Noi e Voi

Ai nostri missionari

Invio la foto della targa che è stata collocata nella Villa Pisani di Biadene (Tv), nel corridoio di entrata al teatro Binotto, in ricordo della loro scuola/seminario nell’immediato dopo guerra, su iniziativa di Fondazione Contea.

Gino Merlo
dell’associazioneAvi di Montebelluna (Tv) – 14/06/2021

Grazie per la segnalazione del bel gesto della Fondazione Contea. Anche se abbiamo lasciato Biadene, dove siamo stati dal 1949 al 1981, il cuore di molti missionari è sempre legato a quel luogo, così caro a tanti, soprattutto per l’affetto e la sintonia vissuti con la comunità locale.

Ringraziamo con due immagini: una visione del complesso della villa dove quella che era la chiesa è ora il teatro, e una foto di gruppo dei seminaristi del 1951-52.


Un dossier per agire

Problemi ambientali, soluzioni sociali

Si scrive sostenibilità, si pronuncia equità: così potrebbe essere sintetizzato il dossier infografico realizzato dal Centro nuovo modello di sviluppo in collaborazione con Riccardo Mastini, ricercatore in ecologia politica all’Università autonoma di Barcellona, e che ha per titolo Problemi ambientali, scelte sociali. Siamo abituati a pensare che la questione climatica, e più in generale la problematica ambientale, richieda solo interventi di carattere tecnologico, tutt’al più nuovi stili di vita; in realtà impone anche scelte di carattere fiscale e di spesa pubblica, perché questione ambientale e questione sociale sono intimamente intrecciate fra loro.

Degrado ambientale e tenore di vita

Per cominciare, la responsabilità del degrado ambientale è diversificata in base al tenore di vita. Basti dire che a livello mondiale il 10% della popolazione più ricca è responsabile del 49% di CO2 emessa. L’1% da solo è responsabile addirittura del 15%. Per contro, il 50% più povero contribuisce solo al 7% delle emissioni globali. Le stesse disparità le riscontriamo anche a livello di singole nazioni. Nell’Unione europea l’impronta pro capite di anidride carbonica dell’1% più ricco corrisponde a 55 tonnellate all’anno. Quella del 50% più povero è undici volte più bassa.

Nel valutare quali misure assumere per porre un freno alle emissioni di anidride carbonica, occorre considerare che nella nostra società c’è chi può decidere come vivere e chi invece lo deve subire. Chi si trova in povertà non può scegliere se vivere in centro o in periferia, se mangiare biologico o cibo spazzatura, se avere la casa coibentata o ad alta dispersione termica. Deve semplicemente adottare lo stile di vita meno dispendioso. Che non è automaticamente il meno impattante.

Povertà e ambiente

Molti poveri, ad esempio, sono costretti a vivere in periferia dove gli affitti sono generalmente più bassi, ma dove, contemporaneamente, mancano servizi essenziali (scuole, negozi, presidi medici) e trasporti pubblici. Di conseguenza l’auto si rende indispensabile con inevitabile aumento dell’impronta di carbonio. E arriviamo all’assurdo che al di sotto di certi livelli di reddito, l’impronta ambientale non è determinata dalla ricchezza, ma dal livello di povertà che non lascia possibilità di scelta come invece hanno i facoltosi.

Se sei così ricco da poterti permettere un’automobile di alta cilindrata, allora sei anche sufficientemente ricco da poterti permettere una vita senza automobile. I soldi ti permettono di scegliere il tuo stile di vita, e se finisci per condurne uno ad alto impatto ambientale, ne sei responsabile. Non altrettanto per i più poveri la cui mancanza di libertà annulla anche la responsabilità per le conseguenze che la loro vita arreca all’ambiente.

E a dimostrazione di come per i più poveri non esista una diretta correlazione fra impronta di carbonio e responsabilità, c’è il fatto che molti di loro hanno chiaro che investire in incrementi di efficienza per la propria casa, per i propri elettrodomestici e per la propria vettura può fare la differenza. Molti sanno che a parità di consumi, una famiglia che vive in una casa ben coibentata e utilizza elettrodomestici e veicoli ad alta efficienza energetica può arrivare a produrre fino a tre volte meno emissioni climalteranti rispetto a una famiglia costretta a utilizzare beni a bassa efficienza. Ma pur sapendolo non investono in innovazione perché non hanno i soldi per farlo.

Fisco che compensa

Le proteste dei gilet jaunes vanno lette in questa prospettiva. Vogliono dirci che le misure fiscali per ridurre il consumo di benzina e di elettricità si trasformano in misure contro i poveri se non sono accompagnate da maggiori servizi e da adeguati contributi alle ristrutturazioni.

Considerato il ruolo centrale giocato dalla collettività per il raggiungimento di una sostenibilità che non lasci indietro nessuno, è fondamentale garantirle tutto il denaro che serve per lo svolgimento delle proprie funzioni. Per questo il sistema fiscale assume importanza strategica, tanto più che non serve solo a raccogliere denaro per le casse pubbliche, ma anche a ristabilire equità fra cittadini e a orientare i comportamenti di famiglie e imprese affinché le loro scelte di consumo e di produzione non entrino in rotta di collisione con l’interesse generale.

Ecco perché è arrivato il tempo di porre con forza una seria riforma del fisco coerente con l’articolo 53 della Costituzione. Ossia che ogni forma di ricchezza (reddito, patrimoni, eredità) siano tassati secondo criteri di progressività e cumulo. Ricordandoci che i tre individui più ricchi d’Italia possiedono la stessa ricchezza del 10% più povero, ossia sei milioni di persone. Disuguaglianze che pesano come macigni e che paghiamo su tutti i piani: umano, sociale e ambientale.

Centro nuovo modello  di sviluppo

A proposito delle «briciole dei ricchi»

Gentile redazione,
mi è capitata tra le mani una copia del numero di giugno della vostra rivista (oserei dire nostra, perché ho appena fatto una donazione per riceverla a casa) e mi è piaciuta moltissimo.

Ho letto, ad esempio, gli articoli sul Sudafrica, e sono rimasto impressionato favorevolmente dalla lucidità e onestà intellettuale con le quali scrivete di quel paese che un pochino conosco tramite un amico sudafricano. Siete davvero in gamba! Ma tutta la rivista è davvero «ok».

In ultimo ho letto l’articolo di Francesco Gesualdi: «Le briciole dei ricchi e la giustizia sociale», alla fine della lettura ho pensato di scrivervi qualcosa nel merito. Senza la pretesa che lo pubblichiate. Vedete voi!

A proposito del capitalismo compassionevole

Nel merito: sono d’accordo su tutta la linea rispetto al «capitalismo compassionevole», al fatto che in realtà il capitalismo internazionale non vuole «lacci e lacciuoli» come si diceva anni fa quando l’amministrazione Clinton negli Usa per prima (forse) ha tolto questi lacci permettendo, di fatto, qualsiasi cosa al capitalismo internazionale, senza parlare poi dell’aggressività dei fondi sovrani cinesi, ecc.

Sono molto d’accordo sulla redistribuzione equa degli utili per una democrazia economica (e non solo) vera e inclusiva in tutto il mondo. Ho qualche perplessità sulle modalità necessarie per raggiungere l’obiettivo. Mi riferisco alla classica idea di tassare i ricchi, anche con una patrimoniale, per, appunto, redistribuire. Idea che sarebbe assolutamente condivisibile (anche qui se vivessimo ancora nel ‘900 con gli stati che da soli o quasi potevano determinare in buona parte il proprio divenire economico e sociale).

Purtroppo, non è più possibile ragionare in questi termini: tassazioni importanti e patrimoniale finirebbero soltanto per favorire la «fuga» di imprese e capitali all’estero. Paradisi fiscali compresi, anche quelli di casa nostra, nella stessa Unione europea.

Il potere delle multinazionali e dei grandi gruppi di investimento internazionali è tale che nessuno stato (tolti forse gli Usa da un lato e la Cina dall’altro che non sono realmente interessati al problema) ha il potere di condizionarli in un modo o nell’altro. Gruppi di potere quasi occulti quali il Bildenberg (occulti nel senso che nessun giornalista può o osa dire che cosa si dicono quando si riuniscono per decidere i nostri destini in base al loro interesse) di fatto condizionano le scelte politiche degli stati in un senso o nell’altro.

La globalizzazione è solo, o quasi, per i «ricchi». Noi poveri da un lato e la cosiddetta classe media (che non può scappare all’estero) dall’altro, la subiamo. Ad esempio, una nuova patrimoniale colpirebbe, alla fin fine, questi ultimi già sufficientemente vessati.

Altre soluzioni? Magari chiudere il mercato e creare una forma di autarchia europea contro la Cina. Certo (tolto un periodo di assestamento magari doloroso) non avremmo bisogno di nessuno per avere e produrre quello che ci serve e nel contempo potremmo mantenere rapporti il più possibile equi e paritari con il Terzo Mondo. Ma non credo sia possibile. Anche i nostri capitalisti o grandi imprese, per il loro interesse, vogliono la globalizzazione e vogliono i mercati aperti nei confronti della Cina (ad esempio la variante Covid Delta sta bloccando i porti cinesi e ne sentiremo le conseguenze), infatti ormai, per il guadagno di pochi, siamo legati a loro a doppio filo.

C’è anche la tassazione dei giganti del web… ma non scherziamo! Condizionano anch’essi gli stati a loro piacimento con l’aiuto degli Usa (e non solo) che fanno finta di volerli tassare.

Una soluzione forse praticabile sarebbe di trattenere in Italia (parlando di casa nostra) le imprese, abbassando la tassazione in cambio di assunzioni che compenserebbero almeno in parte le perdite dell’erario ma favorirebbero l’occupazione. Niente di nuovo, mi direte. Ma paesi come l’Irlanda, la Svizzera e molti altri hanno tratto grande benefico da scelte del genere.

Mi spiego. Se ad un’impresa (che, vivaddio, magari paga le tasse) che deve versare, ad esempio, tre milioni l’anno allo stato, si dicesse: un milione tienitelo ma devi assumere in modo che due milioni lo stato li veda rientrare con le tasse sui nuovi dipendenti? È noto che in Italia (per motivi di mentalità e di costo del lavoro) si tende ad avere meno dipendenti che in altri paesi.

Mi rendo conto che detta così si tratta di una proposta un po’ naif. Ma ci si potrebbe ragionare magari insieme ad una vera riforma della Giustizia, della Pubblica amministrazione, ecc.

Non sono un esperto. Non sono sicuramente all’altezza di chi ha scritto l’articolo. In sintesi, volevo solo dire che, a parer mio, certe ricette non funzionano più e bisogna avere il coraggio di pensarne di nuove!

A voi, pensatori ed economisti non asserviti, sta di aiutarci. A noi la presa di coscienza e la lotta non violenta ma decisa per mondo più giusto e solidale.

Grazie anche solo se qualcuno leggerà questa lettera. Avanti così con la vostra bellissima rivista!

Marcello Poggi
Genova, 14/06/2021




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

Proibire le armi nucleari

Un forte appello a Governo e Parlamento dai Presidenti e dai Responsabili nazionali di

Acli, Azione cattolica italiana, Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, Movimento dei Focolari Italia, Pax Christi, Fraternità di Comunione e Liberazione, Comunità di Sant’Egidio, Sermig, Gruppo Abele, Libera, Agesci, Fuci (Federazione universitaria cattolica italiana), Meic (Movimento ecclesiale di impegno culturale), Argomenti 2000, Rondine-Cittadella della Pace, Mcl (Movimento Cristiano Lavoratori), Federazione Nazionale Società di San Vincenzo De Paoli, Città dell’Uomo, Amici di Raoul Follerau, Associazione Teologica Italiana, Coordinamento delle Teologhe Italiane, Focsiv (Federazione Organismi Cristiani Servizio Internazionale Volontario), Centro Internazionale Hélder Câmara, Centro Italiano Femminile, Csi (Centro Sportivo Italiano), La Rosa Bianca, Masci (Movimento adulti scout cattolici italiani), Fondazione Giorgio La Pira, Fondazione Ernesto Balducci, Fondazione Don Primo Mazzolari, Fondazione Don Lorenzo Milani, Comitato per una Civiltà dell’Amore, Movimento Cattolico Mondiale per il Clima, Federazione Stampa Missionaria Italiana (a cui è associata MC), Rete Viandanti, Noi Siamo Chiesa, Beati i Costruttori di Pace, Fraternità francescana frate Jacopa, Comunità Cristiane di Base, Associazione delle Famiglie Italiane.

L’Italia ratifichi il Trattato Onu di proibizione delle armi nucleari

Il 22 gennaio 2021, al termine dei 90 giorni previsti dopo la 50esima ratifica, il «Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari» è diventato giuridicamente vincolante per tutti i Paesi che l’hanno firmato.

Questo Trattato, che era stato votato dall’Onu nel luglio 2017 da 122 Paesi, rende ora illegale, negli Stati che l’hanno sottoscritto, l’uso, lo sviluppo, i test, la produzione, la fabbricazione, l’acquisizione, il possesso, l’immagazzinamento, l’installazione o il dispiegamento di armi nucleari.

Il nostro Paese non ha né firmato il Trattato in occasione della sua adozione da parte delle Nazioni Unite, né l’ha successivamente ratificato. Tra i primi firmatari di questo Trattato vi è invece la Santa Sede.

In Italia, nelle basi di Aviano (Pordenone) e di Ghedi (Brescia), sono presenti una quarantina di ordigni nucleari (B61). E nella base di Ghedi si stanno ampliando le strutture per poter ospitare i nuovi cacciabombardieri F35, ognuno dal costo di almeno 155 milioni di euro, in grado di trasportare nuovi ordigni atomici ancora più potenti (B61-12).

Il nostro Paese si è impegnato ad acquistare 90 cacciabombardieri F35 per una spesa complessiva di oltre 14 miliardi di euro, cui vanno aggiunti i costi di manutenzione e quelli relativi alla loro operatività.

Le armi nucleari sono armi di distruzione di massa, dunque, in quanto tali, eticamente inaccettabili, come ci ha ricordato anche papa Francesco in occasione della sua visita in Giappone domenica 24 novembre 2019, a Hiroshima. «Con convinzione desidero ribadire che l’uso dell’energia atomica per fini di guerra è, oggi più che mai, un crimine, non solo contro l’uomo e la sua dignità, ma contro ogni possibilità di futuro nella nostra casa comune. L’uso dell’energia atomica per fini di guerra è immorale, come allo stesso modo è immorale il possesso delle armi atomiche, come ho già detto due anni fa. Saremo giudicati per questo. Le nuove generazioni si alzeranno come giudici della nostra disfatta se abbiamo parlato di pace ma non l’abbiamo realizzata con le nostre azioni tra i popoli della terra».

Il 22 gennaio 2021 autorevoli esponenti della Chiesa cattolica di tutto il mondo, tra i quali il cardinal Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, e mons. Giovanni Ricchiuti, arcivescovo della diocesi di Altamura-Gravina-Acquaviva delle Fonti e presidente di Pax Christi Italia, hanno sottoscritto a loro volta un appello in cui «esortano i Governi a firmare e ratificare il Trattato delle Nazioni Unite sulla proibizione delle armi nucleari», sostenendo in questo «la leadership che papa Francesco sta esercitando a favore del disarmo nucleare». Altri vescovi italiani si sono espressi pubblicamente in questa direzione e anche numerose sedi locali delle nostre associazioni e dei nostri movimenti hanno fatto altrettanto.

A tutti questi appelli, unendoci convintamente alla Campagna nazionale «Italia ripensaci», che ha registrato una vasta e forte mobilitazione su questo argomento, aggiungiamo ora il nostro e chiediamo a voce alta al Governo e al Parlamento che il nostro Paese ratifichi il Trattato Onu di Proibizione delle Armi Nucleari.

La pace non può essere raggiunta attraverso la minaccia dell’annientamento totale, bensì attraverso il dialogo e la cooperazione internazionale.

«La pandemia è ancora in pieno corso; la crisi sociale ed economica è molto pesante, specialmente per i più poveri; malgrado questo – ed è scandaloso – non cessano i conflitti armati e si rafforzano gli arsenali militari. E questo è lo scandalo di oggi».

Questa iniziativa, avviata il 25 aprile 2021, viene chiusa idealmente il 2 giugno 2021 con lo slogan «Per una Repubblica libera dalle armi nucleari».

seguono le firme dei  40 presidenti o segretari delle associazioni firmatarie e quelle di molti altri gruppi o associazioni che aderiscono
Già pubblicata il 27 maggio scorso, quando anche la Federaziane della Stampa missionaria ha aderito

 


Ricordando Abba Paulos

Paolo p Angheben

L’8 maggio scorso padre Paolo Angheben è deceduto ad Addis Abeba (Etiopia) dopo una breve e improvvisa malattia di Covid-19. Per giorni le sue condizioni sono state seguite con affetto e preghiera sia dalla gente della sua missione, Gighessa, che dai tanti amici con cui ha condiviso il suo cammino missionario e sacerdotale. Nato nel 1946 a Riva di Vallarsa (Tn), ha fatto i voti come missionario della Consolata nel 1968 alla Certosa di Pesio (Cn), ordinato sacerdote al suo paese nel 1974, è subito stato mandato in Etiopia, dove è rimasto fino alla morte eccetto i sei anni passati in Certosa di Pesio dal 1994 al 2000. I superiori avevano già pianificato il suo rientro in Italia, ma una chiamata più impellente lo ha invitato a far festa con i santi, in compagnia del beato Allamano e di tanti altri missionari che lo hanno preceduto.

L’irripetibilità di un incontro

La notizia della morte di padre Paolo Angheben mi ha profondamente addolorata per la sua grandezza come uomo, come sacerdote e come missionario che ha donato la sua vita alla popolazione dell’Etiopia, curandone tutti gli aspetti, da quello esistenziale a quello religioso e vocazionale.

Ho incontrato padre Paolo Angheben una sola volta nell’estate del 1999 alla Certosa di Pesio, ma tale incontro ha lasciato una traccia indelebile nella mia vita. Stavo trascorrendo lì alcuni giorni di riposo, invitata da padre Francesco Peyron, per ridefinire il cammino della fede e recuperare energie in vista della ripresa del mio lavoro, dedicando del tempo alla preghiera e alla meditazione, in un contesto caratterizzato da semplice e calorosa accoglienza, in compagnia di molte persone con percorsi di fede diversificati, con le sante Messe celebrate in orario preserale frequentate da tutti gli ospiti in modo attivo, con un cielo azzurro terso di giorno e stellato di notte, un paesaggio con piante verdi rigogliose e i profili delle Alpi Marittime all’orizzonte.

Fin dal primo giorno avevo notato come padre Paolo avesse incontri frequenti e accogliesse con  un largo sorriso, regalando disponibilità e sapienza. Ho scambiato con lui qualche considerazione su come la fede debba incarnarsi nella quotidianità rispondendo al desiderio di Dio che ogni uomo si salvi e si santifichi, in quanto da Lui desiderato. Abbiamo anche riflettuto sulla non linearità di tale percorso, contrastato a volte dalla individuale fragilità e a volte dagli eventi esterni. È rimasto indelebile in me il confronto con un uomo di profonda fede, consapevole della complessità di tale scelta in ogni situazione, in particolare nell’ambito missionario in cui si intrecciano la promozione umana e l’annuncio della Parola di Dio; conservo in me il dono di aver vissuto un incontro irripetibile con una persona di grande umanità, singolare eleganza e particolare dignità.

Milva Capoia
18 maggio 2021

2019-07-14 salita al Marguareis, padre Paolo Angheben

Testimonianze dall’Etiopia

Traduciamo qui alcuni commenti ricevuti dall’Etiopia nei giorni successivi all’annuncio della morte di padre Paolo.

  1. 1. «Abba Paulos, hai ricevuto da Dio il dono di essere guida spirituale; ora il Signore ti ha ripreso a stare nella sua gloria. Ora che sei alla presenza di Dio, intercedi per noi».
  2. «Abba Paulos è stato un buon esempio di sacerdote missionario. Avendo visto la sua semplicità, mi piace ricordare il versetto “lasciate che i bambini vengano a me, perché di essi è il Regno dei cieli”».
  3. «Abba Paulos, manchi tanto a tutti noi qui in Etiopia. Tu sei stato il nostro padre spirituale, il nostro punto di riferimento quando ci sentivamo aridi spiritualmente e avevamo bisogno di essere ricaricati. Sei stato un’icona di vero missionario che ha assunto la vita, la cultura, la lingua di coloro ai quali sei stato mandato. Noi sacerdoti e l’intera comunità cattolica dell’Etiopia sentiamo fortemente la tua mancanza, ma è incoraggiante e di conforto aver avuto un prete santo come te in mezzo a noi. Noi crediamo davvero che tu abbia “combattuto la buona battaglia, terminato la corsa, conservato la fede” e che riceverai la “corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, ti darà quel giorno” (cfr 2 Tim 4,7-8)».
  4. «Abba, tu sei stato per noi molto di più di quanto tu abbia creduto. Noi di Gighessa siamo frutto del tuo lavoro e della tua fatica. Tu hai fatto la tua parte fino alla fine. Rimani nei nostri cuori sempre. Riposa in pace. Rimarrai nel cuore di molte persone. Tu hai segnato il cuore, la mente e anche il lavoro di molti. Che la tua partenza ci renda ancora più determinati a continuare il tuo lavoro».

dal gruppo «Abba Paulos»

 


Nadim e Afghanistan

Gentile redazione,
l’articolo di Simona Carnino è bellissimo (MC 04/2021). I protagonisti della storia dovrebbero essere i primi in corridoi umanitari. Che cosa pensare di Civil society human rights network? Che conclusione tirare? Che ogni persona onesta e coraggiosa deve arrendersi e scappare da lì?

Il giovane Nadim ha tentato e si è arreso. Auguriamo ogni fortuna in Germania a questa famigliola. E cosa pensare dell’Afghanistan? Probabilmente che resti il peggior posto del mondo (e che da lì non esca più nessuno?).

Carlo May

Abbiamo passato l’email all’autrice dell’articolo. Ecco la sua risposta.

Gentile Carlo,
grazie per il suo messaggio e anche per la simpatia dimostrata per Nadim, Fawkia e Tamkin. Leggo sgomento e sensibilità tra le sue righe e la necessità di avere una risposta non filtrata. Per questo motivo, ho tradotto il suo messaggio in inglese e l’ho mandato a Nadim. Provo a tradurle di seguito la sua risposta.

«Ciao Carlo, grazie per il messaggio, che mi ha reso il giorno migliore. Presto l’Afghanistan vivrà tempi ancora più bui. Gli Stati Uniti sono andati in Afghanistan per i propri interessi personali e molti conflitti si sono generati proprio a causa loro. Però ora la ritirata delle truppe Usa dall’Afghanistan non genererà un miglioramento, perché si creeranno nuovi conflitti interni e a nessuno interesserà nulla.

Il Civil society human rights network continua a lavorare, ma gli attivisti rischiano la vita. Se guardi i ranking internazionali, l’Afghanistan è sempre agli ultimi posti per diritti umani, denutrizione ecc., ma è ai primi posti per corruzione. Credimi se ti dico che appena l’Afghanistan sarà un po’ più sicuro e io potrò combattere per i diritti umani, tornerò subito là».

Simona Carnino
21/05/2021


Errori

Guardando all’ultimo numero, proprio in queste pagine, trovate diversi errori, sfuggiti (questa volta come altre) nonostante l’impegno nelle correzioni. Non è grande consolazione trovarne anche in altre pubblicazioni con più personale e mezzi di noi. Diventano un invito all’umiltà e a prendere coscienza dei nostri limiti.

Vi riporto qui il testo che abbiamo su un quadretto appeso in redazione, regalo di una tipografia tanti anni fa.

«L’errore tipografico è una cosa maligna, | lo si cerca e perseguita, ma esso se la svigna. | Finché la forma è in macchina si tiene ben celato, | si nasconde negli angoli, par che trattenga il fiato. | Neppure il microscopio al scorgerlo è bastante, | prima; ma dopo esso diventa un elefante. | Il povero tipografo inorridisce e freme | e il correttor colpevole il capo abbassa e geme, | perché se pur dell’opera tutto il resto è perfetto, | si guarda con rammarico soltanto a quel difetto».

 




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

Iqbal Masih

Caro padre,
le allego il testo, rimaneggiato, che ho scritto su Iqbal Masih ed è stato pubblicato da Avvenire l’anno scorso in occasione dei 25 anni dal suo martirio (il 16 aprile 1995). Lo ripropongo a voi come stimolo al contributo della Chiesa nella mobilitazione contro lo sfruttamento del lavoro minorile in questo anno 2021 che l’Onu dedica all’eliminazione del lavoro minorile nel mondo. Grazie per l’attenzione e per la rivista: una lettura alternativa sulle criticità e speranze mondiali, apprezzata più di altre dal sottoscritto di cultura laica e di orientamento comunista. Cordiali saluti

Giovanni Seclì
Lecce, 30/04/2021

Volentieri riporto qui quanto scritto dal sig. Giovanni. La realtà del lavoro minorile – a cui abbiamo dedicato «Cooperando» del mese di aprile – è ancora una piaga aperta. Come Iqbal, altri ragazzi e ragazze di quel paese, e non solo, hanno pagato (e continuano a pagare) con la vita o la prigione, il diritto a un’infanzia senza lavoro schiavo e senza matrimoni precoci, liberi di andare a scuola per una buona educazione e di celebrare la loro fede senza paura di persecuzioni.
(Titoletti e note sono nostri).

Agnello pasquale

Nel giorno di Pasqua del 1995 veniva ucciso in Pakistan Iqbal Masih di soli 12 anni. Già era diventato testimone-simbolo mondiale (quando nel 1994 aveva ricevuto il Reebook Human rights award a Boston negli Usa, ndr) della lotta contro lo sfruttamento schiavistico di centinaia di milioni di bambini solo in Asia. La sua uccisione lo ha trasformato in martire: sia per il suo impegno sociale a favore dei bambini dall’«infanzia negata» e contro lo sfruttamento dei lavoratori, sia per il suo essere un cattolico della Chiesa caldea.

Sicuramente la sua appartenenza alal Chiesa, legata alla sua educazione familiare, professata in situazione di emarginazione socioreligiosa (la comunità cristiana è soprattutto composta da persone delle caste inferiori che fanno i lavori più umili), aveva alimentato e sorretto la sua indignazione contro le ingiustizie e la sua eroica lotta per l’emancipazione umana di bambini strumenti-schiavi della produzione. Probabilmente la sua testimonianza cristiana era stata una concausa delle dinamiche che avevano favorito l’assassinio.

In quel giorno di Pasqua di 26 anni fa (16 aprile 1995) mentre in bicicletta andava a messa – così si tramanda (putroppo non esiste una versione coerente di quanto è successo, ndr) – Iqbal è stato strappato dalla terra per risorgere nella memoria e nel cuore di miliardi di esseri umani, rigenerando in essi il messaggio universale di liberazione umana.

Schiavo a 5 anni

La sua condizione di vita sfruttata – a partire dai 5 anni in una fabbrica di mattoni, per proseguire in una di tappeti, venduto dalla famiglia indigente (per un debito di poco più di 7 dollari, ndr) – si era trasformata a 10 anni in denuncia e in testimonianza, smuovendo l’opinione pubblica internazionale e favorendo alcuni provvedimenti politici nel Pakistan (e non solo) di limitazione delle pesanti condizioni di lavoro minorile, a danno soprattutto di schiavi-bambini, secondo una prassi secolare perpetrata da proprietari di laboratori tessili di tappeti e di altri settori di lavoro ancor più duro.

Intolleranza religiosa

Il conseguente risentimento nei suoi confronti probabilmente era stato accentuato dal clima di intolleranza religiosa prevalente in Pakistan (soprattutto con l’introduzione della Sharja nel 1991) verso la minoranza cristiana, presente in particolare nella regione del Punjab; situazione purtroppo perdurante anche nel XXI sec., con il rigurgito di fondamentalismi, risposta perversa anche alla violenta ingerenza politica e militare perpetrata dall’Occidente in diverse regioni soprattutto del terzo mondo.

Testimone e martire?

Il suo martirio si inquadra all’interno di tale contesto; per questo Iqbal Masih va riproposto come testimone di giustizia, di solidarietà, di costruzione di una comunità fraterna, di attuazione del messaggio evangelico all’interno della sua nazione, dalle perduranti drammatiche criticità sociali: miseria e sfruttamento, mancanza dei diritti elementari all’istruzione e alla sanità, conflitti etnici, intolleranza religiosa a danno della minoranza cristiana – riesplosa nella persecuzione di Asia Bibi, per fortuna sottratta alla pena di morte grazie all’impegno internazionale e anche alla resipiscenza della giustizia del Pakistan.

Appello alla Chiesa

Per tali motivi, in occasione dei 25 anni (oggi 26, ndr) del martirio di Iqbal Masih, la Chiesa cattolica deve riproporne un forte e ricco ricordo, rivivificando il suo messaggio: un’onda lunga figlia di una vita breve ma senza tempo. Monito e modello insieme per un cammino di giustizia sociale, da Masih testimoniato in modo coraggioso, consapevole e insieme spontaneo e «ingenuo».

Iqbal Masih aveva compiuto ad appena dodici anni il «miracolo» di trasformare leggi e pratiche ataviche, cause del male sociale dello sfruttamento schiavistico minorile, liberando, almeno in parte, milioni di bambini da una condizione di miseria umana e materiale. Una missione di testimonianza del Vangelo, riproposto anche da lui quale strumento di conversione e di liberazione umana; un messaggio vissuto, importante e profetico non meno di quello di altri martiri, immolati per la confessione dei valori umani e cristiani.

Per la comunità cristiana del Pakistan, dalla tradizione plurisecolare e dalla presenza non esigua, seppur minoritaria, la riscoperta e la valorizzazione del messaggio di Iqbal Masih potrebbe essere uno strumento di promozione di forti valori sociali da essa testimoniati e rappresentare anche un percorso di dialogo tra fedi e culture in quella nazione e civiltà antica, nobile, ma anche lacerata.

Giovanni Seclì

Da vedere, il film: Iqbal – Bambini senza paura,
Regia: Michel Fuzellier, Babak Payami, 2015.


L’autibiografia di santa Teresa d’Avila

Carissimo Direttore,
siamo la comunità delle monache carmelitane scalze di Legnano (Mi) che riceve regolarmente la vostra rivista MC. Complimenti per i contenuti che toccano sempre realtà snobbate dagli altri organi di informazione. Ci permettiamo di segnalare la nuova traduzione della «Vita di Santa Teresa» fatta da noi e da un esperto, lavoro che ci ha viste impegnate per due anni. Siamo coscienti che il nostro non è un libro «prettamente missionario», ma Teresa «era missionaria» e questo può forse essere un requisito per pubblicizzare il libro sulla vostra rivista. Grazie e un caro saluto.

Le sorelle del Carmelo
di Legnano, 16/04/2021

Il libro è disponibile nelle librerie o si può richiedere alle Edizioni OCD, Via Vitellia, 14 – 00152 Roma

La mia vita

Una nuova traduzione dell’autobiografia di Teresa di Gesù

L’autobiografia di Teresa è probabilmente il suo libro più conosciuto, e più volte è stata tradotta, studiata, approfondita e pregata. È un libro dove l’autrice non racconta soltanto i fatti accaduti nella sua vita, ma soprattutto ci rende partecipi, in maniera sempre più coinvolgente, della sua storia di amicizia con Dio. Lo fa in modo non convenzionale, lasciando spazio senza censure ai due protagonisti: il Dio paradossalmente misericordioso che ella ha imparato a conoscere, e Teresa stessa, donna pienamente inserita nel suo contesto e spinta costantemente da un’irrefrenabile ansia di libertà e di felicità. Teresa è vivace, esuberante, appassionata; altre volte pacata, riflessiva; altre ancora preoccupata, incerta, dubbiosa. In tutto e per tutto una donna moderna che non si è sottratta al tentativo di dare un senso alla propria vita e che ha trovato questo senso nello sguardo per lei sorprendente con cui Dio, in Gesù, l’ha guardata.

L’autobiografia è il racconto complesso e avvincente di tutta questa avventura. Avventura che non è restata nel confine intimo della sua coscienza, ma che si è tradotta in azione, in un’esperienza contagiosa per molte delle persone che l’hanno incontrata… fino ai nostri giorni.

Per questo più di due anni fa abbiamo iniziato a dare concretezza ad un sogno che avevamo da molto tempo: poter tenere tra le mani una nuova traduzione della Vita di santa Teresa che fosse più fruibile dagli uomini e dalle donne di oggi, riscoprendo Teresa come era all’origine, ripulita dalle inevitabili incrostazioni che la storia aveva aggiunto.

Lettura con ascolto

Quando si legge il testo spagnolo, si ha proprio l’impressione di avere Teresa lì, presente, che sta parlando, perché la sua è una prosa fluente e discorsiva. Qualcuno a volte dice che Teresa scrive come parla. Forse è più corretto dire che parla attraverso i suoi scritti. E proprio questa prospettiva è stata la bussola che ci ha guidato nel lavoro di questi due anni. Ciò si è tradotto nel tentativo di consentire anche al lettore italiano di trasformare l’esperienza della lettura in esperienza di ascolto.

Una scelta di libertà

Sono molti gli aspetti dell’esperienza di Teresa che la rendono a noi vicina, malgrado i secoli che da lei ci separano. Teresa è stata una bambina affascinata dalle cose di Dio. È stata poi un’adolescente inquieta, che con fatica cercava il suo posto nel mondo. Giovane donna, ha deciso di entrare in monastero: una scelta fatta non solo per il desiderio di donarsi a Dio, ma anche per il desiderio di non essere schiava di un uomo, come accadeva a tutte le donne sposate della sua epoca. Ha trascorso i primi venti anni di vita in clausura logorata da un conflitto interiore che è diventato anche malattia del corpo, malattia tanto grave che a un certo punto è rimasta come morta per più giorni, tanto che le hanno preparato la tomba. Quando si è risvegliata ci ha messo anni a esercitare nuovamente il suo corpo anche ai movimenti più elementari: ella stessa ci racconta che all’inizio, per parecchi mesi, riusciva a camminare solo a gattoni.

L’incontro con Gesù

Poi, dopo anni passati in questa situazione di lento recupero, finalmente è avvenuto l’incontro nuovo con Gesù, da cui scaturisce la vita nuova di Teresa. E davvero è stata un’altra vita quella che Teresa ha vissuto da lì in poi. Non solo perché lentamente ha trovato un nuovo equilibrio interiore, un nuovo rapporto con sé stessa, con gli altri e con Dio. Quell’esperienza, infatti, si è trasformata in un modo nuovo di vivere nella storia, quella quotidiana del monastero e quella «grande» della Spagna del suo tempo.

Un progetto alternativo

Un po’ per volta ha preso forma il desiderio di fondare una comunità diversa da tutte quelle già esistenti: poche monache di clausura, che in spazi che fossero a misura d’uomo, coltivassero intensamente la amicizia con Dio e fra di loro. Potrebbe apparire poca cosa ai nostri occhi, ma letto nel contesto e nell’atmosfera di allora è stato invece un progetto altamente alternativo. Il piccolo numero è sinonimo di familiarità. La clausura è strumento di libertà, perché al di là delle grate nessun uomo comanda, e le monache possono essere le registe della loro vita.

Uno stile missionario

L’orizzonte spirituale che ha nutrito quell’esperienza era quello duplice dell’Europa di allora: da un lato c’era la lacerazione della Chiesa che stava vivendo lo scisma della Riforma luterana. Teresa ha risposto senza lanciare scomuniche, ma impegnandosi in un progetto di unità e amicizia all’interno delle mura del monastero. Dall’altro c’era lo slancio missionario della Chiesa del XVI secolo, orientato soprattutto all’America latina, con tutte le contraddizioni che ciò comportava. Teresa ne era ben consapevole e portava nel cuore le lacerazioni che quell’opera di evangelizzazione, spesso accompagnata dalla violenza della guerra, produceva nei popoli indigeni.

Dottore della Chiesa

Cinquantuno anni fa, nel 1970, papa Paolo VI conferì a Teresa il titolo di Dottore della Chiesa. Fu la prima donna a riceverlo, la prima donna, nella storia della Chiesa, alla quale fu riconosciuta ufficialmente una dottrina autorevole, meritevole di essere ascoltata da ogni cristiano e soprattutto interessante per la vita di ciascuno di noi. L’autobiografia è il primo tassello di quell’eredità che ella ci consegna. I tempi duri in cui viviamo mettono anche noi di fronte a sfide inedite che a volte ci sorprendono e forse rischiano di paralizzarci un po’. Crediamo che Teresa possa essere una buona compagna di cammino in questa incessante ricerca di senso che riguarda ogni uomo. Per questo siamo molto felici di poter contribuire con questa nuova traduzione dell’opera.

Il Carmelo di Legnano

 

Ospitiamo ben volentieri questa presentazione, anche perché santa Teresa d’Avila, con santa Teresa di Lisieux, era particolarmente cara al nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano, che l’ha proposta ai suoi missionari e missionarie come modello di vita apostolica e di santità.

Padre Francesco Pavese, nel suo libro «Scegliendo fior da fiore» (Edizioni Missioni Consolata, Torino 2014), ha raccolto le note dell’Allamano sui suoi santi preferiti. Di santaTeresa d’Avila l’Allamano sottolineava tre aspetti in particolare:
• l’amore verso Dio,
• la capacità di ricominciare («nunc coepi», ora comincio) senza scoraggiarsi mai,
• il prendere come modello di vita «san Paolo che non poteva fare a meno di aver sempre sulla bocca il nome di Gesù».




Noi e Voi: dialogo lettori e missionari

Un mondo alla rovescia

Carissimi,
grazie, con la testa e col cuore, per ogni numero della vostra rivista, e in particolare per l’articolo che nel numero di marzo illustra quanto a Trieste fa per i migranti, da anni e meritoriamente, l’Associazione «Linea d’Ombra».

Immagino siate al corrente, essendone rimbalzata l’eco a livello nazionale, della perquisizione che ha subito, insieme alla moglie, il fondatore dell’Associazione, scoprendosi così indagato in un’inchiesta per favoreggiamento, a scopo di lucro, dell’immigrazione clandestina. Verrebbe proprio da dire: il mondo alla rovescia. Un saluto fraterno.

Susanna Cassoni
Trieste, 03/03/2021

Per i Romani contro i Giudei?

Lo svolgimento del processo di Gesù come è raccontato nei vangeli non mi convince. Insomma, se oggi nella democratica Repubblica Italiana il pubblico di un processo si mette a schiamazzare e cerca di interloquire, il presidente del tribunale fa sgomberare l’aula. Figuriamoci se nello stato romano, dove le cariche giudiziarie erano associate al massimo ruolo politico, il governatore di una provincia si mette a discutere con sudditi schiamazzanti se il processato è o no colpevole e quale pena merita. Penso che il racconto risenta troppo del trasferimento a Roma della maggiore colonia cristiana, mentre Israele era stata desertificata dopo l’ultima ribellione: la morte di Gesù doveva essere imputata agli ebrei in via di sparizione e mai e poi mai ai romani troppo importanti per la diffusione del cristianesimo. Il guaio è che quel modo di raccontare è diventato la base di secoli e millenni di antisemitismo.

Claudio Bellavita
25/03/2021

Gradara castello, crocifisso

Dopo aver consultato il nostro biblista Angelo Fracchia, ecco qui alcune riflessioni su questo tema scottante.

La Giudea non era una provincia romana amministrata in modo «regolare», perché mancava un potere locale affidabile (i romani preferivano appoggiarsi a chi c’era già: ma tra i figli di Erode alcuni, come Erode Antipa in Galilea, si dimostrarono capaci, altri, come Archelao in Giudea, no, e dovette essere sostituito), non era ancora stata costituita in provincia (accadrà solo nel 135 d.C.) ed era una zona turbolenta. I procuratori, quindi, non facevano a gara per andarci, e finiva che vi venivano nominati soprattutto amministratori meno capaci, quasi mandati in castigo. A quanto si ricostruisce dagli storici antichi, Pilato non faceva eccezione, anche se era un protetto di Seiano che di fatto comandava a Roma mentre l’imperatore Traiano era ritirato a Capri.

In più la situazione era delicata: a Pasqua, racconta Giuseppe Flavio forse esagerando, gli abitanti di Gerusalemme decuplicavano, tanto che il procuratore si trasferiva lì, da Cesarea, insieme a una coorte (ca. 500 soldati).

In quella situazione non c’era il tempo per allestire un processo regolare e, tutto sommato, mandare a morte, perché la gente lo chiedeva, quello che gli sembrava un predicatore inoffensivo, poteva sembrare la scelta meno scrupolosa ma anche meno rischiosa da prendere.

Va anche notato che la ricostruzione fatta dai Vangeli si ritrova sostanzialmente anche in Giuseppe Flavio e in Tacito. Ma questo basta per dire che gli evangelisti hanno attenuato le responsabilità dei romani nella morte di Gesù e hanno dato tutta la colpa solo ai «Giudei»?

Che sulla base dei racconti evangelici si sia costruito anche l’antigiudaismo cristiano purtroppo è vero. Anche se questo, in realtà, è successo diversi secoli dopo la stesura dei Vangeli stessi. Purtroppo anche espressioni della Liturgia cattolica preconciliare rivelavano l’influsso di questa mentalità.

Ma dare la colpa agli evangelisti dell’antisemitismo non è giustificato. Non vanno dimenticati infatti due punti importanti.

      • Per i Vangeli i responsabili della morte di Gesù sono i «Giudei» sì, ma questi – ed è chiarissimo soprattutto in Giovanni – non indicano il popolo di Israele come tale, ma solo quel gruppo di élite e di potere che controllava la vita religiosa ed economica della Palestina in quel tempo. Un gruppo che, nonostante le apparenze esteriori, era fortemente immanicato con i procuratori romani. Basta ricordare la relazione quasi mafiosa tra la famiglia del sommo sacerdote Anna (che di fatto ha controllato per anni tutta la vita economica e religiosa del Tempio di Gerusalemme) e il discutibile procuratore Pilato. Non a caso i due sono caduti poi in disgrazia nello stesso anno.
      • Inoltre, l’insegnamento di Gesù ben sottolineato dai Vangeli non offre appigli per giustificare l’antisemitismo, sia perché «amare i propri nemici» è un comando ben chiaro che lui ha lasciato, sia perché lui stesso ha perdonato i suoi uccisori proprio dalla croce: «Perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34).

Nella Chiesa primitiva, nonostante le persecuzioni subite anche da parte dei Giudei, né Pietro, né Paolo né gli altri apostoli danno adito a giustificare atteggiamenti di odio contro il popolo di Israele.

Un premio da condividere

Il 14 dicembre 2020, padre Sandro Nava, missionario della Consolata, è stato invitato presso l’Ambasciata italiana di Dar es Salaam, dove l’ambasciatore gli ha consegnato un premio per essere stato nominato «Cavaliere della Stella» dal presidente della Repubblica Italiana e dal ministro degli Esteri il 9 gennaio 2020 (foto sopra).

Padre Nava è stato insignito di questo premio per l’opera svolta al Consolata Hospital di Ikonda dal 2002 al 2019: in questi 17 anni di intenso lavoro il nosocomio è stato ricostruito e ampliato, diventando uno dei migliori ospedali della Tanzania (vedi foto qui sotto).

Padre Sandro Nava sentì la chiamata missionaria dopo aver ascoltato la predicazione di un missionario della Consolata nella sua parrocchia di origine (Osnago – Lc). Così, in giovanissima età, entrò nel seminario di Bevera, continuando poi gli studi a Varallo Sesia e all’Istituto teologico di Torino. Nel 1977 fu ordinato sacerdote e l’anno successivo partì con grande entusiasmo per la Tanzania, dove, passando tra diverse missioni e incarichi, da oltre 40 anni si trova tuttora.

Dal 2002 al 2019 ha vissuto uno dei periodi più intensi e significativi della sua vita missionaria. Con l’aiuto del Signore, della Madonna Consolata, di bravi collaboratori e di numerosi benefattori, è stato possibile realizzare il «miracolo di Ikonda», una realtà che continua e che dona consolazione a molti malati che giungono all’ospedale alla ricerca di cure qualificate.

«Come dissi al ricevimento presso l’Ambasciata – ha osservato padre Sandro -, questo è un premio che non è per me, ma è per tutti coloro che hanno reso possibile il “miracolo di Ikonda”. Io sono stato solo un rappresentante. Quindi voglio cogliere l’occasione per dire che questo è il riconoscimento e un ringraziamento a tutti i benefattori e a coloro che, con le proprie competenze, hanno collaborato con generosità a realizzare l’ospedale di Ikonda».

Dall’ottobre 2020, padre Sandro Nava e la dr.ssa Manuela Buzzi, accogliendo il caloroso invito del vescovo della diocesi di Singida, mons. Edward Mapunda, hanno iniziato una nuova esperienza, sempre in Tanzania, presso il Makiungu Hospital.

Il Makiungu Hospital è nato nel lontano 1954. La zona dove sorge questa struttura è poverissima e la gente vive affidandosi ad una agricoltura di sussistenza. L’ospedale necessita di una ristrutturazione generale, sia per quanto riguarda le costruzioni, divenute ormai inadeguate e in gran parte fatiscenti, sia per quel che concerne le attrezzature e la diagnostica.

«L’augurio che mi è stato rivolto in occasione della consegna del premio e che rivolgo a tutti i benefattori – ha aggiunto padre Sandro – è che anche al Makiungu Hospital riusciamo a fare qualcosa di importante e indispensabile per questa povera gente. Non sarà facile per tante circostanze, però ai “miracoli” crediamo. Se tutti sogneremo la stessa cosa, in qualche modo riusciremo a tradurre i sogni in realtà».

Marta Magni Barzaghi
25/03/2021

 


«Nulla sostituisce il vedere di persona»

Nella comunicazione nulla può mai completamente sostituire il vedere di persona. Alcune cose si possono imparare solo facendone esperienza. Non si comunica, infatti, solo con le parole, ma con gli occhi, con il tono della voce, con i gesti. La forte attrattiva di Gesù su chi lo incontrava dipendeva dalla verità della sua predicazione, ma l’efficacia di ciò che diceva era inscindibile dal suo sguardo, dai suoi atteggiamenti e persino dai suoi silenzi. I discepoli non solamente ascoltavano le sue parole, lo guardavano parlare. Infatti, in Lui – il Logos incarnato – la Parola si è fatta Volto, il Dio invisibile si è lasciato vedere, sentire e toccare, come scrive lo stesso Giovanni (cfr 1 Gv 1,1-3). La parola è efficace solo se si «vede», solo se ti coinvolge in un’esperienza, in un dialogo. Per questo motivo il «vieni e vedi» era ed è essenziale.

Papa Francesco

Pensiamo a quanta eloquenza vuota abbonda anche nel nostro tempo, in ogni ambito della vita pubblica, nel commercio come nella politica. «Sa parlare all’infinito e non dir nulla. Le sue ragioni sono due chicchi di frumento in due staia di pula. Si deve cercare tutto il giorno per trovarli e, quando si son trovati, non valgono la pena della ricerca». [W. Shakespeare, Il mercante di Venezia, Atto I, Scena I].

Le sferzanti parole del drammaturgo inglese valgono anche per noi comunicatori cristiani. La buona novella del Vangelo si è diffusa nel mondo grazie a incontri da persona a persona, da cuore a cuore. Uomini e donne che hanno accettato lo stesso invito: «Vieni e vedi», e sono rimaste colpite da un «di più» di umanità che traspariva nello sguardo, nella parola e nei gesti di persone che testimoniavano Gesù Cristo. Tutti gli strumenti sono importanti, e quel grande comunicatore che si chiamava Paolo di Tarso si sarebbe certamente servito della posta elettronica e dei messaggi social; ma furono la sua fede, la sua speranza e la sua carità a impressionare i contemporanei che lo sentirono predicare ed ebbero la fortuna di passare del tempo con lui, di vederlo durante un’assemblea o in un colloquio individuale. Verificavano, vedendolo in azione nei luoghi dove si trovava, quanto vero e fruttuoso per la vita fosse l’annuncio di salvezza di cui era per grazia di Dio portatore. E anche laddove questo collaboratore di Dio non poteva essere incontrato in persona, il suo modo di vivere in Cristo era testimoniato dai discepoli che inviava (cfr 1 Cor 4,17).

«Nelle nostre mani ci sono i libri, nei nostri occhi i fatti», affermava sant’Agostino, esortando a riscontrare nella realtà il verificarsi delle profezie presenti nelle Sacre Scritture. Così il Vangelo riaccade oggi, ogni qual volta riceviamo la testimonianza limpida di persone la cui vita è stata cambiata dall’incontro con Gesù. Da più di duemila anni è una catena di incontri a comunicare il fascino dell’avventura cristiana. La sfida che ci attende è dunque quella di comunicare incontrando le persone dove e come sono.

Dal messaggio di papa Francesco
per la 55ª Giornata mondiale per le comunicazioni sociali.

 




Noi e Voi: dialogo lettori e missionari

Amazzonia

Cari missionari,
ritengo che quanto denunciato dall’inchiesta del Tg2 (cfr. Amazzonia: una nuova emergenza – Tg2 Dossier di sabato 16 gennaio) dovrebbe ispirare le agende politiche di tutti i paesi veramente civili e intenzionati ad affrontare la pandemia come le circostanze richiedono.

In Brasile, distruzione della foresta tropicale e mortalità da coronavirus, sono legati da un rapporto strettissimo: più l’agrobusiness criminale si espande a spese della giungla e delle comunità che da essa dipendono, più il Covid-19 ha modo di diffondersi, di radicarsi di sviluppare nuove varianti, di aumentare il suo potenziale distruttivo.

Come ha ricordato l’impresario Sidney Pollettini, una delle persone intervistate dall’équipe del Tg2, la penetrazione nell’Amazzonia continua grazie anche ai rifornimenti italiani: è dal nostro paese infatti che arrivano le macchine per la lavorazione dei tronchi tagliati: «Sono le migliori al mondo» – assicura Pollettini.

Questo, in un mondo normale, dovrebbe costituire un motivo d’orgoglio. Ma possiamo considerare normali le modalità e la velocità con le quali le foreste amazzoniche vengono sfruttate? Possiamo considerare normale il modo con cui Bolsonaro, i latifondisti, la polizia brasiliana e le squadre paramilitari trattano le minoranze indigene?

Possiamo considerare normale il tributo che il Brasile sta pagando al Covid? ffettuosi saluti

Ivo Scorfanetti
23/01/2021


Padre Giuseppe Radici

A Grumello del Monte (Bg) abbiamo ricordato con una messa il 9° anniversario di padre Giuseppe Radici (1924-2012). Grazie al parroco, don Angelo.

Padre Giuseppe, missionario della Consolata, era un amico di famiglia, concelebrò al funerale di mio padre Ezio e dedicò molto tempo alla causa dell’emigrazione orobica costituendo il Circolo dei bergamaschi di San Paolo del Brasile dove visse per oltre 60 anni.

Ogni volta che rientrava organizzavo diversi incontri ed ovunque veniva accolto con successo. Cordiali saluti,

Dott. Massimo Fabretti
Grumello del Monte, 09/02/2021

Bergamasco (orobico) genuino, padre Radici è stato inviato in Brasile subito dopo la sua ordinazione avvenuta nel 1950. Là è rimasto, servendo con grande generosità e dedizione in São Manuel, Rio do Oeste, Três de Maio e São Paulo. Significativa la sua presenza in mezzo alla comunità italiana, soprattutto di origine bergamasca. La sua avventura missionaria si è conclusa l’8 febbraio 2012.


Piccola bimba

Egregio Piergiorgio Pescali,
mi permetto di inviarle questo pensiero che mi è sgorgato alla vista dell’immagine della bimba inserita nell’articolo a pag. 49 apparso su MC 1-2 gen-feb 2021. Complimenti e auguri a tutti voi.

Volti di etnia kirghiza. Foto Piergiorgio Pescali.

«Mia piccola bimba,
da giorni, guardando la foto che ti hanno scattato,
vedo il genere umano non solo il tuo visino.

Rappresenti la vita che si vive,
il tuo sguardo esprime tutto ciò che sarai e già sei.

Cara bimba, ci osservi tutti.
Ci guardi già. Conosci, incerta, sorpresa,
ci invadi inconsapevolmente, ma già sbigottita.

Siamo noi che dobbiamo amarti.
Tu ci rimproveri, ma aspetti.

Lo esprime la luminosità del tuo sguardo,
diretto e interrogativo,
che mandi a chi ti sta difronte,
e tu ancora non conosci.

Ti voglio bene.
Possa tu essere la bambina mia e di tutti».

B. Repetti
13/02/2021


RD Congo

Egregio Direttore
sul MC 12/2020 ho letto l’ampio servizio sulla RD Congo. Sono rimasto esterrefatto della situazione catastrofica di questa grande nazione: malavita, barbarie, atrocità a tutto campo e di ogni genere, soprattutto sul corpo delle donne, sotto lo sguardo impotente delle autorità e del contingente Onu.

Voi dite che il «mondo» sta a guardare, meglio, si gira dall’altra parte. Ma ci potete dire che cosa ci può fare il cosiddetto «mondo» e quei soldati Onu che rischiano ogni giorno la vita? Cordiali saluti.

Angelo Guzzon
Cernusco Lombardone (Lecco), 28/12/2020

 

L’uccisione di Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e del loro autista Mustapha Milambo, ha finalmente costretto anche i grandi media a mettere in prima pagina la tragedia del Congo che in questi anni è costata milioni di morti.

Cosa può fare la comunità internazionale? Forse, per prima cosa, dovrebbe mettersi d’accordo per regolamentare le imprese multinazionali che ormai gestiscono il pianeta, l’economia, la salute e le risorse come se fossero loro proprietà privata senza rendere conto ad alcuno.

Poi, invece di una costosissima Monusco, investire gli stessi soldi per rafforzare e riqualificare l’esercito regolare del Congo e le istituzioni civili di quel paese.

      1. Porre sanzioni ai paesi limitrofi che guadagnano dalla situazione fuori controllo.
      2. Esigere la tracciabilità delle materie prime che vengono usate per cellulari, computer, batterie e prodotti simili, con garanzia di salari e servizi adeguati (salute, sicurezza, educazione, infrastrutture, ecc.) a chi lavora nella raccolta e produzione delle stesse materie prime, oltre al pagamento delle dovute tasse al governo del paese.
      3. E da parte nostra non cambiare i nostri gadget elettronici ad ogni nuova versione.

Ovviamente questi sono solo degli accenni. Il problema è complesso e, come viene ben espresso anche da papa Francesco nella Laudato si’ e nella Fratelli tutti, si tratta di pensare a un cambiamento radicale del nostro sistema economico e realizzare quella che è chiamata la «transizione ecologica» che richiede un nuovo stile di vita e un nuovo approccio alla gestione del nostro pianeta.

 


Complimenti a Chiara e Marco

Per Chiara Giovetti, autrice di un ottimo articolo sulla cooperazione marca Usa.

Una volta c’era a Panama una Escuela des Americas, dove si addestravano gli ufficiali degli eserciti sudamericani. La parte principale dell’addestramento consisteva nel selezionare i più fedeli per insegnar loro a far comprare dai loro eserciti, a caro prezzo, gli armamenti radiati dagli Usa e tenersi la differenza, assicurandosi così una eterna fedeltà. Ma poi la cosa si è risaputa ed è nata una diffidenza generalizzata verso gli ufficiali che avevano frequentato quella scuola, e si è tornati al sistema tradizionale di ricorrere alla massoneria, che nelle Americhe è molto diffusa e istituzionalizzata.

Per Marco Bello, autore di un bellissimo articolo sul Madagascar, che ho girato in lungo e in largo nel 1977. Eravamo in 12, tra cui parecchi medici che però non si sono accorti che una di noi si era presa la malaria, diffusissima. La cosa che mi ha più colpito è il culto degli antenati e della continuità della famiglia: in molte regioni le ragazze prima di sposarsi devono dimostrare di essere capaci di far figli.

Claudio Bellavita
14/02/2021

 


Andare contro corrente

Marzo, aprile e maggio 2020 e poi anche autunno e inverno: italiani impossibilitati a muoversi liberamente causa lockdown. Tutta la grande scienza e la grande tecnologia umana messa in ginocchio da un piccolissimo, microscopico virus. Ora è un virus a mettere in crisi il mondo intero, in futuro potrebbero essere megacomputer o catastrofi atmosferiche causate dal troppo inquinamento e dal continuo uso di armi. Viviamo un’era nella quale la potenza distruttiva nelle mani dell’uomo potrebbe cancellare qualsiasi segno di vita su questo satellite del sole. Come se non bastasse, la potenza dei supercomputer è tale da mettere sotto controllo e assoggettare un numero di persone superiore a quello di tutti gli abitanti della terra.

È necessario che la ragione e l’amore abbiano il sopravvento sulla follia e l’odio che imperversano nel mondo. Occorre che l’umanità agisca con più coscienza. L’insegnamento di Cristo è la più vera difesa della vita e della dignità umana. […]

Sa andare anche controcorrente, contro le mode sbagliate. Occorre diffondere maggiormente il lieto annuncio del Vangelo e soprattutto viverlo. Scomparirebbero immediatamente le numerose guerre e guerriglie che ancora ci sono. Anziché produrre armi micidiali si produrrebbero aratri nel senso di macchinari per il benessere, non per la morte, la natura sarebbe rispettata, non distrutta dall’inquinamento eccessivo per la troppa sete di denaro.

C’è grande necessità di diffondere e vivere il Vangelo più autentico. Il mondo e l’uomo hanno sete della Verità vera annunciata e vissuta da Cristo non di verità soggettive o di false verità. Cordiali saluti

Enrica Barbiroglio
11/02/2021

Gentile lettrice,
perdoni i tagli alla sua lunga lettera. Ho cercato di mantenere il messaggio centrale.

In questi giorni mi è capitato di leggere un testo che parlava dei rischi connessi all’uso degli algoritmi al servizio solo del profitto e di una scienza centrata su se stessa senza una vera riflessione etica, senza valutare le motivazioni, i vantaggi o le conseguenze del loro uso sulla dignità e libertà dell’uomo, di ogni uomo, specialmente dei più poveri e fragili.

Quando il Vangelo sintetizza tutta la «legge» in un’unica parola: ama il tuo prossimo, offre la chiave che sconvolge davvero ogni logica economica e politica, ogni relazione sociale, ogni relazione tra gli uomini.

È putroppo triste che abbiamo bisogno di un piccolissimo indomabile virus per tornare a pensare e agire da «uomini» fatti a immagine di Dio, l’Amore.

 


Cosa c’entar l’amore con la scienza?

L’amore è un sentimento, un’emozione che nasce dall’inconscio. Recentemente alcuni studi hanno dimostrato che l’attrazione fisica e sessuale è legata a fattori chimici, ma l’amore non è necessariamente legato al corpo e alle sue pulsioni; può essere qualcosa di astratto.

Chi ama il proprio Dio, qualunque esso sia o chiunque egli sia, non lo ha mai visto o non ha mai avuto contatti con lui. Alcune religioni disdegnano qualsiasi principio emozionale, compreso l’amore, perché è equiparato al desiderio che, una volta ottenuto, genera altri desideri in un crescendo di cupidigia senza fine lasciandoci nell’arsura dell’inappagamento. Anche quando sembriamo completamente appagati dall’amore, dovremo comunque fare i conti con un futuro che non lascia scampo alla sua perdita.

Ed è stata proprio la perdita della persona con cui ho condiviso gli anni più coinvolgenti della mia vita che mi ha indotto a colmare il vuoto emotivo creatosi cercando di trovare un’interazione scientifica con l’incomprensione della Morte.

La ricerca nel trovare un canale di comunicazione tra l’arida freddezza della solitudine e la spiegazione logica delle leggi fisiche e chimiche dell’Universo hanno prodotto questa serie di poesie che altro non sono che congetture e speranze, se vogliamo anche velleitarie, in cui affondare il proprio dolore e il proprio vuoto.

Piergiorgio Pescali

Il Mio Dio

Non mi interessa
avere soldi.
Se avessi soldi
vorrei avere potere.

Non mi interessa
avere potere.
Se avessi potere
vorrei avere stelle.

Non mi interessa
avere tutte le stelle.
Se avessi tutte le stelle,
vorrei avere l’Universo.

Non mi interessa
avere l’Universo.
Se avessi l’Universo
vorrei essere Dio.

Non voglio nulla
di tutto questo
perché possiedo già
soldi, stelle, Universo.

Te.

Piergiorgio Pescali, Versi d’amore e di scienza, Bertoni editore,
Corciano (Pg) 2020, 86 pagine, 14 euro.




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

A proposito dell’Esodo

Ho letto l’inizio dello studio di Fracchia sull’ultimo numero della rivista, e mi sono rattristata perché vedo che tende a dare una interpretazione estremamente riduttiva della storia dell’Esodo. Ho letto due libri del prof. Anati ritrovando diverse convergenze con il testo biblico. Oltre a quelle esposte nell’articolo che allego, rilevo che, mentre Mosè era a Madian, Dio lo invia in Egitto dicendogli: «Quando avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, voi verrete qui ad adorarmi su questo monte». Quando Mosè torna, trova suo suocero, che certo non era andato in giro per la penisola del Sinai. Quindi Madian. Ma non mi dilungo.

Mi dispiace soltanto che queste scoperte non vengano prese sul serio. Solo l’associazione Biblia, portando i suoi iscritti sia al Sinai, sia ad Har Karkom, ha dimostrato di aver dato importanza a questa diversa storia. Tra i partecipanti c’erano professori della Facoltà valdese di teologia (Soggin per esempio, se ricordo bene) e mio fratello, che erano rimasti molto colpiti dalla maestà di questo monte e dai reperti archeologici.

Retrodatare l’evento è un problema? Ma quante vicende umane sono state retrodatate!

Itala Ricaldone
Genova,  28/01/2021

Gent.ma signora Ricaldone,
intanto la ringrazio per la cortese e informata reazione al mio articolo. Ogni osservazione non superficiale e costruttivamente critica, come la sua, arricchisce e aiuta a chiarire o anche a ripensare le proprie espressioni.

La bibliografia e le ipotesi di spiegazione su Mosè e sul Sinai sono sterminate. Tra quelle è opportuno muoversi senza perdere d’occhio dove si vuole andare.

Lo scopo dei miei articoli sulla nostra rivista è di aiutare (e magari stuzzicare) ad affrontare di nuovo la lettura di testi biblici, scoprendoli nutrienti per la nostra fede di donne e uomini contemporanei. Per questo, tra l’altro, non si offre una bibliografia e non si giustificano le affermazioni, se non solo sul testo biblico: il mio studio alle spalle deve restare nascosto, perché l’approfondimento «accademico» non è il nostro interesse primario.

Al riguardo, le ipotesi di spiegazione archeologica della vicenda dell’Esodo sono affascinanti ma potrebbero fuorviare la nostra attenzione. Ancora oggi c’è chi contesta l’affidabilità storica della Bibbia per rifiutarne il messaggio, e chi invece crede che dimostrandone la verità storica anche il contenuto spirituale si imporrebbe come vincolante. Per questo ho accettato l’idea (ammessa e non concessa) che la vicenda dell’Esodo possa ormai contenere pochi dati affidabili, per mostrare come continui a mantenere un valore spirituale ed esistenziale prezioso. Ed è questo a interessarci, qui. Non vorrebbe essere riduzionismo, ma una scelta: privilegiare la lettura spirituale del testo su quella storico esegetica.

Grazie, in ogni caso.

Angelo Fracchia
28/01/2021

2019, marzo. Nella sua casa presso il Maria Mfariji shrine di Marsabit.

Mons. Ambrogio Ravasi

Rev.mo Padre,
ricevo da sempre la bella e ineguagliabile rivista e nell’ultimo numero ho letto con vera gioia il ritratto di mons. Ambrogio Ravasi, grande figura di missionario, servitore zelante e instancabile del Vangelo e della Chiesa. Ammirevole anche la figura di padre Gottardo Pasqualetti.

Mons. Ravasi appartiene alla schiera ormai abbastanza nutrita dei vescovi missionari della Consolata che a partire dai fratelli Perlo hanno dato lustro all’Istituto in qualunque angolo della «vigna» furono inviati, spesso da pionieri. Conservo una vecchia foto del gruppo di vescovi Imc sul sagrato di san Pietro ove si trovavano come partecipanti al Concilio.

Dalla mia raccolta di necrologi ho potuto conoscere tante di queste figure veramente affascinanti che hanno operato per impiantare avamposti della Chiesa senza mezzi, partendo dal nulla assoluto o incrementandone la presenza in zone e in tempi difficili.

Siete partiti bene col nuovo anno e spero possiate ricordarne altri di missionari chiamati al servizio episcopale in ogni continente e chi sa se un giorno non ne nasca una raccolta in volume. Nel mio piccolo penso che lo meritino assolutamente.

La ringrazio con i più deferenti saluti.

Luigi Bisignano
Lonato (Bs), 28/01/2021

 

Padre Antonio Giannelli

Sono passati 20 anni (23/01/2001 – 23/01/2021) da quando padre Antonio Giannelli Imc ha raggiunto la Casa del Padre, lasciando in tutti noi e a tutti quelli che l’hanno conosciuto un profondo vuoto. Quanti ricordi ci legano a lui, ma soprattutto nel ricordo di quello che ha saputo insegnarci, donandoci con la sua fede incrollabi!e e la sua voglia di vivere, la sua battaglia fino alla fine contro la malattia che aveva debilitato il suo fisico, ma non la sua voglia di aiutare tutti e insegnarci che la fede è la cosa più importante, quella che ci porta ad essere migliori.

Nel suo Kenya che ha vissuto per quasi quaranta anni nelle varie missioni (Rocho – Fort Hall – Gekondi – Kiangoni – Gaturi – Kerugoya – lchagaki – Tetu) padre Antonio ha saputo trasmettere, oltre le sua fede incrollabile, l’amore per gli altri, donando anche costruzioni per anziani, laboratori di sartoria, nuove chiese, fino a raggiungere una sperduta cappella, che poi diventerà la sua ultima dimora, Wamagana.

Ancora oggi laggiù se si parla di padre Antonio, hanno un ricordo vivo e tangibile. La costruzione della chiesa, dedicata alla Madonna della Cultura di Parabita, sua città natale, ma soprattutto dell’istituto da lui fondato e costruito in aiuto ai ragazzi portatori di handicap, l’Allamano special school. Dal 1996 in quell’istituto vengono accolti tutti i ragazzi in difficoltà sia fisica che psichica, ai quali viene offerto sia un aiuto completo, sia morale che materiale. Che dire di padre Antonio, uomo, ma soprattutto missionario con la «M» maiuscola che ha saputo infondere nei nostri cuori quelle cose che per lui erano indispensabili, fede, amore e carità?

Da parte nostra, oltre a continuare a ricordarlo, siamo riusciti – grazie all’aiuto di tanti amici e dei suoi parenti sempre presenti a mantenere vivo l’istituto. Speriamo, nonostante la pandemia che ci ha colpito, di riuscire a far sì che l’Allamano special school, continui a vivere per lui e per i suoi ragazzi. Tante cose sono state fatte, il pozzo, la lavanderia, l’infermeria, i dormitori, il pulmimo e tante altre cose, ma speriamo che con l’aiuto di tutti gli amici e tutte le persone che vivono ancora nel suo ricordo, possiamo continuare a far sì che l’istituto continui a esistere.

Fulvia Cattò e amici tutti
21/01/2021


Reddito universale

Buongiorno,
insieme al reddito di cittadinanza, già sperimentato in Italia da tempo, si parla (anche il Papa) di reddito universale. La pandemia aggraverà le disuguaglianze economiche, già aumentate nel nuovo millennio. Più aumenta la concentrazione della ricchezza, più peggiora «l’indice di disumanità» del pianeta. Per semplificare penso a un reddito minimo per ogni persona, da quando nasce sino alla morte, ricco o povero che sia, compensato da un sistema di prelievo fiscale fortemente progressivo. Sarebbe interessante un’opinione sulla vostra rivista a cura di Francesco Gesualdi che cura con grande passione e ricchezza intellettuale la rubrica «E la chiamano economia». Grazie per l’attenzione.

Claudio Solavagione,
08/01/2021

Ecco la pronta risposta di Francesco Gesualdi.

Il tema del reddito universale di base è tanto giusto in termini teorici, quanto complesso nella sua applicazione. La complessità deriva dal fatto che non si tratta semplicemente di garantire a tutti un ammontare di denaro, ma di assicurare che dietro a quel denaro ci sia della merce da poter comprare. Possibilità che si realizza solo se coloro che sono inseriti nella produzione mercantile accettano di rinunciare a una parte di ciò che producono in modo da accantonare la ricchezza che serve per assicurare a tutti un reddito di base. Che, tradotto, significa disponibilità a pagare tasse molto più alte di quelle pagate oggi. Perché al fondo, il reddito universale di base è una grande operazione di ridistribuzione della ricchezza mercantile prodotta: chi la produce accetta di condividerla anche con chi non la produce. Se questa disponibilità c’è, allora il reddito universale di base è possibile, altrimenti rimane un miraggio.

Per quanto ne so, al momento il reddito universale di base non esiste in nessun paese, evidentemente perché in nessuna nazione esiste una comunità con un senso di giustizia tanto elevato. E se è difficile introdurlo nelle singole nazioni, a maggior ragione è difficile prevederlo a livello planetario. Servirebbe un grande patto di solidarietà internazionale per il quale i paesi più ricchi accettano di dedicare alla cooperazione internazionale molto più dell’esiguo 0,15-0,30% del Pil che molti paesi industrializzati destinano oggi.

Ciò non di meno, in occasione del Covid, da più parti è stato auspicato che anche nei paesi più poveri venissero introdotte delle misure di protezione sociale a tutela delle fasce più fragili. Esattamente come è successo nei paesi a ricchezza avanzata che complessivamente dal marzo al dicembre 2020 hanno speso   513 miliardi di dollari in protezione sociale. I paesi più poveri ne hanno spesi solo 77, pur ospitando l’85% della popolazione mondiale. Naturalmente sarebbe servito molto di più per una protezione allargata. Al riguardo l’Undp, l’Agenzia per lo sviluppo delle Nazioni Unite, ha fatto varie simulazioni giungendo a cifre molto diverse a seconda della platea di persone che si prendono in considerazione e dal livello di reddito che si vuole garantire. La previsione minimale, quella tesa a garantire a un miliardo di poveri assoluti almeno un dollaro e 90 centesimi al giorno riconosciuto come limite della povertà assoluta, costerebbe un paio di miliardi di dollari al giorno ossia 720 miliardi in un anno.  Quella massimale, tendente a garantire a 2,7 miliardi di persone (il 44% della popolazione del Sud) la cifra di 5,5 dollari al giorno ritenuta necessaria per una vita minimamente dignitosa, costerebbe 15 miliardi al giorno, ossia 5.400 miliardi in un anno. Cifra importante, dal momento che rappresenta il 6,5% del prodotto lordo mondiale, ma non impossibile da raggranellare.

Si potrebbe cominciare esonerando i paesi del Sud dal pagamento del servizio del debito che nel 2020 è stato pari a 320 miliardi di dollari. Ma in questo campo il massimo che i paesi ricchi hanno accettato di fare è stata la sospensione del servizio del debito per i paesi più poveri finché la pandemia non sarà passata. Qualcosa come 30 miliardi di dollari per gli anni 2020-2021, che è meglio che niente. Ma considerato che si tratta solo di un rinvio e non di una cancellazione, non ci porta molto lontano.

Matteo p Pettinari con la mamma in mezzo a bambini

Mamma missionaria

Il 23 gennaio scorso, lo stesso in cui 25 anni prima i missionari della Consolata iniziavano l’avventura missionaria in Costa d’Avorio, Roberta Mazzanti, mamma di padre Matteo Pettinari, ci ha lasciati. «Come abbiamo cantato con lei poche ore prima che partisse per il Paradiso, la sua vita è tata per noi e per tutti quelli che l’hanno conosciuta “dono di Lui e del suo immenso amore”».

Mamma Roberta (nella foto con padre Matteo a Dianra) è stata missionaria fino in fondo con il figlio missionario. Con padre Matteo ringraziamo il Signore per il dono che lei è stata per tutti noi.




Noi e Voi: dialogo lettori e missionari

L’ospedale di Ikonda, centro di speranza

Sono una consacrata laica di Cagliari e mi trovo in Tanzania per una esperienza missionaria di due mesi per la realizzazione di un progetto di sostegno ad un orfanotrofio nella regione di Mbeya, grazie all’aiuto di tanti amici. Durante la permanenza nel paese ho avuto il piacere di dedicare una settimana all’incontro ed al servizio nell’ospedale di Ikonda, nella regione di Njombe, gestito dai Missionari della Consolata. Ho conosciuto l’ospedale l’anno scorso, quando avevo accompagnato la sorella di una suora, mia amica tanzaniana, a fare degli esami diagnostici. Ricordo la sua riluttanza: pareva una spesa troppo grande per lei, che si era sempre sacrificata per i figli ed i nipoti. Anche se il suo villaggio nella cartina geografica non sembra distante, mancando le strade dirette, occorreva prima andare nella città e poi prendere il mezzo per Ikonda: questo aveva significato prendere tre bus e viaggiare circa 14 ore, cioè dal mattino presto fino alla sera tarda. L’indomani sul presto aveva incontrato il medico che le aveva prescritto gli esami di base e quelli specialistici. Durante il giorno aveva potuto fare tutti gli esami, avere i referti, ricevere le ricette con la cura necessaria e comprare le medicine. Dunque eravamo potute ripartire all’alba dell’indomani. Ero rimasta colpita dall’ottima organizzazione e così quest’anno ho desiderato conoscere meglio la realtà della missione di Ikonda ed i missionari della Consolata: i padri Marco Turra, William Mkalula, Luis Zubia e Riccardo Rota Graziosi (francescano). L’accoglienza è stata molto buona. Ho potuto dare il mio piccolo contributo nella farmacia, organizzando il materiale per le medicazioni. È stato importante per me essere utile, nonostante parli solo un kidogo (poco) swahili.

L’ospedale di Ikonda ha circa 450 posti letto, ma non sono sempre pieni. Mediamente ne vengono occupati tra i 350 e i 400. Ogni giorno arrivano circa 250 persone per le visite ambulatoriali (con strumenti per la risonanza magnetica, la Tac, etc.), mentre il lunedì e il martedì le presenze sono circa 400.

Nell’aprile e maggio 2020 ci sono stati vari contagi del Covid-19 e sono decedute due persone, una delle quali era proprio un’infermiera della struttura, ancora debole per aver partorito qualche giorno prima. Poi la fase dei contagi è diminuita fino a cessare. Come è successo in tutto il paese. La sala di rianimazione ha solo cinque posti letto e un’emergenza con grandi numeri non sarebbe stata possibile da gestire.

Ho apprezzato che all’inizio della giornata ci sia un incontro tra i missionari e tutto il personale medico per condividere i casi più importanti e le scelte da assumere. Mentre la messa viene celebrata la sera. Ed anche se le attività ed i bisogni continuano ad essere tanti, in quell’ora la priorità dei missionari, e dei loro collaboratori – tra cui suore e catechisti -, è la preghiera a Dio, Medico delle anime e dei corpi.

Per quanto riguarda le attività mediche, rimane la domanda, dato che il contesto di vita della maggioranza della popolazione è molto povero, sul come dare continuità alle cure più impegnative. Ad esempio, nei giorni della mia visita, un’adolescente è stata ricoverata d’urgenza per un coma diabetico. Tornata a casa dopo la fase d’urgenza, come potrà continuare le cure? L’insulina ha bisogno di temperature basse per essere conservata ma probabilmente nella sua casa non c’è un frigo. L’anno scorso invece mi aveva colpito il caso di una bambina tracheotomizzata d’urgenza: come avrebbe fatto tornando nella sua capanna e respirando la polvere della strada? La domanda si può estendere alle cure più impegnative e continuative, dato che c’è la proposta di organizzare un nuovo reparto di dialisi. Le persone potranno recarsi nella sede dell’ospedale frequentemente (tre volte alla settimana) come richiede la cura?

Questi ed altri quesiti rimangono. Ma non devono oscurare il tanto bene che già si compie e la speranza concreta che viene data a tante persone grazie ad una precisa diagnosi e cura. La Tanzania è un paese ricco di risorse; eppure, la mortalità infantile e giovanile è ancora molto alta. Il nostro auspicio è che si realizzi l’esortazione alla fraternità universale di papa Francesco, ricordando che «ogni essere umano ha diritto a vivere con dignità e a svilupparsi integralmente» (Fratelli tutti, n° 107).

Giada Melis
da Ikonda, 20/11/2020

Da dove è proibito ammalarsi

Mons. Pante a Wamba Covid-19

Cari amici,
saluti dal Kenya. [… Il] 2020 ci ha portato una pessima sorpresa, che nessuno si sognava, il Covid-19. Non si tratta della prima pandemia su questa terra. Già una mia nonna nel 1918 morì di febbre spagnola, una epidemia che uccise 50 milioni di vite umane. Forse il Signore permette che la natura abbassi la nostra superbia e ci insegni un po’ di umiltà e di solidarietà: ci salveremo solo se ci prendiamo cura gli uni degli altri. Pure qui in Africa, in Kenya, stiamo tremando, anche se meno che da voi in Italia. Abbiamo chiuso scuole e chiese per precauzione. I bambini che voi aiutate e sponsorizzate sono rimasti a casa con i genitori: hanno perso qualche chilo di peso, hanno perso un anno di scuola, qualcuno ha anche iniziato a rubacchiare per mangiare, qualche ragazza è anche rimasta incinta. Poi la disoccupazione è aumentata ovunque. Qui è severamente proibito ammalarsi, pena andare in fretta in paradiso. È meglio morire di fame o di Covid? Come Chiesa stiamo cercando di stringere la cinghia e dare una mano ai più poveri. In questi giorni spendiamo anche i pochi soldi rimasti per allargare le nostre scuole, creando più spazi, affinché quando riapriremo ci siano le distanze richieste come vuole il governo. Poco fa (inizio dicembre 2020, ndr) alcune scuole hanno riaperto le porte, ma solo per le classi che si preparano agli esami. Anche le chiese hanno riaperto, ma con tante precauzioni. Da noi dove non arrivano le medicine arriva la fede che qui è ancora forte, per fortuna. Però predichiamo che non basta la preghiera, occorre anche seguire le regole della salute: distanze, mascherine, acqua (…anche se non ci basta per bere!).

Carissimi, grazie sempre per la vostra amicizia e il vostro aiuto. Siamo tutti sulla stessa barca in balia della tempesta, ma non ci lasciamo prendere dal panico perché Lui è con noi, anche se sembra dormire. Diamoci una mano, siamo «fratelli tutti», come ci dice papa Francesco, e così vinceremo anche la seconda pandemia, quella dell’egoismo.

Un abbraccio, sempre con la mascherina.

+ Virgilio Pante
Maralal, Kenya, 20/11/2020


Non tutte le parabole sono di Gesù?

Il n. 18 di «Una Chiesa in uscita», in MC di ottobre 2020, è bello, argomentato, affascinante, ma un paio di affermazioni, categoriche, senza se e senza ma, mi lasciano perplesso e suscitano alcuni interrogativi.

«Oggi ci è chiaro che non tutte le parabole riportate nei Vangeli sono state dette originariamente da Gesù». Quali sono le prove incontrovertibili che permettono di fare una affermazione così categorica? Quali sono le parabole di cui si parla?

Perché non si usa una frase del tipo: «Fra gli studiosi è largamente condivisa l’ipotesi che alcune parabole non possono essere state dette da Gesù»? Ipotesi e non certezza, comunque teoria.

Come è possibile che le prime comunità, e parlo di quelle che hanno partecipato alla testimonianza diretta degli Apostoli o dei primi loro discepoli, non si siano accorte di queste aggiunte? O, pur accorgendosi, le abbiano accettate?

Mi si dirà che un esempio di manipolazione sono i Vangeli apocrifi, ma mi è stato detto che la Chiesa primordiale li ha vagliati e scartati!

La lettura del Vangelo viene accompagnata dalla frase «Parola di Dio»: possiamo pensare che la frase, «in quel tempo Gesù disse la seguente parabola», non sia vera? Ne ho parlato con un sacerdote: mi ha dato una spiegazione abbastanza contorta, che mi ricordava le spiegazioni che venivano date per dimostrare che la terra era al centro di tutto il creato.

È vero che nei Vangeli ci sono delle contraddizioni, dovute con grande probabilità al fatto che i testimoni, o chi per loro, si erano dimenticati. Ma l’aggiunta è una cosa arbitraria, che rende poco credibile il tutto. O mi sbaglio? Quante potrebbero essere le parabole che non sono mai state trasmesse?

«La comunione con Dio passa da Gesù … ci sono pratiche religiose che implicitamente lo contestano, tali pratiche sono da evitare». Di che pratiche si tratta?

E se il signor Angelo prende in considerazione quanto ho scritto, spero che non mi risponda dicendomi di consultare questo o quel libro. Distinti saluti

Mario Rondina
16/11/2020

 

Gent.mo Mario Rondina,
intanto, e a prescindere, grazie per le domande: perché sono segno di attenzione e coinvolgimento, e perché esprimono problemi veri.

1) Parole di Gesù, sì o no.

Nel nostro mondo contemporaneo posso mettere in bocca a qualcuno (tra virgolette) solo ciò che ha effettivamente detto. Anche a costo di non restituire lo sfondo: magari si trattava chiaramente di una battuta, ma comunque, se le parole sono state dette e io le riporto tra virgolette, non sono ritenuto bugiardo.

Il mondo antico era meno attento alla precisione dei particolari e insieme guardava più al contesto generale. Se nel riportare un pensiero altrui veniva in mente un esempio nuovo, lo si poteva aggiungere senza essere considerati bugiardi.

È ciò che succede nei Vangeli, che almeno in alcuni casi non riportano le parole precise di Gesù, ma il contenuto del suo messaggio, anche se a volte con parole non sue. Come lo sappiamo? Mai in modo assolutamente sicuro, ma spesso con fortissima probabilità, anche se, nel giro breve di un articolo, a volte la «fortissima probabilità» diventa «certezza», per semplificazione. Capita infatti che nei Vangeli ci siano giochi di parole possibili solo in greco (e Gesù di certo parlava aramaico), o ci sia la risposta a un problema che al tempo di Gesù non c’era ancora, o un modo di ragionare poco ebraico. Quante siano quelle «aggiunte» dipende da dove mettiamo il confine di quella «probabilità».

Dunque, i Vangeli sono inaffidabili? Se fossero stati scritti oggi, sì; ma sono prodotti del passato, e, secondo i criteri storiografici di allora, erano precisi e credibili. Gli apocrifi, come giustamente annota, non lo erano, e non sono stati inseriti nel canone. I nostri quattro ci ripropongono non sempre le parole di Gesù, ma sempre il suo pensiero.

2) Pratiche che contestano la centralità di Gesù.

In quanto alle pratiche che contestano la centralità di Gesù, per Paolo erano la circoncisione e il rispetto della legge mosaica. Se si diceva che per diventare cristiani queste erano necessarie, si sottintendeva, pur senza dirlo esplicitamente, che la fede in Gesù non era sufficiente.

Oggi può capitare che diversi gruppi di credenti si accusino reciprocamente di infedeltà alla fede, di «modernismo» o «tradizionalismo», sottintendendo che così non si sia più cristiani.

Paolo, probabilmente, ci risponderebbe che se qualche pratica diventa più importante della fede in Gesù (e non un modo di esprimerla) è pericolosa. Ma non vorrei, ora, essere io a mettere troppe parole in bocca a Paolo: non ho l’autorevolezza e la bravura degli evangelisti.

Angelo Fracchia
24/11/2020

 




Noi e Voi

Mwereria

Carissimo, se ben ricorda, verso l’inizio dell’anno 2020,
abbiamo avuto un incontro con il padre superiore generale. Tra le altre cose ci ha fatto un appello perché qualcuno di noi «ricordasse» in modo particolare qualche bella figura di missionario defunto.

Mi son permesso di rispondere a questo appello. Questo libretto ne è il frutto. Pregate per me,

padre Giuseppe Quattrocchio
Torino, 30/10/2020

Riceviamo con riconoscenza questo libro dall’intramontabile padre Giuseppe Quattrocchio che dopo tanti anni passati in Kenya ha ancora il cuore tra i monti e le valli del Njombene in Meru.

Il libro racconta di padre Franco Soldati, detto Mwereria, che ha passato 53 anni della sua vita tra gli Ameru. E parlando di Mwereria non può non ricordare Mukiri, il silenzioso fratel Giuseppe Argese che ha dato acqua agli assetati di quella regione. Potete richiedere il libro (offerta libera) contattando il nostro ufficio spedizioni. Grazie.

Top 200 edizione 2020

In un mondo dove c’è una vera e propria ossessione per la rilevazione dei dati, c’è invece un ambito dove i dati scarseggiano. È quello delle multinazionali che finisce per essere addirittura avvolto in un’aura di mistero. Perfino sulla loro definizione non c’è accordo preciso, il che spiega perché esistano stime le più varie perfino sul loro numero.

In questo contesto, assume particolare importanza lo sforzo del «Centro nuovo modello di sviluppo» di monitorare le prime 200 multinazionali, corredandole di una serie di articoli di approfondimento che ogni anno danno luogo a un dossier intitolato Top 200.

Essendo un’attività che si protrae ormai da una diecina di anni, sono possibili anche confronti che permettono di seguire l’evoluzione delle top 200. Tendenzialmente si nota una loro crescita su tutti i fronti, ma fatturati e profitti crescono più di quanto non crescano gli occupati. Più precisamente, fra il 2005 e il 2019 il loro fatturato complessivo è aumentato del 69% e i profitti del 62%, mentre l’occupazione solo del 35%.

Un dato che conferma un assetto produttivo in rapida trasformazione. Infatti, mentre un tempo le imprese tendevano a integrarsi verticalmente, in modo da controllare tutte le fasi della produzione, oggi preferiscono appaltare il più possibile all’esterno, possibilmente in paesi con bassi salari, per ridurre i loro costi di produzione.

Un altro dato di rilievo è come stia cambiando la nazionalità delle top 200. La novità principale è rappresentata dall’avanzata della Cina che da 19 multinazionali nel 2009, è passata a 50 nel 2019, e non a detrimento degli Stati Uniti, che anzi avanzano anch’essi passando da 59 a 60, ma degli stati europei.

Di particolare interesse anche la composizione delle principali economie mondiali mettendo insieme multinazionali e stati, le prime per il loro fatturato e le seconde per il Pil. Il risultato è che fra i primi cento posti siedono 42 multinazionali, precisando che la prima compare al 25° posto, prima del Venezuela. La situazione cambia radicalmente se anziché in base al Prodotto interno lordo, gli stati sono elencati in base agli introiti governativi. Rappresentazione più reale perché basata su criteri più omogenei. Osservando questi dati, fra i primi cento posti siedono 69 multinazionali, con la prima multinazionale che compare al 13° posto, prima dell’Australia.

Il dossier, scaricabile dal sito www.cnms.it, è formato da due parti. La prima dedicata a considerazioni e classifiche sulle top 200, la seconda ad approfondimenti su tematiche di particolare importanza per il tempo che stiamo vivendo: gli assetti proprietari delle imprese quotate in borsa, le imprese della carne, gli effetti del lockdown sul mondo del lavoro e i diversi settori produttivi, i profitti non tassati, il crescente divario fra gli stipendi degli alti dirigenti e gli altri lavoratori.

Dal 1978 al 2019, la paga dei dirigenti delle grandi imprese americane è cresciuta del 1.167%. Per contro nello stesso periodo la paga di un lavoratore medio è cresciuta solo del 13,7%. Nel 2019 il rapporto fra la paga di un grande dirigente e quella di un lavoratore medio è stato 320 a 1. Nel 1965 il rapporto era 21 a 1. Poi ci si sorprende per la crescita delle disuguaglianze.

Francesco Gesualdi
www.cnms.it

Laura Bauducco insegnante e missionaria

Caro padre Gigi,
martedì 6 ottobre 2020, nella parrocchia Regina delle Missioni,  è stata ricordata con una santa messa la collega Laura Bauducco, deceduta nel mese di luglio, attiva collaboratrice dei missionari della Consolata.

Le mie modeste parole solo in parte riescono non tanto a tratteggiarla quanto ad onorarla per quanto si è spesa, prima del pensionamento, a favore di una attenta e rinnovata didattica nella scuola dell’infanzia.

È stata per molti anni, infatti, una dirigente di circolo didattico con la responsabilità del funzionamento di diverse scuole dell’infanzia in un territorio, quello delle Vallette, che si era costituito negli anni Sessanta a Torino. Probabilmente pochi sanno che gli edifici di due di tali scuole erano stati progettati da un architetto che aveva tenuto presenti, tra gli altri, due criteri importanti: la scuola doveva avere le caratteristiche di una casa con la presenza di un caminetto vero nelle classi e doveva essere, per la Città di Torino, un valore destinato ad accrescersi nel tempo sia dal punto di vista sociale e pedagogico e sia dal punto di vista economico; esse erano state dotate quindi di tre opere d’arte ciascuna, quadri e opere scultoree di autori importanti.

Laura Bauducco ha sicuramente contribuito all’incremento del capitale relativo alla didattica, avendo ideato, in collaborazione con il direttore dei servizi educativi del comune, dottor Walter Ferrarotti, la «vicenda organico-unitaria», una strategia di apprendimento interessante per i bambini e le insegnanti, per superare i modelli tradizionali ripetitivi e spesso lontani dalla realtà. I bambini diventavano artisti del circo, atleti di una manifestazione sportiva, venditori di un mercato, interpreti di uno spettacolo teatrale, assumendo i ruoli propri di tali contesti non per far finta, ma per vivere in modo giocoso ed autentico tali ed altre realtà del mondo.

Laura Bauducco ha sollecitato ed accompagnato tantissime insegnanti a rinnovare con passione ed entusiasmo il loro modo di insegnare, realizzando con i bambini delle storie indimenticabili, soprattutto per le emozioni forti vissute e per le motivazioni così profonde da indurli ad affrontare anche fatiche e sforzi per imparare. Tali insegnanti erano diventate così competenti e operose che il dottor Ferrarotti affermava che, quando all’improvviso arrivavano in visita a Torino delle insegnanti da altre parti d’Italia e del mondo, non poteva non mandarle nelle scuole di Laura Bauducco sia per l’originalità della metodologia che per la capacità delle insegnanti di organizzarsi, insieme ai bambini, in breve tempo, per l’accoglienza e l’ospitalità al fine di offrire spunti pedagogici e didattici.

Ella ha saputo essere un dirigente responsabile che aveva a cuore i bambini con le loro famiglie e tutto il personale, un dirigente autorevole in quanto capace di sostenere ed indurre dei progressi nelle insegnanti in modo amorevole, un dirigente competente in quanto impegnato nella ricerca e nell’innovazione, una cittadina attiva, brillate e gioiosa, capace cioè, di trasmettere passione per il lavoro in cui era coinvolta e per la vita, tanto da prodigarsi, anche dopo il pensionamento, per le necessità dei missionari.

Milva Capoia
Collegno, 08/10/2020

Accolto dalla Beata Irene

Padre Gottardo Pasqualetti il 20 ottobre scorso è andato in Cielo. Sono convinta che la Beata Irene lo abbia accolto sulla porta, a braccia aperte.

23/05/2015 Nyeri, Kenya, padre Pasqualetti alla beatificazione di suor Irene

Padre Gottardo è stato per noi missionarie della Consolata un fraterno compagno di viaggio. Ha accompagnato per lunghi decenni, quale postulatore (colui che segue tutto il processo che porta alla beatificazione o canonizzazione di qualcuno, ndr), non solo la causa di canonizzazione del nostro padre Fondatore, ma anche quella della nostra sorella suor Irene Stefani.

Lo ha fatto non solo con competenza, precisione, attenzione, costanza e dedizione, ma con vero amore, passione e tanta, tanta fraternità. Ha aiutato i due Istituti a riscoprire e valorizzare la figura di Irene e l’espressione del nostro carisma in lei, con tratti così propri e originali. Ha non solo studiato Irene, ma ha camminato con lei, l’ha incontrata e da lei si è lasciato trasformare. Era evidente la relazione di autentica prossimità tra padre Pasqualetti e sr Irene: quando lui la nominava, si illuminava, si appassionava e non avrebbe mai finito di parlarne. La fede, la tenacia, la convinzione di padre Pasqualetti hanno contribuito grandemente e in modo decisivo al riconoscimento sia delle virtù eroiche della Beata Irene, sia dell’autenticità del miracolo di Nipepe, che ha aperto la porta alla sua beatificazione. Lo abbiamo visto, padre Pasqualetti, durante la beatificazione a Nyeri nel maggio 2015: felice, radioso, commosso, grato… contagiava gioia a chi lo incontrava.

Quando già la malattia faceva sentire i suoi effetti, ricordo un incontro con lui in Casa generalizia del missionari della Consolata a Roma. Al nominargli suor Irene, padre Gottardo si animava tutto, cominciava a parlarne, a ricordarne le parole, i gesti, l’evento della beatificazione… e lo faceva con viva partecipazione e gioia: Irene era nel suo cuore e lui, certamente, nel cuore di Irene.

Grazie, padre Pasqualetti. Grazie per ciò che hai donato ai due Istituti, grazie in particolare per averci accompagnato nel cammino di approfondimento della vita e dell’esperienza della beata Irene. Grazie per ciò che sei stato e ancora sei per noi: siamo certe che dal Cielo, con il Fondatore e suor Irene a fianco, continuerai a volerci bene, a pregare per noi, ad accompagnarci da vero fratello.
Con tanta gratitudine,

suor Simona Brambilla
a nome di tutte le missionarie della Consolata

 




Noi e voi, lettori e missionari in dialogo

L’indimenticabile padre Silvano

Domani (23/09) ricorrono sei anni dalla morte di padre Silvano Sabatini (nella foto, ndr.)!

A padre Silvano io devo molto: la sua amicizia, la sua visione d’insieme, la ricerca della verità, l’amore per l’alterità, per la missione, per le popolazioni indigene, per la sua famiglia missionaria, tutte cose che mi hanno aiutato a crescere e a trovare un equilibrio.

Una volta gli dissi che, andandolo a trovare all’ospedale di Venaria, in verità, non andavo a trovare lui, ma me stesso! Infatti, quando uscivo da lì, la «nebbia», che a volte si addensa nelle nostre menti, nei nostri cuori, si diradava e sentivo che quelle visite frequenti mi facevano bene. Silvano comunicava interesse, vita, dinamicità anche in un reparto di lungodegenza per anziani!

A Silvano devo il fatto che leggo la mia vita in modo «unitario»: giovane ragazzo ero entrato nei missionari della Consolata per diventare prete. Sono stato in Brasile e ho avuto la fortuna di vivere un anno a Roraima. Poi mi sono sposato, ho avuto una figlia. Il mio matrimonio è entrato in crisi, anni dopo ho incontrato in J. la mia «dolce metà» (così la chiamava Silvano!) … ebbene potrei leggere la mia vita, come tanti fanno, come «cassetti separati», e invece no, Silvano mi ha aiutato a scorgere negli avvenimenti della vita un «filo conduttore», a cominciare da quell’amore per la missione che mi accompagna sin da piccolo e non mi ha mai lasciato.

Padre Silvano, intercedi presso Dio per il Brasile, per le popolazioni indigene, per i tuoi confratelli perché oggi il momento storico è «terribile».

Paolo Guglielminetti
Torino, 22/09/2020

Eccoci! Ora spetta a noi…

[…] Noi riviste, siti e realtà editoriali impegnate nell’informazione e nell’animazione missionaria ci sentiamo interpellati dalle parole che Papa Francesco scrive nel suo messaggio per la Giornata missionaria mondiale 2020. «Eccomi, manda me» è un invito che sentiamo rivolto in maniera particolare al nostro compito di comunicatori in questo momento in cui tanti fratelli e sorelle sono alla ricerca di una parola vera di speranza per alleviare tante paure e chiusure rese ancor più evidenti dalla pandemia.

«Eccoci, manda noi». A raccontare che davvero «siamo tutti sulla stessa barca». Il Papa lo ripete oggi a noi, riproponendo le parole da lui pronunciate la sera del 27 marzo in una piazza San Pietro deserta. Perché l’esperienza del Coronavirus ha reso evidente quanto una malattia possa renderci ugualmente fragili, da una parte all’altra del mondo. Ora spetta a noi il compito di far vedere che anche in questa grande tragedia che ha già portato via più di un milione di vite sono sempre i poveri a pagare il prezzo più alto. Come tocca a noi mostrare che anche per tanti altri mali che affliggono il mondo di oggi è così. Che anche le guerre alimentate dai profitti dell’industria delle armi, la povertà prodotta da uno sfruttamento iniquo delle risorse e del lavoro di fratelli e sorelle, il dramma della fame già da alcuni anni tornata a crescere in troppe aree del mondo, la distruzione del creato che, in nome del profitto di pochi, spoglia la vita di intere comunità, sono virus davanti ai quali nessuno può sentirsi davvero immune.

«Eccoci, manda noi». […] E allora tocca a noi mantenere aperto lo sguardo sulle strade nuove che lo Spirito continua ad aprire nelle periferie. Narrare la fede testimoniata a prezzo della vita sulle frontiere più sofferte, la speranza seminata sui banchi delle scuole di ogni latitudine, la carità che trasfigura ciò che agli occhi del mondo sembrava piccolo e inutile. Tocca a noi far sì che la testimonianza che ci arriva dalle Chiese dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina scuota ancora le nostre comunità uscite quanto mai spaesate da un’esperienza che ci costringe a mettere da parte la comodità rassicurante del «si è sempre fatto così».

[…] Tocca a noi far scoprire che in missione, persone di culture e religioni diverse si incontrano per riconoscersi insieme figli e figlie dell’unico Dio. […] E che guardare negli occhi ogni persona è sempre il primo passo per costruire percorsi di riconciliazione anche là dove le ferite lasciate dai conflitti sono più profonde. […]

Dal messaggio dei Media missionari italiani (FeSMI)
 del 1° ottobre 2020

[testo integrale sul nostro sito e su quelli delle riviste associate alla Fesmi]

 




Noi e Voi

Dialogo lettori e missionari |


In ricordo di mia sorella missionaria

Carissimi missionari della Consolata,
sono la sorella di suor Corrada (al secolo Elvira), nata a Sogliano al Rubicone (FC) il 18/06/1916, e deceduta a Venaria Reale il 28/04/1952 (nella foto).

Era entrata nell’Istituto delle suore missionarie della Consolata di Torino il 14/12/1936 con tutto il suo entusiasmo di giovane ragazza, rispondendo generosamente alla chiamata per uscire dalla propria casa e famiglia per essere missionaria delle genti e far conoscere il Vangelo nel mondo.

Purtroppo, non ha potuto realizzare il suo ideale perché una grave malattia, anche se diagnosticata e con tentavi di cure, non ebbe esito positivo.

A Venaria Reale, assistita amorevolmente dalle sue consorelle, a soli 35 anni volò in cielo lasciando in un dolore incolmabile la nostra famiglia.

Ora io ho 90 anni e siccome non riesco più a leggere la vostra bella rivista, ho deciso di disdettare l’abbonamento piuttosto che continuare a riceverla e nessuno la leggerà.

Un caro ricordo unitamente alle mie umili preghiere.
Con affetto,

Angiolina Canducci
Riccione, 15/07/2020

Carissima signora Angiolina,
la ringraziamo di cuore per aver camminato con noi tutti questi anni e per aver mantenuto viva la passione missionaria di sua sorella, suor Corrada. Che la nostra amata Madre, la Consolata, la benedica e l’accompagni nel cammino verso il Paradiso, da dove sua sorella sta facendo il tifo per lei.

 

Ricordando un amico

Cari missionari,
vi comunico che è deceduto Assuero Rossetti, di Follonica, dove vivo anch’io. Assuero è stato a lungo un forte sostenitore delle missioni in Tanzania, zona Iringa, dove tra l’altro ha seguito con aiuti di varia natura, il locale villaggio «Città di Follonica» in cui ha operato padre Pancotti (nella foto qui accanto).

Assuero si dava da fare in ogni modo, finché la salute gliel’ha consentito coinvolgendo più persone che poteva in questa opera di aiuto e sostegno al Villaggio in Tanzania. Vi chiedo una preghiera per lui.

Bruno Cellini
Follonica, 09/08/2020

Grazie dell’informazione. Il notro fratello Assuero avrà certo trovato una buona accoglienza in cielo, visto che il suo amico, padre Pancotti Mario Luigi, lo ha preceduto l’11 novembre 2019. Sono sicuro che ora fanno festa insieme. Ringraziamo il Signore per il dono di persone generose come lui.

 

Un missionario dal cuore grande

Il Signore mi ha dato il grande dono di aver conosciuto padre Giovanni Giorda più di 35 anni fa in uno dei miei primi viaggi in Tanzania. In questi lunghi anni, tra un viaggio e l’altro (50 complessivi), ho avuto il piacere di passare anche diversi giorni con lui.

Abbiamo dialogato, pregato, scambiato opinioni e consigli sulle varie opere in aiuto a chi ha sempre più bisogno, lavori da noi portati alla realizzazione per padre Giorda e per altre opere con i missionari della Consolata o per alcune diocesi locali.

Quanti esempi di vita, quanti insegnamenti cristiani mi ha trasmesso con il suo fare semplice, il parlare pacato, umile, la sua condotta di vita povera ma ricca di fede viva, sempre presente e feconda con immensa speranza verso un futuro migliore per i più poveri con una carità donata a mani piene.

Nel suo agire vedevi materializzarsi con grande semplicità cristiana la Parola della prima lettera ai Corinzi 13,1-13: «La fede, la speranza, la carità, ma di tutte la più grande è la carità».

Carità portata avanti sempre con grande fede nel Signore e in Maria Consolata e con speranza nel beato Allamano che illuminasse sempre il suo cammino missionario.

Nei suoi 68 anni di missione ha assistito centinaia di bambini, orfani, malati nei vari orfanotrofi, asili, dispensari che ha realizzato. Quanti battesimi, matrimoni ha celebrato. Quante persone ha portato al Signore con il suo parlare umano, dolce, persuasivo per la conversione al cristianesimo.

Quanti giovani, meno giovani, anziani ha accompagnato, aiutato nei loro problemi umani, fisici, morali, cristiani.

Camminare, viaggiare in macchina con lui era una catechesi continua per le sue innumerevoli fermate per dare un aiuto, un consiglio, una buona parola o semplicemente un saluto e informarsi come la persona stava di salute assieme alla sua famiglia.

Come dimenticare la realizzazione di 4 ponti per accorciare di 120 Km la strada che portava i malati all’ospedale di Tosamaganga? Un grande esempio di fede l’ho ricevuto a Kidamali dove mi sono trovato con 20 giovani, tutti provenienti dall’Italia, per la realizzazione in un mese degli impianti elettrici in un nuovo orfanotrofio, nel dispensario e nella chiesa. Al nostro arrivo abbiamo trovato la totale mancanza d’acqua. Vedendomi demoralizzato perché consapevole dell’impossibilità a lavorare, si è avvicinato a me dicendomi: «caro Pino, abbi fede. Il Signore non vi ha fatti arrivare fin qui per abbandonarvi». Due giorni dopo l’acqua è arrivata.

Per la sua grande bontà, vissuta sempre in semplicità e povertà, era definito dalla gente del posto «Moyo wa Jesu» (cuore di Gesù). La realizzazione di opere umanitarie (asili, orfanotrofi, dispensari, chiese) era il suo modo di rendere concreta l’opera di evangelizzazione che era la ragione primaria del suo vivere.

«Pino ricordati che la povertà rende ricca l’anima davanti a Dio e aiuta con la fede e la preghiera ogni uomo a donare se stesso per il bene del prossimo. La Chiesa deve essere povera per arrivare alla ricchezza del Signore».

Credo che in questo tuo ultimo pensiero, ognuno di noi abbia tanto da riflettere e meditare.

Grazie Giovanni! Hai consumato la tua vita donata al volere del Signore, con gli insegnamenti del beato Allamano, seguendo la Consolata in tutto il tuo cammino missionario e facendo il «bene fatto bene, in silenzio» verso il prossimo, per chiunque hai incontrato lungo le rosse strade del Tanzania. Grazie per quanto mi hai insegnato. Il ricordo di te rimarrà sempre indelebile nel mio cuore assieme a quello di padre Franco Cellana e suor Gian Paola Mina.

Le porte del Paradiso di sicuro si sono spalancate al tuo arrivo. Riposa in pace con il Signore, la Consolata, il beato Allamano e tutti i tuoi confratelli che ti hanno preceduto.

Con grande, fraterna riconoscenza.

Pino Lupo e gli amici del
 Gruppo operativo missionario Nyaatha Irene (Gomni), Torino, 14/08/2020


Insegnanti ringraziano

Carissimi fratelli della Consolata
sono un presbitero della Congregazione s. Giovanni Battista Precursore, ho 81 anni e sono stato molti anni missionario in Brasile, da alcuni anni mi hanno richiamato in Italia e mi trovo a Roma in una parrocchia. Qui arriva tutti i mesi la vostra rivista […] ed io la leggo molto volentieri perché è molto interessante, mi fa ricordare molte cose della mia missione, molte altre cose che non si trovano in nessun’altra parte. […] Sempre uniti nella preghiera. Vi auguro buon lavoro-servizio. Un abbraccio fraterno,

padre Ennio Verdenelli
03/08/2020

Gentile Direttore,
saranno ormai 5 anni da quando – di passaggio a Torino con una mia classe – avevo espresso il desiderio (da lei cortesemente accolto) di fare una breve visita alla vostra redazione. Allora non se ne era potuto fare nulla, ma a distanza di anni desiderio aumentare i complimenti per «Missioni Consolata», rara rivista di seria informazione a 360° con in più una impostazione grafica gradevole. Quando a scuola sono con studenti di V superiore, è frequente mostrare e scorrere articoli vostri, e non pochi allievi ne hanno tratto spunti critici anche per il dialogo di maturità.  Non ultima, mia moglie (per formazione assolutamente lontana dall’orizzonte culturale della rivista) segue assiduamente la rubrica economica di Francesco Gesualdi, e io ho anche comprato il volume «Nohimayu, l’incontro» su di un popolo dell’Amazzonia. Insomma, si vorrebbe trovare più calma per leggere (imparare!) questa rivista, fonte di informazioni ma anche di «fiammelle di speranza» (un esempio dall’ultimo numero di MC, «Benessere fatto in casa») in un mondo che per troppi versi farebbe altrimenti soltanto e sempre più paura.

Dunque: complimenti, un caro saluto ed un augurio … a me innanzitutto: dedicare più tempo alla lettura della rivista. Estenda i miei complimenti all’intera Redazione.

Marco Bertorelle,
Bolzano, 07/08/2020

Gentilissimi,
ricevo dal mio parroco, don Augusto Pagan, la segnalazione dell’articolo del direttore della rivista MC, «Vedo, non vedo». In parrocchia abbiamo un nostro periodico, Mori e la sua gente, aperto a tematiche quali la dimensione spirituale, sociale, economica, in prospettiva dei più deboli e degli ultimi.

Il parroco vorrebbe pubblicare su questo nostro periodico, il vostro articolo in questione. Vi chiediamo se questo fosse possibile e a quali condizioni. Approfitto per ringraziarvi per la vostra preziosa rivista ricca e attuale, tanto che conservo i dossier di politica internazionale, per proporli nelle classi del liceo in cui insegno.

Per ora grazie per l’attenzione e volentieri aspettiamo una vostra risposta. Cordiali saluti.

Chiara Ballarini
Mori, (Tn) 18/08/2020

Ovviamente abbiamo già risposto da tempo agli amici di Mori, dicendo loro che siamo ben felici se i nostri testi sono diffusi e fatti conoscere per scopi non commerciali.

Spett.le redazione rivista Missioni Consolata,
premesso che in casa mia ho sempre visto la vostra rivista perché mia mamma, deceduta l’anno scorso a quasi novantanove anni, è stata vostra abbonata per decenni, vi scrivo per ringraziarvi.

In primo luogo, perché i vostri articoli sono molto interessanti e sono spesso fonte preziosa per il mio lavoro. Insegno Lettere nella scuola media e mi capita di fare riferimento ai vostri inserti e approfondimenti facendo lezione di geografia.

In secondo luogo, perché nello scorso mese di marzo, durante il lockdown, mio papà, deceduto poi alla fine di aprile anche lui quasi novantanovenne, amava guardare l’immagine del vostro calendario (Colombia, Caquetá, Un sorriso contagioso) perché diceva che il sorriso di quelle due bimbe era stupendo e gli dava gioia. Quando è iniziato aprile, papà ha voluto che ritagliassi l’immagine e la applicassi su quella di aprile. Per questo vi ringrazio dal profondo del mio cuore perché quell’immagine è stato un dono prezioso. Grazie.

Elena Maragliano
Genova, 19/08/2020

Riproponiamo qui la bella foto delle due bimbe della Colombia, in realtà del paese di Toribio, non del Caquetá, mi ha ricordato il fotografo, padre Gianantonio Sozzi. Anche a queste bimbe auguriamo ogni bene, visto che anche il loro paese è duramente provato dal Covid-19.

Vogliamo anche ringraziare degli incoraggiamenti, particolarmente graditi in questi tempi difficili in cui continuare a pubblicare una rivista come Missioni
Consolata è decisamente impegnativo. Grazie per il vostro supporto. Felici se possiamo contribuire a creare un mondo più fraterno e giusto.

Grazie a chi sostiene e diffonde la nostra rivista. Abbiamo certamente bisogno di nuovi lettori, di gente che non si accontenti di notizie flash, di slogan pubblicitari, di notizie usate a scopo di campagna elettorale. Abbiamo bisogno di giovani con cui condividere il sogno di un mondo di fratelli e sorelle che vivono in pace e giustizia, che hanno cura del creato, che promuovono la vita e sognano insieme. Allora i sogni diventeranno realtà.

Pur usando e apprezzando tutti i mezzi moderni di comunicazione, restiamo convinti che la carta mantenga il suo fascino e sia lo strumento privilegiato per chi davvero vuole conoscere e approfondire. Grazie.