Ci sono pure altri

Caro direttore,
sono un abbonato alla sua rivista e sono anche un volontario che, da oltre 20 anni, dedico le mie ferie in campi di lavoro in Kenya.
Su Missioni Consolata di gennaio c’è un bellissimo articolo sulla casa per ragazzi di strada di Kahawa (Kenya). Essendo al corrente di questa iniziativa e conoscendo alcuni amici che lavorano tutto l’anno per Kahawa facendo pantaloncini, magliette, ecc. e spedendo anche container, ho notato che, nell’articolo, non si fa alcun cenno né a questa attività né ad un missionario (non spetta a me fare nomi). Questi, dopo aver terminato il suo lavoro in un altro luogo, dedica il restante tempo libero (compresa la domenica) alla famiglia dei ragazzi di Kahawa.
Forse il padre, quale servo del Signore, preferisce l’anonimato. Però mi pare giusto un accenno anche a lui, come pure al gruppo che lavora in silenzio per quei bambini.

Giusto. Quando padre Benedetto Bellesi (autore dell’articolo sui ragazzi di strada) visitò Kahawa, l’esperienza era ancora agli inizi e non ha potuto raccogliere tutte le informazioni… Ebbene: il missionario è Angelo Riboli, il gruppo si chiama «Gli amici di Wamba», senza scordare «Insieme si può», Resurrection Garden e altri amici.

Sergio Provasi




Quanto ricevono i poveri?

M i riferisco alla lettera aperta alla chiesa di Modena del signor Guido Guidotti, pubblicata su Missioni Consolata di gennaio 2000.
Nella lettera, intitolata «L’8 per mille e il sud del mondo», ci sono contestazioni gravi, tra cui l’ammontare di 9 miliardi di lire ricavati dall’8 per mille e devoluti alla chiesa di Modena, mentre si stralciano solo 20 milioni per i missionari diocesani in Brasile.
Modena è solo una delle diocesi d’Italia che riceve dai contribuenti dell’8 per mille forse tanti miliardi, da destinare a chi ne ha veramente bisogno e non per potenziare sperperi inutili, quali potrebbero essere manifestazioni che con la povertà nulla hanno a che fare. Al contribuente italiano si chiede un obolo per i bisogni della chiesa. Quanti soldi la chiesa cattolica e le altre chiese ricevono non sono mai riuscito a saperlo, né come vengono impiegati.
Avete fatto bene a pubblicare la lettera del signor Guidotti. Ora si dovrebbe aprire un dibattito critico e propositivo, come scrive il Guidotti. E voi dovreste renderlo noto.

Oggi, domenica, ho celebrato tre messe. Sono un missionario della Consolata che lavora in Portogallo. Ho letto con interesse la lettera del signor Guidotti. È una lettera alla chiesa di Modena, ma è rivolta pure a tutte le chiese d’Italia, a tutti gli italiani… Sono figlio di friulani, nato e cresciuto in Canada, ma sono anche cittadino italiano con tanto di passaporto.
Concordo pienamente con il signor Guidotti e lo ringrazio. Però mi dispiace che non sia andato a messa quella domenica. Chi ha lavorato in missione sa quali sacrifici affrontano i cristiani per partecipare all’eucaristia, che è sempre una festa di ringraziamento al Signore, a prescindere dal prete.
Commento la lettera di Guidotti con la mia esperienza. Ho lavorato cinque anni a Bweyogerere (Uganda) dal 1993 al 1998. Diventato parroco, ho trovato una missione con debiti e tanti problemi. I superiori mi hanno detto: «Arrangiati!».
Si è subito radunato il consiglio parrocchiale, che ha deciso all’unanimità: «Dobbiamo tirarci su le maniche e stringere anche la cinghia». La gente ha dato un sorprendente e generoso contributo per risolvere i suoi guai… Ma non potevamo fare tutto da soli: dovevamo essere spalleggiati da qualche «buon samaritano».
Numerose chiese e nazioni, che si dicono «generose», hanno smesso d’esserlo con noi. Per un pugno di dollari, marchi o franchi ci hanno fatto impazzire con un labirinto di burocrazie. Altro che carità!
Poi, finalmente, è passato il «buon samaritano», che si chiama «Italia». Così la parrocchia di Bweyogerere si è trasformata con lo scavo di pozzi, la costruzione di scuole, il completamento di chiese e l’acquedotto. L’Ufficio per lo sviluppo della diocesi di Kampala ha additato Bweyogerere come un modello per tutte le altre parrocchie.
E ciò grazie a chi? Innanzitutto alla gente di Bweyogerere, che, pur nella povertà, ha fatto sacrifici per lo sviluppo della sua chiesa. Ma si devono ringraziare anche tanti italiani, che sono rimasti nell’anonimato, padre Mario Valli, responsabile dell’Ufficio per la cooperazione missionaria (Torino), la Caritas italiana. Bisogna ringraziare pure il Comitato per gli interventi straordinari in favore del terzo mondo della Conferenza episcopale italiana; il Comitato, grazie all’8 per mille che gli italiani sottoscrivono ogni anno, ha aiutato Bweyogerere quando eravamo agli estremi!
Per cui evviva l’8 per mille, evviva l’Italia! Le altre chiese dovrebbero seguie l’esempio.

La lettera del signor Guidotti è stata sottoscritta anche da 43 persone. Non mira a creare polemiche, ma ad aprire un confronto critico e propositivo. Ed è quanto sta avvenendo.
Secondo l’Ufficio nazionale della Cooperazione missionaria fra le chiese, la chiesa italiana ha destinato al sud del mondo 30 miliardi di lire nel 1991, per giungere a 135 miliardi nel 1998, così impiegati: per progetti socioculturali 133 miliardi, da distribuire 2 miliardi.

Pio Maacchi e p. Marco Bagnarol




Solidarietà e passione critica

Caro direttore, la celebrazione dell’anno giubilare mi spinge ad operare, oltre che per la mia conversione, anche per l’aiuto ai fratelli più poveri e bisognosi.
Conosco da parecchi anni i missionari della Consolata. Sono in relazione con padre Feando Paladini, alla cui missione (in Congo) vorrei che fosse devoluta la presente somma di denaro. È mio desiderio che tale denaro venga impiegato in qualche attrezzatura sanitaria o nella costruzione di un pozzo, strutture che ritengo necessarie per la salute e l’igiene.
Vorrei poter fare di più, ma sono anche malata; anzi, la prego di scusare la mia scrittura: soffro di artrite reumatornide in tutta la persona e ho gravi deformazioni alle mani. Comprendo perciò le sofferenze degli altri e, come gesto di solidarietà, offro il mio modesto contributo.
Nel 1980 sottoscrissi una borsa di studio per un aspirante che poi uscì dal seminario. Pazienza!
Spero che il Signore gradisca l’offerta delle mie sofferenze, del mio dono in suffragio dei miei genitori Antonietta e Floriano e mi conceda la grazia di compiere sempre la sua volontà.
Tina Cartani – Felline (LE)

H o letto con grande interesse «Prima il profitto, poi la salute» di Carlo Urbani (Missioni Consolata, febbraio 2000).
Ancora una volta viene presentato con molta chiarezza il comportamento delle multinazionali: queste, anche nel settore dei farmaci, pretendono di esercitare il loro potere impedendone la produzione a prezzi accessibili a tutti i paesi del Sud, che sarebbero in grado di produrre medicinali più comuni, con immenso vantaggio per le popolazioni locali. La tutela dei brevetti impedisce che questo avvenga e, quando si ricorre alla licenza obbligatoria, sono colti da pesanti ritorsioni commerciali.
Già in Amici dei lebbrosi (agosto 1999) era stata presentata l’influenza negativa delle multinazionali nel settore. Il dottor Zafarullah, direttore di un progetto sostenuto dall’Aifo in Bangladesh, ha raccontato: le multinazionali sono riuscite a bloccare una richiesta al governo di proibire la vendita di medicinali inutili (se non dannosi) e vietati nei paesi industrializzati e di limitare l’importazione di quelli essenziali; all’iniziativa di produrre farmaci essenziali, da vendere a basso prezzo sotto nomi generici, «le multinazionali hanno risposto con una controffensiva, offrendo incentivi economici alle farmacie che rifiutavano i nostri prodotti; hanno inoltre abbassato i prezzi dei loro prodotti, hanno fomentato scioperi tra i nostri dipendenti e hanno ucciso un nostro lavoratore».
Anche questo è un frutto della globalizzazione, che non pare proprio essere attenta ai bisogni essenziali delle popolazioni del Sud del mondo.
Tuttavia Famiglia Cristiana (n. 6, 2000) si dimostra cauta al riguardo. Il settimanale, dopo aver ricordato che nell’Africa sub-sahariana un bambino su sei non supera i cinque anni, afferma: «occorre leggere attentamente dietro le cifre, pur senza arrivare a demonizzare acriticamente la globalizzazione». Si dice pure che la popolazione con una bassa soglia di sviluppo si è ridotta dal 20 al 10 per cento.
Come conciliare questi dati con altri pubblicati in gennaio da Cem/Mondialità? Qui si scrive: «Pur ospitando solo un miliardo e 200 milioni di persone, pari al 23% della popolazione planetaria , il Nord si garantisce l’84% del prodotto lordo mondiale. Viceversa il Sud, che accoglie gli altri 4 miliardi e 100 milioni di persone, partecipa al prodotto lordo con una quota pari al 16%».
Dispiace che certi giornali si mantengano sempre su posizioni ambigue, mentre condivido pienamente ciò che ha scritto Missioni Consolata: «è immorale e scandaloso che il reddito di tre individui nel Nord del mondo sia pari a quello di 600 milioni di persone nel Sud». Cosa ci dicono queste cifre?
Rallegramenti a Piermario Pertusio, di Chieri, che chiede informazioni per partecipare alla mobilitazione contro il negoziato del Wto e grazie a lei, direttore, per le indicazioni sul Centro nuovo modello di sviluppo.
Da tempo utilizzo Missioni Consolata per le lezioni di diritto ed economia nel biennio e sollecito la rivista a continuare la pubblicazione coraggiosa di altre notizie sulle reali conseguenze del sottosviluppo, che i missionari conoscono bene.
sr. Pier Paola – (via «e-mail»)

Abbiamo «incoiciato» queste due lettere, perché esprimono bene gli atteggiamenti di tanti nostri lettori, che non ringrazieremo mai abbastanza.
Nella commovente lettera della signora Tina si rispecchia la solidarietà di chi, pur nella sofferenza, sa guardare a quanti vivono in situazioni più precarie. Suor Pier Paola, poi, offre notevoli spunti di riflessione e merita un plauso per la capacità di insegnare diritto ed economia usando anche Missioni Consolata, confrontandola con altre pubblicazioni.
Ecco cosa vuol dire essere liberi, e «non portare il cervello all’ammasso».

Tina Cartani e sr. Pier Paola




Al suono dello Shofar

Spettabile redazione,
sono abbonato a tre riviste missionarie, che leggo per essere cattolico, cioè universale, e che mi consentono di conoscere la politica mondiale, cosa che non trovo nei nostrani ottusi e scandalosi mass media.
Ultimamente le tre riviste sono uscite con un loro «numero speciale»: una si è soffermata su un anniversario del suo istituto, un’altra ha presentato l’Africa e… Missioni Consolata ha parlato del giubileo. Devo dire che Missioni Consolata mi è piaciuta di più. Ho trovato troppo celebrativo il «numero speciale» sull’istituto, mentre quello sull’Africa è molto confuso e ripetitivo: non nomino le due riviste, perché apprezzo anch’esse.
Il numero di Missioni Consolata sul giubileo, oltre che chiaro nell’impostazione, è anche originale, proprio perché «cattolico»; inoltre attualizza il giubileo della bibbia e quello di Gesù affrontando argomenti scabrosi, che qualche italiano vorrebbe rimuovere (vedi pena di morte, emarginazione dei paesi poveri, ecc). Grazie.

Srgio Macchi




Anche negli USA critiche alla guerra

Egregio direttore,
scrivo per congratularmi con lei e con Paolo Moiola per quanto avete scritto sulla guerra in Serbia-Kosovo. Eccezion fatta per gli anti-imperialisti di professione, le cui opinioni sono in parte predeterminate, pochissimi in Italia hanno avuto il coraggio di riportare con il giusto peso fatti «scomodi» e di dire quel che non era difficile capire. In Europa il panorama non sembra migliore.
Solo in America e Inghilterra si sono levate voci critiche dal mondo politico «rispettabile», sia da destra che da sinistra.
Kissinger, in un articolo del 31/5/1999 su Newsweek, dice che la guerra è stata forzata bloccando le possibili soluzioni pacifiche. L’associazione di studi politico-militari Strategic Studies (della destra repubblicana) accusava il capo della missione Ocse, l’americano Walker, di aver «fabbricato» il massacro di Racak (gennaio 1999). Sulla base di testimonianze di osservatori dell’Ocse, pubblicate anche su Le Figaro e Le Monde, la «fossa comune» sarebbe stata creata mettendo insieme i corpi dei caduti negli scontri tra esercito serbo e Uck. Le foto dei cadaveri di Racak, apparse su tutti i rotocalchi, sono state considerate il «grilletto» della guerra…
Del Kosovo la nostra stampa non parla quasi più: arrivano solo echi della polemica (proveniente dall’America) sul numero delle vittime delle «atrocità serbe». Da centinaia di migliaia si è arrivati a 10 mila, mentre stime attendibili danno un massimo di 2 mila, per lo più comunque uccise dopo l’inizio dei bombardamenti. Non si sa se i rilievi siano più accurati che a Racak.
Intanto, come denuncia il recente rapporto di Amnesty Inteational, la violenza in Kosovo continua e forse peggiora, a danno dei serbi, rom, ma soprattutto degli albanesi moderati. Vittime «indegne», a cui la stampa dedica poco spazio.
Continua anche la sistematica distruzione delle chiese. Ne sono state distrutte un’ottantina, tra di esse anche antiche chiese medievali con i loro preziosi affreschi, incluse nel patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Per confronto, la «violenza serba» ha distrutto solo una moschea.

Il signor Boldrighini ricorda altri interventi critici statunitensi contro la guerra in Serbia-Kosovo. Ad esempio, quelli di Kenney, già responsabile nel Dipartimento di stato per la Jugoslavia ai tempi di Bush, di Binder, ex corrispondente del New York Times dai Balcani, di Chomsky, professore e commentatore politico. Anche il candidato presidenziale Pat Buchanan, già uomo di spicco della destra di Reagan, è stato critico sull’intervento armato nei Balcani.

Carlo Boldrighini




Musulmani diventati cristiani

Caro direttore,
faccio alcuni rilievi su un problema che sento vivissimo e su cui ho letto quanto Angela Lano ha scritto in Missioni Consolata: riguarda la conversione all’islam di alcuni cattolici italiani.
È mio vivo desiderio che la fede cristiana si rafforzi anche di fronte all’islam, che è oggi all’assalto non solo in Africa, dove usa mezzi a volte violenti (Somalia, Sudan), ma anche in Europa.
Pertanto, trattando di conversioni all’islam, è necessario usare accortezza, poiché sappiamo che, mentre la verità oggettiva è in Gesù Cristo, soggettivamente le persone possono essere affascinate da altre proposte.
Mi permetto le seguenti due osservazioni.
a) Gli articoli della Lano dimostrano comprensione verso chi è diventato musulmano. L’insieme della presentazione richiederebbe anche una affermazione chiarificatrice sull’oggettiva grandezza di Gesù Cristo, che i convertiti all’islam non hanno purtroppo conosciuto o conosciuto male: è sintomatico che nessuno di loro parli di Gesù Cristo.
Mi auguro che Missioni Consolata presenti l’«unicità di Cristo», altrimenti si lascia nel lettore l’impressione che i convertiti abbiano fatto bene a diventare musulmani.
Le riviste missionarie non hanno solo il dovere di informare, ma anche di presentare Gesù Cristo Salvatore di tutti, compresi i musulmani. Se già tutte le pubblicazioni cristiane dovrebbero avere questo scopo, tanto più una rivista missionaria.
b) La seconda, più che una osservazione, è una proposta. Anche in Italia (e un po’ in tutta l’Europa) ci sono musulmani che sono diventati cattolici o cristiani di altre chiese. Propongo di parlare anche di loro, così come avete fatto per i cattolici diventati musulmani. Sarebbe opportuno parlare pure di quanti fanno tale apostolato tra i musulmani.

Osservazioni assai pertinenti queste di padre Paolo, nostro prezioso corrispondente dal Kenya. L’«unicità di Cristo» va sempre ricordata. Missioni Consolata, nel citato numero speciale sul giubileo, ha titolato: «Davvero come Lui non c’è nessuno».
Abbiamo anche intenzione di parlare dei musulmani convertiti al cristianesimo. Però c’è uno scoglio: se occorre prudenza nel presentare le conversioni dei cristiani all’islam, se ne richiede di più nel processo inverso. Infatti i convertiti a Cristo dall’islam rischiano ritorsioni dai loro precedenti correligionari.

Paolo Tablino




Segni di speranza – Dopo il vertice di Seattle

D al 30 novembre al 3 dicembre 1999 a Seattle (Usa) ha avuto luogo l’atteso Millennium Round, della Organizzazione mondiale del commercio (Wto). I delegati dei 135 stati membri dovevano trovare un accordo per liberalizzare il commercio, adeguandolo ai processi di globalizzazione.
Tutti sapevano che sarebbe stato arduo ridurre le barriere tariffarie e superare il protezionismo in agricoltura; ma nessuno aveva previsto che la rabbia dei poveri e la rivolta della coscienza morale contro la logica del neoliberismo tecnologico avrebbero contribuito a far fallire l’incontro.
Il primo scontro si è avuto a proposito dello sfruttamento infantile. La «clausola sociale», posta da Clinton (cioè la richiesta di embargo per quei paesi che non eliminano il lavoro minorile), è apparsa sospetta. Come credere alla sincerità dei paesi ricchi, quando affermano di guardare esclusivamente alla difesa dei diritti umani? Chi non sa che, per i ragazzi dei paesi in via di sviluppo, l’alternativa a un misero lavoro non sono lo studio e la formazione, ma la delinquenza o la morte per fame?
Rimane, perciò, il dubbio che i paesi ricchi cercassero un pretesto, sia per mantenere un po’ più elevato il costo del lavoro nei paesi terzi (e neutralizzae la concorrenza), sia per poter continuare a imporre l’embargo contro paesi ostili (come Cuba). Oltre tutto – si è fatto notare – spetta all’Ufficio internazionale del lavoro (e non alla Wto) tutelare le condizioni del lavoro: quindi combattere lo sfruttamento minorile e promuovere forme alternative di apprendistato.
Il secondo scontro tra coscienza morale e logica neoliberista si è verificato in tema di commercio degli alimenti e di sostegno all’agricoltura. I manifestanti, provenienti da ogni parte del mondo e in rappresentanza di svariate organizzazioni ambientaliste, sindacali e del volontariato sociale sono scesi rumorosamente in piazza, per denunciare la mancanza di garanzie effettive di fronte al progressivo estendersi dell’inquinamento ambientale e delle manipolazioni genetiche. Molto forte è stata la contestazione contro i «cibi transgenici» e ogni forma d’intervento tendente a modificare i geni vegetali e animali.

N on sono mancati a Seattle gruppi estremisti, che hanno tentato di far degenerare la protesta in forme inaccettabili di violenza e nel rifiuto assoluto e ideologico della globalizzazione, che è ugualmente da rigettare. Tuttavia le ragioni di chi ha manifestato il proprio dissenso in modo civile e democratico restano meritevoli di considerazione. Lo sviluppo è un problema che riguarda tutti e non possono essere solo i ricchi a decidere; né esso si può ridurre in termini solo di mercato o monetari. I paesi meno favoriti vanno piuttosto aiutati a essere i protagonisti del proprio sviluppo.
Il rifiuto dell’orientamento dell’economia generale in senso puramente neoliberista e la reazione della coscienza morale contro la cultura libertaria soggiacente (quali si sono manifestati a Seattle) vanno salutati come un segno di speranza. Di essi si dovrà tener conto per impostare diversamente il prossimo Round.

Questo testo è pubblicato dalle riviste associate alla Fesmi (Federazione della stampa missionaria italiana), di cui Missioni Consolata è membro.

Riviste associate FESMI




L’erba “esigo” di una musulmana

Spettabile redazione,
ho letto con disappunto l’articolo «Le altre vie di Allah» («Missioni Consolata», giugno 1999). Riferendomi all’intervista posta alla sottoscritta da Angela Lano, esigo una smentita, non riconoscendomi in ciò che mi è stato attribuito.
Ho affermato che le motivazioni della mia conversione all’islam sono state la ricerca della verità, il desiderio di giustizia e soprattutto la necessità razionale dell’unicità di Dio; però non ho dichiarato che, se avessi guardato alle società islamiche (vengono specificati tre paesi che non ho menzionato), non sarei mai diventata musulmana. Ho detto che per un occidentale, che normalmente eguaglia l’islam al comportamento di alcuni paesi arabi, può essere difficile capire una conversione, dal momento che si attribuiscono all’islam soprusi che non hanno nulla di islamico.
Contrariamente a quanto è stato scritto, non avrei alcun problema ad abitare in un paese musulmano (anche se, ovviamente, amo la mia nazione, dati gli affetti che mi legano). Ho visitato alcuni stati islamici di cui mi sono innamorata per la serenità della vita, basata su principi che la nostra società sta eliminando, fondata sulla ricerca del divino, lontana dallo stress del potere occidentale e dall’imposizione dei ritmi alienanti del capitalismo.
La domanda «quante donne possono lavorare nei paesi musulmani?» se l’è posta la giornalista, non io. Ho risposto affermando che la percentuale delle donne lavoratrici nei paesi islamici è inferiore a quella dei paesi occidentali; ma credo che tale realtà sia legata alla scelta delle donne di privilegiare l’aspetto familiare e all’elevata disoccupazione dei paesi in via di sviluppo.
Pongo io una domanda: «Quante donne occidentali vorrebbero licenziarsi per occuparsi dei figli?». La necessità imposta dalla società le costringe a mantenere ritmi lavorativi stressanti e, a volte, poco dignitosi.
È scandaloso che la giornalista si sia permessa di trarre affermazioni sulla mia vita privata, quando l’intervista era indirizzata alla mia conversione. Ritengo che i matrimoni «misti» siano più difficili rispetto a quelli tra persone dello stesso paese, per le possibili incomprensioni culturali generate da una diversa educazione. Ma non mi ritengo una moglie infelice (come mi ha qualificato la giornalista) e la decisione di sposarmi è stata anche motivata dalla certezza di felicità che sarebbe derivata dall’unione con mio marito. Credo che gli scontri in un matrimonio tra persone di culture differenti non siano in percentuale diversa da altre unioni, se i fondamenti del matrimonio sono il rispetto, l’unicità degli scopi e l’amore reciproco.
L’«hijab» non è l’aspetto più faticoso (attributo della giornalista, non mio) da osservare, ma è difficile per le discriminazioni e derisioni a cui può essere sottoposta una donna, solo per il fatto che applica una legge divina, esteando la sua fede con un velo che per l’occidentale è motivo di scherno.
Spero che con questo scritto venga colto il senso vero della mia intervista…

«L’erba “voglio” non cresce neppure nel giardino del re». Così si replica talora a chi s’impone con: «Da te io voglio…». Che dire, poi, di chi coltiva l’erba «esigo»? È un’erba che non ci piace. Inoltre diciamo: la verità di Mariangela non vale di più di quella di Angela Lano, che conosciamo per serietà e professionalità.
La lettera-fax pubblicata ci è giunta il 27 ottobre 1999. Perché è stata scritta quasi a cinque mesi di distanza dall’articolo contestato? Ci assale un dubbio: che la musulmana abbia scritto su dettatura di un altro musulmano, che non ha gradito «Le altre vie di Allah».
Probabilmente Mariangela replicherà ancora più sdegnata: «Come vi permettete una tale insinuazione?». Ma il dubbio rimane.
E… in dubio libertas.

Mariangela




Un “no” meschino

Signor direttore,
restituisco il volume «Yanomami» che mi ha prestato, ringraziandola sinceramente.
Purtroppo non mi è stato possibile utilizzarlo per l’esame di antropologia culturale, in quanto il docente non accetta testi che non risultino nel programma del corso, benché trattino lo stesso argomento.
È stata una lettura molto interessante e piacevole allo stesso tempo: un testo completo e ricco, con spiegazioni semplici, chiare e straordinarie illustrazioni.

Il tuo «purtroppo», Sonia, è molto eloquente sugli… orticelli provinciali della cultura italiana. Altro che università!

Sonia di Martino




Povere figlie!

Cari missionari,
chiedo una preghiera alla Consolata per le mie figlie.
Una è senza lavoro, si sente depressa, perché ha avuto una delusione amorosa; ha tentato persino il suicidio.
Un’altra figlia è stata otto anni a Torino, infermiera all’ospedale Regina Margherita, e frequentava anche il santuario della Consolata: santuario dove ho pregato anch’io, ammirata dal suo splendore. Poi mia figlia è tornata al paese natale, nel sud. Oggi, purtroppo, si sta separando dal marito carabiniere, anch’egli ritornato nel meridione dopo aver prestato servizio presso la stazione torinese di San Salvario.
Mio genero è un prepotente: è un «militare» anche in casa, persino con i bambini. Mia figlia dice di cercare il bene dei figli e che la separazione rappresenta il male minore…
Vi chiedo una preghiera affinché riescano a capirsi.

Cara signora, con lei e noi prega anche il beato Allamano, che raccomandava a tutti i missionari di avere a cuore i problemi della gente.

lettera firmata