Cari missionari

Nel numero di  dicembre 2009, «Missioni Consolata» ha pubblicato il dossier-reportage «Il grande sogno – viaggio tra i rifugiati», di Gabriella Mancini. Accogliamo due commenti, tra cui quello dell’Assessore alle politiche sociali del Comune di Torino, che speriamo possano aiutare ad allargare il dibattito su un tema tanto importante e scottante come quello dell’accoglienza.

… e le istituzioni?

Ho letto con vivo interesse il vostro approfondito reportage sulla condizione dei rifugiati nella nostra città. Non ho mai trovato sui media, riguardo a questo tema, un’informazione completa come quella contenuta in questo dossier.
In questi anni ho seguito con apprensione la vicenda narrata nel dossier e ho anche personalmente, per quanto possibile, contribuito portando a questi rifugiati dei generi di prima necessità. Di tutta questa storia mi hanno sempre colpito molto i toni di impossibilità assunti dalle istituzioni, sin dall’inizio. Apprendo a mezzo stampa in questi giorni che invece il governo, dopo che il comune aveva già magicamente trovato in fretta e furia fondi per allestire la caserma di via Asti, avrebbe stanziato 2 milioni di euro l’anno per tre anni consecutivi da spendere in via esclusiva per trovare una soluzione al «problema» rifugiati nel comune di Torino.
Una domanda sorge allora spontanea: sarebbero poi veramente comparsi questi fondi senza il «rumore» creato dai rifugiati?”

Paolo Macina
Torino

La Città  è presente

Gentile Direttore,
ho letto con attenzione il dossier-inchiesta «Il grande sogno – viaggio tra i rifugiati» pubblicato sul vostro mensile nel numero di dicembre scorso.
Devo premettere che ogni articolo descrive con fedeltà la drammatica vicenda che viene vissuta da coloro che intraprendono il viaggio del «Grande Sogno» e che tutte le preoccupazioni espresse dall’autrice sono condivisibili.
Ciò che invece mi ha indotto a scriverle è la parziale ottica con cui si descrive il sistema di accoglienza della Città di Torino. O meglio, della «non accoglienza», così come definita da Gabriella Mancini, lasciando credere ai lettori che il tema sia di esclusiva competenza e responsabilità degli enti locali e non una competenza governativa: anche se penso che sui permessi di protezione umanitaria che avrà esaminato, non avrà sicuramente trovato il simbolo della Città bensì della Repubblica Italiana.
Torino, in tutta la Regione Piemonte, è l’unico capoluogo che gestisca 50 posti di accoglienza della rete del «Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati» (Sprar) finanziata dal ministero dell’Inteo. È in solitaria compagnia di altre 3 città: Ivrea (TO), Chiesanuova (TO), Alice Bel Colle (AL). Forse già questo primo indizio serve a spiegare come mai sia di riferimento a molti «flussi».
Non contenti di ciò, abbiamo negli ultimi anni potenziato i posti di accoglienza per dare delle risposte (seppur, a volte, parziali) a coloro che si rivolgevano al nostro Ufficio Stranieri: oggi la Città garantisce oltre 530 posti di accoglienza quotidiana (vitto, alloggio, formazione). Nel 2008 sono stati 1.047 gli stranieri che hanno beneficiato delle nostre strutture per un periodo mediamente di 6 mesi (gestite direttamente o indirettamente dalla Città, oltre alla rete del volontariato e del privato sociale con contributo economico comunale); sono più di 300 i minori stranieri non accompagnati per i quali l’assessore pro tempore ai servizi sociali della Città di Torino è «tutore»!
Forse sarà poco; sicuramente non sufficiente se paragonato ai 30 mila sbarchi sulle coste italiane ogni anno; ma penso sia abbastanza per contendere la palma ai «giovani dei centri sociali, tra i più attivi nell’aiutare i rifugiati» così come definiti in un articolo del dossier; o per dimostrare che il Comune non è «il grande assente» così come definito dalla sig.ra Molfetta in un altro passo del documento.
Alcuni esempi? Ve li elenco per brevità.
• Progetto Hopeland. Si tratta del progetto che fa parte dello Sprar a cui la Città aderisce da quando, ancora nel 1999, si chiamava Progetto Nazionale Asilo (Pna)) e che oggi garantisce un sistema di accoglienza personalizzato di 50 posti (35 maschili e 15 femminili).
• Progetto Masnà. Realizzato sempre nell’ambito dello Sprar, ma rivolto ai minori stranieri richiedenti asilo e rifugiati (20 posti)
• Progetto Isa (Inclusione socio abitativa): interventi per favorire l’esercizio di un diritto di cittadinanza, ridurre il fenomeno della marginalità abitativa e fornire uno specifico supporto abitativo in caso di urgenza a persone in temporanea situazione di rischio. Finanziato dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali con fondi stanziati nel 2007.
• Progetto «Rifugio Diffuso». L’intervento prevede l’individuazione di 20 beneficiari tra richiedenti asilo, rifugiati (con protezione sussidiaria e per motivi umanitari), presenti sul territorio cittadino e presi in carica dall’Ufficio Stranieri, da inserire in accoglienza familiare, attraverso la collaborazione di associazioni, organizzazioni di volontariato e volontari singoli, in percorsi di inserimento sociale mediante la realizzazione di programmi individualizzati.
• Progetto «Action Work». Realizza percorsi di accompagnamento all’autonomia ed all’integrazione sociale mediante azioni di ricerca attiva del lavoro e inserimento lavorativo che avvengono soprattutto attraverso la realizzazione di tirocini formativi, orientativi, socializzanti. La metodologia impostata prevede la sperimentazione di azioni e strumenti finalizzati all’integrazione socio-lavorativa dei cittadini stranieri disoccupati impegnati in percorsi di inserimento sociale, in collaborazione con altri enti, cornoperative ed associazioni del territorio.
• Azioni straordinarie per intervenire sulle situazioni di occupazione abusiva dello stabile di corso Peschiera «ex clinica San Paolo». Progetto di accoglienza temporanea d’intesa con la Prefettura di Torino presso la ex caserma «La Marmora».
C’è poi un sottile filo che separa due interpretazioni del concetto di accoglienza. Accogliere, secondo i ragazzi dei centri sociali, significa «assistenzializzare». L’occupazione ricorrente di stabili per l’ospitalità dei profughi, parte da rivendicazioni condivisibili di diritti (lavoro, casa, residenza) per arrivare poi al passaggio di responsabilità: «Caro comune, in questo stabile che abbiamo occupato ci sono 200 persone: devi occupartene».
Accogliere, secondo il lavoro fatto in questi anni dall’amministrazione comunale, si traduce in «accompagnamento sociale» verso l’autonomia delle persone. Per questo motivo è stato fondamentale il lavoro di concertazione con altri enti, associazioni, organizzazioni. In particolare l’Ufficio Stranieri della  Città di Torino ha promosso la realizzazione del «Tavolo Rifugio» che rappresenta un momento di confronto e condivisione con gli Enti e le Associazioni che liberamente aderiscono. Il Tavolo attualmente coinvolge, oltre all’Ufficio Stranieri, i diversi collaboratori dei progetti (Coop. Soc. Progetto Tenda, Coop. Soc. Il Riparo, Sermig – Centro come Noi, Asgi, Ass. Frantz Fanon, il Cfpp Casa di Carità), i soggetti istituzionali (Questura, Prefettura) e le organizzazioni del volontariato (Ufficio Pastorale Migranti della Caritas, Chiesa Valdese, Ass. La Tenda, Gruppo Abele, Arci, Croce Rossa Italiana, Asai, Ass. Mosaico – Azioni per i Rifugiati, Ass. Somali a Torino, Alma Terra). Si tratta di un luogo multifunzionale che permette l’elaborazione di esperienze di gestione, la verifica dell’andamento dei casi e dei progetti in fieri e la formazione sulle nuove problematiche. Tale luogo viene organizzato come un laboratorio per la progetta- zione di iniziative in favore dei richiedenti asilo e rifugiati, il più possibile vicine alle reali problematiche e alle reali risorse delle persone.
Spero di essere riuscito ad aggiungere un altro pezzo di informazione che mi sembrava totalmente mancante. Così come penso che le migliori politiche per l’integrazione non si realizzino «concentrando» in un’unica realtà le aspettative e le tensioni, ma che sia più facile trovare soluzioni di inserimenti sociali se si lavora su una superficie territoriale ampia. Per questo motivo credo nella programmazione territoriale di Province e Regione che dovrebbe portare alla più capillare distribuzione del fenomeno di accoglienza dei profughi, per offrire maggiori opportunità di autonomia a cui le persone legittimamente aspirano.

Marco Borgione
Assessore alla Famiglia, Salute e Politiche Sociali
Comune di Torino

Caro Assessore, innanzitutto la ringraziamo per l’attenzione e per aver considerato il nostro dossier  un lavoro approfondito. Prendiamo atto dei progetti da lei elencati e che, in sole 20 pagine, non era possibile inserirli tutti. Solo una precisazione: non abbiamo voluto oscurare la presenza del Comune che rientra in più punti nel dossier, dall’intervista all’Ufficio Stranieri del Comune al lungo intervento sul Tavolo di co-progettazione, ma far presente una falla strutturale nel sistema di accoglienza e, in particolare, in quello specifico contesto. Per il resto, ci auguriamo sinceramente  che la sinergia di più intenti, il dialogo e la motivazione nel risolvere i problemi possa condurre a soluzioni strutturali e non transitorie.
Buon lavoro!

Ugo Pozzoli
Gabriella Mancini




Cari missionari

Scrittori
Cari missionari,
ho letto con stupore sul numero di aprile di MC la nota a pié di pagina dell’articolo di Paolo Farinella «Il racconto delle nozze di Cana» (pag. 27). Resto sbalordito a leggere che praticamente l’autore della nota dice chiaro e tondo che non terrà conto di quanto scrive il papa nel suo libro «Gesù di Nazaret». Non sapevo che Benedetto XVI fosse una persona di cui si può tenere poco conto quando scrive; non sarà un esegeta ma è il successore di Pietro come vescovo di Roma, e questo senz’altro conta moltissimo per tutti noi cristiani. O no? (…)
Non entro nel merito delle tesi di Bultmann o di Martin Hengel che non conosco (anzi il nome di quest’ultimo, lo ammetto, mi è del tutto nuovo!), ma penso, conoscendo come tutti il successore di Giovanni Paolo II ormai da quattro anni, che sia un uomo di grande cultura filosofica, oltre a essere stato un noto teologo, apprezzato fin dai tempi del Concilio.
Che importanza ha stabilire se «Gesù di Nazaret» è stato scritto dal teologo tedesco o dal vescovo di Roma? Forse che il cardinale Ratzinger non è stato eletto papa proprio perché ben conosciuto per la sua attività per 25 anni alla Congregazione della Dottrina della fede, a fianco di papa Wojtila, e per la sua preparazione appunto filosofica e teologica? Si rende conto Paolo Farinella che, al di là di tutto, dire che il papa sostiene tesi ormai superate, come minimo lascia nello stupore e rischia di dividere il mondo cattolico, considerato che ben pochi tra i fedeli sono in grado di conoscere quanto sostengono gli studiosi sull’origine del quarto vangelo e l’identità dell’autore?
E, visto che gli studiosi sarebbero unanimi sull’esistenza di due diversi Giovanni, un apostolo e un evangelista, non sarebbe il caso di dirci chi sono questi illustri studiosi? Avrei piacere di conoscere le loro affermazioni; non si può dire praticamente che Ratzinger è un ignorante, senza fornire le prove del perché dovrebbe stare zitto, non essendo un esegeta di professione (ma solo un modesto papa!), e farci capire dove avrebbero ragione gli studiosi, considerato a detta di Farinella, che il vescovo di Roma è l’autore di un libro di «meditazione spirituale edificante» e che nel suo libro ci sarebbero «inesattezze e anche errori».
È possibile conoscere queste inesattezze e questi errori o deve conoscerli solo Paolo Farinella? Noi fedeli chi siamo, ancora una volta solo il popolo bue che è meglio che non legga direttamente la bibbia, come si diceva fino a 50 anni fa, per poi farcela spiegare dagli altri che hanno capito tutto?
Franco E. Malaspina
 Milano
Ce la aspettavamo una simile reazione e non è l’unica. Inviando l’articolo in questione, don Farinella scriveva: «… Verrà un giorno in cui la rivista MC verrà citata per questo articolo che per la prima volta e in maniera scientifica e serena pone l’enorme problema teologico degli scritti dei papi. Quello che dico qui, l’ho detto alla Università Lateranense lo scorso anno (e dove ritorno invitato anche quest’anno) e sono le cose che tutti dicono, ma nessuno ha il coraggio di dirlo per timori inconsistenti o per piaggeria».
La domanda del sig. Malaspina se l’è posta anche il cardinal Martini nella sua recensione: «È il libro di un professore tedesco e cristiano convinto, oppure il libro di un papa, con il conseguente rilievo del suo magistero?». La risposta viene dal papa stesso: «Questo libro non è in alcun modo un atto magisteriale, ma unicamente espressione della mia ricerca personale del “volto del Signore”. Perciò, ciascuno è libero di contraddirmi».
È ancora il card. Martini a dire che «l’autore non è esegeta, ma teologo… non ha fatto studi di prima mano per esempio sul testo critico del Nuovo Testamento», per cui il libro del papa è «una meditazione sulla figura storica di Gesù e sulle conseguenze del suo avvento per il tempo presente… una grande e ardente testimonianza su Gesù di Nazaret» e in quanto testimonianza fa certamente del bene a chi lo legge. Ma per quanto riguarda la questione giovannea e l’autore del quarto vangelo, il card. Martini afferma: «Penso che non tutti si riconosceranno nella descrizione» fatta dal papa.
Il precedente Codice di diritto canonico (1917), prevedeva espressamente il divieto ai papi di scrivere libri, perché essi parlano solo per «magistero». Nel nuovo codice la norma è scomparsa.

Follereau e Damiano
Caro Direttore,
le invio alcuni documenti sul rapporto tra Raoul Follereau e padre Damiano. Come lei sa, il prossimo 11 ottobre il santo padre canonizzerà padre Damiano de Veuster.
Follereau si adoperò moltissimo per favorire il processo di beatificazione di padre Damiano. Egli creò infatti il «Movimento internazionale per la glorificazione di padre Damiano», che raccolse firme di malati di lebbra da tutto il mondo, in un periodo dove non esisteva ancora internet, ma solo la posta normale.
Lunedì 17 aprile 1967, come riporta l’Osservatore Romano, Raoul Follereau, meglio conosciuto come il «Vagabondo della carità», varca il Portone di bronzo in Vaticano. Si reca all’udienza privata che sua santità Paolo VI gli ha accordato. Insieme a lui, gli altri membri del Movimento internazionale per la glorificazione di padre Damiano.
Stringendo le mani dei rappresentanti della delegazione internazionale, il santo padre saluta i firmatari di una petizione che unisce cristiani e non cristiani in una ammirazione unanime per l’apostolo dei lebbrosi. Da 52 paesi del mondo, 32.864 malati di lebbra di ogni confessione e 302 vescovi cattolici testimoniano così la loro riconoscenza e il loro rispetto per padre Damiano e chiedono la sua Glorificazione. Portavoce del gruppo, Raoul Follereau dice al santo padre: «Ciò di cui il mondo ha bisogno è un diluvio di carità, e io vorrei che la festa di padre Damiano venisse un giorno a illuminare la Giornata dei lebbrosi nel calendario della chiesa universale per insegnare agli uomini ad amarsi ancora di più. Poiché l’arma per vincere questa guerra contro la fame, la miseria, le malattie, l’ignoranza, è proprio quella di padre Damiano: è la carità!». Dieci anni più tardi, il 7 luglio 1977, Paolo VI promulga il decreto che riconosce le virtù eroiche del servitore di Dio, padre Damiano de Veuster. Il 4 giugno 1995 padre Damiano viene beatificato da Giovanni Paolo II a Bruxelles.
Spero che Missioni Consolata possa ricordare padre Damiano, ma anche questa straordinaria iniziativa di Raoul Follereau, che nella sua vita si adoperò tanto per gli altri, con le sue iniziative, conferenze in Europa e oltre-oceano fece conoscere al mondo la santità di padre Damiano, come pure quella di Charles de Foucauld.
Con i più sinceri saluti.
Paola Pagani
Fondation Follereau, Italia

Dossier Uruguay:
una lettera dell’ambasciatore

Egregio Direttore,
con grande gioia ho letto su «Missioni Consolata» (maggio 2009) il dossier dedicato all’Uruguay. È raro trovare informazioni su questo paese «invisibile» che, nonostante sia poco conosciuto, ha una storia tanto ricca quanto originale. Senza contare che l’Uruguay è una nazione che può vantare forti vincoli che la legano all’Italia. Mi congratulo quindi con gli autori, Mario Bandera e Paolo Moiola, che hanno saputo fare informazione  offrendo una lettura piacevole e interessante.
Nel momento stesso in cui però mi rallegro con essi, sento il dovere di fornire alcuni chiarimenti.
Il primo di essi riguarda l’informazione che si trova a pag. 40 della vostra rivista secondo la quale l’«Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico» (Ocse) ha dichiarato l’Uruguay un paradiso fiscale.  Il giorno stesso in cui è stata rilasciata tale dichiarazione, il ministero dell’Economia uruguaiano ha inviato una nota in cui si dichiarava l’erroneità di tale dichiarazione; la Ocse ha pertanto immediatamente provveduto al ritiro dell’erronea qualifica attribuita al mio paese, come evidenziato dalla nota inviata dal segretario della Ocse al ministero dell’Economia, nota di cui per altro sono in possesso. L’attuale governo uruguaiano ha condotto un esemplare risanamento del settore finanziario e, come ne danno testimonianza tutti gli organismi inteazionali, è riuscito a consolidare e rafforzare la sua economia, senza penalizzare le politiche sociali che per la prima volta sono state lanciate in Uruguay.
La seconda precisazione si riferisce al veto espresso dal presidente della Repubblica alla legge sull’aborto. L’articolo in questione, a pag. 26, afferma che tale legge avrebbe avuto un effetto «devastante» nell’aver guastato i rapporti del presidente Vazquez con la sua «coalizione politica». Occorre precisare che sin dall’anno 1999 e quindi prima di diventare presidente,  il dr. Tabarez Vazquez aveva più volte annunciato la sua intenzione di porre il veto a un progetto con tali caratteristiche se mai fosse stato approvato. Il suo comportamento non ha rappresentato una sorpresa neppure per chi lo aveva votato. Dopo il veto è stata consultata l’opinione pubblica, constatando che l’appoggio al presidente non solo non era diminuito, ma addirittura aumentato. Oggi, il dottor Vazquez dispone di una maggioranza del 70%, appoggio che nessun presidente ha mai avuto al termine del suo mandato. Né lo possono vantare oggi i nuovi candidati del Frente Amplio, coalizione politica di cui Vazquez continua ad essere il principale riferimento politico.
D’altra parte occorre precisare che il veto è stato posto ad una legge che obbligava a praticare l’aborto anche alle istituzioni cattoliche. A sua volta, per abortire non si esigeva alcuna prova medica circa l’età dell’embrione o del feto. A questi aspetti si aggiungeva tutta una serie di considerazioni filosofiche e altri errori giuridici, che la rendevano un autentico sproposito. Non solo l’aborto veniva ampiamente depenalizzato, ma si consacrava il diritto ad abortire in un contesto giuridico sommamente confuso.
Per il resto, sempre in riferimento all’aborto in Uruguay, occorre chiarire che, secondo la legge attualmente vigente nel paese, l’aborto – in determinate circostanze – risulta essere esente da pena, come nel caso del cosiddetto aborto «terapeutico» – che si esegue per «ragioni di onore» o, anche, quando la madre si trova in condizioni di particolare ristrettezza economica – sempre che, naturalmente risponda ai vari requisiti giudiziari. Sicuramente le fonti a cui si ha avuto accesso non sono state capaci di fornire un’informazione corretta, cosa che crea contrasto con l’altrimenti buona qualità del contenuto del dossier.
Infine, per evitare qualsiasi fraintendimento, desidero chiarire che il sottoscritto non tanto per esser importante, quando per essere ormai vecchio, è stato uno dei fondatori del Fronte ampio, storico con vari libri pubblicati, docente universitario (per trent’anni ho persino insegnato nella facoltà di teologia) e allo stesso tempo amico e ammiratore dei religiosi che tanto lavorano nel paese, in modo particolare con i più poveri ed emarginati.
Vi ringrazio fin d’ora se vorrete pubblicare queste poche righe di chiarimento. Vi saluto cordialmente in Cristo Gesù, con tanti auguri di pace e bene.

Mario Cayota
Ambasciatore dell’Uruguay
presso la Santa sede




Cari missionari

Politicamente
(s)corretto

Cari missionari,
anche se nel complesso ho apprezzato la pagina dedicata al Forum di Belem (M.C. n. 3/09 p. 66), le dichiarazioni della teologa Mary Hunt hanno suscitato in me molte perplessità. Bisogna stare molto attenti a non generalizzare quando si parla di «giustizia per le persone omosessuali»: le frasi pronunciate dalla Hunt, così come sono state riportate nella rubrica «Battitore Libero», somigliano molto agli slogan cari ai leader dei movimenti per i diritti degli omosessuali presenti anche in Italia, a cominciare da quelli che organizzano le giornate del cosiddetto orgoglio omosessuale, più note come gay pride.
Per me si tratta di posizioni che non solo non si conciliano assolutamente con la morale cristiana, ma i toni e modi usati per esprimerle sono di grave ostacolo a un dialogo degno di questo nome.
In un dialogo infatti ci si aspetta che gli interlocutori possano anche rivedere le posizioni di partenza, se non addirittura cambiare idea, mentre i leader dei gay pride la parola cambiamento la interpretano a senso unico, ossia non ammettono che un omosessuale smetta di riconoscersi e di comportarsi come tale e magari opti per l’eterosessualità.
Di ciò si è avuta un’inquietante conferma nello scorso mese di febbraio quando, al Festival di Sanremo, il noto cantante Povia – già vincitore del Festival – ha presentato la canzone «Luca era gay». L’imperfetto indicativo «era», contrapposto al presente indicativo «sta» nel ritornello «Luca era gay, adesso sta con lei», è stato subito liquidato dalla gran maggioranza degli opinionisti (e anchor man o maitre a penser, ognuno scelga l’espressione e lingua che più gli aggrada…) come non politicamente corretto, il presidene di Arcigay Aurelio Mancuso ha addirittura dichiarato che quelle di Povia sono «vaneggianti teorie, per cui si diventa gay a causa di genitori iperprotettivi o assenti, o perché si incontrano anziani pedofili; stupidità e luoghi comuni sostenuti da cantanti stile Povia e da integralisti cattolici…».
È evidente che chi usa epiteti come «stupido», «integralista», «clerico-fascista», «clerical-reazionario», «antiscientifico» (in realtà la situazione descritta nella canzone di Povia trova pieno riscontro nella letteratura medica, oltre che nelle teorie e nelle esperienze sul campo di celebrati psicologi, psicanalisti e psicoterapeuti…) non ha intenzione né di dialogare, né di creare un clima favorevole al superamento di certe forme di discriminazione le quali, a volte, sono patite da gay o presunti tali rispetto agli eterosessuali o ad altri gay diciamo… «eccellenti», big della politica, vip della finanza, star dello spettacolo, dello sport, ecc…), a volte, viceversa, sono patite proprio dai coniugati con figli rispetto ai gay, alle coppie gay e ai cosiddetti «conviventi»…
La Hunt, Mancuso, Grillini & C. hanno mai sentito parlare di magistrati e corti giudicanti che obbligano lo stato a indennizzare con centomila euro il gay che si è visto ritirare la patente da poliziotti «omofobi», mentre la mamma filippina del ragazzino di seconda media maltrattato, deriso, oltraggiato, bollato come «gay» e alla fine indotto al suicidio dai bulletti della sua scuola, non becca un centesimo di risarcimento perché «il fatto non costituisce reato»? Hanno mai sentito parlare di pedofili rilasciati dai giudici proprio perché i loro avvocati difensori sono riusciti a convincerli che quelli che, data la tenera età dei partner, sembravano atti di pedofilia, erano in realtà «normali rapporti omosessuali»? Hanno mai sentito parlare del forte legame che anche il mondo degli omosessuali ha col business del turismo sessuale?
Hanno mai sentito parlare di pederasti (sì, uso il vocabolo «pederasta» perché questo era il vero nome dei pedofili e dell’omosessuale orgoglioso e impenitente…) assassini che, dopo aver abusato, straziato, ucciso e riottenuto la libertà grazie ai soliti giudici politicamente corretti, abusano, straziano e uccidono ancora?
O, meno cruentemente, hanno mai sentito parlare di crediti agevolati da parte delle grandi banche in favore dei gay e di esenzioni dalle tasse sulla casa per chi esprime l’intenzione di metter in piedi una relazione omosessuale stabile?
Grazie per l’attenzione e che il Signore possa risanarci e rigenerarci.
Giovanni De Tigris
Urbino

Purtroppo viviamo in un mondo in cui per affermare i propri diritti si calpestano quelli degli altri. Abbiamo tutti bisogno di risanarci e rigenerarci per rispettare la dignità umana, di ogni persona, senza pregiudizi e senza estremismi, in dialogo per imparare ad accettarci così come siamo, come lo stesso Creatore ci accetta e ci ama.




Cari missionari

Ricordando
padre Bertaina

Carissimi missionari,
voglio esprimervi il mio cordoglio per la scomparsa del vostro confratello padre Giuseppe Bertaina, barbaramente trucidato a Nairobi lo scorso gennaio. Sono sicuro che il Signore lo ricompenserà per tutto il bene che ha fatto nei 30 anni trascorsi in Kenya; nello stesso tempo sono sbigottito al pensiero che in questo paese esistano persone che, anziché provare dei sentimenti di riconoscenza verso chi li ha tanto beneficiati, non trovino di meglio che organizzare simili nefandezze.
Quindi se da una parte spero che il nostro Signore Gesù Cristo tocchi il cuore di questi assassini e li porti sulla strada del ravvedimento, della conversione e della riparazione, per quanto è possibile del male fatto, dall’altra spero che le autorità kenyane vadano fino in fondo nelle indagini e dopo aver fatto piena luce sull’accaduto, infliggano ai colpevoli la giusta punizione. Cordialmente.
Francesco Rondina
Fano (PU)

Uno stato d’animo…
e conversione

Spettabile Direzione,
ho avuto modo di leggere, come faccio spesso, alcuni articoli del numero di aprile e mi sono convinto a scrivere questo messaggio. La ragione: cercare di mantenere un equilibrio nel mio modo di intendere la religione e le missioni.
Come si fa a essere missionario cattolico, critico verso i colonizzatori e poi avallare, per il Mozambico, praticamente quello che hanno fatto gli inglesi colonizzando l’Australia con deportati e prostitute, ovviamente contro la loro volontà (ma i casi della storia anche recente sono purtroppo numerosi), riconoscendo poi che è stato un errore perché, tra l’altro, si è «deportato» propri concittadini senza di che coprirsi o ripararsi e nutrirsi almeno nei primi tempi? Vedi «Pace sì, ma a modo nostro» (M.C. 4/2009, p. 22).
Perché sbilanciarsi tanto nel sottolineare l’ incontro di Belém, opponendolo a quello di Davos (sicuramente non frequentato da aspiranti santi), sottolineando la presenza di 4 capi di stato di cui 3 «populisti», che a quanto sembra non sono poi così diversi da altri capi di stato che operano anche pro domo loro e dei loro partiti. Non è il caso di comprendere le ragioni delle due organizzazioni o del potere che hanno preso i vari personaggi e di chiarire i pregi e i difetti delle loro decisioni, di non buttare nell’ immondizia tutto (vedi articolo «Pace sì»), quanto fatto da Ong, Bm ecc… non siamo tutti degni di conversione?
E poi la politica per un cattolico è il mezzo per cambiare il mondo o il mezzo è prioritariamente la testimonianza e l’azione positiva verso chi ne ha bisogno, sia povero che ricco.
Spero di aver ben rappresentato con poche parole il mio stato d’animo. Grazie per l’attenzione.
Pierangelo Giubasso
Via e-mail

Capiamo il suo stato d’animo, ma non ne afferriamo le ragioni. Nell’articolo citato, padre Couto dice semplicemente che il suo paese, il Mozambico, avrà stabilità e pace solo quando camminerà con le proprie gambe. Sul Forum sociale di Belém (ignorato dai media nostrani) non c’è alcun sbilanciamento: siamo anche noi convinti che «un mondo nuovo» (diverso da quello sostenuto a Davos) «è possibile e necessario». E per realizzarlo (siamo d’accordo con lei, signor Pierangelo), abbiamo tutti bisogno di conversione.

Buonismo
o cattivismo

Spettabile Redazione,
l’articolo di Ugo Pozzoli sul numero di marzo 2009 della vostra rivista M.C. è un preoccupante e chiaro messaggio della malafede buonista e della resa antipatriottica alle sciagure di una immigrazione voluta senza le necessarie regole. Se il termine cattivismo usato da Maroni può ritenersi infelice, non per questo deve essere pretesto per argomentazioni inaccettabili. Le opere di misericordia sono dei principi a cui tendere, ma chi governa deve essere efficiente e adeguato. Le lagne sempre a favore degli stranieri sono vomitevoli e non se ne può più.
Tra le affermazioni dell’articolo si enfatizzano le «risorse» che però pesano notevolmente sui bilanci di assistenza pubblici e volontaristico. Si afferma con palese malafede che la criminalità degli stranieri è pari a quella degli italiani, menzogna! Gli stranieri se sono il 10% della popolazione e producono il 40% della criminalità vuol dire che delinquono 6 volte più degli italiani che sono il 90% della popolazione.
Affermare che leggi diverse ecc. ecc. e rassegnarsi a un fenomeno «che nessuno può arrestare», come voi scrivete, è una vigliaccheria, per fortuna rara, che non ispira chi da italiano si batte per far funzionare al meglio per «tutti» (stranieri compresi) la nostra società.
Sono un vostro lettore da 50 anni, ma ultimamente non mi trovo d’accordo con i vostri orientamenti sociopolitici. Buon lavoro e cordiali saluti. Conto nella pubblicazione.
Giulio geom. Zinni
Bergamo

Prima di tutto ci congratuliamo, signor Zinni, per essere da 50 anni fedele lettore di Missioni Consolata. E speriamo che continui, nonostante la nostra «malafede bonista e antipatriottica». Nell’editoriale citato, come in tutti gli articoli pubblicati sulla nostra rivista, cerchiamo di leggere (e aiutare a leggere) la realtà alla luce del vangelo, schierandoci dalla parte dei poveri e degli oppressi, sull’esempio di Cristo Gesù e non di miopi ideologie politiche.
In fatto di «patriottismo», come cristiani, e ancora più come missionari, riteniamo che «ogni terra è nostra patria e ogni patria è terra straniera» (Lettera a Diogneto 5).
Circa la «malafede» sulla criminalità degli stranieri, la invitiamo a rileggere l’articolo citato: si dice chiaro che agli «immigrati clandestini sono attribuiti i 4/5 (quattro quinti) dei crimini commessi da stranieri presenti sul nostro territorio, mentre c’è quasi parità tra italiani e «stranieri che hanno regolato la loro posizione».

DESTRA E SINISTRA …PIANTATELA!

C ari missionari, la questione delle impronte digitali da prendere ai piccoli rom (cfr. M.C. 2/2009 p. 6) come quella dell’obbligo di denuncia dei clandestini da parte dei medici curanti, come quella dell’indulto, come quella delle «ronde», sta creando all’interno del mondo cattolico l’ennesima spaccatura e questo è un male perché, anche di fronte a questo tipo di problemi, i cattolici dovrebbero compattarsi non dividersi.
Non ce la sentiamo di sposare le tesi della dottoressa Benedetta Rossi di Bologna? D’accordo, ma qualche grossa responsabilità la cultura di «sinistra», della «tolleranza» o «progressista» ce l’ha, e io sono convinto che riconoscere questo sia nell’interesse della stessa sinistra.
A tutte le persone che hanno tuonato e continuano a tuonare contro le decisioni del governo Berlusconi in materia di immigrazione, sicurezza, lotta alla clandestinità e soprattutto lotta alle scarcerazioni facili, vorrei domandare: siete sicuri che sia di sinistra difendere a oltranza i giudici, anche quelli che sono manifestamente compiacenti verso mafia, camorra e n’drangheta, anche quelli che impiegano otto anni a scrivere una sentenza, anche quelli che concedono arresti domiciliari, libertà vigilata, affidamento ai servizi sociali agli stupratori, ai lanciatori di massi dai cavalcavia, ai serial killer, a chi brucia i clochard per «battere la noia», a chi si mette alla guida dopo aver tracannato alcol e droghe a più non posso, a chi non esita a fracassare le ossa alla vecchietta di novant’anni per mettere le mani su 400 euro di pensione?
Vi sentite davvero tanto «progressisti», tanto «aperti», tanto «democratici» quando gridate allo scandalo per le pene contenute inflitte al tabaccaio o al giornielliere che spara dopo essere stato minacciato, ricattato, percosso, rapinato, ridicolizzato per la seconda, quarta, ottava, sedicesima volta da delinquenti incalliti, pluripregiudicati e pluriscarcerati, e tacete, o addirittura cercate di screditare, chi rifiuta di tacere quando un giudice, in nome di una delirante concezione della laicità dello stato, esige la rimozione – altrimenti non ci metterà piede e non lavorerà, pur continuando a percepire il suo stipendio – non crocifisso dalle aule del tribunale?
Vi sentite veramente continuatori della tradizione del Movimento operaio e magari anche interpreti dello spirito del Concilio Vaticano II, quando vi trincerate dietro slogan come «il carcere non serve», «il carcere è inutile, anzi controproducente», «bisogna prevenire e integrare, non reprimere»? E se invece fosse proprio una giusta ed equilibrata azione repressiva ciò che manca per dare credibilità ed efficacia ai programmi di educazione e prevenzione del crimine? E poi, se alcuni luoghi di detenzione sono da tutti riconosciuti come «carceri-modello», perché non dovrebbero diventarlo anche gli altri?

E voi, cari amici di Pdl, della Lega Nord e della Nuova democrazia cristiana, se è vero come è vero che servono nuove carceri, costruitele e fate entrare in funzione quelle già costruite, ma non ancora operative a causa delle solite pastornie burocratiche.
Se ci sono dei giudici che continuano, con ripugnante disinvoltura, a lasciare o rimettere in libertà i più spietati tra i criminali – italiani e stranieri – provvedete alla loro immediata rimozione e fate in modo che a prendere il loro posto siano persone leali, corrette, responsabili che il loro posto se lo sono guadagnato onestamente, senza frodare, senza truffare, senza corrompere, senza ricattare.
Smettete di prendervela con il «disfattismo e l’immobilismo di sinistra» e contro lo «statalismo di stampo comunista», perché dopo gli ultimi responsi delle ue, queste scuse non tengono più. Se ci sono dei problemi all’interno della vostra coalizione, risolveteli, ma piantatela di dare la colpa dell’inefficienza del nostro sistema giudiziario, ai verdi, ai vetero marxisti, ai no global, perché queste forze sono state sfiduciate dall’elettorato, in Parlamento non hanno neppure un rappresentante, quindi non hanno alcuna possibilità di opporsi alle vostre decisioni o di ostacolare i vostri progetti.
Piantatela anche con la storia dei clandestini che devono essere «tutti espulsi», mentre chi viene a lavorare seriamente deve essere accolto a braccia aperte, perché non tutti i clandestini sono criminali e non tutti gli stranieri – come del resto gli italiani – con un regolare contratto di lavoro sono persone brave e oneste; al contrario, le cronache sempre più spesso ci presentano i casi di spacciatori, ladri, teppisti, stupratori, assassini, che nel posto di lavoro avevano sempre dato prova di serietà, competenza ed efficienza…
Vi ringrazio per l’attenzione.
Bartolomeo Ghigri
 Fano (PU)




Cari Missionari

«Inside Tanzania»
dossier… in concorso

Spettabile Redazione,
a Portopalo di Capo Passero (comune all’estremità sud-est della Sicilia) ogni anno viene assegnato il Premio nazionale giornalistico-letterario «più a sud di Tunisi», così denominato dalla posizione geografica di Portopalo, situata al di sotto del parallelo della capitale tunisina…
Tra i premiati delle passate edizioni si trovano Giulio Albanese, Alfio Caruso, Felice Cavallaro, Nino Milazzo, Vincenzo Grienti…
Le categorie sono due: Gioalismo (reportage, sociale, focus sul territorio) e Letture (saggistica, poesia…). Per l’edizione 2009 del Premio un nostro collaboratore ci ha segnalato il dossier «Inside Tanzania», pubblicato nel numero di gennaio 2009 della rivista Missioni Consolata. Entro il 20 agosto verranno comunicati i vincitori. La cerimonia di consegna del premio è in programma a metà settembre…
Segreteria Organizzativa

Caro Direttore,
sono Marta dell’associazione «Una proposta diversa onlus», cui mandate una copia della vostra interessante rivista, davvero ben fatta. Nel numero di gennaio c’è un dossier sulla Tanzania che ci riguarda da vicino, visto che da vari anni intratteniamo un rapporto di fattiva collaborazione con le suore di Ilamba e Iringa, ultimamente con il progetto «Tunafurahi kwenda shuleni» e con l’adozione a distanza di un gruppo di bambini, il «Tumaini». Al fine di fare ulteriore opera di informazione e sensibilizzazione, vi chiediamo di inviarci alcune copie…
Vi ringraziamo di quanto potrete fare. Cordiali saluti.
Marta
Padova

Congratulazioni con l’autrice del dossier e… in bocca al lupo per il concorso di Portopalo!

Un numero… a ruba
 
Cara Redazione,
sono un’abbonata e desidero chiedere se ci sono ancora due copie del numero monografico dedicato ai «Diritti umani» proclamati 60 anni fa. Tale numero l’ho portato a scuola, dove lavoro, ed è sparito; spero l’abbia preso qualcuno interessato all’argomento, apprezzandone la bellissima impostazione. Poichè lo stavo usando con i ragazzi avrei piacere di avee, se è possibile, un’altra copia o due….
Milva Capoia
Collegno (TO)

Siamo felici di sapere che «Diritti e rovesci», ultimo numero speciale della nostra rivista, vada… a ruba. Abbiamo ancora varie copie a disposizione per chi è interessato ad approfondire e far conoscere meglio l’argomento, tanto più che a 60 anni dalla sua Dichiarazione universale, i diritti umani continuano a subire troppi «rovesci».  
 

Senza… malizia

Caro Direttore,
leggendo la vostra rivista, mi fa piacere vedere lo sforzo che state facendo per diminuire la sofferenza  e la povertà e ammiro senz’altro il vostro apostolato, nel quale cercate di dare soluzioni ai problemi del mondo odierno.
Ma nell’edizione del numero di febbraio 2009 della vostra rivista ho avuto un grande dispiacere nel costatare la mancanza di sensibilità per aver messo in mostra le foto dei ragazzini nudi del Mozambico, nelle pagine 12 e 13 del numero sopraccitato.
È un fatto scontato che voi vi prendete cura dei poveri, ma potete aiutare anche senza annientare la dignità di quei ragazzi innocenti. È moralmente inaccettabile. Pensi un po’ se lei fosse uno di quei ragazzini, cosa avrebbe pensato vedendosi nudo così per tutto il mondo? O se loro fossero i suoi parenti quale sarebbe stata la sua reazione a tal proposito?
Appartengo alla chiesa e conosco bene le diverse imprese che la santa madre chiesa sta intraprendendo nei diversi ambiti della vita per la promozione della dignità dell’uomo, come tale non dobbiamo trascinare questa dignità nel fango comunque stiano le cose. Un bambino è una persona e deve essere rispettato anche quando è impoverito sia dalla natura sia dalla malattia; perché egli è «creatio imago Dei».
In tutto mi piacerebbe sentire la sua risposta a questa osservazione che ho fatto. Mi sono coinvolto perché c’è in gioco la dignità della persona.
In attesa della sua risposta. Grazie.
Vitus Mario C.U.
via e-mail

Scrivendo ai primi missionari della Consolata operanti tra gli africani, il nostro beato fondatore, Giuseppe Allamano, diceva: «Fateli prima uomini e poi cristiani». La promozione umana è sempre stata il primo scopo delle nostre attività e la nostra rivista non fa eccezione. Anche quando parliamo di miseria e degrado, cerchiamo di evitare rappresentazioni che possano dare un’immagine negativa dell’Africa, oltre a offendere la sensibilità e dignità umana.
Le immagini di bambini nudi nelle due pagine citate, non le riteniamo affatto offensive: sono state scattate con il consenso degli anziani e descrivono un momento importante della vita di quei ragazzi, come è di fatto l’iniziazione in tutte le culture subsahariane. Per cui non pensiamo che qualcuno di essi si senta offeso nel vedersi ritratto in quel modo.
Inoltre, bisogna tenere presente che, in generale, gli africani non guardano alla propria e altrui nudità con malizia, come invece avviene nella nostra cultura occidentale.

I TERMOVALORIZZATORI …INQUINANO

C ara redazione di Missioni Consolata                                siamo i collaboratori di MC, che curano la rubrica
«Nostra madre terra» per le tematiche che riguardano l’ambiente, e vi scriviamo per manifestare la nostra preoccupazione per l’atteggiamento generalizzato di media e politici nei confronti degli operatori sanitari, che segnalano i pericoli riguardanti la salute pubblica e la difesa dell’ambiente.
Uno degli argomenti frequentemente dibattuti in questi giorni è quello che riguarda il trattamento dei rifiuti; i dibattiti televisivi e giornalistici presentano come unica soluzione l’incenerimento in impianti con recupero energetico, impropriamente definiti «termovalorizzatori», che in realtà non valorizzano alcunché, perché è noto che si risparmia più petrolio riciclando materia di quanto non se ne risparmi con i rifiuti bruciati nei «termovalorizzatori», essendo necessario produrre nuovamente ciò che è stato bruciato.
La pratica dell’incenerimento è inaccettabile dal punto di vista della salute pubblica e della salvaguardia dell’ambiente e, se paragonato a metodi alternativi, non è vantaggioso né economicamente, né socialmente dal punto di vista della creazione di posti di lavoro. Inoltre, la «soluzione» dell’incenerimento si allontana dall’orientamento preso dalla Commissione europea, che considera le alternative all’incenerimento, come convenienti e pertanto prioritarie.

M algrado queste valutazioni, che trovano riscontri scientifici a livello internazionale, la politica e i media italiani perseverano nella presentazione dell’incenerimento come unica soluzione e censurano tutti i messaggi e le prese di posizione degli studiosi, che quasi mai vengono invitati ai dibattiti su questo argomento. Alcuni fatti recenti ci hanno spinti a scrivere a codesta redazione.
Il 12 marzo 2009, su Rai2 abbiamo assistito a una puntata di Annozero, dedicata principalmente alla presentazione della nuova sinistra rappresentata da Matteo Renzi, 35 anni, attuale presidente della provincia di Firenze, scelto come candidato sindaco del capoluogo. Anche se la puntata non era dedicata al problema dei rifiuti, la parola che abbiamo sentito più spesso durante la trasmissione è stata «termovalorizzatore», che è la ormai ben nota macchina, che brucia i rifiuti e causa gravi danni alla salute di chi abita nei paraggi.
Matteo Renzi (che recentemente ha usato toni ingiuriosi e sprezzanti nei confronti di una seria e stimata oncologa, la dottoressa Patrizia Gentilini) ha continuato a raccontare la solita storia dei termovalorizzatori europei che, a suo dire, non hanno mai causato alcun danno. I fatti sono ben altri e sono parecchi gli studi scientifici, che hanno riscontrato aumenti significativi di tumori nelle aree dove sono attivi questi pericolosi impianti di trattamento dei rifiuti.
Un avvocato, durante la suddetta trasmissione, ha cominciato a parlare del parere dei medici, ma il conduttore Santoro ha trovato il modo di cambiare subito discorso, mentre sarebbe stato giusto, a nostro modo di vedere, dedicare maggiore spazio ai contrasti che vedono medici e biologi da una parte e politici dall’altra, aiutati da giornali e televisione. Nell’edizione di Firenze de La Repubblica del 25 febbraio scorso è riportato l’articolo sull’apertura della causa civile per diffamazione, intentato dalla dottoressa Patrizia Gentilini nei confronti di Matteo Renzi.
Nel corso di una precedente trasmissione televisiva su questo tema, durante la quale è avvenuto il fatto che riguarda Renzi e Gentilini, è emerso tutto il livore dei politici, che, pur di difendere l’attuale gestione del problema rifiuti, poco si curano del notevole incremento di malattie, che potrebbero essere correlate con l’inquinamento ambientale: ci preoccupa, in particolare, il drammatico aumento (del 2% annuo, quindi più del 20% in 10 anni!) dei tumori infantili. La Gentilini ha lavorato nel campo dell’oncologia pubblica per circa 30 anni, a stretto contatto con i malati e i loro familiari, dimostrando una professionalità e una umanità indiscutibili. In ottemperanza all’art. 5 del Codice deontologico dell’Ordine dei medici, cui appartiene e di cui è referente per l’ambiente per l’Ordine di Forlì-Cesena, è da sempre impegnata per la Prevenzione primaria, che trova nella difesa dell’ambiente il punto cruciale della tutela della salute pubblica. Come oncologa, ha rivolto particolare attenzione all’incremento della patologia neoplastica, anche in ragione del fatto che la letteratura specialistica internazionale ha documentato negli ultimi anni un preoccupante incremento di quasi tutte le neoplasie, soprattutto nelle giovani età e nel sesso femminile.
Esistono dati allarmanti che riguardano non solo l’Italia, ma anche la Francia e l’Inghilterra, che dimostrano l’alta incidenza tumorale nelle aree intensamente industrializzate e in particolare anche in quelle prossime ad inceneritori. Su problemi tanto delicati, che riguardano la salute pubblica e l’avvenire di tutti i cittadini e dei nostri figli, si dovrebbe dimostrare sempre e dovunque la stessa attenzione da parte di tutti.

P ur riconoscendo che si possano avere pareri differenti sulle soluzioni da adottare, sarebbe opportuno che chiunque riveste ruoli istituzionali, prima di affrontare simili argomenti, si documentasse e imparasse a discuterne, specie in sedi pubbliche, con educazione, moderazione e senso di responsabilità, senza atteggiamenti arroganti che sembrano voler coprire gravi carenze culturali.
Vogliamo invitare tutte le persone per bene, la classe politica e i giornalisti a ricordare le accorate parole del compianto professor Renzo Tomatis, uno dei maggiori oncologi e ricercatori europei, direttore per oltre un decennio dell’agenzia internazionale per la ricerca sul cancro di Lione (Iarc) e autore di numerosi saggi, il quale, a proposito della prassi irresponsabile di bruciare i rifiuti, ha dichiarato pubblicamente: «Le generazioni future non ce lo perdoneranno».
Tramite la redazione di MC rivolgiamo un invito a riflettere su questo preoccupante problema non solo ai suoi lettori, ma soprattutto ai politici e agli amministratori del nostro territorio, sempre più devastato da uno sviluppo vorace e inquinante. Crediamo utile porgere questo appello soprattutto a chi ricopre o si candida al ruolo di primo cittadino di una città, ricordandogli che tra i doveri specifici di un sindaco dovrebbe esserci quello di tutelare la salute dei propri concittadini, oltre a quello di ascoltarli sempre con attenzione e rispetto.
Ringraziamo e porgiamo distinti saluti.
Roberto Topino
Rosanna Novara




Cari missionari

A proposito di…«Nozze di Cana»

Caro Direttore,
sono un anziano sacerdote salesiano, faccio parte della Elledici, ho pubblicato e pubblico libri e articoli. Leggo con gioia ogni mese la vostra rivista Missioni Consolata e mi congratulo con voi. Ma ho una piccola osservazione da fare, e spero la accetti con carità.
L’articolo di Paolo Farinella sulle nozze di Cana mi ha lasciato perplesso. Egli lo include tra i midràsh, che definisce, nell’ultima riga del box, «racconti storici o leggendari edificanti…» (M.C. febbraio 2009, p.32).
È noto a tutti gli studiosi di bibbia che «Cana» e tutti i miracoli (segni) del vangelo di Giovanni sono considerati come allegorici da parte di illustri studiosi. Ma non è l’unica né la più sicura interpretazione. Benedetto xvi, in un recente intervento, ha detto che Giovanni è un testimone oculare, che riferisce fedelmente «ciò che ha visto». L’interpretazione di Farinella turberà chi sente e crede il papa.
Io credo sia opportuno (come facciamo nella nostra rivista Il mondo della bibbia) dare anche le interpretazioni più avanzate, ma darle come «possibili», non come uniche e normali, e affiancarle ad altre interpretazioni più in linea con la tradizione e con studi non meno seri di quelli che si prendono in considerazione per primi.
Se rilegge l’articolo del Farinella vedrà che c’è non solo un contenuto, ma anche un tono che turba un po’ chi non condivide le sue posizioni. E questo Farinella lo fa anche in altri articoli già pubblicati, a mio modestissimo parere.
Le domando scusa, e desidero tornare a esprimerle tutta la mia riconoscenza per il lavoro che fate per il Regno di Dio. Il Signore ci benedica.
Don Teresio Bosco
Torino

Ringrazio don Teresio della sua lettera che mi permette di chiarire. Ha ragione, io do spesso la sensazione di «sicurezza» nelle cose che scrivo e non mi attardo a «variazioni sul tema»; e il motivo sta nel fatto che sono sicuro delle cose che scrivo.
Il fatto che il papa nel suo libro Gesù di Nazaret identifica l’evangelista con l’apostolo (ne parla alle pp. 257-279, particolarmente 261) è la sua convinzione, abbandonata tra l’altro dalla maggior parte degli esegeti. Il papa stesso nel medesimo libro (p. 20) dice che tutti lo possono criticare perché il suo libro non ha valore magisteriale, ma è frutto della sua ricerca di studioso e si affida alla critica come qualsiasi altro studioso. Personalmente sono contrario al fatto che i papi scrivano libri, per evitare proprio l’intervento di don Teresio che attribuisce alle affermazioni del papa un valore «probativo» (magisteriale) che non hanno, anche su stessa richiesta del pontefice (anche il vecchio codice del 1917 lo proibiva).
Per quanto riguarda il fatto di dare come probabile affermazioni di studio e dare conto di tutte le posizioni, voglio solo dire che io scrivo su una rivista a larga diffusione e non strettamente scientifica. Se facessi una lezione di esegesi in un’aula di università, tranquillizzo don Teresio che chiederei conto agli studenti di tutte le posizioni ed esigerei un’analisi critica di ciascuna, con la scelta più vicina alla realtà (attraverso metodi che qui è lungo elencare).
Posso garantire che offro ai lettori il meglio degli studi: dietro ogni articolo c’è una ricerca che ormai data da oltre 30 anni. Sul midràsh mi riservo di intervenire a tempo e luogo e quindi chiedo un po’ di pazienza.
Paolo Farinella, prete
Genova

Ricordando padre Bertaina

Egregio Direttore,
volevo ricordare un grande missionario della Consolata che ho conosciuto nell’agosto del 2007, durante il viaggio in Kenya guidato da padre De Col.
Da sempre amo l’Africa e ancor più da quando, poco più che ventenne, ho cominciato a visitare i paesi di questo continente dai mille volti e dai mille contrasti, spesso meravigliosi, a volte angoscianti e tragici. Le mie visite non sono mai state superficiali o semplicemente turistiche, ma ho sempre privilegiato i viaggi che mi consentivano di approfondire tutti gli aspetti della vita di un paese, da quello paesaggistico, al culturale, al sociale, al religioso, non dimenticando il rapporto con le popolazioni locali che è, a mio avviso, una delle basi fondamentali per conoscere e capire un luogo.
Da nord a sud sono ormai più di 20 i paesi che ho visitato assieme a mia moglie Marika, anche lei innamorata dell’Africa, ma uno dei viaggi che più mi ha appassionato, coinvolto ed emozionato, è stato quello dell’estate 2007 in Kenya, organizzato dai missionari della Consolata di Torino. È stata una immersione totale nella realtà di questo grande paese, del quale tanto si è parlato e si parla per i problemi socio-politici, etnici ed economici che lo affliggono anche in tempi recentissimi.
Proprio a Nairobi, visitando una delle tante meravigliose opere realizzate dai missionari, ho conosciuto padre Giuseppe Bertaina, rettore del seminario e istituto filosofico nella capitale keniota. Ci spiegò con passione la sua attività di missionario in questo paese da oltre 57 anni e le realizzazioni in favore dei bambini, delle madri abbandonate, delle famiglie indigenti, degli ammalati di Aids e della convivenza tra le molte etnie.
Parlando con lui avevo avuto la certezza di una persona straordinaria e saggia con una grande passione condivisa per l’Africa, ma nello stesso tempo semplice e schiva; aveva 81 anni. E poche settimane fa la notizia del suo assassinio nella sede dell’amato istituto, mi ha colpito e addolorato. Quando si conosce e si apprezza una persona di questa levatura, non si può accettare che la sua esistenza venga cancellata da tanta inutile barbarie.
Certo, la perdita è grande per le missioni in Kenya, anche perché aveva detto, incontrando il nostro gruppo, che questi popoli non hanno bisogno di armi ma della «penna», cioè istruzione e cultura, e nello stesso tempo della religione; affermava infatti che non basta quella «tradizionale – naturale»; e questo è proprio quanto lui cercava di dare, e io alcuni risultati li ho visti, anche se, purtroppo, gli ultimi tragici eventi del 2007 e 2008 fanno pensare che ancora molta strada deve essere percorsa.
Addio padre Giuseppe, ti ricorderò assieme alla tua Africa.
Giancarlo De Blasio
via e-mail

Ringraziamo il signor De Blasio e i numerosi lettori che nei giorni passati ci hanno fatto pervenire, per posta e per telefono, i loro sentimenti di solidarietà, stima e ammirazione per il nostro carissimo confratello, padre Giuseppe Bertaina, scomparso così tragicamente. È certamente una grande perdita per il nostro Istituto e per il Kenya; tuttavia la fede ci assicura che dal cielo egli continua ad accompagnare la crescita del seme da lui gettato nel campo del Signore. E siamo anche certi che non mancherà di benedire quanti continuano a sostenere la sua opera.




Cari missionari

Altri «chiamati
all’ora 11a»

Gentile Direttore,
certamente si ricorderà di noi, per avere riportato nella rivista, nel numero di settembre 2004, la nostra esperienza in Rwanda con un titolo indovinatissimo: «Chiamati all’ora 11a».
Siamo ritornati un’altra volta in Rwanda e ora la missione per coppie anziane è stata considerata, dalle Pontificie opere missionarie, come «intuizione profetica».
Recentemente due coppie di Torino si sono impegnate ad andare in Rwanda nel 2009 per continuare l’aiuto nella pastorale familiare nella diocesi di Byumba. Le due coppie che stanno per partire hanno una solida base spirituale (sono delle Equipes Notre Dame) ma mancano di esperienza umana per una missione in Africa.
Le scriviamo quindi per chiederle se potreste, dal momento che sono a Torino, dare loro qualche indicazione circa la realtà africana e come rapportarsi con le persone… Se la cosa è possibile vi saremmo molto grati. Dopo tutto anche la vostra relazione del 2004 ha aiutato a far capire che il cristiano non può andare in pensione. Per questo la ringraziamo fin d’ora.
Laura e Giovanni Paracchini
Milano

Abbiamo provveduto con piacere alla richiesta e una delle coppie è partita per il Rwanda nel mese di febbraio. Siamo felici di aver contribuito a dimostrare che l’essere cristiano non va mai in pensione e che la missione… ringiovanisce.

Pallottole invece di… medicine?

Spettabile Redazione,
ho letto e trovato molto interessante l’articolo a pag. 24 su Missioni Consolata 10/11 anno 2008: «Si fa presto a dire terrorista». Il professor Angelo D’Orsi definisce l’11 settembre come «punto più alto raggiunto dal moderno terrorismo».
Sono d’accordo, ma quale terrorismo? Siamo certi che sia andata come ci raccontano? Troppe discrepanze tecniche ci inducono a maturare seri dubbi sulla verità dell’11 settembre. Cosa vi è dietro veramente? Forse lo stesso «incidente» simulato e usato per iniziare la guerra del Vietnam?
Da qualche anno opero un paio di mesi l’anno come volontario autonomo in un paio di villaggi di profughi clandestini birmani in territorio Thai (provincia di Mae Hong Son) e conosco bene tutti i risvolti di tale situazione (cliccando il mio nome su internet e yahoo-immagini troverete articoli e foto).
Mi sto convincendo sempre di più che i fondi che ora impieghiamo come assistenza sanitaria e per un paio di scuole, forse sarebbero più efficaci se spesi per finanziare i partigiani karen che combattono la dittatura militare birmana, che li sta condannando a un lento genocidio. In sostanza, comperare pallottole e non medicinali.
So che questo non è cristiano, ma lo è infinitamente meno quello che fanno i generali birmani.
Andrea Panataro
Sordevolo (BI)

La provocazione del sig. Panataro esprime con chiarezza l’indignazione che egli prova di fronte alle feroci repressioni delle legittime aspirazioni dei karen e delle altre popolazioni birmane; anche noi condividiamo l’indignazione, ma non la proposta, non solo perché non cristiana, ma anche perché sarebbe un rimedio peggiore del male. D’altronde, sono convinto che anche il signor Andrea non crede a tale proposta, ma continua a distribuire medicine, riso e altri aiuti essenziali.
 

Bombe a grappolo
ordigni di Satana

Cari missionari,
se Barack Obama è davvero così diverso dai suoi predecessori, lo dimostri firmando i trattati inteazionali contro le mine, le bombe a grappolo e gli altri ordigni ad azione indiscriminata.
Non ripeta anche lui il rivoltante, odioso ritornello: «Le mine sono essenziali per la sicurezza dei militari americani impegnati in missioni all’estero». Non cada anche lui nell’errore dei Bush, di Reagan dello stesso Clinton, e riconosca che è vero esattamente il contrario, ossia, questi infeali aggeggi, oltre a seminare il terrore tra i civili, a rovinare per sempre la vita a tanti bambini innocenti, a impedire l’agricoltura, a bloccare lo sviluppo di interi paesi, sono stati – e continuano anche oggi a essere – causa di mutilazione e di morte per migliaia di marines…
Mine e bombe a grappolo, o cluster bomb che dir si voglia, sono armi da terroristi, non da soldati leali e coraggiosi che vogliono lottare efficacemente contro il terrorismo per il ripristino della pace, della giustizia, dell’autentica legalità.
Se Washington tiene davvero ad avere un ruolo-guida nella lotta contro il male e contro i vigliacchi, dica «no» alle armi dei vigliacchi, dica finalmente «no» agli ordigni di Satana, perché questo sono le mine e le cluster, nient’altro che questo…
Cordiali saluti.
Francesco Rondina
Fano  
Speriamo che il presidente Obama metta al bando non solo le mine anti-uomo e le cluster bomb, ma ogni tipo di armi, poiché tutti gli strumenti di morte sono diabolici. Il suo discorso inaugurale lascia ben sperare, se d’ora in poi le risorse sprecate in armamenti e guerre per il petrolio saranno usate per «imbrigliare l’energia del sole e dei venti e della terra per alimentare le automobili e fare funzionare le industrie». Ha detto di aver «scelto la speranza invece della paura» e dalla folla si sono levate forti grida di «Amen!». Lo ripetiamo anche noi, sapendo quale forza rivoluzionaria contiene questa parola in bocca a Dio e agli uomini di buona volontà.

Bando al sigaro … di Fidel

«Cuba non è il paradiso ma neppure l’inferno» scrive Paolo Moiola nell’ultimo numero monografico di M.C. dedicato ai diritti. Poi però, riporta la valutazione del WWF che riconosce Cuba come «il solo paese del mondo a soddisfare i criteri dello sviluppo sostenibile» (cfr. MC 10-11/08, p. 84). Verrebbe quindi voglia di dire che, almeno per quel che riguarda il diritto a un ambiente sano e pulito, il rapporto tra risorse naturali consumate e risorse naturali rigenerate, il rapporto tra livello di benessere attuale e prospettive di benessere per le future generazioni, Cuba sia avviata verso il paradiso, non verso l’inferno.
Spero, di cuore, che il WWF abbia ragione, ma qualche dubbio ce l’ho. Il più importante riguarda lo stato delle foreste cubane: se si può prestar fede all’Unione internazionale per la conservazione della natura (I.U.C.N.), «nel 1812 il 90% del territorio cubano era ricoperto dalla foresta; nel 1959 la percentuale era scesa al 14%. La situazione rimase invariata nel corso di tutti gli anni Ottanta in quanto la maggior parte delle foreste rimaste si trovavano nelle montagne. Un tempo, probabilmente, la foresta pluviale ricopriva la parte meridionale dell’isola principale, ma oggi tutto quel che resta sono due appezzamenti di foresta sui pendii e le vette della Sierra Maestra e della Sierra de Imias. Nella Sierra del Escambray sopravvivono ancora dei frammenti di foresta montana, troppo piccoli per comparire sulle carte».

Non sarà male ricordare che Cuba è stata disboscata perché gli alberi erano un ostacolo alle monocolture agrarie, ovvero tabacco e canna da zucchero e che, se è vero che la frittata era già fatta prima della vittoria di Fidel Castro, è altrettanto vero che i comunisti cubani poco o nulla hanno fatto per ridimensionare le piantagioni di tabacco e canna e far riconquistare alle foreste almeno una parte degli spazi ingiustamente perduti.
Al contrario sigari, sigarette e pipe in bocca a Fidel, al Che e agli altri «eroi della rivoluzione», continuano a recitare un ruolo importante nella mitologia comunista, e – la cosa è troppo macroscopica per essere taciuta – alimentano un business globale perché, quando si tratta di far soldi con i diari, i quadei, le agende, le bandiere e magliette recanti l’immagine dei capi rivoluzionari impegnatissimi a fumare, anche i capitalisti più reazionari guardano le cose con un’altra lente.
Non condanno nessuno, ma il WWF e le altre grandi associazioni ecologiste non possono astenersi dal prendere una posizione molto chiara contro una piaga come quella del tabagismo, che oltre a causare tanti guai alla salute (ogni anno oltre 5,5 milioni di persone nel mondo perdono la vita per malattie provocate dal fumo, attivo e passivo, in Italia siamo tra le 80-90 mila) infligge gravissime perdite al patrimonio naturalistico di un gran numero di paesi.

Quindi se da una parte prendo atto degli sforzi fatti in questi ultimi anni da L’Avana contro il vizio del fumo e mi auguro con Moiola e Galeano, che Cuba somigli sempre più al paradiso e sempre meno all’inferno, dall’altra vorrei invitare a non sottovalutare i risvolti che la battaglia antifumo ha nella difesa delle foreste e della biodiversità. Perché se a Cuba le piantagioni di tabacco hanno provocato in passato l’estinzione totale di non poche specie vegetali e animali, oggi in Asia, Africa e America Latina sono corresponsabili della scomparsa delle foreste naturali, oltre che dello sfacelo dell’economia, dell’indebolimento del tessuto sociale, della perdita di tanti diritti e tante prospettive per il futuro.

Domenico di Roberto
Ancona




Cari missionari

Missionario troppo… nascosto

Cari missionari,
sono un vostro lettore e ricevo da diversi anni la vostra rivista e mi congratulo con voi per gli ottimi servizi, le rubriche ecc. Ma non vi scrivo per congratularmi con voi, perché non ne avete bisogno.
Nel 1997, il fratello di padre Giuseppe Richetti (morto in Kenya nel 1992 e sepolto a Nazareth, Nairobi) mi accompagnò, insieme ad altre persone, presso la vostra missione di Rumuruti, in Kenya, dove conobbi padre Mino Vaccari, che da alcuni anni aveva iniziato la costruzione di una chiesa ed altre opere; durante quel viaggio è nata l’idea di costruire un asilo, una scuola, il pozzo, le case per gli insegnanti ecc.
Con l’aiuto del comune di Fiorano Modenese e di tante altre brave persone del nostro comprensorio (Spezzano, Maranello ecc.) sono stati raccolti i fondi necessari per le costruzioni e anche per innumerevoli adozioni a distanza e ho visto, anno per anno (da allora sono andato a Rumuruti per 5 volte), che le opere sono state realizzate ed anche un numero considerevole di bambini sono stati aiutati.
Noi abbiamo dato i fondi e gli amici di Olgiate Molgora (Lecco) hanno contribuito con la mano d’opera e altri aiuti materiali, ma chi ha cornordinato tutto questo è stato padre Vaccari con i suoi collaboratori.
Anche se questo missionario non gradisce riconoscimenti o pubblicità, mi sembra doveroso ricordarlo nella vostra rivista per tutti i meriti che ha, magari con un piccolo articolo e qualche foto.
Non vi sto ad elencare tutti i pregi di questa persona perché certamente li conoscete meglio di me, ma sarebbe bello per tutte le persone della zona che ricevono la vostra rivista, leggere qualcosa sulla missione di Rumuruti e fare vedere l’articolo ad amici per convincerli ad aderire a nuove adozioni o a donazioni pro Rumuruti.
Non voglio certo dare consigli su come impostare il giornale, perché certamente avrete da far conoscere fatti e avvenimenti molto più importanti, ma, ripeto, sarebbe bello leggere qualcosa sulla missione di Rumuruti. Mi è gradito l’incontro per porgere a voi, ai vostri collaboratori e a tutti i padri della Consolata i miei più sentiti auguri di Buon Natale e felice e prospero anno nuovo.
Enrico Bigi
Formigine (MO)

Grazie, signor Bigi, per questa testimonianza sul nostro confratello padre Mino Vaccari e sulla sua attività apostolica a Rumuruti. Di Rumuruti abbiamo parlato in un articolo pubblicato sul numero di luglio-agosto scorso: il missionario è appena menzionato; siamo d’accordo che meriterebbe molto di più; che qualcuno raccontasse più a lungo la sua vita missionaria; ma di padre Vaccari, purtroppo, non abbiamo neppure una foto nel nostro archivio.

Siamo tutti  
sconcertati

Egregio Direttore,
ho letto con notevole sconcerto l’articolo «ai lettori» sulla rivista Missioni Consolata del mese di settembre u.s., che avalla il parere di Famiglia Cristiana riguardo alla catalogazione dei bambini rom. Bravo!
Si vede che all’estensore dell’articolo va bene che siano mandati a pulire i vetri ai semafori, in mezzo ai pericoli del traffico (e non solo…), a rubare nelle case per l’impossibilità della minore età. E a scippare per le strade! Che non vadano a scuola e che vengano disconosciuti dai loro cari genitori quando incappano nelle forze dell’ordine: evidentemente questi esemplari sistemi educativi li preparavano a un «ottimo» avvenire di delinquenza in cui pare li veda bene un certo peloso buonismo di marca PD, che purtroppo sta inquinando parte del mondo cattolico e certa sua stampa. Se le nostre riviste la vedono così, tanto vale che ci abboniamo al Manifesto o all’Unità che, almeno per le loro balzane idee, non vanno a scomodare la religione.
Far «prevalere la compassione sulla legge»? Ma il medico pietoso fa la piaga cancrenosa e, da modestissima pecorella del gregge, mi pare che nei vangeli si propongano chiaramente la compassione, l’amore del prossimo e l’educazione affettuosa, ma severa.
Il suddetto buonismo propugna per tanto l’integrazione, ma come si può fare senza l’educazione e la scuola? Con l’identificazione dei bambini, i genitori verranno finalmente costretti a riconoscere le loro responsabilità e, debitamente supportati, ad indirizzare meglio la vita dei loro figli.
Inoltre, la via indicata da Gesù Cristo per la carità e l’amore fra i popoli, non mostra alcun bisogno di affratellarsi con gli atei, eredi di Marx, Stalin e compagnia (a meno che non lo si faccia per sadismo o per occupare uno scanno in parlamento…) per fare del bene. Consideriamo poi l’inscindibilità tra diritti e doveri a cui tutti si devono attenere, immigrati o europei che siano.
Date a Cesare… Non so poi dove sia il «mondo ecclesiale rassegnato e atrofizzato dalla paura», in quanto bastano le esortazioni di Sua Santità e le attività svolte proprio dal mondo ecclesiale, che non è certo asserragliato in una torre ebuea di paura e isolamento, ma che anche non raramente, nel seguire la parola di Cristo, egisce per i fratelli bisognosi anche a rischio della propria vita. Qui non è il caso di stracciarsi le vesti invocando la libertà di stampa ma non si deve travisare la realtà insolentendo l’operato della chiesa e dei suoi ministri.
Distintamente.
Benedetta dott.sa Rossi
Bologna

Siamo anche noi sconcertati per questa reazione all’editoriale del settembre 2008. Non ci va affatto bene che i bambini rom non vadano a scuola e che siano spesso sfruttati in tante maniere. Ma non crediamo che prendendo le loro impronte digitali si risolva il problema; anzi, crediamo che tale schedatura sia una forma di discriminazione rispetto a tutti gli altri bambini d’Italia e del mondo. E in questo concordiamo solidali con Famiglia Cristiana.
La difesa degli ultimi, degli emarginati, degli sfruttati… non è «buonismo», ma è «la via indicata da Cristo»; forse anche Lui rimane sconcertato nel constatare che tale via è più battuta da certi «eredi di Marx…» che da tanti «atei devoti» che usano la religione per i propri interessi.

Errata corrige

Caro Direttore,
ho visto l’articolo sul femminicidio in Messico, in effetti è venuto bene. Unica piccola osservazione: quando si parla del film Bordertown, ispiratosi al femminicidio, è stato sostituito il nome di Antonio Banderas (come avevo scritto io) con Martin Sheen… Ma Banderas era giusto, soprattutto perché dico che il giornalista da lui impersonato muore, non Sheen che fa il direttore del giornale. È veramente una pignoleria, ma mi sentivo di scrivertelo per chiarezza.
Daniele Biella
Milano

È vero. Nella storia narrata in Bordertown, a morire per la verità non è l’editore del Chicago Sentinel, impersonato da Martin Sheen, ma il capo-redazione del giornale locale El Sol de Juarez, impersonato da Antonio Banderas. Chi ha corretto l’articolo è stato tratto in inganno dalla locandina, in cui è messo in evidenza l’attore Sheen, invece di Banderas. Ce ne scusiamo con l’autore dell’articolo e con i nostri lettori. 

Collaboratore premiato

I l Centro Santa Maria alla Rotonda della Fondazione don Gnocchi di Inverigo (Como) ha organizzato il Concorso letterario «Scrivere d’altro», seconda edizione, sulle tematiche relative alla figura e all’opera di don Carlo Gnocchi nel 51° anniversario della morte.
Il Concorso era riservato a quanti, giornalisti, operatori culturali, o semplici estimatori, abbiano inteso richiamare la figura e l’opera del compianto sacerdote venerabile servo di Dio don Carlo Gnocchi. Sono pervenuti alla segreteria del Concorso 52 elaborati tra professionisti e dilettanti. La giuria era formata da 10 membri provenienti dalle istituzioni civili e religiose, dal giornalismo, dall’imprenditoria, e ha proceduto in due moduli separati con votazione a maggioranza alla designazione dei vincitori delle due sezioni: la 1a sezione riservata a giornalisti, pubblicisti e quanti praticano la comunicazione come attività professionale; la 2a sezione è invece stata riservata solo a scrittori dilettanti.
Il vincitore della 1a sezione è risultato Eesto Bodini con l’articolo «Il dolore degli innocenti», già pubblicato su Missioni Consolata nel dicembre 2006 – Torino. La giuria ha attribuito il premio con la motivazione che recita testualmente: «L’articolo illustra con esemplare completezza il progetto di ricostruzione umana di don Carlo Gnocchi. È un ottimo contributo alla conoscenza della sua figura, elaborato in forma coesa e convincente».

P ersonalmente, come segretario del Concorso letterario e come operatore della Fondazione don Gnocchi, desidero esprimere il mio apprezzamento a Eesto Bodini per la rigorosità scientifica con la quale ha esposto il profilo della figura di don Carlo, sotto tutte le sfaccettature che hanno accompagnato ed esaltato le sue azioni verso i più piccoli e i più bisognosi, alla ricerca di quel riscatto dalle brutalità della guerra vissute nella campagna di Russia e con l’obiettivo di ricostruire la dignità della persona.
Non voglio dilungarmi nel parlare di Eesto Bodini come comunicatore sociale nel campo della medicina, di cui altri possono parlare diffusamente per conoscenza più diretta, desidero invece sottolineare l’aspetto più profondo e determinante sulla sua attività giornalistica, centrato proprio dal suo attaccamento alla figura di don Gnocchi.
Le vicende della sua infanzia lo hanno forgiato ad affrontare gli stessi temi della sofferenza e del suo senso nella vita quotidiana degli uomini. Don Carlo ha dato una risposta di fede che animava il fuoco delle sue iniziative di carità, per noi, e sicuramente per Eesto, il dolore e il suo significato, tema centrale della vita e dell’opera educativa di don Carlo, hanno segnato e accompagnato le vicende personali e professionali del vivere quotidiano.
Tutto questo per me traspare e si evince dai numerosi articoli e interventi di Eesto Bodini, tesi alla diffusione dei valori che la figura di don Carlo Gnocchi ha lasciato in eredità a tutti.
Silvio Colagrande
(direttore Fond. don Carlo Gnocchi di Inverigo, CO)

Tutta la redazione di Missioni Consolata si felicita con il signor Eesto Bodini e lo ringrazia per la sua preziosa e apprezzata collaborazione.




Cari missionari

Diritti di tutti e per tutti…

Egregio Direttore,
ho letto la dichiarazione dei diritti umani. Ritengo che a detta dichiarazione manchi qualcosa, una specie di principio, come filo conduttore di tutto quello che è possibile enunciare sui diritti umani. Ad esempio: «Ogni individuo nasce come titolare di tutti i diritti di questo mondo, ma ha pure il sacrosanto dovere di acquisire la capacità a esercitare un qualsiasi diritto ed esercitarli anche nel pieno rispetto dei diritti di ogni altro individuo».
Il discorso sarebbe alquanto lungo, ma mi fermo a questo piccolo principio. Cosa ne dite ?
Lucio Di Martino
Aosta

La Dichiarazione universale dei diritti umani ha sempre bisogno di essere completata con nuovi principi e proposte, ma soprattutto di essere implementata da tutti e per tutti gli esseri umani.

«Monti sacri» e alpinismo estremo

Cari missionari,
dopo un’estate funestata da una sequenza tragica di incidenti in alta montagna (Himalaya, M. Bianco…) c’era proprio bisogno di un articolo come «Monti sacri» (M.C. 9/2008 pag. 10-14).
C’è bisogno che qualcuno ci ricordi che le montagne, tutte le montagne, sono opera di Dio, create per unire e riappacificare, non per dividere o esasperare rivalità, tensioni, conflitti, guerre.
È ora di finirla con certa letteratura, che si ostina a parlare di «Montagne del diavolo», con l’alpinismo estremo, dove vince chi arriva prima o più in alto, con maggior frequenza o consumando la minor quantità di ossigeno delle bombole, sfidando le condizioni atmosferiche più avverse e l’anagrafe.
A questo alpinismo, che mi rifiuto di considerare come attività sportiva gradita a Dio e conforme al vangelo, preferisco di gran lunga l’alpinismo non competitivo, dove contano poco o nulla arrivare primi, il cronometro, il termometro e l’altimetro, mentre contano molto arrivare insieme, arrivare tutti e in buone condizioni di salute; arrivare senza aver deturpato l’ambiente montano con escrementi, plastica, scatolame e rifiuti vari.
Alle scalate dell’Everest, del K2 e altri «ottomila» che tanto fan parlare (e litigare…) scalatori, commentatori, scienziati, sponsor e governi nazionali, preferisco le iniziative di alpinismo sostenibile, come quelle intraprese da Carlo Alberto Pinelli, con la sua Mountain Wildeess in Afghanistan, martoriato da decenni di guerra.
Con lo slogan «dal kalashnikov alla picozza», Pinelli e i suoi amici, italiani e afghani, stanno offrendo un’opportunità di riscatto a giovani e meno giovani, indicando una via d’uscita a chi fino a ieri non vedeva altra possibilità di affermazione al di fuori delle armi e dell’oppio; e stanno dando anche una lezione di stile a chi, sclerotizzato nell’adorazione degli «ottomila», sembra incapace di accorgersi di ciò che accade un po’ più giù…
Apriamo occhi e orecchie e ascoltiamo i richiami di naturalisti e alpinisti poco famosi, ma che con tanta umiltà e pazienza stanno costruendo una speranza per le nuove generazioni e rimediando ai danni pedagogici ed ecologici fatti dai loro già celebrati colleghi.
Luciano Montenigri
Fano

«Monti sacri» settimane bianche

Cari missionari,
spero vivamente che l’articolo di G. Casiraghi sul significato religioso della montagna (M.C. 9/2008 pag. 10-14) arrivi in tante scuole e venga letto da docenti, alunni e genitori.
Sappiamo tutti che nelle scuole, specie alle superiori, montagna è uguale a settimana bianca: tanti la bramano, la raccomandano, la esaltano; ma sono tanti anche quelli che invece la boicottano… Questi partono dal principio che nella scuola non deve esserci alcuna discriminazione, mentre la settimana bianca le discriminazioni le crea, perché è un lusso che molti non possono permettersi: più di 500 euro per 7 giorni, senza contare il costo degli sci, vestiario ecc… Per cui la settimana bianca non è certo fattore di unione tra gli alunni, tra i genitori, gli stessi docenti.
Secondo me, però, ci sono altri due motivi per dire «no» alle settimane bianche, o almeno rivedee la modalità di approccio.
Il primo riguarda l’impatto ambientale. Negli ultimi anni turismo sulla neve e sport invernali sono aumentati in maniera esponenziale, diventando un fenomeno di massa. Da tempo i naturalisti ammoniscono che le montagne non sono in grado di reggere l’impatto di tale invasione: contrariamente a ciò che molti pensano, quelli montani sono ecosistemi assai fragili; per esempio, riflettiamo mai sul fatto che rifiuti e immondizie abbandonate a 2-3-6 mila metri di altitudine hanno dei tempi di decomposizione e riciclo incomparabilmente più lunghi di quelli rilevabili in pianura?
Il secondo motivo riguarda l’incolumità personale, sempre più a rischio su certe piste. Tutti vogliono cimentarsi nelle discese libere, fare snowboard, andare in motoslitta, alla ricerca di emozioni sempre più forti, col risultato che ogni anno si contano decine di morti e migliaia di incidenti e infortuni che pregiudicano la possibilità di riprendere una vita normale.
In Svizzera – dove nel 2007 ci sono stati ben 70 mila incidenti e nel solo mese di dicembre le squadre di soccorso con elicotteri hanno compiuto 300 missioni, con un costo di 150 milioni di euro – è stato introdotto lo skivelox. In Italia, dall’1-1-05, c’è l’obbligo del casco per gli under 14 (pena la multa da 30 a 150 euro) e di strumenti elettronici per i fuoripista.
Chiaramente però questi sono palliativi o poco più: la cosa più importante è educare le persone, in particolare i giovani, al rispetto di se stessi, degli altri, della natura. Voglio dare un consiglio alle autorità scolastiche, a cominciare dal ministro dell’Istruzione: prima di organizzare altre settimane bianche, le scuole invitino i volontari di Mountain Wildeess, si facciano dire da loro i rischi che il pianeta corre per colpa dell’accanimento sciistico, sia invernale che estivo.
Si facciano anche spiegare i motivi per i quali, negli ultimi 150 anni le nostre «madri delle acque» (così Mountain Wildeess chiama i ghiacciai) hanno visto la loro superficie ridursi del 33% e il loro volume diminuire di quasi il 50%, «trafitte da tralicci metallici, costellate di grandi rifugi-alberghi, solcate da cavi metallici e mezzi battipista che ne sconvolgono gli equilibri, spostando ingenti masse nevose in una triste gara per assicurarsi gli ultimi profitti prima della definitiva scomparsa delle nevi perenni…».
Francesco Rondina
Fano

«CHE SULUKULE VIVA!»

La Sulukule Platform, una vasta associazione composta da Ong, professori, volontari, giornalisti, commercianti e residenti del quartiere, ha aperto recentemente un Centro per bambini a Sulukule. In mezzo a tutte le macerie, detriti e sporcizie lasciate dalle ruspe e sfidando tutte le voci e gli annunci sulla fine di Sulukule, la Piattaforma continua a lavorare per la gente e i bambini del quartiere.
Al motto «che Sulukule viva», la Piattaforma vuole con ogni mezzo mostrare al mondo e al comune di Fatih che, nonostante le tante case demolite e le tante persone costrette a sgombrare, Sulukule rimarrà finché ci sarà l’ultima persona e arderà l’ultima lampada. L’apertura del Centro ha voluto dimostrare che ci sono bambini a Sulukule!
Lo scopo principale del Centro è aiutare i ragazzi a liberarsi dal trauma subito fin dall’inizio della cosiddetta riqualificazione del quartiere. Non sapendo quando le loro case saranno demolite, il rumore di ogni macchinario è un allarme spaventoso per le loro tenere orecchie. Molti hanno smesso di andare a scuola: hanno paura che, al ritorno, non troveranno più la loro casa, come se fosse in loro potere arrestare il processo di distruzione.
Nel Centro hanno luogo ogni attività, senza alcuna obbligazione: i bambini possono scegliere ciò che piace loro. Arti plastiche, dramma, giochi all’aperto, con giocattoli Lego e puzzle, lezioni di lettura e scrittura… sono alcune delle attività guidate dai volontari. Lo scorso agosto, guidati da un attore professionale, i ragazzi hanno rappresentato per ben 5 volte il dramma di Giulietta e Romeo, ambientato a Sulukule; ed è stato vero successo.
Nel Centro opera anche un ufficio di consulenza per i residenti di Sulukule per trattare relazioni e problemi con la municipalità di Fatih. I volontari redigono petizioni o danno consigli e assistenza legale, provocando anche cause giudiziarie contro la municipalità per le violazioni dei diritti umani. Grazie alla Piattaforma, Sulukule vive e speriamo che possa vivere e che lo lascino vivere.

Speriamo che si riesca a fermare anche le altre ruspe che  stanno facendo milioni di senza tetto in tutta Istanbul. A Kucukcekmece-Ayazma circa 2.500 famiglie sono state sfrattate e rilocate a Bezirganbahce; espropriate senza compenso, si sono indebitate e ridotte in miseria; 18 famiglie, senza denaro e senza un luogo dove andare, sono vissute in tende tutto l’anno.
La costruzione dello stadio olimpico proprio vicino ad Ayazma, ha avviato l’esodo dei residenti del quartiere, prevalentemente famiglie provenienti dall’est e sud-est della Turchia, di origine kurda; le abitazioni saranno ristrutturate per fae prestigiose ville per gli eventi olimpici.
La stessa sorte incombe sulla popolazione rom di Sulukule, perché il terreno è cresciuto molto di prezzo negli ultimi anni. Così i residenti di Sulukule, ivi presenti fin dai tempi di Bisanzio, devono dire addio non solo alle loro case, ma anche alla loro cultura e modi di vita. Anche Tarlabasi, altro distretto condannato al processo di trasformazione, attende la stessa sorte. Sembra tuttavia che la gente di Tarlabasi, guidata da una Ong locale, non lascerà la scena tanto facilmente: i residenti di questo quartiere hanno imparato bene la lezione da Ayazma e Sulukule e hanno cominciato a fare causa in tribunale con l’aiuto di bravi avvocati.
In tutta la Turchia e specialmente a Istanbul, i distretti di riqualificazione urbanistica, uno per uno si stanno organizzando e lottano con ogni mezzo contro tale processo, con la disobbedienza civile e citazioni giudiziarie, visite al parlamento e ai deputati, con qualsiasi altro mezzo utile.
I distretti di Istanbul si sono organizzati in un’unica grande coalizione (Istanbul Districts Platform) e hanno cominciato ad agire insieme. Turchi, rom, kurdi, siriani… differenti per etnicità, religione, affiliazioni politiche… ora sotto tutti mano nella mano contro le ruspe! Speriamo che abbiano successo e che trionfi «il diritto alla casa e residenza».
Cihan Baysal

Con questa lettera la signora Cihan Baysal, ricercatrice nel campo dei diritti umani per la Istanbul Bilgi University, ci offre un aggioamento sulla situazione della gente di alcuni quartieri di Istanbul, di cui Missioni Consolata ha raccontato nei numeri di maggio e giugno 2008.




Cari missionari

Giustizia per tutti…

Egregio Direttore,
mi permetto di fare qualche appunto all’articolo di padre Giuseppe Ramponi sul vescovo ecuadoregno Eduardo Proaño (M.C. 7-8 2008, p.16)) e, in genere, sul tono di moda in questi decenni, una visione dei popoli vicina a Rousseau: popoli originariamente buoni e dalla vita sociale quasi paradisiaca, rovinati completamente dai cattivi europei per di più cristiani.
L’evangelizzazione dell’America Latina ha le sue ombre, ma anche le sue luci: Turibio di Mongrovejo e Pietro Claver ne sono piccoli esempi… C’è poi la mentalità in molti popoli di dare sempre la colpa ad altri dei loro mali, ai cattivi sfruttatori: ieri il colonialismo, oggi il mercato globale e capitalismo selvaggio…
Noi popoli dell’Europa a chi dobbiamo chiedere i danni? Ai cartaginesi, ai romani, agli unni, ai mongoli, ai turchi… Siamo usciti da una lunga storia di guerre, stupri, pestilenze, fame e miserie d’ogni genere… A scuola ci hanno insegnato l’aspetto positivo della cultura greca che con Alessandro Magno ha unificato il mondo antico, così come poi il latino con Roma e con la chiesa: e oggi l’inglese, il francese, lo spagnolo non hanno forse portato anche qualcosa di buono nella crescita dei popoli?
L’ America Latina e specialmente l’Africa sono state evangelizzate, o meglio scolarizzate, da migliaia di missionari e missionarie usciti da tante povere famiglie e, pur con tutti i loro limiti, non sono andati in paesi lontani per imporre i loro usi e costumi e neppure per portare la rivoluzione delle armi, ma un po’ di vangelo secondo le loro capacità. Anche la grande emigrazione dall’Europa verso le Americhe non è stata principalmente un fatto di potenti contro poveri, ma un incontro e uno scontro di poveracci con poveracci. In Europa abbiamo impiegato più di mille anni per capire che forse è meglio non scannarci a vicenda e formare invece una comunità.
La creazione geme nelle doglie del parto… Il mondo nuovo, dove la giustizia ha stabile dimora, verrà dopo la fine di questo… saluti e buon lavoro.
Don Silvano Cuffolo
Oropa (BI)

Grazie, don Silvano, per questa sua riflessione. Siamo d’accordo. Ma intanto dobbiamo darci da fare perché il Regno di pace e di giustizia per tutti cresca già in questo mondo.

«Chi inquina uccide»,
non solo con i Suv

Dopo la lettura delle pagine dedicate ai Suv (M.C. 2-2008 p. 66-67) sono ancor più convinto che l’acquisto degli Sport Utility Vehicle sia una moda più che una necessità, un cedimento alla macchina pubblicitaria più che la risposta alla domanda di sicurezza sulle strade. Al tempo stesso mi sembrano doverose alcune puntualizzazioni.
Primo: anche la critica al Suv rischia di diventare una moda, se è disgiunta dalla critica a tutto un modo di concepire il diritto al lavoro, mobilità, svago. Consideriamo, ad esempio, il settore della pesca: l’aumento del prezzo del gasolio ha messo in grossissima difficoltà le compagnie; ci sono state molte agitazioni, scioperi, richieste di aiuto economico all’Unione Europea, oltre che ai governi nazionali e alle amministrazioni locali. Ma una congiuntura economica drammatica come questa non dovrebbe essere anche l’occasione per cominciare a prendere finalmente e seriamente in considerazione l’ipotesi di sfruttare le risorse del mare in modo più saggio, più equilibrato, più responsabile?
Se è vero, come è vero, che alcuni colossi della navigazione commerciale (Cosco Container Lines, K Line, Yang Ming, Hanjing Shipping, ecc…) hanno raggiunto un accordo sulla riduzione delle velocità delle loro navi da 25 a 21,5 nodi e probabilmente si accorderanno per ulteriori riduzioni (studiosi e tecnici hanno calcolato che una diminuzione della velocità del 10%, per un portacontainer può significare una riduzione del consumo di combustibile del 30%), perché non si dovrebbe trovare un’intesa analoga anche per il settore della pesca e per quello della navigazione da diporto?
E quell’Europa che spinge tanto per la rottamazione, ridimensionamento e rinnovamento delle flotte pescherecce (troppi i pescatori, troppi e troppo vecchi i natanti), non potrebbe spingersi un tantino più in là ed esigere da armatori e costruttori la messa in atto di tutti gli accorgimenti e soluzioni aerodinamiche che la modea tecnologia offre, per consentire all’uomo di lavorare e magari anche di divertirsi in mare senza rovinarlo?
Secondo: non mi convince affatto la linea scelta da alcuni governi nazionali e, soprattutto, locali che hanno deciso di far pagare l’ingresso dei Suv nei centri storici (a Londra, per esempio, Jeep & C. entrano solo se pagano l’equivalente di 33 euro al giorno…). È una cosa altamente diseducativa, una ignominiosa resa alla logica del «vuoi inquinare? Paga!».  No, cari premier e cari sindaci, sempre più innamorati delle tasse, erano molto più convincenti ed educative le domeniche senza auto: quelle che, nell’ormai lontano inverno 1973-1974, trasformarono non solo le città, ma anche le strade extraurbane (autostrade comprese) in piccoli paradisi.
Vorrei ricordarvi che chi inquina uccide: lo ha detto tante vole anche papa Giovanni Paolo ii, lo ha ribadito il suo successore; e su MC lo hanno documentato magnificamente il dott. Topino e la dott.ssa Novara.
In uno stato che funziona nessuna autorità può dire a chicchessia «vuoi uccidere? Paga!». No, in uno stato di diritto non può esserci spazio per approcci del genere, che non differiscono molto da quelli che caratterizzano il mondo dei contrabbandieri, bracconieri, camorristi, mafiosi.
Nessun medico serio si permetterebbe di dire a un paziente, pieno di problemi a causa della sua golosità, «per contenere i danni della gran mangiata e gran bevuta che ti farai, ingoia questa pasticca, fatti questa iniezione».
Smettiamo, quindi, di prendere di mira i proprietari di Suv, come se fossero tutti gradassi, prepotenti, ubriaconi, carnefici, e di difendere gli altri automobilisti, motoscornoteristi, camionisti, come se fossero tutti umili, sobri, vittime. Ridimensioniamo anche la storia che chi mangia pesce, rispetto a chi mangia carne, fa meno male alla salute propria e agli equilibri planetari: sia in mare che nelle acque intee, la pressione sulle risorse ittiche ha raggiunto livelli intollerabili, così come è intollerabile la tragedia delle morti bianche a bordo delle imbarcazioni: fonti Fao riportano che «ogni giorno almeno 70 persone muoiono in incidenti di pesca nei mari dei quattro continenti», numero ben maggiore di quello che si riscontra in edilizia e agricoltura.
Guglielmo De Tigris
Urbino

UN MURO CHE NON DIVIDE

Il 20° secolo, il più sanguinario che la storia ricordi, ha dato luogo a catastrofi umane senza precedenti, che hanno leso la dignità di milioni di persone. A 90 anni dalla fine della Grande guerra, la parrocchia di Ciano del Montello ha voluto realizzare, nel piazzale della chiesa, un «Monumento alla pace», inaugurato la sera del 27 settembre scorso.
Questo piccolo lembo di terra veneta, in prima linea ai piedi del Montello e lambito dal fiume Piave, fu teatro di avvenimenti drammatici e vide i suoi abitanti lasciare i luoghi natii come profughi o combattenti, pagando un prezzo altissimo in termini di vite umane e privazioni generalizzate, senza dimenticare i caduti dei paesi all’epoca nemici. 
L’intento principale dell’iniziativa è quello d’attuare una sorta di consegna intergenerazionale, per far sì che il ricordo sopravviva nella memoria e divenga, nel tempo, segno concreto per la tutela della libertà e della pace.
Il parroco, don Saverio Fassina, e gli animatori dei gruppi estivi si sono fatti promotori dell’opera, riflettendo a lungo su come poterla realizzare in maniera da rendere protagonisti i bambini e i giovani, così lontani nel tempo da quei tragici eventi, eppure eredi e diretti destinatari di sottesi messaggi di speranza per l’avvenire.
Avvalendosi della professionalità dell’architetto Giampaolo Blandini, si è scelto di valorizzare il muro dell’antico cimitero, che un tempo sorgeva accanto alla chiesa, applicandovi formelle in ceramica variopinta, create dai ragazzi, e aventi come tema predominante la pace. Accanto a queste ne sono state inserite altre, provenienti da viaggi o pellegrinaggi in diversi paesi del mondo, spesso martoriati, quali Etiopia, Palestina e Irlanda; esse contengono non solo messaggi iconografici, ma anche simbologie cristiane. Sul muro s’incontrano altresì iscrizioni islamiche, giunte dal Marocco, per affermare quella vicinanza umana che vuole andare oltre le etnie e le confessioni religiose.
Chiunque giunga in questi luoghi può sentirsi, così, accolto dalle parole: «La pace sia con te», espresse in varie lingue, fedi e immagini. Queste sono le «pietre vive» che coesistono, si sovrappongono e dialogano.

Il fulcro di tutto il progetto si sviluppa su un’area quadrata di circa quattro metri per quattro. Su uno dei lati è rappresentata il Montello, con tralci d’uva ed elementi plastici che rimandano alle case e chiese del territorio; sull’altro vi è un richiamo al Monte Grappa, definito da alti alberi e percorso da aneliti di vita, prematuramente spezzati…
Nel mezzo della composizione è collocata una fontana per quanti, assetati d’acqua e di giustizia, si fermeranno per trovare ristoro. Alla base di questa sono disposti i sassi del fiume Piave, di diverse dimensioni e fattezze, per evocare l’incertezza traballante di passi confusi, tormentati da angoscia e paura. L’acqua, elemento vivificante, intende favorire la purificazione della memoria, personale e collettiva, e la rinascita.
Per evidenziare maggiormente questa idea di rinnovamento, un velo d’acqua ha il privilegio di scorrere sui versi di una poesia dell’ecuadoriano Jorge Carrera Andrade (1903 – 1978), pioniere della difesa della natura e della bellezza del mondo, sulla quale vedeva incombere il rischio dello sfregio di una ragione senza spirito.
«Verrà un giorno più duro degli altri:
scoppierà la pace sulla terra
come un sole di cristallo.
Un fulgore nuovo avvolgerà le cose.
Gli uomini canteranno nelle strade
liberi ormai della morte menzognera.
Il frumento crescerà sui resti delle armi distrutte
e nessuno verserà il sangue del fratello.
Il mondo allora sarà delle fonti
e delle spighe che imporranno il loro impero
d’abbondanza e freschezza senza frontiere».

La speranza è che quanti lo desiderano, piccoli o grandi, continuino ad apporre nuove formelle, provenienti da diversi luoghi ed esperienze, su questo «muro di pace». L’intero complesso è concepito, pertanto, come un’opera in divenire, un monumento vivo.
In questi luoghi, quasi completamente distrutti dalla guerra, bambini e ragazzi di Ciano, tramite questa esperienza, hanno compreso in maniera tangibile che l’infanzia e la giovinezza sono un momento privilegiato per diventare, in prima persona, portatori e costruttori di pace. Il compito loro affidato è di diffondere questo giornioso messaggio. In opere e parola. Perché non sempre i muri dividono.
Rosella Cervi
Ciano del Montello (TV)