’aggresiva attività missionaria protestante allo scopo di scalzare l’influenza cattolica. Hanno inoltre spalleggiato i governanti a loro favorevoli grazie alla massoneria, che nei primi decenni del Novecento era ben decisa non solo a dividere politica e religione, ma a cancellare ogni influenza della Chiesa cattolica, e non solo in Messico. Che chi ha incamerato i beni della Chiesa si sia fatto poi massone «per autodifesa» o per convenienza, non discuto e non entro neppure nel merito della discutibile dottrina Monroe del 2 dicembre 1823, che ha giustificato tutte le pesanti interferenze degli Usa nella vita dei paesi latinoamericani.
La lotta dei Cristeros fu una lotta autenticamente popolare e spontanea, pagata con migliaia di morti. La repressione, armata con le armi foite dai nordamericani, fu invece gestita da un’oligarchia strettamente collegata a interessi stranieri e spietata con il proprio popolo.
C’è poi una differenza fondamentale tra le proprietà della Chiesa e quelle delle oligarchie. Le proprietà e i beni della Chiesa in fondo rimangono sempre del popolo, perché figli del popolo erano i sacerdoti, religiosi e religiose che li gestivano, persone strettamente legate alla loro terra, alla loro gente, alle loro famiglie. Le oligarchie gestiscono le proprietà per il loro potere e per l’arricchimento, spesso ottenuto con lo sfruttamento sfacciato dei lavoratori mantenuti sistematicamente in situazioni di dipendenza e miseria.
Ne abbiamo un esempio anche oggi, con le multinazionali che, focalizzate sul massimo profitto, operano fuori di ogni controllo nazionale, spostano i loro centri di produzione dove gli operai sono meno pagati e meno sindacalmente organizzati e cercano tutti i modi di evadere le tasse.
Quanto al fondatore dei Legionari di Cristo (ordine religioso e non movimento) non credo sia legittimo usare la sua vita schizofrenica per denigrare i Cristeros, che hanno pagato con la vita la loro fedeltà a Gesù Cristo e alla Chiesa, contro un regime che, nel nome della libertà, non tollerava diversità e opposizione e, una volta raggiunto un accordo di pace, non ha mantenuto i patti, continuando a massacrare chi aveva osato pensare diverso.
Copie non recapitate
Buongiorno,
sono una vostra abbonata e leggo con molto piacere e attenzione la rivista. Non mi è arrivato il numero di marzo 2016 e pur avendo visto che è sfogliabile in internet preferisco il cartaceo perché li colleziono ed anche perché avendo una certa età riesco poco e male a leggere sul monitor. Vi sarei grata se – quando volete e potete – mi inviaste la copia.
Sempre complimenti ed un cordiale saluto.
M. C. – 23/04/2016
Prendo spunto da questa email per precisare che mandiamo sempre e a tutti con regolarità la nostra rivista perché arrivi all’inizio di ogni mese. Se non vi arriva la vostra copia (dieci all’anno con calendario a novembre e numerazione doppia a gennaio / febbraio e agosto / settembre), fatecelo sapere e ve ne mandiamo un’altra. Ma, se possibile, protestate un po’ con il vostro ufficio postale locale.
Gianni Minà
Caro Direttore,
un grazie di vero cuore, per la rivista Missioni Consolata, che puntualmente mi arriva a casa ogni mese.
I vari articoli sono sempre molto interessanti; veritieri e non di parte.
Il mensile si chiude poi con l’articolo di Gianni Minà, giornalista di alto livello, che presenta il personaggio di tuo più con il cuore che non con gli occhi, che, a mio modesto avviso, è il finale perfetto per una giusta diffusione di notizie mondiali, importanti e talvolta tragiche, esposte sempre in modo umano e sentito, mai in modo morboso e apocalittico, come purtroppo sovente capita.
Ancora un grazie, veramente sincero e buon proseguimento. Con simpatia.
Concé Canova – Corio (To), 04/04/2016
I primi in Mozambico
Carissimo Direttore,
ho letto su MC di gennaio-febbraio 2016 del novantesimo anniversario dell’arrivo dei primi cinque missionari della Consolata in Mozambico. Ma in realtà erano più di cinque. Infatti nel 1925 ne sono arrivati cinque da Torino, e quattro dal Kenya, inviati dal nostro padre Fondatore. Uno era mio cugino padre Giulio Peyrani, figlio di una sorella di mia nonna. Nel 1960 in Casa Madre mi ha raccontato tutta la sua vita, aveva ancora la lettera che aveva ricevuto dal Fondatore. Lui lavorava da diversi anni in Kenya e il Fondatore gli chiedeva per favore se era disposto a partecipare alla prima spedizione per il Mozambico e studiare la nuova lingua. Lui e altri tre accettarono e partirono. Si incontrarono con quelli arrivati da Torino e insieme partirono a piedi, passando le foreste per arrivare nella diocesi di Tete, dove fondarono la prima missione.
Grazie per l’attenzione e cari saluti.
Fratel Torta Francesco – Cavi di Lavagna (GE)
Grazie della preziosa precisazione e per il bel ricordo che hai del tuo zio, che poi hai seguito diventando tu stesso missionario in Mozambico.
Questi sono i primi otto missionari che il 30 ottobre 1925 sbarcarono nel porto di Beira in Mozambico: i padri Vittorio Sandrone (superiore del gruppo), Giulio Peyrani, Pietro Calandri, Giovanni Chiomio e fratel Giuseppe Benedetto che avevano già fatto esperienza missionaria in Kenya, e i padri Lorenzo Sperta e Paolo Borello con lo studente Secondo Ghiglia provenienti da Torino dopo aver ricevuto il crocefisso dalle mani del beato Allamano. Il nono, padre Giuseppe Amiotti, si sarebbe aggiunto più avanti per sostituire Sperta che si ammalò subito e dovette essere accompagnato in Kenya da padre Calandri per curarsi. Da Beira risalirono il fiume Zambesi con un vaporetto e dopo una lunga e penosa navigazione sul fiume quasi in secca arrivarono a Tete il 10 gennaio 1926. Mentre padre Peyrani si fermava a Tete, gli altri proseguirono fino alla missione di Miruru, fondata tanti anni prima dai Gesuiti, ma poi abbandonata dopo la loro espulsione dal Portogallo (1759). Padre Calandri rientrò dal Kenya a giugno accompagnato da padre Giuseppe Amiotti, buon fotografo, a cui si devono alcune delle più belle foto di quegli anni. Egli lasciò poi l’Istituto per rientrare in diocesi. Alla sua morte lasciò il suo album di foto del Mozambico ai nipoti, l’ultimo dei quali lo ha recentemente donato alla rivista perché fosse conservato.
Cari missionari
Farinella
Spettabile redazione,
vedo che Paolo Farinella, prete, come si firma, continua a scrivere su Missioni Consolata come esperto commentatore della Bibbia. Non metto in dubbio che Farinella sia un esperto biblista, mi domando però se sia anche un cristiano. Ho ritrovato un articolo che era apparso su La Repubblica il 30 aprile dello scorso anno. Già allora avrei voluto scrivervi, ma avevo perso l’articolo in questione (nel quale Farinella attaccava apertamente Renzi come uccisore della democrazia e quindi da eliminare come se fosse un tiranno, ndr). […] Ora io non ne faccio una questione politica ma etica; fra l’altro non sono un ammiratore del presidente del consiglio. Farinella identifica Renzi come un tiranno da uccidere, parla di andare in montagna a fare la resistenza come se Renzi fosse Mussolini, il Mussolini di Salò. Ciò mi ricorda quello che qualche intellettuale scriveva negli anni Settanta a proposito del governo e della Dc e che spinse qualche giovane a darsi al terrorismo. Ebbene, io gli anni settanta li ricordo e non voglio più leggere una rivista che ospita un collaboratore che scrive in modo simile a quegli intellettuali degli anni Settanta, che furono poi definiti «cattivi maestri». Vi prego perciò di togliere il mio nome dalla vostra mailing list.
Paolo Cozzi Milano, 11/03/2016
I rapporti tra questa rivista e don Paolo Farinella sono ben chiari da tempo: collabora con noi soprattutto per quell’ottimo biblista che è lasciando in secondo piano il cittadino appassionatamente impegnato in politica, quella con la «p» maiuscola, la più grande virtù civica e sociale.
Separati chiaramente i due ambiti, stiamo lavorando insieme in amicizia e rispetto reciproco. Qualcuno, anche tra i miei passati superiori, ha pensato che questa fosse una scelta di comodo, come se di don Paolo noi «usassimo» solo quella parte che ci conviene chiudendo non solo un occhio, ma tutti e due, sulle sue posizioni critiche rispetto alla politica, alla Chiesa e al papa stesso. I direttori miei predecessori, e io stesso, abbiamo ricevuto forti pressioni perché don Farinella sparisse dalle pagine di questa rivista.
Lui continua a essere pubblicato su MC perché i suoi scritti sono un aiuto di grande qualità a conoscere e amare la Parola di Dio. Per questo, pur non condividendo alcune delle sue valutazioni ed esteazioni politiche ed ecclesiali, ritengo che gli scritti di don Paolo, a cui rinnovo la stima di tutta la redazione, arricchiscano queste pagine.
Certo, mi spiace che il nostro lettore si sia sentito disturbato da quello che don Farinella scrive o che scrivono di lui su altre pubblicazioni al punto da rifiutare la nostra rivista. Perdere un lettore non può essere motivo di gioia. Ricordo però che alla fine del ciclo sulle nozze di Cana, abbiamo ricevuto molte email e telefonate che esprimevano disappunto al non trovare più le pagine di «Così sta scritto».
La nostra non è una rivista che vuol piacere a tutti i costi. Conosciamo i nostri limiti e cerchiamo di servire la Verità con passione e rispetto, senza pretendere di avee il monopolio.
Quanto alla fede di don Paolo, se neppure il suo vescovo ha sentito il bisogno di sospenderlo dal ministero sacerdotale, benché sia stato apertamente criticato dallo stesso, chi sono io per giudicarlo?
Ragioni di speranza
Caro padre,
oggi è l’11 marzo, giornata mondiale delle persone con sindrome di down e il mio pensiero ha associato le tue riflessioni contenute nell’editoriale «Non si eliminano così anche gli ulivi?» a una recente esperienza che ho vissuto per ragioni di lavoro e che mi ha riempito di ammirazione e di speranza. Ho incontrato una coppia di genitori che hanno adottato un bambino down che quest’anno compie due anni; da quando è presso la famiglia adottiva, e cioè da un anno circa, ha fatto tanti progressi e la cosa più sorprendente è l’impegno che mette in atto per corrispondere alle attenzioni e agli stimoli che riceve, tanto da arrabbiarsi se non riesce a padroneggiare, ad esempio, il meccanismo del gattonamento che gli consentirebbe di spostarsi da solo. Effettua esperienze, quando non è a casa o al baby parking di logopedia, psicomotricità e musica, e i genitori sono in contatto con centri down di diverse città per essere informati riguardo tutte le possibilità educative, scolastiche, terapeutiche e giuridiche atte ad accompagnarlo nell’apprendimento e nella conquista dell’autonomia presente e futura.
Le tue parole riguardo la specificità dell’uomo che è «la capacità di gratuità, d’amore, di dono di sé, di sacrificio e di pensare “noi” e non solo “io”» l’ho vista incarnata in questa coppia che con gioia ha confermato l’adozione di un bambino che secondo certe logiche comporterebbe molte spese sociali e molti problemi. Il loro amore è veramente generativo e contagioso e non può che sostenere la speranza che un tale tipo di amore non sia scomparso! Se la cura e il rispetto per la vita fossero anche trasferiti agli ulivi affetti da Xylella, a mio parere, in quanto figlia di un contadino con la passione per le piante, forse si troverebbe un rimedio meno drastico del loro abbattimento.
Auguro una Santa Pasqua, evento che fonda la fede che cerchiamo di vivere e anche un po’ di capire!
Milva Capoia Collegno, 21/03/2016
A mio zio, padre Ottavio Santoro
Carissimi,
sono Vita, la nipote di Padre Ottavio Santoro. Mi piacerebbe pubblicaste il testo seguente che ho letto nella chiesa del Resurrection Garden, a Nairobi, il 24 novembre scorso durante il funerale di mio zio.
«Purtroppo ho perso un altro “pezzo” della mia famiglia. Dopo la morte di mio padre, padre Ottavio è stato un secondo padre per me. Questa per me è una grandissima perdita. Penso che lo sia anche per tutta la Comunità dei Missionari della Consolata e la Chiesa. Padre Ottavio ci ha lasciati con il corpo, ma il suo spirito rimarrà per sempre con noi. Qui, al “Resurrection Garden”, “lui” è in ogni angolo, in ogni fiore, in ogni pietra, tutto parla di “lui”.
Ha vissuto da povero, ma ha fatto delle cose meravigliose. Ha lavorato in silenzio per dare voce a Dio con la consapevolezza del potere dell’amore e non dell’amore per il potere. La sua priorità sono sempre stati i poveri e i bambini per dare dignità a tutti davanti alla vita.
Da vent’anni la Pasqua l’ho sempre trascorsa con lui. La scorsa Pasqua mentre chiacchieravamo, mi diceva compiaciuto, che nei giorni precedenti, in un solo giorno, erano state celebrate venti Messe (da vari gruppi nelle varie chiese e cappelle del Resurrection Garden, ndr). Gli ho risposto che stava facendo concorrenza a San Pietro a Roma. Non mi ha risposto, ma il suo lungo sguardo, mi ha detto che il suo obiettivo era stato raggiunto e cominciava a fare i conti con la vita.
Alla fine di maggio (2015), quando si è definito il viaggio del Santo Padre, in una mail mi ha chiesto di raggiungerlo. Ho prenotato subito il volo, ma la sensazione che ho avuto è che sarebbe stata l’ultima volta che l’avrei visto. Vorrei ringraziare tutti coloro che l’hanno sostenuto e aiutato. Un grazie particolare a Ceghe, Anastasia, Peter, Michael, Solomon e Michael per l’amore con cui l’hanno servito. Amiamolo come “lui” ci ha amati e preghiamolo che possa riposare in pace. Che Dio ci benedica».
Chi era padre Ottavio Santoro?
Nato a Martina Franca (Ta) nel 1933, dieci anni dopo entra nel seminario dei Missionari della Consolata a Parabita (Le). Dopo il noviziato in Certosa Pesio, la filosofia a Torino e la teologia a Washington negli Usa, nel 1958 è ordinato sacerdote ed è subito destinato al Kenya dove arriva alla fine dello stesso anno. In Kenya rimane fino alla morte, a parte un breve periodo di servizio nell’animazione missionaria negli Usa tra il 1964 e il 1968. Dopo i primi anni come vice parroco, vice rettore nel seminario diocesano, professore in una scuola secondaria, nel 1972 è nominato amministratore di tutte le opere della Consolata in Kenya. In questo servizio rivela un particolare talento e buon gusto per le costruzioni, tra cui il Seminario filosofico e l’espansione della Consolata School in Nairobi, considerata ancor oggi una delle migliori scuole del Kenya. Dal 1986 al 1994 è amministratore della nascente Università Cattolica dell’Africa orientale (Cuea) a Lang’ata, Nairobi, che sotto la sua guida si arricchisce delle strutture fondamentali. Per non restare con le mani in mano, nello stesso tempo segue la costruzione del seminario teologico della Consolata, l’Allamano House, e del Tangaza College, l’università teologica della maggior parte delle congregazioni religiose che sono in Kenya. Nel 1990 il cardinal Otunga lo spinge a iniziare la costruzione del Resurrection Garden (Giardino della Resurrezione), inaugurato nel 1994. Il giardino si espande su un’area di circa otto ettari con un percorso di cappellette e piloni, decorati con mosaici e bronzi raffiguranti scene bibliche, che si conclude nel vasto santuario centrale: la chiesa della Pentecoste. Nel giardino ci sono anche 112 lapidi su cui è inciso il «Padre nostro» in altrettante lingue dei cinque continenti, una casa per esercizi spirituali, una per ritiri e incontri di formazione e varie casette per ritiri individuali. Il giardino, diventato ecumenico, è meta di pellegrinaggi, da tutte le diocesi del Kenya. Nel settembre 1995 Giovanni Paolo II vi concluse il primo Sinodo africano. Dal 2005 in una cappella del giardino riposa il corpo del cardinale Maurice Michael Otunga di cui P. Ottavio ha promosso la causa di beatificazione diventandone il primo postulatore. Padre Santoro ha ricoperto il ruolo di direttore del «Centro Ecumenico di Spiritualità Resurrection Garden» fino alla morte, avvenuta il 18/11/2015, rivelandosi non solo un raffinato costruttore, ma un uomo di grande spiritualità con una particolare attenzione ai poveri, come ben sanno gli oltre 400 bambini di cui seguiva attentamente il progresso grazie al sostegno a distanza degli amici del Grg (Gruppo Ressurrection Garden di Modena).
Vita Santoro, Martina Franca, 16/03/2016
Padre Pierino Schiavinato
Padre Pierino Schiavinato
La mattina di questo Venerdì santo 2016 padre Pierino Schiavinato è andato a far compagnia ai santi. Nato nel 1939 a Montebelluna (Tv), sacerdote nel 1964, laureato in storia ecclesiastica, disciplina che insegna agli studenti di teologia, lavora per un breve periodo in questa rivista agli inizi degli anni ‘70 e poi viene inviato in Kenya, nel Meru, dove rimane fino al 1988 quando è incaricato di iniziare la rivista The Seed, che a fine 1992 consegna, ben avviata, al futuro direttore di MC. Dopo una parentesi prima a Londra, come professore di storia, e poi in Canada per animazione missionaria, rientra in Kenya con il nuovo secolo ed è inviato nella missione di Matheri, sempre nel Meru, dove rimane fino al 2014, quando è trasferito a Mukululu insieme a fratel Argese. Un’improvvisa malattia lo costringe a rientrare in Italia, dove, nonostante le lunghe cure, conclude la sua bella battaglia proprio nel giorno in cui il ricordo dell’Annunciazione del Signore e quello della sua morte coincidono.
Con noi lo piangono gli amici della Avi (Associazione Volontariato Insieme), di Montebelluna che tanto hanno collaborato con lui nell’amata terra del Meru.
Perdonino i lettori questo commento, ma alcuni parenti di missionari e anche miei confratelli hanno chiesto perché pubblichiamo la notizia della morte di alcuni confratelli e non di altri. Come regola pubblichiamo quello che i lettori ci mandano; raramente ne diamo la notizia noi stessi, come nel caso di padre Schiavinato, che ha avuto direttamente a che fare con questa rivista. Non vogliamo discriminare nessuno, ma in questi anni l’Istituto sta crescendo in Paradiso al ritmo di una ventina all’anno: 26 (2013), 18 (2014) e 20 (2015). I loro profili e i ricordi sono pubblicati in una nostra pubblicazione intea e, in forma ridotta, su «Famiglia IMC», la piccola rivista trimestrale per parenti e amici. Se qualcuno ha piacere di ricordare qualche nostro missionario su queste pagine, sappia di essere sempre benvenuto.
Clericus Cup
Il Seminario teologico internazionale IMC di Bravetta ha partecipato al mondiale di calcio pontificio. La Clericus cup è un campionato di calcio per sacerdoti, religiosi e seminaristi che studiano nelle università pontificie di Roma, promosso dal Centro Sportivo Italiano, dalla Conferenza episcopale italiana e dai Pontifici Consigli per i Laici e della Cultura. La Clericus cup è stata iniziata nel 2007 con l’obbiettivo di fare entrare lo sport nell’esperienza della vita sacerdotale, religiosa.
Nel 2016, anno della misericordia promulgato da Papa Francesco, si sta realizzando la decima edizione della coppa, che dura da febbraio fino a maggio, con il motto «la misericordia scende in campo» stampato sulle maglie.
Il Seminario teologico internazionale di Bravetta ha partecipato per la prima volta. Il campionato è un bel momento di fratellanza religiosa e di interscambio tra i vari istituti e congregazioni. Oltre alla nostra, hanno partecipato le squadre dei monaci Benedettini, del Collegio Nord-americano, degli Agostiniani e del Collegio Urbano che da due anni consecutivi è il vincitore della coppa. È stata una bella esperienza, anche se dopo una prima vittoria abbiamo subito due sconfitte consecutive e siamo stati eliminati. Ma ci stiamo già preparando all’edizione del 2017.
Eugenio Bento Cristovao Bravetta, 14/03/2016
Lettere aprile 2016
Ancora sull’Ucraina
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Da un po’ di tempo seguo con interesse la vostra rivista apprezzandola, ma dopo la lettura dell’articolo «Kiev non parla russo» del dicembre 2015 non posso fare a meno di scrivervi. Ben inteso, non ne contesto i contenuti, ritengo che quanto scritto sia plausibile e vero, ma la totale faziosità a senso unico contro la Russia mi ha sorpreso. Mi vengono spontanei quesiti e riflessioni che provo a riportare qui.
Nell’articolo si dice riguardo la Crimea: colpo di mano militare russo; «omini verdi»; Anna che scappa in Italia; le spiagge vuote. L’autodeterminazione dei popoli vale solo quando fa comodo (Kosovo)? Quando non fa comodo vale l’inviolabilità dei confini? L’84,2% della popolazione che ha votato sì (come riportato dall’articolo) non vuole dire niente? Magari citare anche gli altri referendum ivi tenutisi negli anni precedenti aiuterebbe a descrivere meglio il quadro della zona. Una intervista, una, a qualcuno favorevole alla Crimea in Russia proprio non era possibile? Riguardo ai poveri perseguitati tatari: chi ha sabotato i pali dell’alta tensione in Ucraina al fine di lasciare senza luce gli abitanti della Crimea? Come mai l’articolo non cita che la Russia ha riconosciuto agli italiani di Crimea lo status di minoranza deportata e perseguitata, cosa che in venti anni di Ucraina mai era avvenuto.
Venendo al Donbass: Natalia e Aleksandr sono scappati da Donetsk, volevano Donetsk in Ucraina, non ne facevano segreto, lui imprigionato e picchiato. Intervistare i miliziani Dnr-Lnr rilasciati dall’Ucraina dopo scambio di prigionieri? Non sia mai vero. I profughi che scappano dalla Crimea e dal Donbass per essere salvi in Ucraina cita l’articolo. Di quelli che invece scappano in Russia non c’è traccia, e dire che sono circa un milione. Strano che l’articolo citi che il 2 maggio 2013 ad Odessa siano bruciati vivi 48 manifestanti filorussi nel rogo della Casa dei sindacati. Chi ha appiccato il rogo con la complicità della polizia però non è scritto, come anche che quelli che si salvavano dalle fiamme poi venivano picchiati, ma già, i filorussi sono cattivi mentre i filoucraini bravi. Qualche accenno ai battaglioni neo-nazi Azov ed Aidar?
Non è tutto bianco o tutto nero, la situazione in Ucraina è ben più complessa, riportando solo una parte dei fatti si può benissimo dire la verità ma si distorce la realtà a proprio uso e consumo.
Mi sono preso la briga di andare a vedere cos’è Obc. Dal loro sito Inteet: «Osservatorio Balcani e Caucaso (Obc) è un think tank che si occupa di Sud-Est Europa, Turchia e Caucaso ed esplora le trasformazioni sociali, politiche e culturali di sei paesi membri dell’Unione Europea (Ue), di sette paesi che partecipano al processo di allargamento europeo e di buona parte dell’Europa post-sovietica coinvolta nella politica europea di vicinato». Ed inoltre: «Obc ha un accordo di partenariato con il Parlamento europeo e realizza progetti co-finanziati dal Ministero degli Affari Esteri italiano, dall’Unione Europea, da fondazioni private ed enti pubblici e privati italiani ed europei». Appunto un think tank: sono di parte e sono finanziati dalla Ue. Lo scopo è orientare, cosa che nel pezzo gli è riuscita benissimo. Saluti.
Luca Medico 22/01/2016
Cari missionari,
dopo aver letto l’articolo sull’Ucraina del numero di dicembre ho deciso di scrivervi. Infatti dopo quelli da me apprezzati sulla Transnistria, la Cecenia, la Bielorussia, la Turchia (e gli altri) mi è apparsa chiara la faziosità del taglio giornalistico. Ciò è sicuramente da attribuire all’Osservatorio Balcani e Caucaso che, dopo breve ricerca in rete, mi è apparsa in modo lampante una associazione con obiettivi chiari e tutt’altro che neutrali. […] La questione ucraina infatti è ben più complessa di ciò che l’autore voglia far credere. Non dico che i fatti raccontati non siano veri, ma sicuramente è stata raccontata la verità a meta distorcendo quindi la percezione del lettore. D’altra parte l’Obc è un think tank e quindi persegue esattamente questo obiettivo, per carità legittimo, ma il lettore di MC è abituato ad altra qualità e aspettativa. Dall’articolo sembrerebbe che, da un lato, ci siano gli ucraini desiderosi di scrollarsi di dosso una tutela russa che non è più accettata e, dall’altro, i russi/russofoni, naturalmente corrotti e militareschi, che ciecamente frenano un legittimo interese ucraino. Purtroppo la situazione è molto più complessa ed è da ingenui pensare che una nazione come quella russa si facesse sottrarre una zona strategica come la Crimea dove ha sede la sua base navale. La verità è che la corruzione c’è anche sull’altro fronte, per non parlare delle forze militaresche che sostengono il governo di Kiev e che la Comunità europea, sedicente esportatrice di valori (quali?), non ha esitato a sostenere dando loro il nome di forze moderate, espressione con la quale si identificano semplicemente gli amici che fanno gli interessi degli occidentali che non in pochi casi sono quelli della Nato, purtroppo.
Insomma, non voglio dire che sia tutto sbagliato ciò che produce quell’osservatorio, ma varrebbe la pena dare voce anche all’altra campana che a mio parere ha anche buone ragioni.
Andrea Sari 27/01/2016
Accogliamo le critiche all’articolo sull’Ucraina, ma non concordiamo con quelle fatte all’Obc. Ricevere finanziamenti dall’Unione europea non significa diventae i lacchè. La collaborazione tra questa rivista e l’Obc è stata finora eccellente e gli articoli che ci ha offerto su molti paesi e situazioni difficili sono stati di ottima qualità. Per questo li ringraziamo e continueremo a pubblicare i loro servizi su una parte di mondo così vicina a noi eppure così sconosciuta.
Sacerdoti amici dell’Allamano
Caro Direttore,
un caro saluto a te e a tutti i missionari della Consolata e auguri per la «nostra» rivista missionaria.
Vorrei fare un appello a te, ai tuoi superiori e ai sacerdoti diocesani. Mi piacerebbe che tanti sacerdoti approfondissero il carisma e la spiritualità «sacerdotale e missionaria» del Beato G. Allamano e che, se possibile, nascesse un gruppo di sacerdoti «amici dell’Allamano» che si impegnino a conoscere, vivere far conoscere ad altri, sacerdoti e non, il suo carisma.
La mia speranza è che si possa fare un primo incontro a Roma, nella vostra casa generalizia, il giorno 3 giugno p.v., nel pomeriggio, in occasione del giubileo dei sacerdoti. Grazie
don Vincenzo Mazzotta 21/02/2016
Don Vincenzo, i migliori auguri per questa bella iniziativa. I sacerdoti che fossero interessati possono contattare don Vincenzo a questo email: vincenzomazzotta13@gmail.com
Meno copie non è risparmio
Desidero non ricevere più la vostra rivista in cartaceo perché vi faccio spendere del denaro che può essere utilizzato diversamente da voi. Se volete potete inviarmela in email. Un saluto e un augurio per la vostra opera missionaria.
lettrice da Bologna 7/02/2016
Metto in evidenza questa email per sottolineare alcuni punti importanti per la vita di una pubblicazione come la nostra, visto che la signora non è la prima a motivare la sua disdetta del cartaceo con il «risparmio» che potremmo fare.
Preciso anzitutto che la stampa e la spedizione della rivista (stampiamo circa 50mila copie, la metà di quanto stampavamo negli anni ’60) «mangiano» circa il 40% delle spese totali. L’altro 60% va nella gestione (attrezzature, luce, riscaldamento, archivio, Inteet, ecc.) e nei salari e compensi a giornalisti e collaboratori.
Il costo di stampa e spedizione per mille copie in più o in meno è irrilevante, mentre invece ogni volta che perdiamo un lettore/amico del cartaceo, aumenta il carico di spesa su ogni singola copia. Più lettori sul web dovrebbero compensare la perdita dei lettori del cartaceo, ma le statistiche mostrano che il lettore web ama le cose gratuite; mentre il lettore del cartaceo è più cosciente di dover aiutare anche economicamente.
In realtà, per ora, l’unica maniera per risparmiare è quella di aumentare il numero di coloro che ricevono la rivista cartacea! Più sono le copie diffuse, più il costo globale per copia diminuisce.
Fine dell’Europa?
Gentile direttore,
con sorpresa ho letto l’intervista al prof. Bruno Amoroso, riportata da Missioni Consolata nel suo numero 1/2, 2016, sull’Unione Europea e sull’euro, dei quali viene decretata la fine, liquidati come fenomeni temporanei della storia.
I motivi per criticare il «governo» dell’Unione e per auspicarne un cambiamento, sono vari e disparati e trovano fondamento nella situazione di crisi evidente dell’idea di integrazione europea, ma il nostro professore dovrebbe chiedersi come mai i cittadini, di fronte a tale situazione (sono parole sue), «preferiscano non crederci perché si troverebbero di fronte a un vuoto di speranza al quale non vogliono credere». Probabilmente avvertono, come il sottoscritto, che il progetto di integrazione europea per il quale si impegnarono figure come Schumann, De Gasperi, Adenauer (spero che il Prof. Amoroso non consideri anche loro agenti della Triade, come Delors e Prodi, probabilmente) è stato un progetto di pace per superare una situazione nella quale i nazionalismi avevano ridotto l’Europa a un cumulo di rovine, un progetto per il quale vale ancora la pena battersi e sperare. Gli stessi nazionalismi che sembrano riemergere nel momento storico che stiamo vivendo, con il rischio che ognuno si ritiri nei suoi limiti, che ritornino le frontiere, le barriere, i muri… come abbiamo già potuto constatare con il problema profughi.
Preferirei leggere, specie su riviste come MC, una lettura della situazione che pur non nascondendo le difficoltà, non trascuri i motivi di speranza perché l’integrazione europea vada avanti, superi la presente crisi, si realizzi soprattutto a livello di valori, come avevano previsto i suoi fondatori. Ritengo che le idee del prof. Amoroso siano esattamente l’opposto perché privi di qualsiasi prospettiva e incapaci di dare speranza, a parte i soliti slogan e la fiducia che «l’uscita sarebbe un gesto virtuoso (!) per seguitare a governare in modo negoziale e sensato processi che, quando si manifestano in modo spontaneo e disordinato, producono danni dolorosi». Ovviamente il prof. Amoroso può pensarla come vuole, ma, anche se al fondo di pag. 4 è scritto che gli articoli pubblicati non riflettono «necessariamente» l’opinione dell’editore, mi farebbe piacere sapere se nel caso specifico lo sono o meno, considerata l’importanza degli argomenti trattati: implosione dell’UE, data per certa, e uscita dall’euro, auspicata.
Con i miei migliori saluti.
Walter Cavallini Torino, 21/01/2016
Chiamato in causa, mi permetto una breve risposta. L’editore, che come direttore editoriale rappresento, non ha nessuna ragione per volere il dissolvimento dell’Unione Europea, ma accoglie positivamente le provocazioni del prof. Amoroso come contributo a un dibattito serio su molti aspetti discutibili e problematici che affliggono detta Ue in questi anni. Si vedano, ad esempio, tutte le contraddizioni attuali sui migranti e profughi, l’atteggiamento ambiguo con l’Ucraina, la moltiplicazione di regolamenti e norme comunitarie imposti sopra la testa di nazioni e cittadini, la mancanza di trasparenza nelle negoziazioni dei tratti economici inteazionali, come il Ttip…
Migranti e navi da crociera
Sul numero 1/2 2016 vi è una lettera con il titolo in oggetto, a firma Luciano Montenigri del 31/10/2015, nella quale si propone di usare le navi da crociera di lusso per andare a prendere coloro che soffrono e portarli senza rischi qui da noi. Ora io mi chiedo perché tutti questi buonisti siano buoni con mezzi altrui e non personalmente: al ricco fariseo che chiese al Signore cosa doveva fare per meritare la benevolenza di Dio dato che lui si comportava bene, rispettava il prossimo, seguiva tutti precetti religiosi, ecc., Gesù disse: vendi tutto, regala il ricavato ai poveri e seguimi. Non disse di dare ai poveri i beni altrui (navi da crociera) e di non far niente (salvo farsi belli a scrivere), ma di seguirlo senza niente. Ora perché i buonisti dicono sempre cosa gli altri devono fare ma non incominciano loro a dare l’esempio ospitando in casa loro qualche profugo? Mi viene in mente una barzelletta che compariva su Candido negli anni ‘50: a un operaio veniva detto, «Se tu vincessi 100 milioni cosa faresti? Metà a me e metà al partito. Se ti regalassero due automobili? Certo una a me ed una al partito. E se ti regalassero due biciclette? E no. Le due biciclette le ho e le tengo tutte e due per me». Ora se si tratta di accogliere i migranti in strutture pubbliche e private di altri è giusto farlo, ma a casa mia non c’è posto. Mi pare che il nostro attuale Papa abbia invitato tutti i religiosi ad ospitare nelle dimore ecclesiastiche vuote i migranti, ma finora non ho ancora sentito quale istituzione religiosa ha dichiarato di avere locali inutilizzati. Conosco una comunità religiosa di 4-5 religiosi che vivono in ambienti ove si può ricoverare non uno ma ben due reggimenti di soldati, ma finora nessun migrante è ancora stato accolto. Però come è bello fare i buonisti e non i realisti. Con osservanza.
Cesare Verdi Riva presso Chieri, 24/01/2016
Caro Sig. Cesare,
più che legittimo il suo sfogo contro chi parla e non fa. Ma, a parte il fatto che non sappiamo se il sig. Montenigri non faccia nulla, il rischio è di fare di ogni erba un fascio. Ad esempio, la Chiesa italiana è impegnata in prima linea nell’accoglienza con la sua rete capillare di Caritas e Fondazione Migrantes, sia a livello diocesano che parrocchiale, oltre che con i molti centri di accoglienza e servizi vari gestiti da religiosi e religiose di tutti i tipi. Sono decine di migliaia i migranti (e non) che beneficiano di mense, dormitori, appartamenti, centri di assistenza legale e sanitaria, scuole, e quant’altro è necessario. Possiamo dirlo: la Chiesa italiana (e non parlo solo dei vescovi, ma di tutti, semplici cristiani e religiosi compresi) non si riempie la bocca di solo buonismo.
è vero che ci sono centinaia di case religiose vuote o semivuote, ma moltissime di queste stesse case/casermoni non hanno i requisiti minimi per un’accoglienza a norma di legge, essendo praticamente abbandonate da anni, e di fatto invendibili, come lo sono tante caserme dismesse che nessuno vuole. L’idea delle navi da crocera sembrava più una provocazione che una proposta, ma se c’è chi rischia di fare il «buonista», non cadiamo nell’opposto pseudo realismo arroccato e populista.
Volontari per il Catrimani
Padre Corrado Dalmonego, missionario della Consolata al Catrimani, ha scritto agli amici del Co.Ro. (Comitato Roraima), che hanno a loro volta rilanciato.
«In verità la gestione delle strutture è molto pesante e avrei proprio bisogno di qualcuno (un volontario, un laico missionario o una coppia, magari qualcuno già pensionato ma ancora con forza e buona volontà) che ci aiutasse. Il tempo che devo dedicare ai lavori manuali è un tempo che tolgo da altri lavori che sarebbe molto importante portare avanti. Questi altri lavori fanno parte del nostro specifico, come l’accompagnamento delle scuole, l’incontro con le persone, il dialogo interreligioso e la formazione in generale. E possiamo portarli avanti noi poiché conosciamo la lingua indigena… ma ci manca proprio qualcuno che si occupasse delle questioni più pratiche. Viviamo in una missione nella foresta, foiamo acqua e energia al posto di salute (ambulatorio), abbiamo strutture che ci permettono una vita abbastanza sicura e salubre quando siamo alla missione, e con le quali possiamo realizzare una serie di attività, come corsi e incontri, che sono invidiate da altre organizzazioni, ma tutto questo esige un grande sforzo. Da parte mia sono alla ricerca di volontari e laici missionari con un profilo adeguato a questa realtà. Qui in Brasile è molto difficile, ma chissà?!».
Co.Ro.
Chi fosse interessato può scrivere al dottor Miglietta, responsabile del Co.Ro.: migliettacarlo@gmail.com oppure al nostro indirizzo, e provvederemo a recapitare l’email agli interessati.
L’Umanità in gioco
Toa il festival di antropologia del contemporaneo promosso dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Pistornia e Pescia e dal Comune di Pistornia, ideato e diretto da Giulia Cogoli. Tre giornate con circa 25 appuntamenti tra incontri, spettacoli, conferenze e dialoghi, che animeranno – con un linguaggio come sempre accessibile a tutti – il centro storico di Pistornia.
Filo conduttore della settima edizione sarà: «L’umanità in gioco». «Ogni epoca e ogni civiltà hanno giocato e giocheranno, perché il gioco fa parte dell’essere umano, non è solo prova di sé, ma anche di fantasia, di immaginazione, e allo stesso tempo di regole, rischio e azzardo. Il gioco è più antico della cultura, il mondo animale lo testimonia, vogliamo quindi raccontare attraverso la voce di grandi antropologi, filosofi, psicanalisti, studiosi italiani e stranieri questo tema così centrale della nostra esistenza, da quando nasciamo e giochiamo istintivamente a quando, maturi, giochiamo in borsa, su un campo da calcio, oppure online», spiega Giulia Cogoli.
Appositamente per i Dialoghi, Ferdinando Scianna realizzerà la mostra fotografica personale «In gioco», ispirata al tema del festival, che si terrà dal 27 maggio al 3 luglio presso le sale affrescate del Palazzo Comunale di Pistornia. Per informazioni: www.dialoghisulluomo.it – Ufficio stampa Delos: delos@delosrp.it.
Cari missionari
Messe senza gioia
Carissimi Missionari e lettori della rivista,
il recente viaggio in Africa di papa Francesco ha risvegliato in me ricordi bellissimi. Ho avuto la fortuna, quasi vent’anni fa, di condividere due mesi della mia vita con padre Aldo Vettori (1931-2008), nella sua missione di Morijo, in Kenya. Le immagini trasmesse in tv mostravano un popolo in festa: i canti e i balli coinvolgevano tutti, la gente comune, ma anche i preti e le suore! Lo stesso spirito di gioia e di partecipazione che mi coinvolgeva durante le messe di padre Aldo. È da qui che nasce la mia provocazione: perché da noi, in Italia invece, a parte rari casi, la messa è pervasa da un clima mesto e austero? Sono solo io (e la mia misera fede) a percepire questo clima che di giornioso ha veramente poco? Come pensa la Chiesa di attirare i fedeli o di convertie di nuovi? Poi ci stupiamo e ci rammarichiamo se i giovani la domenica non vanno a messa ma preferiscono l’aperitivo con gli amici, il cinema, lo stadio, o programmi televisivi che di edificante hanno poco o niente. Scusate se le mie parole sono state un po’ forti. Vorrei tanto una vostra opinione, e se lo ritenete, anche quella dei lettori. A voi tutta la mia sincera stima.
Paolo Moreschi, Torino, 18/12/2015
Una delle tristezze più grandi che ho provato tornando in Italia, ormai ben sei anni fa, è stata quella di sentirmi dire, prima di una messa domenicale: «Sii corto. Qui mezz’ora di messa è già lunga». Venendo da un paese africano dove una messa domenicale di un’ora era considerata troppo corta, una richiesta così mi aveva lasciato senza parole. Il vangelo delle nozze di Cana, ascoltato la seconda domenica del tempo ordinario a metà gennaio, racconta di una festa di nozze senza gioia perché era venuto a mancare il vino, e il responsabile della festa manco se n’era accorto. È la parabola di una religione che ha perso la sua freschezza, che ha dimenticato la vivacità del primo amore e si è fossilizzata in ritualismi formali dell’obbligo: «Fare il precetto, prendere / non perdere / ascoltare la messa». Una religione che un tempo arrivava a discutere su quale fosse il momento dal quale fosse «valida» la messa: dall’inizio? dal Vangelo? da dopo la predica? Mentalità del passato, si dirà, ma dura a morire, nonostante il grande sforzo della riforma liturgica promossa dal Concilio Vaticano II.
«Come pensa la Chiesa di attirare i fedeli o di convertie di nuovi?», chiede Paolo. Non basta certo l’entusiasmo del solo sacerdote per rendere viva una messa, e non è neppure il ritorno al barocchismo della liturgia tridentina che può restituire la gioia alle celebrazioni delle nostre comunità destinate a essere sempre più senza eucarestia domenicale a causa della mancanza di preti. La questione di fondo è: cosa intendiamo per Chiesa? Se s’intendono i preti, allora davvero caschiamo male. Nel giro di dieci anni quasi tutte le diocesi italiane (eccetto forse quelle del Sud) avranno perso circa la metà del loro clero, e i sacerdoti, sempre più anziani, gireranno come trottole per garantire almeno una messa domenicale alle molte parrocchie che serviranno.
È urgente convertirsi e pensare «chiesa» in un modo diverso: io, tu, noi, insieme, corresponsabili, tutti attori, tutti membri vivi e attivi della stessa famiglia, tutti «concelebranti», superando il binomio attore – spettatori. Solo allora la messa diventerà quello che è di natura sua, un banchetto nunziale.
Questo è il mio commento ai pensieri di Paolo, voi che ne dite?
Sri lanka
Sono contento che abbiate dedicato un reportage allo Sri Lanka (MC n.12/15), sarei stato ancora più contento se qualche parola fosse stata dedicata ai Vedda, minoranza etnica a serissimo rischio di estinzione. Da secoli contro i Vedda viene combattuta una guerra silenziosa, subdola, una guerra fatta con le armi convenzionali, ma ancora di più con le motoseghe, con i bulldozer, con la trasformazione di splendide foreste in piantagioni di tè, di riso, di palma e di altre monocolture che sono la gioia delle multinazionali.
Speriamo che la lettura dell’Enciclica Laudato si’ stimoli almeno i cristiani dello Sri Lanka ad impegnarsi di più per salvare, insieme agli ambienti naturali, anche il piccolo popolo dei Vedda. Speriamo che chi ha rappresentato lo Sri Lanka all’ultimo summit sul clima, abbia usato la sua autorevolezza per proteggere gli ultimi aborigeni, e il loro non trascurabile patrimonio culturale, da ulteriori abusi. A guadagnarci sarà il mondo intero.
Domenico Di Roberto 16/12/2015
Ucraina
Egregio direttore,
mi scuso se vi scrivo ma vorrei rispondere ad alcune inesattezze che il sig. Elia scrive nell’articolo «Kiev non parla russo» (MC 12/2015 p. 51). Mi permetto di farlo in quanto mia moglie è russa, e io, dai primissimi anni Novanta, ho vissuto e frequento quei luoghi. Anzi ero proprio là quando l’Ucraina e altre ex repubbliche sovietiche presero l’autonomia, come pure durante tutto il periodo della guerra cecena. L’articolo, dopo aver detto giustamente a inizio di pag. 52, «La rada, il parlamento, rimase per più di due decenni (20 anni…) prigioniera di una classe politica corrotta fino al midollo controllata da un pugno di oligarchi (ancora oggi metà del Pil è nelle mani dei 50 uomini più ricchi del paese)», prosegue usando la solita propaganda anti russa, omettendo che i pravy sektor sono fanatici ucraini, molti dei quali girano col «Mein kampf» di Hitler in tasca, e che furono gli ucraini a bombardare scuole, ospedali e case nel Donbass. Migliaia di famiglie russe sono fuggite perdendo tutto. Il bel governo ucraino non ammetteva neanche l’uso della lingua russa in nessun organo di stato né nelle scuole a super maggioranza russa, etc. I bei democratici americani, l’Occidente, pagano, corrompono e ricattano da anni i politici di Kiev. Gli Usa possono bombardare inermi feste familiari, appoggiare dittatori feroci come quelli che uccisero il grande mons. Romero, spiare gli alleati europei, etc. e va tutto bene, Putin invece è cattivo, non è democratico e non è simpatico come l’attore Obama, che vende armi all’Arabia Saudita per circa 10 miliardi di dollari all’anno… Prima di affrontare eventi complessi come quelli dell’ex Unione Sovietica, bisognerebbe aver vissuto là, ed essere persone libere di mente e di cuore. Come leggiamo spesso nella bella rivista MC. Tanti saluti
Alfio Tassinari 04/12/2015
Grazie dell’intervento. In realtà avevamo pubblicato con una certa riluttanza l’articolo in questione, che purtroppo riflette l’effettiva difficoltà di scrivere con obiettività su una realtà così complessa come quella dell’Ucraina.
Quando troppo è troppo
Gentili signori,
da tempo ricevo la vostra rivista. Da tempo, precisamente dopo l’articolo da voi pubblicato sul Venezuela di Chávez, non la apro neanche. Sono nata in Venezuela e sentire che Chávez è paragonato a Gesù è un po’ troppo. Oggi, invece, l’ho sfogliata (forse per lo spirito natalizio) e ho trovato un articolo firmato da Minà dove chiama «grande vecchio» quel mostro di Castro. Un giorno troveremo scritto che Mugabe è san Pietro. Allora io la vostra rivista non la voglio. Le suore della mia scuola a Caracas erano povere religiose cacciate dal regime dei Castro e conosco tante persone che hanno dovuto lasciare Cuba per sempre. Oggi un milione di venezuelani hanno lasciato il Venezuela caduto in mano ai narcoincompetenti. Vi prego di cancellarmi dalla vostra lista di spedizione. Grazie,
Patricia Schiavoni
03/12/2015
Dossier Concilio
Carissimo Gigi,
auguroni per il meraviglioso «A cinquant’anni dalla fine del Concilio Vaticano II» dei nostri missionari Antonio, Gaetano e Diamantino. In modo speciale quello di Antonio. E per il tuo editoriale: «Ho solo queste braccia e il bene che ti voglio». Auguri a te e a tutti i collaboratori della Rivista.
Pietro Parcelli 14/12/2015
Ricordando padre Franco
Pensavo che scrivere un pensiero su p. Franco, fosse facilissimo, eppure quando mi sono seduto e ho preso la penna in mano, mi sono trovato in difficoltà. Sono nato e cresciuto con Franco: da piccoli andavamo a giocare in località Stropei insieme a don Mario Sartori. Ci divertivamo con giochi semplici come semplice è sempre stata la vita di Franco, vita donata agli ultimi (certamente era sulla stessa linea di Papa Francesco). Sì, Franco viveva per gli ultimi, per coloro che vivono senza speranza: lui era sempre lì attento alle necessità di tutti quelli che incontrava sulla sua strada.
Ricordo l’ultima volta che è venuto a Spoleto nel giugno 2014. Fu invitato a parlare a un gruppo parrocchiale: anche se già malato, con un filo di voce, volle incontrare i ragazzi e motivarli a collaborare con entusiasmo per la missione di Wamba. Andammo a cena in una trattoria nei dintorni di Spoleto: i proprietari del locale rimasero colpiti dalla testimonianza molto toccante di p. Franco. Quanto bene hai fatto! Grazie Franco, ci manchi… Grazie per tutto quello che hai realizzato e per come sei vissuto… sono certo che oggi ci sei più presente di prima.
Quanto ci manchi! La tua «assenza fisica» pesa tantissimo, anzitutto per i tuoi parenti, ma anche per tutti gli amici che ti hanno conosciuto, apprezzato e amato; pesa per tutte le persone che hai saputo consolare con «il balsamo della consolazione che viene dall’Alto»; sì, tu sapevi trovare le parole giuste per ognuno, sapevi «piangere con chi piange e giornire con chi è nella gioia».
Quante lacrime hai asciugato, quanto conforto hai saputo offrire, quanto amore concreto hai donato ai moltissimi bisognosi (bisogno di pane, medicine, cure mediche, acqua, ecc.). Sapevi farti «tutto a tutti» come dice s. Paolo. Sei stato veramente pane spezzato per sfamare qualsiasi persona attanagliata dalla povertà. Sei stato il «vero samaritano» per i tanti feriti dalla vita e costretti a portare il peso dell’ingiustizia e dell’indifferenza. Chi colmerà il vuoto della tua assenza?
Anna e Tiziano Basso Spoleto, 28/12/2015
Ricordando Padre Vito Dominici
L’11 dicembre scorso a Nairobi, Kenya, ha terminato la sua vita terrena padre Vito Dominici, missionario della Consolata. La sua lunga vita è stata veramente un esempio di bontà ed altruismo. Era nato a Romallo (Tn) il 30.11.1927 e a 14 anni entrò nella Casa della Consolata della Madonna del Monte a Rovereto. Fu ordinato sacerdote dal Cardinal Fossati a Torino il 20 giugno 1954 e celebrò la sua prima Messa a Romallo il 4 luglio 1954. Dopo vari incarichi in Italia e un periodo trascorso in Inghilterra a imparare l’inglese, fu inviato in Kenya nel 1959, 56 anni trascorsi in Kenya non sono pochi! La sua ultima Missione è stata a Mujwa distretto di Meru.
Intervistato da Vita Trentina sei anni fa così rispondeva. «Il mio primo impatto non è stato facile. All’inizio avevo quasi voglia di andarmene ma poi, con il passare del tempo, mi sono abituato e ho trovato la mia collocazione nella loro società. I momenti più belli li ho vissuti nel vedere tanti africani seguire le lezioni di catechismo ed accostarsi ai sacramenti. Ora mi sento uno di loro!». Ogni quattro anni tornava in Italia e veniva a trovare i suoi famigliari, i suoi tanti benefattori e amici, ai quali lo legava una fitta e costante corrispondenza, per esempio il gruppo missionario di Romallo, sempre sollecito ad aiutarlo finanziariamente nelle sue opere di bene e costruzioni di varie chiese.
Quest’anno era ritornato in Italia a causa della salute malferma. I suoi superiori avevano prenotato solo il viaggio di rientro in Italia. P. Vito di ciò era preoccupato, la sua patria era l’Africa e si sentiva un vero africano. Nel novembre scorso, accompagnato da sua nipote, era venuto a Castelfondo e Romallo, proveniente dalla Casa Madre della Consolata di Torino. A Romallo aveva celebrato la S. Messa seguita da un incontro significativo con il gruppo missionario. Nel corso dell’incontro p. Vito ha ribadito più volte il suo desiderio di tornare «a casa sua, tra la sua gente». Il 19 novembre scorso, con l’autorizzazione dei suoi superiori, era partito da solo, a 88 anni, dall’aeroporto di Torino, con scalo Istanbul ed arrivo a Nairobi. Aveva successivamente inviato un messaggio «sono arrivato a casa mia, sto bene», ma ai primi di dicembre la sua tempra, seppure forte, ha ceduto per un edema polmonare nell’ospedale di Nairobi.
Iddio aveva esaudito il suo desiderio «morire fra la sua gente». A Romallo domenica 18 dicembre è stato ricordato con una Santa Messa concelebrata dal parroco don Mario e don Enzo Lucchi, suo intimo amico da una vita.
Nei suoi ultimi scritti affermava: «Una cosa è certa, che non vi dimenticherò mai nelle mie preghiere e anche il bene che mi avete fatto e voluto, rimarrà sempre fisso nella mia mente fino all’ultimo respiro e oltre».
Chi ha conosciuto p. Vito ne serberà certamente un gran ricordo, era mite ma coraggioso e caparbio nell’intraprendere e portare a termine i suoi programmi, sempre a favore dei più bisognosi in terra di missione.
Clauser Renato Romallo, 26/12/2015
Cari missionari
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L’Hotel a 5 stelle
Svuoto la cassetta della posta dove, con altra corrispondenza (perlopiù bollette da pagare), c’è Missioni di Novembre. Mentre mi dirigo verso l’ascensore, tolgo alla rivista la protezione di plastica. Un brusco movimento e, per salvare l’altra corrispondenza, la rivista scivola a terra. Quasi fosse comandata da una sapiente mano, resta aperta a pagina sette mostrando un sorriso che ben conosco e che mi riporta indietro di 13 anni. A marzo 2002. Un sorriso aperto, sincero, non di facciata, non di sola cortesia. Uno di quei sorrisi, accompagnati spesso da sonore risate, che ti conciliano col mondo. Che ti fanno apprezzare la vita. Che ti fanno capire la bellezza di viverla, nonostante una parte d’umanità faccia di tutto per fare emergere il contrario. Padre Franco, che ebbi la grande fortuna di conoscere a Nairobi. Una delle figure più positive e coinvolgenti, pur nella sua semplicità priva di ogni ostentazione, che io abbia conosciuto nel mio lungo peregrinare in terre di Missione e non solo. Al mio ritorno, scrissi un articolo Hotel a 5 stelle che pubblicaste nel 2002 sia su Amico, a luglio, che MC, a ottobre. Conservo ancora gelosamente quelle pagine in suo ricordo.
La notizia della sua scomparsa mi ha sferrato un secondo potente pugno allo stomaco, dopo quello della morte di mio fratello avvenuta 5 giorni prima. Non ero al corrente della sua malattia. Avevo malauguratamente perso i contatti dopo che, per un problema di virus al suo computer, aveva pregato di astenersi dall’inviare e-mail per un certo periodo. Il suo ricordo rimarrà comunque sempre ben custodito nel mio cuore accanto alle persone più care della mia non brevissima vita.
Mario Beltrami – Sesto San Giovanni (MI), 19/11/2015
Uomini di poco conto
Caro Padre Gigi,
quando sono riuscita a leggere l’editoriale dello scorso giugno, sono rimasta colpita dalle parole di Giorgio Torelli: Se molti uomini di poco conto, in molti posti di poco conto, facessero cose di poco conto, allora il mondo potrebbe cambiare. Non posso che concordare con tale pensiero e credo, anche se probabilmente sarebbero altri a doverlo dire, di agire in tal modo nei contesti in cui sono impegnata. C’è tuttavia da considerare che, proprio perché mi sembra di avere assunto il ruolo di chi è di «poco conto» da molti anni, spesso gli eventi, le decisioni, i cambiamenti, e non parlo dei riconoscimenti che non costituiscono un obiettivo pur facendo piacere, avvengano spesso secondo logiche del tutto impreviste e non rispondano a criteri di prudenza, ragionevolezza, ponderazione, discernimento, bensì a criteri di brillantezza nell’esposizione, immagine vincente, forza nella relazione interpersonale, prevaricazione nell’azione. Più volte mi è capitato, infatti, di constatare che, pur avendo capito quale fosse il comportamento più funzionale da seguire, in ambito lavorativo in particolare, per modificare in meglio una situazione, gli eventi abbiano poi risposto a ben altre «non scelte», ossia a dinamiche attivate da forme di «astuzie» ben mascherate, a vantaggio non di tutti bensì solo di qualcuno, se non di uno. Tutto ciò non inficia la convinzione citata in precedenza, ma induce a pensare che per affermare la giustizia da parte di chi è di poco conto, in posti di poco conto e tramite cose di poco conto, occorrano non solo le virtù ma anche il riconoscimento e la tutela delle intenzioni e dei comportamenti virtuosi, ossia strumenti che, pur in modo poco visibile, impediscano ai criteri poco razionali, come l’interesse personale, di avere la meglio. Sempre riconoscente per le suggestioni.
Milva Capoia – 25/07/2015
La primavera è già iniziata
Caro Direttore,
so di scrivere in ritardo, ma lo voglio fare comunque. È difficile dire se un articolo poteva uscire meglio di un altro, ma alcuni articoli sono insuperabilmente ben riusciti. Oggi mi riferisco all’articolo di ottobre: 2 Istituti 1 Missione. Le foto gridano al sole: diversità e unità, collaborazione e complementarietà, allegria e chiarezza di obbiettivi, Dio fonte di ogni chiamata e fedeltà nella risposta. Coraggio, movimento, fermate, tutto è importante nella missione. L’intervista merita: le domande sono adeguate per rispondere quali sono i sogni dell’Istituto, le difficoltà e il grande privilegio di approssimarsi, come missionari, al mosaico plurietnico e maxi culturale…
In quell’articolo i personaggi sono giovani e «veri». Significa che la primavera già è iniziata e che Dio è fedele. Complimenti Missioni Consolata. Grazie anche per l’articolo di maggio: «La “mia” Irene». Fa bene al cuore ripassare i motivi dei nostri affetti e le conquiste di Dio. Avanti! Con stima,
sr. Leta Botta – Boa Vista, Brasile, 17/11/2015
50 anni speciali
La storia della salvezza vive anche di numeri e 50 non è un numero come gli altri. Auguri quindi, auguri di cuore per il vostro 50° anno nella terra degli Yanomami, e complimenti per il regalo che vi siete fatti e che ci avete fatto, con il dossier su Roraima. Entusiasmante leggere, tra le altre cose, tutte molto interessanti, che «gli Yanomami stanno vivendo una forte crescita demografica…» e che «nella regione del Catrimani 408 persone hanno meno di 14 anni…». Grazie.
Francesco Rondina – 28/10/2015
Navi da crociera
Cari Missionari,
io sarò anche esagerato quando, rispondendo a chi lamenta l’islamizzazione dell’Europa e invoca i «respingimenti non solo in terra ma anche in mare…» («Prima – come dice, tra gli altri, il leader della Lega M. Salvini – bisogna pensare ai disoccupati e agli esodati italiani…»), sostengo che le vittime della guerra, delle persecuzioni e dei trafficanti di uomini andrei a prenderle con le navi da crociera, ma gli eventi di questi ultimi anni mi hanno radicato sempre di più in questa convinzione.
Quando vedo che molti di coloro che annegano sono bambini piccolissimi, quando vedo che dalla Siria arrivano addirittura dei disabili con la sedia a rotelle, quando sento che i conflitti solo in Siria, hanno provocato 250mila morti e 5 milioni di profughi, quando in Croazia, dall’Afghanistan, arriva una donna come Bibihal Mirzaji, 105enne, piena di voglia di vivere e di raggiungere la Svezia, non posso che ribadire ciò che molti dei miei interlocutori si ostinano a giudicare, nella migliore delle ipotesi, come una bizzarra provocazione…
Sì, quelle navi così grandi, così attraenti, così lussuose, così avveniristiche, ma anche così fragili (il Titanic prima e, in tempi molto più recenti, la Costa Concordia, ce lo hanno insegnato e il costo è stato altissimo…) mettiamole al servizio degli ultimi, dei diseredati, degli indifesi, mettiamole al servizio del Bene. Il prossimo «inchino» i comandanti delle città galleggianti lo facciano dinanzi ai profughi siriani, iracheni, afghani e africani…
Pensino ai criteri stabiliti da Gesù nel Vangelo per banchetti e seguiti, un mesetto fa, da quella «mancata suocera» di Sacramento, in Califoia, la quale, invece di piangere per le nozze sfumate della figlia, ignobilmente tradita dal fidanzato, ha giornito e, invece di disdire tutto, ha confermato la prenotazione nel ristorante scelto per il rinfresco, ma la festa l’ha fatta invitando i poveri, gli emarginati, i senzatetto della città. Grazie per l’attenzione
Luciano Montenigri – 31/10/2015
Martirio
Caro Padre Gigi,
nella rivista del novembre scorso hai trattato delle procedure di beatificazione e canonizzazione. Da parte mia vorrei aggiungere che con papa Benedetto XVI il miracolo può essere sostituito dal martirio in odio alla fede, naturalmente comprovato (vale per i singoli martiri come per gruppi di martiri). Anche papa Francesco ha fatto ricorso a questa procedura nel suo pontificato. Merita di essere segnalato questo opportuno aggioamento nella procedura in quanto Missionari della Consolata poiché le testimonianze di martirio dei missionari oggi stesso sono numerose e patrimonio di grande santità nella testimonianza totale alla fede in Gesù. Cari saluti
Anastasio Ferrari – Fidenza, 9/11/2015
Grazie d’averlo ricordato. Non avevo dimenticato questo aspetto, ma nel mio piccolo riassunto avevo dovuto essere più sintetico che mai. Se non sbaglio, il processo iniziato per suor Leonella, come quello per i martiri di Guiua in Mozambico, si avvale proprio di questa clausola.
Novantesimo Anniversario dell’arrivo dei missionari della Consolata in Mozambico
1925: verso la Zambesia. Fratel Benedetto, padre Sandrone, padre Calandri, padre Luigi Perlo e padre Peyrani.
Tra le date che non possiamo dimenticare c’è il 30 ottobre, perché è la data in cui sono arrivati i primi quattro missionari della Consolata in Mozambico, nel 1925. Per grazia di Dio quest’anno 2015 abbiamo celebrato il novantesimo anniversario. Partiti da Torino dopo aver ricevuto il crocifisso dal beato Giuseppe Allamano, i padri Paolo Borello, Lorenzo Sperta, Giovanni Chiomio e il seminarista Secondo Ghiglia, presero i loro mantelli e partirono senza esitazione ma con grande zelo apostolico per amore a Dio. Quando arrivarono in Mozambico, agirono come un agricoltore che semina e ha fiducia che quel che ha seminando germoglierà, crescerà e darà molti frutti. Però loro hanno seminato non grano ma la Parola di Dio nei cuori dei credenti. Il piccolo chicco seminato dai primi quattro missionari, oggi è diventato un grande albero, forte nelle sue radici, nelle sue foglie e nei suoi frutti; un albero che neppure un grande uragano potrebbe abbattere perché il seme è stato piantato in terra fertile nel tempo giusto.
La loro semplicità e presenza in mezzo al popolo diventò, e continua a essere, segno di vicinanza, di amore, e di fiducia. Dalla prima generazione fino a oggi le priorità pastorali dei missionari che lavorano in Mozambico si possono elencare in due gruppi principali:
– L’evangelizzazione: i missionari dal 1928 a oggi hanno fondato ben 39 parrocchie e moltissime cappelle e comunità di preghiera nelle diverse diocesi.
– La promozione umana: innumerevoli le scuole di ogni ordine e grado, le opere sociali, il centro catechistico di Guiua per la formazione dei catechisti delle varie parrocchie, la «Scuola secondaria Padre Eugenio Menegon» e tante altre attività.
In questo novantesimo anniversario, merita ricordare i vari catechisti che collaborarono e continuano a collaborare con i missionari della Consolata, tra cui il catechista Giovanni Cepinenga e i suoi compagni. Fu battezzato in Malawi, ritoò in Mozambico e cominciò a evangelizzare nel suo villaggio. Poi percorse più di 350 km a piedi per andare a cercare i missionari e, quando li trovò, li invitò ad andare a Mecanhelas. I missionari, arrivati a Mecanhelas, ebbero la sorpresa di incontrare tanti cattolici e molti catecumeni, perché loro andavano fino in Malawi per ricevere i sacramenti. Va anche ricordato che la chiesa mozambicana, provata da molti anni di guerra, in molte parti sopravvisse solo grazie ai catechisti.
Il nostro augurio e il nostro grazie va a tutti i missionari della Consolata, in modo particolare coloro che lavorarono e continuano a lavorare in Mozambico portando e seminando la Parola di Dio nei cuori dei fedeli.
Eugenio Bento Cristovão – Roma Bravetta, 23/11/2015
Un Piccolo grande missionario
Carissimo Direttore,
grazie per il bel lavoro che fate nella rivista. Mi è sempre piaciuta, perché ci fa gustare il profumo della mondialità e non ha avuto paura di accettare le nuove sfide della missione, dopo il Concilio Vaticano II.
Per questo vorrei chiederti di dare un piccolo spazio a un grande missionario, il p. Vincenzo Pellegrino, un uomo che ha capito e vissuto le nuove sfide della missione, lavorando nell’animazione missionaria della Chiesa locale in Colombia, Italia e Spagna, e specialmente accompagnando il cammino delle comunità contadine e afro-colombiane in Colombia.
Ho avuto la fortuna di essere suo compagno nell’équipe di riflessione e lavoro per la formulazione prima di un nuovo progetto di animazione e di formazione alla missione, e poi di un nuovo progetto di vita e di azione missionaria.
Sono stati anni di ricerca e di sperimentazione alla luce del Concilio, in Italia dal 1973 al 1978, e poi in Colombia. Più che un compagno per me è stato un maestro, un vero discepolo missionario di Gesù animato dallo Spirito Santo. Ho sempre ammirato la sua capacità di «uscire», la sua apertura alla speranza e al futuro. Un missionario senza paure, con la porta sempre aperta alle persone e ai «segni dei tempi».
Mi fa piacere celebrare i 50 anni del Concilio Vaticano II, il grande Concilio missionario, ricordando la figura di questo piccolo-grande missionario, che visse tutta la sua vita, animato dallo spirito del Concilio, che è lo spirito di Gesù e del suo Vangelo.
Padre Antonio Bonanomi – Torino, 13/11/2015
Cari Missionari
Beati e santi
Ho letto con attenzione sugli ultimi numeri della rivista tutto quello che ha riguardato suor Irene Stefani e la sua beatificazione. (Va detto che leggo sempre da cima a fondo la vostra bella rivista). Da persona poco addentro nelle cose ecclesiastiche mi chiedo che cosa abbia determinato la sua beatificazione e che cosa abbia invece determinato la santificazione della dott.ssa Gianna Beretta Molla. Oltre 20 anni fa ho avuto modo di conoscere il marito di Gianna Beretta in Molla. Anche lui persona colta e retta. La scelta drammatica fatta nel 1962 da sua moglie è sicuramente più che rispettabile; ma è da santità? E allora perché non santificare anche la vostra consorella, a cui va la riconoscenza di tantissime persone e forse anche la «responsabilità» di una guarigione miracolosa ? Cordiali saluti, e complimenti.
Carlo May – 23/08/2015
Nella Chiesa c’è una procedura abbastanza precisa per quel che riguarda la «santificazione» di qualcuno. Proviamo intanto a mettere chiarezza nei termini. «Santificazione» non è certo la parola appropriata: vorrebbe dire che la Chiesa rende santo qualcuno. Mentre invece, la Chiesa, semplicemente riconosce come esemplare la santità di un cristiano tornato alla casa del Padre. La santità quindi c’è già. Il problema è riconoscere ufficialmente che quella persona è stata veramente santa e che quindi è un modello di vita cristiana per tutti.
Per questo c’è un lungo processo, che può richiedere anni. Il processo può iniziare solo cinque anni dopo la morte della persona e prima che siano trascorsi trenta anni dalla stessa (di modo che ci siano ancora testimoni viventi).
Il primo passo è compiuto a livello della diocesi. Il vescovo stabilisce un apposito tribunale per indagare sulla vita e sulle opere del «candidato»: testimonianze, documenti, scritti, ecc. Durante questo periodo la persona viene onorata col titolo di «servo/a di Dio».
Tutti i documenti e le conclusioni del processo diocesano vengono passati a Roma, alla «Congregazione per le cause dei Santi», che, tramite i suoi incaricati, verifica a fondo il materiale raccolto. Se passa l’esame c’è l’approvazione finale delle «virtù eroiche» durante un incontro dei Cardinali della Congregazione dei Santi, al termine della quale il papa appone la sua firma. Da quel momento la persona viene definita «venerabile». E qui si conclude la prima tappa.
Per la seconda (arrivare alla «beatificazione»), è necessario il concorso di due forze: la fede e la preghiera di chi ricorre al «venerabile», e il conseguente miracolo. Senza miracolo non si può procedere. Spesso passano anni prima che ci sia un vero miracolo, altre volte pochi mesi. Una volta ottenuto il miracolo, questo è verificato a fondo per togliere tutti i dubbi, e solo allora, superato il vaglio della commissione d’inchiesta diocesana, si può sottoporre a Roma la richiesta di approvazione, ottenuta la quale il «venerabile» può essere dichiarato «beato». È stato il caso di Giuseppe Allamano, proclamato beato il 7 ottobre 1990 e quello di Suor Irene, beatificata lo scorso 23 maggio.
La terza tappa è la «canonizzazione»: essere cioè iscritti nella lista ufficiale – canone – dei santi e presentati quindi come modelli di vita santa alla Chiesa universale. Per giungere a questo occorre un secondo miracolo, che superi gli stessi test di serietà del primo. Una volta approvato e riconosciuto ufficialmente il secondo miracolo, c’è la dichiarazione ufficiale della santità e il nostro beato o beata può essere chiamato santo/a. È il caso di santa Giovanna Molla.
Concludo dicendo che questo lungo processo aiuta a decantare emozioni, fanatismi e infatuazioni, a favore di un riconoscimento approfondito con serietà e fede. In realtà, davanti a Dio, tutto questo non aggiunge né toglie niente alla santità della persona. La serva di Dio Leonella Sgorbati e la beata Irene Stefani non sono salite di qualche gradino in più in paradiso, e il nostro beato Fondatore, che ci fa aspettare il secondo miracolo ormai da 25 anni, non è certo «meno santo» perché non ancora canonizzato.
5×1000 e Caf
In merito alla «difficoltà a firmare 5xmille», lettera del sig. Luciano Zacchero sulla rivista MC di Agosto/Settembre 2015, indico la mia esperienza: ho consegnato a un Caf i 730 di figlio, nuora, figlia e genero (il mio è stato inviato personalmente via e-mail), e mi è stato concesso di firmare regolarmente 5-8-2xmille in loro vece. Mi meraviglia quanto successo al sig. Luciano. Le consiglio di cambiare Caf. Probabilmente il funzionario di quel Caf non gradiva le sue scelte. Cordialmente saluto,
Carlo Colombo – Sesto S. Giovanni (MI) – 04/09/2015
Padre Pietro Lavini
Credo sia giusto rivolgere un pensiero a padre Pietro Lavini, francescano cappuccino che, lo scorso 9 agosto, all’età di 88 anni, ha lasciato la scena di questo mondo.
Anche se gli ultimi 45 anni li ha passati in un solo posto, impegnato com’era a far risorgere, mattone dopo mattone, l’Eremo di San Leonardo – praticamente ridotto a un rudere dopo secoli di disinteresse e incuria da parte di tutti – nella Gola dell’Infeaccio, sui Monti Sibillini, nelle Marche, io credo che questo mite, umile ma valorosissimo, seguace di Cristo e di San Francesco, sia stato un grande missionario perché ha incontrato decine di migliaia di persone – gente del posto ma soprattutto turisti, escursionisti, curiosi che arrivavano da ogni parte del mondo per immergersi nella natura dei Sibillini, ma anche perché attratti da questa figura così speciale di uomo e di frate – e perché, oltre a ridare dignità a un insediamento benedettino, è stato capace di ricostruire tante anime.
Io ho avuto la fortuna di conoscere padre Pietro attraverso […] il suo libro «Lassù sui monti», un vero giorniello, introvabile (anche nelle librerie cattoliche), edito dalla Tipografia Truentum di Ascoli Piceno. Un libro che non ha proprio nulla da invidiare a tanti altri libri che trovano con una certa facilità editori disposti a pubblicarli, critici e osservatori disposti a scrivere recensioni, librai disposti a venderli […].
Grazie per l’attenzione
Luciano Montenigri – 18/09/2015
Dialoghi di Pace
Arrivata al «decennale», l’iniziativa «Dialoghi di Pace», che per l’edizione 2016 s’intitola Vinci l’indifferenza e conquista la pace, rinnova il suo invito: copiateci! È una efficace proposta per diffondere il messaggio del papa per la Giornata mondiale della pace.
I Dialoghi di Pace sono, molto semplicemente, una lettura con musica del testo del messaggio, suddiviso in brevi e veloci battute affidate a tre voci che si rincorrono e si intrecciano come in un vero e proprio dialogo.
Per creare un contesto favorevole all’interiorizzazione dei suoi contenuti da parte di chi li ascolta, lo introducono e lo intercalano brani musicali di ogni genere (classica, jazz, blues, popolare, contemporanea…) affidati alle più diverse formazioni vocali e strumentali (dai solisti, ai trii fino a cori e piccole orchestre).
Prendendo forma artistica, il messaggio viene reso più gradevole e accessibile. Da documento del magistero che pochi leggono interamente – quando va bene, accontentandosi delle sue sintesi giornalistiche, non sempre in buona fede -, a occasione di preghiera per chi è cristiano cattolico, e momento di meditazione per chi ha spiritualità diverse, non necessariamente di ordine religioso. […]
Il risultato è che fra artisti, collaboratori e pubblico si crea un’atmosfera impossibile da spiegare a chi non la vive, un’esperienza unica e impagabile.
Il fatto che il progetto sia espressamente studiato per essere leggero e modulare, quindi senza particolari necessità logistiche ed economiche, lo rende facilissimo da riproporre autonomamente da parte di chiunque lo desideri e vorrà avvalersi del materiale e delle dettagliate indicazioni a questo scopo pubblicate sul sito (indicato qui accanto, ndr.). Tutto utilizzabile liberamente anche riadattandolo a piacimento alle diverse esigenze e disponibilità.
Per ogni necessità di chiarimento e supporto, chi ha ideato l’iniziativa ben volentieri risponderà a chi inoltrerà le sue richieste all’indirizzo sanpioxc@gmail.com. Coltivo un sogno: offrire i Dialoghi di Pace a chi in chiesa non entra, portandoli per le strade attorno al Duomo, nel centro di Milano, dove si dice: «Se la va, la g’ha i gamb»!
Giovanni Guzzi
11/09/2015
«Siamo i ragazzi della Consolata»
Suona il citofono della porta d’ingresso di casa nostra (dei missionari della Consolata a Martina Franca, ndr). Si chiede: «Chi è?». Tra tante risposte si sente anche il grido: «Siamo i ragazzi della Consolata». A volte negli incontri vicariali di Martina Franca, tra i giovani delle dodici parrocchie, si presenta un gruppo che dice, «siamo i ragazzi della Consolata». Andiamo a Taranto alla festa dei ragazzi missionari o alla festa dei popoli e risuona la voce «siamo i ragazzi della Consolata». Penso che anche in tante altre comunità missionarie Imc in Italia, si sente la voce: «Siamo i ragazzi della Consolata». Mi meraviglio nel sentire questi ragazzi che hanno preso il nome Consolata come parte della loro identità di vita. Si sentono parte della nostra famiglia.
Mi sono permesso di guardare da vicino il Beato Giuseppe Allamano, fondatore di una famiglia missionaria di tre figli: i missionari, le missionarie e i laici della Consolata. I laici sono di tre categorie: primo i genitori dei missionari che diventano missionari a volte senza saperlo, poi i benefattori e quindi gli amici. Secondo quello che ci insegna l’Allamano non tutti possono andare in missione ma tutti possono partecipare con la preghiera o con l’aiuto materiale. Poi ci sono coloro che sentono l’esigenza di partire e a volte partecipano alla missione. Questi si sentono parte della nostra famiglia e si consumano per l’amore all’evangelizzazione, per la condivisione e l’elevazione umana. I ragazzi della Consolata si trovano in questo gruppo di laici missionari e amici.
Il nome e il significato.
Si dice che con il nome ci si specchia; con il nome si costituisce il resto della vita; il nome fa parte di noi stessi e non possiamo mai sfuggire da esso. Non per caso tra gli africani, per dare il nome al neonato (almeno il secondo nome) si ricorre all’anziano di famiglia, il quale dopo aver analizzato tutti gli eventi che hanno accompagnato la nuova nascita suggerisce il nome che diventa automaticamente il programma di vita del nuovo membro di famiglia. A volte assumiamo il nome di un nostro antenato. Quando uno ha capito bene il suo nome vivrà a lungo, basta che i pronipoti dicano «io sono del tale». Non c’è bisogno di ulteriori spiegazioni. Quando arrivano membri di una famiglia, quando suonano il campanello, alla domanda «chi è?», rispondono «sono io». E la porta si apre. Ecco un’altra prova di come ci si specchia con il nome.
A questo punto si può dire che «i ragazzi della Consolata» si sentono parte di noi, si sentono di casa, bussano per partecipare all’opera di evangelizzazione, e lo fanno già collaborando con noi, sono nati consolati, vogliono anche loro consolare.
La domanda può essere: per quanto tempo? Sono convinto che questo seme non muore, può mancare un po’ di nutrimento ma a sua volta riprende. Quando papa Francesco dice che «non possiamo privatizzare l’amore», secondo me, per noi significa che «non possiamo privatizzare la consolazione». Grazie! Cari ragazzi, grazie per la vostra collaborazione nella consolazione.
Consolata, è un titolo mariano che significa che Maria condivide la responsabilità con noi uomini. «Consolate, consolate il mio popolo; parlate al cuore della mia gente». Nostra Madre ha fatto questo dandoci suo Figlio, la vera consolazione; noi lo possiamo fare «portando gli uni i pesi degli altri».
Danstan B. Mushobolozi da Martina Franca – 09/07/2015
Padre Franco Cellana
Proprio mentre prepariamo queste pagine, riceviamo da Milano la notizia del ritorno alla Casa del Padre di padre Franco Cellana, missionario della Consolata nativo di Tiao di Sopra (Tn).
Nato il 01/10/1942, fece i primi voti appena ventenne il 02/10/1962. Ordinato sacerdote il 17/12/1967 a Madrid, dopo dieci anni di servizio nell’animazione missionaria in Spagna, nel 1977 fu destinato al Tanzania. Nel 1991 fu richiamato in Italia per l’animazione nel Cam di Torino, che lasciò per servire l’istituto come consigliere generale dal 1993 al 1999. Scaduto il suo mandato, nel 2000 fu destinato al Kenya dove servì prima come parroco al Consolata Shrine di Nairobi e poi di Kahawa West nella periferia di Nairobi, che lasciò presto perché eletto superiore regionale. Finito il suo mandato fu nominato parroco a Wamba nel Samburu.
Generoso, zelante, effervescente, trascinatore, attentissimo ai poveri, ha lasciato un segno nel cuore delle persone che lo hanno incontrato. Ricco di iniziative, ha fatto del servizio ai poveri lo scopo della sua vita, coinvolgendo in questo i suoi tantissimi amici. Ripetutamente provato dalla malattia, ha sempre saputo reagire con profonda serenità e abbandono al Signore. Fino a quando non lo ha preso il cancro, contro il quale ha lottato con tutte le sue forze per due lunghi anni, accompagnato dalla preghiera e affetto della sua famiglia, dei confratelli e degli amici. Combattuta la buona battaglia, ha terminato la corsa il 24/09/2015, una settimana prima di compiere 73 anni. Il funerale, al suo paese, ha visto una grandissima partecipazione.