LETTERAPer i bambini sempre le briciole

Carissimi missionari,
sono Massimo e ho 11 anni. Mi piace molto viaggiare. A scuola la materia preferita è la geografia. Nonna Hilde mi ha parlato di voi e delle missioni. Così ho incominciato a leggere Missioni Consolata. Mia nonna dice anche che non basta vedere le cose; bisogna vedere le persone, specialmente se sono povere.
Quest’anno, a giugno, io, la mamma e la nonna abbiamo fatto un viaggio a Capo Verde. Prima di partire, mi sono ricordato di aver letto su Missioni Consolata un articolo su questo paese: sull’aereo incontriamo proprio padre Ottavio, di cui parlava l’articolo.
Il primo giorno a Sal fu meraviglioso. Io e mia mamma ci siamo recati da soli a Santa Maria, un paese non molto lontano dal nostro villaggio. Abbiamo incontrato un senegalese, emigrato, che ci ha guidati nella visita. Alcune case sono molto colorate, con il tetto piatto; altre invece sono diroccate. La gente è poverissima, ma gentilissima. Al mercato, la gente diceva «italiani bravi, italiani amici!» e mi regalava delle collanine e braccialetti. Io ero meravigliato di così grande generosità verso gli stranieri.
Quel viaggio è stato per me molto importante, perché mi ha fatto capire tante cose…

Tommaso Tibaldi
Torino

Fra le cose che Tommaso ha capito c’è nientemeno che il mondo! Il mondo che ha raffigurato, grazie al computer, come una grande pagnotta. Tutti mangiano. Però «milioni di bambini – ha scritto Tommaso – mangiano queste (piccole) parti…». Lo ha scritto in tedesco, lingua appresa da nonna Hilde (vedi l’immagine sopra).

Tommaso Tibaldi




LETTERAOGM: speranza o minaccia?

Carissimi missionari,
sono un anziano fedele lettore di Missioni Consolata e fedele abbonato di Civiltà Cattolica.
Il servizio di Silvia Battaglia «Una sola madre terra» mi ha offerto l’occasione per rileggere la cronaca di Giovanni Marchesi S.J., pubblicata sul numero del 20 marzo 2004 di Civiltà Cattolica, con il titolo «Gli organismi geneticamente modificati: minaccia o speranza?». Nella trattazione di un argomento difficile come gli ogm, Civiltà Cattolica ci insegna la massima prudenza, con tutta la stima per padre Alex Zanotelli, che umilmente non dovrebbe pretendere di insegnare la biologia ai biologi.

Ferruccio Gandolini
Varese

Speranza o minaccia? Tutto sommato, l’articolo di Civiltà Cattolica non toglie il punto interrogativo; e conclude affermando che la chiesa «non pretende di insegnare biologia ai biologi, economia agli economisti, politica ai politici. Essa continuerà nella sua missione di coscienza profetica per indicare a tutti, scienziati, operatori culturali, economici e politici, che il fine di ogni ricerca scientifica e applicazione tecnologica è l’uomo, centro del creato e “pastore dell’essere”».

Ferruccio Gandolini




LETTERANatura=bontà? Non sempre.

Cari missionari,
vi ringrazio degli spunti e provocazioni. Mi piace riportare in famiglia, presso amici e conoscenti, le informazioni che trovo su Missioni Consolata, perché è importante non chiudersi e, soprattutto, conoscere chi e come si vive nel mondo.
Trovo pure stimolanti i servizi sui problemi ambientali e le risorse mondiali della rubrica «Una sola madre terra». Per formazione (sono laureata in agraria) e per lavoro (mi occupo di analisi di alimenti) mi ha molto interessato l’articolo sugli organismi geneticamente modificati (ogm), apparso in giugno 2004.
Non ritengo costruttivo l’atteggiamento «basta ogm!»: mi sembra un preconcetto, che non indaga su qualcosa che può essere utile per chi muore di fame e malattie. Sono d’accordo che una manipolazione genetica, volta (per esempio) a inserire geni per consumare fragole tutto l’anno, serva solo ad arricchire qualcuno. Inoltre, rimane essenziale sottolineare come la biodiversità sia un patrimonio troppo importante, che non va distrutto. Per cui non vale neppure lo slogan «ogm a ogni costo!».
L’equazione «natura uguale bontà» non sempre vale. Infatti esistono sostanze naturali dannose, anche cancerogene. Ad esempio: alcuni funghi, microscopici, emettono micotossine che, a piccole dosi provocano tumori o, a dosi elevate, conducono alla morte tra molte sofferenze. Non sempre l’emissione di tali tossine viene evidenziata da «muffe»; per cui, essendo impossibile analizzare ogni partita di alimento, occorre sfavorire la presenza di funghi sulle derrate alimentari per evitare la produzione eventuale di micotossine.
Nel caso del mais, l’infestazione fungina è favorita da un precedente attacco di un insetto (la piralide), che, fessurando la pianta, consente ai funghi di penetrarvi. Cosa propone la biotecnologia? Un mais con un gene (tratto da un microrganismo, il bacillus turingensis) che funzioni da insetticida biologico e protegga la coltura dalla piralide e dal conseguente instaurarsi dei funghi.
Perché vi racconto tutto ciò? Perché ho appreso, da un programma di Inteational Society for Infectious Diseases, che in Kenya stanno morendo decine di persone per aver consumato mais con elevate percentuali di micotossine, in particolare quelle chiamate aflatossine. Forse non è pensabile il mais ogm nella realtà africana, senza prima studiare la situazione locale; però voglio far riflettere su come sia facile giudicare «cattiva» una tecnica, che, se ben usata, potrebbe essere uno strumento al servizio dell’uomo.
Sento già l’obiezione circa la creazione di dipendenza da alcune ditte per l’eventuale approvvigionamento del seme. Non conosco come avviene in Africa. Da noi il mais prodotto non può essere seminato e il seme ibrido è sempre acquistato da ditte sementiere.
So di non aver esaurito l’argomento, né ho la pretesa di suggerire la soluzione al problema ogm. Tuttavia mi pareva utile apportare un piccolo contributo alla conoscenza della questione….
Cari missionari, continuate a farmi crescere!

Laura Bersani
Torino

Grazie, signora Laura, per la lezione di biotecnologia, che supera l’aspetto accademico. «È il segno di un’accresciuta sensibilità ai temi della salvaguardia del creato, che indicano come gli uomini e donne del nostro tempo se ne sentano in qualche modo corresponsabili» (Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, 29).

Laura Bersani




LETTERAAntipatia verso Israele?

Q uando sul vostro bel giornale si parla d’Israele, è evidente l’antipatia verso questo paese. È l’antipatia che si coglieva, prima dell’attuale terrorismo, nei pellegrini in Terrasanta, magari solo per le misure di sicurezza cui erano sottoposti, vissute come soprusi. Forse un motivo non c’era, o forse sì: era l’insofferenza che i luoghi sacri del cristianesimo si trovassero in un paese ebraico. Ma, ahimè, Gesù era ebreo e i luoghi della sua vita sono lì e non altrove.
Mirco Elena racconta la storia di Mordechai Vanunu, liberato dopo 18 anni di detenzione per avere rivelato i segreti nucleari d’Israele, e si chiede come mai questo paese può detenere testate nucleari senza che nessuno se ne preoccupi. E perché non si parla mai di ispezioni inteazionali come per il vicino Iran.
Posso tentare una risposta? Forse perché il conflitto arabo-israeliano è enormemente asimmetrico. Quando Israele nacque nel 1947, con il voto dell’Onu, era poca cosa: territori slegati, fatti di città e kibbutz fondati su terre acquistate dai legittimi proprietari, più un pezzo di Galilea, dove gli ebrei erano presenti da secoli, e un po’ di deserto del Negev. In tutto un territorio abitabile, grande come la provincia di Cuneo, per ospitare i reduci di 2 mila anni di persecuzioni, culminate con i 6 milioni di morti della follia nazista (oggi gli ebrei in Israele non arrivano a 5 milioni!). Gerusalemme, dove gli ebrei c’erano da secoli e rappresentavano il gruppo etnico più numeroso, era tagliata fuori dal nuovo stato.
La stessa notte della dichiarazione di indipendenza gli eserciti di Siria, Libano, Giordania, Egitto e Iraq invasero Israele, senza valutare che avrebbe potuto essere una opportunità di sviluppo per tutti. Nessuno pensava di fondarvi uno stato palestinese, che peraltro non era mai esistito. L’obiettivo era la distruzione dello stato ebraico.
Come è noto, gli arabi persero quella guerra e tutte le successive. Se Israele ne avesse persa solo una, non esisterebbe più. Vincendole ha occupato altro territorio, creando i problemi attuali a sé ed altri. Con Egitto e Giordania ha dimostrato di non ambire a ulteriori ingrandimenti: in cambio di pace, ha ceduto il Sinai, dove si erano già insediati i coloni.
Ma ci sono stati arabi che non hanno rinunciato ai vecchi progetti. Ecco l’asimmetria: un attacco nucleare su Israele lo cancellerebbe dalla faccia della terra, mentre le bombe israeliane stanno lì, perché tutti lo sappiano e nessuno sia tanto pazzo da provarci. Non è una bella cosa, ma così siamo vissuti anche noi per 40 anni e così vivremmo ancora se non fosse stato per Gorbaciov.

Gianni Damilano
Fossano (CN)

Missioni Consolata, dall’Intifada del 1987, ha pubblicato decine di articoli sulla «terra santa», distinguendo sempre tra «israeliano» ed «ebreo», tra «arabo» e «musulmano». I rilievi critici (non l’antipatia) coinvolgono la politica, mai la religione.

Gianni Damilano




LETTERAAntisemitismo strisciante?

S u Missioni Consolata (ottima pubblicazione) compare l’articolo di Mirco Elena «Mai dire che Tel Aviv…». L’autore dice cose inedite, ma ovvie. Raccontato il «caso» di Mordechai Vanunu, Elena si limita a dire: «Stupefacente appare l’uso di due pesi e due misure e l’incapacità della stampa e media liberi inteazionali di evidenziare i problemi posti dall’arsenale israeliano». Qui ferma la disamina. Peccato!
È ovvio chiedersi: perché Israele è dispensato dall’ottemperare ad alcune delle risoluzioni Onu, mentre altri devono farlo sempre e comunque? E per quale ragione, quando una persona di origini ebraiche viene toccata da violenza (vera o presunta), si levano grida al cui confronto quelle del Manzoni appaiono blande raccomandazioni? Ricordiamo il famoso sedicente prof. Marsiglia (Verona), il meno noto sedicenne di Orbassano (TO), la recente mitomane francese.
I casi sono tanti… Il punto è, però, chiaro: se la «vittima» è un ebreo finisce sui media; se è un… ghanese, non gliene frega a nessuno.
Io sono rimasto fermo all’equazione: «La vita di un uomo vale come quella di un altro». Evidentemente, oggi, l’ebreo vale di più. Nessuna sorpresa.
Alle elezioni politiche del 1994 l’afflusso fu procrastinato a lunedì 28 marzo fino alle ore 22, anziché chiudere nel primo pomeriggio, perché quel giorno «cadeva in una festività ebraica».
Gli ebrei in Italia sono circa 35 mila. Perché lo stato che li accoglie deve adeguarsi alle «loro» festività e non a quelle, semmai, di minoranze più numerose? È latente antisemitismo chiedersi: perché gli ebrei, storicamente, non sono mai stati un popolo troppo amato? Se viene bruciacchiata una sinagoga, la notizia finisce nella tua… minestra, ma se l’esercito israeliano entra nella grotta della Natività (aprile 2002), tutto è presentato in maniera «edulcorata».
L’ebreo si presenta come «vittima». Poi, lontani da «complotti», si scopre che nei centri del potere c’è (quasi) sempre un ebreo: si veda il numero dei giornalisti e banchieri, anche nostrani. Quasi un razzismo rovesciato.
Mirco Elena può trovare «qui» una risposta alle sue domande…
Tutto trae spunto da «Auschwitz e dintorni». Loro sono il popolo che ha sofferto più di tutti e, «per contrappasso», a loro è concesso tutto.
Nessuno parlerà mai dell’«olocausto del popolo iracheno», uno dei tanti provocati dalle democrazie occidentali: 12 anni di embargo, bombardamenti quotidiani (il diritto internazionale dov’era?), guerra finale. Chi processerà Bush, Blair e comprimari? E questo perché il popolo iracheno non «ha un mercato» e non è funzionale ai poteri che scandiscono i fatti del mondo.
Lascia perplessi la comparsa, nel settembre 2001, di Al Qaeda e Bin Laden, soggetti sconosciuti fino a poco prima, quando oggi ci sono strumenti che individuano un temperino nel mare! Un nemico «imprendibile ed indefinibile (è pure comodo) che, dalle brulle montagne dell’Afghanistan, è in grado di terrorizzare il mondo» (D. Rumsfeld). Da questa «comparsa» chi ha tratto vantaggio politico ed economico (si può dirlo?) se non Usa e Israele?
«Non troverai mai la verità, se non sei disposto ad accettare ciò che non ti aspettavi» (Eraclito). Senza con questo volere, sempre e comunque, cogliere una verità «recondita e occulta», bensì una più ovvia e nitida, che ci fa capire come il potere, a ogni latitudine, non tolleri altri che coloro che lo celebrano.

Max Cole
Brescia

Rigettiamo ogni violenza, senza «se» e senza «ma». Però nella storia, raccontata da alcuni, se «tutti i morti sono uguali, alcuni sono più uguali di altri». L’abbiamo ricordato, con tristezza, anche nel nostro libro La guerra, le guerre, Emi 2004.

Max Cole




LETTERAVanunu traditore?

E gregio signor Elena, ho letto il suo articolo su Mordechai Vanunu. Sono rimasto molto deluso e un po’ offeso. Nel 1984 lavorai per un anno in un kibbutz del nord d’Israele.
Perché Vanunu decise di rivelare alla stampa ciò che faceva, tradendo un giuramento? Perché, signor Elena, le sue ipocrite parole contro il legittimo diritto d’Israele a difendersi, attorniato da nemici in perenne ostilità, non le rivolge a Pakistan, Cina, Usa, Russia? Israele è l’unica democrazia nel mare dittatoriale e medioevale arabo.
In Israele la persona ha gli stessi nostri diritti come in Europa. Lei, conosce la condizione femminile nei paesi arabi e quella delle donne tra i palestinesi? S’informi e non si riempia la bocca di parole consolatorie… Solo musulmani (Pakistan, Algeria, Arabia Saudita, Yemen) uccidono cristiani, non il contrario.
Sono molto dispiaciuto che Missioni Consolata, cui sono abbonato da anni, pubblichi articoli così politicamente filo-comunisti e filo-arabi.

Alfio Tassinari
Cervia (RA)

Criticare la politica d’Israele non significa ipso facto simpatizzare con quella araba o comunista. Almeno da parte nostra.
Dopo la morte di Yasser Arafat (11 novembre), considerato dal governo israeliano un interlocutore inaffidabile (o addirittura un terrorista), vedremo se le parti sapranno ricominciare a parlare di pace.

Alfio Tassinari




LETTERA Indios yanomami strumentalizzati?

Spettabile redazione,
vi ringraziamo del bellissimo lavoro di annuncio del vangelo che svolgete attraverso Missioni Consolata. È una rivista che ci interessa molto, perché i suoi temi sono coinvolgenti e missionari. Anche gli indios yanomami (Roraima/Brasile), fra i quali lavoriamo, gradiscono sfogliarla, anche per le foto colorate che pubblica.
In modo speciale vi ringraziamo del dossier di febbraio 2004 su Roraima, elaborato dall’équipe della Campagna Nós existimos. Richiamiamo la vostra attenzione sulle pagine 34-35 e, più precisamente, sul servizio fotografico.
Ci ha suscitato sorpresa e indignazione la foto di due bambini yanomami sopra una discarica nella città di Boa Vista. Può sembrare che quei bambini stiano fra i rifiuti chiedendo aiuto. Anche alcuni yanomami, che hanno visto la foto, non l’hanno gradita. Suggeriamo la rettifica, dato che la rivista difende la giustizia e la verità dei fatti.
Gli yanomami si rifiutano di essere usati per presentare i problemi degli altri popoli indigeni. Hanno l’impressione che, quando in Europa si parla di indios, automaticamente si usino fotografie relative a loro stessi.
Nella cultura yanomami il viso e le mani «sporchi di cibo» non sono segno di sporcizia, ma di abbondanza. È così che interpretiamo la foto di pagina 34: sono due bambini nutriti e sani. Per questo la foto ci sembra mal posta sulla discarica. Inoltre i bambini yanomami non vanno a Boa Vista da soli, ma accompagnati dai genitori per cure mediche.
Oggi la discarica di Boa Vista è chiusa. Pertanto la sua foto non ha senso, dal momento che il dossier tratta problemi attuali e non fatti superati (dopo pressioni inteazionali).
La rivista e i suoi sostenitori possono aiutarci a superare la strumentalizzazione degli yanomami che avviene all’estero? Essere indigeni non è solo avere le piume in testa o la faccia dipinta, ma è riconoscere le loro differenze e non generalizzare con le culture.
Come équipe missionaria, non possiamo lasciar passare inosservato questo equivoco che ci ha procurato disagio e preoccupazione. Con questo non dubitiamo delle buone intenzioni di Missioni Consolata. Ma quella foto dà adito a varie interpretazioni.
Come figli del beato Giuseppe Allamano siamo chiamati, noi e voi, a rispettare la dignità delle minoranze etniche, tra cui il popolo yanomami.
Con la speranza che la nostra richiesta sia tenuta in considerazione dalla rivista, vi mandiamo un forte abbraccio fraterno, caloroso e cordiale.

I padri
Laurindo e Gianfranco,
le suore Blanca Yolanda, José Iris e Noeli,
i laici missionari
Manuel e Paula
Boa Vista (Brasile)

Siamo grati all’équipe missionaria. Condividiamo pure i rilievi critici, specialmente quello di non strumentalizzare gli yanomami… esotici, belli, nudi. Ecco perché, nei nostri viaggi a Roraima, non abbiamo mai «curiosato» fra loro. Che dire, allora, delle foto sui bambini yanomami e la discarica?
1. L’accostamento (non la sovrapposizione) delle due immagini è un’opera grafica di «photoshop» e ha un significato ideale: ricorda l’auspicabile unione fra indios ed emarginati della città (nonché contadini poveri), per cui è stata lanciata la Campagna Nós existimos.
2. La discarica non esiste più, ma non mancano a Boa Vista luoghi di degrado, che coinvolgono tutti, indios compresi.
3. «Gli yanomami si rifiutano di essere usati per presentare i problemi degli altri popoli indigeni…». L’affermazione è grave. Gli yanomami non possono scordare che, nel 1992, l’omologazione della loro terra avvenne grazie alla solidarietà di milioni di italiani, sensibilizzati dai missionari della Consolata. Oggi sono gli indios macuxí, wapichana, ingarikò, taurepang… a lottare per lo stesso problema. E gli yanomami, che hanno già beneficiato del sostegno di tanti simpatizzanti, dovrebbero essere con loro! Se non lo sono, spetta ai missionari operare per una più larga intesa fra tutti i poveri, senza escludere nessuno.
Questo è lo spirito profetico di Nós existimos, richiesto con forza anche dal vescovo di Roraima, Apparecido Diaz, prematuramente scomparso il 29 maggio scorso.

aa.vv.




LETTERA Armi e interessi dell’Italia nel mondo

A suo tempo non mi sottrassi al servizio di leva, cosa allora abbastanza facile: 7 su 10 dei miei amici coetanei lo evitarono con varie motivazioni, raccomandazioni… Quale credente e praticante nell’associazionismo cattolico, ritenevo che, anche se avessi avuto la vocazione al martirio, non potevo imporla al mio prossimo; e, avendo capacità e forza, era mio dovere oppormi anche con le armi alle minacce contro la libertà (per me più preziosa della vita stessa) che ipotetici aggressori avrebbero potuto portare sul suolo della mia patria.
Oggi può apparire un atteggiamento di patetica retorica, ma ne sono tuttora convinto, come lo sono della bontà di un corretto concetto di Patria. Quando mi si chiede se e dove ho «fatto la naia», io provocatoriamente rispondo: «Ho avuto l’alto onore di servire in armi la Patria nelle Truppe Alpine!». Sissignori, «alto onore» e non «odiosa tassa pagata», come ho sentito definire il servizio di leva da esponenti del precedente governo e dall’attuale ministro della Difesa in una delle sue prime esteazioni (con buona pace del bipolarismo, che si sta rivelando come le due facce della stessa medaglia, anzi… moneta!). Però, nelle mie modeste preghiere quotidiane, non manco di ringraziare il Signore per avermi finora risparmiato dalla più grande sciagura del mondo: la guerra.
La mia convinzione di servire il prossimo, espresso anche nel servizio militare, va di pari passo con altre scelte, quali: donare regolarmente il sangue, prendermi cura di anziani ed ammalati, operare con impegno costante nella Caritas parrocchiale e in altre attività di volontariato. Non ultima, anche l’attenzione a chi è privato dei mezzi primari di sostentamento e non ha voce, per rompere l’indifferenza dei potenti (o prepotenti) del mondo.
Così, a 61 anni suonati, mi sono sentito in dovere, come cristiano, di partecipare alle manifestazioni anti-G8, dicendo tra amici e parenti che andavo in pellegrinaggio a Genova con i missionari della Consolata.

I tempi cambiano e lo «strumento militare» pare che stia perdendo la caratteristica di servizio, cui ogni componente la comunità deve contribuire; si sta rapidamente passando al «mestiere». Le motivazioni sono: calo demografico; col riconoscimento dell’obiezione di coscienza, pochi giovani di leva scelgono il servizio militare; molto numerosa sembra la schiera dei non idonei; inoltre i compiti delle Forze Armate stanno cambiando e occorre personale più addestrato e determinato.
Abolendo la leva obbligatoria (veramente, con ipocrisia tutta politica, bipolaristicamente ne è stata decretata la «sospensione»), si è risolto anche l’ingombrante problema «obiettori» e non ci sarà più alcun controllo diretto dei cittadini sullo strumento militare.
A questo punto mi chiedo se sia ancora opportuno parlare di «difesa». Trovo inquietanti certe frasi roboanti, pronunciate da alte cariche dello Stato: «Le Forze Armate hanno il compito di difendere gli interessi dell’Italia nel mondo». Interessi difesi con le armi e in giro per il mondo? Mi viene da immaginare qualche modea sciagurata avventura militare… Le alte cariche possono tranquillizzarmi?
Oppure: «Le nostre Forze armate devono raggiungere la necessaria efficienza e determinazione per onorare gli impegni che comportano le alleanze a cui l’Italia ha aderito». Ma è necessario continuare a mantenere certe alleanze? E, se gli «alleati» decidono di «delinquere», siamo in grado di astenerci? Chi può dimostrare che siamo «alleati alla pari» e non gregari, con la conseguente limitazione della nostra indipendenza? Quante risorse occorre impiegare per mantenere una struttura adeguata ai vincoli imposti dai nostri alleati?

La fine della coscrizione obbligatoria, per avere un esercito di mestiere, non mi pare un contributo positivo contro il facile ricorso alle armi! Inoltre non ritengo sufficiente, anche se lodevole, limitarsi all’atto individuale dell’obiezione di coscienza.
Finché si è fiduciosi nel sistema democratico, i cambiamenti dovrebbero avvenire gradualmente e a colpi di voto: non solo gli obiettori, ma anche chi è loro vicino e li appoggia (come larghi strati della chiesa cattolica) dovrebbero promuovere una intensa azione politica per l’uscita dell’Italia dalla Nato e vigilare sull’impostazione delle nascenti Forze armate europee.
Gli strumenti ci sono: ad esempio, il referendum abrogativo, negare il voto alle formazioni politiche che propugnano la permanenza nell’Alleanza Atlantica.
Quando padre Alex Zanotelli definisce il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e l’Organizzazione mondiale del commercio come «trinità satanica», vista la quasi identica presenza dei paesi che ne determinano la politica con gli aderenti alla Nato (G8 ed altri paesi dell’opulento e rapinatore Nord del mondo), non ho difficoltà ad ipotizzare presto l’evoluzione della Nato in «braccio armato della trinità satanica».
Inoltre si auspica una coerente rilettura della Costituzione, che aggiorni gli articoli su difesa e alleanze. Del resto già il primo articolo non è rispettato: a «lavoro» va sostituito… PROFITTO!

Beppe Peroncini

Beppe Peroncini




LETTERA Federico ha fatto centro

«Missioni Consolata» di marzo scorso pubblicava «Il compito in classe di Federico», che riportava anche pareri, colti in famiglia, su George Bush, Silvio Berlusconi e la guerra in Iraq.
Il compito ha suscitato varie reazioni. Ecco l’ultima.

Cari redattori,
dopo aver letto le reazioni indignate per «Il compito di Federico», sento di dover prendere la parola: prima di tutto per una critica verso Missioni Consolata e la mamma del ragazzo.
L’aver pubblicato «il compito» ha voluto dire scoprire il fianco, dare occasione ai lettori che non condividono la linea editoriale della vostra stimata rivista per condannare un’espressione di non violenza. Senza tener conto del fatto che avete esposto uno studente di neanche 14 anni ad attacchi di persone sconosciute, che non possono permettersi di definirlo come «un povero ragazzo», il quale si esprime secondo quanto ascolta in classe e famiglia o alla televisione.
Conosco Federico come persona attenta a ciò che gli accade attorno, studente con ottimi risultati, ragazzo sensibile ed educato. Dobbiamo fargli il processo, perché nella sua famiglia, forse (mi auguro) come in tutte le famiglie, si parla di politica, di guerra e pace, mentre lui è lì, ascolta i genitori, le altre persone adulte e probabilmente ne condivide il pensiero? Chi non è stato in qualche modo condizionato dall’ambiente in cui è nato e cresciuto?
Sarebbe forse più accettabile che Federico esprimesse «il pensiero unico» che sta affermandosi non solo in Italia, ma nel mondo, a livello globale, vale a dire l’assoggettazione totale ad un sistema culturale imposto da televisione, pubblicità e consumo?
Vorrei che il dibattito non si fosse sviluppato sulle pagine di una rivista, che coinvolge prettamente adulti, ma che avesse avuto luogo nella scuola di Federico, che i suoi insegnanti avessero trovato spunto dal suo tema per far discutere gli studenti, per farli crescere nell’attenzione, nel rispetto dei valori fondamentali della nostra Costituzione, nell’analisi critica di opinioni e fatti, nella progettazione di un domani meno ingiusto.
Le famiglie sono quelle che sono: diverse, tradizionali o scompaginate; dialogano con i figli o a mala pena li conoscono. È difficile intervenire in questa sfera; ma la scuola no, è un’altra cosa, è affare nostro, di tutti. È alla scuola prima di tutto che va il mio pensiero, all’università, a tutti i luoghi preposti all’educazione dei nostri ragazzi: è un mondo in pericolo, spesso insufficiente ad arginare la deriva culturale di una società in declino, e le riforme finora attuate altro non hanno fatto che aggravare la situazione.
Per la scuola dobbiamo impegnarci, perché gli insegnanti ritornino al loro ruolo fondamentale di educatori, perché non si sentano per tutta la vita lavorativa dei precari, perché in università non ci siano insegnanti di serie A e altri senza alcun diritto, sfruttati e abbandonati ogni qualvolta si presentano manovre di riduzione dei costi.
Se non investiamo oggi nell’educazione la partita col domani è già persa.
Lucia Avallone – Torino

Eccellente esemplare di lettera critica, ma ricca di contenuti. Signora Lucia, condividiamo i suoi rilievi sulla scuola.
Quanto a Federico, aggioiamo la situazione:
– il ragazzo ha vissuto con serenità la polemica che l’ha coinvolto;
– ha superato l’esame di terza media con «ottimo»;
– dopo «il compito», la mamma dello studente e la professoressa di italiano hanno iniziato a discutere in modo costruttivo.
Forse è proprio vero: non tutto il male viene per nuocere.

Lucia Avallone




LETTERA La guerra le guerre, il libro

Spettabile redazione,
grazie del volume La guerra, le guerre. A prima vista è molto bello, godibile (nonostante racconti la raffinata barbarie contemporanea) e aggiornato fino alla messa in stampa. Mi pare pure politicamente condivisibile.
Complimenti per il capitolo sulla Colombia. Vi ho trovato, al di là delle citazioni, alcune riflessioni del mio libro Colombia, il paese dell’eccesso. Di questo sono molto contento, perché significa che siamo di più nel contrastare gli stereotipi che, fino a pochi anni fa, marcavano l’idea della Colombia, anche in molti settori progressisti (adesso c’è, per lo meno, una varietà e vivacità di posizioni).
Ma il migliore complimento è che… mi dispiace di non avere collaborato alla stesura del libro. Però vi saranno altre occasioni nel futuro.
Se vi andasse di presentare La guerra, le guerre a Napoli, dove io vivo (pur essendo torinese di nascita e nordico di origine), contate su di me.
Guido Piccoli
Napoli

Lettera di un giornalista e scrittore. L’ultimo libro di Guido Piccoli è: Colombia, il paese dell’eccesso, Feltrinelli, Milano 2003.
La guerra, le guerre è curato dai «nostri» Benedetto Bellesi e Paolo Moiola: conta ben 384 pagine; è edito dall’Emi, Bologna, al prezzo di 15 euro. Per eventuali acquisti contattare:
Libreria
Missioni Consolata,
tel.fax 011.447 66 95
libmisco@tin.it
Informazioni anche su:
www.missioniconsolata.it
www.scuolaperalternativa.it
www.emi.it

Guido Piccoli