La verità è verità

Spettabile redazione,
ho letto il «numero straordinario» sui 100 anni dei missionari della Consolata. Nel 1936 la rivista Missioni Consolata esaltò il trionfo dell’Italia in Etiopia. Ma oggi voi parlate di «aggressione da parte dell’Italia fascista». Non voglio più ricevere la rivista.
Claudio Simonetti
Cumiana (TO)

Signor Simonetti, il suo rifiuto della verità storica ci lascia perplessi.

Claudio Simonetti




Lettere: cari missionari


Che significa «gonzo»?


Spettabile redazione,

vi
ringrazio di aver pubblicato la mia lettera (Missioni Consolata, marzo
2001). Mi dispiace solo che, con i tagli (anche se condivisibili), il tono
generale della lettera (che era aspro ma fraterno) sia apparso ostile.
Però le parole forti usate (ho dato del «gonzo» a chi odia Berlusconi) non
mi suonano come insulti, ma il linguaggio colorito di due persone che
parlano animosamente, ma vogliono senz’altro intendersi.

In un
contesto più formale confermo l’aggettivo: sono fortemente convinto che
sia gonzo chi, qui e oggi, nel panorama politico italiano e con la storia
recente che abbiamo (i grandi ideali periti miseramente; il grande partito
moderato che, all’ombra del cattolicesimo militante, ha fatto il bello e
cattivo tempo; la parabola craxista…), si senta di amare a rotta di
collo chicchessia e di odiare il suo antagonista.

Mi fa
ridere (cioè pena) chi oggi amasse acriticamente Berlusconi o Fini e
odiasse Veltroni o Rutelli. Criticare, parodiare, avversare,
simpatizzare… senz’altro. Ma odiare è da gonzi (è assai pericoloso,
specie considerando il pulpito da cui si parla).

Non ho
capito, nel vostro commento, il «distinguo» tra gli applausi al papa e
quelli a Berlusconi nel Meeting di Rimini. È naturale che «una cosa è la
dottrina sociale del papa, un’altra quella del cavaliere» (ci manca solo
che al Berlusca gli si faccia fare anche il papa). A me pare che
l’applauso di Rimini dimostri che i miei argomenti non erano fuori tema…
Sono contento che abbiate stimolato il dibattito, specie fra i cattolici.


Luigi Fressoia
Perugia

A
proposito di «gonzo», Il vocabolario della lingua italiana di G. Devoto e
G.C. Oli recita: «persona tarda e stupida (anche come epiteto
ingiurioso)».

Tutti
mercanti


Egregio direttore,


intervengo nel dibattito aperto dai signori L. Fressoia e L. Trobbiani sul
numero di marzo. In molti casi ormai non c’è più distinzione tra destra e
sinistra.

Ho
sempre votato a sinistra; ma ho visto sussiegosi politici sorridere e
ridere all’affermazione che «la sinistra dovrebbe difendere i poveri».
Ingenuità imperdonabile vero? Ora siamo tutti liberi mercanti. Che
amarezza!


Francesco Benegiamo
Galatina (LE)


Nell’amarezza del lettore scorgiamo anche un positivo senso di rivolta.


Ipocrisia «armata»

Signor
direttore,

la
lettera del signor Fressoia è molto discutibile, specialmente quando
afferma che la ricchezza economica favorisce la maturazione sociale e
culturale. I soldi non hanno certo fatto maturare molto la nostra epoca.
Parecchi – è vero – posseggono un buon conto in banca. Ma è «maturazione
sociale e culturale»?

Quanto
al terzo mondo, non facciamo gli ipocriti! In Africa impazzano dittatori
rozzi e armati fino ai denti. Ma chi vende loro armi e non pasta? Sono
anche personaggi di fabbriche italiane, eleganti, pacati, persino con
parole da «vangelo». E qui mi incavolo, perché se vogliamo eliminare le
guerre, dobbiamo prima smettere di costruire armi. Invece, nel mercato
libero della globalizzazione…

La
verità è che i dittatori dell’Africa o dei Balcani stanno al gioco di
altri dittatori: dittatori veri, che il signor Fressoia tende ad esaltare.
Gli Stati Uniti e l’Europa ne sono pieni.


L’Africa vanta un sottosuolo ricchissimo, eppure annaspa fra mille
problemi. Allora non sempre la ricchezza fa ricchezza. Un problema di
fondo è pure il clima. Non per niente, in genere, i paesi più
industrializzati godono di buone condizioni climatiche. Se l’Europa avesse
il clima del Sudan, non ci sarebbero Agnelli e Berlusconi che tengano. E,
dinanzi a siccità e uragani, la nostra fatica quotidiana conterebbe zero.


Alessandro B.
Modena

Nel 2000
l’Italia ha esportato armamenti per 1.658 miliardi di lire. Fra le armi
non scordi quelle leggere. Uccidono una persona ogni due minuti: 300 mila
vittime all’anno. Nel 1999 è stato di 600 miliardi il nostro profitto
delle armi leggere. La legge 185 del 1990 impone restrizioni, ma…
l’Italia è terza al mondo in questa «specialità».

Un
tesserato della… speranza

Signor
direttore,

sono
stupefatto nel leggere, oltre ad ascoltare, di tante persone che
descrivono Berlusconi come un alfiere della libertà e del progresso.
Costoro alimentano una confusione terribile tra «liberalismo» e
«neoliberalismo».


Innanzitutto una precisazione doverosa, per evitare ulteriori confusioni e
distinguere in maniera chiara in quali «acque stiamo nuotando».

Il
liberalismo nasce come un fenomeno di emancipazione (della borghesia), con
un senso di libertà e progresso di fronte alla monarchia assoluta e al
feudalesimo. Invece il neoliberalismo non si afferma contro un governo
reazionario, ma ha un forte sentimento di conservazione, rifiuta la
politica come qualcosa di sporco e, soprattutto, domina il grande
capitale.

Anche
il tratto psicologico è diverso: rispetto alla società del liberalismo, in
quella del neoliberalismo c’è ansietà, paura di quelli che vivono in
«basso» e si difende la propria nicchia di benessere. A tale proposito, lo
studioso tedesco E. Fromm diceva che esistono solo due grandi partiti
nella storia: quello della speranza e quello della paura. Nel primo le
persone lottano per un futuro migliore dell’umanità, rifiutano lo status
quo e il sistema vigente perché non lo considerano umano. Le persone del
partito della paura, invece, cercano rifugio nel passato, nelle nicchie
dove possono proteggersi di fronte ad un futuro che non conoscono.

A mio
avviso, stiamo vivendo in un periodo di oscurantismo culturale, sociale ed
economico chiamato neoliberalismo, che ha ereditato troppo poco dal
liberalismo. Questo sistema è capeggiato a livello internazionale dalla
Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l’Organizzazione
mondiale per il commercio. In Italia il suo degno rappresentante politico
si chiama Silvio Berlusconi, leader del «partito della paura».


Intendiamoci: non considero Berlusconi un’appendice nazionale delle
organizzazioni mondiali menzionate, bensì il prodotto della loro cultura
e, in particolare, di coloro che danno dignità e rappresentanza al partito
della paura descritto da Fromm. Perché?

Perché
si auspica che la competizione di mercato possa regolare tutti i rapporti
economico-sociali, escludendo ogni forma di mediazione che metta in
contrasto con il «Dio denaro» e il «Dio successo».

In Perù
ho assistito all’instaurazione del regime neoliberalista di Alberto
Fujimori, che della paura fece il partito della farsa e dell’inganno. Ho
anche visto, a causa delle privatizzazioni selvagge, le scuole
trasformarsi in privilegio per pochi e gli ospedali diventare un business
per i più facoltosi, anziché rappresentare un diritto e un patrimonio
sociale collettivo. Infine ho costatato che la precarietà di ogni giorno
può, nei soggetti deboli, cambiare i rapporti fra le persone, la cui
regola di vita diventa il peggiore individualismo, sinonimo di paura.


Personalmente mi considero un tesserato del «partito della speranza» e
spero di essere in numerosa compagnia con tanti lettori di Missioni
Consolata, affinché i «partiti della paura» siano sconfitti nelle prossime
elezioni.


Gabriele Vaccaro
Comiso (RG)

Ai
vincitori delle ultime elezioni ci permettiamo, con il signor Gabriele
Vaccaro, di rivolgere un invito.

«Per
vincere “il partito della paura”, si deve rompere con l’individualismo
neoliberalista, e cioè: aprirsi alla solidarietà, passare da un mondo che
ha il suo epicentro nell’“io” ad uno che parta dall’“altro”. Un “io” che
si riscopra di fronte all’altro, dando priorità a una relazione che
permetta di rivendicare la propria libertà, ma che non esiga la
subordinazione degli altri».

Cresciuta
con… voi

Cari
missionari,

ho
letto per anni la vostra stupenda rivista. Come docente, mi sono
professionalmente formata leggendola. In seguito al mio trasferimento da
Palagrano (TA) a Capurso (BA), da quest’anno non mi arriva più. Sono
dispiaciuta; ci terrei tanto a riceverla ancora.

Vi
mando anche una foto della nostra bimba, Françoise Anna, nata un anno fa
dall’incontro di due «razze»: una vera rappresentante del terzo millennio,
l’era multirazziale.


Immacolata Antonacci
Capurso (BA)

Eccola
Françoise Anna! Presto imparerà a leggere anche Missioni Consolata, in
compagnia dei genitori.


Padre Giovanni Milo

Caro
direttore,

sono un
fratello di padre Giovanni Milo, tragicamente scomparso di recente e di
cui, penso, siate a conoscenza. A nome di mia madre, affranta ancora da
profondo dolore e dei familiari tutti, ringrazio sentitamente per quanto
avete fatto per lui.

So che
padre Giovanni era molto legato ai missionari della Consolata e l’ha
dimostrato sempre e in ogni modo. Nell’esaminare la sua documentazione, ho
riscontrato che ha stipulato cinque polizze-vita presso una banca del
luogo, il cui beneficiario è l’Istituto Missioni Consolata. E questo
nell’ultimo mese, prima di morire, quasi come un segno premonitore.

Accludo
anche copia di uno scritto in forma poetica, indirizzato a padre
Giovanni, che meglio sintetizza e descrive la sua figura, nella speranza
che voglia pubblicarlo sulla sua rivista.

Michele
Milo
Patù (LE)


Eri il
vincastro
di nostro Signore
a tutti additavi
la strada priore,
eri severo
da confessore
ma, a chi pentito,
donavi il tuo cuore.
Sei stato per noi gran testimone cristiano
di sagge parole
e molto umano,
avevi per tutti
un sincero sorriso
e proseguivi con
la saggezza sul viso.
Le tue omelie
scavavan la mente
d’ogni fedele
che era presente,
eran penetranti
le tue parole,
che scuotevan
la coscienza
e arrivavan al cuore.
Una volta affermasti, spiegando il Vangelo,
a chi pensa:


«C’è tempo
per le cose del cielo,


Dio vuol la
primizia


e non i
miseri resti».


Io rimasi
colpito


di quanto
dicesti.


Or hai
lasciato



tragicamente


questa vita
terrena



improvvisamente.


Nella tua
vita,


primizia tu
hai dato


e colmo
d’amore


a Dio sei
arrivato.



Francesco Petracca

Nessuno
sconto

alle
mine antiuomo

Caro
direttore,

mi
riconosco in pieno nell’appello di Massimo Veneziano (Missioni Consolata,
marzo 2001): «Facciamo guerra alla guerra!». Le mine antiuomo e le bombe
cluster sono diverse solo nel nome, non negli effetti sulle popolazioni,
sull’agricoltura, sull’ambiente, compreso quello marino (come hanno
dimostrato gli ultimi inquietanti episodi nell’Adriatico).

Non
dimentichiamo che, come è già avvenuto nel recente passato, le aziende
produttrici di mine sono più vive che mai: è il caso della Società
Esplosivi Industriali (SEI) di Ghedi che, aggirando la legge 22/10/1997,
nota anche come Legge Antimine o Legge Occhetto, sta per realizzare un
nuovo impianto a Domusnovas (Cagliari): intende costruire «una linea di
ordigni militari da destinare al mercato mondiale».

Uniamo
dunque la nostra voce a quella del vescovo di Iglesias, Tarcisio Pillolla,
che rifiuta la retorica vigliacca dell’industria diversificata, portatrice
(si dice) di lavoro per i giovani e di sviluppo per il territorio locale.
Ribelliamoci a chi, come la Regione Sardegna, sembra disponibile a
incoraggiare l’impresa con denaro pubblico.

Non
dimentichiamo l’appello alla pace e alla riconversione vera (non truccata)
dell’industria bellica, che un altro vescovo, Bruno Foresti, lanciò ai
funerali di Giuseppe Bignotti, Dario Cattina e Franco Sentimenti, uccisi
il 22/8/96 dall’esplosione del capannone per la lavorazione delle bombe MK
82 di proprietà della SEI.

È stata
proprio la SEI a provvedere al caricamento degli stampi della Valsella
Meccanotecnica di Castenedolo, con migliaia di schegge (vetro, plastica e
metalli vari), tanto minute quanto devastanti, disseminate a milioni in
decine di paesi e in grado di colpire indiscriminatamente uomini e
animali, militari e civili, donne che lavorano nei campi e bambini che
giocano in cortile. E, in un numero non trascurabile, anche volontari che
portano soccorso alle vittime e sminatori impegnati nell’ingrato compito
della bonifica.


Rispettiamo le atroci sofferenze di Tonina Cordedda, bambina di 9 anni di
Nughedu San Nicolò, che nel 1973 incappò in un ordigno antipersona
(probabilmente un residuato della seconda guerra mondiale) perdendo occhi
e braccia.

La
costruzione di una nuova fabbrica di esplosivi militari in Sardegna, a
un’ora di macchina dal luogo dell’episodio che cambiò brutalmente la vita
di Tonina, sarebbe un cinismo imperdonabile.


Francesco Rondina


Fano (PS)

Varie
volte Missioni Consolata ha denunciato il business e le tragedie provocate
dalle mine antiuomo, senza concedere sconti.

La
verità è verità


Spettabile redazione,

ho
letto il «numero straordinario» sui 100 anni dei missionari della
Consolata. Nel 1936 la rivista Missioni Consolata esaltò il trionfo
dell’Italia in Etiopia. Ma oggi voi parlate di «aggressione da parte
dell’Italia fascista». Non voglio più ricevere la rivista.


Claudio Simonetti


Cumiana (TO)

Signor
Simonetti, il suo rifiuto della verità storica ci lascia perplessi.

cari
missionari box 1

Mau mau,
missionari della Consolata… e

La lettera
dell’«inafferrabile»

Ritengo
opportuna qualche osservazione sull’articolo di Missioni Consolata,
febbraio 2001, che presenta la travagliata lotta di liberazione dei mau
mau
in Kenya.

Il
direttore africano della Chinga Girls’ Secondary School, dove
insegnai come volontaria laica missionaria (1970-72), mi regalò il libro
Mau Mau General di Waruhiu Itote. È stato uno dei testi da cui ho
tratto i brani per l’antologia Un angolo d’Africa, che presenta «il
Kenya visto dai suoi scrittori». L’essere vissuta in zona mau mau,
ascoltando la storia scritta dai kikuyu, mi ha molto influenzata.
Con i dovuti «distinguo», ho paragonato la loro lotta di liberazione al
nostro risorgimento.

Invito a
leggere Un chicco di grano di Ngugi Wa Thiong’o, presentato su
Missioni Consolata
, giugno 1998. Scrivo: «Gikonyo e Mumbi,
protagonisti del romanzo, portano i nomi che la tradizione kikuyu
attribuisce ai progenitori della tribù e incarnano le sofferenze di un
popolo umiliato e oltraggiato dalla dominazione coloniale, diviso e
perseguitato durante l’emergenza mau mau, ma caparbio nel volere
conquistare libertà e dignità». Purtroppo la violenza genera sempre morte
e distruzione. Leggendo però le cifre al termine della rivolta, risultano
morti: mau mau 10 mila; lealisti 2 mila; forze governative 534;
europei 63; civili 32.

Come si
comportarono i missionari della Consolata in quel tempo? Durante il sinodo
della diocesi di Nyeri (1975-76), che mi vide impegnata come sociologa,
raccolsi molte testimonianze, redatte da gruppi di lavoro, sulla storia
della loro parrocchia. Ne cito alcune riportate nel mio libro Una
chiesa africana s’interroga. Cultura tradizionale kikuyu e cristianesimo
.

«Fra i
missionari citati dal 1904 al 1961, a Ruchu ricordano padre Francesco
Comoglio
come loro leader spirituale per tutto ciò che fece.
Durante l’emergenza mau mau aiutò in tutti i modi i cristiani,
anche coloro che erano in carcere. Battezzò moltissime persone e costruì
tantissime cappelle, malgrado fosse un periodo difficile, e dimostrò un
notevole coraggio».

«Padre
Bartolomeo Negro
fu parroco di Karima dal 1946 al 1955: attivo,
generoso, misericordioso, allegro, coraggioso e gentleman. Amò
amici e nemici. Aiutò chiunque avesse bisogno. Si acquistò le simpatie
della maggioranza della gente e tutte le scuole “protestanti”, chiuse
durante l’emergenza, furono riaperte grazie a lui».

«Nel 1954
la gente fu rinchiusa in villaggi. Padre Ottavio Sestero, aiutato
dalle suore, iniziò l’insegnamento del catechismo in ogni villaggio.
Grazie a tale notevole lavoro, la parrocchia mise radici ovunque. Padre
Sestero lavorava giorno e notte per conquistare i leaders che predicavano
contro la chiesa cattolica. Riuscì nel suo intento e divenne amico di
tutti, che iniziarono a rispettare i cattolici» (Kerugoya).

Allego
pure la lettera che il capo dei mau mau, Dedan Kimathi, scrisse a
padre Nicola Marino. La lettera, conservata a Roma nell’archivio
dell’Istituto Missioni Consolata, fu pubblicata nel maggio 1957 su
Wathiomo Mukinyu
, settimanale della diocesi di Nyeri.

Silvana
Bottignole – Torino

Ecco
la lettera di Dedan Kimathi, impiccato dagli inglesi. Una testimonianza
della misericordia di Dio e di fiducia verso i missionari.

Caro
Padre Marino, è circa l’una di notte e mi sono munito di matita e carta
per ricordare lei e tutti gli amici, prima che scocchi la mia ora. Sono
indaffarato e felice di andare in Cielo domani, 18 febbraio 1957.


Desidero farle sapere che padre Whellan venne a visitarmi in carcere, non
appena seppe del mio arrivo. È una persona molto cara e gentile, come non
mi sarei aspettato. Mi ha visitato spesso e incoraggiato in tutti i modi.
Mi ha dato dei libri importanti, che più di ogni cosa mi hanno acceso di
speranza per la strada verso il Paradiso… Padre Whellan mi visitò anche
il giorno di natale, mentre ebbi parecchie visite negli altri giorni. Mi
spiace che non mi abbiano ricordato il giorno della nascita del Nostro
Salvatore. È un peccato che mi abbiano dimenticato in una ricorrenza così
felice.

Ho il
problema di mandare mio figlio a scuola. È lontano da voi, ma spero che
possiate fare qualcosa perché sia istruito sotto la vostra cura. Cerchi
anche di visitare mia madre, molto anziana, e di confortarla perché sarà
tanto addolorata.

Mia
moglie è prigioniera nel carcere Kamiri e spero che venga rilasciata.
Vorrei che le suore avessero cura di lei, ad esempio suor Modesta, perché
si sente molto sola. Avrei piacere che fosse vicina alla missione di
Mathari, così da essere accanto alla chiesa.

Addio a
questo mondo e a quanto c’è in esso. I migliori auguri agli amici che non
incontrerò più in questo mondo nervoso.


Trasmetta i miei complimenti a quanti leggono Wathiomo Mukinyu. Mi ricordi
a tutti i padri, fratelli e sorelle. Pieno di speranza, la saluto, caro
padre. Con affetto, il suo convertito che sta per lasciare questo mondo.


Dedan Kimathi

cari
missionari box 2


L’imbarazzo del buon Dio

Cari
missionari, la mamma (abbonata alla vostra rivista) è mancata il 18 giugno
2000, vigilia del suo compleanno e onomastico. Infatti era stata
battezzata con il nome di Maria Consolata su suggerimento di una sorella
del nonno, devota della Vergine Consolata.


Mamma Maria Consolata fu malata per diversi anni e, dal 1996, rimase a
letto, immobilizzata, a causa di una forma di demenza senile che l’aveva
colpita nel 1993, a 70 anni. La malattia, grave, progressiva e
invalidante, l’aveva trasformata in una persona «diversa», completamente
alla dipendenza degli altri… Il dolore è stato il compagno fedele di
nostra madre. Non ci è stato facile accettare il suo inesorabile
decadimento fisico e psichico.


Spesso mi sono affidata alla Vergine: nei momenti di scoraggiamento ho
chiesto aiuto a Lei, la Consolata.

Ora
desidero che Missioni Consolata sia indirizzata a me, per continuare la
tradizione familiare di lettura e riflessione di questo mensile. È una
«finestra aperta sul mondo», una testimonianza di fede e coraggio di tanti
uomini e donne, che hanno saputo scoprire l’essenzialità, l’umiltà, la
carità.


Lettere
come questa ci ricordano le parole di Gesù: «Alzati e cammina!»; ed anche
quelle del beato Allamano: «Coraggio e avanti». Grazie, Teresa.

E grazie
pure a Maddalena Soccini, di Montodine (CR), che ci scrive:

Cari
missionari, vi mando un’offerta a nome di mio nipote: lui non va a messa,
ma crede ai missionari e si serve di me per fare un po’ di bene.

Sono
una povera vecchia, che ha battezzato 10 figli. Il 1° aprile ho compiuto
95 anni. Prego sempre il buon Dio che mi chiami, però Lui sta tardando un
po’. Ho anche un altro nipote, sacerdote. Lui invece prega così: «Signore,
se vuoi, lascia ancora un po’ la nonna con noi…».

Da parte
nostra, commossi, osiamo commentare: ecco come si può mettere in imbarazzo
anche il Padre Eteo.

AAVV




L’imbarazzo del buon Dio

L’imbarazzo del buon Dio

Cari missionari, la mamma (abbonata alla vostra rivista) è mancata il 18 giugno 2000, vigilia del suo compleanno e onomastico. Infatti era stata battezzata con il nome di Maria Consolata su suggerimento di una sorella del nonno, devota della Vergine Consolata.
Mamma Maria Consolata fu malata per diversi anni e, dal 1996, rimase a letto, immobilizzata, a causa di una forma di demenza senile che l’aveva colpita nel 1993, a 70 anni. La malattia, grave, progressiva e invalidante, l’aveva trasformata in una persona «diversa», completamente alla dipendenza degli altri… Il dolore è stato il compagno fedele di nostra madre. Non ci è stato facile accettare il suo inesorabile decadimento fisico e psichico.
Spesso mi sono affidata alla Vergine: nei momenti di scoraggiamento ho chiesto aiuto a Lei, la Consolata.
Ora desidero che Missioni Consolata sia indirizzata a me, per continuare la tradizione familiare di lettura e riflessione di questo mensile. È una «finestra aperta sul mondo», una testimonianza di fede e coraggio di tanti uomini e donne, che hanno saputo scoprire l’essenzialità, l’umiltà, la carità.
Teresa Ressia – Saluzzo (CN)

Lettere come questa ci ricordano le parole di Gesù: «Alzati e cammina!»; ed anche quelle del beato Allamano: «Coraggio e avanti». Grazie, Teresa.
E grazie pure a Maddalena Soccini, di Montodine (CR), che ci scrive:
Cari missionari, vi mando un’offerta a nome di mio nipote: lui non va a messa, ma crede ai missionari e si serve di me per fare un po’ di bene.
Sono una povera vecchia, che ha battezzato 10 figli. Il 1° aprile ho compiuto 95 anni. Prego sempre il buon Dio che mi chiami, però Lui sta tardando un po’. Ho anche un altro nipote, sacerdote. Lui invece prega così: «Signore, se vuoi, lascia ancora un po’ la nonna con noi…».
Da parte nostra, commossi, osiamo commentare: ecco come si può mettere in imbarazzo anche il Padre Eteo.

Teresa Ressia




La lettera dell’inafferrabile

R itengo opportuna qualche osservazione sull’articolo di Missioni Consolata, febbraio 2001, che presenta la travagliata lotta di liberazione dei mau mau in Kenya.
Il direttore africano della Chinga Girls’ Secondary School, dove insegnai come volontaria laica missionaria (1970-72), mi regalò il libro Mau Mau General di Waruhiu Itote. È stato uno dei testi da cui ho tratto i brani per l’antologia Un angolo d’Africa, che presenta «il Kenya visto dai suoi scrittori». L’essere vissuta in zona mau mau, ascoltando la storia scritta dai kikuyu, mi ha molto influenzata. Con i dovuti «distinguo», ho paragonato la loro lotta di liberazione al nostro risorgimento.
Invito a leggere Un chicco di grano di Ngugi Wa Thiong’o, presentato su Missioni Consolata, giugno 1998. Scrivo: «Gikonyo e Mumbi, protagonisti del romanzo, portano i nomi che la tradizione kikuyu attribuisce ai progenitori della tribù e incarnano le sofferenze di un popolo umiliato e oltraggiato dalla dominazione coloniale, diviso e perseguitato durante l’emergenza mau mau, ma caparbio nel volere conquistare libertà e dignità». Purtroppo la violenza genera sempre morte e distruzione. Leggendo però le cifre al termine della rivolta, risultano morti: mau mau 10 mila; lealisti 2 mila; forze governative 534; europei 63; civili 32.

C ome si comportarono i missionari della Consolata in quel tempo? Durante il sinodo della diocesi di Nyeri (1975-76), che mi vide impegnata come sociologa, raccolsi molte testimonianze, redatte da gruppi di lavoro, sulla storia della loro parrocchia. Ne cito alcune riportate nel mio libro Una chiesa africana s’interroga. Cultura tradizionale kikuyu e cristianesimo.
«F ra i missionari citati dal 1904 al 1961, a Ruchu ricordano padre Francesco Comoglio come loro leader spirituale per tutto ciò che fece. Durante l’emergenza mau mau aiutò in tutti i modi i cristiani, anche coloro che erano in carcere. Battezzò moltissime persone e costruì tantissime cappelle, malgrado fosse un periodo difficile, e dimostrò un notevole coraggio».
«Padre Bartolomeo Negro fu parroco di Karima dal 1946 al 1955: attivo, generoso, misericordioso, allegro, coraggioso e gentleman. Amò amici e nemici. Aiutò chiunque avesse bisogno. Si acquistò le simpatie della maggioranza della gente e tutte le scuole “protestanti”, chiuse durante l’emergenza, furono riaperte grazie a lui».
«Nel 1954 la gente fu rinchiusa in villaggi. Padre Ottavio Sestero, aiutato dalle suore, iniziò l’insegnamento del catechismo in ogni villaggio. Grazie a tale notevole lavoro, la parrocchia mise radici ovunque. Padre Sestero lavorava giorno e notte per conquistare i leaders che predicavano contro la chiesa cattolica. Riuscì nel suo intento e divenne amico di tutti, che iniziarono a rispettare i cattolici» (Kerugoya).

A llego pure la lettera che il capo dei mau mau, Dedan Kimathi, scrisse a padre Nicola Marino. La lettera, conservata a Roma nell’archivio dell’Istituto Missioni Consolata, fu pubblicata nel maggio 1957 su Wathiomo Mukinyu, settimanale della diocesi di Nyeri.
Silvana Bottignole – Torino

Ecco la lettera di Dedan Kimathi, impiccato dagli inglesi. Una testimonianza della misericordia di Dio e di fiducia verso i missionari.
Caro Padre Marino, è circa l’una di notte e mi sono munito di matita e carta per ricordare lei e tutti gli amici, prima che scocchi la mia ora. Sono indaffarato e felice di andare in Cielo domani, 18 febbraio 1957.
Desidero farle sapere che padre Whellan venne a visitarmi in carcere, non appena seppe del mio arrivo. È una persona molto cara e gentile, come non mi sarei aspettato. Mi ha visitato spesso e incoraggiato in tutti i modi. Mi ha dato dei libri importanti, che più di ogni cosa mi hanno acceso di speranza per la strada verso il Paradiso… Padre Whellan mi visitò anche il giorno di natale, mentre ebbi parecchie visite negli altri giorni. Mi spiace che non mi abbiano ricordato il giorno della nascita del Nostro Salvatore. È un peccato che mi abbiano dimenticato in una ricorrenza così felice.
Ho il problema di mandare mio figlio a scuola. È lontano da voi, ma spero che possiate fare qualcosa perché sia istruito sotto la vostra cura. Cerchi anche di visitare mia madre, molto anziana, e di confortarla perché sarà tanto addolorata.
Mia moglie è prigioniera nel carcere Kamiri e spero che venga rilasciata. Vorrei che le suore avessero cura di lei, ad esempio suor Modesta, perché si sente molto sola. Avrei piacere che fosse vicina alla missione di Mathari, così da essere accanto alla chiesa.
Addio a questo mondo e a quanto c’è in esso. I migliori auguri agli amici che non incontrerò più in questo mondo nervoso.
Trasmetta i miei complimenti a quanti leggono Wathiomo Mukinyu. Mi ricordi a tutti i padri, fratelli e sorelle. Pieno di speranza, la saluto, caro padre. Con affetto, il suo convertito che sta per lasciare questo mondo.
Dedan Kimathi

Silvana Bottignole




Ci ripensi, signora

Spettabile direzione,
non intendo più ricevere il vostro giornale. Ciò è motivato dalla mia consapevolezza, secondo la quale la chiesa cattolica non ha alcun diritto di sovvertire i delicati equilibri culturali dei popoli, in nome di una sua presunta superiorità.
Apprezzo il sacrificio di molti missionari e la loro azione umanitaria, ma non posso esimermi dal riconoscere che molte lotte (e perfino guerre) nel mondo sono causate dalla tenace penetrazione culturale dei cattolici. Perché non accettare la positività di ogni aspirazione a Dio? La chiesa di Roma non attua certo la frateità dei popoli del mondo.
Vi prego, perentoriamente, di non inviarmi più la vostra rivista.
Anna Laura Spinelli
Spoleto (PG)

Ci dispiace, signora, che lei eviti il confronto culturale-religioso, oggi più che mai necessario.
La chiesa cattolica non è, certo, immune da colpe (non per nulla il papa, nel passato giubileo, ha chiesto pubblicamente perdono), ma esprime anche la volontà di dialogo con tutti… dal quale lei sembra essersi volutamente tagliata fuori

Anna Laura Spinelli




Se non è una fisarmonica

Su Missioni Consolata di gennaio 2001 affrontate problemi di grande interesse in modo chiaro: chiaro per chi non è abituato a confrontarsi con l’ermetismo di tanti teologi cattolici, che tutto decidono in materia religiosa. A me pare ovvio che essere in grazia di Dio non dipende dalle loro interpretazioni incomprensibili, ma dai propri comportamenti.
Il famoso principio di san Cipriano (210/258 d. C.) «fuori dalla chiesa non c’è salvezza» poteva essere comprensibile a suo tempo, anche se impediva ad alcuni di credere nel Dio dal quale proveniva la loro fede. Era una norma, nella quale tutti avrebbero dovuto convergere; o forse era un principio giuridico-religioso. Poi bisognerebbe cercare di sapere se Cipriano, parlando di «chiesa», includesse anche le altre religioni. Ritengo che tutti gli esseri umani, in ogni tempo, abbiano sempre avuto una «chiesa», almeno come luogo di culto.
Il Concilio ecumenico Vaticano II affronta il problema della possibilità di salvezza anche per chi appartiene a religioni non cristiane.
L’articolo 16 della Lumen gentium dice: «Quelli che senza colpa ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa (e tuttavia cercano sinceramente Dio) e con l’aiuto della grazia si sforzano di compiere con le opere la volontà di Lui, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire l’eterna salvezza». Ne consegue: chi per ragioni storico-geografiche, senza colpa, ignora il Vangelo e tuttavia cerca sinceramente Dio in cielo, in terra, in ogni luogo, avrà la salvezza.
E non sarebbe meglio dire che ogni essere umano può essere in grazia di Dio se i suoi comportamenti e le sue azioni sono conformi agli ordinamenti di un codice elementare nel quale è vietato tutto ciò che la coscienza disapprova?
Pio Moacchi
Savona

La voce di una coscienza educata, onesta e generosa è sempre positiva. Ma, se la coscienza si stiracchia a fisarmonica…

Pio Moacchi




Il TG3 – Piemonte

Spettabile redazione,
il 17 febbraio scorso, al TG 3 regionale (Piemonte) delle ore 19, i missionari della Consolata sono stati ricordati nei loro 100 anni di vita. È stato citato anche l’editoriale del numero speciale di Missioni Consolata, riguardante proprio il centenario, che riporta una bella lettera a Gesù Bambino.
Sono rimasto piacevolmente sorpreso dell’iniziativa «quasi coraggiosa» della Rai. Però la mia gioia è durata poco, purtroppo. Infatti ho avuto la delusione di constatare che, nel riportare la lettera di Gesù Bambino, sono state omesse due righe: riguardano la guerra della Nato in Kosovo e le bombe all’uranio.
Forse ai giornalisti, autori del servizio, all’ultimo momento è mancato il coraggio… Allora mi sono ritornate in mente le ripetute dichiarazioni di «fedeltà all’alleanza» che molti (troppi) politici dei più variegati «colori» si sono affrettati ad esprimere. Ma è proprio così riprovevole mettere in dubbio i metodi, l’organizzazione e la stessa legittimità della Nato?
Da parte mia, mi sono permesso di telefonare immediatamente alla Rai per protestare del taglio arbitrario. Forse non toccava a me che sono un vostro abbonato qualunque. Scusatemi per l’intemperanza.
Beppe Peroncini
Torino

Ben vengano simili «intemperanze»!…
Ci sono giunte altre lettere sui «100 anni dei missionari della Consolata». Compaiono sull’inserto «Tuttomondo».

Beppe Peroncini




Lacrime di una musulmana

Egregio direttore, ci ha disgustati la copertina di Missioni Consolata, gennaio 2001: il volto di una musulmana e non «lacrime di donna samburu».
Così avvenne per il centenario della rivista (ottobre-novembre 1998): anche su quel numero il volto di una musulmana. Idem in quattro o cinque numeri del 1998: sempre facce di musulmane e pagine e pagine di interviste a donne cristiane diventate musulmane.
Ci chiediamo se sia il caso di mettere, come primo messaggio della rivista, donne musulmane. Quale attinenza hanno con la rivista e con i missionari della Consolata? Molti lettori hanno commentato negativamente.
È vero che l’islam è la seconda religione in Italia e che di musulmane ce ne sono a migliaia; ma proporle sulla copertina di una rivista missionaria è del tutto fuori posto.
Egregio direttore, se lei è un «patito» per i volti musulmani, si prenda due o tre segretarie musulmane: così le può contemplare come e quando vuole. Ma abbia rispetto per la rivista, per i suoi lettori, per i missionari della Consolata.
Lettera firmata
Kenya
La copertina incriminata ritrae una donna, con due lacrime che le solcano il volto. La foto fu scattata da padre Benedetto Bellesi, il 18 settembre 1998, nella chiesa di Maralal (Kenya) durante il funerale di padre Luigi Andeni, ucciso quattro giorni prima.
La commozione di quella musulmana per un missionario cattolico è quanto mai eloquente: come minimo esige (questa volta sì) «rispetto».
Secondo la Qabbalàh (tradizione mistica dell’ebraismo), l’Eteo raccoglie le lacrime delle donne, di tutte le donne. Ma qualcuno neppure le vede, perché chi piange è una musulmana!

lettera firmata




Rompere il cerchio

Per 136 paesi del Sud del mondo il debito estero significa condanna
al sottosviluppo; per i paesi creditori è strumento di autentica usura e ricatto.
La situazione si sta ritorcendo come un boomerang contro le nazioni ricche. L’opinione pubblica preme su governi e organismi finanziari
perché i debiti vengano cancellati.
In questa lotta contro lo scandalo della povertà c’è posto per tutti.

Sommando i prestiti contratti tra gli anni ‘70-‘80 e obblighi accumulati nell’ultimo decennio, il debito estero dei paesi più poveri del pianeta ha raggiunto la somma di 2.500 miliardi di dollari, pari a 5 milioni di miliardi in lire. I debitori non riescono né a restituire i prestiti né a pagare gli interessi, senza drastiche misure economiche con effetti devastanti sull’ambiente e sulla vita di milioni di persone.
Alle scadenze di pagamento degli interessi, enormi quantità di valuta viene sottratta ai progetti di sviluppo per arricchire le economie del Nord. Per onorare tali impegni, l’America Latina, per esempio, spende 100 miliardi di dollari annui: la metà del Pil (prodotto interno lordo) e il triplo delle entrate delle esportazioni; i paesi dell’Africa subsahariana spendono risorse quattro volte superiori a quelle investite nel settore educativo e sanitario.

MANI ALLA GOLA

Il sistema dei prestiti è iniziato nel 1978, con lo scopo di aiutare lo sviluppo dei paesi del terzo mondo. In due anni, con la rivalutazione del dollaro e l’innalzamento del tasso d’interesse dal 5% al 30%, i paesi debitori si son visti raddoppiare il valore del debito e moltiplicare per decine di volte gli interessi da pagare, sempre calcolati in valuta americana. Iniziava lo strozzinaggio planetario.
Senza contare i cinque secoli in cui l’Occidente ha depredato i paesi del Sud del mondo (vedi riquadro), oggi ci si domanda chi siano veramente i debitori. Per ogni dollaro dato al Sud del mondo, al Nord ne vengono rimborsati tre. Tra il 1980 e il 1996 l’Africa subsahariana ha pagato due volte l’ammontare del debito estero; eppure oggi è tre volte più indebitata di 20 anni fa: nel 1980 doveva ai creditori 85 mila dollari; nel 1997 sono saliti a 235 milioni.
Tradotte in costo umano, tali cifre sono uno strangolamento. In Zambia, tra il 1990 e il 1993, per ogni dollaro che il governo ha investito nell’istruzione elementare, ne ha pagati 35 ai paesi ricchi per gli oneri del debito. L’esempio riportato vale anche per gli altri paesi poveri: le somme devolute per il debito sono molto superiori a quelle investite per l’istruzione, sanità e altri servizi di base.
Per salvare la vita a 21 milioni di persone in Africa, calcola l’Unicef, basterebbe aggiungere 9 miliardi di dollari agli investimenti attuali; ma ogni anno il continente versa 13 miliardi di dollari per onorare i debiti.

CIRCOLO VIZIOSO
Per avere valuta pregiata con cui pagare i debiti, i paesi poveri sono costretti a distruggere l’agricoltura di sussistenza, per dare spazio alle coltivazioni intensive di prodotti per l’esportazione (caffè, cacao, fiori…). Immessi nell’arena dei mercati inteazionali, tali prodotti diventano preda delle multinazionali che, proprietarie delle catene di produzione e distribuzione, decidono a piacimento i prezzi di acquisto. Per i paesi produttori ne deriva enorme riduzione dei guadagni; il che rende impossibile pagare gli interessi e promuovere sviluppo.
Il debito è al tempo stesso causa ed effetto di impoverimento, con conseguenze disastrose: contrazione di nuovi debiti, tracollo della bilancia dei pagamenti, caduta dei salari, aumento della disoccupazione, migrazioni verso le città, delinquenza, analfabetismo, malnutrizione.
Tale situazione è poi fonte di corruzione. La collusione tra interessi di governi e banche occidentali, società finanziarie e multinazionali fanno del debito un lubrificante della macchina del capitalismo mondiale in costante ricerca di nuove aree d’investimento o sfruttamento.
Gli interessi sono bene rispecchiati nei «Piani di aggiustamento strutturale» (Pas), che il Fondo monetario internazionale (Fmi) e Banca mondiale (Bm) impongono ai paesi debitori, perché questi possano mantenere i loro impegni verso i creditori. Tali programmi, infatti, esigono l’apertura del mercato ai prodotti occidentali, con enorme danno alla produzione locale che soccombe alla concorrenza del più forte. In secondo luogo i Pas costringono i governi a tagliare le spese improduttive: scuola, sanità, strutture di utilità pubblica, aggravando le situazioni di povertà e miseria della popolazione.
Nelle mani dei creditori, infine, il debito estero si trasforma in potente arma politica per le scelte e il destino delle nazioni: dilazionamenti nei pagamenti o riduzioni del debito sono condizionate dai giochi di interessi politici o economici dei creditori; l’intransigenza si attenua in cambio della compiacenza dei debitori verso le manie egemoniche delle potenze occidentali.
All’Egitto, per esempio, fu annullato un terzo del debito, in cambio della lealtà verso gli Stati Uniti durante la guerra del Golfo contro l’Iraq. Un’importante quota dei debiti della Polonia fu cancellata e 31 miliardi di dollari furono stanziati per la ricostruzione e lo sviluppo degli altri paesi dell’Est, a patto che questi entrassero nell’orbita europea e aprissero le frontiere a prodotti e investimenti occidentali.
RITARDI E LATITANZE
Dei 136 paesi inscritti nei registri della Bm, 41 sono inseriti nella lista dei «paesi poveri fortemente indebitati»: 30 di essi sono in Africa. Nel 1996 è stato varato un programma per la riduzione dei debiti. Ma fino ad oggi i risultati sono stati scarsi. Nel 1999 Fmi e Bm hanno parlato di «aggiustamenti strutturali». Oggi cominciano a parlare di «strategia di riduzione della povertà»; esponenti della società civile sono stati invitati ai summit del Fmi e Bm: è un’autentica rivoluzione culturale.
Ma i paesi africani continuano a sentirsi abbandonati da oltre un decennio. La disavventura statunitense in Somalia e l’assenza di un forte interesse geopolitico nella regione hanno provocato una sorta di smobilitazione diplomatica e umanitaria generale, come testimonia il clima d’indifferenza che circonda le assurde guerre tra Etiopia ed Eritrea, nella regione dei Grandi Laghi e in altre nazioni africane.
«Nemmeno i cadaveri sugli schermi sono più in grado di smuovere l’opulenza dei paesi ricchi» ha esclamato il ministro degli esteri etiope, Seyoun Masfin, al recente vertice euroafricano del Cairo, denunciando l’indifferenza degli europei.
È vero che la miseria in Africa nasce dalla miscela di capricci climatici e disordini politici; ma la tragedia si consuma anche a causa della meschinità umana. Per esempio: il parlamento di Strasburgo, il 14 aprile 2000, non ha votato la delibera sull’aumento degli aiuti al Coo d’Africa per mancanza di quorum, rimandando la decisione al mese seguente: i parlamentari anticiparono il rientro a casa per paura di difficoltà nei trasporti. Un tranquillo week-end in famiglia vale di più della sorte di 8 milioni di persone che stanno morendo di fame!
La stessa sorte è toccata al Mozambico, in occasione dell’ultima alluvione: la Commissione europea ha approvato l’invio di aiuti umanitari a un mese dall’inizio dell’emergenza.
Tale catastrofe ha moltiplicato il coro di proposte per chiedere la cancellazione del debito estero del Mozambico; ma il Club di Londra, che raduna le più grandi banche private occidentali, ha risposto con una vaga decisione di rinviare i pagamenti per il servizio del debito. Eppure, lo stesso Club non ha esitato a cancellare alla Russia 10 miliardi di dollari di debito, permettendo così al Cremlino di continuare a finanziare la guerra in Cecenia.
Nel vertice tra paesi europei e africani, svolto al Cairo il 3 e 4 aprile 2000, i capi africani avevano messo in cima all’agenda la discussione della cancellazione del debito. Ma i rappresentanti europei non hanno preso alcuna misura degna di rilievo per arginae la crescita galoppante. Le speranze sono rimandate ai prossimi incontri che, su decisione dell’incontro del Cairo, si terranno ogni tre anni.

EQUITÀ E SOLIDARIETÀ
Intanto i rapporti tra Europa e Africa continuano a viaggiare su binari di scambi commerciali ineguali e lontani da vera solidarietà. Da una parte, infatti, l’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) costringe i paesi in via di sviluppo ad aprire i loro mercati, mentre per quelli occidentali persistono le barriere doganali a svantaggio dei prodotti del Sud del mondo; a ciò si aggiunga che i prezzi dei prodotti esportati e importati dai paesi poveri vengono sempre stabiliti nelle capitali della finanza occidentale. E il debito di questi paesi continua a crescere; mentre lo sviluppo rimane un sogno.
Con la Convenzione di Lomé, l’Europa ha accordato a 71 stati di Africa, Caraibi e Pacifico (Acp) un trattamento privilegiato per i loro prodotti di esportazione. Dal 29 febbraio 2000 tale trattamento ha aperto lo spazio a nuovi accordi da negoziare tra il 2002 e il 2008. Ma lo spirito che li animerà è stato cinicamente espresso da Philippe Lowe, capofila della delegazione europea: i nuovi accordi commerciali «dovranno essere compatibili con le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio».
Un saggio di tale spirito si è avuto il 15 marzo 2000: il parlamento europeo ha approvato l’uso del 5% di grassi vegetali nella fabbricazione di cioccolato, meno costosi del burro di cacao. Tale delibera penalizza i paesi produttori di cacao, africani e latinoamericani. Si calcola, infatti, che con l’impiego di grassi vegetali la richiesta di semi di cacao diminuirà di 80-120 mila tonnellate.
Secondo la Ong inglese Oxfam, 11 milioni di persone (1,2 milioni di famiglie con appezzamenti di 4-5 ettari) sopravvivono grazie alla produzione di cacao; oltre tutto il suo prezzo si è dimezzato nel giro di due anni. Quale futuro per il Ghana, per esempio, che produce 400 mila tonnellate di burro di cacao l’anno e che prevede una perdita di 300 milioni di dollari? Quali prospettive per la Costa d’Avorio, che ne produce 1,2 milioni di tonnellate, quasi tutte per l’esportazione?

EFFETTO BOOMERANG
Secondo l’Osservatorio geopolitico delle droghe e dei conflitti in Africa (Ogd), negli ultimi 15 anni l’aumento della coltivazione di droga è legata al calo dei prezzi dei prodotti agricoli da esportazione (caffè, cacao, arachidi), causato dalle leggi del mercato globale, e alla crisi dell’agricoltura di sussistenza.
Nonostante sia illegale in tutta l’Africa, la coltivazione della cannabis (canapa indiana) è diventata una vera coltura di sostituzione: cresce in qualsiasi terreno, non ha bisogno di cure particolari ed è più redditizia. Un ettaro di terra coltivato a cannabis rende al contadino della Costa d’Avorio 300 volte di più del cacao; in Senegal 50 volte la coltivazione di arachidi; rispetto a riso e manioca il guadagno è 55 volte superiore. Il prezzo della marijuana sale; quello degli altri prodotti da esportazione scende: nel 1995 il rapporto di prezzo tra marijuana e cacao era di 60 a 1; col caffè, di 100 a 1.
Secondo Laurent Laniel, ricercatore dell’Osservatorio di Parigi, i principali responsabili della rivoluzione della cannabis sono i piani di aggiustamento strutturale, che hanno abolito le barriere doganali e misure protezionistiche, tagliato finanziamenti e assistenza tecnica all’agricoltura di sussistenza, danneggiato la produzione intea.
Stretta nella morsa del debito, l’Africa ha cominciato a sostituire la coltivazione dei prodotti da esportazione con quelle imposte dal mercato internazionale: quello della droga è sempre in espansione. L’infiltrazione nella rete di traffici mafiosi e criminali inteazionali nel continente trasforma l’Africa in centro di smistamento di cocaina ed eroina destinate a Europa e Stati Uniti.
Così, una semplice normativa, come quella sul cacao varata dal Parlamento europeo per accontentare gli interessi di pochi, non riguarda solo un innocuo cambiamento di gusti per i consumatori del Nord, ma incide profondamente nella vita delle popolazioni africane e ritorna al mittente come un boomerang, sotto forma di quel traffico di stupefacenti che si vuole combattere.
BASTA CON LE PAROLE
La soluzione del problema del debito dei paesi indebitati e dello scandalo della povertà non riguarda solo i governi e le istituzioni finanziarie inteazionali, ma chiama in causa anche noi. In occasione del giubileo sono state fatte diverse campagne di mobilitazione della società civile per rinnovare l’appello della cancellazione del debito ai paesi poveri. Qualcosa si è mosso, ma la strada è ancora lunga. Tali campagne devono continuare, per sensibilizzare maggiormente la gente e aumentare la pressione sui governi creditori, perché facciano scelte responsabili per alleviare la situazione di miseria in cui vivono miliardi di persone.
Inoltre, il debito estero è solo una delle tante cause del sottosviluppo. È un segmento della spirale perversa del sistema economico mondiale in cui viviamo. Alla pressione politica, bisogna unire una nuova mentalità nei nostri consumi. L’acquisto di certi prodotti alla moda, per esempio, ci rende complici dell’oppressione e sfruttamento a cui sono sottoposti operai, donne e bambini nelle fabbriche dove tali beni vengono prodotti. L’investimento dei propri risparmi può renderci inavvertitamente azionisti d’imprese e banche che speculano sulla vendita di armi o traffici criminali.
È necessario, secondo un famoso slogan, «pensare globalmente e agire localmente». Il che significa operare una coraggiosa inversione di tendenza nel nostro agire quotidiano, passando dal consumismo a uno stile di vita più sobrio, adottando strategie di solidarietà che consentano a tutti una vita più dignitosa.
A livello locale sono molte le strategie in atto che aiutano a fare scelte responsabili in fatto di consumi e investimenti: commercio equo e solidale, consumo critico e boicottaggio dei prodotti di certe multinazionali, imprese non profit, banche etiche, mutua autogestione, bilanci di giustizia… Senza contare le varie reti di solidarietà, iniziative di protesta, conferenze e forum per le alternative… che vengono organizzate a livello nazionale e internazionale.
È questione di viaggiare informati e non arrendersi. La sfida delle ingiustizie locali e globali è grande e difficile: oggi può sembrare utopia.
Domani sarà realtà.

DEBOTORE SARAI TU

«Ho scoperto che anch’io posso pretendere rimborsi dagli europei – ha detto un capo indigeno messicano, in occasione del 500° anniversario della “scoperta” dell’America -. Ne fa fede l’Archivio delle Indie. Foglio dopo foglio, ricevuta dopo ricevuta, risulta che solo tra il 1506 e il 1660 sono arrivate in Spagna 185 tonnellate d’oro e 16 mila d’argento.
Non ci abbassiamo a chiedere ai fratelli europei i sanguinari tassi d’interesse variabile tra il 20-30% da essi imposti ai paesi del terzo mondo. Ci limitiamo a esigere la restituzione dei materiali preziosi prestati, più il modico interesse fisso del 10% annuale, accumulato negli ultimi tre secoli.
Su questa base, applicando la formula europea dell’interesse composto, informiamo gli scopritori che ci devono 185 tonnellate d’oro e 16 mila d’argento, ambedue elevate alla potenza di 300. Come dire, un numero per la cui espressione sarebbero necessarie più di 300 cifre e il cui peso supera ampiamente quello della terra».

Italia: chiesa e governo contro il debito

I n occasione del giubileo in Italia è stata lanciata la «Campagna ecclesiale per la riduzione del debito estero ai paesi poveri». L’iniziativa si era proposta un triplice scopo: raccogliere fondi per comperare quote di debito di Zambia e Guinea Bissau verso l’Italia; sensibilizzare la comunità ecclesiale e civile, invitandola ad adottare nuovi stili di vita; pressione politica sul governo italiano perché cancelli i debiti dei paesi poveri e spinga i paesi creditori a fare altrettanto.
Iniziata con l’avvento del 1999, la Campagna è terminata con la chiusura dell’evento giubilare. Il resoconto verrà presentato in questo mese all’assemblea della Cei; ma il Comitato ha iniziato a fare i conti. Sono stati raccolti 25 miliardi di lire; la somma finale dovrebbe superare i 30 miliardi.

I l primo obiettivo, la raccolta di 100 miliardi, è lontano dalla meta fissata originariamente. Si poteva fare qualche cosa di più dicono gli organizzatori. La Campagna ha coinvolto la chiesa italiana a macchie di leopardo.
Tuttavia il bilancio complessivo è positivo. Un terzo della somma (oltre 9 miliardi) è passato attraverso la Banca Etica: un grande successo di immagine e fiducia per questa istituzione, che si propone di usare in modo trasparente e solidale i risparmi in essa depositati.
Oltre 5 milioni di persone sono state sensibilizzate sui problemi dei paesi poveri, mediante convegni, seminari, momenti di formazione: 30 mila animatori formati allo scopo, in maggioranza fuori della cerchia del mondo missionario e Ong: un importante potenziale umano per continuare, anche quando le campagne mondiali saranno concluse, l’impegno per combattere povertà e disuguaglianze, mettere in discussione i meccanismi che regolano i rapporti tra Nord e Sud.
Infine, con altri organismi, la Campagna ha esercitato un’efficace pressione politica sul governo e parlamento italiano, spronandolo a passare dalle promesse ai fatti.

I debiti complessivi dei paesi del Sud del mondo verso l’Italia ammontano a 60 mila miliardi di lire. Nel luglio 2000, governo e parlamento hanno varato una legge che prevede la rinuncia di 12 mila miliardi di lire di crediti. È lo strumento normativo più coraggioso tra quelli emanati dai paesi creditori: non si fa distinzione tra debiti antichi e nuovi; sono coinvolti 70 paesi, non solo i 41 classificati come Hipc; la cancellazione effettiva, legata a progetti di lotta alla povertà, dovrà avvenire entro tre anni; sono previsti interventi indipendentemente dagli obblighi inteazionali.
Sono già stati presi contatti con vari paesi debitori e nel gennaio scorso il governo ha annunciato la cancellazione totale dei crediti italiani per 22 tra i paesi altamente indebitati, per un ammontare di 4 mila miliardi.
Ma non è il caso di abbassare la guardia. È necessario continuare a vigilare sulla trasparenza delle modalità di future cancellazioni e, soprattutto, insistere perché nel vertice dei G8 (il prossimo si terrà a Genova in luglio) l’Italia spinga la Bm, Fmi e tutti i paesi creditori a cancellare definitivamente e in fretta tutti i debiti dei paesi poveri.

Benedetto Bellesi

Antonio Rovelli




Povertà: solidarietà e giustizia

Cari missionari,
vi sottopongo due semplici domande.
1. Ho letto che esiste un popolo di miserabili, che sopravvivono cercando granchi in acquitrini: bambini, vecchi e donne stanno tutto il giorno nel fango per trovare granchi e poi venderli con un modesto guadagno. Vivono nelle foreste dell’Amazzonia. Non è possibile aiutarli? Dato il lavoro che svolgono, cadono in malattie invalidanti, e i bambini non vanno nemmeno a scuola.
2. Poiché i silos delle regioni risicole italiane sono colmi (per cui c’è crisi), non è possibile acquistare riso a prezzo modico e inviarlo in Etiopia, Somalia, Sudan… dove le popolazioni soffrono la fame?
So che voi, missionari, vi date da fare per i poveri della terra. E io vorrei che per tutti ci fosse almeno il pane quotidiano.
I. Robbiati
Pavia

Spettabile redazione,
il mondo si evolve e l’uomo realizza il progresso come un continuum immodificabile. Ma non è ovunque così.
Tutta la storia è costellata di baratti primitivi e di scambi evoluti, ma anche di guerre e lotte fratricide per il potere, di grandi invenzioni (spesso militari), trasformate per l’uso civile sotto la regia dell’economia. Questa ha creato l’attuale abisso tra nord e sud del mondo.
Considerando positivo il progresso economico che porta benessere, si scopre però che il bene non è per tutti, perché non può e, soprattutto, non deve essere così. Io parlo di «tirannia economica».
Le nazioni, tecnologicamente avanzate, non trarrebbero beneficio dal progresso di una vasta area, denominata «terzo mondo», se non quello immediato di una manodopera affamata che lavora per un dollaro al giorno. Allo stesso tempo, è vero che nuovi mercati portano a nuovi consumi e nuova ricchezza, che però spesso si riversa in modo precipuo sugli stessi investitori.
Di fronte agli immediati aiuti in denaro ai paesi del sud del mondo (altrimenti sarebbero abbandonati a se stessi) nelle catastrofi naturali e sociali, non è inconscio il desiderio dei grandi di mantenere netta la «separazione». Nel caso contrario, cambierebbe radicalmente lo scenario internazionale, con neo nazioni militarmente instabili e… pericolose per il già delicato equilibrio sullo scacchiere mondiale.
Oggi le multinazionali preferiscono spostare una parte della produzione nei paesi a basso costo di lavoro, per essere più competitive sul mercato; ma non è nell’interesse dei rispettivi governi trasformare un’area depressa in una nuova potenza economica, proprio per le ragioni sopra enunciate.
Quali sarebbero le conseguenze per l’umanità se tutti potessero vivere secondo il modello occidentale, portatore sicuramente di grandi scoperte medico-scientifiche, ma anche centrato sul consumismo voluto, dilagante, satollo?
Ciascuno intanto con la sua auto continua ad inquinare il mondo, che è già ad un punto di non ritorno.
E continua anche il baratro fra ricchi e poveri. La prova tangibile di tale situazione sta nel mancato condono del debito estero ai paesi poveri. Si è fatto ben poco nel concreto.
Noi, che apparteniamo a quel 20 per cento dell’umanità che possiede l’80 per cento delle ricchezze della terra…
Enrico Cerutti
Borgaretto (TO)

Ci troviamo «sostanzialmente» d’accordo con entrambe le lettere. La prima solleva il problema della solidarietà: solidarietà che si impone, specie di fronte a situazioni di grave emergenza. La seconda lettera, più articolata, affronta la questione del complesso rapporto fra nord e sud del mondo: l’uno arricchito e l’altro impoverito.
Spesso si dice: all’affamato non dare solo il pesce; insegnagli invece a pescare, perché solo così non avrà più fame. Ma, se il «pesce» è disponibile solo per pochi privilegiati, che fare?… Ecco allora che la solidarietà rimanda necessariamente alla giustizia internazionale.
Quanto al dramma del debito estero del terzo mondo, si veda l’ennesimo nostro articolo a pagina 12 e seguenti.

I. Robbiati e Enrico Cerutti