Facciamo apologia di omicidio?

Egregio direttore,
su Missioni Consolata di dicembre è apparso un articolo sulle «donazioni» di organi. L’articolo pecca di grave superficialità, perché non affronta con serietà il problema dell’accertamento della morte del «donatore» e appare redatto sull’onda di un acritico e disinformato entusiasmo. Non si fa neppure menzione dell’alternativa civile e possibile allo scempio dei corpi umani, cioè del ricorso ad organi artificiali (meccanici o coltivati in provetta) o ad organi di animali geneticamente mutati!
La testimonianza dei signori Green merita rispetto, perché sofferta o in buona fede; ma avevano essi il diritto naturale di disporre della vita del loro figlio, di anticipae quasi sicuramente la morte?
L’affermazione del vescovo Karl Lehmann è viziata anch’essa da infantile entusiasmo, causato da un’insana e ben orchestrata propaganda di parte (interessata e come!), e denuncia mancanza di seria informazione.
Che poi i corpi costituiscano un bene comune della società è un’enormità di stampo marxista, inconciliabile con la fede religiosa. Viviamo, purtroppo, in un paese sedicente democratico, che ripudia la pena di morte per i colpevoli e condanna, senza processo, alla pena capitale milioni e milioni di innocenti. Basta pensare agli aborti, alle mostruose manipolazioni genetiche, alla soppressione in massa di embrioni, all’eutanasia strisciante, alla predazione di organi sopprimendo i moribondi!
La prego, signor direttore, di volere aprire un serio dibattito sulla grave questione, perché non si serve la verità ospitando un solo punto di vista, che si traduce in opera di indottrinamento e propaganda di bassa lega.
La ringrazio per la pubblicazione della mia lettera, anche se con qualche mutilazione, specialmente nella parte legale. Ben più grave è aver scritto «così lo sono altri donatori di organi», anziché «così i donatori di organi sono vivi», che violenta il mio testo cambiandone il significato. Refuso o volontà di ridimensionare la denuncia?
Seguo la rivista da una vita: ho sempre apprezzato le vostre iniziative e condiviso le vostre posizioni, anche se, da ultimo, un po’ troppo estremiste… Ma di fronte all’apologia dell’omicidio, sia pure mascherato solidaristicamente, rimango inorridito! Beati i moribondi del terzo mondo che non vivono nell’incubo dell’espianto!

Il trapianto d’organi solleva, certamente, inquietanti problemi morali e giuridici. Non intendiamo addentrarci nella questione. Altri lo fanno con maggiore competenza.
Missioni Consolata ha affrontato la donazione di organi sottolineando il possibile aspetto di solidarietà. Anche La Civiltà Cattolica (18 settembre 1999) si è espressa in questi termini, riportando il pensiero del vescovo Lehmann, nonché di papa Pio XII. Oggi il criterio della «morte cerebrale» è ritenuto valido anche dalla pontificia Accademia delle scienze.
Non crediamo di avere cambiato il significato della lettera di Carlo Barbieri. Se interveniamo sui testi, è per renderli più concisi e comprensibili.
Il «beati i moribondi del terzo mondo» ci suona stranissimo. In Africa si muore certo di vecchiaia, ma anche di fame, razzie, stragi, bombardamenti… come in nessun altro continente. Costoro sono morti beatamente?

Carlo Barbieri




Troppa grazie Stefano!

Caro direttore,
congratulazioni a lei e collaboratori per la magnifica Missioni Consolata. Siete uno splendido messaggio di attenzione e carità verso i nostri fratelli più sfortunati materialmente; però, grazie anche alle vostre informazioni, appaiono ricchi spiritualmente.
Stefano Roder
Musile di Piave (TV)

La lettera precedente ci accusava di apologia di omicidio. Questa invece…

Stefano Roder




Popoli in girotondo

Caro direttore,
la copertina di Missioni Consolata di dicembre è molto bella, diversa dalle altre. Forse esprime un cambiamento di prospettiva per la missione e l’interazione con altre culture.
La comunicazione, come processo al di dentro di una cultura, sembra divenire la logica di produzione della cultura stessa, che diventa qualcosa di programmabile. I canali multimediali producono sia informazione sia apprendimento…
Giuseppe Guardiani
Torre San Patrizio (AP)

La copertina è un disegno di padre Angelo Riboli per un asilo di Nairobi (Kenya). Noi l’abbiamo intitolato «popoli in girotondo». Un sogno in cui crediamo.

Giuseppe Guardiani




Fuori i nomi!

Spettabile redazione,
mi riferisco all’editoriale «Lillipuziani, gettate le reti!» (gennaio 2000). Sui cibi transgenici, la deforestazione, ecc. si sono levate voci cristiane e laiche: tutte denunciano, segnalano pericoli. Ma gli interessi del grande capitale non sono raggiunti da tali parole, e gli attacchi all’Uomo, allo Spirito e alla Natura continuano.
Allora io dico: se avete avuto il coraggio di denunciare la piaga, fate ancora un passo avanti. E cioè:
– chi ha mostrato in tivù i bambini sfruttati, che cuciono i palloni di calcio, indichi anche gli acquirenti italiani: così, sapendo chi sfrutta i bambini, la gente non comprerà più quei palloni e combatterà gli sfruttatori;
– chi ha mostrato lo scempio di alberi in Amazzonia dica chi lo permette, chi acquista il legname prezioso abbattuto: così che si possa contrastare chi sta dietro all’operazione;
– la Cina o altri paesi usano gas dannosi per l’ozono che ci protegge? Si denuncino i loro governi e gli affaristi che trafficano con la Cina.
Tiriamo in ballo anche il governo del nostro paese, se necessario. Questo se ne frega della denuncia? Allora non votiamo più il partito o i partiti che lo sostengono. Gli affaristi continuano a fregarsene? Bene, non comperiamo più i loro prodotti.
Alla gente interessa poco che la Cina non rispetti molto i diritti umani; invece interessa molto che non diminuisca lo spessore dell’ozono. È ora di essere pratici o, meglio, coerenti con gli scopi della vostra sacrosanta campagna; tanto più che, se volete, sapete bene chi toccare.

Esiste un libro con nomi di imprese e persone coinvolte in abuso di potere, sfruttamento di minori, inquinamento dell’ambiente, vendita di armi, frode, corruzione…
Il libro è: Guida al consumo critico (a cura del Centro nuovo modello di sviluppo), Emi, Bologna 1996.

Marco Grandona




Dichiarazione ipocrita?

Spettabile redazione,
dopo aver letto l’articolo «Fede e opere» (Missioni Consolata, gennaio 2000), ho anche voluto conoscere il giudizio dei protestanti.
Ecco: per loro la giustificazione, ricevuta senza meriti umani, è il nocciolo centrale, non un dogma tra altri. Sicché, sul loro versante, hanno ogni ragione per un concetto limpido, espresso chiaramente.
Invece, nella Dichiarazione congiunta dei cattolici e luterani dell’ottobre scorso, fu firmato un consenso che non significa «accordo». Si accusa il testo di ambiguità. Conclusione (loro): persiste inconciliabilità con la posizione cattolica e con un cattolico che continui a chiamarsi tale (cfr. Il consenso cattolico-luterano sulla dottrina della giustificazione, a cura di F. Ferrario e P. Ricca).
Io sono un po’ d’accordo.
Pertanto l’unico piano di unificazione, anche con i luterani, resta la carità. Questa sì al 100%.

«Al di sopra di tutto ci sia la carità – scrive san Paolo -, perché solo la carità ci tiene perfettamente uniti» (Col 3, 14).
Tuttavia la Dichiarazione congiunta ha il suo valore. Altrimenti, firmandola, sia i cattolici sia i luterani sarebbero stati ipocriti.

Mario Rizzonelli




Stupita e indignata

Spettabile redazione,
è con profondo stupore e malcelata indignazione che constato come nella vostra rivista non si sia fatto cenno alcuno alla improvvisa morte di padre Bruno Marcon, avvenuta alla vigilia di natale.
Come molti sanno, ha speso 15 anni fra gli indios del Rio Branco nello sperduto territorio brasiliano di Roraima, in prima linea nella grande tragedia delle popolazioni indigene, decimate, oppresse, defraudate della terra e dei propri diritti.
Tornato in Italia, padre Bruno ha continuato la sua opera a favore degli indios promuovendo iniziative e ideando progetti, tra cui «Una mucca per l’indio» che riuscì a raccogliere grandi consensi e fondi.
Altrettanto nota è stata l’attività editoriale di padre Bruno che, attraverso la pubblicazione di diversi libri, ha continuato la sua instancabile opera di sensibilizzazione e promozione della causa indigena.
Ritengo vergognoso e ingeneroso (non solo verso la sua memoria, ma anche e soprattutto nei confronti delle popolazioni indios) l’assoluto silenzio che la vostra rivista gli ha riservato!

Grazie di aver ricordato padre Bruno Marcon con tanta passione. Forse la foga è un po’ eccessiva per quanto ci concee.
La foto di padre Bruno e alcuni suoi dati biografici sono apparsi su Missioni Consolata di marzo, con altri sette missionari defunti, alcuni giovanissimi.
Tutti meritano un degno ricordo. Lo fa il bollettino da Casa Madre. Se lo facesse anche Missioni Consolata, la rivista diventerebbe un necrologio…
A onore del vero, l’ideatore della campagna «Una mucca per l’indio» non fu padre Bruno, ma padre Giorgio Dal Ben. L’iniziativa poi è stata sostenuta da tutti i missionari della Consolata in Italia.

M. Grazia Ghielmetti




Ci sono pure altri

Caro direttore,
sono un abbonato alla sua rivista e sono anche un volontario che, da oltre 20 anni, dedico le mie ferie in campi di lavoro in Kenya.
Su Missioni Consolata di gennaio c’è un bellissimo articolo sulla casa per ragazzi di strada di Kahawa (Kenya). Essendo al corrente di questa iniziativa e conoscendo alcuni amici che lavorano tutto l’anno per Kahawa facendo pantaloncini, magliette, ecc. e spedendo anche container, ho notato che, nell’articolo, non si fa alcun cenno né a questa attività né ad un missionario (non spetta a me fare nomi). Questi, dopo aver terminato il suo lavoro in un altro luogo, dedica il restante tempo libero (compresa la domenica) alla famiglia dei ragazzi di Kahawa.
Forse il padre, quale servo del Signore, preferisce l’anonimato. Però mi pare giusto un accenno anche a lui, come pure al gruppo che lavora in silenzio per quei bambini.

Giusto. Quando padre Benedetto Bellesi (autore dell’articolo sui ragazzi di strada) visitò Kahawa, l’esperienza era ancora agli inizi e non ha potuto raccogliere tutte le informazioni… Ebbene: il missionario è Angelo Riboli, il gruppo si chiama «Gli amici di Wamba», senza scordare «Insieme si può», Resurrection Garden e altri amici.

Sergio Provasi




Quanto ricevono i poveri?

M i riferisco alla lettera aperta alla chiesa di Modena del signor Guido Guidotti, pubblicata su Missioni Consolata di gennaio 2000.
Nella lettera, intitolata «L’8 per mille e il sud del mondo», ci sono contestazioni gravi, tra cui l’ammontare di 9 miliardi di lire ricavati dall’8 per mille e devoluti alla chiesa di Modena, mentre si stralciano solo 20 milioni per i missionari diocesani in Brasile.
Modena è solo una delle diocesi d’Italia che riceve dai contribuenti dell’8 per mille forse tanti miliardi, da destinare a chi ne ha veramente bisogno e non per potenziare sperperi inutili, quali potrebbero essere manifestazioni che con la povertà nulla hanno a che fare. Al contribuente italiano si chiede un obolo per i bisogni della chiesa. Quanti soldi la chiesa cattolica e le altre chiese ricevono non sono mai riuscito a saperlo, né come vengono impiegati.
Avete fatto bene a pubblicare la lettera del signor Guidotti. Ora si dovrebbe aprire un dibattito critico e propositivo, come scrive il Guidotti. E voi dovreste renderlo noto.

Oggi, domenica, ho celebrato tre messe. Sono un missionario della Consolata che lavora in Portogallo. Ho letto con interesse la lettera del signor Guidotti. È una lettera alla chiesa di Modena, ma è rivolta pure a tutte le chiese d’Italia, a tutti gli italiani… Sono figlio di friulani, nato e cresciuto in Canada, ma sono anche cittadino italiano con tanto di passaporto.
Concordo pienamente con il signor Guidotti e lo ringrazio. Però mi dispiace che non sia andato a messa quella domenica. Chi ha lavorato in missione sa quali sacrifici affrontano i cristiani per partecipare all’eucaristia, che è sempre una festa di ringraziamento al Signore, a prescindere dal prete.
Commento la lettera di Guidotti con la mia esperienza. Ho lavorato cinque anni a Bweyogerere (Uganda) dal 1993 al 1998. Diventato parroco, ho trovato una missione con debiti e tanti problemi. I superiori mi hanno detto: «Arrangiati!».
Si è subito radunato il consiglio parrocchiale, che ha deciso all’unanimità: «Dobbiamo tirarci su le maniche e stringere anche la cinghia». La gente ha dato un sorprendente e generoso contributo per risolvere i suoi guai… Ma non potevamo fare tutto da soli: dovevamo essere spalleggiati da qualche «buon samaritano».
Numerose chiese e nazioni, che si dicono «generose», hanno smesso d’esserlo con noi. Per un pugno di dollari, marchi o franchi ci hanno fatto impazzire con un labirinto di burocrazie. Altro che carità!
Poi, finalmente, è passato il «buon samaritano», che si chiama «Italia». Così la parrocchia di Bweyogerere si è trasformata con lo scavo di pozzi, la costruzione di scuole, il completamento di chiese e l’acquedotto. L’Ufficio per lo sviluppo della diocesi di Kampala ha additato Bweyogerere come un modello per tutte le altre parrocchie.
E ciò grazie a chi? Innanzitutto alla gente di Bweyogerere, che, pur nella povertà, ha fatto sacrifici per lo sviluppo della sua chiesa. Ma si devono ringraziare anche tanti italiani, che sono rimasti nell’anonimato, padre Mario Valli, responsabile dell’Ufficio per la cooperazione missionaria (Torino), la Caritas italiana. Bisogna ringraziare pure il Comitato per gli interventi straordinari in favore del terzo mondo della Conferenza episcopale italiana; il Comitato, grazie all’8 per mille che gli italiani sottoscrivono ogni anno, ha aiutato Bweyogerere quando eravamo agli estremi!
Per cui evviva l’8 per mille, evviva l’Italia! Le altre chiese dovrebbero seguie l’esempio.

La lettera del signor Guidotti è stata sottoscritta anche da 43 persone. Non mira a creare polemiche, ma ad aprire un confronto critico e propositivo. Ed è quanto sta avvenendo.
Secondo l’Ufficio nazionale della Cooperazione missionaria fra le chiese, la chiesa italiana ha destinato al sud del mondo 30 miliardi di lire nel 1991, per giungere a 135 miliardi nel 1998, così impiegati: per progetti socioculturali 133 miliardi, da distribuire 2 miliardi.

Pio Maacchi e p. Marco Bagnarol




Solidarietà e passione critica

Caro direttore, la celebrazione dell’anno giubilare mi spinge ad operare, oltre che per la mia conversione, anche per l’aiuto ai fratelli più poveri e bisognosi.
Conosco da parecchi anni i missionari della Consolata. Sono in relazione con padre Feando Paladini, alla cui missione (in Congo) vorrei che fosse devoluta la presente somma di denaro. È mio desiderio che tale denaro venga impiegato in qualche attrezzatura sanitaria o nella costruzione di un pozzo, strutture che ritengo necessarie per la salute e l’igiene.
Vorrei poter fare di più, ma sono anche malata; anzi, la prego di scusare la mia scrittura: soffro di artrite reumatornide in tutta la persona e ho gravi deformazioni alle mani. Comprendo perciò le sofferenze degli altri e, come gesto di solidarietà, offro il mio modesto contributo.
Nel 1980 sottoscrissi una borsa di studio per un aspirante che poi uscì dal seminario. Pazienza!
Spero che il Signore gradisca l’offerta delle mie sofferenze, del mio dono in suffragio dei miei genitori Antonietta e Floriano e mi conceda la grazia di compiere sempre la sua volontà.
Tina Cartani – Felline (LE)

H o letto con grande interesse «Prima il profitto, poi la salute» di Carlo Urbani (Missioni Consolata, febbraio 2000).
Ancora una volta viene presentato con molta chiarezza il comportamento delle multinazionali: queste, anche nel settore dei farmaci, pretendono di esercitare il loro potere impedendone la produzione a prezzi accessibili a tutti i paesi del Sud, che sarebbero in grado di produrre medicinali più comuni, con immenso vantaggio per le popolazioni locali. La tutela dei brevetti impedisce che questo avvenga e, quando si ricorre alla licenza obbligatoria, sono colti da pesanti ritorsioni commerciali.
Già in Amici dei lebbrosi (agosto 1999) era stata presentata l’influenza negativa delle multinazionali nel settore. Il dottor Zafarullah, direttore di un progetto sostenuto dall’Aifo in Bangladesh, ha raccontato: le multinazionali sono riuscite a bloccare una richiesta al governo di proibire la vendita di medicinali inutili (se non dannosi) e vietati nei paesi industrializzati e di limitare l’importazione di quelli essenziali; all’iniziativa di produrre farmaci essenziali, da vendere a basso prezzo sotto nomi generici, «le multinazionali hanno risposto con una controffensiva, offrendo incentivi economici alle farmacie che rifiutavano i nostri prodotti; hanno inoltre abbassato i prezzi dei loro prodotti, hanno fomentato scioperi tra i nostri dipendenti e hanno ucciso un nostro lavoratore».
Anche questo è un frutto della globalizzazione, che non pare proprio essere attenta ai bisogni essenziali delle popolazioni del Sud del mondo.
Tuttavia Famiglia Cristiana (n. 6, 2000) si dimostra cauta al riguardo. Il settimanale, dopo aver ricordato che nell’Africa sub-sahariana un bambino su sei non supera i cinque anni, afferma: «occorre leggere attentamente dietro le cifre, pur senza arrivare a demonizzare acriticamente la globalizzazione». Si dice pure che la popolazione con una bassa soglia di sviluppo si è ridotta dal 20 al 10 per cento.
Come conciliare questi dati con altri pubblicati in gennaio da Cem/Mondialità? Qui si scrive: «Pur ospitando solo un miliardo e 200 milioni di persone, pari al 23% della popolazione planetaria , il Nord si garantisce l’84% del prodotto lordo mondiale. Viceversa il Sud, che accoglie gli altri 4 miliardi e 100 milioni di persone, partecipa al prodotto lordo con una quota pari al 16%».
Dispiace che certi giornali si mantengano sempre su posizioni ambigue, mentre condivido pienamente ciò che ha scritto Missioni Consolata: «è immorale e scandaloso che il reddito di tre individui nel Nord del mondo sia pari a quello di 600 milioni di persone nel Sud». Cosa ci dicono queste cifre?
Rallegramenti a Piermario Pertusio, di Chieri, che chiede informazioni per partecipare alla mobilitazione contro il negoziato del Wto e grazie a lei, direttore, per le indicazioni sul Centro nuovo modello di sviluppo.
Da tempo utilizzo Missioni Consolata per le lezioni di diritto ed economia nel biennio e sollecito la rivista a continuare la pubblicazione coraggiosa di altre notizie sulle reali conseguenze del sottosviluppo, che i missionari conoscono bene.
sr. Pier Paola – (via «e-mail»)

Abbiamo «incoiciato» queste due lettere, perché esprimono bene gli atteggiamenti di tanti nostri lettori, che non ringrazieremo mai abbastanza.
Nella commovente lettera della signora Tina si rispecchia la solidarietà di chi, pur nella sofferenza, sa guardare a quanti vivono in situazioni più precarie. Suor Pier Paola, poi, offre notevoli spunti di riflessione e merita un plauso per la capacità di insegnare diritto ed economia usando anche Missioni Consolata, confrontandola con altre pubblicazioni.
Ecco cosa vuol dire essere liberi, e «non portare il cervello all’ammasso».

Tina Cartani e sr. Pier Paola




Anche negli USA critiche alla guerra

Egregio direttore,
scrivo per congratularmi con lei e con Paolo Moiola per quanto avete scritto sulla guerra in Serbia-Kosovo. Eccezion fatta per gli anti-imperialisti di professione, le cui opinioni sono in parte predeterminate, pochissimi in Italia hanno avuto il coraggio di riportare con il giusto peso fatti «scomodi» e di dire quel che non era difficile capire. In Europa il panorama non sembra migliore.
Solo in America e Inghilterra si sono levate voci critiche dal mondo politico «rispettabile», sia da destra che da sinistra.
Kissinger, in un articolo del 31/5/1999 su Newsweek, dice che la guerra è stata forzata bloccando le possibili soluzioni pacifiche. L’associazione di studi politico-militari Strategic Studies (della destra repubblicana) accusava il capo della missione Ocse, l’americano Walker, di aver «fabbricato» il massacro di Racak (gennaio 1999). Sulla base di testimonianze di osservatori dell’Ocse, pubblicate anche su Le Figaro e Le Monde, la «fossa comune» sarebbe stata creata mettendo insieme i corpi dei caduti negli scontri tra esercito serbo e Uck. Le foto dei cadaveri di Racak, apparse su tutti i rotocalchi, sono state considerate il «grilletto» della guerra…
Del Kosovo la nostra stampa non parla quasi più: arrivano solo echi della polemica (proveniente dall’America) sul numero delle vittime delle «atrocità serbe». Da centinaia di migliaia si è arrivati a 10 mila, mentre stime attendibili danno un massimo di 2 mila, per lo più comunque uccise dopo l’inizio dei bombardamenti. Non si sa se i rilievi siano più accurati che a Racak.
Intanto, come denuncia il recente rapporto di Amnesty Inteational, la violenza in Kosovo continua e forse peggiora, a danno dei serbi, rom, ma soprattutto degli albanesi moderati. Vittime «indegne», a cui la stampa dedica poco spazio.
Continua anche la sistematica distruzione delle chiese. Ne sono state distrutte un’ottantina, tra di esse anche antiche chiese medievali con i loro preziosi affreschi, incluse nel patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Per confronto, la «violenza serba» ha distrutto solo una moschea.

Il signor Boldrighini ricorda altri interventi critici statunitensi contro la guerra in Serbia-Kosovo. Ad esempio, quelli di Kenney, già responsabile nel Dipartimento di stato per la Jugoslavia ai tempi di Bush, di Binder, ex corrispondente del New York Times dai Balcani, di Chomsky, professore e commentatore politico. Anche il candidato presidenziale Pat Buchanan, già uomo di spicco della destra di Reagan, è stato critico sull’intervento armato nei Balcani.

Carlo Boldrighini