Mary e gli altri

Egregio direttore,
leggo su Missioni Consolata
di maggio 2002: «MARY
ROBINSON LICENZIATA
(senza giusta causa)».
Penso, e come me molti
miei amici, che la giusta,
anzi, la giustissima causa
c’era quando «senza giri
di parole» aveva definito
Israele un paese «razzista
colpevole di atti di genocidio
nei confronti del popolo
palestinese».
E dei kamikaze cosa ha
detto? Niente! Siamo alle
solite parole a senso unico.
Così come, regolarmente,
ogni mese, trovate
qualcuno che immancabilmente
parla contro gli Usa,
anche lui scordandosi
di parlare di kamikaze.
Questa volta è un «nome
importante del giornalismo
italiano» (importante
per chi?) che dice tante
belle… (censura) tipo
«guerra afghana… cortina
fumogena… per nascondere
le responsabilità Usa…
una guerra keynesiana
(paroloni) ecc….» e finisco
con l’ultima
affermazione, la più ridicola.
«Questa guerra non ci
sarebbe stata se non esistesse
un mondo mediatico
al servizio degli Stati
Uniti». Ha dimenticato
di dire che le migliaia di
morti a New York sono
opera della… Cia.
Rinaldo Banti
Milano
P.S. Elenco alcune riviste
che ricevo dove il
90% degli articoli sono
missionari o notizie culturali
e religiose e il 10%
politica (il contrario di
Missioni Consolata):
Bollettino Salesiano,
Missioni del Pime, Dio e
il prossimo, Messaggero
di Sant’Antonio, Maria
Ausiliatrice, Continenti
missionari cappuccini,
Cuore Amico.

1) Il nostro dossier sul
Medio Oriente (giugno)
è stato molto apprezzato.
2) Abbiamo sempre messo
in primo piano la pietà
cristiana per tutti i morti,
che (alla data del 3 luglio
2002) sono: palestinesi
1.553, israeliani 556.
3) Su Mary Robinson e
Giulietto Chiesa non aggiungiamo
altro: è sufficiente
conoscere la loro
storia personale.
4) All’elenco delle riviste
ne mancano molte (ad esempio:
Nigrizia dei
comboniani, Missione
Oggi dei saveriani, Popoli
dei gesuiti ecc.). La distribuzione
percentuale
delle notizie non l’abbiamo
mai calcolata. Di sicuro,
Missioni Consolata
dedica molto spazio ai
problemi e alle ingiustizie
del mondo d’oggi,
non soltanto con la denuncia
giornalistica, ma
anche cercando di indagae
le cause.
Se gli Usa ricattano la
neonata «Corte penale
internazionale», non
dobbiamo forse parlarne
e chiederci il perché?

Rinaldo Banti




Voci fuori del coro

Caro direttore,
esprimo il mio apprezzamento
per gli articoli di
PAOLO MOIOLA e per la
posizione assunta da Missioni
Consolata (cui i miei
genitori sono abbonati)
sugli avvenimenti di Genova
e New York: una posizione
aperta a più voci,
equilibrata; equilibrata
proprio perché a più voci.
Sono stato in Kenya
con l’associazione di p.
Giordano Rigamonti
«Impegnarsi serve». Mi
ha colpito ciò che ho visto
e quanto mi hanno raccontato
i missionari della
Consolata e i volontari
sulla situazione sociale
del paese, simile a quella
di tanti altri stati subsahariani.
Tornato a casa, ho cercato
una risposta alla fastidiosa
domanda: «c’è un
legame tra la miseria e
l’ingiustizia in cui vivono
tanti popoli e il nostro benessere?
». Ho trovato
delle risposte (parziali,
certo, ma convincenti) negli
interventi di padre Zanotelli
e di altri cattolici
(vescovi, teologi e «semplici
» laici) che cantano
«fuori dal coro».
Secondo me, c’è proprio
un coro, cui si aggregano
purtroppo tanti cattolici
(compresi sacerdoti
e religiosi consacrati), che
cantano: «Va tutto bene,
va come deve andare e
noi viviamo nel migliore
dei mondi possibili». Un
coro che alza la voce per
sovrastare altre voci deboli
e (per ora) divise.
Quanto a voi, grazie
perché presentate vari
punti di vista per ricordare
che la verità è più sfaccettata
e distribuita di
quanto crediamo per pigrizia
mentale (o addirittura
cattiva coscienza).

«Cos’è la verità?» chiese
Pilato a Gesù. Ma non
attese la risposta. Accettò
che Gesù fosse ucciso…
«lavandosi le mani» (cfr.
Gv 18, 38; Mt 27, 24).

Fabio Dechigi




Buona permanenza in…

Kenya. Quando chiudo
gli occhi, strade affollate
di volti percorrono i miei
ricordi. Odori densi, bancarelle
di legno scuro, frutti
verde-arancio riposano
sulla strada ad aspettare
passaggi.
Villaggi su villaggi lungo
l’asfalto che corre verso
nord, che apre paesaggi
variegati, senza orizzonte,
verdi, brulli, inaspettatamente
brulicanti di vita.
Acacie maestose ristorano
la vista di quell’Africa assaporata
sui libri di scuola.
Quando popoli, lingue,
colori si fondevano in
un’unica figura, disegnando
un continente tutto uguale,
senza voce.
Ora l’Africa ha per me
una voce. Volti diversi
s’affacciano a raccontarmi
la loro storia, le loro diverse
e infinite storie, ora si
distinguono al mio udito
lingue dai suoni variopinti.
Riconosco le tracce di
culture lontane, alterate, a
volte lasciate da parte. Ora
vedo. Mi sembra di vedere.
E così vado avanti in
questa ricerca, in questo
cammino da cui non riesco
più a distogliermi.
Nairobi, Sagana,
Nanyuki, South Horr, il
Turkana, Marsabit, nuovamente
Nairobi. Tutto si è
aperto, mi ha ospitato, mi
sono fatta ospitare, ho
parlato con tutti, ho pianto
commossa mille volte.
Ho visto dignità, fermezza,
donne dal volto sincero,
bambini veloci, vivaci,
curiosi. Gentilezza.
Ho sentito qualcosa di
sacro tra le immondizie di
Korogocho, una storia sacra
di sofferenza, sopravvivenza,
ma anche di devozione,
devozione verso
un Dio che vive tra le preghiere,
le mani unite, il rispetto
di chi lavora lì. Di
chi non riesce più a tornare.
Di chi ama troppo e
non riesce a dimenticare.
Sono partita, ho imparato,
ho portato con me a casa
una strana discrezione.
Leggera leggera l’Africa ritorna
in tutto ciò che faccio,
provo, penso.
Con discrezione.
Mi sento più vicina a
tutti, ai miei familiari, ai
miei progetti, a tutto ciò
cui giro intorno. Un’incredibile
discrezione. Non
posso descrivere in altro
modo il mio rientro. E ora,
ora mi preparo a ritornare.
Seriamente.
Ora voglio davvero lavorare.
Finirò i miei studi,
lascerò la fanciullezza che
ancora mi circonda e poi
prenderò in mano le mie
responsabilità. Discreta,
attenta, sincera.
Quando chiudo gli occhi…
Preghiere su preghiere.
La distesa del
Turkana. Il cielo giallastro
di Nairobi. Nanyuki e tutti
i suoi bambini.
Io e la mia decisione.
Grazie, grazie. Questo
piccolo viaggio spero sia
l’inizio di una vita intera.

Giulia è stata in Kenya.
Ha visitato pure le missioni.
E ci ha rivelato le
sue emozioni. Ma anche
gli impegni. Il tutto con
stile intenso.
Nel presente luglio e
nel successivo agosto altri
ragazzi e ragazze, altri uomini
e donne stanno
scrutando «il cielo giallastro
di Nairobi» o «la distesa
del Turkana». Altri
raggiungeranno il Tanzania
o il Brasile. A tutti
l’augurio di buona permanenza.
E che bello sarebbe se,
tornando a casa, tutti potessero
dire «grazie, grazie
»! E iniziare subito una
vita diversa.

Giulia Cavallo




Piccolo grande eroe

Caro direttore,
leggendo la sua rivista, che
ricevo come membro dell’associazione
«Spazio aperto
» dell’università cattolica
di Milano, ho ritenuto
che essa sia il luogo
consono alla pubblicazione
dei miei scritti. Sono
componimenti che credo
possano dare un contributo
ad una migliore comprensione
del messaggio
di cui il suo giornale è portatore.
Questi componimenti
sono frutto della mia esperienza,
nata con il progetto
«Adozioni a distanza»
di qualche anno fa.

Carla, poiché ti impegni
per uno «spazio aperto» a
tutti, è dovere accogliere
la tua richiesta. Per non
parlare della validità del
tuo messaggio.
«Piccolo grande eroe /
ogni giorno lotti per la
strada / mendicando pane
con umiltà / fuggendo /
nascondendoti dietro gli
angoli / con gli occhi
lucidi / davanti
all’ignoranza di chi ha /
ma non sa donare /
Piccolo grande eroe /
non ti nascondere /
ma sconvolgi il nostro
superfluo / con la tua
“povera” dignità /
di uomo semplice».

Carla Radaelli




«Storielle» benvenute

Caro direttore,
innanzitutto mi congratulo
per la sua ottima conduzione
professionale di
Missioni Consolata. Senza
entrare in lunghi dettagli,
ritengo che i contenuti espressi,
la presentazione
fotografica, l’impaginatura
e tutto il resto facciano
della rivista una pubblicazione
di «classe».
Abbiamo un legame comune
con «la Consolata»,
che si perde nel passato,
ma che si rifiuta di sparire
dalla mente e dal cuore,
nonostante il passare del
tempo.
Senza alcuna pretesa,
continuerò a mandarle
qualche «storiella» dal
Kenya. La lunga permanenza
nel paese mi ha
messo in contatto con
quasi tutti gli strati della
società kenyana: dai ban-
diti somali (shifta) negli
anni ’60, sulla rotta Isiolo-
Marsabit, ai personaggi
attuali che hanno raggiunto
i gradini più alti della
scala politica. Gli aneddoti
sono una legione.
Tuttavia la «nostra» rivista
è diventata internazionale
e bisogna giustamente
dare spazio a tutti.

Le sue storielle, signor
Giorgio, non sono affatto
tali, ma tessere di un
complesso mosaico. Ben
vengano dunque! E controlli
quanto abbiamo riportato
a pagina 28-30.

Giorgio Ferro




I fucilati del Martinetto

Il 5 aprile di ogni anno
si commemorano i caduti
del Martinetto di Torino.
In tale giorno del 1944 furono
fucilati dai nazifascisti
gli otto componenti del
Comitato militare di Liberazione
del Piemonte, comandato
dal generale
Giuseppe Perotti.
Il 25 aprile si festeggia
la Liberazione. È una ricorrenza
che ricorda la fine
di un periodo storico e
tragico per l’Italia. Va ribadito
che, prima di tale
data, sono state affrontate
lotte e sofferenze inaudite
fino al sacrificio della vita.
La libertà e la democrazia
furono conquistate nel
tempo anche da persone
che sostennero, moralmente
e civilmente, vari
partigiani e deportati.
Sono da ricordare anche
i missionari della Consolata
che, durante il Fascismo
e la Resistenza, assistettero
tanti carcerati politici
nelle prigioni Le
Nuove di Torino.
Il Comitato «Nessun
uomo è un’isola» intende
ricuperare il legame storico
tra i missionari della
Consolata e il carcere giudiziario
Le Nuove. Per tale
ragione è stato invitato
il giovane missionario torinese,
Ugo Pozzoli, a
presiedere l’eucaristia nella
cappella centrale, una
volta destinata alle funzioni
religiose per i detenuti
e oggi alla santa messa
nella seconda e quarta domenica
di ogni mese.
Padre Ugo ha ricordato
i confratelli che operarono
nel carcere, mettendo
in risalto come lo stesso
beato Giuseppe Allamano,
fondatore dei missionari
della Consolata, si
fosse interessato alla vita
carceraria. Infatti, il 16
febbraio 1895, avviò il
processo di beatificazione
dello zio Giuseppe Cafasso,
il prete degli impiccati.
«Nessun uomo è un’isola
» si augura di collaborare
ancora con i missionari
della Consolata sia per un
dovere di memoria storica,
sia per ribadire i principi
della convivenza civile,
sia per stimolare la crescita
umana delle nuove
generazioni, cui i missionari
rivolgono speciale attenzione.
In occasione della festa
della Liberazione, si ringraziano
i missionari della
Consolata per la loro partecipazione
storica al migliore
trattamento dei carcerati
presso Le Nuove di
Torino, nonché per il contributo
umano e spirituale
all’affermazione dell’Italia
unita, libera e democratica,
oggi parte integrante
della Comunità europea e
sesta potenza economica
mondiale.

Felice Tagliente è presidente
del Comitato «Nessun
uomo è un’isola»…
Oggi padre Ugo è missionario
in Ecuador.

prof. Felice Tagliente




Lettere


Mosca:
dialogo tra

ortodossi e
cattolici

 Egregio
direttore,

quanto
fu affermato da Aleksej Uminskij, prete ortodosso a Mosca, su Missioni
Consolata di marzo 2001, è in contrasto con gli orientamenti del
patriarcato di Mosca. Allego un’intervista ad Ilarion Alfeev del
patriarcato.

Ho
scritto a padre Aleksej, ma la lettera è tornata indietro, perché è un
emerito sconosciuto… Tentate anche voi la rinascita della chiesa
cattolica del beato Leonida Fedorov, esarca bizantino russo.

don
Vito Tedeschi
,

Carife (AV)

 Nel
luglio del 2000 padre Ilarion Alfeev disse che la chiesa ortodossa russa
intende continuare il dialogo con quella cattolica. Ci auguriamo che sia
vero, nonostante qualche passo indietro (anche recente).


 


Pigmei,
come

le scimmie

 Cari
missionari,

per
continuare il discorso sulla Repubblica Centrafricana (Missioni Consolata,
gennaio 2002), aggiungo che nel paese vi sono altre persone che pagano un
tributo ancora più alto di quello denunciato: sono gli aka, un gruppo del
popolo pigmeo.

Autori
di abusi e discriminazioni non sono solo i bianchi, ma anche i neri.
Contro gli aka delle selve centrafricane congiurano un po’ tutti, perché
le foreste fanno gola a tanti, perché tante sono le ricchezze: dal legname
pregiato ai diamanti, dai principi terapeutici contenuti in radici, foglie
e cortecce agli animali; ad esempio, gli elefanti alimentano il traffico
dell’avorio, dei trofei, della bushmeat (selvaggina, che coinvolge pure
africani immigrati in Europa).

Se le
donne del Centrafrica sono vittime di una mentalità maschilista, quelle
aka lo sono di più, perché, per le etnie dominanti, gli aka non sono
esseri umani, come non lo sono i baka e bambuti che vivono in Camerun,
Gabon e nei due Congo.

Se
prostituzione, droga e alcornol sono piaghe per tutti, per i pigmei lo sono
maggiormente, perché la loro semplicità li rende più vulnerabili alle
insidie di chi, col pretesto della civiltà, vuole la loro rovina.

Se per
decine di milioni di africani l’accesso ai farmaci contro Aids,
tubercolosi, oncocercosi, meningiti e lebbra è difficile, per i pigmei lo
è maggiormente; infatti, per molti bantu, la morte di un pigmeo equivale a
quella di una scimmia. «Il primo uomo della nostra tribù – disse un pigmeo
ad un antropologo giunto nella foresta dell’Oubangui/Chari negli anni ’20
– nacque da una cagna, che partorì sotto le bastonate di un negro, suo
padrone».


Leggendo resoconti di missionari e volontari, mi pare che si sia fatto
poco per aiutare i pigmei a superare il loro senso di inferiorità e molto,
invece, per aumentarlo: persone, fiumi e foreste sono alla mercé di
devastatori e depravati.

Ha
ragione chi ritiene l’Aids un castigo di Dio? Non lo so. Ma so che, se
Aids e altre patologie letali (provocate dal virus Marburg o Ebola)
possono tanto, è anche perché alcuni uomini hanno osato molto
nell’alterare sia gli ecosistemi forestali (un tempo vergini) sia i
rapporti interpersonali.

Quanto
queste due realtà siano correlate è confermato anche da Richard Preston,
che inizia il libro Area di contagio con una storia di promiscuità,
consumata in un ambiente naturale… particolare, dal quale razionalità e
buon senso suggerivano di stare alla larga.


Francesco Rondina
,

Fano (PS)

 


Siamo grati al lettore di aver continuato il discorso sul Centrafrica,
portando alla ribalta anche i pigmei… A quelli della repubblica
democratica del Congo abbiamo dedicato recentemente due articoli (M C,
dicembre 2000; aprile 2001).

 



 Il «post scriptum»

 Spettabile
redazione,

mi
permetto di criticare il post scriptum dell’editoriale di febbraio 2002.
Alcuni dati, relativi allo stipendio e ai privilegi dei parlamentari, si
basano su una «bufala» che sta circolando da mesi su internet. Si possono
trovare molti dettagli a questa pagina: www.attivissimo.net/antibufala/stipendiparlamentari/htm

Con
questo non voglio negare che i nostri deputati guadagnino troppo o che non
abbiano troppi favori. Ma è giusto essere corretti e documentati.

don
Federico Cretti

(via
e-mail)

 


Era quanto si augurava l’autore dell’editoriale, il cui post scriptum era
uno sfogo.

 

 E
chi replica?

 Spettabile
redazione,

trovo
sconcertante che pubblichiate le «voci islamiche sul nuovo scenario
mondiale» (Missioni Consolata, dicembre 2001), senza un commento. Se è
possibile esprimere la propria opinione, è pure doveroso osservare come
essa sia confutata dalla realtà sotto gli occhi di tutti.

p
Stragi negli Stati Uniti: le folle arabo-palestinesi (e pakistane) hanno
dimostrato, con canti e balli, la loro approvazione agli attentati dell’11
settembre e alle folli missioni dei kamikaze.

p
Cristiani in paesi islamici: in quasi tutte le nazioni i cristiani sono
sottoposti a limitazioni, che vanno dal «semplice» impedimento fino
all’arresto e pena di morte per la professione di fede (non risulta che in
Occidente una legge dello stato punisca chi è di altra religione!).

p
Questione femminile: la frase «la donna ha grande dignità nella società
islamica» è smentita dalla realtà (adultere lapidate, donne sottoposte a
divieto di studiare e farsi curare, mogli e figlie dipendenti dalla
volontà insindacabile dell’uomo, ecc.).

Il
vostro compiacimento solleva dubbi su ciò che vi anima: compiacimento nel
dare largo spazio a opinioni antidemocratiche, antifemministe, reazionarie,
nostalgie di un mondo premoderno, tribale e feroce, senza concedere
analogo spazio a precisazioni e doverose confutazioni.

Il
cristianesimo ha il merito di aver permesso all’occidente la conquista più
grande: una società dove, pur tra disuguaglianze e mali, nessuno è ucciso
per le sue idee politico-religiose; dove la donna ha acquisito pari
diritti e dove c’è netta separazione tra religione e stato; dove è
permesso il dissenso, che si esprime nel voto e nel manifestare le proprie
opinioni. Non è così nei paesi arabo-islamici, che nutrono rancore, misto
ad invidia, verso il mondo moderno.

Silvia
Novarese
,

Torino

 



Riteniamo di avere risposto alla sua lettera, commentando quella di
Maurizio Altemani e una «lettera firmata» (MC, marzo 2002; aprile 2002).


Circa la «condizione femminile», il dossier di questo mese ci pare
eloquente.

  



Spaventevoli errori


 Gentile direttore,

sul
numero di gennaio 2002 Cinzia Vaccaneo, di Torino, ritorna sulla mia
lettera, che ho riletto e che, tolti due punti di sarcasmo, riconfermo.

Le
distanze sono al momento incolmabili: quando un’economista scrive che «spesso
le nuove aziende non nascono per dare nuovi posti di lavoro, ma per creare
nuovi ricchi», vuol dire che la malattia che v’ha preso e spargete a piene
mani è molto grave. Non altrimenti potrebbe spiegarsi come e perché, a
confronto di molte vostre tesi, Bertinotti appaia un tranquillo signore
con idee un po’ blasé.

Allora
non ha senso parlare, perché siamo su pianeti diversi; meglio tacere e
attendere. Molto meglio meditare con calma. Pacatezza ci vuole, che non
sussiste scrivendo sulla posta di un giornale o parlando in tivù, essendo
ognuno troppo preso dall’assillo di vincere il duello.


Ricordando certi vostri commenti sui fatti di Genova, allego «Profezie di
Genova», che cominciai un anno fa, presago e sicuro di quel che sarebbe
successo a luglio.

Da una
vita sono circondato da «compagni»… Ho la presunzione di conoscere bene
il vostro sentire, da dove viene, come è penetrato e s’è fatto forte, su
quali equivoci poggia. Ma conservo verso i vostri spaventevoli errori
tutta l’umanità e civile comprensione. Il mio prossimo lavoro metterà a
fuoco il rapporto tra comunismo e cattolici. Missioni Consolata mi è
indispensabile.

Saluti
e salute.


Luigi
Fressoia
,

Perugia

 


Salute pure a lei e grazie per «l’umanità e civile comprensione» verso i
nostri «spaventevoli errori». A proposito, forse ne ha commesso uno anche
lei, non spaventevole come i nostri: la citazione dell’economista Vaccaneo,
staccata dal contesto della lettera, ne inficia il pensiero.


Intanto continuiamo a pubblicare le sue lettere critiche, come quella nel
dossier di aprile.

 

 


I
benpensanti

che fanno?

 Cara
Missioni Consolata, non mollare! Trovo intrisi di valori cristiani, cioè
rispondenti a quanto dice Gesù, i tuoi articoli e le sagaci risposte a chi
ti accusa di essere una rivista fatta da «miscredenti»!


Criticare le multinazionali o il governo americano crea nemici, perché la
gente si aggrappa disperatamente a ciò che ha: teme che chi non ha niente
glielo possa togliere. E dire questo dà molto fastidio. Perciò ci si
trincera dietro l’essere dei «benpensanti»… che ben pensano, appunto, ma
niente fanno, arroccati nei propri averi e incattiviti contro chi fa loro
notare l’evidente ingiustizia.

Cara
rivista, un’altra cosa apprezzo molto di te (che non mi aspettavo essendo
tu cattolica): è il rispetto per le altre religioni. Anche per questa tua
mancanza di «evangelizzazione» alcuni ti criticano, come se si dovesse
aiutare il prossimo in cambio della sua conversione! Il tempo delle
crociate, di cui anche il papa si è scusato, è ancora vicino per troppi!

Che
cosa dovrebbe essere, allora, la solidarietà? Aiutare il prossimo, perché
non è giusto che chi ha avuto la fortuna di nascere nel ricco occidente
diventi sempre più opulento sulle spalle di chi vive in altre parti del
mondo. So che è brutto sentirselo dire. Ma sappiamo tutti che, se possiamo
avere il videoregistratore o la lavastoviglie, è perché in uno sperduto
villaggio africano qualcuno si fa a piedi decine di chilometri al giorno
per avere una tanica d’acqua e… prendersi il tifo o l’epatite, da cui
non può guarire perché non ha soldi: soldi, invece, che noi usiamo contro
la caduta dei capelli o smagliature.

Non è
giusto che la maggioranza delle persone si ammazzi di fatica per
sopravvivere (non dico «vivere»), mentre qui si parla di fitness e
cellulite, mentre si porta il cane a limarsi le unghie! E magari avendo
pure l’insolenza di pensare che la nostra religione (che è pure la mia e
mi ha fatto conoscere tanti valori inopinabili) sia migliore delle altre.
Questo è un pretesto per lavarsi i sensi di colpa.

Cara
rivista, accanto ai cattolici benpensanti che ti rifiutano, hai anche una
«non molto cattolica» che ti apprezza molto.

dott.
Silvana Rocchetti
,

Milano

  



Dalla città della Fiat

 Caro
direttore,

sono
abbonata a Missioni Consolata da molti anni. I suoi articoli fanno
riflettere. Commento la lettera «Lo struzzo e noi», di Teresa C. Frigieri
di Maranello (settembre 2001).

Abito a
Torino, la città della Fiat… che in questi tempi licenzia, non
apertamente, ma con prepensionamenti, cassa integrazione, mobilità e
mancato rinnovo dei contratti ai semestrali. Quante situazioni gravi in
questa parte d’Italia! C’è anche chi, sfiduciato, si è tolto la vita per
avere perso il posto di lavoro… Quando penso agli stipendi dei piloti di
Formula uno (e dei calciatori) e al costo dei loro bolidi (che durano così
poco), mi sento un pugno nello stomaco.

La
lettera della signora Teresa mi suggerisce l’interrogativo: è necessario
essere nel benessere per, poi, aiutare i poveri sfruttati? Non è più
giusto dare a ciascuno il giusto guadagno e permettergli di terminare la
carriera lavorativa?

Quanto
al parroco di Maranello, lodato dalla signora, che conosco solo per il
suono delle campane, mi augurerei che non dimenticasse quanto scritto dal
signor Rondina (MC, aprile 2001).


Giovanna Isacco
,

Torino

  



Più fiducia nel bene

 

Le
lettere di qualche abbonato sono come grida disperate: come se, dopo avere
dato tutto, non si ricevesse nulla… Bisogna avere più fiducia nel fare
il bene; credere che è l’unica soluzione per togliere le ingiustizie e
creare una democrazia. «Non c’è bene che non si faccia!» dice uno
scrittore tedesco.

Solo
con il buon esempio riusciremo ad educare; il resto lo dobbiamo accettare…
Durante una predica ho sentito che un vero cattolico va contro corrente e
io mi chiedo se abbiamo la forza necessaria… Vorrei che qualche lettore
conoscesse i missionari della Consolata un po’ più dal vero, per andare
contro corrente.

Flavio
Azzolini
,

Berlino (Germania)

  


Una figlia mi ha suggerito
l’abbonamento alla vostra rivista. Ora vi dico grazie.


Con i miei 85 anni, le
relazioni si sono ridotte all’osso; mi resterebbe la televisione, ma sto
imparando a fae a meno, tanto mi disgusta. Così il mio sguardo sul mondo
passa attraverso la vostra bella rivista. Non sono andata molto a scuola (però
ho fatto laureare i miei tre figli); così apprezzo la semplicità con cui
scrivete, le belle fotografie e, soprattutto, la carità con cui trattate
tutti gli uomini e le donne del mondo.


Un materno abbraccio a lei,
caro direttore, e a tutta la redazione.


Pia Montebelisciani


Fermo (AP)


 

Signora
Pia, ricambiamo confusi l’abbraccio… e riproduciamo in «
verde»
la sua lettera, perché ci carica di speranza.

Da noi
tutti grazie.

 

Pro e Contro una lettera



Ma nessuno è imbecille

In
merito alla lettera «Chi è imbecille?» e relativa risposta (Missioni
Consolata, febbraio 2002), esprimo due considerazioni.


L’autore indubbiamente è andato oltre le righe. È però evidente che il suo
limite di sopportazione, di fronte al dilagante masochismo (in ogni
aspetto della vita) e all’appannamento dell’identità cristiana, tesa forse
a capire più le altre identità che la propria, palesa una abbondante
saturazione. La lettera ha posto sul tappeto problemi non indifferenti, di
fronte a generale malessere ed apprensione.

La
risposta non fa onore al direttore, che si è defilato con battute di
dubbio gusto e che, forse, appaiono impertinenti. Che ne sa lui di chi fa
le offerte?… E sorridere sulle scuse (non dei mea culpa) del papa non mi
sembra tanto disdicevole, se penso alle strumentalizzazioni che sulle
stesse si sono imbastite e che, pure recentemente, dal rabbino capo di
Roma continuano ad essere oggetto di biasimo.

Luisa
Milani – Roma

 


I missionari ricevono offerte da chi è «povero davanti a Dio». Se tale
affermazione è stata impertinente, ce ne scusiamo… Mutatis mutandis
anche Giovanni Paolo II ha riconosciuto gli errori dei cristiani e della
chiesa e ha chiesto scusa. Il gesto non è stato gradito da alcuni, che
hanno «sorriso» o strumentalizzato il fatto. A noi non piacciono né i
sorrisi né le strumentalizzazioni.


Riteniamo «verbale» la distinzione tra «mea culpa» e «scusa»: infatti
entrambe, per essere salutari, esigono un comportamento diverso rispetto
al passato. È ciò che più conta.


Psicologicamente la «saturazione» è comprensibile; ma non lo è nello
spirito evangelico, soprattutto se diventa ritorsione. È necessario
credere nel dialogo. Il papa afferma: «Il modo appropriato e più consono
al vangelo, per affrontare i problemi che possono nascere nei rapporti tra
popoli, religioni e culture, è quello di un paziente, fermo quanto
rispettoso dialogo».

La
lettera dell’«imbecille» è vergognosa. L’autore offende il direttore della
rivista «sapendo che, da bravo prete, cestinerà schifato» il suo scritto;
ma si vanta di essere nipote di un grande prete, di avere una sorella e
una figlia missionarie.

Signor
direttore, lei ha avuto la discrezione di non rivelare il nome del
mittente… altrimenti zio, sorella e figlia arrossirebbero di vergogna;
se defunti, certamente si rivoltano nella tomba di fronte agli
sragionamenti del loro parente.

Carlo
Mannino – Brindisi

 


Signor Carlo, non cada in trappola usando gli stessi toni dell’«imbecille».
Anche perché nessuno lo è del tutto.

 

 Apprezzo
Missioni Consolata fin dal 1955. Caro direttore, continui così, con una
rivista sempre più ben fatta e ricca di articoli documentati, con
informazioni pacate ed obiettive, che consentano ai lettori di
controbilanciare una «civiltà» basata solo sull’apparenza, sui sondaggi e
sulla ricchezza.

Un
plauso anche per essere diventati Missioni Consolata Onlus; così le
offerte ai missionari si possono detrarre nella denuncia dei redditi.

Da
ultimo, un commento alla lettera «Chi è imbecille?». Mi sembra che
l’autore ritenga che la storia si sia fermata all’Antico Testamento… con
l’osservanza formale della legge. Egli forse dimentica che sono passati
2000 anni da quando un certo Gesù ha insegnato e dimostrato con la vita
che ciò che conta è amare Dio e i fratelli.


Riccardo Cignetti – Caluso (TO)

 

Solidarietà,
solidarietà, solidarietà a lei, direttore, e «pollice giù» verso «Chi è
imbecille?». L’autore ha tanti missionari in famiglia e vi attacca
duramente. Io ne ho uno solo e faccio parte di un gruppo di azione
missionaria.

Insegno
anche italiano ai giovani extracomunitari che arrivano in città privi di
tutto, persino di manifestare il desiderio di condizioni di vita più umane
rispetto a quelle che hanno lasciato. Senza retorica, la gioia che provo
con questi ragazzi, la ricchezza che mi danno sono difficilmente
raccontabili. La scorsa lezione eravamo 13, di 13 nazioni e 4 continenti.


Religione? Non chiedo mai quale sia la loro. Ci sono anche Rachid e Adel:
durante lo scorso ramadan, al tramonto, mi hanno chiesto con esitazione di
uscire un attimo per mandar giù un boccone.

Anche a
nome dei miei amici immigrati, non le dico «resista, resista, resista»,
perché potrebbe sembrare partigiano. Dico semplicemente «grazie!».

Rita
Viozzi – Ancona

 

Penso
che Missioni Consolata sia sempre un appuntamento con l’umanità. Ogni
numero porta con sé un carico di  gioia e dolore, di speranza e angoscia
che allarga gli orizzonti e va oltre i soliti circuiti di notizie: le
patinate serie di ovvietà e le ciniche ricerche di questa o quella verità
cui, i media «tradizionali» ci hanno abituato.

Non ci
sono giudizi, sentenze, né posizioni integraliste nei vostri articoli, ma
piccole-grandi storie, che possono essere definite «micromodelli di
universalità»: parlano di persone e fanno parlare le persone.

Uno dei
vostri pregi è quello di rendere ordinaria (non occasionale) la voce dei
semplici, di coloro che non hanno spazio nei network, senza per questo
costruire barricate ideologiche contro ricchi e potenti. I paradigmi
conflittuali non vi appartengono e chi li intravvede ha forse gli occhi
appannati.

La
scelta dei semplici non è ideologia. Ricordarlo è un dovere della
comunità-umanità cristiana.

Amici,
andate avanti così…


Gianmarco Machiorlatti

Albano
(RM)

 


Il signor Gianmarco termina con la seguente citazione: «Le giornie e le
speranze, i dolori e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri
soprattutto e di tutti quelli che soffrono, sono pure le giornie e le
speranze, i dolori e le angosce dei discepoli di Cristo» (Gaudium et Spes,
1).


Straordinario!

 

 


Il buon
samaritano



non
è… comunista

 Su
Missioni Consolata di gennaio 2002 leggo con amaro disappunto la lettera
di Giancarlo Telloli, che strumentalizza in chiave marxista la parabola
del buon samaritano. Il direttore, sempre compiacente in questi casi,
avrebbe dovuto avere il buon senso di non pubblicarla o farla seguire dal
commento di un sacerdote preparato, che chiarisse la portata spirituale e
temporale della parabola ben diversa da quanto scritto, che offende Nostro
Signore e ogni credente.

Il
signor Telloli ignora la storia (o finge di farlo). I comunisti Lenin,
Stalin, Mao, Pol Pot, Milosevich… hanno tanto «amato» il prossimo da
causare decine di milioni di vittime con i campi di concentramento e di «rieducazione»
(iniziati da Lenin nel 1918, e continuati da Stalin e da emulatori), lo
sterminio di intere popolazioni, le fosse comuni, le deportazioni in
Siberia (anche di sacerdoti e credenti), ecc. Esistono molteplici prove
storiche inoppugnabili: basti pensare ad Arcipelago Gulag di A. Solzenicyn,
alle opere dello studioso di statistica I. Kurgemov e ai documenti di
molti altri.

Mi
fermo per non stimolare l’autornironia del direttore, che, alle domande dei
lettori che inchiodano vescovi, preti e fanatici o interessati esaltatori
del marxismo, non risponde mai.

Dove
vuole arrivare? Ad una chiesa come quella di stato cinese o quella
ortodossa di Mosca del periodo comunista? Diventare così funzionari di
partito e di chiesa con stipendio e pensione? Siamo in molti a sperare di
meglio.

Per la
regola dell’alternanza, non sarebbe meglio che direttore e compagni
lasciassero la redazione ad altri, per andare o ritornare nelle missioni?

Con
amore per la verità

Piero
Gonella – Torino

 


Al «buon samaritano… comunista» abbiamo risposto su Missioni Consolata
di aprile. Abbiamo riflettuto un po’ sulla coerenza.


Circa il nostro giudizio su Lenin, Stalin e Mao, forse il lettore non ha
avuto modo di leggere i nostri numeri monografici su Urss e Cina (ottobre
1988 e aprile 1981). Ci siamo pure ricordati di Pol Pot (aprile 1983),
dell’invasione sovietica dell’Afghanistan (dicembre 1989 e febbraio 2002)
e dell’Est europeo (marzo 1990). Né abbiamo scordato Milosevich (luglio
1999).


Ogni lettera (e sono tante) trova spazio, cui rispondiamo (talora) con
poche righe. La ragione è semplice: lo spazio è ridotto e, pertanto,
preferiamo lasciarlo il più possibile ai lettori, che tra l’altro
dimostrano di sapersi rispondere molto bene…


Pienamente d’accordo sulla «regola dell’alternanza»… E magari avessimo
autornironia! Autornironia, che il martire inglese san Tommaso Moro
(1477-1535), vittima del potere, chiedeva ogni giorno al Buon Dio come
grazia.

AAVV




TROPPI ELEFANTI IN UN PALAZZO DI CRISTALLO

Sono vissuto 25 anni in COLOMBIA. Nel 1978
approdai a Remolino, nella foresta amazzonica
del Caquetà, durante la settimana in cui a
Roma fu sequestrato e poi ucciso Aldo Moro…
Ricordo le notti trascorse in lunghe conversazioni
con i campesinos che, di fronte alla guerra civile,
abbandonavano le città in cerca di libertà e terra da
coltivare, strappata alla selva millenaria. Era il meglio
che potessero avere. Poi scoprii che erano vecchi
comunisti, considerati un pericolo dai partiti tradizionali,
detentori del potere.
Oggi, in Italia da poche settimane, penso alle elezioni
legislative del 10 marzo scorso e a quelle del 26
maggio, allorché la Colombia avrà un nuovo presidente
della repubblica. E mi sconvolge l’ennesimo
assassinio: quello di Isaías Duarte Cancino, arcivescovo
di Cali (16 MARZO 2002). Il prelato, come testamento,
lascia anche un monito: «Fino a quando
dovremo catturare dei vandali, che si sentono autorizzati
a massacrare solo perché recano un bracciale
con la sigla Farc (Forze armate rivoluzionarie di
Colombia), Eln (Esercito di liberazione nazionale),
Auc (paramilitari)?».
In Colombia tutto è fragile ed imprevedibile.
Nulla è scontato. Nei primi anni ’90, quando lo
stato dichiarò guerra al narcotraffico, l’opinione
pubblica nazionale e internazionale non credevano
che le istituzioni avrebbero vinto. Infatti Pablo
Escobar, re della cocaina, sedeva al Congresso come
un cittadino perbene: era un elefante in un palazzo
di vetro… e qualcuno pretendeva che, al suo passaggio,
non restasse un coccio sul pavimento. In altre
parole, la connivenza tra potere politico e narcotraffico
era chiara, però gli organi ufficiali non l’ammettevano.
Il presidente Eesto Samper, eletto nel
1994, si dichiarò pulito. Ecco perché la democrazia e
la legalità erano fortemente minacciate. Ma
le istituzioni hanno reagito, sconfiggendo i cartelli
della droga.
Oggi il pericolo deriva, soprattutto, dalla connivenza
tra politica e guerriglia (che si avvale di cospicui
proventi della coca). Ancora una volta, dopo le elezioni
di marzo, la legalità è in pericolo, perché un
nuovo elefante sta attraversando le sale del palazzo
di vetro: le guerriglie, appunto, di destra e sinistra.
Tra i nuovi eletti ci sono i candidati imposti dall’elettorato
clandestino dei guerriglieri Farc, Eln, Auc.
È un nuovo schiaffo al popolo colombiano, che dovrà
ancora convivere con l’illegalità.
Come non ricordare, ad esempio, i 3 mila sequestri
di persona all’anno e gli assassini impuniti di numerosi
leaders sindacali e politici (di partiti minori)?
Il discorso sul potere politico-servizio della collettività
emerge solo durante la campagna elettorale dei
deputati. Una volta eletti, la festa è finita e… «gabbato
lo santo».
Dopo la rottura definitiva dei dialoghi di pace tra
governo e guerriglia (FEBBRAIO 2002), il quadro politico
assume toni ancora più foschi. Agli slogan radicali
dei fautori della guerra totale, si contrappongono
quelli dei sostenitori di progetti di sviluppo e
giustizia sociale, che è difficile realizzare.
L’unica via di uscita potrebbe essere il
pueblo. Abbandoni la protesta facile e si
vincoli maggiormente al destino della sua
patria. Viva più a contatto con le istituzioni pubbliche,
superi l’indifferenza e l’omertà, reagisca alla
cultura della violenza e dell’illegalità.
Abbandoni la doppia morale: piangere il morto oggi
e non vedere-sapere-udire niente domani.
La Colombia non merita di essere ciò che è o appare.

GIACINTO FRANZOI




Fare un «cornetto»

Caro direttore,
non condivido i giudizi espressi dall’autrice della lettera «Donne dimenticate?» (Missioni Consolata, gennaio 2002, pagina 6). I paesi islamici e non, dove l’adulterio viene castigato con la pena di morte, commettono un crimine. Ma l’infedeltà coniugale è, a sua volta, un male o un grave disordine morale, sul quale c’è poco da soprassedere. L’espressione «fare un coino» o «cornetto», usata dalla lettrice, non è adatta per discorsi così delicati: andare a letto con un altro non è come inzuppare una brioche nel cappuccino! Gesù stesso ha parlato dell’adulterio come di un peccato grave; e, pur avendo detto no alla lapidazione e dato una memorabile lezione ai farisei che ne sostenevano la necessità in nome della religione, si è rivolto alla donna colta in flagrante adulterio dicendole: «Va’ e non peccare più».

La storia più recente insegna che spesso l’adulterio è il preludio alla separazione, al divorzio, ossia a situazioni che peggiorano, anziché migliorare, la condizione della donna. In Italia, per esempio, la legge Baslini-Fortuna si è rivelata alla lunga contro la donna, non a favore: lo ammettono sia i divorziati che i divorzisti. Quanto al rapporto col neoliberismo, una delle migliori garanzie contro il club dei ricchi e la dilagante dottrina del «pensiero unico» è proprio la famiglia fondata sull’amore e sulla reciproca fedeltà dell’uomo e della donna: solo questa famiglia può riuscire ad essere per i figli un modello di sobrietà, solidarietà e responsabilità, indispensabili alle giovani generazioni. Queste hanno bisogno di modelli seri, per sostenere l’urto con il mondo dell’opulenza sfrenata, del consumismo (anche sessuale), del pendolarismo (anche affettivo), della flessibilità (anche nei vincoli coniugali), dell’indifferenza.

«In un mondo siffatto – stigmatizza ancora opportunamente la lettrice – la parola d’ordine è PROIBITO PROIBIRE, perché tutto è relativo, tutto è cultura, tutto è lecito, tutto è degno di considerazione, rispetto e tolleranza. Compresa la pornografia, la pedofilia, il turismo sessuale, i siti internet dedicati agli “appassionati” di sevizie ai neonati?».

Ave Baldassarretti




INFERNO VERDE

Situata
nel cuore
della foresta tropicale,
diventata parrocchia nel 1997,
Sago presenta tutti i problemi
degli inizi; ma la cordialità della gente
incoraggia missionari e suore a raccogliee
le sfide: clima caldo umido e zanzare
in abbondanza, carenze scolastiche e sanitarie,
babele di lingue e culture, con costumi che fanno
a pugni col vangelo… E qualcosa sta cambiando.

«Sago è un villaggio avviato
a diventare città – attacca
con enfasi Raphael, capo
tradizionale e maestro della scuola
locale -. È un villaggio cosmopolita.
Buona parte della popolazione viene
dall’estero: Burkina Faso, Mali,
Guinea, Liberia, Ghana, Togo, Benin
e perfino dal Congo. Posta all’incrocio
delle strade di collegamento
a varie città della regione, e ai
villaggi minori della zona, Sago è stata
scelta come sede della sotto-prefettura
ed è destinata a diventare una
città pilota. Ma non abbiamo nulla:
il prefetto non è ancora arrivato; le
strade non sono asfaltate, non c’è elettricità,
né telefono, né acqua corrente.
Dei quattro pozzi solo due sono
in funzione».

EPPUR SI MUOVE…
Senza tante parole, basta un colpo
d’occhio per capire che Sago è un
paese scalcinato: una serie interminabile
di catapecchie di fango, col
tetto di paglia o frasche, circondato
da un mare di verde, composto da
un intrigo di liane e varie piantagioni,
su cui svettano alberi secolari. Unici
edifici in muratura sono la scuola
e la missione: chiesa, casa dei padri
e convento delle suore.
Fino al 1997, anno in cui fu istituita
la parrocchia, la missione di Sago
dipendeva da Sassandra, 60 km distante.
Una volta all’anno, un prete
ne visitava alcuni villaggi, sparsi nella
foresta per un raggio di una cinquantina
di chilometri, limitandosi a
qualche catechesi e amministrazione
dei battesimi.
Oggi la parrocchia è servita da tre
missionari africani: il kenyano Zaccaria
King’aru, parroco e superiore
del gruppo dei missionari della Consolata
in Costa d’Avorio, coadiuvato
dal congolese Victor Kota e dal
kenyano Joseph Omondi. Tutti e tre
formano una comunità affiatatissima,
in cui ho vissuto giorni indimenticabili
di frateità e amicizia.
Da due anni sono presenti anche
tre suore di s. Gemma Galgani: l’italiana
Maria Pia e le congolesi Monique
e Veronique. Benché impegnate
ancora nella costruzione del convento,
collaborano a pieno ritmo
nelle attività religiose e formative
della parrocchia e gestiscono un dispensario
che supplisce all’inefficienza
di quello governativo.
«Fino a quattro anni fa, nessuno
conosceva Sago – afferma il capo
Raphael -. Appena vi si è stabilita la
chiesa cattolica, il governo ha deciso
di sceglierlo come sede della sottoprefettura:
ora il nome di Sago appare
su tutte le cartine geografiche.
Grazie alla chiesa cattolica esso è diventato
il centro religioso a cui fanno
riferimento decine di villaggi;
presto lo diventerà anche sotto l’aspetto
amministrativo».
La costruzione della chiesa e la
promozione del villaggio a sotto-prefettura
aveva innescato una serie di iniziative
destinate a cambiare il volto
del luogo: fu spianato il terreno e
scavate le fondamenta della sede amministrativa;
ma tutto è stato risucchiato
da abbondante vegetazione.
Qualcuno cominciò a fare blocchi di
cemento, ben presto anneriti dalle
piogge e coperti dalle erbacce, perché
a nessuno è venuta la voglia di costruire
abitazioni in muratura.
Sotto l’aspetto religioso, invece, i
cambiamenti sono già evidenti. Oggi
la parrocchia di Sago conta oltre
2.000 fedeli, 600 dei quali battezzati
in questi anni. Le 35 comunità sparse
nella foresta si sono rianimate: la
domenica le piccole cappelle di fango
sono insufficienti a contenere i fedeli,
costretti a seguire la messa sotto
il sole. Si moltiplicano dappertutto
i catecumenati, anche se si trova
difficoltà a reperire personale idoneo
per il regolare svolgimento dei tre
anni di preparazione al battesimo.
Bisogna fare i conti col personale
disponibile. Alcuni catechisti sono
pieni di buona volontà, ma mancano
d’istruzione. «Mesi fa – racconta
padre Joseph – mandai una lettera a
una comunità per comunicare la data
della celebrazione della messa; ma
quel giorno non trovai nessuno. Domandai
al catechista se avesse ricevuto
il mio messaggio ed egli rispose
seraficamente: “Ecco la lettera,
padre; l’uomo che sa leggere è andato
ad Abidjan”».
«Un altro – aggiunge padre Zaccaria
– sa leggere, ma è poligamo incallito;
è orgoglioso del suo lavoro, anche se spesso gli dico che non è un catechista,
ma un pagano che insegna
agli altri a diventare cristiani».

FRATELLI… IN ADAMO
In compenso tutta la gente è cordialissima
e apprezza la presenza e il
lavoro dei padri e delle suore. Mentre
padre Zaccaria mi guida per le
strade del villaggio, uomini e donne,
vecchi e bambini, cristiani e musulmani
salutano da lontano o accorrono
per darmi il benvenuto, stringerci
la mano, augurarci buon giorno,
chiedere notizie o scambiare quattro
chiacchiere.
Dopo il capo tradizionale, padre
Zaccaria mi fa conoscere l’iman dei
musulmani nord-avoriani: ci accoglie
con solenne cortesia e m’invita a sedermi
su uno scanno simile a un trespolo
più che a una sedia. Preferisco
una modesta panca, per rimanere
con i piedi per terra.
«Qui niente male» esordisce l’iman
in francese stentato: vuole dire che, a
differenza di altre zone del paese, a
Sago non esistono tensioni etniche o
religiose. «Siamo tutti uguali – continua
masticando inglese, quando il
padre gli dice che vengo dall’Italia -.
Tutti discendiamo da Adamo e apparteniamo
allo stesso Dio. Non si
deve mescolare la religione con la politica.
Cristiani e musulmani dobbiamo
lavorare insieme».
Padre Zaccaria conferma le relazioni
amichevoli esistenti tra cristiani
e musulmani e continuiamo la visita
al villaggio. Non c’è molto da vedere,
ma tanto da scoprire: prima di
tutto, quanto sia lontana la parentela
in Adamo. Il paese cosmopolita è
diviso in varie zone: al centro vivono
gli autoctoni godié; attorno gli avoriani
provenienti da altre regioni del
paese; in un estremo i burkinabé, che
costituiscono la maggioranza della
popolazione; in quello opposto altri
gruppi stranieri.
«I godié – spiega padre Zaccaria –
si ritengono padroni della foresta e
lavorano poco: hanno affittato le loro
terre agli immigrati, che si dedicano
alla coltivazione di cacao, caffè,
palma da olio e altri prodotti agricoli
». A guardare le case e il tenore di
vita, non c’è alcuna differenza tra padroni
e immigrati.
Sotto l’aspetto religioso la distinzione
è palpabile: i godié sono in
maggioranza di religione tradizionale;
i musulmani sono divisi in tre o
quattro gruppi, con relativi iman e
moschee, si fa per dire, trattandosi di
costruzioni più scalcinate delle abitazioni.
Ce n’è una per gli avoriani
provenienti dal nord del paese,
un’altra per i burkinabé, altre ancora
per i differenti gruppi stranieri.
Solo i cristiani sono sparsi dappertutto,
come il lievito evangelico, destinato
a fermentare tutta la massa.
Ma le diversità linguistiche e culturali
costituiscono un’altra sfida per
l’evangelizzazione.

BABELE DI LINGUE E CULTURE
È domenica. Accompagno padre
Victor nella comunità di Chartier, a
una ventina di chilometri dal centro.
Alle nove inizia la messa. Il padre mi
presenta alla piccola comunità, parlando
in francese; i catechisti Alfonso
e Beard traducono rispettivamente
in godié, per i fedeli locali, e in
moré, per quelli del Burkina Faso. La
celebrazione procede con lo stesso
ritmo per quasi tre ore: letture, omelia
e avvisi finali in tre lingue; gli
stessi idiomi si alternano nei canti.
Alle 12 ci sediamo davanti a un
pentolone di riso e un tegamino di
salsa e pesce, insieme ai responsabili
della comunità: una dozzina di uomini
e due donne. L’atmosfera è cordialissima.
Si ride e si scherza. Mi
sforzo di sorridere anche quando
non capisco. Ma non posso fare a
meno di ammirare e ringraziare la
gentilezza della gente, quando mi
viene offerto un bel gallo ruspante,
come segno di ospitalità.
«Le due signore sedute assieme a
noi sono godié – mi bisbiglia a un certo
punto padre Victor, per farmi notare
un dettaglio culturale -. Le donne
del Burkina, invece, dopo aver
servito cibo e bevande, sono scomparse
per mangiare tra di loro. Ciò
avviene anche il giorno delle nozze
dei burkinabé: lo sposo mangia e beve
con gli amici; la sposa fa festa insieme
alle altre donne: è il risultato
dell’influsso che l’islam ha esercitato
per secoli in quel paese, ma non
ancora penetrato nella società avoriana».

COSTRUIRE LA FAMIGLIA
Per costruire l’unità della famiglia,
i missionari insistono che genitori e
figli mangino insieme. A forza di battere,
qualcosa sembra cambiare, come
posso constatare a Bobodou, una
piccola comunità a 25 km da Sago,
dove si celebra il matrimonio di tre
coppie burkinabé: al momento del
pranzo, sposi e spose mangiano alla
stessa mensa. Padre Zaccaria gongola
di gioia, anche se le mogli sembravano
sedere sulle spine. A renderlo
ancora più felice è il matrimonio
del catechista. «È
la prima volta che
due giovani vengono
all’altare direttamente
dalle proprie case,
senza previa coabitazione
e prole appresso» mi confida.
Formare famiglie
cristiane, una sfida in
tutta l’Africa, è una
priorità per i tre missionari,
che sfruttano
ogni occasione a tale
scopo. Così, le coppie
regolarmente sposate
con rito cristiano della
comunità di Sago,
appena una dozzina,
diventano centro di
attenzione nella festa
della Famiglia di Nazaret,
la domenica
dopo natale: ben vestiti
e fiori all’occhiello,
gli sposi entrano in chiesa in processione
e si siedono in prima fila;
dopo l’omelia ogni coppia si scambia
anelli e promesse di amore e fedeltà,
come il giorno delle nozze, tra
gli applausi dei presenti.
Anche dopo la messa si continua a
celebrare: la comunità ha preparato
il pranzo per tutti i membri delle famiglie
festeggiate e si prosegue sino
a tardo pomeriggio con giochi, canti
e danze. Finalmente anche le donne
burkinabé si sbloccano, improvvisando
danze tradizionali, in cui
perfino suor Maria Pia azzarda qualche
piroetta.

CAPRETTI «A DUE ZAMPE»
«Siamo in un ambiente di prima evangelizzazione
», afferma padre Victor.
«Anzi, di pre-evangelizzazione –
incalza padre Joseph sorridendo -,
almeno per quanto riguarda la popolazione
locale».
La maggior parte dei cattolici e catecumeni
della missione di Sago, infatti,
sono di origine burkinabé; mentre
gli autoctoni, pur simpatizzando
per la chiesa, sono lenti ad abbracciare
i valori del vangelo. A frenarli è
un groviglio di superstizioni che sfocia
in sacrifici umani, offerti agli spiriti
della foresta per placarne l’ira o
attirae i favori a beneficio della comunità
o del singolo individuo.
Quando Sago fu promossa sottoprefettura,
la gente iniziò a sognare
strade asfaltate, elettricità, telefono…
e gli anziani dissero che, prima di avviare
tali progetti, bisognava fare sacrifici
agli spiriti. E si sentì raccontare
di scomparse misteriose. Padre
Flavio Pante, allora parroco di Sago,
e padre Zaccaria tuonarono dentro e
fuori della chiesa.
A innescare la reazione dei missionari
fu anche l’avventura di Rebecca,
una gemellina cristiana di 4 anni, vittima
designata per favorire il successo
di un commerciante. La bimba fu
rapita da uno sconosciuto; ma la tempestività
della ricerca da parte di parenti
e vicini non diede tempo al rapitore
di allontanarsi e permise alla
bambina di approfittare del trambusto
per fuggire e tornare in braccio a
sua madre.
Pochi giorni dopo, lo sconosciuto
era seduto al chiosco gestito dalla
madre di Rebecca per consumare alcune
frittelle; la bambina cominciò a
strillare: «Mamma, è quello l’uomo».
Il cliente non capiva la lingua della
bimba e la madre ebbe tutto il tempo
per farlo arrestare; ma, portato in
tribunale, il rapitore fu assolto per
mancanza di testimoni.
Per vari mesi non si registrarono altre
scomparse. L’estate scorsa, dopo
che padre Flavio ebbe lasciato Sago,
gli anziani tornarono alla carica. «Ho
avuto in mano la lista di 40 giovani,
di vari villaggi, candidati al sacrificio
– racconta padre Zaccaria -. Dodici di
essi erano di Sago. Sono fuggiti per
scampare al pericolo. Appena avuto
sentore di ciò che si stava macchinando,
abbiamo ripreso a martellare
tutte le comunità. Ora non si sente
più parlare di questo barbaro costume.
Ma fino a quando?».
La pressione sociale e culturale degli
anziani, custodi accaniti delle tradizioni,
è così forte che anche i cristiani
stentano a scrollarsi di dosso tale
mentalità. «La prima volta che il
vescovo venne a Sago per le cresime
– continua padre Zaccaria – uno dei
fedeli gli domandò come dovesse
comportarsi un cristiano di fronte al
sacrificio del capretto. E si sforzava
di chiarire il suo pensiero, finché il vescovo
disse: “Ho capito, ho capito!
Parli d’un capretto a due zampe”».
Nel marzo del 1993, a Béoumi, nella
regione natale del presidente Boigny,
il 55enne missionario francese
Adrien Jeanne fu trovato morto con
la gola squarciata: gesto rituale dei sacrifici
umani. Corse voce che il delitto
fosse legato alla salute del presidente,
ormai spacciato da un tumore:
uno stregone avrebbe sentenziato
che solo il sangue di un uomo bianco
e vergine avrebbe potuto salvare
la vita al presidente.
Inutile ricordare che il presidente
morì lo stesso anno. Tuttavia la diceria
dimostra che, nonostante tali fatti
siano condannati dalla legge come
crimini, la mentalità è radicata su
scala nazionale, nella polizia e nelle
istituzioni che dovrebbero difendere
la vita, fino ai livelli più alti della
società avoriana.

PARTIRE DAI GIOVANI
Cosa fare per liberare la gente da
paura, superstizione, magia e altri elementi
culturali negativi?
I missionari s’interrogano e propongono
qualche priorità. «Bisogna
cominciare dai giovani: sono loro il
futuro della chiesa e del paese» afferma
padre Victor, incaricato della
formazione giovanile in tutta la parrocchia.
«Fin dai primi incontri nelle
comunità e nei raduni qui al centro
– racconta il padre – ho incontrato
difficoltà enormi: moltissimi
giovani non sanno né leggere né scrivere.
Ho deciso di cominciare da zero,
dalle cose più semplici, coniugando
formazione religiosa e alfabetizzazione».
Le statistiche riportano che il 60%
della popolazione della Costa d’Avorio
è analfabeta. La percentuale è
ancora più elevata nelle zone rurali
come Sago, dove esiste solo la scuola
elementare per 300 alunni, mentre
la maggioranza dei bambini sono
abbandonati a se stessi o costretti a
lavorare nelle piantagioni.
Per chi volesse continuare gli studi,
la scuola secondaria più vicina è
a Sassandra, 60 km da Sago. Quei
pochi che tentano l’avventura, tornano
a casa frustrati, poiché a Sassandra
non ci sono possibilità di alloggio
né famiglie disposte ad assumersi
la responsabilità di seguire i
giovani studenti.
«Ormai speriamo solo nella chiesa;
il governo promette molto, ma non
realizza niente» confessa il capo
Raphael e, rivolgendosi a me, continua:
«Ti prego perché, come esponente
della stampa, faccia conoscere
in Europa le nostre necessità e inviti
i superiori del tuo istituto a pensare a
una scuola cattolica qui a Sago. È vitale
per il nostro futuro: i quadri esistenti
qui e a livello nazionale, io
compreso, provengono tutti da scuole
cattoliche».
Padre Zaccaria sorride sotto i baffi
e mi fa una strizzatina d’occhio:
promettiamo tutti e due di fare il
possibile per mantenere vivo tale sogno
e di pregare perché possa presto
realizzarsi.
Intanto, padri e suore continuano
a soddisfare speranze più modeste:
nel centro e in varie cappelle hanno
già organizzato corsi di alfabetizzazione
per giovani e adulti; tra qualche
mese, quando sarà terminata la
costruzione del convento, alcune
sale a pianterreno accoglieranno i
bambini dell’asilo. Sono iniziative
rasoterra, ma indispensabili
per volare un po’ più
alto.

Benedetto Bellesi