Musulmani diventati cristiani

Caro direttore,
faccio alcuni rilievi su un problema che sento vivissimo e su cui ho letto quanto Angela Lano ha scritto in Missioni Consolata: riguarda la conversione all’islam di alcuni cattolici italiani.
È mio vivo desiderio che la fede cristiana si rafforzi anche di fronte all’islam, che è oggi all’assalto non solo in Africa, dove usa mezzi a volte violenti (Somalia, Sudan), ma anche in Europa.
Pertanto, trattando di conversioni all’islam, è necessario usare accortezza, poiché sappiamo che, mentre la verità oggettiva è in Gesù Cristo, soggettivamente le persone possono essere affascinate da altre proposte.
Mi permetto le seguenti due osservazioni.
a) Gli articoli della Lano dimostrano comprensione verso chi è diventato musulmano. L’insieme della presentazione richiederebbe anche una affermazione chiarificatrice sull’oggettiva grandezza di Gesù Cristo, che i convertiti all’islam non hanno purtroppo conosciuto o conosciuto male: è sintomatico che nessuno di loro parli di Gesù Cristo.
Mi auguro che Missioni Consolata presenti l’«unicità di Cristo», altrimenti si lascia nel lettore l’impressione che i convertiti abbiano fatto bene a diventare musulmani.
Le riviste missionarie non hanno solo il dovere di informare, ma anche di presentare Gesù Cristo Salvatore di tutti, compresi i musulmani. Se già tutte le pubblicazioni cristiane dovrebbero avere questo scopo, tanto più una rivista missionaria.
b) La seconda, più che una osservazione, è una proposta. Anche in Italia (e un po’ in tutta l’Europa) ci sono musulmani che sono diventati cattolici o cristiani di altre chiese. Propongo di parlare anche di loro, così come avete fatto per i cattolici diventati musulmani. Sarebbe opportuno parlare pure di quanti fanno tale apostolato tra i musulmani.

Osservazioni assai pertinenti queste di padre Paolo, nostro prezioso corrispondente dal Kenya. L’«unicità di Cristo» va sempre ricordata. Missioni Consolata, nel citato numero speciale sul giubileo, ha titolato: «Davvero come Lui non c’è nessuno».
Abbiamo anche intenzione di parlare dei musulmani convertiti al cristianesimo. Però c’è uno scoglio: se occorre prudenza nel presentare le conversioni dei cristiani all’islam, se ne richiede di più nel processo inverso. Infatti i convertiti a Cristo dall’islam rischiano ritorsioni dai loro precedenti correligionari.

Paolo Tablino




Segni di speranza – Dopo il vertice di Seattle

D al 30 novembre al 3 dicembre 1999 a Seattle (Usa) ha avuto luogo l’atteso Millennium Round, della Organizzazione mondiale del commercio (Wto). I delegati dei 135 stati membri dovevano trovare un accordo per liberalizzare il commercio, adeguandolo ai processi di globalizzazione.
Tutti sapevano che sarebbe stato arduo ridurre le barriere tariffarie e superare il protezionismo in agricoltura; ma nessuno aveva previsto che la rabbia dei poveri e la rivolta della coscienza morale contro la logica del neoliberismo tecnologico avrebbero contribuito a far fallire l’incontro.
Il primo scontro si è avuto a proposito dello sfruttamento infantile. La «clausola sociale», posta da Clinton (cioè la richiesta di embargo per quei paesi che non eliminano il lavoro minorile), è apparsa sospetta. Come credere alla sincerità dei paesi ricchi, quando affermano di guardare esclusivamente alla difesa dei diritti umani? Chi non sa che, per i ragazzi dei paesi in via di sviluppo, l’alternativa a un misero lavoro non sono lo studio e la formazione, ma la delinquenza o la morte per fame?
Rimane, perciò, il dubbio che i paesi ricchi cercassero un pretesto, sia per mantenere un po’ più elevato il costo del lavoro nei paesi terzi (e neutralizzae la concorrenza), sia per poter continuare a imporre l’embargo contro paesi ostili (come Cuba). Oltre tutto – si è fatto notare – spetta all’Ufficio internazionale del lavoro (e non alla Wto) tutelare le condizioni del lavoro: quindi combattere lo sfruttamento minorile e promuovere forme alternative di apprendistato.
Il secondo scontro tra coscienza morale e logica neoliberista si è verificato in tema di commercio degli alimenti e di sostegno all’agricoltura. I manifestanti, provenienti da ogni parte del mondo e in rappresentanza di svariate organizzazioni ambientaliste, sindacali e del volontariato sociale sono scesi rumorosamente in piazza, per denunciare la mancanza di garanzie effettive di fronte al progressivo estendersi dell’inquinamento ambientale e delle manipolazioni genetiche. Molto forte è stata la contestazione contro i «cibi transgenici» e ogni forma d’intervento tendente a modificare i geni vegetali e animali.

N on sono mancati a Seattle gruppi estremisti, che hanno tentato di far degenerare la protesta in forme inaccettabili di violenza e nel rifiuto assoluto e ideologico della globalizzazione, che è ugualmente da rigettare. Tuttavia le ragioni di chi ha manifestato il proprio dissenso in modo civile e democratico restano meritevoli di considerazione. Lo sviluppo è un problema che riguarda tutti e non possono essere solo i ricchi a decidere; né esso si può ridurre in termini solo di mercato o monetari. I paesi meno favoriti vanno piuttosto aiutati a essere i protagonisti del proprio sviluppo.
Il rifiuto dell’orientamento dell’economia generale in senso puramente neoliberista e la reazione della coscienza morale contro la cultura libertaria soggiacente (quali si sono manifestati a Seattle) vanno salutati come un segno di speranza. Di essi si dovrà tener conto per impostare diversamente il prossimo Round.

Questo testo è pubblicato dalle riviste associate alla Fesmi (Federazione della stampa missionaria italiana), di cui Missioni Consolata è membro.

Riviste associate FESMI




Al suono dello Shofar

Spettabile redazione,
sono abbonato a tre riviste missionarie, che leggo per essere cattolico, cioè universale, e che mi consentono di conoscere la politica mondiale, cosa che non trovo nei nostrani ottusi e scandalosi mass media.
Ultimamente le tre riviste sono uscite con un loro «numero speciale»: una si è soffermata su un anniversario del suo istituto, un’altra ha presentato l’Africa e… Missioni Consolata ha parlato del giubileo. Devo dire che Missioni Consolata mi è piaciuta di più. Ho trovato troppo celebrativo il «numero speciale» sull’istituto, mentre quello sull’Africa è molto confuso e ripetitivo: non nomino le due riviste, perché apprezzo anch’esse.
Il numero di Missioni Consolata sul giubileo, oltre che chiaro nell’impostazione, è anche originale, proprio perché «cattolico»; inoltre attualizza il giubileo della bibbia e quello di Gesù affrontando argomenti scabrosi, che qualche italiano vorrebbe rimuovere (vedi pena di morte, emarginazione dei paesi poveri, ecc). Grazie.

Srgio Macchi




L’erba “esigo” di una musulmana

Spettabile redazione,
ho letto con disappunto l’articolo «Le altre vie di Allah» («Missioni Consolata», giugno 1999). Riferendomi all’intervista posta alla sottoscritta da Angela Lano, esigo una smentita, non riconoscendomi in ciò che mi è stato attribuito.
Ho affermato che le motivazioni della mia conversione all’islam sono state la ricerca della verità, il desiderio di giustizia e soprattutto la necessità razionale dell’unicità di Dio; però non ho dichiarato che, se avessi guardato alle società islamiche (vengono specificati tre paesi che non ho menzionato), non sarei mai diventata musulmana. Ho detto che per un occidentale, che normalmente eguaglia l’islam al comportamento di alcuni paesi arabi, può essere difficile capire una conversione, dal momento che si attribuiscono all’islam soprusi che non hanno nulla di islamico.
Contrariamente a quanto è stato scritto, non avrei alcun problema ad abitare in un paese musulmano (anche se, ovviamente, amo la mia nazione, dati gli affetti che mi legano). Ho visitato alcuni stati islamici di cui mi sono innamorata per la serenità della vita, basata su principi che la nostra società sta eliminando, fondata sulla ricerca del divino, lontana dallo stress del potere occidentale e dall’imposizione dei ritmi alienanti del capitalismo.
La domanda «quante donne possono lavorare nei paesi musulmani?» se l’è posta la giornalista, non io. Ho risposto affermando che la percentuale delle donne lavoratrici nei paesi islamici è inferiore a quella dei paesi occidentali; ma credo che tale realtà sia legata alla scelta delle donne di privilegiare l’aspetto familiare e all’elevata disoccupazione dei paesi in via di sviluppo.
Pongo io una domanda: «Quante donne occidentali vorrebbero licenziarsi per occuparsi dei figli?». La necessità imposta dalla società le costringe a mantenere ritmi lavorativi stressanti e, a volte, poco dignitosi.
È scandaloso che la giornalista si sia permessa di trarre affermazioni sulla mia vita privata, quando l’intervista era indirizzata alla mia conversione. Ritengo che i matrimoni «misti» siano più difficili rispetto a quelli tra persone dello stesso paese, per le possibili incomprensioni culturali generate da una diversa educazione. Ma non mi ritengo una moglie infelice (come mi ha qualificato la giornalista) e la decisione di sposarmi è stata anche motivata dalla certezza di felicità che sarebbe derivata dall’unione con mio marito. Credo che gli scontri in un matrimonio tra persone di culture differenti non siano in percentuale diversa da altre unioni, se i fondamenti del matrimonio sono il rispetto, l’unicità degli scopi e l’amore reciproco.
L’«hijab» non è l’aspetto più faticoso (attributo della giornalista, non mio) da osservare, ma è difficile per le discriminazioni e derisioni a cui può essere sottoposta una donna, solo per il fatto che applica una legge divina, esteando la sua fede con un velo che per l’occidentale è motivo di scherno.
Spero che con questo scritto venga colto il senso vero della mia intervista…

«L’erba “voglio” non cresce neppure nel giardino del re». Così si replica talora a chi s’impone con: «Da te io voglio…». Che dire, poi, di chi coltiva l’erba «esigo»? È un’erba che non ci piace. Inoltre diciamo: la verità di Mariangela non vale di più di quella di Angela Lano, che conosciamo per serietà e professionalità.
La lettera-fax pubblicata ci è giunta il 27 ottobre 1999. Perché è stata scritta quasi a cinque mesi di distanza dall’articolo contestato? Ci assale un dubbio: che la musulmana abbia scritto su dettatura di un altro musulmano, che non ha gradito «Le altre vie di Allah».
Probabilmente Mariangela replicherà ancora più sdegnata: «Come vi permettete una tale insinuazione?». Ma il dubbio rimane.
E… in dubio libertas.

Mariangela




Un “no” meschino

Signor direttore,
restituisco il volume «Yanomami» che mi ha prestato, ringraziandola sinceramente.
Purtroppo non mi è stato possibile utilizzarlo per l’esame di antropologia culturale, in quanto il docente non accetta testi che non risultino nel programma del corso, benché trattino lo stesso argomento.
È stata una lettura molto interessante e piacevole allo stesso tempo: un testo completo e ricco, con spiegazioni semplici, chiare e straordinarie illustrazioni.

Il tuo «purtroppo», Sonia, è molto eloquente sugli… orticelli provinciali della cultura italiana. Altro che università!

Sonia di Martino




Povere figlie!

Cari missionari,
chiedo una preghiera alla Consolata per le mie figlie.
Una è senza lavoro, si sente depressa, perché ha avuto una delusione amorosa; ha tentato persino il suicidio.
Un’altra figlia è stata otto anni a Torino, infermiera all’ospedale Regina Margherita, e frequentava anche il santuario della Consolata: santuario dove ho pregato anch’io, ammirata dal suo splendore. Poi mia figlia è tornata al paese natale, nel sud. Oggi, purtroppo, si sta separando dal marito carabiniere, anch’egli ritornato nel meridione dopo aver prestato servizio presso la stazione torinese di San Salvario.
Mio genero è un prepotente: è un «militare» anche in casa, persino con i bambini. Mia figlia dice di cercare il bene dei figli e che la separazione rappresenta il male minore…
Vi chiedo una preghiera affinché riescano a capirsi.

Cara signora, con lei e noi prega anche il beato Allamano, che raccomandava a tutti i missionari di avere a cuore i problemi della gente.

lettera firmata




Per gli emigrati

O Gesù, che fin dai primi giorni di vita hai dovuto lasciare con la mamma Maria e Giuseppe il paese natio, per sopportare in Egitto le pene e i disagi dei poveri emigranti, guarda i nostri fratelli costretti dal bisogno ad abbandonare la patria. Lontani da tutto ciò che è loro più caro, in cerca di lavoro, essi vivono fra disagi e pericoli per l’anima e il corpo.
Signore, sii loro guida nell’incerto cammino, aiuto nella fatica, conforto nel dolore; conservali nella fede, nella moralità dei costumi, nell’affetto ai figli, alle mogli e ai genitori lontani. Amen.

Preghiera inviataci da Maria Fasano, di Lecce. Una regione dove il problema «emigrati» è drammatico. Però la gente, non ricca, è ospitale. Ma l’ospitalità non basta.

o




Burundi come Rwanda?

Spettabile redazione,
qui cerchiamo di procedere «moltiplicando l’attenzione» o, come si dice da queste parti, «tenendo le orecchie al coperto».
Gli ultimi violenti attacchi a Bujumbura da parte dei guerriglieri, le rappresaglie dell’esercito e la continua instabilità (anche sulla strada che dobbiamo percorrere per raggiungere la capitale)… hanno elettrizzato l’ambiente.
Il grosso pericolo sta nelle milizie tutsi (i famigerati sans échec) che si starebbero riarmando per «difendersi». Sono gruppi pericolosissimi, perché pilotati da estremisti e senza il controllo di alcuna autorità. A Gitega ci sono molti «ex», impazienti di riprendere le armi.
Uno scenario possibile (speriamo di sbagliarci) è un’esplosione di violenza simile a quella del Rwanda nel 1994.
Intanto ad Arusha (Tanzania) i colloqui di pace proseguono senza progressi rilevanti. In questi giorni c’è un nuovo giro di consultazioni. Ma non tutti siedono ad Arusha, e gli assenti aumentano la violenza proprio durante «i colloqui di pace», per far sapere che ci sono e sono forti. Voci di incontri diretti e segreti tra questi gruppi e il presidente Buyoya potrebbero essere vere e portare a soluzioni.
Ma il presidente è in bilico e, se salta, saranno grossi guai.

Burundi, Rwanda… Siamo nella regione africana dei Grandi Laghi, forse la più calda del mondo, dove la pace sembra una chimera.
I timori, espressi dalla lettera pubblicata, sono confermati anche dalla lega Iteka, un importante gruppo burundese che si batte per i diritti umani. «Nonostante tre decenni di violenza ciclica, cinque anni di guerra civile e un anno di parole a Arusha – scrive Iteka – il Burundi è ancora sotto la minaccia di forze antagoniste, settarie e fanatiche». In altri termini, tensioni estreme fra tutsi minoritari e hutu maggioritari.
La comunità internazionale ha fatto sapere che non aiuterà il paese fintanto che gli accordi di pace di Arusha non si concluderanno positivamente. Intanto si vive nel terrore del peggio. E non mancano gli eccidi.

Lettera firmata




Non mollate!

Caro direttore,
sento il bisogno di manifestare il mio plauso alla rivista che dirige: una rivista coraggiosa di solidarietà evangelica e di «tutta» la politica internazionale, specialmente quella che investe i più poveri. A tutta la redazione dico: «Non mollate nonostante le

Luigi Longhi




L’otto per mille e il sud del mondo

Spettabile redazione,
oggi è domenica, ma non ho voglia di andare a messa. Non ho voglia di ascoltare la solita predica, uguale a tutte le altre. La conosco già, non mi serve. Quando uno esce di chiesa, tutto ciò che rimane è la benedizione finale. Un po’ poco. Poco per la parola di Dio che rimane tutt’oggi rivoluzionaria.
Domenica scorsa la parola di Dio si riferiva a violenza ed oppressione, ma il sacerdote non ne ha fatto cenno. Diceva: «Bisogna lasciarsi sedurre da Gesù». Ma che vuol dire? Se, per capire cosa si deve fare per «lasciarsi sedurre da Gesù», uno deve arrangiarsi da solo, allora il prete si legga le letture da solo. O no?
«Violenza ed oppressione» e neanche un pensiero alla guerra, all’Africa martoriata dagli interessi economici dei paesi ricchi e soffocata dal debito estero. «Violenza ed oppressione» e niente sul Fondo monetario internazionale, né sul G-8 o il M.A.I. Nulla sull’aborto né su di noi, chiesa ricca, che ogni giorno abortiamo i figli più poveri e indifesi. Come il ricco epulone nei confronti di Lazzaro, ci accontentiamo che i poveri raccolgano le briciole di questa ricchezza.
L’«otto per mille» ha fruttato alla chiesa modenese 9 miliardi di lire, di cui solo 20 milioni sono andati ai poveri del terzo mondo, ovvero ai missionari diocesani in Brasile.
Mi chiedo: quante chiese, scuole e ospedali i missionari hanno potuto fare con i 20 milioni ricevuti l’anno passato? Non prometteva «opere missionarie» la simpatica pubblicità dei due vecchietti, che fantasticavano di aver fatto chissà quante cose a favore dei poveri con una firma in favore della chiesa cattolica? Fatti contano, solo fatti. «Dai frutti si riconosce l’albero».
Nell’agosto scorso due ragazzi africani sono arrivati morti a Bruxelles, nascosti nel carrello di un aereo. Portavano una lettera di supplica ai potenti d’Europa. Denunciavano la situazione disperata dell’Africa: malattie, guerre, fame e chiedevano aiuto. Chiedevano istruzione, lavoro, salute. Volevano, anche loro, imparare a giocare a calcio e pallacanestro… E hanno dato la loro vita per portare un messaggio che tutti noi conosciamo da sempre. E ignoriamo tutti i giorni.
Fatti contano, solo fatti. Basta raccontare favole! Spendere incenso e parole d’amore col cuore e poi tenere i pugni ben chiusi. Abbiamo il coraggio di dire veramente una parola d’amore: «Un miliardo».
Sì, un miliardo all’anno per il sogno di questi ragazzi. Per qualche campo di calcio in Africa. Per una piscina in Brasile: a San Paolo i ragazzi muoiono nelle riprese di acqua potabile, dove sono andati a fare il bagno abusivamente, perché ogni tanto parte l’aspiratore che distribuisce l’acqua e risucchia anche i ragazzi. Milioni di ragazzi in Brasile (per non parlare dell’Africa) non l’hanno mai vista una piscina. Perché i nostri ragazzi debbono avere tutto e crescono viziati e loro, persone di serie Z, nulla? È vangelo questo?
Le nostre chiese sono belle, è vero; ma le loro belle fondamenta annegano nel sangue di migliaia di persone ignorate, lasciate morire di fame, guerra, ignoranza. E un giorno qualcuno dovrà rendere conto di questi talenti insanguinati e qualcun altro giudicherà meriti e colpe.
Nell’anno giubilare ci sia almeno un segno tangibile di speranza! Che qualcosa nel nuovo millennio possa cambiare! Che quei giovani, anzi, quei piccoli eroi-santi, non siano morti invano!

Il signor Guidotti alla lettera, sottoscritta pure da 43 persone, ha aggiunto il seguente post scriptum: «Non ho l’intenzione di creare polemiche o di gridare allo scandalo, ma di aprire un dialogo critico e propositivo su di noi, chiesa, che ancora ci “accontentiamo”, quando avremmo potuto e potremmo fare molto di più. Di più per questo mondo che trema e sanguina. Di più per questi fratelli che si interrogano disorientati, figli di un Dio minore».
È in questo spirito che pubblichiamo la lettera.

Guido Guidotti