Padre Pio e mondo militare…

Quando la vita ecclesiale scade a certi livelli (denunciati dai preziosi articoli di Missioni Consolata «Quelle pesantissime stellette» e «Comandi, don Mariano»), la colpa è anche della scarsa vigilanza dei cristiani comuni, non solo della gerarchia.
Sono convinto che, se negli Usa, in Italia, Argentina, Brasile, El Salvador… i cappellani militari han combinato ciò che han combinato, è anche perché molti cristiani NON sapevano neppure che esistessero; o, se lo sapevano, NON controllavano la compatibilità delle loro teologie (l’Ordinariato militare è una diocesi a sé con seminari propri) con il vangelo di Cristo e la tradizione della chiesa.
Come devoto di Padre Pio, sono rimasto disgustato quando, leggendo Il Cursore (periodico religioso dei militari italiani), mi sono imbattuto nell’articolo «Soldato Forgione». Qui il santo di Pietrelcina è proposto come grande amico del mondo militare, legato a un concetto di patria che, sostanzialmente, coincide con quello dei Mani, Bagnasco, Ruini, Baget Bozzo…
Il vero Padre Pio, invece, servì l’Italia non quando indossò l’uniforme, ma quando la depose e quando, dopo 16 mesi di massacrante andirivieni tra caserma, convento e ospedale militare (le autorità militari volevano che diventasse soldato), poté finalmente annunciare: «Sono superlativamente lieto della grazia divina che Gesù mi ha accordato col liberarmi della milizia completamente. Fra giorni mi si firmerà il foglio di via, e così potrò lasciare, con animo soddisfatissimo, Napoli, facendo voto di non ritornarci mai più».
A chi dubitasse su quanto ho detto, suggerisco di leggere Padre Pio, Un Santo in mezzo a noi (supplemento di Famiglia Cristiana, 37/1999); in particolare le pagine 38-48.
Francesco Rondina
Fano (PS)
P. S. «Qualche ora dopo il suo arrivo – scrive Gennaro Preziuso, riferendosi al traumatico impatto avuto dal Santo con l’ambiente della caserma Sales – con le lacrime agli occhi, fece la triste esperienza di sostituire il saio tanto amato con una goffa divisa militare. Nel deporre “l’abito di San Francesco”, lo baciò con trasporto…
Si guardò ed ebbe la sensazione di essere capitato in un “manicomio”. Tutti avevano fretta. Gli ordini dei superiori erano preceduti e seguiti da parolacce, che ferivano la sua sensibilità e il suo pudore.
I rimproveri determinavano ilarità e degradavano la dignità degli uomini che li ricevevano. Il turpiloquio, i discorsi spesso licenziosi erano intercalati da orribili bestemmie.
La carità pareva che nessuno sapesse cosa fosse. Imperava solo l’egoismo. La riservatezza aveva ceduto il posto alla volgarità e alle oscenità.
Padre Pio provò nausea e disgusto…».

Francesco Rondina




Il compito in classe di Federico

Ho letto «Il compito in classe di Federico», terza media (Missioni Consolata, marzo 2004). Avete fatto bene a pubblicarlo. Così ci si rende conto del complesso quadro culturale entro cui un ragazzo è costretto a navigare.
Se le cose scritte da Federico le ha imparate a scuola, è un dramma. Spero di no. È più probabile che abbia assimilato ciò che ha sentito in televisione o al bar. Niente di nuovo: l’America cattiva, Berlusconi mafioso (non sono un elettore del centrodestra)… La sintesi, cioè, delle prediche dei Caruso, Agnoletto, Pecoraro Scanio, Bertinotti, ecc. Anche il nome di Giulio Cesare non vorrei che l’avesse sentito in televisione, anziché averlo letto in qualche pagina di storia.
Fossi il genitore di Federico, me ne preoccuperei.
Angelino Deriu – Bussero (MI)

I genitori di Federico sono preoccupati anche e soprattutto dei contenuti della scuola e del giudizio di qualche insegnante.

Q uando sono nata (nel 1925) mia mamma, devota alla Vergine, mi aveva consacrata alla Consolata.
Nella mia vita sono sempre stata anch’io molto devota alla Consolata. Ogni volta che vado a Torino non manco di confessarmi e comunicarmi al Suo santuario e cerco di contribuire al sostegno delle missioni.
Da quando so leggere seguo le vostre pubblicazioni, che da modesto bollettino sono divenute lussuose riviste. Stavo leggendo il numero di marzo, quando sono sobbalzata sulla sedia: avevo letto le prime righe di «Il compito in classe di Federico».
Ho sfogliato indietro la rivista sino alla prima pagina, credendo di aver preso, per sbaglio, il Manifesto. No, era proprio Missioni Consolata! Ma è possibile – mi son detta – che la redazione di una rivista, che dovrebbe occuparsi di missioni cattoliche, possa cadere nella trappola di un povero studente di terza media?… Ma la rivista era tanto conscia di ciò che stava per pubblicare che ha dato al pezzo adeguata visibilità tipografica.
Ho finito di leggere il bel compitino, con i giudizi (tutto considerato) positivi sia dell’insegnante che della redazione. Ho poi letto la lettera sottostante, di un sedicente dott. Torre, su quel sant’uomo di Fidel Castro. E non mi occorre altro per capire tutto…
Certo: voi siete liberi di pubblicare quello che vi pare ed io sono libera di sospendere il mio contributo alle missioni… Ma il mio pensiero va ai tanti vostri missionari che, nel mondo, diffondono la parola di Dio. Mentre alcuni (pochi) confratelli, nel comodo rifugio di Torino, diffondono la parola di Agnoletto e Cesarini.
Nella mia preghiera d’ogni sera pregherò la Madonna Consolata di illuminare le menti di questi poveretti, che usano il Suo nome per scopi molto terreni e che, con le missioni, non hanno molto a che fare.
Pace e bene.
Mirella Carle – Genova

Signora Mirella, grazie delle preghiere. Abbiamo bisogno estremo dell’illuminazione dello Spirito Santo per intellegere, ossia «leggere dentro», superare i pregiudizi, andare al di là dei luoghi comuni.
Missioni Consolata pubblica tutte le lettere, alle quali risponde con «sì», «no», «distinguo», invitando al dialogo, alla moderazione e riproponendo il quesito evangelico «che ve ne pare?» (cfr. Mt 21, 28). Così per il «compito» di Federico e l’intervento del dottor Giuseppe Torre. La rivista ha pubblicato anche lettere anonime, velenose e ricattatorie, che ci fanno il processo alle intenzioni appellandosi alla… Consolata.
Ci viene in mente un certo Vittorio De Beardi, che nel marzo 1990 scrisse: «La rivista mi interessa quasi unicamente per verificare la profonda degenerazione di tante istituzioni della chiesa, gestite da incoscienti o da perversi come voi».

Angelino Deriu, Mirella Carle




La guerra in Aceh e noi

L a guerra civile insanguina la provincia di Aceh, nell’isola di Sumatra, Indonesia, (cfr. Missioni Consolata, 10 2003). C’è, inoltre, un altro motivo di preoccupazione: la sciagurata gestione del patrimonio forestale.
Se «Aceh» non fa rima con «pace», è perché, oltre alla Mobil, vi sono vari colossi del mondo imprenditoriale e finanziario, i quali, approfittando dell’instabilità politica e degrado sociale, privano l’Indonesia e il mondo di un tesoro ecologico ed economico di primissimo ordine.
Rispetto alle guerre tradizionali, i «conflitti a bassa intensità» (come quello nell’Aceh da 28 anni), oltre a provocare tante vittime civili, sono l’ideale per chi vuole rubare alla natura il massimo rischiando il minimo.
Con la guerra propriamente detta, la foresta equatoriale fa paura, perché qui si concentra il nemico. Invece nei conflitti a bassa intensità la foresta è solo una ricca torta da spartire. Qui la linea di demarcazione tra amici e nemici, terroristi e soldati, patrioti e invasori, bracconieri e ministri dell’ambiente è molto labile.

L’esistenza del grande parco nazionale Gunung Leuser non deve trarre in inganno, né deve illudere che la regione dell’«Ecosistema del Leuser» goda dello speciale patrocinio delle Nazioni Unite (l’Unesco l’ha inclusa nel programma «L’uomo e la biosfera»).
In realtà il Leuser è solo «parco di carta». Autorevoli studiosi temono che la copertura naturale possa sparire entro il 2005. Il disboscamento, messo in atto dalle compagnie del legname pregiato, dalle società cartarie e da coloro che hanno interesse a trasformare il territorio in un’immensa piantagione di tabacco e marijuana, provoca un danno incalcolabile alla biodiversità.
Il Leuser conta circa 25 mila specie di piante e animali: molte rischiano l’estinzione, come orangutan, rinoceronte, elefante e tigre (che, finora, ha tratto scarsissimo giovamento dalla riproduzione artificiale). Sconvolti sono l’assetto idrogeologico e il clima.
Contrariamente a ciò che la geografia può farci pensare (l’Aceh è all’Equatore), oggi a Sumatra periodi di siccità prolungata, capaci di asciugare fiumi di grande portata, si alternano ad alluvioni disastrose, come quella del novembre 2003, che costò la vita a più di 170 persone (tra cui diversi turisti).

A nche contro questo tipo di guerra occorre una seria mobilitazione. Si tratta di una guerra che miete vittime pure sulle isole limitrofe: gli indigeni dell’arcipelago Mentawai rischiano la cancellazione dalla faccia della terra, perché le loro foreste fanno gola a multinazionali e grossi calibri del mondo politico e militare.
Il nostro «sì» alla guerra lo diciamo pure quando fumiamo sigarette o lasciamo fumare (per una malintesa tolleranza). Lo diciamo quando sprechiamo quintali di fazzoletti e tovaglioli di carta. Possiamo accontentarci dell’assicurazione, da parte di certe aziende, che il 30% di tale carta non proviene dall’abbattimento di foreste naturali? E il restante 70%?
Inoltre beviamo caffè.

T empo fa il Wildlife Conservation Society dell’Indonesia denunciò il mercato irregolare del caffè come un motivo di fondo del degrado ecologico e della crisi sociale a Sumatra. Infatti, mentre nella maggioranza dei paesi consumatori il prezzo della tazzina aumenta, i lavoratori nelle piantagioni e i piccoli proprietari ricevono salari sempre più bassi. All’economia Usa il mercato del caffè frutta ogni anno 70 miliardi di dollari, ai paesi produttori solo 5,5.
A Sumatra guadagni miseri spingono i coltivatori a espandere le piantagioni per aumentare la produzione di bacche. Risultato: tra il 1996 e il 2001 la superficie coltivata è cresciuta del 28% e la maggior parte di questa espansione è avvenuta a spese delle foreste naturali, anche «protette»; oltre il Leuser, in grave difficoltà sono i parchi di Barisan Selatan, Berbak, Kerinci Seblat, Way Kambas.
Se vogliamo ridare pace e ambienti vivibili agli abitanti di Sumatra, se abbiamo a cuore la natura e gli animali, cerchiamo di eliminare il superfluo dalla nostra vita. Trasformiamo il tempo e il denaro risparmiati in qualcosa di valido: un libro, una rivista, una lettera di sensibilizzazione. Senza dimenticare LA PREGHIERA!
Chiara Barbadoro
Fano (PS)

Chiara Barbadoro




La testimonianza di Carlo Urbani

È morto un medico: Carlo Urbani.
Non l’ho conosciuto, ma ci univa un sottile filo. E,
quando ho appreso la notizia della sua morte, ho riconosciuto
quel leggero filo e l’ho riconosciuto nello stesso
momento in cui si è spezzato. Il tenue filo non è solo
la nostra professione di medico, ma il fatto di averla
svolta anche in paesi lontani, quelli che siamo
abituati a chiamare «terzo mondo».
La sua morte è avvenuta in un periodo di guerra, in
uno di quei periodi in cui ci si dimentica del terzo mondo,
allorché l’umanità viene distrutta e si perde il senso
della grandezza della persona umana. Le bombe cadono
su Baghdad, i marines attaccano l’Iraq dal cielo e
dalla terra, ed un medico muore lontano nell’Estremo
Oriente.
Poche settimane fa sono arrivati nel mio ospedale i
protocolli da seguire per quella anomala polmonite virale
che sta colpendo popolazioni tanto lontane, quella
polmonite che il medico Carlo Urbani stava combattendo
con passione, così come ha combattuto la tubercolosi,
l’AIDS ed altri temibili virus e batteri nei
paesi del terzo mondo. Inoltre Urbani scriveva per Missioni
Consolata, cercando di raccontare quei lontani
mondi, la loro sofferenza e la loro forza. Anche questo
filo ci univa.
La professione di medico è molto cambiata; in parte
è diventata come ogni altra professione, estremamente
tecnica, specializzata, e forse si è anche allontanata
dall’antico cammino che riusciva ad incrociare
la capacità professionale con la vicinanza alle sofferenze
umane.
Mi sono venuti subito alla mente tanti nomi di medici,
conosciuti nei miei quasi 20 anni di professione,
5 dei quali (i più belli) spesi in Perù; ho pensato al dottor
Iginio, che ho visto piangere per la rabbia di fronte
alla sofferenza; alla dottoressa Charo, che a volte si
portava i bambini a casa per dar loro anche un po’ di
affetto e cibo; al dottor Lucio, che spendeva parte del
suo stipendio in medicine per i suoi pazienti; a quel
cardiochirurgo che ha operato un bambino peruviano,
portato di nascosto in Italia, e che non ha voluto neanche
i miei ringraziamenti. Ho pensato a quei medici
che, in Perù, lavorano quotidianamente con la tubercolosi,
con l’AIDS, e che non sono neanche protetti da
un’assicurazione.
Ho pensato alla mia vita di
medico del primo mondo, con 38
ore lavorative e il cartellino da
timbrare, con il sindacato che mi
protegge, con strutture, finanziamenti,
apparecchiature e medicine
a disposizione. Ho pensato agli
scandali della nostra sanità, ai
mille interessi economici che
l’attraversano snaturandola, ai
congressi in giro per il mondo…
e mi sono sentito un piccolo medico
che vive di ricordi. E ho sentito
il tenue filo con Carlo Urbani
che si spezzava.
È morto un medico che credeva alla sua professione
e all’umanità. E si è spezzato un tenue filo anche in me.

No, il filo non si è spezzato. Come è noto ai lettori,
Guido Sattin cura la rubrica «COME STA FATOU?» (anche a
pagina 64 di questo numero), che illustra la sanità e non
sanità nel Sud del mondo. La rubrica fu iniziata nel gennaio
1999 proprio da Carlo Urbani, al quale M.C. dedicherà
un Premio.

Guido Sattin




Gino Strada e don Mariano

Spettabile rivista,
poche righe per i cappellani militari, dopo aver letto «Quelle pesantissime stellette» (Missioni Consolata, marzo 2004).
«Se mi soffermassi nel ricordarvi che il vostro stipendio (voto di povertà!) grida vendetta al cospetto di Dio», al cospetto dei poveri, dei diseredati, farei un discorso semplicistico.
Perciò continuo con una frase non mia, rivolgendomi a lei, don Mariano, ai cappellani militari, a tutti quelli che amano le armi e le guerre: «Io credo di avere il diritto di dire che non vi rispetto, non vi rispetto come cristiani, non vi rispetto come uomini»; anzi, ritengo che il vostro agire sia un insulto alle parole del papa, al pensiero della chiesa, alle affermazioni di Cristo.
Chissà se qualcuno di coloro, che stanno all’apice della piramide di quella tanto criticata e biasimata gerarchia ecclesiale, ha il coraggio di schiarirvi le idee: «O preti senza stellette o stellette senza essere preti». Il vostro esaltato fanatismo porta all’allontanamento di tante persone di buona volontà da quella chiesa che voi, volgarmente, dite di rappresentare.
Mi sento cittadino del mondo. I miti della patria e dell’eroe, li ho abbandonati ormai da tempo. Mi auguro che un giorno non lontano siano abbandonati anche da voi.
Giuliano
via e-mail

Egregio direttore,
ho letto «Quelle pesantissime stellette» sui fatti di Nassiriya. Mi sono soffermato sul box «Comandi, don Mariano» e sono rabbrividito. Non condivido le parole di don Mariano, dettate più dall’odio (motivato dal posto in cui si trova) che dalla misericordia divina.
Anch’io sono un pacifista, senza però frequentare cortei. Mi sono limitato ad esporre la bandiera, a dire che la guerra porta solo odio e sangue. Continuo ad affermare che la guerra in Iraq è stata inutile, non per abbattere un brutale dittatore, ma per il modo in cui è stata fatta: tonnellate di piombo su bambini e civili, alla ricerca di armi di distruzioni di massa inesistenti. Per catturare Saddam, bastava corrompere qualcuno e andarlo a prendere in taxi.
Ora ne paghiamo le conseguenze, col terrore di frequentare posti affollati, bersagli di terroristi. Se in Iraq non c’era il petrolio, ma verze, la guerra non ci sarebbe stata.
Da oggi anch’io faccio nausea a don Mariano, e così la commozione suscitatami dai reduci morti di Nassiriya viene ripensata.
Dire poi che Gino Strada sia un assassino è il colmo per un sacerdote. Al di là delle ideologie e simpatie politiche, chi si adopera per salvare le vittime della guerra è da ammirare e ringraziare. Un assassino non salva una vita, ma la toglie. Non mi sembra il caso di Gino Strada, pur con le critiche che gli si possono fare.
Capisco il momento emotivo di don Mariano, ma, proprio perché ministro di Dio, dovrebbe usare più misericordia anche nel linguaggio. Gli ricordo che a tradire Gesù non è stato un medico, ma un apostolo (sacerdote oggi). Pertanto riflettiamo…
Fortunatamente sono un cattolico credente; diversamente, verrebbe voglia, dopo aver letto quel trafiletto, di rispedire al mittente la rivista, ma cadrei nello stesso errore. Non bisogna mai dimenticare il bene che tante persone fanno: e sono la maggioranza!
Grato per l’ospitalità.
Giulio Oggioni
via e-mail

Giuliano, Giulio Oggioni




RICHIESTA RETTIFICA

Con riferimento all’articolo a firma del Sig. Maurizio Pagliassotti pubblicato nella rivista “Missioni Consolata” del marzo 2004, a pag. 62, e titolato “Comandi, Don Mariano” avente ad oggetto un’intervista da me rilasciata al suddetto giornalista, rilevo che mi sono state attribuite frasi mai pronunciate, altre contrarie a verità e pregiudizievoli.
Per quanto attiene il Sig. Gino Strada ho chiaramente detto che “non lo sopportavo” a seguito dell’affermazione di quest’ultimo “I militari italiani in Iraq sono degli assassini” effettuata nel corso di una trasmissione televisiva (Maurizio Costanzo Show). Non ho quindi mai detto che il Sig. Strada fosse un assassino. Quanto alla parte inerente i pacifisti ho sostenuto che le Ong spesso chiedono scorte armate per svolgere gli interventi umanitari andando così in contraddizione quando esprimono concetti esasperati di pacifismo. Nella parte relativa al Santo Natale non ho mai detto che sarebbero stati benedetti i fucili o le armi dei soldati. Auspico la pubblicazione della versione integrale dell’intervista.

Padre Mariano Asunis, cappellano della Brigata Sassari, già cappellano in AN Nassyria (Iraq), richiede anche la pubblicazione integrale dell’intervista rilasciata a Maurizio Pagliassotti. Non possiamo aderire alla richiesta perché non esiste altro testo se non quello da noi pubblicato su MC di marzo 2004 (pagina 62). Esistono soltanto appunti scritti a mano dal nostro intervistatore, in base ad accordi intervenuti con lo stesso padre Asunis, che confermano il contenuto dell’intervista.

Don Mariano Angius




Per non essere pazzi

Cari missionari,
leggo da anni Missioni Consolata, che per me è la stella cometa dell’editoria. Quello che vi distingue è che non siete di parte: non vi lasciate abbindolare dai potentati, ovvero da quelli che decidono per gli altri e credono sempre di avere ragione.
Pensiamo alla Spagna, al suo «11 febbraio». Ancora orrore e morti innocenti per colpa di terroristi, i quali hanno trovato terreno fertile per le loro efferratezze nelle politiche inteazionali di parte. Bisogna eliminare i pretesti che permettono ai terroristi di compiere stragi assurde… Perché a baschi o ceceni non si riconosce finalmente l’indipendenza? Cosa costa, se serve per la pace in Spagna e Russia?
Mi chiedo quanto tempo ci vorrà ancora per creare lo stato della Palestina (di conseguenza si garantirà la sicurezza in Israele). Mi chiedo pure che cosa può pesare sugli arabi, sul piano politico internazionale, senza che contino solo per il loro petrolio. Infine mi domando: perché non si cerca di andare contro corrente, offrendo noi (popoli del 2000) a tutti la mano della ragionevolezza.
Alessandro
Modena
P. S. Scandaloso il vostro calendario del 2004, perché c’è una danza cinese o un indio yanomami seminudo? Per carità! Oggi il vero scandalo è il continuare a ragionare con… due pesi e due misure.

L’invito alla ragionevolezza è di cogente attualità, specialmente di fronte al terrorismo e alla guerra: guerra che l’enciclica Pacem in terris definisce «alienum a ratione» (43). L’espressione fu tradotta dal vescovo Tonino Bello con «roba da matti».
Circa il nostro scandaloso calendario, ecco altre considerazioni.

Alessandro




La foglia di fico

Cari missionari,
esprimo disappunto di fronte a quel lettore che ritiene il vostro calendario «scandaloso». Ma dove? O stiamo scherzando?
Dopo ciò che è successo in Spagna e dopo le stragi giornaliere in Africa, che non fanno neanche notizia per colpa dei nostri giornali, i quali classificano le disgrazie altrui di serie A o serie B… Questo sì che è scandaloso!
Il «nudo» è creazione di Dio, mentre «la foglia di fico» l’ha fatta l’uomo… Non facciamo i finti moralisti! Grazie a Dio, non siamo a Kabul! Non facciamo come MTV, la tivù musicale che parla di sesso tutte le sere e poi fa la moralista censurando un video-clip di Paola e Chiara, che appaiono in modo sfocato con le gambe scoperte. I più giovani, che seguono MTV, hanno capito…
Nel vostro calendario non c’è nulla di strano. Ma tutto può fossilizzarsi su certe ideologie. Questo è pericoloso. Se i mali del mondo sono le donne svestite nei paesi occidentali e, nel mondo musulmano, le donne kamikaze schiave col burka… Il vero demonio è il soldo, che viene a loro offerto. È scandaloso il fine, non il nudo.
È pure scandaloso che, ogni anno, milioni di quintali di riso siano buttati per festeggiare gli sposi. Questo nessuno lo dice. Intanto «Caaroli» e «Riso Scotti» vendono. E del morto di fame chi se ne frega! Per non parlare dell’immigrato, che serve solo per il bacino dei voti…
Meditiamo gente, meditiamo!
Graziano Pini
Reggio Emilia

Oggi, ad onor del vero, per festeggiare gli sposi, qualcuno «medita» di lanciare fiori di carta, riciclabili, invece di riso.

Graziano Pini




Uniti si vince

Caro direttore,
partendo da Missioni Consolata, ottobre 2003 (contro le guerre) e dal numero di gennaio 2004 (Iraq in guerra), entrambi ottimi, vorrei sottoporle alcuni rilievi.
1. Noi cattolici non crediamo alla pubblicità, al suo «potere». Altrimenti, perché non inviare il numero contro le guerre ai governanti, a cominciare da Berlusconi, che hanno appoggiato moralmente (e stanno appoggiando direttamente) l’azione (mi astengo dal definirla) di Bush e Blair? Perché non inviare quel servizio perfetto ai giornali (e giornalisti), a cominciare da Libero di V. Feltri, che hanno umiliato e offeso i milioni di cattolici e non, i quali hanno manifestato coraggiosamente contro Bush e la guerra?
2. Noi cattolici siamo divisi, dispersi. La rivista La Civiltà Cattolica, 3 gennaio 2004, scrive: «Già nel 1965 Lazzati riconosceva che, quantitativamente, l’editoria giornalistica cattolica era notevole (circa 2.000 testate), ma notava amaramente che incideva ben poco sull’opinione pubblica. Purtroppo la diagnosi è corretta…». L’articolista concludeva: «Se vogliamo ricompattare il laicato, dobbiamo iniziare a superare la frammentazione del giornalismo cattolico».
Noto che Missioni Consolata, Nigrizia e Missione Oggi si equivalgono (sotto molti aspetti) per chiarezza di linguaggio (parresia, secondo san Paolo e «parlar chiaro» secondo Thomas Merton), per coraggio e impostazione di tematiche. Dico solo: uniti si vince (divide et impera, ci insegnano i Romani, cioè vince chi riesce a dividere l’avversario).
Nota bene. C’è anche il problema di costi. Personalmente, per fare un esempio (tratto dalle Edizioni Paoline), dovrei abbonarmi a Famiglia Cristiana, Letture e Jesus. Si tratta di una suddivisione che non sta in piedi, dato che il prodotto è di un unico «proprietario». Non ci vuole un granché per capire che L’Espresso o Panorama incidono di più.
Ambrogio Vismara
Cuggiono (MI)

Il nostro parere «personale» collima con il suo, signor Ambrogio. Il mondo editoriale missionario, tuttavia, sta camminando verso l’unità con qualche buon esito: ad esempio con l’EMI (editrice missionaria italiana) e la MISNA (agenzia di informazione missionaria). EMI e Misna sono della CIMI (conferenza degli istituti missionari in Italia).

Ambrogio Vismara




Annalena Tonelli martire

Caro direttore,
grazie per lo stupendo articolo-testimonianza su Annalena Tonelli (Missioni Consolata, marzo 2004). Da ottobre dello scorso anno, la sua figura (che avevo conosciuto nel febbraio 1984 a causa del massacro di Wajir, in Kenya), mi «perseguita».
A seguito di quel racconto, con alcuni missionari Fidei donum avevo scritto una lettera di protesta a mons. Ndingi, allora presidente della Conferenza episcopale kenyana per il silenzio dei vescovi.
Annalena, che incontravo talvolta a Nairobi, mi dava la carica. Ringrazio Dio di averla conosciuta.
don Piero Gallo
Torino

Missionaria laica in Kenya e Somalia per 33 anni, Annalena Tonelli fu assassinata a Borama (Somaliland) il 5 ottobre 2003. Una martire vera.

don Piero Gallo