LETTERA Armi e interessi dell’Italia nel mondo

A suo tempo non mi sottrassi al servizio di leva, cosa allora abbastanza facile: 7 su 10 dei miei amici coetanei lo evitarono con varie motivazioni, raccomandazioni… Quale credente e praticante nell’associazionismo cattolico, ritenevo che, anche se avessi avuto la vocazione al martirio, non potevo imporla al mio prossimo; e, avendo capacità e forza, era mio dovere oppormi anche con le armi alle minacce contro la libertà (per me più preziosa della vita stessa) che ipotetici aggressori avrebbero potuto portare sul suolo della mia patria.
Oggi può apparire un atteggiamento di patetica retorica, ma ne sono tuttora convinto, come lo sono della bontà di un corretto concetto di Patria. Quando mi si chiede se e dove ho «fatto la naia», io provocatoriamente rispondo: «Ho avuto l’alto onore di servire in armi la Patria nelle Truppe Alpine!». Sissignori, «alto onore» e non «odiosa tassa pagata», come ho sentito definire il servizio di leva da esponenti del precedente governo e dall’attuale ministro della Difesa in una delle sue prime esteazioni (con buona pace del bipolarismo, che si sta rivelando come le due facce della stessa medaglia, anzi… moneta!). Però, nelle mie modeste preghiere quotidiane, non manco di ringraziare il Signore per avermi finora risparmiato dalla più grande sciagura del mondo: la guerra.
La mia convinzione di servire il prossimo, espresso anche nel servizio militare, va di pari passo con altre scelte, quali: donare regolarmente il sangue, prendermi cura di anziani ed ammalati, operare con impegno costante nella Caritas parrocchiale e in altre attività di volontariato. Non ultima, anche l’attenzione a chi è privato dei mezzi primari di sostentamento e non ha voce, per rompere l’indifferenza dei potenti (o prepotenti) del mondo.
Così, a 61 anni suonati, mi sono sentito in dovere, come cristiano, di partecipare alle manifestazioni anti-G8, dicendo tra amici e parenti che andavo in pellegrinaggio a Genova con i missionari della Consolata.

I tempi cambiano e lo «strumento militare» pare che stia perdendo la caratteristica di servizio, cui ogni componente la comunità deve contribuire; si sta rapidamente passando al «mestiere». Le motivazioni sono: calo demografico; col riconoscimento dell’obiezione di coscienza, pochi giovani di leva scelgono il servizio militare; molto numerosa sembra la schiera dei non idonei; inoltre i compiti delle Forze Armate stanno cambiando e occorre personale più addestrato e determinato.
Abolendo la leva obbligatoria (veramente, con ipocrisia tutta politica, bipolaristicamente ne è stata decretata la «sospensione»), si è risolto anche l’ingombrante problema «obiettori» e non ci sarà più alcun controllo diretto dei cittadini sullo strumento militare.
A questo punto mi chiedo se sia ancora opportuno parlare di «difesa». Trovo inquietanti certe frasi roboanti, pronunciate da alte cariche dello Stato: «Le Forze Armate hanno il compito di difendere gli interessi dell’Italia nel mondo». Interessi difesi con le armi e in giro per il mondo? Mi viene da immaginare qualche modea sciagurata avventura militare… Le alte cariche possono tranquillizzarmi?
Oppure: «Le nostre Forze armate devono raggiungere la necessaria efficienza e determinazione per onorare gli impegni che comportano le alleanze a cui l’Italia ha aderito». Ma è necessario continuare a mantenere certe alleanze? E, se gli «alleati» decidono di «delinquere», siamo in grado di astenerci? Chi può dimostrare che siamo «alleati alla pari» e non gregari, con la conseguente limitazione della nostra indipendenza? Quante risorse occorre impiegare per mantenere una struttura adeguata ai vincoli imposti dai nostri alleati?

La fine della coscrizione obbligatoria, per avere un esercito di mestiere, non mi pare un contributo positivo contro il facile ricorso alle armi! Inoltre non ritengo sufficiente, anche se lodevole, limitarsi all’atto individuale dell’obiezione di coscienza.
Finché si è fiduciosi nel sistema democratico, i cambiamenti dovrebbero avvenire gradualmente e a colpi di voto: non solo gli obiettori, ma anche chi è loro vicino e li appoggia (come larghi strati della chiesa cattolica) dovrebbero promuovere una intensa azione politica per l’uscita dell’Italia dalla Nato e vigilare sull’impostazione delle nascenti Forze armate europee.
Gli strumenti ci sono: ad esempio, il referendum abrogativo, negare il voto alle formazioni politiche che propugnano la permanenza nell’Alleanza Atlantica.
Quando padre Alex Zanotelli definisce il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e l’Organizzazione mondiale del commercio come «trinità satanica», vista la quasi identica presenza dei paesi che ne determinano la politica con gli aderenti alla Nato (G8 ed altri paesi dell’opulento e rapinatore Nord del mondo), non ho difficoltà ad ipotizzare presto l’evoluzione della Nato in «braccio armato della trinità satanica».
Inoltre si auspica una coerente rilettura della Costituzione, che aggiorni gli articoli su difesa e alleanze. Del resto già il primo articolo non è rispettato: a «lavoro» va sostituito… PROFITTO!

Beppe Peroncini

Beppe Peroncini




LETTERA Federico ha fatto centro

«Missioni Consolata» di marzo scorso pubblicava «Il compito in classe di Federico», che riportava anche pareri, colti in famiglia, su George Bush, Silvio Berlusconi e la guerra in Iraq.
Il compito ha suscitato varie reazioni. Ecco l’ultima.

Cari redattori,
dopo aver letto le reazioni indignate per «Il compito di Federico», sento di dover prendere la parola: prima di tutto per una critica verso Missioni Consolata e la mamma del ragazzo.
L’aver pubblicato «il compito» ha voluto dire scoprire il fianco, dare occasione ai lettori che non condividono la linea editoriale della vostra stimata rivista per condannare un’espressione di non violenza. Senza tener conto del fatto che avete esposto uno studente di neanche 14 anni ad attacchi di persone sconosciute, che non possono permettersi di definirlo come «un povero ragazzo», il quale si esprime secondo quanto ascolta in classe e famiglia o alla televisione.
Conosco Federico come persona attenta a ciò che gli accade attorno, studente con ottimi risultati, ragazzo sensibile ed educato. Dobbiamo fargli il processo, perché nella sua famiglia, forse (mi auguro) come in tutte le famiglie, si parla di politica, di guerra e pace, mentre lui è lì, ascolta i genitori, le altre persone adulte e probabilmente ne condivide il pensiero? Chi non è stato in qualche modo condizionato dall’ambiente in cui è nato e cresciuto?
Sarebbe forse più accettabile che Federico esprimesse «il pensiero unico» che sta affermandosi non solo in Italia, ma nel mondo, a livello globale, vale a dire l’assoggettazione totale ad un sistema culturale imposto da televisione, pubblicità e consumo?
Vorrei che il dibattito non si fosse sviluppato sulle pagine di una rivista, che coinvolge prettamente adulti, ma che avesse avuto luogo nella scuola di Federico, che i suoi insegnanti avessero trovato spunto dal suo tema per far discutere gli studenti, per farli crescere nell’attenzione, nel rispetto dei valori fondamentali della nostra Costituzione, nell’analisi critica di opinioni e fatti, nella progettazione di un domani meno ingiusto.
Le famiglie sono quelle che sono: diverse, tradizionali o scompaginate; dialogano con i figli o a mala pena li conoscono. È difficile intervenire in questa sfera; ma la scuola no, è un’altra cosa, è affare nostro, di tutti. È alla scuola prima di tutto che va il mio pensiero, all’università, a tutti i luoghi preposti all’educazione dei nostri ragazzi: è un mondo in pericolo, spesso insufficiente ad arginare la deriva culturale di una società in declino, e le riforme finora attuate altro non hanno fatto che aggravare la situazione.
Per la scuola dobbiamo impegnarci, perché gli insegnanti ritornino al loro ruolo fondamentale di educatori, perché non si sentano per tutta la vita lavorativa dei precari, perché in università non ci siano insegnanti di serie A e altri senza alcun diritto, sfruttati e abbandonati ogni qualvolta si presentano manovre di riduzione dei costi.
Se non investiamo oggi nell’educazione la partita col domani è già persa.
Lucia Avallone – Torino

Eccellente esemplare di lettera critica, ma ricca di contenuti. Signora Lucia, condividiamo i suoi rilievi sulla scuola.
Quanto a Federico, aggioiamo la situazione:
– il ragazzo ha vissuto con serenità la polemica che l’ha coinvolto;
– ha superato l’esame di terza media con «ottimo»;
– dopo «il compito», la mamma dello studente e la professoressa di italiano hanno iniziato a discutere in modo costruttivo.
Forse è proprio vero: non tutto il male viene per nuocere.

Lucia Avallone




LETTERA La guerra le guerre, il libro

Spettabile redazione,
grazie del volume La guerra, le guerre. A prima vista è molto bello, godibile (nonostante racconti la raffinata barbarie contemporanea) e aggiornato fino alla messa in stampa. Mi pare pure politicamente condivisibile.
Complimenti per il capitolo sulla Colombia. Vi ho trovato, al di là delle citazioni, alcune riflessioni del mio libro Colombia, il paese dell’eccesso. Di questo sono molto contento, perché significa che siamo di più nel contrastare gli stereotipi che, fino a pochi anni fa, marcavano l’idea della Colombia, anche in molti settori progressisti (adesso c’è, per lo meno, una varietà e vivacità di posizioni).
Ma il migliore complimento è che… mi dispiace di non avere collaborato alla stesura del libro. Però vi saranno altre occasioni nel futuro.
Se vi andasse di presentare La guerra, le guerre a Napoli, dove io vivo (pur essendo torinese di nascita e nordico di origine), contate su di me.
Guido Piccoli
Napoli

Lettera di un giornalista e scrittore. L’ultimo libro di Guido Piccoli è: Colombia, il paese dell’eccesso, Feltrinelli, Milano 2003.
La guerra, le guerre è curato dai «nostri» Benedetto Bellesi e Paolo Moiola: conta ben 384 pagine; è edito dall’Emi, Bologna, al prezzo di 15 euro. Per eventuali acquisti contattare:
Libreria
Missioni Consolata,
tel.fax 011.447 66 95
libmisco@tin.it
Informazioni anche su:
www.missioniconsolata.it
www.scuolaperalternativa.it
www.emi.it

Guido Piccoli




LETTERA Torture nel carcere di Abu Ghraib

Spettabile redazione,
trovo ridicolo parlare delle torture compiute nel carcere di Abu Ghraib (Iraq) come di spiacevoli inconvenienti che non devono e non possono incrinare la fiducia negli Stati Uniti e nelle loro forze armate.
I soldati e le soldatesse che, in Iraq, hanno angariato decine e decine di prigionieri non sono assolutamente equiparabili a una manciata di mele marce in uno splendido giardino fiorito, che emana fragranze e profumi da tutti i pori; sono invece il risultato fin troppo ovvio di una filosofia militare nella quale il ruolo del torturatore è previsto, ed è un ruolo per nulla marginale.
Per quanto raccapricciante possa essere, l’immagine della soldatessa Lynndie England, che tiene al guinzaglio il malcapitato prigioniero iracheno, diventa una quisquilia se paragonata alle immagini del film-documentario «Faccia di spia» del 1975, incentrato per buona parte sul ruolo che la tortura ha giocato nella «strategia della tensione», imposta dalla Cia all over the world…
Domenico Di Roberto
Ancona

A chi ha creduto alla fandonia che «l’onore degli Stati Uniti non può essere intaccato dal comportamento dei carcerieri di Abu Ghraib», ricordo che a Fort Benning, nello stato della Georgia, esiste una scuola chiamata S.O.A., dove la tortura è una normale materia di insegnamento.
È la scuola dove si sono formati molti spietati dittatori, uomini che si sono resi protagonisti di atti di inaudita ferocia in quasi tutti i paesi dell’America Centrale e Meridionale. Il fatto che la scuola abbia cambiato nome (ora si chiama «Istituto dell’emisfero occidentale per la cooperazione alla sicurezza») non deve trarre in inganno: non sono cambiati né i programmi né gli obiettivi…
Com’era logico aspettarsi, i generali e ufficiali diplomati alla S.O.A. non si sono limitati ad applicare quanto, da «alunni, avevano appreso dai rispettivi insegnanti, ma hanno istruito nell’arte della tortura, del massacro e del colpo di stato altri “studenti”…».
Forse è superfluo aggiungere che queste scuole di crimini alimentano una fiorente industria. Secondo il presidente di Amnesty Inteational, Marco Bertotto, oggi nel mondo operano almeno 150 aziende specializzate nella produzione di strumenti di tortura, dai più semplici ai più sofisticati.
Rita Ferri
Fano (AN)

Alla S.O.A. ha accennato pure l’editoriale di Missioni Consolata, luglio/agosto 2004… Purtroppo, in barba a tutte le prescrizioni, la tortura è ancora in voga in tante regioni del mondo. Riconoscerlo è positivo, ma non assolve dalle proprie responsabilità.

Domenico di Roberto




LETTERA “Far come se” o “far finta che…”

Cari missionari,
salve! Una tantum concorro anch’io a prendere un po’ del vostro tempo e spazio. M’induce a farlo l’intervista al padre Bartolomeo Sorge (Missioni Consolata, maggio 2004) e, in particolare, la sconfortata-sconfortante conclusione: purtroppo troppi cristiani fanno «come se» Gesù Cristo «fosse risorto». «Viviamo come se il vangelo fosse vero, invece è vero!».
Dunque «troppi fanno…» e, ampliando, «troppi pensano, parlano, scrivono solo come se…». Chiedo:
– quale alternativa praticabile l’intervistato rimpiange e consiglia a noi cristiani comuni? (non a Madre Teresa o a Tommaso d’Aquino);
– come potremmo/dovremmo «leggere chiara l’alternativa» noi, poveretti, nella vita dei consacrati? (di nuovo: non in figure eccezionali);
– non è un po’ sofistico e pericoloso scendere a distinzioni/dubbi del genere, pur nella liceità del distingue semper?
Senza volare troppo alto, supponiamo che alcuni poveretti, come me, chiedano alla rivista: «Cosa vuol dire l’intervistato? Forse che non bisogna fare come se Gesù Cristo fosse risorto davvero? Oppure, che troppi cristiani dichiarati fanno finta, a parole, che…? O, ancora, che la chiesa militante non testimonia più abbastanza efficacemente la verità/validità storica della risurrezione e dei vangeli?
In età giovanile ho sentito anch’io stimati predicatori dire che «far come se…» è in pratica il massimo che ci è richiesto/concesso di (di)mostrare. Oggi mi trascino il busillis: qual è il confine tra «far come se…» e «far finta che…», finché non venga il martirio/testimonianza, per i prescelti (ma… «Padre nostro, non metterci troppo alla prova!»), e il momento finale rivelatorio universale?
In gita a Firenze, davanti alla statua del Savonarola, la guida turistica (poco entusiasta di questo concittadino scomodo) diceva: «Per fortuna non l’hanno ascoltato: in pratica era un talebano di quei tempi!». Savonarola «faceva come se…», oppure «faceva finta che…»? E i suoi avversari «istituzionali»? Savonarola come Hitler, Stalin, Pol Pot, Pinochet, Khomeini, ecc.?
Nel piacere di farsi leggere, la tentazione sarebbe di tirar in ballo (sul «far come…» o «far finta…») quantomeno il padre Abramo, poi Mosè, Pietro e… addio!… Ma ora too ad essere il solito discreto, attento e affezionato lettore.
Bidelio
Bergamo

Lettera arguta, ma anche enigmatica e, forse, non facile. Resta il dilemma: «far come se…» o «far finta che…»? Il signor Bidelio stesso cerca di rispondere con la seguente postilla.
«La retorica/polemica (non del tutto giocosa, benché un tantino gioconda) viene subito sgonfiata se si ammette che la frase dell’intervistato abbia subito un refuso, perdendo un (quasi) innocente “non”. “Viviamo come se Gesù non fosse risorto… come se il vangelo non fosse vero”.
Al contrario, l’esercizio acquista spessore appena si rifletta trattarsi di “fede” e non di “documenti (più o meno) notarili”. Allora le alternative coerenti sono:
a) credere che Gesù, che il vangelo, che Dio… e comportarsi come credendoci, da persone che “ci credono” (con i propri limiti, sforzi e tentennamenti);
b) non credere… e comportarsi come non credendoci, da persone che “credono che non…”.
La scelta non è indifferente. Le ragioni non sono equilibrate al 50%. Le conseguenze non sono tutte automaticamente naturali/facili/felici da una parte sola…».
La terza alternativa – aggiungiamo noi – potrebbe essere: sia padre Sorge sia il signor Bidelio affermano le stesse cose, ma con approcci diversi.

Bidelio




LETTERA Indios yanomami strumentalizzati?

Spettabile redazione,
vi ringraziamo del bellissimo lavoro di annuncio del vangelo che svolgete attraverso Missioni Consolata. È una rivista che ci interessa molto, perché i suoi temi sono coinvolgenti e missionari. Anche gli indios yanomami (Roraima/Brasile), fra i quali lavoriamo, gradiscono sfogliarla, anche per le foto colorate che pubblica.
In modo speciale vi ringraziamo del dossier di febbraio 2004 su Roraima, elaborato dall’équipe della Campagna Nós existimos. Richiamiamo la vostra attenzione sulle pagine 34-35 e, più precisamente, sul servizio fotografico.
Ci ha suscitato sorpresa e indignazione la foto di due bambini yanomami sopra una discarica nella città di Boa Vista. Può sembrare che quei bambini stiano fra i rifiuti chiedendo aiuto. Anche alcuni yanomami, che hanno visto la foto, non l’hanno gradita. Suggeriamo la rettifica, dato che la rivista difende la giustizia e la verità dei fatti.
Gli yanomami si rifiutano di essere usati per presentare i problemi degli altri popoli indigeni. Hanno l’impressione che, quando in Europa si parla di indios, automaticamente si usino fotografie relative a loro stessi.
Nella cultura yanomami il viso e le mani «sporchi di cibo» non sono segno di sporcizia, ma di abbondanza. È così che interpretiamo la foto di pagina 34: sono due bambini nutriti e sani. Per questo la foto ci sembra mal posta sulla discarica. Inoltre i bambini yanomami non vanno a Boa Vista da soli, ma accompagnati dai genitori per cure mediche.
Oggi la discarica di Boa Vista è chiusa. Pertanto la sua foto non ha senso, dal momento che il dossier tratta problemi attuali e non fatti superati (dopo pressioni inteazionali).
La rivista e i suoi sostenitori possono aiutarci a superare la strumentalizzazione degli yanomami che avviene all’estero? Essere indigeni non è solo avere le piume in testa o la faccia dipinta, ma è riconoscere le loro differenze e non generalizzare con le culture.
Come équipe missionaria, non possiamo lasciar passare inosservato questo equivoco che ci ha procurato disagio e preoccupazione. Con questo non dubitiamo delle buone intenzioni di Missioni Consolata. Ma quella foto dà adito a varie interpretazioni.
Come figli del beato Giuseppe Allamano siamo chiamati, noi e voi, a rispettare la dignità delle minoranze etniche, tra cui il popolo yanomami.
Con la speranza che la nostra richiesta sia tenuta in considerazione dalla rivista, vi mandiamo un forte abbraccio fraterno, caloroso e cordiale.

I padri
Laurindo e Gianfranco,
le suore Blanca Yolanda, José Iris e Noeli,
i laici missionari
Manuel e Paula
Boa Vista (Brasile)

Siamo grati all’équipe missionaria. Condividiamo pure i rilievi critici, specialmente quello di non strumentalizzare gli yanomami… esotici, belli, nudi. Ecco perché, nei nostri viaggi a Roraima, non abbiamo mai «curiosato» fra loro. Che dire, allora, delle foto sui bambini yanomami e la discarica?
1. L’accostamento (non la sovrapposizione) delle due immagini è un’opera grafica di «photoshop» e ha un significato ideale: ricorda l’auspicabile unione fra indios ed emarginati della città (nonché contadini poveri), per cui è stata lanciata la Campagna Nós existimos.
2. La discarica non esiste più, ma non mancano a Boa Vista luoghi di degrado, che coinvolgono tutti, indios compresi.
3. «Gli yanomami si rifiutano di essere usati per presentare i problemi degli altri popoli indigeni…». L’affermazione è grave. Gli yanomami non possono scordare che, nel 1992, l’omologazione della loro terra avvenne grazie alla solidarietà di milioni di italiani, sensibilizzati dai missionari della Consolata. Oggi sono gli indios macuxí, wapichana, ingarikò, taurepang… a lottare per lo stesso problema. E gli yanomami, che hanno già beneficiato del sostegno di tanti simpatizzanti, dovrebbero essere con loro! Se non lo sono, spetta ai missionari operare per una più larga intesa fra tutti i poveri, senza escludere nessuno.
Questo è lo spirito profetico di Nós existimos, richiesto con forza anche dal vescovo di Roraima, Apparecido Diaz, prematuramente scomparso il 29 maggio scorso.

aa.vv.




LETTERAMissioni corpo del reato

Spettabile redazione,
vi prego di provvedere alla cancellazione dei dati personali di mio figlio. Non inviateci più le vostre pubblicazioni missionarie.
Di recente si sono verificati dei vandalismi nella nostra cassetta della posta. Purtroppo è incustodita; giornali e lettere sono stati trovati un po’ dovunque, correndo il rischio di essere multati per imbrattamento del suolo pubblico.
Lettera firmata

In un’epoca in cui l’umanità avanza sempre di più nella scoperta di nuove risorse e nella coscienza del valore della persona, è vergognoso che… le cassette della posta siano saccheggiate e, poi, che si venga multati per imbrattamento del suolo pubblico. Quindi si elimina Missioni Consolata… corpo del reato.

lettera firmata




LETTERAInternet in Africa

Cari missionari,
ho letto su una rivista missionaria che le linee telefoniche dell’intero continente africano sono pari a quelle della sola New York: l’Africa conta meno dell’1% nelle connessioni Inteet mondiali. Però… mio cugino, in Finlandia, può telefonare in Africa attraverso un collegamento satellitare via internet (attraverso il microfono del computer, con un programma e un gestore di linea satellitare).
In generale oggi esistono tecnologie che permettono, attraverso la linea satellitare, di comunicare superando enormi distanze. E poiché in Africa non esistono modee e funzionali linee di comunicazione che coprono il territorio di uno stato nazionale, si potrebbe con questi nuovi strumenti di comunicazione, oltre che fornire informazioni, dialogare e/o utilizzarli per le missioni o per chi vi lavora.
Non so se riesco a far capire ciò che voglio dire. In parole semplici: se in qualche parte del mondo sono privi di linee di comunicazione, si può sopperire attraverso il satellite.
Riguardo ai mezzi economici, io vi posso aiutare solo con la preghiera, affinché altri, più ricchi, vengano incontro ai vostri bisogni.
Infine, se vi chiedete «Noi che c’entriamo?», la risposta è: «Voi potete informare i missionari di queste nuove possibilità (se non lo sanno già) e chi è addetto, come voi, all’evangelizzazione può aiutare lo sviluppo dei continenti più poveri, non solo in modo spirituale, ma anche materiale».
Massimo Piermattei
(via e-mail

I missionari sono a conoscenza delle enormi possibilità di informazioni offerte da Inteet e dal sistema satellitare. Ma non molti possono ricorrere a questi mezzi.
Pensando ai paesi poveri, nel 2002 il Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali scriveva: «È necessaria giustizia, in particolare per eliminare il digital divide, il divario di informazione fra ricchi e poveri del mondo. Ciò richiede un impegno in favore del bene comune internazionale e la globalizzazione della solidarietà» (La Chiesa e Inteet, 12).

Massimo Piermattei




LETTERALa Passione secondo Gibson

Egregio direttore,
il mondo affoga nella violenza. Di fronte ad essa spesso taciamo. Ma quante critiche per La Passione di Cristo di Mel Gibson! Proprio, come dice Isaia 52,14 e 53, 2-3, «molti si stupirono di Lui, tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto… Non ha apparenza né bellezza… uomo dei dolori… disprezzato e reietto… davanti al quale ci si copre la faccia».
Io ringrazio Gibson, perché mi ha consentito di alzare lo sguardo su Colui che ho trafitto:
– su Gesù, che «non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Filippesi 2,6-8);
– su Cristo, che «patì per voi lasciandovi un esempio perché ne seguiate le orme… oltraggiato non rispondeva con oltraggi e soffrendo non minacciava vendetta… Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce perché, non vivendo più per i peccati, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti» (1 Pietro 2,21-25)…
Certamente anche lo spettatore non cristiano non potrà fare a meno di sentirsi fortemente interpellato da un uomo che, al culmine del proprio martirio, dall’alto della croce, dice: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Luca 23,34).
Per chi guarderà alle sofferenze di Cristo e al grande amore che queste rivelano, spero che si realizzi la profezia di Ezechiele 36,26-27: «Vi darò un cuore nuovo, metterò in voi uno Spirito nuovo; toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne».
Queste considerazioni sono condivise da familiari, amici e conoscenti che hanno visto il film. Invece mi stupisce che alcuni ecclesiastici e teologi abbiano tanto contestato la pellicola, non perfetta ma realistica, quando nella Via Crucis noi cattolici siamo invitati a ripetere: «Santa Madre, deh voi fate che le piaghe del Signore siano impresse nel mio cuore!».
Ultima annotazione: Maria è resa ne La Passione di Cristo in modo stupendo. Intensi e più eloquenti di ogni parola i suoi sguardi di Madre e corredentrice.

Alcuni ecclesiastici e teologi non hanno contestato la passione-amore di Gesù Cristo, bensì la violenta «spettacolarizzazione» della sofferenza.

Mara Montagnani Tiddia




LETTERAFiglia… sua !

Carissimi missionari,
ho 23 anni e studio Scienze dell’educazione. Da quando vi conosco, la mia vita e fede sono completamente cambiate e rinnovate. Sono coinvolta nelle vostre attività in Italia, come socia di «Impegnarsi serve Onlus», e all’estero (due anni fa sono stata un mese in Tanzania).
La vostra rivista Missioni Consolata è meglio di qualsiasi telegiornale, perché parla dei problemi dimenticati dal mondo in modo «sconcertante», ossia veritiero. Grazie. Continuate così.
Ora mi trovo incinta al quarto mese di gravidanza e, da poche settimane, sento la mia creatura muoversi dentro di me… Dopo tante difficoltà iniziali (non sono sposata e non lavoro), sto incominciando ad essere grata di questo dono che Dio mi ha fatto. Anche il mio ragazzo, che sta per laurearsi, la pensa così… I padri Giordano Rigamonti e Daniel Bertea mi sono stati molto vicini in questo periodo difficile: a loro va tutta la mia riconoscenza.
Prima avevo dei dubbi circa il modo di conciliare l’impegno missionario e l’avere dei figli; ora, anche se il mio servizio si è naturalmente ridotto, sento che questo non è solo possibile, ma necessario.
Mi sento «figlia della Consolata» e il mio bambino è anche lui un fiore della Consolata!
Cari missionari, ricordate nella preghiera anche il mio bambino.

«Amo i bambini, dice Dio. Voglio che rassomigliate loro. Non amo i vecchi, dice Dio, a meno che siano ancora dei bambini. Così non voglio che i bambini nel mio Regno… Bambini storpi, gobbi, rugosi, bambini dalla barba bianca, ogni specie di bimbi che credete, ma bambini, solo bambini» (Michel Quoist).

Lettera firmata