LETTERA Torture nel carcere di Abu Ghraib

Spettabile redazione,
trovo ridicolo parlare delle torture compiute nel carcere di Abu Ghraib (Iraq) come di spiacevoli inconvenienti che non devono e non possono incrinare la fiducia negli Stati Uniti e nelle loro forze armate.
I soldati e le soldatesse che, in Iraq, hanno angariato decine e decine di prigionieri non sono assolutamente equiparabili a una manciata di mele marce in uno splendido giardino fiorito, che emana fragranze e profumi da tutti i pori; sono invece il risultato fin troppo ovvio di una filosofia militare nella quale il ruolo del torturatore è previsto, ed è un ruolo per nulla marginale.
Per quanto raccapricciante possa essere, l’immagine della soldatessa Lynndie England, che tiene al guinzaglio il malcapitato prigioniero iracheno, diventa una quisquilia se paragonata alle immagini del film-documentario «Faccia di spia» del 1975, incentrato per buona parte sul ruolo che la tortura ha giocato nella «strategia della tensione», imposta dalla Cia all over the world…
Domenico Di Roberto
Ancona

A chi ha creduto alla fandonia che «l’onore degli Stati Uniti non può essere intaccato dal comportamento dei carcerieri di Abu Ghraib», ricordo che a Fort Benning, nello stato della Georgia, esiste una scuola chiamata S.O.A., dove la tortura è una normale materia di insegnamento.
È la scuola dove si sono formati molti spietati dittatori, uomini che si sono resi protagonisti di atti di inaudita ferocia in quasi tutti i paesi dell’America Centrale e Meridionale. Il fatto che la scuola abbia cambiato nome (ora si chiama «Istituto dell’emisfero occidentale per la cooperazione alla sicurezza») non deve trarre in inganno: non sono cambiati né i programmi né gli obiettivi…
Com’era logico aspettarsi, i generali e ufficiali diplomati alla S.O.A. non si sono limitati ad applicare quanto, da «alunni, avevano appreso dai rispettivi insegnanti, ma hanno istruito nell’arte della tortura, del massacro e del colpo di stato altri “studenti”…».
Forse è superfluo aggiungere che queste scuole di crimini alimentano una fiorente industria. Secondo il presidente di Amnesty Inteational, Marco Bertotto, oggi nel mondo operano almeno 150 aziende specializzate nella produzione di strumenti di tortura, dai più semplici ai più sofisticati.
Rita Ferri
Fano (AN)

Alla S.O.A. ha accennato pure l’editoriale di Missioni Consolata, luglio/agosto 2004… Purtroppo, in barba a tutte le prescrizioni, la tortura è ancora in voga in tante regioni del mondo. Riconoscerlo è positivo, ma non assolve dalle proprie responsabilità.

Domenico di Roberto




LETTERA “Far come se” o “far finta che…”

Cari missionari,
salve! Una tantum concorro anch’io a prendere un po’ del vostro tempo e spazio. M’induce a farlo l’intervista al padre Bartolomeo Sorge (Missioni Consolata, maggio 2004) e, in particolare, la sconfortata-sconfortante conclusione: purtroppo troppi cristiani fanno «come se» Gesù Cristo «fosse risorto». «Viviamo come se il vangelo fosse vero, invece è vero!».
Dunque «troppi fanno…» e, ampliando, «troppi pensano, parlano, scrivono solo come se…». Chiedo:
– quale alternativa praticabile l’intervistato rimpiange e consiglia a noi cristiani comuni? (non a Madre Teresa o a Tommaso d’Aquino);
– come potremmo/dovremmo «leggere chiara l’alternativa» noi, poveretti, nella vita dei consacrati? (di nuovo: non in figure eccezionali);
– non è un po’ sofistico e pericoloso scendere a distinzioni/dubbi del genere, pur nella liceità del distingue semper?
Senza volare troppo alto, supponiamo che alcuni poveretti, come me, chiedano alla rivista: «Cosa vuol dire l’intervistato? Forse che non bisogna fare come se Gesù Cristo fosse risorto davvero? Oppure, che troppi cristiani dichiarati fanno finta, a parole, che…? O, ancora, che la chiesa militante non testimonia più abbastanza efficacemente la verità/validità storica della risurrezione e dei vangeli?
In età giovanile ho sentito anch’io stimati predicatori dire che «far come se…» è in pratica il massimo che ci è richiesto/concesso di (di)mostrare. Oggi mi trascino il busillis: qual è il confine tra «far come se…» e «far finta che…», finché non venga il martirio/testimonianza, per i prescelti (ma… «Padre nostro, non metterci troppo alla prova!»), e il momento finale rivelatorio universale?
In gita a Firenze, davanti alla statua del Savonarola, la guida turistica (poco entusiasta di questo concittadino scomodo) diceva: «Per fortuna non l’hanno ascoltato: in pratica era un talebano di quei tempi!». Savonarola «faceva come se…», oppure «faceva finta che…»? E i suoi avversari «istituzionali»? Savonarola come Hitler, Stalin, Pol Pot, Pinochet, Khomeini, ecc.?
Nel piacere di farsi leggere, la tentazione sarebbe di tirar in ballo (sul «far come…» o «far finta…») quantomeno il padre Abramo, poi Mosè, Pietro e… addio!… Ma ora too ad essere il solito discreto, attento e affezionato lettore.
Bidelio
Bergamo

Lettera arguta, ma anche enigmatica e, forse, non facile. Resta il dilemma: «far come se…» o «far finta che…»? Il signor Bidelio stesso cerca di rispondere con la seguente postilla.
«La retorica/polemica (non del tutto giocosa, benché un tantino gioconda) viene subito sgonfiata se si ammette che la frase dell’intervistato abbia subito un refuso, perdendo un (quasi) innocente “non”. “Viviamo come se Gesù non fosse risorto… come se il vangelo non fosse vero”.
Al contrario, l’esercizio acquista spessore appena si rifletta trattarsi di “fede” e non di “documenti (più o meno) notarili”. Allora le alternative coerenti sono:
a) credere che Gesù, che il vangelo, che Dio… e comportarsi come credendoci, da persone che “ci credono” (con i propri limiti, sforzi e tentennamenti);
b) non credere… e comportarsi come non credendoci, da persone che “credono che non…”.
La scelta non è indifferente. Le ragioni non sono equilibrate al 50%. Le conseguenze non sono tutte automaticamente naturali/facili/felici da una parte sola…».
La terza alternativa – aggiungiamo noi – potrebbe essere: sia padre Sorge sia il signor Bidelio affermano le stesse cose, ma con approcci diversi.

Bidelio




LETTERAMissioni corpo del reato

Spettabile redazione,
vi prego di provvedere alla cancellazione dei dati personali di mio figlio. Non inviateci più le vostre pubblicazioni missionarie.
Di recente si sono verificati dei vandalismi nella nostra cassetta della posta. Purtroppo è incustodita; giornali e lettere sono stati trovati un po’ dovunque, correndo il rischio di essere multati per imbrattamento del suolo pubblico.
Lettera firmata

In un’epoca in cui l’umanità avanza sempre di più nella scoperta di nuove risorse e nella coscienza del valore della persona, è vergognoso che… le cassette della posta siano saccheggiate e, poi, che si venga multati per imbrattamento del suolo pubblico. Quindi si elimina Missioni Consolata… corpo del reato.

lettera firmata




LETTERAInternet in Africa

Cari missionari,
ho letto su una rivista missionaria che le linee telefoniche dell’intero continente africano sono pari a quelle della sola New York: l’Africa conta meno dell’1% nelle connessioni Inteet mondiali. Però… mio cugino, in Finlandia, può telefonare in Africa attraverso un collegamento satellitare via internet (attraverso il microfono del computer, con un programma e un gestore di linea satellitare).
In generale oggi esistono tecnologie che permettono, attraverso la linea satellitare, di comunicare superando enormi distanze. E poiché in Africa non esistono modee e funzionali linee di comunicazione che coprono il territorio di uno stato nazionale, si potrebbe con questi nuovi strumenti di comunicazione, oltre che fornire informazioni, dialogare e/o utilizzarli per le missioni o per chi vi lavora.
Non so se riesco a far capire ciò che voglio dire. In parole semplici: se in qualche parte del mondo sono privi di linee di comunicazione, si può sopperire attraverso il satellite.
Riguardo ai mezzi economici, io vi posso aiutare solo con la preghiera, affinché altri, più ricchi, vengano incontro ai vostri bisogni.
Infine, se vi chiedete «Noi che c’entriamo?», la risposta è: «Voi potete informare i missionari di queste nuove possibilità (se non lo sanno già) e chi è addetto, come voi, all’evangelizzazione può aiutare lo sviluppo dei continenti più poveri, non solo in modo spirituale, ma anche materiale».
Massimo Piermattei
(via e-mail

I missionari sono a conoscenza delle enormi possibilità di informazioni offerte da Inteet e dal sistema satellitare. Ma non molti possono ricorrere a questi mezzi.
Pensando ai paesi poveri, nel 2002 il Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali scriveva: «È necessaria giustizia, in particolare per eliminare il digital divide, il divario di informazione fra ricchi e poveri del mondo. Ciò richiede un impegno in favore del bene comune internazionale e la globalizzazione della solidarietà» (La Chiesa e Inteet, 12).

Massimo Piermattei




LETTERALa Passione secondo Gibson

Egregio direttore,
il mondo affoga nella violenza. Di fronte ad essa spesso taciamo. Ma quante critiche per La Passione di Cristo di Mel Gibson! Proprio, come dice Isaia 52,14 e 53, 2-3, «molti si stupirono di Lui, tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto… Non ha apparenza né bellezza… uomo dei dolori… disprezzato e reietto… davanti al quale ci si copre la faccia».
Io ringrazio Gibson, perché mi ha consentito di alzare lo sguardo su Colui che ho trafitto:
– su Gesù, che «non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Filippesi 2,6-8);
– su Cristo, che «patì per voi lasciandovi un esempio perché ne seguiate le orme… oltraggiato non rispondeva con oltraggi e soffrendo non minacciava vendetta… Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce perché, non vivendo più per i peccati, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti» (1 Pietro 2,21-25)…
Certamente anche lo spettatore non cristiano non potrà fare a meno di sentirsi fortemente interpellato da un uomo che, al culmine del proprio martirio, dall’alto della croce, dice: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Luca 23,34).
Per chi guarderà alle sofferenze di Cristo e al grande amore che queste rivelano, spero che si realizzi la profezia di Ezechiele 36,26-27: «Vi darò un cuore nuovo, metterò in voi uno Spirito nuovo; toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne».
Queste considerazioni sono condivise da familiari, amici e conoscenti che hanno visto il film. Invece mi stupisce che alcuni ecclesiastici e teologi abbiano tanto contestato la pellicola, non perfetta ma realistica, quando nella Via Crucis noi cattolici siamo invitati a ripetere: «Santa Madre, deh voi fate che le piaghe del Signore siano impresse nel mio cuore!».
Ultima annotazione: Maria è resa ne La Passione di Cristo in modo stupendo. Intensi e più eloquenti di ogni parola i suoi sguardi di Madre e corredentrice.

Alcuni ecclesiastici e teologi non hanno contestato la passione-amore di Gesù Cristo, bensì la violenta «spettacolarizzazione» della sofferenza.

Mara Montagnani Tiddia




LETTERAFiglia… sua !

Carissimi missionari,
ho 23 anni e studio Scienze dell’educazione. Da quando vi conosco, la mia vita e fede sono completamente cambiate e rinnovate. Sono coinvolta nelle vostre attività in Italia, come socia di «Impegnarsi serve Onlus», e all’estero (due anni fa sono stata un mese in Tanzania).
La vostra rivista Missioni Consolata è meglio di qualsiasi telegiornale, perché parla dei problemi dimenticati dal mondo in modo «sconcertante», ossia veritiero. Grazie. Continuate così.
Ora mi trovo incinta al quarto mese di gravidanza e, da poche settimane, sento la mia creatura muoversi dentro di me… Dopo tante difficoltà iniziali (non sono sposata e non lavoro), sto incominciando ad essere grata di questo dono che Dio mi ha fatto. Anche il mio ragazzo, che sta per laurearsi, la pensa così… I padri Giordano Rigamonti e Daniel Bertea mi sono stati molto vicini in questo periodo difficile: a loro va tutta la mia riconoscenza.
Prima avevo dei dubbi circa il modo di conciliare l’impegno missionario e l’avere dei figli; ora, anche se il mio servizio si è naturalmente ridotto, sento che questo non è solo possibile, ma necessario.
Mi sento «figlia della Consolata» e il mio bambino è anche lui un fiore della Consolata!
Cari missionari, ricordate nella preghiera anche il mio bambino.

«Amo i bambini, dice Dio. Voglio che rassomigliate loro. Non amo i vecchi, dice Dio, a meno che siano ancora dei bambini. Così non voglio che i bambini nel mio Regno… Bambini storpi, gobbi, rugosi, bambini dalla barba bianca, ogni specie di bimbi che credete, ma bambini, solo bambini» (Michel Quoist).

Lettera firmata




LETTERA La Sampdoria a Kipengere

Spettabile redazione,
a seguito dell’articolo di padre Francesco Beardi (Missioni Consolata, febbraio 2004) e del colloquio telefonico intercorso tra me e l’articolista, ho il piacere di inviarvi una copia di una pagina della rivista Sampdoria Club, uscita in questi giorni.
Resto con la speranza che il seme gettato possa far nascere qualcosa di bello… Complimenti sentiti per la vostra opera e la vostra rivista.

Il signor Vittorio allude ad alcune foto di Missioni Consolata, che ritraggono dei bimbi sieropositivi nella missione di Kipengere (Tanzania), vestiti con le maglie della Sampdoria. Una vicenda (in questo caso) «simpatica» del calcio.

Vittorio Benvenuti




LETTERAPremiato il vescovo Mongiano

Il 6 aprile 2004 Aldo Mongiano, vescovo emerito di Roraima (Brasile) e missionario della Consolata, fu premiato dal governo brasiliano con la medaglia del «merito indigenista». Il premio fu ritirato a Brasilia da mons. Franco Masserdotti, presidente del Consiglio indigenista missionario del Brasile (organo della Conferenza episcopale), che lo consegnò all’interessato a Torino l’8 maggio scorso (nella foto).
Oltre a vari missionari e missionarie della Consolata, era presente pure qualche esponente della Campagna internazionale «Nós existimos» (in favore degli indios, contadini poveri ed emarginati urbani di Roraima).

Il vescovo Mongiano, dopo aver ringraziato mons. Masserdotti, ha dichiarato: «Questa onorificenza viene consegnata a chi fu vescovo di Roraima; ma in realtà riguarda non tanto una persona, quanto tutti gli indios e i missionari di Roraima. I missionari non si aspettano onorificenze dai popoli che servono; essi lavorano mossi solo da carità evangelica. Tuttavia questa medaglia ci rallegra per due motivi.
L’onorificenza è concessa dalla Funai (Fondazione nazionale dell’indio), che per lunghi anni ha avversato la chiesa di Roraima. Però, grazie a Dio, da qualche tempo ne riconosce il valore, fino a premiare quelli che prima aveva osteggiato.
Il secondo motivo di gioia è legato ai popoli indigeni. Essi stanno vincendo non la battaglia per la difesa dei loro diritti sulla terra dove sono nati, ma hanno già acquisito una coscienza e forza morale, ispirate dalla fede cristiana, che costituiscono una delle vittorie più belle che si poteva sperare.
I missionari sapevano quanto, nella storia del Brasile, si diceva degli indios: questi, di fronte alle invasioni dei dominatori venuti da lontano, si sarebbero piegati o sopraffatti dalla forza o allettati (questo è umiliante) da futili regali materiali.
Invece gli indios, a partire dagli anni ’70, hanno capito il messaggio evangelico, la grandezza della loro vocazione umana e cristiana, il significato di libertà e dignità, nonché l’importanza di vivere i valori della loro cultura. Così hanno deciso di impegnarsi, con sforzo, sacrificio e rischio, per cambiare la loro situazione. L’hanno fatto senza violenza, offrendo a tutto il Brasile un esempio di coraggio e fermezza cristiana. Hanno saputo organizzarsi e mobilitarsi per difendere, pacificamente, i loro diritti sanciti dalla Costituzione brasiliana, ma mai rispettati.
Gli indios, soprattutto, meritano questa medaglia.
Una sola cosa mi rammarica: se i popoli indigeni sono cambiati positivamente, non sono cambiati, invece, alcuni settori ostianti della società di Roraima…».

Redazione




Perché “così”?

Egregio direttore,
la lettera di Aaldo Simonetta «Perché siamo così?» (Missioni Consolata, aprile 2004) pone un problema bruciante. Tutti avvertiamo l’umiliazione per la esecuzione naturale (e vitale) di certi atti fisiologici cui siamo sottoposti.
La risposta da lei data non appare comprensibile; avrebbe meritato una più ampia delucidazione quel «cogitor ergo sum», in considerazione, anche, della variegata area di lettori che la rivista vanta.
Non mi sottraggo ad una spiegazione: non si può pensare che Dio ci abbia sottoposti ad atti così umilianti (tali sono se ci circondiamo di estrema riservatezza nell’eseguirli), perché l’uomo avverta i suoi limiti ed eviti i suoi insulsi conati di superbia verso gli uomini, verso il creato e lo stesso Creatore? È un pensiero!
dr. Luigi De Tommasi
Brindisi

Grazie del «pensiero».
Sì, la nostra risposta non appare molto comprensibile. Del resto, di fronte ai «perché» (come quelli del signor Simonetta), che sconfinano nel mistero, conviene maggiormente il silenzio della fides quaerens intellectum (la fede che anima l’intelligenza).>/b>

Luigi De Tommasi




Pannelli solari

Caro direttore,
ho una domanda che mi frulla nel capo da molto e, in questo tempo pasquale, secondo me, profuma di risurrezione. Alludo alla risurrezione dell’Africa.
Perché in questo meraviglioso continente, cui Dio ha regalato tanto sole (troppo a volte), non si sente parlare di pannelli solari? Questi non potrebbero migliorare le condizioni di vita degli abitanti, esportando anche l’energia prodotta? Sono un’illusa o un’ingenua?
Grazie della meravigliosa rivista, che ogni mese arricchisce me e tutte le persone a cui la porgo, fotocopiando articoli che mi sembrano più interessanti e utili al dialogo. In questi giorni faccio girare «Se la bistecca è politicamente corretta» (Missioni Consolata, aprile 2004).
Auguri, con l’incoraggiamento a parlare di energia solare anche per l’Italia, «il paese del sole».
Isa Monaca
Asti

L’estate scorsa eravamo in Tanzania. E che piacere la doccia calda (grazie ai pannelli solari) al termine di un lungo e polveroso lavoro!
L’uso in Africa di pannelli solari dovrebbe essere certamente maggiore. Però si dice che il costo iniziale dell’impianto sia elevato.

Isa Monaca