Per vivere meglio…

Cara redazione,
Missioni Consolata ha ospitato l’articolo «Millennium bluff?» di Alessandro Marescotti, che ripete alla noia un tema caro alle riviste missionarie, e non solo: il tema della ricchezza scandalosa del mondo occidentale, offensiva nei confronti del terzo mondo. C’è un enorme errore alla base della polemica, dovuto ad ignoranza.
Quei tre milioni di miliardi di lire, spesi da alcuni paesi, erano denari di fatturato, andati ad accrescere il prodotto interno lordo. Quindi si tratta di ricchezza e anche di costo (e fatturazione) per quanto la gente ha consumato in telefono, viaggi, medicine, scommesse al lotto, luce elettrica, benzina. Inoltre quei soldi sono serviti per acquistare appartamenti, camicie, sigarette…
Bisogna dire al signor Marescotti (e ad altri benpensanti) che la ricchezza di un paese è la sommatoria di tutti i beni e servizi: vengono prodotti per essere consumati. Sissignori, si produce solo ciò che si consuma. Se si consuma poco, si produce poco: quindi c’è meno ricchezza e più disoccupazione! Non esiste ricchezza (se non transitoria), estranea alla produzione e al consumo!
Si pensi ai paesi non «ricchi», ma neanche poveri: Cile, Libia, Lituania, Ungheria… Chiedete a Marescotti quale aiuto economico viene elargito da questi paesi al terzo mondo rispetto a quanto è inviato da Italia, Germania, Francia, Stati Uniti… Cile, Libia, ecc. (di cui dovremmo seguire l’esempio) consumano di meno, non per scelta, ma per necessità contingente, data la loro economia; però non hanno alcuna risorsa da destinare al terzo mondo per il solo fatto che consumano di meno.
Le doverose elargizioni al terzo mondo, sia dei privati sia degli stati, hanno l’effetto, non traducendosi in consumi interni, di fare lievitare un poco i costi. L’aumento è tanto minore quanto più prospere sono le economie. Questo spiega perché i maggiori contributi, per alleviare la fame nel mondo, vengono dai paesi ricchi.
So che questa lettera non verrà pubblicata, perché si discosta troppo da una certa cultura cattolica. Però, come minimo, fate presente a Marescotti (e amici) queste considerazioni, onde evitare le troppo frequenti e vergognose demonizzazioni del nostro modo di vivere il problema economico.
Talora, invece di ritiri (dedicati ad esortare alla preghiera, al sacrificio, allo spirito di povertà), ritengo più utile qualche riflessione, sapientemente condotta da esperti, sui più elementari concetti inerenti all’economia.

Alessandro Marescotti, presidente di Peacelink, ha scritto che i 3 milioni di miliardi di lire spesi per fronteggiare il temuto «baco del millennio» (1° gennaio 2000) sono stati un bluff: perché i soldi impiegati sono stati spropositati e perché sono finiti ai grandi esperti e alle multinazionali dell’informatica. E ciò in barba ai drammi non solo del sud del mondo, ma anche di casa nostra: si pensi al problema «giovani» nel sud del nostro «stivale».
Se l’unica e giusta economia è quella del consumo (che dilaga in consumismo), come spiegare la forbice tra ricchi e poveri? Il divario cresce sempre più: nel 1820 la distanza tra paesi ricchi e quelli poveri era di 3 a 1, mentre nel 1992 è stata di 72 a 1. L’attuale sistema economico non distribuisce la ricchezza che crea. O distribuisce briciole.
Riteniamo che, alla filosofia del consumo, si debba preferire quella della «sobrietà felice»: per vivere tutti meglio, consumando meglio. Ce lo ricordano pure alcuni docenti universitari, che ci insegnano economia alla «Scuola per l’alternativa».

Eraldo Cerruti




Quella missionaria travolta…

Cari missionari,
durante l’anno giubilare voglio ricordare una vostra consorella, di cui non ho mai saputo il nome.
Nel 1987, in estate, passavo in pullman per Corso Allamano (TO) ed ero ancora sconvolta dalla recente scomparsa di mio padre. Improvvisamente l’autobus si fermò: una suora, ancor giovane, era morta di schianto travolta da un’auto.
Pensai che quella missionaria era stata uccisa da un «attrezzo» il quale, pur con la sua utilità, spesso diventa il simbolo del consumismo: un consumismo a cui la suora aveva detto NO con la scelta di una vita spesa a servizio dei più poveri.
In quella tragica morte per incidente stradale, così consueta nella società industriale avanzata, la missionaria trovò il suggello definitivo della sua consacrazione, il suo martirio, la conclusione della sua operosa testimonianza.
Quell’episodio ha segnato in modo indelebile la mia memoria…
Lettera firmata
Lusea S. Giovanni (TO)

La lettrice (che ha chiesto l’anonimato) si riferisce a suor Ermenegilda Rossi.

lettera firmata




Tanti sconosciuti

Egregio direttore,
ho molto apprezzato Missioni Consolata di luglio-agosto 2000 sulla storia dell’evangelizzazione.
Tanti santi testimoni (vescovi, sacerdoti e laici) sono poco conosciuti. Vi chiedo, pertanto, di fornire titoli di libri sulla loro vita. Per esempio, ho letto con piacere Il mago dell’occidente di Giuliana Berlinguer, Edizioni Giunti. Chissà quanti altri libri avvincenti esistono, di cui non conosco l’esistenza!

Suggeriamo, fra tanti, i seguenti volumi:
– Benedetto Bellesi, Uomini e donne senza frontiere, Emi, Bologna; – Assunta Tagliaferri, Africa: Dio ha bisogno di testimoni e America Latina fecondata dai martiri, Cum, Verona; – Antonio Nanni, I timonieri, Emi, Bologna.
I libri sono acquistabili da «Missioni Consolata»,
Corso Ferrucci 12 bis
10138 Torino
tel 011/44.76.695.
Buona lettura e complimenti per il suo interesse.

Delfina Gouthier




Non condannare

Spettabile redazione,
sono un vecchio abbonato, che conosce e stima molti missionari della Consolata per il loro lavoro silenzioso a favore dei poveri nel mondo.
Su Missioni Consolata di maggio ho letto con interesse il dossier di Paolo Moiola sul Perù, ma non nascondo la mia perplessità alla lettura del profilo di monsignor Cipriani.
L’autore del dossier, per mettere in risalto il suo dissenso con il pensiero dell’arcivescovo di Lima, sottolinea la sua appartenenza all’Opus Dei come un peccato originale, una colpa grave per un sacerdote cattolico.
La rivista missionaria della famiglia esiga dai redattori il rispetto del cristiano «non giudicare».

«Giudicare» è antievangelico quando si tramuta in «condannare»… Nel dossier citato non si presenta solo l’arcivescovo Cipriani, ma anche monsignor Bambaren, presidente della Conferenza episcopale peruviana: due prelati della chiesa cattolica con idee differenti, che si «giudicano» a vicenda. «Non giudicare» non esclude la diversità di opinioni.

Ferruccio Gandolini




Il cuore in Kenya

Caro direttore,
il tuo intervento a Radio Maria è stato meraviglioso. Grazie per averci regalato un’«ora missionaria». Io avrei voluto dire tante cose; ma, pensando ai nostri amici in difficoltà, un nodo alla gola me lo ha impedito.
Sono appena ritornato dal Kenya e, con me, ho portato l’angoscia di tanta gente affamata a causa della siccità. In 15 giorni ho visitato alcune missioni per offrire ai padri la mia amicizia e quel poco che, con l’aiuto di benefattori, ho portato. Quante richieste! Specialmente per il cibo e qualche pompa per irrigare. Anche da fratel Argese l’acqua scarseggia, ma lui con il suo grande ingegno la va a cercare ovunque.

Nino è un caro amico. Forse i lettori ne conoscono la passione missionaria insieme alla moglie Mariangela e al figlio Giorgio, morto giovanissimo. Missioni Consolata, giugno 1986, ne aveva parlato… Il cuore di Nino batte soprattutto per il Kenya, dove vivono alcuni suoi figli adottivi. Un Kenya, dove due milioni di persone rischiano la fine, data la siccità. E la fame alimenta pure il brigantaggio.
«Noi – scrive dal Kenya padre Attilio Ravasi – tiriamo avanti come possiamo. Ora in città si razionano acqua e luce. L’economia, già in difficoltà, sta subendo un colpo mortale. Gioi fa ho rischiato grosso. Accompagnavo in auto Piera, una laica missionaria da tanti anni in Kenya, all’ospedale di Sololo, e siamo stati braccati per strada da alcuni banditi: hanno sparato, obbligandoci a fermare; ci hanno fatto sdraiare per terra e spogliato di tutto. Io avevo poco, ma Piera ci ha rimesso parecchi soldi e il computer portatile, appena giunto dall’Italia. Però ci hanno lasciato la cosa più bella e importante: la vita. Ma anche tanta tanta paura…».

Nino Maurel




Questione di democrazia, non di…

Caro direttore, un breve commento sull’articolo di Missioni Consolata, settembre 2000, circa la guerra Eritrea-Etiopia. L’autore, padre Benedetto Bellesi, scrive: «Addis Abeba continua a sognare la “grande Etiopia”, con l’Eritrea legata in qualche modo al proprio destino e uno sbocco al mare».
Occupando Baduma nel maggio del 1998, l’Eritrea pensava di avere un problema con il solo Tigrai, ed è logico che ritenesse di risolvere questo problema con una vittoria. Se il Tigrai fosse rimasto isolato nell’incidente di Baduma, forse l’Eritrea avrebbe allungato le mani anche sull’intero Tigrai, realizzando così il sogno della «grande Eritrea». Con l’introduzione della moneta nakfa, l’Eritrea si era trovata privata dell’unica sua fonte di reddito, derivante dai proventi dei porti, e il Tigrai poteva costituire una soluzione ai suoi problemi economici.
Ma gli etiopici si sono preoccupati di un’altra cosa: se il Tigrai fosse rimasto isolato nella disputa con l’Eritrea, l’Etiopia stessa si sarebbe disciolta, i suoi stati avrebbero cominciato a litigare per questioni confinarie e di transito, mentre si sarebbero trovati in balìa dell’Eritrea per le importazioni. Con o senza il Tigrai, l’Eritrea si sarebbe imposta come stato egemone della regione.
Non ritengo che Addis Abeba sogni la «grande Etiopia» con l’inclusione dell’Eritrea. Penso il contrario, e cioè che non voglia più gli eritrei entro i propri confini. Nella disputa con l’Eritrea, l’Etiopia è rimasta unita e ha dimostrato di essere già una Grande Etiopia. Né ritengo abbia aspirazioni sui porti, che avrebbe potuto facilmente occupare nel giugno scorso. È un grande popolo di 60 milioni di abitanti, non ricchi, che ha bisogno di sopravvivere, e non può permettere di essere strozzato da un piccolo popolo che possiede i porti.

Grazie delle osservazioni. In ogni caso, riteniamo che nessuno straniero sia in grado di sapere quali siano state le vere ragioni che hanno spinto i due paesi africani al conflitto armato. Soprattutto, nessuno è innocente in questa pazza guerra, tuttora in corso, nonostante il «cessate il fuoco» firmato ad Algeri nel giugno scorso.
Più che una «grande Etiopia» o una «grande Eritrea», si esigono una «nuova» Etiopia ed Eritrea, imboccando la strada della democrazia e non delle armi.
E la «semi-indifferenza» della comunità internazionale (specialmente delle nazioni che contano) non aiuta i due paesi.

Alberto Vascon




Utopia e realtà

Spettabile redazione,
ho letto con molto interesse la riflessione di padre Giacinto Franzoi sul problema della cioccolata e dei suoi risvolti sui paesi poveri, in modo particolare in Colombia dove il missionario lavora.
Sicuramente, qui da noi, i consumatori più consapevoli devono fare promozione, meglio se organizzati, evidenziando le diseguaglianze e cercando di costringere a miti consigli le multinazionali che spadroneggiano.
Ma anche in loco (e mi riferisco particolarmente al dramma africano nella fascia equatoriale, per mancanza d’acqua e presenza di guerre) occorre creare una rete di «auto- aiuto», puntando su cultura e informazione tramite radio locali, più facilmente gestibili, e operando con cornoperative.
Queste possono nascere anche in Italia e poi trasferirsi dove necessario: ad esempio, per realizzare pompe solari che potrebbero essere volano di progetti più complessi.
Forse la mia è solo utopia; ma occorre aiutare la popolazione africana a camminare con le sue gambe, perché l’aiuto del nord, salvo eccezioni (leggi «missionari»), è troppo interessato a mantenere le diseguaglianze anziché colmarle.
Giorgio Tagliavini
Milano

«Utopia» significa «non luogo»: cioè una realtà o un ideale che non esiste, perché non ha trovato spazio o accoglienza. Ma potrebbe trovarli e, quindi, esistere. Il compito del missionario e delle persone di buona volontà (come Giorgio) è anche questo: passare dall’«utopia» all’«esistenza».
Un passaggio realizzabile, nonostante le difficoltà, anche in Africa. Specialmente se si opera «organizzati» o «in rete», come raccomandiamo da qualche tempo.

Giorgio Tagliavini




Finalmente una “shara”

Cari missionari,
ho trovato molto interessante, su Missioni Consolata di giugno, la lettera della signora Shara Bocchetta di Melfi (PZ). L’interesse deriva dal fatto che ho riscontrato delle eloquenti somiglianze tra l’esistenza della signora e la mia.
Shara scrive: «Nel 1942-43 mio fratello partì a 17 anni per la guerra». Anche mio fratello maggiore nel 1944, a 18 anni, partì per la guerra; però combatté sul fronte opposto…
Poi scrive: «Finita la guerra, cadde in un esaurimento nervoso. Venne ricoverato nella casa di cura di Collegno (TO)». Dopo la guerra, anch’io ebbi un esaurimento nervoso, ma fui ricoverata in un centro di Londra. Però oggi abito a Collegno, non lontano dalla ricordata casa di cura.
Leggo ancora: «La madre partì per Collegno… si fermò in una bellissima cappella, chiese conforto alla Madonna… Quella Madonna era la Consolata». Ebbene, anche la mia parrocchia è dedicata alla Consolata. Oltre alla modea chiesa, c’è una bella cappella, dedicata a sant’Elisabetta, che fu la prima sede parrocchiale. Questa chiesetta fa parte del «villaggio Leumann» e fu costruita dall’imprenditore svizzero Napoleone Leumann. Ogni domenica vi partecipo alla messa: mi attira molto perché Leumann era un cristiano protestante, come me.
Però l’importante non è l’essere tutti sulla stessa strada, cristiani e credenti in altre religioni; l’importante è che le strade, anche partendo da punti diversi, siano «buone», che portino alla stessa meta, cioè a nostro Signore Gesù: qui sulla terra o nell’eternità. Ma forse il fatto ancora più importante non è la «strada buona» (ogni via può essere tale), quanto il verificare se stiamo andando «avanti» o «indietro» su quella strada.
Un’altra cosa strana è che la mia prima nipotina fu chiamata Shara, un nome assai raro per la sua ortografia (in inglese è Sarah e in italiano Sara). Dopo sette anni di ricerca, ho finalmente trovato nella signora Bocchetta un’altra «Shara». Mi auguro che possa leggere questa lettera, con i miei saluti.
Divisi e su fronti opposti in guerra e in chiesa, troviamo però l’unità in Colui che sa e può tutto, tramite una bimba di sette anni.
Sheila Warren
Leumann (TO)

La signora Sheila è una cara amica. Alcuni missionari della Consolata le devono riconoscenza, quale loro insegnante d’inglese.

Sheila Warren




“Sandali al vento”

Carissimo padre Benedetto Bellesi, con gioia ti dico il mio «contento» per Missioni Consolata di luglio-agosto. Hai magnificamente descritto i 2 mila anni di «avventura missionaria», avviata dal Signore Gesù e giunta al nostro oggi.
Il testo che hai steso, dal titolo spigliato
Sandali al vento,
sottende una fatica greve per precisare tempi, situazioni e persone, con calore ma senza enfasi, e con una gran voglia di affascinare il lettore e indurlo a riflessioni adeguate. Nel districarti fra numerosi eventi, spesso drammatici, non ti stanchi mai di evidenziare la fiducia nella missione e nel regno di Dio.
Il domani che apre al 3000 è appena iniziato, con scambio di doni tra le chiese in occidente e quelle nel sud del mondo. Sarà un domani splendido, tutto da vivere. Sia davvero la primavera profetica di cui ha parlato il pontefice venuto da lontano!
Padre Benedetto, da anziano-giovane non mi resta che dirti «grazie» e pregare per te e per tutta Missioni Consolata.
p. Giuseppe Mina
Alpignano (TO)
Padre Giuseppe sta per vivere la «primavera» dei 90 anni. La sua lettera ci è giunta via e-mail, grazie all’apporto di padre Giuseppe Villa, un altro «anziano giovane» della comunità missionaria di Alpignano.

Leggo sovente Missioni Consolata, esprimendo talora anche delle critiche. Ma mi è doveroso dire che ho trovato assolutamente perfetto il numero di luglio-agosto. Più che un numero di rivista, è un libro avvincente, che ci parla dell’entusiasmante storia missionaria della chiesa nel corso di 20 secoli.
dott. Renzo Mattei
Genova

Giuseppe Mina e Renzo Mattei




Un’allibita e una “rompiscatole”

Sono rimasta allibita da «I terroristi di S. Tommaso» (Missioni Consolata, giugno 2000). L’articolista non si rende conto che le frasi «chi intraprende la lotta armata non si percepisce come terrorista», «la scelta della violenza rappresenta un mezzo obbligato per raggiungere un fine superiore»… si applicano a tutti i terrorismi? Ed è semplice constatare che furono le «idee» che animarono, in Italia, le Brigate rosse.
Il resto dell’articolo, anche se nota che «un uomo non ha diritto di scegliere quale sia il bene degli altri», è tutto sbilanciato sull’«ideale» dei terroristi e sul loro avvicinarsi a concezioni messianico-cristiane (per cui si ha la verità in tasca e si può imporla agli altri). Non una parola sui dolori, sulle tragedie e sui morti che il terrorismo in Perú (e non solo) ha provocato. Questa è una tendenza fanatica, a cui portano certe commistioni tra politica e religione.
Luciana Gallino – Torino

Gentili amici, sono la solita rompiscatole, che vuole, precisare e mettere i puntini sulle «i». Capisco di essere molesta. Ma, leggendo l’articolo «I terroristi di S. Tommaso», ho sentito l’impulso a scrivervi.
Dice l’articolista che in Colombia un movimento rivoluzionario è stato fondato da un sacerdote, Camillo Torres, che ha avuto tra le sue file diversi religiosi con incarichi di responsabilità… In Perù molti cattolici sono vicini alla teologia della liberazione: il tutto come se fosse la cosa più normale ed ortodossa.
Una volta per tutte, per non confondere le idee dei lettori, vogliamo dire con chiarezza che la teologia della liberazione applica alla realtà l’«analisi marxista», fa di Cristo un «liberatore» alla Che Guevara ed è stata sconfessata dalla chiesa? Vogliamo dire chiaramente che Gesù Cristo non era un rivoluzionario che tendeva a sovvertire ordinamenti sociali ingiusti, ma veniva a liberarci dal peccato, dalla morte e a rivelarci il Padre?
Vogliamo dire (una volta per sempre) che la lotta violenta, l’uccisione dei nemici non è cristiana? Che cambiare struttura e vertici non porta a nulla di meglio dell’esistente, come ha dimostrato l’esperienza nei paesi comunisti?
Siamo capaci di dire a chiare lettere che il cambiamento avverrà quando ogni uomo prenderà coscienza della sua dignità di figlio di Dio e, in solidarietà con altri, lotterà pacificamente per la propria libertà? Che nel lungo e difficile cammino di liberazione non sono ammesse «scorciatornie violente»?
Io non chiedo che gli articoli in sintonia con la teologia della liberazione non siano pubblicati, ma è obbligatoria una parola di chiarificazione e commento.
Con tutto ciò aderisco allo spirito della «campagna» di solidarietà verso i carcerati del Perù (Missioni Consolata, giugno 2000). Ho già l’indirizzo di una «terrorista», con cui desidero iniziare uno scambio epistolare, nel pieno rispetto delle sue convinzioni.
Giulia Guerci – Castellazzo B.da (AL)

Dunque mettiamoli i puntini sulle «i».
L’analisi marxista (non il marxismo) è un metodo di studio: se, di fronte ai mali sociali, provoca un impegno per la giustizia e l’uguaglianza, tale analisi è positiva, soprattutto se avviene dove la differenza tra ricchi e poveri è abissale.
n La vera teologia della liberazione non presenta un Gesù rivoluzionario alla Che Guevara, bensì i volti di Gesù malato, nudo, assetato, forestiero, incarcerato… che attende la «liberazione» (cfr. Mt 25, 35-36). E, di fronte a moltitudini che muoiono di fame, non è fuori luogo rispondere alla domanda: «Queste sono state affamate da chi?».
n Al cospetto di tanti «poveri cristi», resi schiavi dai «faraoni» del comunismo o del capitalismo, dalle multinazionali, dalla new economy, dai servizi segreti, dall’usura…, Dio dichiara sempre a qualche Mosé: «Ho visto l’oppressione del mio popolo. Ora va’ e libera il popolo mio» (cfr. Es 3, 7-10). Ecco la teologia della liberazione.
n Gesù non esita a definire «volpone» lo spregiudicato e potente Erode (cfr. Lc 13, 31).
n Il peccato non è solo un male personale. Esistono anche «strutture di peccato». In alcuni imperialismi modei si nascondono forme di idolatria: del denaro, del potere, della pubblicità, della tecnologia. «Si tratta di un male morale, frutto di molti peccati, che portano a strutture di peccato – scrive Giovanni Paolo II -. Diagnosticare così il male significa identificare esattamente il cammino da seguire per superarlo (Sollicitudo rei socialis, 37).
n Sul no alla violenza, pienamente d’accordo.

Luciana Gallino e Giulia Guerci