Il vero significato del vangelo

Caro direttore,
da molti anni leggo Missioni Consolata e ho sempre stimato la rivista per la capacità di illustrare l’opera dei missionari attraverso cronache, esperienze, personaggi.
Negli anni più recenti ho potuto apprezzare anche qualcosa di nuovo. In alcuni articoli (direttamente) e in altri (in modo più sfumato) è manifesto quale sia oggi lo spirito di missione. Il lettore comprende che annunciare il vangelo è un’azione davvero complessa. Anche se di enorme importanza, la catechesi e la promozione umana non possono essere considerate sufficienti; devono essere completate da un’azione che faccia comprendere a tutti, in particolare a noi che viviamo nel nord del mondo, il vero significato del vangelo.
Così non ci sentiremo nel giusto solo perché contribuiamo ad alleviare (di quanto?) le sofferenze di un bambino africano, ma cominceremo a riflettere sulle cause e concause dei molti mali nel mondo.
Ci interrogheremo per valutare se il progresso economico nel nord ricco, oltre che alle conquiste economico-scientifiche, non sia in qualche caso connesso al mancato progresso (o addirittura regresso) non solo economico di molte comunità nel resto del mondo.
Ci chiederemo se talora le variazioni positive di certi titoli di Borsa non siano in qualche modo connesse allo sfruttamento più efficiente di altri uomini (talora di bambini), come recenti cronache hanno mostrato.
L’indirizzo di Missioni Consolata ha fatto sì che essa sia, ad un tempo, oggetto di piacevole lettura, corretta informazione e soprattutto un invito a riflessioni profonde, che possono influenzare l’intera impostazione di vita del lettore. L’ho riscontrato anche nell’eccellente numero speciale riguardante il Brasile.
Feando Andolfi
Rivalta (TO)

Certamente il vangelo può «influenzare l’intera impostazione di vita del lettore». Missioni Consolata non presume tanto. Però, se «la goccia scava la roccia»…

Feando Andolfi




Il berlusconismo

Gentile direttore,
in famiglia siamo, da tre generazioni, vicini ai missionari della Consolata e leggiamo con interesse il vostro mensile.
Su Missioni Consolata di settembre è apparso un articolo di Antonio Nanni, che, se come proposta generale è condivisibile, su due punti ci ha sconcertati: la definizione di berlusconismo e la proposta di distruggere per edificare.
Usando la definizione dispregiativa di berlusconismo, si semina odio e, con l’incitamento alla distruzione per edificare, si semina violenza. Certamente non è questo che si vuole.
Ci sembra che parlare di berlusconismo, come se fosse comunismo, nazismo o altri «ismi», sia per lo meno subdolo. Infatti non esiste il berlusconismo, anche perché non ha storia. Inoltre sappiamo che in democrazia non si potrà mai arrivare a provocare i disastri degli «ismi» paventati.
Relativamente all’idea di distruggere per edificare, ci sembra, oltre che utopistica, molto pericolosa; lo ricorda anche la parabola della zizzania. Tanti esempi della storia potrebbero essere menzionati.
Non ci aspettiamo una risposta né pubblica né privata. La nostra obiezione desidera solo contribuire ad una riflessione sul modo di concepire l’impegno cristiano, senza indugi, ma sempre e solo con la cultura dell’amore.
Lettera firmata
Saronno (VA)

Grazie del prezioso stimolo alla riflessione.
Antonio Nanni, autore di tanti libri sull’educazione alla mondialità, sollecita a cogliere le differenze tra la dottrina sociale della chiesa e il «berlusconismo».
Il berlusconismo esiste? Sì se, abbracciando il neoliberismo, la politica diventa un’azienda che persegue ad ogni costo il profitto e il potere; esiste, se «più mercato» (a scapito dello stato) comporta ricchezza per pochi e miseria per tanti. Per non parlare dei disastri ecologici…
«Distruggere per edificare». L’espressione è di sapore biblico (cfr. Qo 3, 3). Per Nanni, che professa la non-violenza, «distruggere» comporta un processo conoscitivo diverso: mette in guardia dall’opinione dominante, dall’esaltazione delle conquiste dell’attuale economia imperante, perché… ci fanno pensare e credere quello che vogliono.
Certamente la democrazia si tutela con la democrazia, cioè il potere «del» e «con» il popolo «per» il popolo. Il moderatismo (da non confondere con moderazione) finisce per fare il gioco del più forte.

Lettera firmata




I vertici della chiesa

Spettabile redazione,
su Missioni Consolata di maggio ho letto lo sconvolgente articolo di Francesco Gesualdi «Le multinazionali all’assalto del mondo». Ne approvo il contenuto; anzi penso che quanto scritto sia solo una minima parte di quanto realmente avviene nel mondo.
Denunciare con l’informazione situazioni di sfruttamento (che sembrano inverosimili) fa molto onore ai responsabili del vostro istituto, anche perché sarebbe molto più facile (e forse anche più redditizio) sottacere le violenze di ogni tipo da parte di evoluti governi, uomini ed istituti vari, che a volte si ritengono difensori di una società in avanzato stato di decomposizione.
La chiesa universale dovrebbe essere dalla parte dell’uomo e non degli interessi singoli. Essendo essa una forza morale, oltre che economica, sarebbe augurabile che si ponesse al fianco dei più deboli, di chi soffre, dei più bisognosi. Ma non è proprio così.
Sembra che nella chiesa universale siano presenti due correnti di pensiero: una che di fatto è dalla parte del potere; l’altra che si schiera decisamente in difesa dei diritti umani. Quest’ultima, a volte, è contestata dai vertici della chiesa.
Pio Moacchi
Savona

Condividiamo le sue riflessioni e ricordiamo: il massimo vertice della chiesa cattolica è Giovanni Paolo II; oggi pochi come lui sono al fianco dei più deboli. Tutti i vescovi, preti e laici dovrebbero fare altrettanto.

Pio Moacchi




Evviva, abbasso!!

Gentile direttore, non sempre leggo Missioni Consolata, la rivista missionaria che ricevo regolarmente. Ma O maior do mundo (numero di ottobre-novembre 2000 interamente dedicato al Brasile) mi ha davvero interessato, poiché riporta notizie e fatti storici e religiosi molto significativi. Evviva il Brasile dunque, nonostante i suoi tanti problemi! È un modo assai valido dedicare un intero numero ad una nazione e affrontare i problemi sotto vari aspetti. Consiglio di continuare anche con altri paesi.
Mi ha interessato molto anche perché, per motivi di emigrazione e lavoro, ho vissuto in Argentina dal 1951 fino al 1953.
Marco Astori – Milano

Pure l’Argentina, secondo gigante dell’America Latina, meriterebbe un numero monografico… incontrando magari i tanti immigrati italiani.

Caro direttore, ho letto lo «speciale» sul Brasile: O maior do mundo: un numero pregevole. Mi conceda che accenni anche al problema demografico e del modo ignobile con cui gli Stati Uniti e le Nazioni Unite lo affrontano.
Per chi (come i missionari della Consolata) ama il Brasile e ne condivide le sofferenze, il problema demografico vuol dire urbanizzazione sfrenata e crescita esponenziale di agglomerati disumani; significa pure tracollo delle popolazioni indigene, bacini fluviali avvelenati, iniqua distribuzione delle terre.
Invece, per la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale, il Fondo per le «attività di popolazione», l’Organizzazione mondiale della sanità e la Casa Bianca, la demografia brasiliana significa: nascita di troppi bambini, ventri femminili troppo prolifici e azione abortista troppo poco diffusa.
Già nel 1974, in un rapporto del National Security Council, noto come Rapporto Kissinger, il Brasile veniva indicato come un paese in cui gli americani dovevano impedire la nascita di altri esseri umani e favorire la riduzione di quelli già nati. Già allora i 100 milioni di brasiliani censiti erano considerati una minaccia agli interessi e alla sicurezza degli Stati Uniti.
Risultato: nel 1991, come riconobbe l’Istituto brasiliano di statistica, almeno il 45% delle brasiliane tra i 14 e 45 anni era già stata sottoposta a sterilizzazione. Ma, se sono vere le denunce fatte dal Movimento per la vita, da Avvenire, da Famiglia Cristiana e dal missionario Fausto Marinetti (si veda il libro «Canto l’uomo», Morcelliana), l’accanimento contro le donne non è finito: lo prova il fatto che in molte aziende gli imprenditori assumono solo donne munite del certificato di avvenuta sterilizzazione e, per essere più sicuri, applicano alla lettera i suggerimenti delle delegazioni dei paesi ricchi alla Conferenza mondiale sulla popolazione tenuta a Bucarest nel 1974, introducendo sostanze sterilizzanti nelle condotte dell’acqua potabile e nel cibo servito sulle mense.
Se tanti brasiliani vivono in condizioni subumane, la colpa non è di una terra insufficiente a soddisfare i bisogni elementari di tutti, ma dei capricci e delle prepotenze di una sparuta minoranza di privilegiati, mai sazi di terra, profitti facili ed odiose speculazioni.
La Banca mondiale – come avete ricordato – avrebbe raggiunto un compromesso con il WWF per la gestione sostenibile delle foreste, amazzoniche e non; ma finora si è segnalata solo per incalcolabili menzogne, tanti crimini contro le popolazioni indigene maggiormente legate agli ecosistemi forestali e fluviali e per il sostegno a sedicenti capolavori di ingegneria idraulica, agraria, mineraria, che hanno trasformato gli habitat naturali in deserti invivibili o, nella migliore delle ipotesi, in piantagioni per colture da esportazione.
Non di rado tali piantagioni vengono irrorate con pesticidi e sostanze tossiche che, come è stato denunciato anche in una puntata della trasmissione televisiva «C’era una volta», giocano un ruolo di primo piano nella sterilizzazione delle donne che ci lavorano, nell’aumento della mortalità prenatale e infantile e nell’aumento delle patologie cancerose tra gli adulti.
Condivido, quindi, la vostra perplessità sull’accordo tra WWF e Banca mondiale: oggi esistono solo i presupposti per temere che si risolverà in una nuova presa in giro per i poveri e per nuove catastrofi ambientali in Amazzonia e in ciò che resta delle foreste tropicali in altre parti del mondo.
Francesco Rondina – Fano (PS)

La lettera del signor Rondina riporta pure una ricca e circonstanziata bibliografia, che documenta e sviluppa le sue affermazioni… Le responsabilità della sterilizzazione delle donne in Brasile non sono solo estee, ma anche intee. Imputata è la locale classe politica al potere.

marco Astori, Francesco Rondina




Per vivere meglio…

Cara redazione,
Missioni Consolata ha ospitato l’articolo «Millennium bluff?» di Alessandro Marescotti, che ripete alla noia un tema caro alle riviste missionarie, e non solo: il tema della ricchezza scandalosa del mondo occidentale, offensiva nei confronti del terzo mondo. C’è un enorme errore alla base della polemica, dovuto ad ignoranza.
Quei tre milioni di miliardi di lire, spesi da alcuni paesi, erano denari di fatturato, andati ad accrescere il prodotto interno lordo. Quindi si tratta di ricchezza e anche di costo (e fatturazione) per quanto la gente ha consumato in telefono, viaggi, medicine, scommesse al lotto, luce elettrica, benzina. Inoltre quei soldi sono serviti per acquistare appartamenti, camicie, sigarette…
Bisogna dire al signor Marescotti (e ad altri benpensanti) che la ricchezza di un paese è la sommatoria di tutti i beni e servizi: vengono prodotti per essere consumati. Sissignori, si produce solo ciò che si consuma. Se si consuma poco, si produce poco: quindi c’è meno ricchezza e più disoccupazione! Non esiste ricchezza (se non transitoria), estranea alla produzione e al consumo!
Si pensi ai paesi non «ricchi», ma neanche poveri: Cile, Libia, Lituania, Ungheria… Chiedete a Marescotti quale aiuto economico viene elargito da questi paesi al terzo mondo rispetto a quanto è inviato da Italia, Germania, Francia, Stati Uniti… Cile, Libia, ecc. (di cui dovremmo seguire l’esempio) consumano di meno, non per scelta, ma per necessità contingente, data la loro economia; però non hanno alcuna risorsa da destinare al terzo mondo per il solo fatto che consumano di meno.
Le doverose elargizioni al terzo mondo, sia dei privati sia degli stati, hanno l’effetto, non traducendosi in consumi interni, di fare lievitare un poco i costi. L’aumento è tanto minore quanto più prospere sono le economie. Questo spiega perché i maggiori contributi, per alleviare la fame nel mondo, vengono dai paesi ricchi.
So che questa lettera non verrà pubblicata, perché si discosta troppo da una certa cultura cattolica. Però, come minimo, fate presente a Marescotti (e amici) queste considerazioni, onde evitare le troppo frequenti e vergognose demonizzazioni del nostro modo di vivere il problema economico.
Talora, invece di ritiri (dedicati ad esortare alla preghiera, al sacrificio, allo spirito di povertà), ritengo più utile qualche riflessione, sapientemente condotta da esperti, sui più elementari concetti inerenti all’economia.

Alessandro Marescotti, presidente di Peacelink, ha scritto che i 3 milioni di miliardi di lire spesi per fronteggiare il temuto «baco del millennio» (1° gennaio 2000) sono stati un bluff: perché i soldi impiegati sono stati spropositati e perché sono finiti ai grandi esperti e alle multinazionali dell’informatica. E ciò in barba ai drammi non solo del sud del mondo, ma anche di casa nostra: si pensi al problema «giovani» nel sud del nostro «stivale».
Se l’unica e giusta economia è quella del consumo (che dilaga in consumismo), come spiegare la forbice tra ricchi e poveri? Il divario cresce sempre più: nel 1820 la distanza tra paesi ricchi e quelli poveri era di 3 a 1, mentre nel 1992 è stata di 72 a 1. L’attuale sistema economico non distribuisce la ricchezza che crea. O distribuisce briciole.
Riteniamo che, alla filosofia del consumo, si debba preferire quella della «sobrietà felice»: per vivere tutti meglio, consumando meglio. Ce lo ricordano pure alcuni docenti universitari, che ci insegnano economia alla «Scuola per l’alternativa».

Eraldo Cerruti




Quella missionaria travolta…

Cari missionari,
durante l’anno giubilare voglio ricordare una vostra consorella, di cui non ho mai saputo il nome.
Nel 1987, in estate, passavo in pullman per Corso Allamano (TO) ed ero ancora sconvolta dalla recente scomparsa di mio padre. Improvvisamente l’autobus si fermò: una suora, ancor giovane, era morta di schianto travolta da un’auto.
Pensai che quella missionaria era stata uccisa da un «attrezzo» il quale, pur con la sua utilità, spesso diventa il simbolo del consumismo: un consumismo a cui la suora aveva detto NO con la scelta di una vita spesa a servizio dei più poveri.
In quella tragica morte per incidente stradale, così consueta nella società industriale avanzata, la missionaria trovò il suggello definitivo della sua consacrazione, il suo martirio, la conclusione della sua operosa testimonianza.
Quell’episodio ha segnato in modo indelebile la mia memoria…
Lettera firmata
Lusea S. Giovanni (TO)

La lettrice (che ha chiesto l’anonimato) si riferisce a suor Ermenegilda Rossi.

lettera firmata




Tanti sconosciuti

Egregio direttore,
ho molto apprezzato Missioni Consolata di luglio-agosto 2000 sulla storia dell’evangelizzazione.
Tanti santi testimoni (vescovi, sacerdoti e laici) sono poco conosciuti. Vi chiedo, pertanto, di fornire titoli di libri sulla loro vita. Per esempio, ho letto con piacere Il mago dell’occidente di Giuliana Berlinguer, Edizioni Giunti. Chissà quanti altri libri avvincenti esistono, di cui non conosco l’esistenza!

Suggeriamo, fra tanti, i seguenti volumi:
– Benedetto Bellesi, Uomini e donne senza frontiere, Emi, Bologna; – Assunta Tagliaferri, Africa: Dio ha bisogno di testimoni e America Latina fecondata dai martiri, Cum, Verona; – Antonio Nanni, I timonieri, Emi, Bologna.
I libri sono acquistabili da «Missioni Consolata»,
Corso Ferrucci 12 bis
10138 Torino
tel 011/44.76.695.
Buona lettura e complimenti per il suo interesse.

Delfina Gouthier




Non condannare

Spettabile redazione,
sono un vecchio abbonato, che conosce e stima molti missionari della Consolata per il loro lavoro silenzioso a favore dei poveri nel mondo.
Su Missioni Consolata di maggio ho letto con interesse il dossier di Paolo Moiola sul Perù, ma non nascondo la mia perplessità alla lettura del profilo di monsignor Cipriani.
L’autore del dossier, per mettere in risalto il suo dissenso con il pensiero dell’arcivescovo di Lima, sottolinea la sua appartenenza all’Opus Dei come un peccato originale, una colpa grave per un sacerdote cattolico.
La rivista missionaria della famiglia esiga dai redattori il rispetto del cristiano «non giudicare».

«Giudicare» è antievangelico quando si tramuta in «condannare»… Nel dossier citato non si presenta solo l’arcivescovo Cipriani, ma anche monsignor Bambaren, presidente della Conferenza episcopale peruviana: due prelati della chiesa cattolica con idee differenti, che si «giudicano» a vicenda. «Non giudicare» non esclude la diversità di opinioni.

Ferruccio Gandolini




Il cuore in Kenya

Caro direttore,
il tuo intervento a Radio Maria è stato meraviglioso. Grazie per averci regalato un’«ora missionaria». Io avrei voluto dire tante cose; ma, pensando ai nostri amici in difficoltà, un nodo alla gola me lo ha impedito.
Sono appena ritornato dal Kenya e, con me, ho portato l’angoscia di tanta gente affamata a causa della siccità. In 15 giorni ho visitato alcune missioni per offrire ai padri la mia amicizia e quel poco che, con l’aiuto di benefattori, ho portato. Quante richieste! Specialmente per il cibo e qualche pompa per irrigare. Anche da fratel Argese l’acqua scarseggia, ma lui con il suo grande ingegno la va a cercare ovunque.

Nino è un caro amico. Forse i lettori ne conoscono la passione missionaria insieme alla moglie Mariangela e al figlio Giorgio, morto giovanissimo. Missioni Consolata, giugno 1986, ne aveva parlato… Il cuore di Nino batte soprattutto per il Kenya, dove vivono alcuni suoi figli adottivi. Un Kenya, dove due milioni di persone rischiano la fine, data la siccità. E la fame alimenta pure il brigantaggio.
«Noi – scrive dal Kenya padre Attilio Ravasi – tiriamo avanti come possiamo. Ora in città si razionano acqua e luce. L’economia, già in difficoltà, sta subendo un colpo mortale. Gioi fa ho rischiato grosso. Accompagnavo in auto Piera, una laica missionaria da tanti anni in Kenya, all’ospedale di Sololo, e siamo stati braccati per strada da alcuni banditi: hanno sparato, obbligandoci a fermare; ci hanno fatto sdraiare per terra e spogliato di tutto. Io avevo poco, ma Piera ci ha rimesso parecchi soldi e il computer portatile, appena giunto dall’Italia. Però ci hanno lasciato la cosa più bella e importante: la vita. Ma anche tanta tanta paura…».

Nino Maurel




Questione di democrazia, non di…

Caro direttore, un breve commento sull’articolo di Missioni Consolata, settembre 2000, circa la guerra Eritrea-Etiopia. L’autore, padre Benedetto Bellesi, scrive: «Addis Abeba continua a sognare la “grande Etiopia”, con l’Eritrea legata in qualche modo al proprio destino e uno sbocco al mare».
Occupando Baduma nel maggio del 1998, l’Eritrea pensava di avere un problema con il solo Tigrai, ed è logico che ritenesse di risolvere questo problema con una vittoria. Se il Tigrai fosse rimasto isolato nell’incidente di Baduma, forse l’Eritrea avrebbe allungato le mani anche sull’intero Tigrai, realizzando così il sogno della «grande Eritrea». Con l’introduzione della moneta nakfa, l’Eritrea si era trovata privata dell’unica sua fonte di reddito, derivante dai proventi dei porti, e il Tigrai poteva costituire una soluzione ai suoi problemi economici.
Ma gli etiopici si sono preoccupati di un’altra cosa: se il Tigrai fosse rimasto isolato nella disputa con l’Eritrea, l’Etiopia stessa si sarebbe disciolta, i suoi stati avrebbero cominciato a litigare per questioni confinarie e di transito, mentre si sarebbero trovati in balìa dell’Eritrea per le importazioni. Con o senza il Tigrai, l’Eritrea si sarebbe imposta come stato egemone della regione.
Non ritengo che Addis Abeba sogni la «grande Etiopia» con l’inclusione dell’Eritrea. Penso il contrario, e cioè che non voglia più gli eritrei entro i propri confini. Nella disputa con l’Eritrea, l’Etiopia è rimasta unita e ha dimostrato di essere già una Grande Etiopia. Né ritengo abbia aspirazioni sui porti, che avrebbe potuto facilmente occupare nel giugno scorso. È un grande popolo di 60 milioni di abitanti, non ricchi, che ha bisogno di sopravvivere, e non può permettere di essere strozzato da un piccolo popolo che possiede i porti.

Grazie delle osservazioni. In ogni caso, riteniamo che nessuno straniero sia in grado di sapere quali siano state le vere ragioni che hanno spinto i due paesi africani al conflitto armato. Soprattutto, nessuno è innocente in questa pazza guerra, tuttora in corso, nonostante il «cessate il fuoco» firmato ad Algeri nel giugno scorso.
Più che una «grande Etiopia» o una «grande Eritrea», si esigono una «nuova» Etiopia ed Eritrea, imboccando la strada della democrazia e non delle armi.
E la «semi-indifferenza» della comunità internazionale (specialmente delle nazioni che contano) non aiuta i due paesi.

Alberto Vascon