Di “Banca Etica” e una domanda: “Siete ancora cattolici?”


Etica o non etica?

Carissimi Missionari,
Vi scrivo dopo aver letto l’articolo vergognosamente autocelebrativo di Sabina Siniscalchi riguardo Banca Etica (MC 04/2017 pag. 22), entità di cui posso dire qualcosa essendo stato membro del Git (Gruppo di Intervento Territoriale) di Novara durante il triennio 2011-2014 (oltre che socio singolo di Libera) le cui vicende non ho mai smesso di seguire riservandomi di scrivervi ancora per esaurire l’argomento, in più è diventata la banca d’appoggio del M5S quindi ha fatto il suo ingresso in politica.

Parto da quel «di Banca Etica fa parte Etica sgr…». Chiariamo subito, Banca Etica è azionista di maggioranza (da circa due anni detiene il 51%) di Etica sgr che venne fondata il 5/12/2000 grazie alla partecipazione dei seguenti soci:

– Banco Popolare di Milano (Bpm), secondo azionista col 24,44%;
– Cassa Centrale Bcc nordest,10,22%;
– Banca Popolare dell’Emilia Romagna (Bper), 10%;
– Banca Popolare di Sondrio (Bps), 9,87%.

Bene cominciamo subito col chiarire che ritroviamo ogni anno Bpm, Bper, e Bps incluse nelle tabelle del Mef delle cosiddette Banche Armate, così note ai partecipanti del mondo etico. Paradossale poi che Bper abbia ricevuto fondi anche per gli arcidiscussi F-35. Banca Etica a Novara faceva parte del coordinamento no F-35 insieme alla partner Libera.

A queste aggiungiamo Bcc Cernusco sul Naviglio che viene indicata da Etica sgr tra i promotori dei «fondi etici».

Proprio tra questi collocatori ancora adesso vediamo ben due banche coinvolte in inchieste per mafia: la Bcc di Borghetto Lodigiano e la ancora più famigerata Bcc sen. Grammatico di Paceco (a sua volta tra quelle convenzionate col M5S per il famoso microcredito) commissariata per infiltrazioni mafiose il 16 novembre dopo 6 anni di indagini e dopo che nel 2013 avvennero i primi sequestri di beni. Questa vicenda meriterebbe un servizio a sé.

Sempre a proposito di mafia ricordo che Banca Etica è stata, insieme ad Unipol e Banca prossima, tra le principali finanziatrici della cooperativa 29 Giugno di Salvatore Buzzi e che Libera sui suoi bollettini indicava sempre Unipol e Banca Etica, anche sponsor dei Circoli Arci. Vogliamo rinfrescarci la memoria solo sulle vicende Bpm ancora in corso? Ci fu il caso dell’«obbligazione» convertendo 2009-2013 che vide 15.000 risparmiatori perdere tra il 50 ed il 70% del capitale investito, mentre nel 2012 Ponzellini, da presidente della Banca, venne arrestato durante l’inchiesta sui finanziamenti all’Atlantis Plus di Corallo, processo ancora in corso. Poi, il 17/04/2015 arriva la condanna per anatocismo. Ma il dato più clamoroso, e su questo per ora chiudo, è che la gestione dei fondi etici è stata affidata a quell’Anima Sgr di cui dovremmo sentire parlare tutti i giorni essendo stata creata grazie all’accordo (oltre che con Clessidra sgr) con un certo Monte dei Paschi di Siena più Credito Valtellinese + … Banca Popolare di Etruria e Lazio.

In seguito parleremo dei fondi etici e delle argomentazioni che possono scaturire da un’approfondita analisi del mondo etico. Grazie

Matteo Spaggiari
Novara, 12/04/2017

Ricevuta questa email, ci è sembrato giusto girarla immediatamente a colei che aveva scritto l’articolo incriminato.


La risposta di Sabina Siniscalchi

Egregio Sig. Spaggiari,
dalla nostra anagrafica non risulta che lei sia stato socio di Banca Etica, pertanto non può essere stato componente del Git di Novara, tuttavia rispondiamo ugualmente alle sue pesanti critiche per rispetto dei lettori di Missioni Consolata.

Banca Etica ripudia la guerra e da sempre offre ai propri soci e clienti la garanzia che il loro risparmio non viene investito in imprese che operano nel settore degli armamenti. Anche Etica Sgr, società del Gruppo, adotta da sempre severi criteri per la scelta degli investimenti, tra cui la totale esclusione di società coinvolte nella produzione di armamenti o parti di essi. 

Ma il nostro impegno è anche quello di fare pressione sul resto del mondo bancario, per questo siamo stati tra i promotori della campagna «banche armate», di tante altre iniziative contro la guerra e gli armamenti, incluso, come lei stesso ricorda, il coordinamento contro gli F-35 di Novara.

Questa azione è complessa e faticosa, ma non ci siamo mai esentati dal portarla avanti pur tra mille difficoltà. Anche la compartecipazione di altre banche in Etica sgr – società di cui abbiamo il pieno controllo detenendo il 51% delle azioni e nominando la maggioranza dei consiglieri – ha proprio questa funzione di contaminazione e di influenza perché si producano cambiamenti significativi nel sistema finanziario e delle imprese.

La nostra azione di persuasione morale ha già prodotto risultati concreti: le banche socie di Etica Sgr hanno adottato politiche sugli armamenti che includono la piena trasparenza e la graduale dismissione dal comparto, alcune di esse figurano ancora nella relazione ministeriale ex legge 185 (che è sempre più opaca come denunciano i nostri amici di Rete Disarmo) perché hanno acquisito banche più piccole operanti nel settore.

Potremmo accontentarci di fare bene il nostro mestiere, vale a dire la finanza etica, chiuderci nella nostra nicchia e non farci contaminare da nessuno, ma la nostra aspirazione, quella dei nostri soci e dei nostri clienti, è ben più grande: è la volontà di impegnarsi per cambiare un sistema che produce ingiustizia e sofferenza.

Uscire dal guscio comporta tanta fatica e qualche errore. A tale proposito le segnalo che  la magistratura ci ha espresso sincero apprezzamento per la collaborazione offerta nell’inchiesta Mafia Capitale che non ci ha visto tra i colpevoli, ma tra le vittime.

Nel 2016, Banca Etica ha realizzato un utile di 4 milioni e 318 mila euro (l’utile del Gruppo raggiunge i 6 milioni), ha raccolto 1 miliardo e 227 milioni di risparmio con un incremento del 15% rispetto all’anno precedente e ha concesso 970 milioni di finanziamenti a progetti di sviluppo sociale e ambientale: si tratta di risultati piccoli rispetto ai volumi della finanza tradizionale, ma sono il segnale che un’altra finanza è possibile.

Finisco col dirle che Banca Etica non è controllata né dai 5 Stelle né da nessun altro partito o movimento politico, ma è orgogliosa di essere una banca cooperativa in cui gli oltre 40.000 soci contano tutti allo stesso modo – secondo il criterio di una testa/un voto – indipendentemente dalle quote di capitale possedute; proprio questi soci, partecipando alla vita della banca attraverso i Git, ci aiutano a non tradire mai la nostra missione e i nostri valori.

Sabina Siniscalchi

Siete ancora cattolici?

Gentile Redazione,
ho letto il giusto richiamo ai lettori a sostenere le spese di stampa e spedizione per la rivista. Premetto di sapere di non essere un lettore/finanziatore modello. […] Fatto sta che io la rivista la ricevo, la leggo e la faccio anche leggere. Vorrei fare però delle considerazioni. Con spirito costruttivo. […]

Dunque, io dopo varie vicissitudini sono arrivato (anzi dovrei dire tornato) ad accogliere il cristianesimo (ovviamente cattolico e romano, da italiano) in maniera convinta e oserei dire anche filiale. So cosa vuol dire essere scettici e critici verso il clero cattolico, perché lo sono stato anch’io. Non ho paura della critica anche perché alla fine permette di smascherare le menzogne. Ma trovo che nel mondo ecclesiale ci siano certi partiti presi, e certe posizioni che richiedono di mettere i puntini sugli «i».

Sono tempi in cui c’è chi sostiene che Gesù non abbia mai detto nulla contro l’omosessualità e con ciò imbastisce una sua pseudo teoria dell’accoglienza dei gay. Poi abbiamo chi dice che Gesù va interpretato perché non diceva cose universali, ma inserite nel suo tempo e con ciò imbastisce una pseudo pastorale del mondo moderno.

Per quanto riguarda la stampa missionaria italiana lo scenario è desolante (pensando alla situazione di solo 10 anni fa). Popoli ha chiuso. Africa ha cambiato redazione e si è subito esibita nell’elogio del matrimonio omosessuale. Ora sul sito di Missioni della Consolata vedo una bella bandiera arcobaleno a sette colori (per fortuna!). Ma perché non spiegate quale è la differenza con la bandiera arcobaleno a 6 colori? Almeno si eviterebbe la confusione di credere che la rivista si vuol far riconoscere come gay friendly. Voglio sperare che sia così, vero? Non crede che ci sia già una gran confusione in giro e che il clero debba fare chiarezza secondo il mandato di Gesù?

Nella rubrica «Insegnaci a pregare» di gennaio leggo: «Chi scrive, e quasi certamente chi legge, proviene da una formazione catechistica deformante che ci ha educati più all’ateismo pratico che allo spirito del Vangelo», ecc. Ma insomma è mai possibile che il culto di questo benedetto Concilio Vaticano II arrivi al punto di tale disprezzo dell’esercito di buoni cristiani che hanno tramandato la fede ai propri figli, amici e compaesani? Non è che don Farinella si sia un po’ montato la testa a credere di poterne sapere più di una nonna che insegna il rosario ai nipotini perché lui ha la laurea al Biblico di Roma? Ma si rende conto di cosa sta dicendo? È veramente sicuro lui di saperne di più di pedagogia? Mi sembra che l’insegnamento di Gesù suggerisca di dar più retta alla nonna pia che al plurilaureato in teologia.

Vivo in Germania e quindi sono immerso nel cattolicesimo critico, talmente critico che si elogiano tutti gli altri tranne la Chiesa Cattolica sempre presa di mira dai «teologi» (chissà perché hanno studiato tutti a Tübingen…). Qui da me guai a citare il KKK (Catechismo della Chiesa Cattolica). È tutto un «cercare», «sentire lo spirito», «rimanere in ascolto», ma mai e poi mai si deve poi trovare o sentire qualche cosa. Salvo che lo abbia sentito e trovato qualche «teologo» […].

Lascio stare i retroscena e le «manovre» riguardo al passato Sinodo della famiglia e relativo documento venuto dopo. Parlo dei retroscena che ho visto e vissuto e che abbondantemente superano la soglia di lealtà verso chi crede che in 2000 anni di cristianesimo, innumerevoli martiri e santi abbiano da insegnare qualche cosa di più dell’ultimo «teologo». Il quale sì «ha coraggio e fede nello Spirito» (ci dice don Farinella), mentre i catechisti di prima erano tutti storditi e non sapevano di essere complici di «un clero incapace (sic!) che ha dato vita a una catechesi inadeguata guardando più alla quantità che alla qualità».

Vorrei sapere se il mio sperare in una rivista di sicuro indirizzo cattolico è ben posto perché sinceramente tutta questa «catechesi al contrario» è di una noia mortale.

Ho una figlia di undici anni e, dopo aver parlato con la responsabile della pastorale della parrocchia e con l’insegnante scolastica di religione, ho deciso di prendere i tanto vituperati catechismi e trasmettere a lei l’Abc della fede. Mi vanno bene tutti i catechismi, dall’ultimo compendio a quello tridentino, che, fino a prova contraria, hanno ottenuto più risultati in quantità e qualità dei «teologi» che hanno studiato pedagogia.

Mi scusi lo sfogo, ma non se ne può più. Un po’ di umiltà non farebbe male. Per il resto la rivista è sempre più di geopolitica (adesso come adesso l’aspetto che preferisco), sociologia, relazioni internazionali, ma sempre meno di formazione Cristiana (il sottotitolo è ancora Rivista missionaria della famiglia). Sono capaci tutti a dare la colpa agli altri. Potrei andare avanti ma forse sono già stato troppo noioso e mi fermo qui. Faccio la mia offerta ma sono alquanto deluso, anche se speranzoso. Cordiali saluti

Andrea Sari
21/04/2017

Caro Sig. Andrea,
ho pubblicato la sua lettera dall’A alla Z. Ho cercato di comprendere il disagio che lei prova e cerco di rispondere con la sua stessa franchezza.

Avrà visto che ho cambiato il fondo del link allo sfogliabile per evitare equivoci. Ma ho pensato: «Cavolo, mi hanno rubato l’arcobaleno!». Sarà che sono stato abbastanza fuori dall’Europa, ma l’arcobaleno a me ricorda sempre e solo quello di Noè (Gen 9) ed è un motivo di gioia, anche se ai miei amici keniani dava tristezza perché «portava via la pioggia».

Le pagine di don Paolo Farinella fanno certamente discutere per alcuni suoi commenti sulla vita della Chiesa, ma offrono soprattutto il pane buono e solido della Parola di Dio trattando i lettori da cristiani adulti nella fede (vedi 1 Cor 3,1-3 in parallelo con Eb 5,13-14).

Quanto al Vaticano II, mi sembra che in realtà succeda il contrario di quanto lei scrive: lo si rifiuta nel nome della «Tradizione» della Chiesa. Ma quale «Tradizione»? Non è forse una scelta di parte quella di prendere dalla «Tradizione» quello che piace? Accogliere lo spirito del Concilio è essere innestati nella fede antica e solida della Chiesa per viverla nell’oggi e non è certo disprezzare la fede semplice e genuina della «nonna». Ce ne fossero ancora tante di quelle nonne. Vorrei avere io la fede genuina, forte e operosa che ho visto vivere da persone che fanno parte della mia infanzia.

A oltre 50 anni dal Vaticano II, si può dire senza paura che quel concilio è stato un grandissimo avvenimento di grazia per la Chiesa e appartiene a pieno titolo all’autentica «Tradizione». Vi parteciparono oltre 2.000 vescovi di tutto il mondo, un papa che ora è santo, un altro che ora è beato, e altri tre futuri papi, di cui uno, Giovanni Paolo II, anch’egli santo e un altro che ha poi fatto la scelta coraggiosa e inedita di dimettersi. Hanno sbagliato tutto? Sono stati meno «Tradizione» dei 25 vescovi e 5 superiori generali presenti all’inizio del Concilio di Trento nel 1545 o dei 255 dell’ultima sessione del 1563?

Quanto a noi cerchiamo di essere profondamente ancorati alla Parola di Dio e all’insegnamento della Chiesa, di cui il Vaticano II è un pilastro. E lo facciamo con amore e passione per la Chiesa, ringraziando lo Spirito di vivere in questo nostro tempo di Grazia.

Nella rivista, siamo coscienti di correre il rischio di essere troppo sociali, ma siamo convinti che l’autentico annuncio del Vangelo deve tener conto di «tutto l’uomo», non solo della sua dimensione spirituale. Nello stesso tempo non ci siamo mai tirati indietro nell’affrontare argomenti che riguardano la fede e la vita della Chiesa.

Cerchiamo di servire la verità nella carità senza seguire la moda o cercare popolarità, consci di non essere tuttologi e di avere tanto da imparare. Grazie.




Cari Missionari

Fratel Carlo Zacquini, Alla vigilia degli ottant’anni

Pasqua è vicina e mi faccio vivo per dare alcune notizie e per fare i tradizionali auguri pasquali. Ho deciso di fare un brevissimo riassunto della mia vita, approfittando anche delle riflessioni che la quaresima ci ha proposto.

A vent’anni (1957) ho fatto la prima professione religiosa alla Certosa di Pesio. Con 27 anni sono partito per Roraima (1964). Due giorni prima dei 28 ho conosciuto il primo gruppo di Yanomami. Ai primi di gennaio del 1968 ho cominciato la mia vita tra di loro. Se in questi ultimi decenni non sono migliorato granché, certamente non è dovuto agli Yanomami.

In questi ultimi tempi, sono assillato dalla necessità di far conoscere a molti la loro causa, e di aiutare almeno qualcuno di essi a prepararsi per difenderla con qualche competenza. Oggetto di questa mia attività sono giovani e vecchi, studenti e non, indigeni e non indigeni che si affacciano alla soglia della storia moderna con le qualità e i difetti del tempo attuale. I giovani missionari pure fanno parte di questa preoccupazione.

La sfida che rappresenta il futuro di questi popoli (indigeni) pare sempre più ardua e complicata, ma almeno, al contrario di quanto si pensava qualche decennio fa, è possibile, e pare condivisa da sempre più persone.

Nel mio piccolo, grazie anche a molti di voi e in vostro nome, porto avanti il Centro di Documentazione Indigena dei Missionari della Consolata in Amazzonia. Col vostro aiuto ho potuto assumere dei collaboratori, tra i quali anche un indigeno (makuxi); abbiamo raccolto e registrato 2490 libri; alcune altre centinaia sono in attesa; circa 2000 riviste sono registrate; decine di migliaia di ritagli di giornali sono in relativo ordine e li stiamo scansionando; migliaia di documenti sono stati classificati e in parte registrati; centinaia di video cassette e cassette sono in parte digitalizzate e altre in attesa di esserlo; documentari, reportage, testimonianze, canti, rituali, racconti, ricerche storiche e di antropologia; alcune migliaia di fotografie, negativi, diapositive, sono state digitalizzate.

Sono sicuro che, nella fretta, sto dimenticando altre cose, ma quello che è più importante è che mi fate sentire orgoglioso di avere degli amici come voi, capaci di donarsi e di donare continuamente, a costo del proprio conforto, per aiutare persone e popolazioni che sono lontane da voi, dimostrando una enorme fiducia in persone come me che con maggiore o minore competenza e efficacia tentano di cambiare in meglio un pezzetto di questo nostro mondo. Mi sento tanto debole e incapace di risolvere i grandi e gravi problemi che mi si pongono davanti quotidianamente, ma la vostra vicinanza, il vostro affetto e la vostra collaborazione effettiva, continuano a darmi coraggio e a far sì che pur nella mia debolezza possa continuare a lottare e a sperare di essere di aiuto, almeno a qualcuno dei tanti che ne necessitano. Vi invito anche, questa volta, ad unirvi a me per ringraziare il Cielo che mi ha portato ormai alle soglie degli ottant’anni (che compirò il 3 maggio). Inoltre, a ottobre ricorderò anche i sessant’anni di professione religiosa. Sembra sia stato ieri, eppure sono ormai un bel mazzetto di anni come missionario della Consolata. Il 21 marzo scorso, Luis Ventura, il nostro carissimo amico, ha anche difeso la sua tesi di dottorato in antropologia, all’università di Madrid. Spero possa presto tornare a lavorare con noi.

Sono sicuro di non aver scritto tutto in modo chiaro e corretto, ma purtroppo non ho più tempo per rivedere e correggere. Mi riprometto in breve, di farlo dove necessario e completare le informazioni che so che vi stanno a cuore. Io sto bene, e spero che lo siate tutti voi! Buona Pasqua. Vi abbraccio con tanto affetto.

Carlo Zacquini
04/04/2017


Da Neisu

Cari amici ed amiche,
Approfitto del tempo di quaresima per ringraziarvi di tutto ciò che fate per la Missione.

Qui a Neisu questo mese di marzo potrei dire che è stato il mese dei Pigmei. Due settimane fa tre di loro sono arrivati all’ospedale per farsi curare dalla malaria. Provenivano da un territorio «vicino», a una cinquantina di chilometri da qui, passando per le scorciatornie della foresta.

La dottoressa Serafina, facendo gli esami clinici, si è accorta che tutti e tre avevano delle ernie da operare ed allora sono state programmati interventi speciali per i loro casi, al di fuori ed in più di quelli già in lista il martedì e giovedì. Si è così operato anche il mercoledì. I nostri tre uomini sono giunti, come d’abitudine, solo con la maglietta che avevano indosso e senza nulla da mangiare (qui sono le famiglie degli ammalati che provvedono al loro cibo cucinato sotto una grande tettornia dove ciascuno può accendere il suo fuoco). I Pigmei sono seminomadi e vivono di pesca, caccia e frutti di stagione, sovente raccolti nei campi privati creando problemi ben immaginabili con i proprietari dei campi in questione… Noi li abbiamo assistiti nel centro nutrizionale, ma siccome non hanno le stesse abitudini culinarie dei Bantu (la maggioranza della popolazione) e sono abituati a cucinarsi essi stessi i propri pasti, hanno creato parecchi problemi. Per fortuna la moglie del capo villaggio li ha accolti preparando lei stessa i pasti per loro.

Le operazioni chirurgiche sono ben riuscite. Per l’occasione li abbiamo dotati di vestiti ospedalieri (che abbiamo ricevuto in dono dal Canada) e ho poi aggiunto per ognuno un paio di calzoni e dei sandali, un perizoma e un lenzuolo. Visto che loro avevano ricevuto i vestiti in regalo, la signora che li aveva assistiti, vedendo che non aveva ricevuto nulla, ha chiesto un abito locale anche per sé. Gliel’ho dato, ma per stuzzicarlo un poco, ho fatto notare al capo villaggio che lui stesso avrebbe dovuto fornire il vestito alla sua signora. La risposta? Che il mio regalo sarebbe servito benissimo per il giorno del funerale della sua signora.

I Pigmei, una volta guariti, sono rientrati nella loro foresta a piedi, dopo aver ricevuto qualche provvista per la strada di ritorno. Come si dice: «Un regalo ne attira un altro». Per completare il tutto la settimana scorsa, una mamma pigmea ha partorito con taglio cesareo il simpatico bimbo che potete vedere nella foto. Come potete constatare ci prendiamo proprio cura dei «più piccoli». Tutto ciò anche grazie a voi.

Richard Larose imc
27/03/2017, Ospedale di Neisu, Rd Congo


A Cecilia

Caro Padre Gigi,
in questi giorni ho scritto alcuni pensieri in vista del compleanno di mia nipote Cecilia, figlia di mio fratello, che compirà 22 anni il 20 aprile prossimo. Naturalmente mia mamma, abbonata a Missioni Consolata dagli anni Cinquanta fino al 2007, sarebbe molto felice di leggerli dalla «vita nuova» in cui si trova. Cari saluti

Di te dirò che le parole di mamma Franca, dopo la tua nascita, «Cecilia è un miracolo della vita»,
sono rimaste indelebili e saranno indimenticabili!
Di te dirò che la felicità di papà Delfino nel tenerti fra le sue forti braccia, piccolina, sempre terrò fra ciò che ho di più caro nel profondo.
Di te dirò che il grido di gioia per l’arrivo della nonna Cleofe, in occasione dei tuoi quattro anni, sempre terrò tra i ricordi.
Di te dirò che il tuo sguardo accorto e sagace ininterrottamente ricorderà il tuo nonno Vittorio, uomo molto buono e puro di cuore.
Di te dirò che allo straordinario mondo dell’arte ti sei avvicinata e che nel corso della vita esso ti stupirà con le sue meraviglie.
Di te dirò che la varietà dei colori e delle loro sfumature ti ha di continuo accompagnata, dall’astuccio, alla cassettiera e al make up policromo.
A te dirò in occasione del tuo compleanno, opportunità irripetibile per rinnovare i sogni e ridefinire i progetti, auguri magnifici e mirabili!

Zia Milva C.
20/04/2017


Auguri Donna

Ogni Donna è un delicato fiore che senza ossigeno muore.
Il suo profumo è pregiato se non è dall’esterno alterato.
Le basta una dolce carezza per avere coraggio e certezza e con un sincero bacio scorda dubbio e oltraggio.
È sicura, forte e trasparente quanto una pura sorgente.
Con le sue ali da libellula rende la realtà più bella.
S’inchina al destino quando non è meschino.
È figlia di Madre Natura forgiata nella stessa natura.
È Madre d’un creato all’origine designato.
È la speranza senza fine dell’Amore che non ha confine!

Piera Angela Feliciani
08/03/2017, Martinengo (Bg)


Capitolali dalle comunità d’Europa con la Direzione generale.

Verso il Capitolo Generale

Carissimi/e
con grande gioia veniamo a voi per comunicarvi che quest’anno il nostro Istituto Missioni Consolata celebrerà il suo tredicesimo Capitolo Generale, a Roma dal 22 maggio al 20 giugno 2017. Il capitolo verterà su due temi essenziali: la rivitalizzazione e la ristrutturazione.

Rivitalizzazione intesa come stimolo per ogni missionario alla fedeltà al carisma, amore e qualificazione della missione ad gentes, tensione alla santità dei singoli missionari e donazione nel servizio all’annuncio ai non cristiani, all’attenzione agli ultimi, all’apertura ai nuovi areopaghi.

Ristrutturazione intesa come parziale modifica della nostra organizzazione non più totalmente centralizzata, ma distribuita a livello continentale.

Approfitto dell’occasione per chiedervi di tenerci presenti nella vostra preghiera, affinché il capitolo generale sia un momento dello Spirito, in cui tutti i membri siano disposti ad accogliere il nuovo che Lui vorrà suggerire alla Chiesa e all’Istituto. La Vergine Consolata e il nostro beato fondatore, Giuseppe Allamano, ci siano di guida e ci spronino alla fedeltà alla missione evangelizzatrice della Chiesa nel mondo di oggi. Grati e sicuri della vostra preziosa preghiera, vi salutiamo nel Signore.

Padre Stefano Camerlengo,
superiore generale dei missionari della Consolata
Roma, 19 marzo 2017

Assemblea precapitolare latinoamericana in Bogotà, Colombia.




Cari Missionari


Dallo Swaziland

Carissimi amici,
vi scrivo per ringraziarvi di cuore per le vostre preghiere e anche per il contributo che non mi fate mai mancare e che mi permette di portare avanti dei piccoli progetti di sviluppo a favore della gente che il Signore ci ha affidato in questa terra dello Swaziland.

Dopo aver consegnato alla diocesi e al clero locale le parrocchie di Madadeni, in Sudafrica, evangelizzate e sostenute per 25 anni dai missionari della Consolata, ci siamo trasferiti in Swaziland. La nostra comunità è composta da padre Francis Onyango, padre Peterson Muriithi e dal sottoscritto.

Dopo essere stati ospitati in alcune parrocchie per lo studio della lingua Siswati, strumento indispensabile per il nostro servizio missionario, ci siamo trasferiti in un ex convento a Manzini, dove attualmente risiediamo.

 

Lo Swaziland è un piccolissimo stato dentro il territorio del grande Sudafrica, ed è una monarchia assoluta. La regione è reduce da un periodo di siccità che ha causato disagi fra la povera gente che vive di ciò che coltiva.

Le recenti piogge non sono sufficienti a far maturare i prodotti della terra e purtroppo prevediamo che in molti non avranno raccolti buoni e che ci sarà un periodo di carestia. Staremo al fianco delle famiglie e con loro condivideremo il poco che abbiamo. Il Vescovo di Manzini, Monsignor José Luis Ponce de Leon, anch’egli missionario della Consolata, è una persona affabile, molto premurosa e sempre accanto alla gente. Nel mese di gennaio 2017 ci ha consegnato ufficialmente la nuova parrocchia dei Santi Pietro e Paolo di Kwaluseni, in una zona densamente popolata, a circa una decina di chilometri dalla città di Manzini. La parrocchia include tre comunità (chiesa principale e due cappelle), l’Università nazionale e un grande carcere. Inoltre da qualche mese, sto visitando e collaborando in un campo di accoglienza profughi a 40 km da Manzini, nella regione di Siteki, territorio al confine con il Mozambico.

In questo periodo ci siamo ripromessi di visitare le famiglie e le comunità per conoscere la realtà e capire la situazione; il dialogo e l’ascolto nella umiltà ci permetteranno di definire insieme alla gente le priorità del nostro servizio missionario in questa nazione. Sto cercando di rendermi conto delle varie necessità sia per la pastorale che per promuovere la situazione della gente.

Mi sono impegnato con il Vescovo a promuovere la solidarietà attraverso il coordinamento della Caritas nelle parrocchie e anche iniziarne le attività: attualmente abbiamo la Caritas diocesana, ma desideriamo avere anche le Caritas parrocchiali.

Avremmo bisogno di arredare la sacrestia e anche di avere un ufficio parrocchiale per incontrare la gente. Mancano i paramenti, i vasi sacri, tovaglie e libri liturgici nella lingua locale. Certamente i cristiani faranno la loro parte, ma non sarà senz’altro sufficiente. Anche la nostra abitazione è molto precaria e riesce a malapena ad ospitarci e permetterci di preparare le varie attività che svolgiamo in sede e anche nelle cappelle. Pensate che quando vado a celebrare la messa in chiesa o a visitare le comunità utilizzo ancora l’altarino portatile che mi è stato donato per la mia ordinazione sacerdotale 28 anni fa.

Faccio il possibile per trovare un modo per coinvolgere la comunità perché sia al servizio dei poveri e sia solidale con i carcerati e i profughi che visito regolarmente. Ma i bisogni sono tanti e a volte devo disattendere le speranze della gente perché mi mancano i mezzi.

Gli inizi non sono mai facili, ma non ci manca l’entusiasmo e la voglia di stare con la gente.

La Consolata vi sostenga e consoli nelle difficoltà.

Padre Rocco Marra – Manzini,  febbraio 2017

«Sotanas en el barro»

Mi permetto di scrivervi per informarvi della recente pubblicazione da parte del prestigioso Humanitarian Policy Group (un think thank britannico facente capo all’Overseas Development Institute) di un mio articolo sulla storia della pastorale e delle attività di carattere umanitario realizzate dall’Istituto Missionario della Consolata in Colombia durante la seconda metà del XX secolo. Lo studio è apparso sotto forma di capitolo per un rapporto d’analisi contenente varie contribuzioni riguardanti la storia dell’azione umanitaria in America Latina.

I risultati del lavoro etnografico e delle ricerche d’archivio effettuate nell’ambito del progetto di ricerca che ha preceduto tale pubblicazione permettono di identificare il peculiare modus operandi dei missionari Imc che, a partire dal secondo dopoguerra, furono assegnati al settore colombiano della selva amazzonica, in un contesto assai violento. Lungi dall’essere interessati esclusivamente all’evangelizzazione religiosa, i religiosi dell’Imc diedero la priorità all’azione umanitaria e allo sviluppo locale della regione attraverso la costruzione di scuole, la creazione di amministrazioni locali, l’appoggio alle iniziative di autonomia economica e la partecipazione diretta a negoziati con i gruppi armati (guerriglia, paramilitari, forze armate regolari) al fine di ottenere tregue, scambi di prigionieri e restituzione dei corpi delle vittime alle famiglie.

Il titolo della ricerca è Sotanas en el barro: El Instituto Misionero de la Consolata la pastoral humanitaria en Colombia (1947–2007) (Sottane/tonache nel fango, l’Istituto missioni Consolata [e] la pastorale umani- taria in Colombia). Vi invio i miei più cordiali saluti.

Alì, Maurizio
Université des Antilles – Martinique – Francia 01/02/2017

Grazie per la segnalazione della ricerca che siamo felici di rilanciare qui. Lo studio è frutto di un lavoro che il nostro Istituto ha promosso sotto la guida di padre Matthew Arose Magak, missionario keniano, per studiare l’impatto della presenza dei missionari nel Sud della Colombia. Il testo è disponibile in spagnolo su Internet.

 

Grazie

Buongiorno a tutta la redazione,
sono un vostro abbonato da molti anni, ho letto l’ultimo numero e mi sento una volta di più di ringraziarvi per l’impegno, la serietà ed il livello della pubblicazione. La vastità e la profondità degli argomenti trattati non ha pari nel panorama della stampa attuale e sono convinto che rispecchi i vostri sentimenti nei confronti dei lettori. Vi voglio bene!

Luigi Verone – email, 02/2017

Gent.mi Missionari,
ho inviato (come mia consuetudine) la somma annuale per le esigenze della vostra comunità. So che è poco ma le mie due pensioni scendono di continuo, mentre la famiglia ha sempre più esigenze. Ho tre figli sistemati e 5 nipoti in attesa di esserlo e un piccolissimo pronipote di 4 mesi.

Vorrei aiutare tutti ma, vivendo sola (ho 83 anni) a volte serve a me un aiuto. Basta parlare di me. Mi rallegra e mi soddisfa sempre la vostra rivista sempre vera in tutte le sue parti. Se potete, dalla somma togliete i soldi per una santa Messa per i miei vivi e defunti, per il resto usateli come meglio credete. Grazie ancora per l’aiuto che mi date in questi ultimi giorni.

M.F. Rossi – lettera, 18/02/2017

Gentile M. F.,
è sempre bello ricevere lettere scritte a mano. Se poi sono vergate su foglio di quaderno a quadretti come la sua, sono più belle ancora, perché rievocano un mondo di sentimenti e impressioni di altri tempi. Non immagina quanta gioia ci dia il suo affetto e quanto prezioso diventi il suo aiuto, che – anche se lei scrive «che è poco» – vale davvero un tesoro.

Ringraziando lei, vorrei ringraziare ciascuno dei nostri benefattori. Tutti quelli che, come lei, ci aiutano non perché sono ricchi, ma perché hanno un cuore grande e sanno avere occhi per chi vive in situazioni ancora più difficili delle loro.

Il 12 gennaio 1908, il beato Giuseppe Allamano, nostro fondatore, scriveva per noi missionari questo ammonimento: «Quanto abbiamo è frutto dei sacrifici dei Benefattori. […] Quando leggo la lista delle offerte, vi assicuro che faccio una vera meditazione: mi fermo di tratto in tratto a far qualche aspirazione a Dio, per essi, per pregare per quei che sono morti. Quelle offerte sono lacrime, sono sangue […] e richiedono da parte nostra che preghiamo per tutti i benefattori passati, presenti e futuri, che siamo loro grati».

Per oltre un secolo, dal 1901 al 2003, la nostra rivista ha riportato con pignola fedeltà la lista completa di chi aiutava le nostre missioni. Era un modo per essere «trasparenti» con i nostri amici e benefattori. Poi le regole di postali sono cambiate e siamo stati costretti a togliere la lista per non dover pagare cifre impossibili di abbonamento (è servito a poco, perché poi il primo aprile 2010 la stangata è arrivata lo stesso). Anche se non pubblichiamo più la lista, la gratitudine da parte nostra non è venuta meno. Grazie di cuore a ciascuno. Specialmente alle nostre amate bisnonne, come M. F., grazie.

 

Ricordando sior Ignazia

Suor Ignazia Pia Wambui Murai da Mugoiri nella diocesi di Muranga (un tempo Fort Hall) in Kenya, dopo 60 anni di vita missionaria, venerdì 3 marzo scorso è andata a godere il meritato riposo nella casa del Padre. Nata probabilmente nel 1931, figlia di un influente capo kikuyu divenuto cristiano col nome di Ignazio, Wambui, battezzata Theresa e diventata la prima missionaria della Consolata keniana, ha voluto rendere omaggio a suo padre prendendone il nome. Nella foto è ritratta con la sorella Emma, che ha lavorato nel corpo diplomatico del Kenya indipendente, probabilmente il giorno della sua professione perpetua. Riposi in pace.




Cari Missionari


Uccelli paradiso

Riguardo al problema della deforestazione a Papua Nuova Guinea (M.C. n.10/2016) credo sia giusto rimarcare che gli habitat in questione sono la dimora delle paradisee, o uccelli del paradiso, così chiamati per la loro straordinaria bellezza e non solo… Oltre che un simbolo del mondo naturale queste creature sono parte integrante della cultura e dell’identità nazionale (bandiere, divise militari, compagnia aerea locale). Senza gli uccelli del paradiso, Papua non sarà più la stessa: pensare che si estingueranno solo perché delle società straniere devono aumentare i loro già scandalosamente alti profitti sul legno pregiato, sui fazzoletti da naso, sui tovagliolini, sulle tovagliette e sulla carta igienica, fa venire il voltastomaco.

Mario Pace
18/11/2016

Il giubileo è terminato, la misericordia continua

Comunicato stampa

Presentata alla Cei una nuova iniziativa che in tutta Italia risponderà all’appello del Papa per mantenere vivo lo spirito di Misericordia. L’Anno Santo si è appena concluso ma riecheggiano i continui appelli di Papa Francesco a perseverare nella Misericordia, in particolare verso i più bisognosi.

Per dare una concreta risposta, Mons. Mario Lusek, direttore dell’Ufficio nazionale Cei per la Pastorale del tempo libero, turismo e sport, ha espresso il suo pieno appoggio alla nuova iniziativa del portale www.ospitalitareligiosa.it denominata «Settimane della Misericordia», che porterà le strutture ricettive religiose e laiche di tutta Italia ad ospitare gratuitamente per una settimana persone e famiglie in particolare stato di necessità, così da consentire loro un periodo di serenità, lontane dai problemi di tutti i giorni.

Un’iniziativa parallela era già stata attivata in occasione del Giubileo; in questa occasione il periodo interessato sarà da maggio a ottobre 2017, in modo che le ospitalità corrispondano ai periodi in cui abitualmente famiglie e bambini organizzano le proprie vacanze.

Ma quali saranno i destinatari di queste concrete opere di Misericordia? Famiglie numerose mono o senza reddito, genitori singoli con figli a carico, pensionati con un reddito insufficiente, adulti rimasti senza lavoro; persone che in ogni caso non potrebbero permettersi un breve soggiorno a pagamento.

Sul meccanismo di accesso vigilerà l’Associazione no-profit Ospitalità Religiosa Italiana, ma saranno diocesi e parrocchie a farsi garanti nell’identificare quelle particolari situazioni di bisogno per le quali la settimana di vacanza potrà risultare utile per ritrovare una serenità che stenta ad emergere.

L’iniziativa risponde quindi alla necessaria concretezza che Papa Francesco richiama continuamente nelle opere di misericordia. Ora sta ai gestori delle strutture di ospitalità, sia religiose che laiche, rispondere alle attese del pontefice e alla speranza di chi, nel bisogno, vive una realtà che solo la disponibilità del prossimo può in qualche modo cambiare.

Fabio Rocchi
presidente Ass. Ospitalità Religiosa Italiana
www.ospitalitareligiosa.it
20/11/2016

Risurrezione dei morti

Al funerale di un amico ho sentito una notevole predica di un parroco particolarmente dotto, forse consapevole di rivolgersi a un pubblico composto prevalentemente da docenti universitari, come il defunto. E la predica mi ha aperto un mare di dubbi sul finale del Credo, la resurrezione dei morti. Cosa significa? che risorgeremo alla fine del mondo? e la nostra anima immortale nel frattempo cosa fa? e perché dobbiamo risorgere col nostro corpo? quale? quello al momento della morte? grazie, preferisco di no…

Islam. Avete già pubblicato una esauriente rassegna delle diverse versioni dell’Islam, ma forse sarebbe opportuno anche un ripasso di tipo storico. Nel senso che dopo le tensioni iniziali, non ci sono state per secoli tra le diverse letture dell’Islam tensioni analoghe a quelle tra cattolici e protestanti. Il sunnita Saladino fu nominato visir dall’iman sciita dell’Egitto, e poi ne divenne sultano, senza tensioni: come se un papa del ‘600 avesse messo il regno di Napoli nelle mani di una dinastia protestante…

Aleppo, insieme a Gerico la più antica città del mondo ancora esistente, viene distrutta anche per un contrasto tra sciiti e sunniti di diverse osservanze.

Claudio Bellavita
12/12/2016

Comincio rispondendo alla seconda parte del suo scritto. Abbiamo appena iniziato una serie di articoli per approfondire la conoscenza dell’Islam, rendendoci perfettamente conto della sfida di presentare una realtà complessa, non omogenea e con una storia più che millenaria. Cercheremo di tener conto dei suoi suggerimenti.

Andando invece alla questione che lei solleva circa il Credo e la resurrezione dei morti, non ho qui la pretesa di rispondere alle sue domande. Evidenzio solo alcuni dati biblici.

Il primo: nella Bibbia la persona umana non è composta da due elementi separabili (anima e corpo) come invece siamo abituati noi a considerarla in base alle nostre convinzioni ereditate dalla filosofia greca. La persona umana  è tale perché è carne (b?s?r), spirito (ruakh), anima (nephesh) e cuore (l?b). Queste non sono parti (separabili) dell’uomo, ma solo aspetti diversi del suo unico modo di essere/esistere. La persona è tale perché è unità di tutti questi aspetti.

La morte non è la separazione dell’anima dal corpo, ma la nascita di tutta la persona in un modo del tutto nuovo, al di fuori della nostra esperienza spazio-temporale (kronos) ma nella dimensione del tempo di Dio (kairos).

Prendiamo l’esempio di Gesù risorto. Dalla descrizione che ne abbiamo nei Vangeli sappiamo che Gesù si può toccare, porta i segni della passione, parla e ascolta, cammina e mangia. Eppure Gesù entra in una stanza chiusa senza passare dalla porta, si presenta in luoghi diversi e scompare come è apparso, e via dicendo… tutti indizi che ci fanno capire come sia la persona vera e concreta di Gesù, quella che i discepoli hanno incontrato, ma anche come lui sia «altro», il Risorto.

Concludo citando il «Catechismo della Chiesa Cattolica» che citando san Paolo usa l’immagine bellissima del seme e del fiore/pianta per spiegare l’unità e la diversità tra la nostra vita presente e la vita da risorti.

«N. 999 Come (risuscitano i morti)? Cristo è risorto con il suo proprio corpo: “Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io!” (Lc 24, 39); ma egli non è ritornato ad una vita terrena. Allo stesso modo, in lui, “tutti risorgeranno coi corpi di cui ora sono rivestiti”, ma questo corpo sarà trasfigurato, in “corpo spirituale” (1 Cor 15, 44).

«“Ma qualcuno dirà: ‘Come risuscitano i morti? Con quale corpo verranno?’. Stolto! Ciò che tu semini non prende vita, se prima non muore, e quello che semini non è il corpo che nascerà, ma un semplice chicco… Si semina corruttibile e risorge incorruttibile… È necessario infatti che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta di immortalità” (1Cor 15,33-37.42.53).

«N.1000 Il “come” supera le possibilità della nostra immaginazione e del nostro intelletto; è accessibile solo nella fede. […]».

Credo proprio che l’immagine del seme e dell’albero, o, se vogliamo usarne un’altra simile, quella dell’uovo e dell’uccello, sia quella che meglio può aiutarci a capire il mistero dell’unità/unicità nella diversità che c’è tra il nostro esistere nel tempo/kronos e nell’eternità.

Obrigada

Carissimi fratelli,
vi scrivo dalla parrocchia di Massinga, diocesi di Inhambane, Mozambico. Leggo sempre la rivista appena arriva nella nostra missione. Oggi desidero proprio farvi i complienti per la qualità del vostro servizio giornalistico che presenta non solo «le nostre missioni» ma il panorama del mondo attuale. Mi riferisco in particolare ai vostri dossier che ci aiutano a vedere le tragedie, i conflitti, le miserie e anche i progressi dell’umanità con lo stesso sguardo di Cristo, uno sguardo che suscita sentimenti di misericordia, compartecipazione e ci fa chiedere «qual è la mia parte in tutto questo?». Così possiamo riscoprire le vere radici dell’umanesimo cristiano in noi stessi e nella nostra società.

Un’altra rubrica della rivista che è fantastica è «4 chiacchiere con i Perdenti» di un valore letterario e storico da meritarsi un premio. Mi piace anche «Persone che conosco». Infine, dall’inizio alla fine, la rivista non ha niente che non valga la spesa leggere. Obrigada (grazie)! Mi sento orgogliosa di voi.

Sr. Bénides Clara Capellotto, missionaria della Consolata, Inhambane, Mozambico, 08/12/2016

Grazie di cuore. Garantito che non l’abbiamo pagata per tutti questi elogi!


Il Nastro d’argento a Gianni Minà

Dopo il Berlinale Kamera al festival di Berlino del 2007, Gianni Minà, che da ottobre 2015 firma su MC la rubrica «Persone che conosco», è stato insignito del Nastro d’argento alla carriera per il suo lungo viaggio nella realizzazione di documentari, special e racconti storici tramite immagini, iniziato oltre mezzo secolo fa. Così ha deciso l’Sngci (Sindacato nazionale giornalisti cinematografici italiani) per premiare anche il più recente scornop giornalistico realizzato da Minà: «L’ultima intervista di Fidel», una testimonianza concessagli dal leader cubano nel settembre del 2015 che ora rappresenta un documento di grande importanza storica. In questa stagione, che lo ha visto premiato al Festival di Toronto lo scorso settembre, Minà ha raccolto consensi anche con il lungometraggio «Papa Francesco, Cuba e Fidel» (presentato, in anteprima nazionale, a Torino nell’aula magna di MC lo scorso 22 novembre) nel quale trovano spazio tutti i protagonisti della controversa storia di Cuba e dell’embargo Usa: dagli ex presidenti Barack Obama e Jimmy Carter a Raul Castro, dal sostituto Segretario di stato Vaticano mons. Becciu all’ex arcivescovo dell’Avana Jaime Ortega, al teologo della liberazione Frei Betto, fino allo stesso papa Francesco. La cerimonia di consegna del premio, alla Casa del Cinema di Roma, è prevista per il 3 marzo 2017. (MC)

Facevano 200 (+2) anni in due

Lo scorso 28 settembre padre Giovanni Battista Demichelis (quello con il cappello in testa nella foto) è «nato al cielo». Nativo di Sampeyre (Cn) aveva vissuto tra noi 100 anni e 26 giorni, celebrando 75 anni di sacerdozio di cui ben 44 in Colombia dove è rimasto dal 1948 al 1992, prestando il suo servizio a Guataquí, San Vicente del Caguan, Doncello, Rionegro, Modelia, Tocaima, Calí, Bogotá, Puerto Rico e Paujil. Tornato in Italia è stato rettore della chiesa del Beato Allamano per alcuni anni e poi confessore nella stessa, servizio che ha smesso solo quando ormai ultra novantenne si è ritirato ad Alpignano.

Nella foto, scattata ad Alpignano il 23 giugno 2016, sta spingendo la carrozzella su cui è seduto padre Bartolomeo Malaspina. A quel tempo i due, insieme, facevano 200 anni e aspettavano il 23 gennaio 2017 per celebrare i 202. Ma il 7 gennaio 2017 anche padre Bartolomeo ha ricevuto un’offerta che non ha potuto rifiutare e i due sono ora insieme nel giardino di Dio, dove godono della compagnia di Colui che è stato la ragione della loro vita e degli altri 801 missionari e 940 missionarie della Consolata che li hanno preceduti lassù. Padre Bartolomeo Malaspina era nato a Sezzadio (Al) nel 1915, sacerdote nel 1939, nel 1941 era stato arruolato come cappellano militare e mandato in Tunisia. Fatto prigioniero dagli inglesi nel 1943, aveva fatto con i soldati sopravvissuti tre durissimi anni di prigionia, durante i quali era stato dato per morto dai superiori perché impossibilitato a comunicare con Torino. Rientrato in Italia ha insegnato scienze naturali a generazioni di missionari e dal 1978 ha curato la conservazione e l’allestimento del «Museo etnologico e di scienze naturali» nella Casa Madre di Torino, servizio svolto fino al 2008. Rimasto ancora arzillo e servizievole in Casa Madre, solo nel maggio 2016, ormai centenario, si è ritirato ad Alpignano per farsi trovare pronto all’ultimo appello. (MC)


Due note per i nostri lettori

Sostenere la rivista. Questa pubblicazione si sostiene solo grazie al vostro contributo volontario e specifico pro-rivista. Quando voi mandate un aiuto per i nostri missionari o i nostri progetti, MCOnlus, nostra editrice, versa tutto, fino all’ultimo centesimo, ai destinatari delle vostre donazioni.

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Cari missionari dialogo con i lettori

Un anno senza Romolo

Ci lasciava un anno fa Romolo Momo Levoni, poeta dialettale, esperto di tradizioni locali e campione di solidarietà, fondatore e presidente del Grg (Gruppo Resurrection Garden).

È stato un anno duro, il 2016, un anno passato senza la presenza abituale, familiare, patea, rassicurante di quel piccolo grande uomo che era Romolo Levoni, per gli amici della sua terra Momo. Chi era abituato a vederlo nelle piazze di tutta la provincia di Modena col suo mulino ad acqua e con gli amici del Grg, quest’anno non l’ha più ritrovato, chi frequentava gli appuntamenti fissi con la cena di Castelnuovo Rangone e la festa della Manyatta su ai Roncaccioli di Lama Mocongo, non ha voluto mancare comunque, chi aspettava il sabato per leggere le sue «brontolate» in dialetto sulla Gazzetta di Modena, si è dovuto rassegnare e ormai da dodici mesi deve fae a meno, e, infine, chi attendeva, con l’ansia dei bambini la notte di Natale, i suoi auguri, che, da 38 anni, sotto forma di filastrocca dialettale (zirudele si chiamano a Modena) arrivavano puntuali per posta, ha dovuto accettare che non siano arrivati, com’era successo nel 2015. Le migliaia di amici e affezionati lettori di Romolo, dopo trentotto anni, non hanno ricevuto quella fotocopia in bianco e nero, fronteretro, che ogni Natale allietava, con allegria e lucida sagacia, raccontando i più significativi fatti e personaggi dell’anno in una zirudela (filastrocca dialettale in rima baciata, «per gli uomini in lingua» come avrebbe detto lui). Romolo la pensava, la scriveva, la stampava e la spediva, quella zirudela, sapendo di far felici amici sparsi per l’Italia.

Ci ha fatto una brutta sorpresa, dodici mesi fa, l’amico Romolo, poeta dialettale, esperto e scrittore di tradizioni locali, il saggio montanaro, ma soprattutto infaticabile benefattore, andandosene a 83 anni e lasciandoci un po’ più soli.

Soli, ma non rassegnati, né tantomeno fermi, i «suoi» infaticabili volontari del Grg, l’associazione che Romolo aveva fondato nel lontano 1991, con l’adorata moglie Carmen, poi trasformata in onlus nel 1999, per consentire gli studi a bambini della baraccopoli di Soweto, a Nairobi, in Kenya, in strutture create e gestite dai Missionari della Consolata. Quella straordinaria e unica esperienza che si chiama Familia Ufariji.

Solidarietà che ha saputo, per strada e negli anni, coinvolgere e raccogliere sempre più amici pronti a donare tempo, idee, lavoro e passione per raccogliere fondi per i piccoli «poveri, sfortunati fratellini» come li chiamava lui.

Fratellini che sicuramente ricordano le svariate visite che Romolo fece loro, direttamente a Nairobi e dintorni, che sentiranno di sicuro la mancanza del suo sguardo buono, del suo sorriso sereno, dei suoi abbracci sinceri.

Ma siccome Romolo ha seminato bene, i «poveri sfortunati fratellini» possono, e potranno, continuare a contare sul Grg che, nonostante altre perdite dolorose, come quella di padre Ottavio Santoro, e di un altro dei volontari, il consigliere Franco Muzzioli, superato il legittimo momento di dolore e sgomento, si sono riorganizzati e sono ripartiti mantenendo regolari le attività in Italia e in Kenya.

Questo grazie anche al fatto di aver trovato due nuovi fondamentali interlocutori in Kenya, come padre James Lengarin, amministratore regionale, e padre Joseph Mwaniki, responsabile del Resurrection Garden, conosciuti personalmente nella straordinaria visita che alcuni rappresentanti hanno effettuato in Kenya questo 2016. Padre James e padre Joseph sono giovani, attivi e affidabili e rappresentano una garanzia di buon uso delle risorse affidate loro.

«Romolo ci ha lasciato – scrive il presidente Sotero Marasti nella lettera d’autunno – consegnandoci una bellissima eredità fatta di bimbi che grazie al Grg possono istruirsi e avere un pasto assicurato… abbiamo avuto in eredità una associazione sana, viva e vitale con tante persone che per essa s’impegnano».

Tra questi vanno sicuramente ricordati Emilio, lo chef laziale trapiantato in Toscana che ogni anno emigra per un giorno a Castelnuovo per organizzare impeccabilmente la cena d’autunno del Grg, o come il suo grande amico Ermes, l’oste dei gabbiani, al quale Momo aveva dedicato un libro nel 2006 «Un gabian a Modna» e proprio nelle ultime settimane il seguito virtuale «Un eter gabian», la sua ultima pubblicazione. E ancora vanno ricordate le tante associazioni come il circolo di Castelnuovo, il Gruppo Alpini di Pavullo, gli Amici di Ermes, il Filo di Marinetta, le ragazze del Banchetto di natale e i ragazzi del Mercatino di Natale, i tanti che collaborano e rendono possibili iniziative come il picnic sotto le stelle o la Festa della Manyatta del 26 giugno, ricorrenza della Madonna Consolata, dal cui istituto provengono i padri che operano col Grg in Kenya.

Ma Romolo ha pensato ai suoi bimbi della scuola della Familia Ufariji anche in altro modo, cioè con il suo testamento: ha lasciato al Grg parte dei suoi beni, compresa la preziosa sede nella quale i volontari operano.

Era nato a Castelnuovo, ma da molti anni, con la moglie Carmen, si era trasferito tra i monti di Lama Mocogno, dove poteva dedicarsi all’orto, alla terra e ai boschi tanto amati; dopo gli anni del lavoro, da capostazione, memore della figura del padre ferroviere e amatissimo, si è dedicato agli studi delle tradizioni locali e alla scrittura. Da «sapiente della montagna», come lo definì il prof. Fabio Marri, diventò alla fine degli anni ’70 un vero esperto delle tradizioni locali, scrivendo, dal 1979 al 2015, e pubblicando decine di volumi tra i quali ricordiamo «Rosch e Bosch», «Mo… cojozzi», «Don Mario e noi», «Magner in dialat», «Piazza nuova e vecchi giuochi», «Un gabian a Modna», «Castelnuovo, gente e vita, da la saraca all’aragosta», lucidissima disamina su come la nostra società sia diventata da rurale a industriale e tecnologica.

Tra i tanti amici che sentiranno la sua mancanza ci sono anche Ermes, l’oste più famoso di Modena, che in tante occasioni ha destinato i fondi raccolti con le sue iniziative a base di gnocco fritto al Grg e che aveva seguito Romolo anche a Nairobi, in mezzo ai bambini adottati nella Familia Ufariji, Angelo Giovannini, che proprio insieme a Momo ha realizzato la sua ultima opera «Un eter gabian», Roberto Alperoli, ex-sindaco di Castelnuovo e intellettuale vero, che lo definì «un discolo senza età, dagli occhi indaffarati e dalle mani febbrili, sempre intento a cercare di aggiustare (almeno un poco) il mondo».

Esattamente come aveva fatto fino a un anno fa. Ciao discolo, tranquillo… i tuoi ragazzi vanno avanti, il Grg e i tuoi bimbi hanno un futuro.

Angelo Giovannini
per il Grg, Modena, 06/12/2016

Fratel Carlo da Catrimani

Pubblichiamo qui, con qualche taglio, l’interessantissima lettera di Natale di fratel Carlo Zacquini, missionario della Consolata tra gli indios Yanomami. I titoletti sono nostri.

Amici carissimi,
[…] cercherò di aggioarvi su alcune situazioni locali e attività che stiamo svolgendo.

Invasioni

In questi ultimi tempi, abbiamo avuto parecchie notizie sulla situazione dell’invasione illegale della Terra Indigena Yanomami e Ye’kuana, da parte dei cercatori d’oro. L’attività non tende a scemare, anzi, pare si stia spargendo. Un’operazione militare è stata fatta lungo il corso del rio Uraricoera, il mese scorso. Era il luogo che apparentemente aveva la maggior concentrazione di «garimpeiros», che stavano aumentando a vista d’occhio. L’operazione ha portato alla distruzione di una dozzina di chiatte e relativi macchinari che erano usati per l’estrazione dell’oro dal fondale del fiume.

In seguito, è stata montata un’altra operazione che ha forzato alcune centinaia di cercatori d’oro ad abbandonare le località che avevano occupato. Si spera sempre che il governo la smetta di giocare al ritiro di «garimpeiros», come azione per far tacere le denunce. Di fatto, in seguito, gli invasori ritornano agli stessi luoghi in poco tempo, e il governo (polizia, militari, …) può giustificarsi dicendo che reprimono l’attività illegale, ma non «riescono» a impedire il ritorno degli invasori. Indagini fatte dalla stessa Polizia Federale hanno scoperto come funziona il tutto: chi finanzia gli invasori, quanto rende questa attività e come è «lavato l’oro estratto illegalmente, per mezzo di una compagnia di valori di São Paulo. Non ho conoscenza di persone punite per queste attività illegali. In questo contesto di impunità, chi finisce per avere la peggio sono gli Yanomani.

Uccisioni

Ciononostante non sono gli unici a soffrie le conseguenze. È stata confermata l’uccisione di sei «garimpeiros» da parte di un gruppo di Yanomami, in una regione non lontana dalle sorgenti del rio Catrimani. La notizia che si è sparsa dopo la denuncia anonima di un cercatore d’oro «sconosciuto», è stata poi confermata da alcuni Yanomami a mezzo radio. Essi hanno anche avvisato che avevano bruciato i cadaveri. Due settimane fa, il governo ha organizzato una spedizione per riscattare i cadaveri. La spedizione che si è recata sul luogo con un elicottero (si tratta di località di difficile accesso in piena foresta), ha riportato a Boa Vista i resti dei corpi che erano stati bruciati con un fuoco molto grande, probabilmente ottenuto con l’uso del combustibile che i «garimpeiros» usavano per azionare i motori necessari per l’estrazione del minerale. L’identificazione dei «corpi» è stata affidata a specialisti che avranno certamente molto lavoro per arrivare a stabilire a chi appartenevano.

Mi sono chiesto come può essere capitato questo «incidente». Non è facile poterlo affermare. Anche se, come sempre, si sa che il modo di fare degli invasori è quello di cercare di ingannare gli indigeni, facendo promesse, distribuendo piccoli regali, foendo un po’ di alimenti (riso, sale, …). In alcuni casi offrono armi da fuoco ai leaders più influenti (fucili da caccia), e poi li tengono buoni lesinando le munizioni. Mi è stato detto anche che sarebbero morti tre bambini in poco tempo, forse per causa di malattie introdotte involontariamente dai cercatori d’oro; un indigeno ha detto che i «garimpeiros» avrebbero minacciato qualcuno di loro. Sta di fatto che il famoso massacro di Haximu, nel quale persero la vita sedici Yanomami, in maggior parte bambini, avvenne molto vicino al nuovo luogo del conflitto; gli Yanomami erano al corrente di come il tutto era avvenuto in quell’occasione, e con ogni probabilità hanno riscontrato qualche analogia nel comportamento di quelli che a suo tempo avevano partecipato all’atto genocida.

Funai ridimensionata

Su un’altra questione, abbiamo finalmente ottenuto da un funzionario della Funai delle buone fotografie aeree del villaggio di indigeni isolati che da oltre un anno sono in una località prossima ad uno dei luoghi di «garimpo» clandestino, e senza la possibilità di controlli, a causa della ristrettezza di fondi che il Goveo Federale ha stabilito per la Funai. Ho l’impressione che, in alto loco, stiano tentando di rendere la Funai un organo decorativo. Ci sono parecchi indizi, non solo a Roraima, che questo stia avvenendo.

È abbastanza frequente che autorità di vari livelli si pronuncino sfavorevolmente circa il rispetto dei diritti dei popoli indigeni garantiti nella Costituzione Federale.

Ad ogni modo, per lo meno per ora, pare che il villaggio isolato goda di buona salute; sono sulle spine perché questa situazione può precipitare in qualsiasi momento e nessuno sta prendendo provvedimenti per cercare di evitarlo.

Più morti che in guerra

Saltando di palo in frasca. Vi riporto alcuni dati che ho trovato sul giornale EcoDebate, il giorno 08/11/16: «Secondo i dati dell’Istituto di Ricerca Economica Applicata (Ipea) e del Forum Brasiliano di Sicurezza Pubblica, il Brasile ha raggiunto la cifra record di 59.627 omicidi nel 2014, il che equivale a 160 morti al giorno. Giovani neri, con poca scolarità, e donne sono le principali vittime di un paese il cui popolo, al contrario di ciò che si divulga, non è allegro, né pacifico o tollerante in relazione alle differenze. In verità, il Brasile si è mostrato uno dei paesi più violenti del mondo, nel quale le morti banali e futili, sono più numerose di quelle che succedono in nazioni in guerra». La traduzione veloce è mia, per cui ci può essere qualche errore. Ho paura di dimostrare col mio scritto molto pessimismo, me ne scuso, e cambio argomento.

Centro di Documentazione Indigena

I consiglieri della nostra Regione missionaria hanno deciso che si può mandare avanti il progetto di costruzione di un edificio ad hoc per il Centro di Documentazione Indigena (Cdi); ora si tratta di trovare qualche tecnico che si incarichi di elaborae il progetto. Per ora il Cdi funziona in locali improvvisati, e mi sembra che stia riscuotendo sempre maggiori consensi tra gli indigeni e tra gli studenti e insegnanti specialmente delle università locali. Sono sempre più frequenti quelli che ci cercano e consultano i nostri archivi; inoltre gradualmente finiscono per ingaggiarsi nel nostro lavoro e nel nostro sport preferito che è quello della difesa dei diritti dei popoli indigeni. A tutti voi che seguite le nostre attività/avventure, un buon Natale e un anno nuovo degno di buoni missionari; vi ricordo sempre nei miei sciamanismi. Con affetto.

fratel Carlo Zacquini
Boavista, Roraima, 05/12/2016

Mafie e denaro pubblico

La trasformazione dell’economia normale in economia criminale

I soldi pubblici (provenienti da appalti, sovvenzioni, contributi, concessioni e così via) costituiscono lo scopo primario del potere delle nuove mafie in Italia e segnano il connubio tra organizzazioni criminali, mondo dell’imprenditoria e politica. Quest’alleanza genera un vero e proprio sistema criminale, parallelo a quello legale, poco rischioso e dai guadagni incalcolabili. La criminalità organizzata ormai ha esteso i suoi tentacoli in ogni regione italiana condizionando il settore dell’imprenditoria che lavora soprattutto con i soldi pubblici. L’infiltrazione nel sistema di assegnazione e gestione del denaro pubblico avviene attraverso imprese «immacolate» sotto ogni punto di vista ma che, di fatto, sono già controllate dalla criminalità organizzata. L’intimidazione è l’extrema ratio, in quanto la mafia, attraverso il sistema corruttivo e il sostegno economico a queste imprese, che spesso sono in crisi, riesce a gestire il tutto senza particolari clamori e nella massima trasparenza. Per far sì che le imprese «mafiosizzate» siano beneficiarie dei fondi pubblici la criminalità organizzata deve fare in modo che le altre imprese non presentino offerte o si ritirino dalle gare. Le organizzazioni criminali se riescono, fanno presentare offerte ad altre imprese che già gestiscono, in caso contrario, utilizzano il metodo mafioso «classico» (intimidazioni di ogni genere fino all’omicidio) per far sì che l’impresa che l’organizzazione ha cornoptato risulti aggiudicataria unica. Nel caso d’imprese non controllate ed escluse dalla gara, occorre impedire alle medesime di rivolgersi agli organi giudiziari ed anche in questa ipotesi, all’intimidazione si preferisce il meccanismo corruttivo mediante la promessa di vantaggi economici o di partecipazione a future gare, fermo restando che se non funziona il metodo «dolce» si utilizzerà quello violento. In questo sistema particolarmente articolato, svolgono una parte predominante imprenditori, politici, funzionari pubblici, progettisti, direttori dei lavori, tutti con funzioni e compiti specifici. Utilizzando lo strumento delle tangenti, la politica garantisce alle mafie l’erogazione dei soldi pubblici e il sistema del massimo ribasso costituisce il terreno fertile per l’infiltrazione mafiosa e per il perfezionamento dell’alleanza. L’alterazione della gara avviene sempre determinando in via preventiva i ribassi che ciascun’impresa deve indicare nella sua offerta. A questa situazione ormai endemica imposta dalle mafie, soggiacciono quasi tutte le imprese sul territorio nazionale che estendono i loro affari anche in ambito europeo e internazionale, poiché, di fatto, non avrebbero alternative plausibili. Come porre rimedio a una situazione a dir poco aberrante come questa in precedenza esposta? A tal proposito ci vengono in soccorso le intuizioni di Rocco Chinnici, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, secondo i quali bisognerebbe indagare sui flussi di denaro e sui complici «puliti» delle mafie, ad esempio, controllando tutte le ditte partecipanti a una gara, disciplinando in maniera ferrea il sistema della revisione dei prezzi, delle varianti in corso d’opera e degli enti appaltanti. A mio giudizio, andrebbe tassativamente eliminato il sistema del massimo ribasso che offre notevoli possibilità di falsare le gare pubbliche. In conclusione, vorrei ricordare che l’ex magistrato Antonio Ingroia, dichiarò dinanzi alla Corte d’Assise di Caltanissetta che Paolo Borsellino gli confidò di essere convinto che, attraverso il carteggio di Giovanni Falcone sull’inchiesta «Mafia e Appalti», si sarebbero potuti individuare i moventi della strage di Capaci. Questo dimostra quanto importante sia il settore dell’erogazione di denaro pubblico e dunque occorre battersi per la prosecuzione delle attività e delle idee di Falcone e Borsellino. Prevenire, controllare e sanzionare ogni abuso in questo particolare settore significa non far passare più il messaggio che le mafie danno lavoro mentre lo Stato no! Oltre alla magistratura e alle forze di polizia occorrono adeguate forme di organizzazione e mobilitazione affinché tutti uniti si ponga fine a un sistema altamente nocivo che sta trasformando l’economia legale in economia criminale.

Vincenzo Musacchio,
giurista e direttore della Scuola di Legalità «don Peppe Diana» di Roma e del Molise, 19/11/2016

Colombia

Gentilissimo Dr. Moiola,
martedì scorso sono venuta in Via Cialdini per il documentario di Gianni Minà e ho preso uno dei numeri della Rivista MC Novembre 2016, che gentilmente offrivate. Già da tempo conosco i suoi articoli ed ora ho appena finito di leggere quelli sulla Colombia e voglio manifestarle tutto il mio apprezzamento per la chiarezza e il rigore con cui li costruisce. Leggere pagine come le sue, è un vero piacere! Ho ritrovato nomi di missionari e luoghi a me molto cari e non soltanto per aver parlato dei progetti Missionari per molti anni nelle mie lezioni, ma anche per evocazioni di un passato personale. Grazie ancora per la sua costante attenzione per la Colombia e per le sue popolazioni indigene! Molto cordialmente

Silvia Giletti
Progetto Diritti Umani e Globalizzazione, Università degli Studi di Torino, 26/11/2016

 




Cari missionari

Giustizialismo e furbetti

Dinnanzi a coloro che usano la parola «giustizialismo» i giudici hanno uno spettro di reazioni che va dall’arricciamento di naso all’indignazione profonda. Sicuramente anche il giudice Caselli (cfr. MC. 7/2016 p. 33) è tra coloro che non vanno matti per questa parola.

Per quanto mi riguarda, perplessità e disagi ancora più grandi me li creano anche la parola «furbate», la parola «furbetti» e certi complementi di specificazione che molti cultori della legalità o sedicenti tali, hanno preso l’abitudine di aggregare a queste parole. La domanda che vorrei porre è questa: i giudici del caso Tortora, che invece di chiedere scusa, invece di essere biasimati e di pagare per i grossolani e catastrofici errori compiuti, hanno fatto – grazie ad altri uomini di legge -, tutti quanti, una carriera da Mille e una notte, vogliamo definirli dei fedeli e integerrimi servitori dello stato?

Se è vero che la lotta contro i furbetti del quartierino, i furbetti dello scontrino, i furbetti del cartellino, deve continuare perché rappresenta un pezzo importante della lotta contro la corruzione, non è altrettanto vero che anche i furbetti del verbalino, i furbetti del bilancino, i furbetti del bisognino, dovrebbero essere adeguatamente sanzionati e condannati a restituire il maltolto? Siete sicuri che il vigile urbano beccato a timbrare in mutande sia più colpevole dei colleghi che, per far cassa e carriera, multano (e a volte ammazzano) i disabili, multano i veri invalidi, multano i senzatetto e il possesso del cartone da essi utilizzato come giaciglio per la notte?

Chi è più sporco, chi è più corrotto? Il soggetto che, in mancanza di meglio, fa un goccio di pipì dietro il cespuglio o i poliziotti che gli fanno la posta (o stalking?) per affibbiargli cinquemila euro di contravvenzione?

Vi sembra degno di un paese democratico e di una nazione civile – e qui mi rivolgo anche al giudice Caselli – che chi reagisce a tutto ciò dicendo «vergogna», dicendo «smettete di dir bugie», dicendo «smettete di mettere l’etica professionale dietro le esigenze di bilancio» debba beccarsi una condanna penale per oltraggio a pubblico ufficiale?

Distinti saluti.

Bartolomeo Valnigri
22/07/2016

Quello che lei dice purtroppo si basa sull’esperienza quotidiana. Ed è un fenomeno che ha radici antichissime, se anche un profeta come Isaia sentiva il bisogno di stigmatizzare con parole molto forti la corruzione dei potenti e di chi è in autorità: «I tuoi capi sono ribelli e complici di ladri; tutti sono bramosi di regali, ricercano mance, non rendono giustizia all’orfano e la causa della vedova fino a loro non giunge» (Is 1,23).

In questi anni, osservando certi stati africani, ho visto con tristezza il dilagare della corruzione, accelerata proprio dal cattivo esempio di chi è ai posti più alti del governo. Qui da noi, la disaffezione crescente verso la politica e i politici è aumentata esponenzialmente con il crescere della corruzione nei loro ranghi. Ma il rischio più grosso è che si perda il senso di quello che è giusto, il senso del dovere e della responsabilità sociale e che il cattivo esempio dei «grandi» diventi giustificazione per comportarsi male come loro.

È bello invece che rimangano delle persone, indipendentemente dalla categoria cui appartengono, che sono ancora capaci di avere un pensiero critico e autocritico e hanno il coraggio di dire la verità, anche quando è scomoda. Guai a noi se ci rassegnassimo perché «tutti sono corrotti».

Accoglienza

Egregio Padre,
ho letto il suo commento al mio scritto che avete pubblicato in MC 10/2016 con titolo «Tempo di crisi». Segno che l’argomento trattato è tuttora pressante. Dice, giustamente, che è spesso affrontato in termini fuorvianti. Certi commenti, come quelli da lei citati, sono il prodotto di ignoranza ed egoismo, tuttavia ciò, spesso, ha radici nel caos della gestione di una immigrazione di massa fuori controllo, con illegalità a tutti i livelli. Innanzitutto i nuovi schiavisti che gestiscono l’immondo commercio umano che le autorità di qualsiasi istituzione politica sociale o religiosa si guardano bene dal contrastare. Non è da molto che abbiamo smesso di criminalizzare gli schiavisti dei secoli passati mentre ora «tolleriamo» vergognosamente quelli attuali. Ciò ha generato migliaia di morti (solo quest’anno l’Onu dice che sono già 3.800 tra morti e dispersi).

L’accettazione indiscriminata senza regole spesso è fonte di comportamenti illegali da parte di questi «ospiti». Quasi ogni giorno viene violata la regola di ospitalità con comportamenti delinquenziali fino all’assassinio. Pertanto dire semplicemente: «Accoglienza accoglienza», senza regole, non fa che renderci complici, anche se indirettamente, di quelle migliaia di poveri esseri in fuga che sperando in una vita più degna di essere vissuta finiscono in fondo al Mediterraneo oltre a subire maltrattamenti e violenze durante le «trasferte» prima dell’imbarco, a cui si aggiunge il sospetto fondato del traffico di organi.

Questa «complicità», che viene tollerata per non offendere i buonisti a tutti i costi, fa pensare al pattume che si vuole nascondere sotto il tappetto. Purtroppo è verità scomoda e graffiante. Però la verità non fa sconti a nessuno. Mai. Come liquidare semplicemente per populismo la pressante richiesta di severe regole di ospitalità? Persino una signora di colore africana giunta anni fa in Italia ha detto recentemente durante una trasmissione televisiva «voi italiani siete bravi, mi avete accolto con amore, mi avete aiutato, ma ora con tutti quegli arrivi state esagerando». Anche lei populista allora?

Molto criticate le barriere anti immigrati in vari paesi. Certo. La causa principale è frutto della mancanza di regole che nessuno intende far applicare. Se in Europa ci fossero regole che a ogni manifestazione di insofferenza o peggio delinquenza l’immigrato venisse espulso non sarebbero necessarie barriere. Tutti populisti quelli che vogliono regole?

Persino Papa Francesco ha fruito di regole portandosi a casa dall’isola di Lesbo 12 migranti con passaporto, e (dicono alcuni giornali) con il visto per l’espatrio, mentre sulle nostre coste arrivano quasi tutti senza documenti. Populista anche lui?

Angelo Brugnoni
Daverio (VA), 02/11/2016

Continuiamo allora il dialogo iniziato su queste pagine lo scorso ottobre. Aggiorno solo la triste statistica dei morti nel Mediterraneo: 4.420 al 3/11/2016.

Comportamenti illegali e furbizie dei migranti.

Pochi giorni fa un amico mi raccontava, tra lo stizzito e il rattristato, di aver assistito a un corso di formazione per migranti nel quale 9 su 10 chattavano imperterriti sul cellulare invece di seguire la lezione. Altri amici mi hanno invece invitato ad andare a vedere un certo orto di cavoli ridotto peggio di quello, famoso, di Renzo.

Se uno volesse fare la lista di tutte le negatività nel comportamento dei migranti accolti in Italia, potrebbe scrivere un libro per la gioia di chi li considera semplicemente un problema e un pericolo.

Non sono un esperto in materia, ma credo che ci siano due ragioni fondamentali alla base dei comportamenti negativi: la prima è che molti di loro non vogliono stabilirsi in Italia, la seconda è che non si fidano degli operatori che incontrano. Senza la fiducia la relazione che ne risulta è quella di «guardie e ladri». Fare finta di non vedere queste situazioni difficili («buonismo»?) o vedere solo le situazioni negative («populismo»?) non aiuta né le persone che vogliamo accogliere né noi stessi.

Regole.

Se «buonismo» è chiudere gli occhi e dire «poverini loro», trattandoli patealisticamente e quasi con un senso di colpa, allora sono d’accordo a condannarlo. Ma neppure il moltiplicare le regole serve a molto. Anzi, più regole ci sono, più diminuisce la responsabilità e la libertà.

Avendo vissuto per molti anni in Africa, ho notato con preoccupazione come proprio in Europa si stia uccidendo la libertà, il buon senso e la responsabilità con un moltiplicarsi infinito di regolamenti su ogni cosa: dai cibi al commercio, dalla sanità all’etica, dalla famiglia al lavoro … Regolamenti che diventano poi così intricati da permettere ai furbi di abusae.

Detto questo, so bene che tra i rifugiati e migranti ci sono quelli che pensano di avere solo diritti e niente doveri, e anche coloro che sono arrabbiati con tutto il mondo (chi non lo sarebbe dopo aver passato quello che molti di loro hanno dovuto subire?). So anche che c’è chi crea nei migranti aspettative sproporzionate e fomenta i loro sospetti e diffidenze nei confronti di chiunque li voglia aiutare. Lo stesso succede anche per i cittadini dei luoghi di accoglienza. La strumentalizzazione politica in questo campo è ben nota.

L’accoglienza, complicata dal numero crescente dei migranti e rifugiati, è una realtà oggettivamente difficile da gestire. Per questo mi viene da chiedere se tutto il personale impiegato dalle moltissime cornoperative e onlus che con generosità si occupano di accoglienza, sia davvero all’altezza del delicato servizio che è chiamato a rendere e abbia ricevuto una formazione adeguata per diventare autorevole interlocutore di chi è nel bisogno.

Le regole ci sono, è importante osservarle e farle osservare, con fermezza sì, ma non con la forza, la paura o le botte (come ha denunciato recentemente Amnesty Inteational), piuttosto con persuasione, accompagnamento, formazione e necessaria autorevolezza.

Ricordo una storia contadina che ho sentito da bambino quando ancora si arava con l’aratro trainato dai buoi. C’erano quattro fratelli che, prestissimo al mattino, uscivano ad arare con un aratro trainato da due coppie di buoi. Tre di loro uscivano insieme, uno all’aratro e uno ciascuno per ogni coppia di buoi usando sempre urla e botte per farsi obbedire. Invece il quarto fratello usciva da solo per fare lo stesso lavoro, senza urla e senza pungolo. Il segreto? I tre fratelli si alzavano all’ultimo minuto e andavano subito fuori nei campi ad arare. Il quarto invece si alzava un’ora prima, nutriva e abbeverava bene i buoi e poi usciva ad arare, e gli bastava la voce per farsi obbedire.

Forse questa parabola c’entra poco, ma se invece di trattare i «miranti e rifugiati» come una categoria aliena e problematica, cominciassimo a considerarli semplicemente persone e a stabilire con loro rapporti «umani», faccia a faccia, forse sarebbe meglio per tutti. È la differenza tra chi erige barricate contro il «nemico» e chi improvvisa una festa di paese per il «fratello».

Probabilmente chi è trattato da «persona» è più disponibile a rispettare le regole di chi invece è trattato come un numero, un problema, un nemico.

Nel nostro paese, accanto a episodi negativi che finiscono facilmente in prima pagina – soprattutto quando servono agli interessi elettorali di alcuni -, abbiamo una marea di esperienze positive – vissute da persone normali – di cui si parla poco o niente, ma che sono la vera risposta «buona» a un dramma che è più grande di noi e di cui non si vede ancora la fine.

Fondamentalisti

Spett. redazione,
in merito alla risposta (il riferimento è a MC 7/2016 p. 5) vorrei fare alcune osservazioni. Definire fondamentalisti cristiani quelli che non riconoscono il papa è proprio degno di chi pensa di avere la verità in tasca come i cattolici. Fin dai primordi i padri fondatori del cristianesimo infischiandosene del detto: ama il tuo nemico, hanno creato apostati, eretici, hanno perseguitato e ucciso ebrei, pagani distruggendo i loro templi, streghe con una ferocia veramente paragonabile o anche superiore alle torture di oggi compiute da altri fondamentalisti, che sono soltanto assassini con una scusante religiosa, come lo erano gli inquisitori e persecutori del passato, non troppo passato. Pio IX applicava la pena di morte come gli altri papi ordinando di impiccare senza alcun rimorso. Inoltre molto prima delle multinazionali il Congo è stato terra di traffico di schiavi da parte dei gesuiti (ne possedevano12.000 nel 1666 così come i benedettini in Brasile fino al 1864). In Congo poi i belgi del cattolicissimo Leopoldo hanno creato uno sfruttamento superiore ad ogni concezione umana. Per i congolesi però nessun digiuno, come per i ruandesi o i vietnamiti. Come vede ogni setta ha la sua parte di orrori, come le ideologie e ogni credo. Che i sauditi abbiano fatto cadere i dittatori tolleranti è un fatto, e che siano amici di gruppi finanziari americani altrettanto, ma sono sempre le singole persone che compiono gli atti quindi loro vanno punite e non i libri da cui traggono idee. Non possiamo incolpare satana dei crimini umani visto che non si può arrestare come mandante, o no? Speriamo che in America vinca un pacifista che la smetta di impicciarsi del mondo e non un’ipocrita incapace di fare il segretario di stato. Come se la cava il cattolico Kerry per i conflitti in Africa? O se ne frega come tutti, tranne i sinceri missionari e volontari? La saluto cordialmente.

Luna verde
30/07/2016

Facciamo un’eccezione pubblicando una email anonima. Ecco alcune precisazioni.

Schiavi. Può darsi che i gesuiti avessero schiavi, ma certamente non in Congo (allora Regno del Congo) che era riservato ai frati Cappuccini.

I fondamentalisti cristiani non sono tali perché «non riconoscono il papa». Ci guardiamo bene dal considerare fondamentalisti gli Ortodossi, gli Anglicani, i Luterani, e via dicendo. Ma ci sono cristiani che sono fondamentalisti, nel mondo protestante, come anche in quello cattolico. L’enciclopedia Treccani così definisce il fondamentalismo: «Denominazione, sorta in ambito cristiano negli Stati Uniti agli inizi del 20° sec., ed estesa poi alle due altre religioni monoteiste, ebraica e musulmana, per indicare genericamente i movimenti, dapprima religiosi e culturali, poi anche sociali e politici, che, opponendosi a qualsiasi interpretazione evolutiva dei propri principi originari e fondamentali, ne propongono un’applicazione rigorosa negli ordinamenti attuali».

Verità in tasca e nefandezze varie.
Mi pare che i Cattolici abbiano cercato di imparare dai loro errori e che siano tra i pochi che abbiano chiesto perdono delle ingiustizie da essi perpetrate in nome della religione. Ha iniziato il Concilio Vaticano II, e papa Giovanni Paolo II e papa Francesco ne hanno continuato il cammino con coraggio. Mi sembra pretestuoso continuare ad andare a rivangare storie di secoli fa per togliere autorità morale oggi a chi cerca, senza nascondere un suo passato di errori, di vivere con coerenza il messaggio più originale e profondo del Libro (o dei «Libri» della Bibbia). Tenendo poi conto che questa testimonianza di amore, servizio e dialogo è stata pagata con oltre 100mila martiri nel solo XX secolo.

Quando queste righe saranno carta stampata sapremo già da un po’ chi ha vinto tra la Clinton e Trump (di fronte ai quali viene proprio da chiedersi cosa è successo agli Usa da essersi ridotti ad avere due candidati così). Ma definire Trump un pacifista, mi sembra proprio fuori luogo, anche solo per le simpatie che ha per Putin e il sostegno che riceve dalla lobby delle armi.

Bestemmie

Gentile redazione,
da parecchi anni si è notato un aumento di caccia a coloro che bestemmiano: non tanto nei nostri ambiti cristiani ma più da parte dell’Islam, ciò che conduce al sacrificio della vita stessa di coloro che non sanno difendersi e porre una adeguata spiegazione a titolo di scusa davanti ad enti competenti ed accusanti.

Dopo tanto tempo di riflessione, penso che la bestemmia, interpretata come offesa alla divinità, non può esistere: essa è indiscutibilmente nata come grido di aiuto rivolto a Dio, che poi è entrata in usanza come insulto. Ma come si può offendere la divinità? Può l’essere umano fare ciò? Come potrebbe essere giunto a tale idea? Assolutamente impossibile, per me è il grido a Dio di aiuto che aspetta ciò di cui più non riesce a rinunciare. La nostra religione cristiana per questo neppure ci condanna se chiediamo perdono, ma per i credenti dell’Islam è prevista perfino la pena mortale. Penso che si possa iniziare una ricerca atta a fare luce sulle origini della bestemmia. Distinti saluti, un vecchio lettore.

Gabriele Azzolini
21/10/2016

Non penso che la bestemmia sia nata come come «grido di aiuto», piuttosto come insulto e ribellione agli dei di un altro popolo (sia occupante e invasore o ritenuto inferiore al proprio). È infatti interessante che la bestemmia – come la intendiamo noi – non esista in mezzo ai popoli africani o altri popoli indigeni.

Che l’Antico Testamento e l’Islam abbiano sentito il bisogno di punire con la morte la bestemmia, è comprensibile se si guarda alla storia fatta di guerre di offesa e di difesa, combattute nel nome del proprio Dio quando non c’era distinzione tra sfera politica e quella religiosa.

Che poi Dio sia davvero offeso da una bestemmia è poco probabile. Parlare di «offesa» è un modo di dire nostro. Quando a metà ottobre, fermo ad un semaforo, ho sentito un motociclista snocciolare a gran voce le bestemmie più fiorite, non ho pensato che Dio fosse offeso da tanta stupidità – ero io a sentirmi offeso! -, piuttosto che provasse tanta pena per quella persona. Non sono le parole che offendono Dio, ma quello che c’è nel cuore delle persone, soprattutto quando ostinatamente rifiutano la sua logica di amore e si sentono realizzati nella loro rabbia, nella loro violenza e nel materialismo più egoista.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 2148 scrive: «La bestemmia […] consiste nel proferire contro Dio – interiormente o esteriormente – parole di odio, di rimprovero, di sfida, nel parlare male di Dio, nel mancare di rispetto verso di lui nei propositi, nell’abusare del nome di Dio. […] È blasfemo anche ricorrere al nome di Dio per mascherare pratiche criminali, ridurre popoli in schiavitù, torturare o mettere a morte». Lo stesso vale per l’uso del nome di Dio per scopi di magia (n. 2149) o per giurare il falso (n. 2050).

Un super like

Io sono comunista e non credente, ma nella vostra pagina e nella vostra rivista ho trovato molto di buono. Ad esempio, tutto ciò che riguarda l’Africa. E se siete riusciti a piacere a un comunista, sempre acerrimo critico verso le gerarchie cattoliche, come potete non piacere a chi è credente e cattolico?

Salvatore T.
su FB il 21/10/2017

Sulla nostra pagina Facebook (www.facebook/missioniconsolata) c’era questo commento in risposta alla nostra richiesta di mettere un like e superare la soglia dei 4.000. Con oltre 47.000 copie distribuite in Italia e nel mondo, dovremmo poter andare oltre i 10.000 presto! Metti il tuo like!

 




Cari missionari


Pensieri serali

È da molto tempo che nel silenzio della sera mi arrovello su problemi teologici, esistenziali, sociali. Ultimamente mi sono concentrato sulla Chiesa come istituzione. Duemila anni di storia ci hanno consegnato una struttura a piramide molto carente.

La struttura piramidale di cui inconsapevolmente facciamo parte come cristiani cattolici ci obbliga a rileggere la nostra fedeltà per non diventare come un gregge belante servito non da uomini di Dio ma da cattivi maestri. Maestri che per i media diventano specchio per ingigantire la negatività della chiesa rendendola a tutti gli effetti matrigna, rovesciandone i valori ed i contenuti.

Il servizio dei nostri maestri non dovrebbe essere quello di sfoare proseliti o vendere prodotti ma quello di formare e far crescere un fedele che non sia orbo, sordo, supino e obbediente al volere di pochi benedetti e intoccabili, ma che abbia la capacità di essere libero nei giudizi e nelle critiche, senza scomunicare chi pensa e osserva con metro di giustizia proporzionalmente diverso (vedi preti del dissenso).

Un fedele attento osservatore di un’involuzione e di atteggiamenti che nulla hanno a che fare con scelte di vita e di fratellanza di una comunità pensante e che crede a ciò che sta scritto nelle Sacre Scritture e nei Vangeli, non può che ribellarsi davanti a chi predica bene e razzola male. È la vergogna che faceva dire a tanti teologi che la preghiera senza comportamento adeguato non serve a nulla.

Che serve a Dio avere dei credenti che disconoscono le regole della frateità? Che serve a Dio avere ministri che pensano alla loro vanagloria e non vivono con coerenza la povertà? Che serve a Dio avere fedeli che uniti dalla chiesa predicante sono in sintonia con l’egoismo più becero verso fratelli che fuggono da guerre, carestie, fame, malattie e morte?

La mia rabbia da credente è che quasi tutto il clero è schierato nel chiedere, mai nel dare con una confusione totale sui compiti di loro competenza. Vedi, per esempio, quel che succede nella verde Brianza nella grande diocesi di Milano dove, grazie alle autorizzazioni della Fabbriceria del Duomo, tanti nostri maestri di fede hanno cambiato mansione diventando specialisti in architettura, paramenti, organi, arte, costruzioni e quant’altro.

Chiediamoci se questa chiesa fa parte della grande famiglia che noi amiamo e frequentiamo se poi ci dimentichiamo che la pomposità non fa parte di nessun testo teologico e ignoriamo le poverissime comunità delle diocesi africane dove i Vescovi non hanno i soldi per la benzina, ritardano le visite pastorali in diocesi estese quanto Lombardia e Piemonte e vivono come i vecchi curati di montagna senza risorse.

Non ultimo per importanza è la presa di posizione dei Vescovi italiani sulla questione dei diritti civili con una polemica che sembra implicare il non riconoscere ai fedeli la capacità di fare scelte coerenti col Vangelo. Sembra quasi che i ministri di Dio non ci ritengano un gregge consapevole. Così noi fedeli, pur non favorevoli a questa legge, siamo considerati fuori, quasi dei non credenti, nonostante don Sturzo abbia sempre sostenuto la laicità dello stato nei confronti della chiesa «Libera chiesa, in libero stato» e «date a Cesare quel che è di Cesare, date a Dio quel è che di Dio».

Giovanni Besana
28/07/2016

Caro Giovanni,
nella tua lettera sollevi molte questioni: dai sacerdoti che danno scandalo alla struttura piramidale della Chiesa, dura a morire nonostante il Concilio Vaticano II (e il Vangelo), dai preti, molto amministratori e poco pastori, ai laici considerati sempre in stato di minorità… Sono temi scottanti, resi ancora più evidenti dai tempi difficili che la nostra Chiesa sta vivendo in Italia. Essa si scopre più fragile e indebolita (invecchiamento e diminuzione del clero a causa della crisi vocazionale); abbandonata da chi pur battezzato vive solo un cristianesimo nominale; contestata nel suo insegnamento da mode, tendenze e ideologie di vario tipo; derubata dei suoi spazi e tempi (feste e domeniche occupate da mille altre iniziative); ridicolizzata e moralmente esautorata per la vita scandalosa di alcuni suoi membri; giudicata dai suoi stessi fedeli che, pur reclamando per sé più partecipazione e responsabilità, continuano a pensare la Chiesa non come un «noi», ma un «loro» (la gerarchia); oberata dal peso di mille strutture (spesso giornielli di arte) di cui non si può disfare e che mangiano tempo e denaro…

Il Concilio Vaticano II, nonostante tutte le resistenze messe in atto, ha piazzato una bomba sotto la concezione piramidale della Chiesa, riscoprendo la bellissima immagine biblica del popolo di Dio in cammino attorno al pastore che è il Signore Gesù, il Cristo crocifisso, che dà la sua vita per i suoi, si fa servo per la salvezza di tutti. Credo che non siano solo i preti e i vescovi che debbano liberarsi una volta per tutte della vecchia mentalità piramidale, ma anche i «laici», i semplici battezzati, imparando a guardare alla nostra Chiesa come alla propria famiglia, al proprio corpo, con un atteggiamento critico e responsabile ma anche misericordioso.

Mentre i media se la prendono con una Chiesa come realtà anonima, ricca, autoritaria, antiquata, corrotta, tentacolare… il cristiano nella sua quotidianità ha a che fare con quel prete, con quella suora, con quel religioso: persona concreta, umana, vicina, con i suoi lati belli e le sue fragilità. Un po’ più di amore, di con-passione, di umiltà,  di sano umorismo e autornironia, aiuterebbero tutti a costruire relazioni più vere, fratee, umane, applicando alla vita della propria comunità cristiana lo spirito della famiglia e non quello della fabbrica, dell’ufficio pubblico o del centro commerciale.

Una bella iniezione di vera «misericordia» farebbe bene a tutti.




Cari missionari si scrive crisi, migranti, Valmiki e tanto altro

Tempi di crisi

Egregio padre,
leggo nel numero di maggio di MC dei tempi difficili dovuti alla crisi, molto diversa, dice Lei giustamente, da quelle passate e della quale non siamo solo spettatori ma che sta sconvolgendo il nostro modo di vivere stravolgendo valori e relazioni minando le nostre sicurezze.

Appunto perché è molto diversa da quelle del passato, è necessario debba essere trattata con maggior risolutezza. La crisi che stiamo vivendo ha ormai assunto dimensione planetaria e come tale i singoli stati non hanno né la capacità politica né quella morale di risolverla. Solo l’Onu avrebbe la possibilità di fare qualcosa per la straordinaria emergenza. L’Onu dovrebbe dire chiaro e forte quali sono gli stati dove esiste un reale «stato di guerra» e non semplici sollevazioni e diatribe politiche tra concorrenti al potere dove coloro che si sentono perseguitati vogliono cambiare semplicemente patria, da qui moltissimi migranti con tutti i problemi relativi.

Una volta individuati questi stati, le ambasciate di paesi che intendono accogliere con scopi umanitari coloro che vogliono fuggire, potrebbero essere autorizzate a farli espatriare mediante viaggi organizzati e quindi sicuri. La grande maggioranza dei migranti invece, dopo gli onerosi costi per il «passaggio», sono spesso vittime di soprusi e violenze nei luoghi di raccolta e infine corrono il rischio di perdere la vita durante il trasporto. Il tutto, spiace dirlo, con la complicità di coloro che zitti zitti (tranne qualche «bisbiglio» su alcuni organi di stampa), dovrebbero invece muoversi con decisione per evitare tale oscena barbarie. Non ci si mette dalla parte della ragione dicendo semplicemente: «accoglienza, accoglienza» sapendo per certo, (le statistiche sono lì a dimostrarlo oltre ogni ragionevole dubbio) che molti di questi poveretti periranno durante il viaggio (mentre scrivo potrebbero essere in procinto di annegare parecchie persone, bambini compresi).

Pertanto tutti quei poveri cadaveri (migliaia, dicono le statistiche), che stanno marcendo in fondo al Mediterraneo sono vittime sacrificali di: stupidità, sciocco buonismo e altruismo interessato, spesso a fini elettorali. Questo a causa del vergognoso menefreghismo di coloro che dovrebbero denunciare con decisione la condizione di abbrutimento di quei poveretti trattati come immondizia anziché come esseri umani.

Mi riferisco non solo a tutti i capi di stato e di governo, interessati al problema migratorio, ma anche a intellettuali, giornalisti, esponenti religiosi d’ogni fede, ossia gente che «conta», che dovrebbe sollecitare l’Onu per interventi miranti a fermare una volta per sempre tutte quelle organizzazioni, quasi sempre criminali, che favoriscono l’indegno commercio umano.

Il silenzio dei potenti allora diventa criminale. Papa Francesco, oltre che a Lampedusa, dovrebbe andare all’Onu, anche se non invitato, e urlare forte (magari togliendosi anche una scarpa, come ha fatto
Kruscev picchiandola sul leggio) a tutti quegli altezzosi rappresentanti del pianeta, che qualcuno definisce «maestri di imbecillità burocratica», di impegnarsi concretamente per far cessare il ributtante mercato. Mentre l’ignavia fin qui dimostrata non fa che renderli complici di inaudite violenze su vittime innocenti.

Per concludere è forse esagerato dire di coloro che potendo parlare forte invece tacciono sono anime sporche? Grazie per l’attenzione. Un cordiale saluto.

Angelo Brugnoni
Daverio (Va), 28/05/2016

Caro Angelo,
l’argomento da lei toccato è scottante e spesso affrontato in termini fuorvianti. Ne è prova la virulenza faziosa dei giorni di fine agosto, appena dopo il tragico terremoto nelle Marche e nel Lazio. Gli attacchi ai migranti che vivrebbero a spese nostre in hotel di lusso mentre i poveri terremotati battono i denti al freddo, dimostrano quanto si parli e straparli per sentito dire deformando dati che sono facilmente verificabili, usando la menzogna senza alcun pudore.
Certo l’Onu dovrebbe poter fare molto di più per prevenire le cause di tutte le migrazioni e non soltanto intervenire, come sta facendo in molti luoghi del mondo con grande competenza e professionalità, per gestire gli immensi campi dei rifugiati.

Creare ponti

Caro padre Gigi,
in riferimento all’editoriale di giugno è vero che i bambini creano spontaneamente dei ponti; sono degli «ingegneri» e degli «architetti» che non solo con i pezzi del Lego o con altri materiali giocano cercando di risolvere i problemi della staticità delle costruzioni con il vuoto sotto e gli appoggi distanziati, ma con facilità intraprendono legami interpersonali. La mia esperienza, tuttavia, mi suggerisce che se da un lato i bambini sono favoriti nella formazione di relazioni che includano, dall’altro lo fanno se trovano un contesto di adulti che li sostengano in tale percorso, con motivazioni e facilitazioni, in quanto i bambini sono anche i primi a cogliere differenze di vario genere. Creare ponti è quindi complesso a tutte le età in quanto le valutazioni, le conoscenze e l’esercizio della volontà implicati costituiscono un elevato investimento di energie. Negli ambiti in cui sono impegnata, familiare, pedagogico, giudiziario e della disabilità, è necessario creare ponti ininterrottamente per prevenire, per quanto possibile, conflitti, conclusioni sommarie ed esclusioni. Mi rendo conto però che non sono in gioco solo le differenze che si possono cogliere nell’immediatezza, quali, ad esempio, il ritardo cognitivo o il colore diverso della pelle, ma anche le idee e i meriti, ossia i valori di verità e di giustizia oltre ai diritti e agli interessi. Tali ponti domandano perciò volontà, manutenzione, ristrutturazione e, se necessario, abbattimento e ricostruzione; tutto ciò richiede non solo ingegneria ed architettura ma anche eroismo ed incessante preghiera per non essere soli nell’edificazione.

Milva Capoia
08/07/2016

Valmiki

Egregio signor Iazzolino,
innanzitutto la ringrazio di cuore. Nel marzo scorso ho trovato in chiesa una copia di MC e sono rimasto molto scosso dal suo articolo «A mani nude». Non riesco a togliermi dalla testa le realtà che lei descrive, riportando anche testimonianze dirette. Così la ringrazio e la stimo perché a mio avviso è molto importante far conoscere tali realtà in cui vivono tanti nostri fratelli. Mi sono subito abbonato alla rivista, che leggo volentieri ogni mese. Ho visto in internet delle foto di Valmiki con le ceste di vimini e le scopette, ma mi permetterei di chiederle, se può confermarmi che talvolta i manual scavengers usano addirittura le mani nude, senza scopetta (art. cit., p. 10) o se per caso non si tratta di un errore di stampa! O se per caso lei ha addirittura visto coi suoi occhi una cosa simile. La ringrazio in anticipo per la sua attenzione e resto in attesa di una sua cortese risposta. Cordiali saluti, in Cristo.

Dott. Carlo Caiato
Mestre (Ve), 05/08/2016

Gentile dott. Carlo,
la ringrazio profondamente per la sua email, che mi è stata inoltrata dalla redazione. Sono missive come la sua che danno un senso a quel che facciamo a Missioni Consolata. Con il nostro reportage dall’India, la mia collega fotografa Eloisa D’Orsi e il sottoscritto abbiamo provato a trasmettere l’intensità di un’esperienza che pure, ci rendiamo conto, abbiamo colto solo a un livello superficiale. La realtà dei Dalit, e dei raccoglitori manuali, è viva e pulsante, nelle grandi città indiane e ancora di più nelle aree rurali più remote, dove violenze e abusi sono all’ordine del giorno. Per rispondere alla sua domanda, una delle donne da noi intervistate ci ha raccontato della scopetta che oggi usa come di una conquista, realizzata anche grazie all’organizzazione che citiamo nel testo, e che sta facendo un ottimo lavoro per portare il tema al centro del dibattito politico.

Personalmente, ritengo che sia utile vedere questa situazione di violenza strutturale attraverso la lente di rapporti di potere consolidati nel tempo, e che oggi, alla luce di cambiamenti sociali ed economici epocali che l’India sta vivendo, sta provocando il colpo di coda delle caste più alte. È una realtà che sta vivendo delle trasformazioni drammatiche e, nonostante la violenza che la resistenza a queste trasformazioni sta suscitando, un numero crescente di Dalit sta acquisendo consapevolezza dei propri diritti. Non è sicuramente un processo lineare, e le trasformazioni in senso neoliberista dell’economia indiana rischiano di cambiare solo la forma, ma non la sostanza, della marginalità Dalit. Ma abbiamo conosciuto molti attivisti e persone comuni che negli ultimi anni hanno cominciato a rifiutare lo status quo.

Spero di poter tornare a raccontare presto queste trasformazioni in un paese così complesso e affascinante come l’India. La ringrazio ancora per la sua email e le porgo i miei più cordiali saluti.

Gianluca Iazzolino
08/08/2016

Caro Gianluca,
la ringrazio per la sua pronta e cortese risposta. Sono i reportage come il vostro che scuotono e fanno progredire le coscienze. Denunciare all’opinione pubblica è già un modo per combattere quelle pratiche raccapriccianti, che rovinano tante vite. Perciò spero e le auguro che Missioni Consolata ed altre pubblicazioni possano far conoscere al maggior numero di persone quelli e altri soprusi che affliggono tanti nostri fratelli. Si legge ad esempio in internet che per i membri delle caste superiori stuprare una dalit non è immorale, anzi, purifica la vittima, però mi piacerebbe sapee di più da fonti certe. Le porgo i più cordiali saluti.

Dott. Carlo Caiato
Mestre (Ve), 08/08/2016

Di migranti e di Ius soli

Carissimo padre Gigi,
dopo aver letto il numero di luglio di MC non posso fare a meno di scriverLe ancora una volta. La premessa è sempre la stessa: non sono interessato alla polemica ma semplicemente alla discussione.

Riguardo all’articolo «Risorse migranti»: lodevole l’iniziativa Coro Moro, spero di avere occasione di ascoltarli (ormai Gipo non c’è più, le canzoni nella mia lingua sono difficili da ascoltare). Ma siamo sicuri che tutti i mòro (così mi dice vada scritto Gioventura Piemontèisa) richiedenti asilo siano onesti? Non conosco le condizioni dei paesi citati, ma il collega ghanese che siede nel mio ufficio dice che non c’è ragione per loro di scappare dal Ghana. Credo all’articolo «buonista» di Giulia Bondi o al mio collega che fa il master all’Università di Ulm (Germania, ndr) e lavora part time con me?

Non è che magari loro come me hanno lasciato il paesello natio per semplici motivi economici? Hanno preso una scorciatornia, ovvero immigrare clandestinamente per poi chiedere asilo politico e sperare nelle lungaggini burocratiche? Il tutto a discapito degli stranieri regolari come il mio collega (oppure mia moglie, ora italiana, che tutte le volte che veniva in Italia da fidanzati era dotata di visto turistico ed a seguire di permesso di soggiorno).

Vengo ora all’appello per lo Ius soli. Quale sarebbe la precarietà esistenziale per gli stranieri minori nati in Italia? L’unica differenza tra un italiano e uno straniero sta nel diritto al voto, se minore comunque non può votare anche se italiano. Se un francese nasce in Italia e a due anni torna in Francia con la famiglia è italiano? Al momento penso che la cittadinanza, ai minori, vada legata alla famiglia. Quale sarà il vantaggio per la società italiana se concediamo lo Ius soli?

Luca Medico
Neu-Ulm (Germania), 13/08/2016

Caro Luca,
provo a condividere con lei alcuni punti.

Migranti economici o rifugiati politici. È un fatto ormai ben documentato che i migranti economici sono in aumento, segno anche che le nostre nazioni (nonostante la percezione negativa che noi ne abbiamo) sono ancora ben più ricche e floride di quelle da cui provengono i migranti. Le previsioni sono che i migranti economici continueranno ad aumentare anche a causa del cambiamento climatico che rafforzerà i fenomeni di siccità e fame in molti paesi. Un fatto però è certo: sta diventando sempre più difficile distinguere tra rifugiati politici e migranti economici, anche perché, in molti paesi, le due realtà (politiche vessatorie e economie disastrate o schiavizzanti) sono strettamente collegate. Tenga poi conto che molte di queste situazioni sono mantenute e sostenute da un sistema economico (di cui noi siamo parte beneficiaria e spesso anche vittima) che perpetua le ingiustizie e favorisce i regimi basati sul privilegio di un’élite, per poter continuare a sfruttare impunemente risorse naturali e umane di tanti paesi a beneficio dell’arricchimento sfacciato di pochi (i 62 super ricchi che oggi controllano metà della ricchezza mondiale, secondo l’Ong Oxfam, e diventano sempre più ricchi nonostante la crisi).

Ius soli. La proposta oggetto del nostro appello chiede che il diritto di cittadinanza venga riconosciuto «agli immigrati di seconda generazione, nati e cresciuti nel nostro paese, che oggi sono costretti ad attendere fino all’età di 18 anni prima di poter ottenere la cittadinanza. A tale obiettivo mira la riforma della legge 91 del 1992 che assicura ai figli di immigrati nati in territorio italiano da almeno un genitore con permesso di soggiorno di lungo periodo (ius soli temperato) o a seguito di un percorso scolastico (ius culturæ), il diritto a diventare cittadini». Essa è una richiesta strettamente legata alla famiglia del minore.
E non mi sembra che la differenza stia solo nel diritto di voto, pur importante. È piuttosto il sentirsi parte, l’inclusione e l’appartenenza, il sentirsi a casa. In fondo questi ragazzi vivono come in un limbo: non sono né italiani né del paese di origine dei loro genitori.

Quali i vantaggi per noi? Per noi ci sono tutti i vantaggi che vengono dall’immigrazione, senza la quale sicuramente nel 2050 saremo dieci milioni di meno di quanti siamo oggi e mediamente tutti più vecchi (vedi dati Eurostat resi noti in agosto) e con pensioni ridicole. Lo ius soli farà sì che i nuovi cittadini siano e si sentano italiani a tutti gli effetti e non apolidi appena tollerati e disprezzati.Forse non piace a certi difensori della purezza patria, ma conviene ricordare che noi italiani siamo tali proprio perché siamo una mescolanza incredibile di popoli diversi. La mescolanza di geni di genti autoctone con quelli di popoli Celti e Normanni del Nord, Arabi e nordafricani del Sud, Fenici, Greci, Ebrei, Slavi, Turchi e Mongoli dall’Est, e spagnoli e francesi dall’Ovest, ha fatto di noi quel paese bellissimo e contraddittorio che siamo. La mescolanza delle «razze» (per usare un termine scorretto e obsoleto) non porta alla degenerazione della «razza», ma la migliora e la rende più sana, intelligente e resistente alle avversità.

Moschee negate

Leggo sulla rivista di giugno l’interessante articolo sulle «Moschee negate». Nell’articolo si sottolinea il carattere «laico» dello stato. Mi si permetta di non essere d’accordo con l’aggettivo descrittivo «laico»: per molti oggi tale aggettivo connota o intende connotare uno stato non solo distante dai credenti, ma che addirittura li vorrebbe relegati in ambito «sacrestitoriale», lì zitti e buoni, solo ad incensare e far tiritere di preghiere. Mi pare ovvio che tale descrizione auspicata da tanti, non corrisponde ad una chiara posizione costituzionale sulla libertà religiosa, per cui i credenti hanno e debbono avere piena libertà d’azione e pari dignità in quanto cittadini alla pari degli altri. Allora perché non iniziate a definire lo stato come poi è in realtà per costituzione (costituenti furono anche i cattolici), come stato solo e sempre «plurale», di tutti, cioè, e per tutti?

Bruno Cellini
07/07/2016

Abbiamo chiesto all’autore dell’articolo, prof. Alessandro Ferrari un commento. Ecco quanto ci ha scritto:

Rispondo al volo.
Lo stato italiano è costituzionalmente laico proprio perché impegnato a rispettare il pluralismo confessionale e culturale, come ha affermato la Corte costituzionale nella sua notissima sentenza n. 203 del 1989. Di conseguenza, quando si parla di laicità come supremo principio costituzionale non c’è alcuna contraddizione con il principio pluralistico, anzi, lo si declina con particolare – specifica – attenzione al fattore religioso. La laicità costituzionale non è una laicità anticlericale, né una «sana laicità», non mira alla privatizzazione del fattore religioso ma ad assicurare che le legittime manifestazioni pubbliche delle fedi religiose e «convinzionali» possano esprimersi nel rispetto dell’uguale libertà di ciascuno.
Alla prossima,

Alessandro Ferrari
12/07/2016




Cari missionari 77

Padre Pietro (Parcelli)

Spett/le Redazione,

ricevo il vostro mensile da tempo, […] grazie a padre Pietro Parcelli, di cui ho letto la splendida lettera sul vostro numero di giugno. Pur essendoci pochi km di distanza fra la mia residenza e la sua, confesso che non sapevo che aveva lasciato l’Amazzonia nel 2014. Ora farò in modo di mettermi in contatto con lui. Volevo solo aggiungere che a parte le sue doti di missionario e religioso, ritengo il degno padre Parcelli uno dei pochi rimasti, per la sua missione, ad avere «passione, amore, altruismo» per il prossimo ed in particolare per i più bisognosi.

Vi ringrazio per l’ospitalità che mi concederete e mi è gradita l’occasione per distintamente e cordialmente salutarvi.

Massimo Finaldi
Trecase (Na), 13/06/2016

Fatti, non parole

Egregio Padre,
leggo nel numero di maggio della rivista Missioni Consolata dei tempi difficili dovuti alla crisi, molto diversa, dice lei giustamente, da quelle passate e della quale non siamo solo spettatori ma che sta sconvolgendo il nostro modo di vivere stravolgendo valori e relazioni minando le nostre sicurezze. Appunto perché è molto diversa da quelle del passato, è necessario debba essere trattata con maggior risolutezza.

La crisi che stiamo vivendo ha ormai assunto dimensione planetaria e come tale i singoli stati non hanno né la capacità politica né quella morale di risolverla. Solo l’Onu avrebbe la possibilità di fare qualcosa per la straordinaria emergenza. L’Onu dovrebbe dire chiaro e forte quali sono gli stati dove esiste un reale stato di «guerra» e non semplici sollevazioni e diatribe politiche tra concorrenti al potere dove coloro che si sentono perseguitati vogliono cambiare semplicemente patria, da qui moltissimi migranti con tutti i problemi relativi.

Una volta individuati questi stati, le ambasciate di paesi che intendono accogliere, con scopi umanitari coloro che vogliono da questi fuggire, potrebbero essere autorizzate a farli espatriare mediante viaggi organizzati e quindi sicuri. La grande maggioranza dei migranti invece, dopo gli onerosi costi per il «passaggio», sono spesso vittime di soprusi e violenze nei luoghi di raccolta e infine il rischio di perdere la vita durante il trasporto.

Il tutto, spiace dirlo, con la complicità di coloro che zitti zitti, (tranne qualche «bisbiglio» su alcuni organi di stampa), dovrebbero invece muoversi con decisione per evitare tale oscena barbarie. Non ci si mette dalla parte della ragione dicendo semplicemente: «accoglienza accoglienza» sapendo per certo, (le statistiche sono lì a dimostrarlo oltre ogni ragionevole dubbio) che molti di questi poveretti periranno durante il viaggio (mentre scrivo potrebbero essere in procinto di annegare parecchie persone, bambini compresi).

Pertanto tutti quei poveri cadaveri (migliaia, dicono le statistiche), che stanno marcendo in fondo al Mediterraneo sono vittime sacrificali di stupidità, sciocco buonismo, altruismo interessato, spesso a fini elettorali. Questo a causa del vergognoso «menefreghismo» di coloro che dovrebbero denunciare con decisione la condizione di abbrutimento di quei poveretti trattati come immondizia anziché come esseri umani.

Mi riferisco non solo a tutti i capi di stato e di governo, interessati al problema migratorio, ma anche a intellettuali, giornalisti, esponenti religiosi d’ogni fede, ossia gente che «conta» che dovrebbero sollecitare l’Onu per interventi miranti a fermare una volta per sempre tutte quelle organizzazioni, quasi sempre criminali, che favoriscono l’indegno commercio umano.

Il silenzio dei potenti allora diventa criminale. Papa Francesco, oltre che a Lampedusa, dovrebbe andare all’Onu, anche se non invitato, e urlare forte, (magari togliendosi anche una scarpa, come ha fatto Kruscev picchiandola sul leggio) a tutti quegli altezzosi rappresentanti del pianeta, che qualcuno definisce «maestri di imbecillismo burocratico», di impegnarsi concretamente per far cessare il ributtante mercato. Mentre l’ignavia fin qui dimostrata non fa che renderli complici di inaudite violenze su vittime innocenti.

Per concludere è forse esagerato dire di coloro che potendo parlare forte invece tacciono che sono anime sporche?

Grazie per l’attenzione. Un cordiale saluto.

Angelo Brugnoni
Daverio (VA), 28/05/2016

Vendi tutto

Caro direttore,

dopo aver letto «vendi tutto», lettera pubblicata sul numero di giugno u.s., non ho potuto fare a meno di porre mano alla penna (come si suole dire) e scriverti. L’argomento affrontato è di certo assai attuale e non fa altro che riproporre argomenti spesso utilizzati negli incontri televisivi e sulle pagine dei giornali a proposito del «tesoro della chiesa» che fa scandalo e andrebbe venduto o donato a beneficio dei poveri. Spesso anch’io confesso di trovarmi a riflettere su questi argomenti e sinceramente non so trovare risposte adeguate e convincenti. Quanto tu esponi nella risposta aiuta a capire o almeno a farsi un’idea della complessità del problema e comunque lascia aperte molte porte per ulteriori dibattiti e ricerca di nuove e rivoluzionarie soluzioni. Ti espongo qui ad alta voce una mia riflessione. La Chiesa è nata povera e ci si augurerebbe fosse ancora così, ma la storia è riuscita a sconvolgere e spesso a stravolgere il messaggio evangelico che sembra trovi molta difficoltà a penetrare nei cuori e a tradursi poi in comportamenti coerenti che applichino in concreto quanto detto dal Maestro. Ma una cosa credo sia importante da capire e che spesso, a cominciare dal sottoscritto, ci fa comodo pensare che non ci riguardi, e cioè che la Chiesa siamo anche noi, che il messaggio evangelico è anche rivolto a ciascuno di noi e che prima di pensare alla pagliuzza nell’occhio del vicino, ci si dovrebbe guardare allo specchio per controllare se magari sia opportuno che anche noi facessimo ogni tanto un po’ di pulizia e togliessimo le famose «fette di salame» che ci coprono non solo gli occhi ma anche la coscienza. Certo questo non esclude che anche la Chiesa in tutti i suoi apparati faccia un esame di coscienza per vedere se qualche cosa può essere migliorato. Aggiungo anche che è perché esiste la struttura secolare della Chiesa se molte missioni ricevono aiuti e possono continuare nell’annuncio della Buona Novella. Dimentichiamo a volte che se certe missioni sperdute nelle lande deserte o nelle foreste del mondo dove non giunge la televisione, ignorate dalla stampa scandalistica o dal politico contestatore tout court, riescono a portare silenziosamente il messaggio di speranza di Cristo con ospedali, scuole, dispensari o anche solo un sorriso, spesso lo possono perché la Chiesa tanto vituperata lo consente con il suo aiuto concreto. Anche se non spetterebbe a me citare il messaggio evangelico, ma ad altri ben più autorevoli, tuttavia ricordo quanto detto 2000 anni fa: «Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto». Messaggio stringato, ma preciso: nel «chi…» ci siamo tutti nessuno escluso. Prima di pretendere la coerenza dagli altri, cerchiamo di esigerla da noi.

Auguro a te e a tutta la tua magnifica squadra «buon lavoro» e dato il mese anche «buone ferie» delle quali anche tu avrai di sicuro bisogno e, a tutti i missionari e missionarie della Consolata, auguro un proficuo «Buon lavoro».

Giacomo Fanetti
11/06/2016

Accoglienza e solidarietà

Ci sono parole che inducono a larghe riflessioni, come, ad esempio, quelle che ha pronunciato papa Francesco, ricevendo il Premio Carlo Magno 2016, conferitogli dalla città di Acquisgrana. Egli ha rivolto un accorato appello all’Europa affinché, attingendo nuova linfa dagli ideali dei Padri Fondatori, affronti con rinvigorito spirito le sfide presenti; si renda creatrice e generatrice di nuovi processi sui quali costruire un futuro di libertà e di pace; sia culla di un nuovo umanesimo fondato sulla capacità di integrare, sulla capacità di dialogare, sulla capacità di generare.

L’Europa alla quale si rivolge il papa non è però solo quella dei capi di stato e di governo; è la «famiglia dei popoli»; sono dunque gli individui, singoli e associati, le formazioni intermedie, le istituzioni private e pubbliche, gli enti di governo fino al livello massimo rappresentato dallo Stato.

Allora, l’appello e l’auspicio del superamento dell’attuale fase di stanchezza – che esclude e sottrae dignità e libertà non solo a chi in, cerca di asilo o anche solo di cibo, preme ai confini d’Europa, ma anche a chi in essa rinviene le proprie origini e vorrebbe trovare il proprio futuro – passa necessariamente attraverso un processo che coinvolge la comunità dei popoli, oggi chiamati a dare nuovo vigore ad un concetto di unità europea fondata – usando le parole di Karl Lowith – «su un comune modo di sentire, di volere, di pensare …, a una determinata modalità di concepire e di dare forma a se stessi e al mondo».

In questa prospettiva i concetti di accoglienza e solidarietà assumono significati che trascendono la dimensione strettamente fisico–spaziale o materiale; non si tratta tanto – o solo – di trovare una sistemazione alloggiativa a chi cerca ospitalità o di somministrare mezzi di sussistenza agli indigenti; l’accoglienza e la solidarietà debbono tendere ad innescare processi di sviluppo dotati di una forza autorigenerante, capaci di generare altro sviluppo; che riservino ai beneficiari il ruolo di protagonisti e nei quali l’apporto di risorse economiche – pure indispensabile – non si risolva in sterile assistenzialismo ma costituisca mezzo per il raggiungimento di un’autonomia personale ed economica.

Oltre il territorio e l’elemosina

Il concetto di accoglienza non può e non deve dunque essere costretto in una dimensione territoriale e il concetto di solidarietà non può e non deve essere inteso come «elemosina»; una società che creda nella dignità umana deve saper trovare, proporre e realizzare modelli di vita e di sviluppo che – a prescindere dalla dimensione geografica di intervento – reintegrino l’individuo nelle condizioni indispensabili per l’esplicazione delle proprie facoltà e capacità, e lo rendano nel contempo consapevole che tutto quanto gli viene offerto costituisce un mezzo di sviluppo e di crescita di cui egli stesso diviene il principale artefice e responsabile.

Questo concetto – ne siamo convinte – è un punto chiave cui dovrebbero essere improntate le relazioni individuali e sociali tra chi offre e chi riceve accoglienza e solidarietà; è infatti il rispetto dell’uomo il fondamento dell’accoglienza e della solidarietà ed è sempre il rispetto dell’uomo – e, quindi, il rispetto innanzi tutto di se stesso e la coscienza della propria dignità – il fondamento dell’accettazione dei benefici offerti e il buon uso di essi.

La convinzione nasce dall’esperienza della cooperazione internazionale ove è stato constatato che, qualora gli interventi e gli aiuti posti in essere non si accompagnino alla formazione, nei beneficiari, della coscienza di dover essere responsabili del proprio auto-sviluppo, le iniziative intraprese sono destinate a concludersi non appena cessa la presenza degli organismi sostenitori e del flusso di denaro (vedi MC n. 7/2015, pag. 65); al contrario, laddove tale coscienza sia acquisita e presente, i processi di auto-sviluppo proseguono indefinitamente.

L’Assefa Ngo

Questa metodologia è stata, ad esempio, praticata con successo da Assefa Ngo indiana che, partendo da un piccolo gruppo formato da venticinque contadini ha raggiunto un milione di famiglie (circa cinque milioni di persone pari a più di tre volte la popolazione della Liguria) con progetti di sviluppo, e ben potrebbe essere adottata nella gestione dell’emergenza determinata dai flussi migratori verso il nostro paese e verso l’Europa; ciò al fine di evitare che le risorse messe in campo – anziché innescare processi di sviluppo e di integrazione – si esauriscano in meri interventi di somministrazione di mezzi di sussistenza (alloggio, vitto, eventuali altri interventi economici variamente denominati) e inducano ad una pretesa di essere mantenuti, senza porsi il problema del fatto che i costi vengono a gravare sui cittadini che lavorano e inducono in questi ultimi l’ostilità verso i nuovi venuti.

Responsabili del proprio autosviluppo

Crediamo, perciò, che sia fondamentale associare allo spirito di solidarietà ogni azione utile alla formazione, in capo ai beneficiari, della consapevolezza che essi stessi sono responsabili del proprio autosviluppo e che su questo principio debba basarsi la «relazione sociale» con la comunità di accoglienza. Ciò a partire dall’auto–organizzazione delle attività necessarie a provvedere agli elementari bisogni della vita quotidiana (approvvigionamento delle materie prime; preparazione dei pasti; pulizia ed igiene dei locali occupati; manutenzione ed eventuali migliorie degli stessi) fino all’offerta, a favore della comunità ospitante, di servizi e attività che costituirebbero un segno tangibile di non voler diventare un peso per la società, ma di volee divenire una componente attiva attraverso l’esercizio e lo sviluppo delle proprie capacità e abilità. Si è tentato di proporre agli immigrati un impegno volontario e gratuito, ma questo non sempre ha funzionato, come riconosceva amaramente Patrizia Calza, sindaco di Gragnano, dove i pochi immigrati che avevano accettato di fare volontariato, ad uno ad uno si sono poi ritirati: «Preferiscono fare i mantenuti» commentava in un recente convegno a Piacenza. Invece, se si trovasse modo di coinvolgere queste persone ad iniziare dalla individuazione dei progetti e inventando un qualche ritorno economico, il processo di autosviluppo potrebbe avere successo. Così è avvenuto per esempio nei comuni di Riace, Caulonia ed altri della costa jonica. E intanto si incomincia a parlare di «borse lavoro».

Questo modello di accoglienza potrebbe probabilmente attenuare le tensioni e i conflitti; favorirebbe perciò il dialogo e il processo di integrazione nei paesi ospitanti.

Si tratta di un modello che richiede di essere coltivato giorno dopo giorno; non è scevro da difficoltà ed ostacoli e forse potrà dare un ritorno immediato modesto; crediamo però che esso possa costituire un grande stimolo per riscoprire i valori della solidarietà e del rispetto della dignità umana e per restituire, a chi è disperato, un orizzonte di speranza.

Graziella De Nitto
e Itala Ricaldone
Assefa Genova Onlus
24/06/2016

 




Cari missionari 76

Informazioni sbagliate?

Spettabile Redazione,
ho letto il fuorviante articolo del mese di maggio 2016 di Sabina Siniscalchi sulle disuguaglianze. Non voglio commentare quanto scritto ma ritengo che almeno i riferimenti a documenti citati debbano essere corretti.

Non sono andato a cercare «Finanza-Capitalismo» di Luciano Gallino ma ritengo impossibile che affermasse che «chi ha un capitale depositato di 28000 euro paghi 5600 euro senza muovere un dito!». Per fortuna un deposito in banca non costa niente anzi forse può rendere qualcosa e in ogni caso non è segno di grande ricchezza. Se si parlasse di utile da capitale e non di deposito sarebbe diverso. Il rapporto finanziario Fisac Cgil del 2015 non dice «che un dirigente percepisce un compenso medio pari a 4 milioni 326 mila euro all’anno», ma parla di top manager! Un dirigente medio è estremamente lontano da tale importo. Sarebbe opportuno che gli articoli venissero controllati da esperti per non dare informazioni sbagliate e devianti alla massa dei lettori. Cordiali saluti.

Vittorio Bosco
17/05/2016

Egregio sig. Bosco,
lei definisce il mio articolo fuorviante e le informazioni che foisco sbagliate e devianti, questo mi stupisce molto perché il grave fenomeno della crescita delle disuguaglianze, di cui il pezzo parla, è ormai riconosciuto e suscita la preoccupazione di tutte le istituzioni pubbliche e private, non solo per i costi umani e sociali che comporta, ma perché rappresenta un freno alla crescita economica. L’Ocse nei suoi tanti rapporti sulle crescenti disuguaglianze (growing inequalities) afferma che una delle cause del fenomeno è da ricercarsi nell’indebolimento dei sindacati e dei corpi sociali intermedi. La invito a riflettere sul fatto che una debolezza di pensiero si traduce in una debolezza di azione. Quanto alle citazioni, le confermo che quella attribuita a Gallino è pienamente corretta (v. anche pag. 24 di «La lotta di classe dopo la lotta di classe»), mentre mi scuso per l’errore di traduzione del termine top manager, laddove cito non virgolettato il rapporto Fisac Cgil. Cordiali saluti,

Sabina Siniscalchi

 

Mi permetto di aggiungere che un commento al testo di Gallino riporta «[…] mentre un redditiere con un capitale dello stesso importo […]», avallando così quello che giustamente lei interpreta come l’utile da capitale depositato. Non serve comunque fare una battaglia di cifre. Si trattasse anche solo di top manager iperpagati, questo non diminuisce il problema delle diseguaglianze crescenti (e della «scomparsa» della classe media). Ho qui davanti a me il numero 112, giugno 2016, della rivista «In dialogo», notiziario della Rete Radié Resch. Titola: «Sergio Marchionne | Nel 2015 ha guadagnato: 54 milioni e 543 mila euro. 150 mila al giorno. | Che senso ha?». In quest’ultima domanda è sintetizzato tutto il problema: «Che senso ha?».

Islam, dialogo e pace

Buongiorno,
da qualche tempo ho in corso con un amico di infanzia recentemente ritrovato una discussione a distanza sul tema in oggetto rispetto al quale siamo su posizioni divergenti. Il sottoscritto parrebbe un «utile idiota» rispetto alle tesi dell’altro. Vista l’importanza del tema e la mia impreparazione, che ho del resto confessato all’amico, vi chiedo come vecchio lettore della vostra ottima rivista se vorrete dare adeguato spazio ancora alla questione: il Corano è inconciliabile con l’idea della convivenza pacifica con popoli di altre religioni? Il musulmano moderato è fuori dall’Islam in quanto tale? Questa e altre domande fanno parte dello scambio di opinioni con il mio amico che è partito idealmente dalla lettura del vostro editoriale di maggio. Grazie dell’attenzione che darete alla presente. Cordiali saluti

Claudio Solavagione
14/05/2016

Caro sig. Claudio,
raccogliamo il suo invito, anche se non sarà un lavoro facile. Stiamo studiando seriamente un dossier o una serie di articoli sull’argomento, ma deve avere un po’ di pazienza. Indipendentemente da questo lavoro, c’è stato un avvenimento importante che fa ben sperare: la visita del grande imam sunnita di Al Azhar, Ahamad Muhammad Al-Tayyib, a papa Francesco il 23 maggio scorso. È stato un incontro positivo e incoraggiante in questi tempi difficili. Speriamo che una possibile visita del papa al Cairo possa consolidare il cammino iniziato.

Per quanto poi possa valere la mia esperienza personale, in Kenya posso dire di aver sperimentato le due facce opposte dell’Islam: da una parte una radicalizzazione sempre più evidente, dall’altra una bellissima e duratura amicizia con alcune famiglie musulmane con cui conservo ancora legami profondi. Quando le persone riescono a incontrarsi cuore a cuore, con semplicità e umanità, allora non conta religione, ideologia, casta o razza. La tragedia scoppia quando sulle persone prevale lo stereotipo, il pregiudizio o l’ideologia, sia essa politica che religiosa.

E a questo proposito mi viene da pensare che gran parte dei guai nostri con l’islamismo più radicale – diventato una minaccia mondiale – sono frutto di una politica dissennata che ha visto alleati i fondamentalisti cristiani d’America con i fondamentalisti wahabiti dell’Arabia Saudita per far crollare le «dittature» – religiosamente tolleranti – di Saddam Hussein (Iraq), Muhammar Gheddafi (Libia) e Assad (Siria). Quegli stessi fondamentalisti che sostengono ora Trump e la sua agenda piena d’intolleranza, gli stessi che continuano a finanziare in tutto il mondo le sette cristiane più integraliste che dividono le comunità in Africa e in America latina per lasciar spazio, nella divisione, agli interessi delle multinazionali che sfruttano senza controlli (vedi RD Congo e Amazzonia sia dell’Ecuador che del Brasile). Senza dimenticare la passività, divisione e confusione della politica estera dell’Unione europea che tollera (o permette e favorisce?) in paesi come il Kosovo e l’Ucraina la crescita e il prosperare di organizzazioni fondamentaliste, incubatori di foreign fighters e terroristi.

Musulmano Ucciso per salvare cristiani

Aiuto, qualcosa mi è sfuggito, leggo diversi giornali quotidiani tutti i giorni, ma non ho letto, se non in piccolissime recensioni sulla morte, il 18/01/16, di Salah Farah. Ho letto di Valeria Soresin, morta nell’attacco al Bataclan a Parigi, ho letto su Giulio Regeni morto misteriosamente in Egitto. Tutto ciò è molto giusto. Ho guardato in internet il cognome Salah: ho visto pagine su Abdelham Salah, terrorista, ma ancora di più su Mohamed Salah, calciatore della Roma, e del suo infortunio. Ho guardato vari programmi d’informazione e denuncia, ma mai si è parlato di Salah Farah. È solo un vero eroe dimenticato, Salah è l’insegnante keniota che ha difeso con la sua vita  dei cristiani da una morte certa, dicendo ai terroristi che cristiani e islamici sono tutti uguali e che dovevano uccidere tutti. Quindi, secondo me dovrebbe essere considerato un eroe sia per i cristiani che per i mussulmani. Ma nessuno ne parla, come per vergogna: il mondo islamico forse perché ha salvato dei cristiani, il mondo occidentale, forse perché nero, povero e non biondo. Io penso che meriterebbe almeno il Nobel per la pace, magari togliendolo a qualche potente, che ha reso il mondo molto pericoloso. Ora chiudo e vi incito a farvi promotori per una colletta per la sua numerosa famiglia che viveva solo con il suo stipendio.
Saluti

Stefano Graziani
08/05/2016

Ho fatto una rapida ricerca, e, a parte quattro testate, in Italia se ne è parlato poco o niente. Noi stessi abbiamo riportato solo quanto avvenuto il 21 dicembre sulla pagina Facebook della rivista. Il fatto a cui si riferisce il nostro lettore è l’agguato del 21 dicembre 2015 teso dagli Al-Shabab a un pullman diretto a Mandera, una cittadina del Kenya all’stremo Nord-Est del paese, ai confini con la Somalia. «L’uomo, al momento dell’assalto di un gruppo di uomini armati, appartenenti ai miliziani sunniti somali di al-Shabaab, si trovava a bordo di un autobus insieme a un gruppo di passeggeri cristiani e musulmani. Quando gli assalitori hanno intimato al gruppo di viaggiatori di dividersi fra musulmani e cristiani, Farah insieme ad altre persone si è rifiutato, sapendo che i cristiani sarebbero stati massacrati una volta individuati. L’insegnante musulmano si era rivolto agli uomini armati sfidandoli e dicendo loro: “Uccideteci tutti oppure lasciateci andare”. I miliziani, prima di lasciare che il bus proseguisse il suo tragitto per Mandera, avevano ucciso due delle persone a bordo e ne avevano ferite altre tre» (The Post Internazionale del 22/01/2016). «“Appena abbiamo parlato hanno sparato a un ragazzo, e a me”. Dopo quasi un mese in ospedale, Salah non ce l’ha fatta» (Avvenire del 21/01/2016). Salah Farah era un insegnate di 34 anni, padre di cinque figli.

In Kenya l’hanno onorato come un eroe e ci sono state preghiere di cordoglio da parte di tutti i gruppi religiosi ed è stata lanciata sui social media una colletta per aiutare la sua famiglia.

Resta comunque il fatto che spesso sui media non tutte le morti hanno lo stesso valore. La lista potrebbe essere lunga, dalla Nigeria alla Somalia, dalla Siria all’Iraq, non ultimo l’ennesimo massacro di civili avvenuto agli inizi di maggio nel Beni (una provincia della Repubblica democratica del Congo vicina all’Uganda) per mano di un gruppo di miliziani qaedisti ugandesi, uno dei 23 gruppi che si contendono il controllo del territorio a Est del Congo e le sue enormi risorse. Noi stessi abbiamo saputo del fatto solo perché vi sono state vittime tra i membri della famiglia allargata di un nostro missionario. Eppure non è una cosa da poco, oltre 1100 persone indifese, soprattutto donne e bambini, sono state uccise in quell’area negli ultimi tre anni e migliaia e migliaia costretti a fuggire dalle loro case.

E chi ha riportato che «è morta (il 20 maggio) suor Veronica Rackova, religiosa delle Suore Missionarie dello Spirito Santo (Ssp), la medico missionaria slovacca ferita gravemente in un agguato stradale in Sud Sudan il 16 maggio»? Ricordate l’assordante silenzio sul massacro delle quattro suore di Madre Teresa in Yemen all’inizio di marzo? Perfino papa Francesco, con la sua abituale franchezza, si sentì in dovere di stigmatizzare l’indifferenza dei media.

Notizie di questi drammi si trovano sull’informazione di «nicchia», come le agenzie missionarie, le riviste specializzate e quelle di ong e gruppi interessati a questi problemi, e qualche volta anche nelle pagine intee della grande stampa. Ma occorre avere un occhio attento, capace di andare oltre l’anestetizzante informazione di «prima pagina».

Avanti con MC

Caro padre
faccio riferimento alla lettera pubblicata su MC aprile 2016 (lettrice di Bologna), per incoraggiarvi a continuare nell’attività di stampa, spedizione e diffusione della rivista. In data odiea ho provveduto ad effettuarvi un piccolo bonifico che vorrete utilizzare per inviare la rivista a chi ne ha bisogno e trova in essa un utile strumento di informazione e formazione, soprattutto sulla chiesa missionaria ed in particolare di quella dei missionari della Consolata. Buon lavoro!

Email firmata
11/04/2016

A giorni vi faccio avere una piccola donazione per la vostra bella rivista. A volte mi chiedo se possa essere realizzabile una piccola campagna nelle mie tre parrocchie per far conoscere la rivista e favorire una cultura alternativa sui veri problemi del mondo… Forse sarà un’illusione, ma sarei lieto, magari per il mese missionario, di studiare con voi qualcosa. Se avete suggerimenti…

Don D.
17/05/2016

Grazie di cuore a tutti gli amici che ci sostengono e ci incoraggiano a continuare il nostro servizio in questi tempi duri. Come sapete questi ultimi sei anni hanno visto chiudere riviste missionarie una dopo l’altra. Altre stanno davvero lottando per la sopravvivenza proprio in questi tempi. Cose che vi abbiamo già detto altre volte. In MC stiamo facendo il possibile e l’impossibile per «fare bene il bene», convinti che se questa è un’opera voluta da Dio, Lui ci provvederà sempre la forza e i mezzi per andare avanti. Se non è opera sua, meglio chiudere.

Appello per lo ius soli

Agli immigrati di seconda generazione, nati e cresciuti in Italia, deve essere riconosciuto il diritto di cittadinanza. Lo sostengono le riviste missionarie e le associazioni per i diritti dei migranti. Che chiedono sia presentato quanto prima al Senato, per la sua definitiva approvazione, il disegno di legge sullo ius soli.

In sintonia con la campagna «L’Italia sono anch’io», sostenuta da numerose organizzazioni della società civile, noi rappresentanti della stampa missionaria e di associazioni impegnate per i diritti degli immigrati, chiediamo al Parlamento italiano di portare a termine senza ulteriori dilazioni l’iter di riforma della legge che estende il diritto di cittadinanza agli stranieri nati nel territorio italiano. In modo particolare ci rivolgiamo alla presidente della Commissione affari costituzionali, Anna Finocchiaro, affinché stabilisca quanto prima la data per presentare al Senato il disegno di legge, già approvato in prima lettura alla Camera dei deputati il 13 ottobre 2015, per la sua definitiva approvazione.

La vigente legislazione, fondata su legami di sangue, garantisce il diritto di cittadinanza a nipoti di un nonno o nonna italiani, anche senza mai aver messo piede in Italia. A maggior ragione riteniamo giusto e doveroso che lo stesso diritto venga riconosciuto agli immigrati di seconda generazione, nati e cresciuti nel nostro paese, che oggi sono costretti ad attendere fino alla età di 18 anni prima di poter ottenere la cittadinanza. A tale obiettivo mira la riforma della legge 91 del 1992 che assicura ai figli di immigrati nati in territorio italiano da almeno un genitore con permesso di soggiorno di lungo periodo (ius soli temperato) o a seguito di un percorso scolastico (ius culturæ), il diritto a diventare cittadini.

L’approvazione della nuova legge – ne siamo certi – darà un segnale importante a oltre 1 milione di giovani di origine straniera che vivono in uno stato di precarietà esistenziale, che si sentono italiani di fatto, ma non lo sono per la legge. Grazie a questa normativa più della metà di costoro, con un genitore in possesso di un permesso di lungo soggiorno, potrebbero già beneficiare della riforma. L’accesso alla cittadinanza è l’unica via in grado di consentire ai figli di immigrati di essere considerati alla pari, nei diritti e nei doveri, rispetto ai loro coetanei, figli di italiani.

Come cittadini e cittadine italiane riteniamo l’approvazione della nuova legge sulla cittadinanza agli stranieri un atto di giustizia che il nostro Parlamento è chiamato a compiere per rimediare a una discriminazione che penalizza i nostri fratelli e sorelle immigrati di seconda generazione.

Questo documento è stato firmato in data 12 maggio 2016 dai direttori delle riviste aderenti alla «Federazione della stampa missionaria italiana» (Fesmi) e dai responsabili di altri organismi solidali e impegnati nel mondo dei migranti, rifugiati e nomadi. Il testo è stato pubblicato sui siti delle varie riviste (della Fesmi), su Avvenire e Vita (e su Famiglia Cristiana) e consegnato alla presidente della Commissione affari costituzionali, all’inizio di giugno. (Nella rivista è scritto così. perché questo era il piano, ma la realtà è più difficile e si sta ancora lavorando per riuscire a consegnare il testo a chi di dovere).

Nel documento si usa l’espressione «immigrati di seconda generazione» per adeguarsi al linguaggio della legge attuale, ma tale termine non ha senso. Bambini nati in Italia da genitori che qui vivono e lavorano da tempo, non possono essere considerati migranti. Eccetto che anche noi vogliamo introdurre il termine «alieno», lo stesso stampato sulla mia carta d’identità locale quando vivevo in un paese d’Africa.