Cari missionari

Dossier Nyerere

Ciao, padre Francesco,
ho letto con vero piacere il tuo dossier su «Nyerere santo» (MC 10/2011). Congratulazioni! Ti ho invidiato quando ho letto che Nyerere si è fermato sulla strada per parlare con te. Io l’ho incontrato tante volte a Iringa e a Dar Es Salaam, ma non ho mai avuto la fortuna di parlargli a tu per tu. Il giorno che gli sono stato assieme più a lungo è stato quando ha partecipato a Ubungo alla consacrazione della chiesa parrocchiale. Temo che non lo faranno santo per via della guerra contro l’Uganda e che l’Uganda non gli perdona.
Mi ha un po’ stupito che non abbia parlato della sua conferenza alle Suore di Mariknoll, radunate per gli Esercizi spirituali, quando fu in America per la prima volta. Era una conferenza illuminante e da lì è partito il motto: il missionario deve «lavorare con», non «lavorare per». Un altro discorso illuminante è stato quello fatto all’università di Makerere (Uganda), che dopo l’indipendenza gli aveva offerto la laurea honoris causa. Le parole che mi hanno colpito sono pressappoco queste: «Mi hanno condannato a sei mesi di prigione per il libello che ho scritto contro un ufficiale inglese, oppure a 5 mila dollari di multa. Avrei potuto scegliere i sei mesi di prigione (nelle prigioni inglesi non si stava male) e diventare eroe, col rischio di far sorgere venti di guerra. Ho preferito l’umiliazione di pagare la multa».
In preparazione all’indipendenza, in un incontro con il comitato che doveva stabilire le condizioni per la nazionalità del Tanzania, si è decisamente opposto a che l’africanità (o altro del genere) divenisse un requisito essenziale. Se non si fosse accettato di definire importante solo la lealtà al paese (il ministro delle finanze era un indiano), si sarebbe ritirato dalla politica.
Auguri a tutti che possiate fare tanto bene.
p. Giulio Belotti
Alpignano (TO)

Carissimo padre Giulio, grazie delle informazioni preziose. Grazie anche dei rilievi critici, che condivido. Non ho accennato al celebre discorso alle Suore di Mariknoll per mancanza di spazio. Avevo scritto anche un inserto sul «Tanzania oggi», ma non è stato pubblicato (penso) proprio perché lo spazio è tiranno in una rivista. Grazie, infine, dell’augurio di fare tanto bene. Io mi accontenterei di fae solo un po’.
 p. Francesco Beardi
Bunju, Tanzania, 4/10/2011
È vero, lo spazio è tiranno, e ci dicono anche che mettiamo sempre troppo testo! Lo scritto di p. Francesco su «Tanzania oggi» è solo rimandato. Apparirà presto.

RETTIFICA
Abbiamo anche ricevuto diverse telefonate e lettere a proposito della confusione fatta tra mons. Marinangeli e mons. Beltramino (ambedue Attilio) nell’ultima foto del medesimo dossier. La signora Elena Bottoni, affezionata lettrice della rivista e pronipote di mons. Beltramino, scrive:
«Alla pagina 50, c’è la foto del vescovo nel giorno della cresima del figlio di Nyerere. Vi voglio solo correggere, perché il vicario apostolico di Iringa lì raffigurato è mons. Attilio Beltramino e non Marinangeli come voi asserite. Visto che nella vostra edizione mensile non lo ricordate mai(!); almeno per una volta dategli il giusto nome, anzi cognome».
Chiediamo ancora scusa dell’errore! Quando mons. Beltramino è morto a Tosamaganga, il 3 ottobre 1965, questo direttore aveva fatto solo il suo primo anno di seminario tra i missionari della Consolata! (Non è un granché come scusa, lo so…)

Grazie
Ci siamo trovati improvvisamente, a inizio settembre, nella necessità di recarci in Venezuela per rimpatriare il fratello/cognato Gaetano, residente nel paese da oltre 35 anni, colpito da infarto cerebrale. Siamo partiti senza conoscere esattamente le condizioni di salute di Gaetano. Non conosciamo lo spagnolo, per questo abbiamo cercato un appoggio in grado di aiutarci sia nella logistica che nel risolvere le numerose pratiche necessarie per il rientro in Italia di Gaetano. Questo aiuto l’abbiamo trovato nella missione della  Consolata di Caracas. Il superiore, p. Lisandro insieme ai pp. Andrea e Vilson ci hanno accolto con grandissima attenzione e disponibilità sia al nostro arrivo (noi poi abbiamo proseguito per Cumanà, dove era ricoverato Gaetano) sia al ritorno a Caracas. L’assistenza a Gaetano nei giorni precedenti il viaggio di ritorno, le pratiche con il Consolato per il rinnovo del passaporto, l’ottenimento dell’assistenza al volo si sono concretizzate in tempi molto rapidi grazie all’aiuto generoso ed efficace dei padri della Consolata. Con grande affetto e riconoscenza ringraziamo anche a nome di tutta la nostra famiglia i padri che con estrema semplicità ci hanno offerto il grande dono della loro amicizia.
Luigi Veronesi
e Piero Bredi
Milano, 29/09/2011

20 giorni in Thailandia
Buon giorno, sono d’accordo con il vostro corrispondente da Bangkok Stefano Vecchia. Ho potuto constatare con i miei occhi durante il mio soggiorno per vacanza a Bangkok e Koh Tao l’estrema povertà e infelicità della popolazione. Frequentando la stazione dei treni ho potuto vedere dei poveretti che giacevano lungo il corso dei binari come i nostri senzatetto, ma molto malridotti, e bimbi che vivevano per strada soli senza famiglia. Al mercatino venivano vendute persino le dentiere usate e rientrando da una visita ad un’altra città alle quattro del mattino ho notato che la gente che vive nei tuguri della periferia di Bangkok dove passa il treno, lavora giorno e notte per cucinare quello che altri vendono lungo le vie della città, e per passare da una casa all’altra devono attraversare le case altrui senza nessuna privacy. Lo sguardo delle persone era molto triste anche perché stanno demolendo le case fatiscenti per farci degli hotel di lusso e quindi spingono gli abitanti meno abbienti ad andarsene in periferia dove ci sono le bidonville. Ho visto donne che sotto il sole cocente lavoravano nell’edilizia accanto agli uomini facendo lavori pesantissimi, senza parlare poi degli animali che sono trattati peggio delle cose. I thailandesi sono gentilissimi, ma penso che se si sono ribellati poco tempo fa con le camicie rosse al regime è per la forte disuguaglianza tra ricchissimi e poverissimi. Sono tornata a Milano veramente scioccata da questa realtà che tra l’altro sta distruggendo anche le isole più belle perché, non essendoci un sistema fognario, i liquami che si possono vedere e annusare in superficie accanto alle case vengono versati tutti a mare con conseguenze ben immaginabili. Spero che la situazione possa migliorare altrimenti non posso che compiangere quella popolazione! Cordiali saluti
Mirella De Gregorio
Milano, 1/10/2011

Due Chiese?
Salve, ho letto con molto interesse e frutto il numero di ottobre della vostra rivista. Mi permetto di rilevare tuttavia alcune imprecisioni conceenti l’intervista a Paolo Bertezzolo in merito al suo libro «Padroni a Chiesa nostra» (articolo «La croce e la spada», Mc 10/2011 pp.19-21). Se sono d’accordo con lo scrittore sulla realistica visione che ha della strategia politica e sociale della Lega nord, non credo che egli abbia molto chiaro il catechismo di base. Mi spiego: in primis, non esistono due Chiese, una «che si rifà al modello del cattolicesimo di Pio V» (che ricordo essere sempre San Pio V) e una del «Vaticano II». Questa esclamazione mi suona tanto come un’applicazione di criteri umani alla Chiesa che è «colonna e fondamento della verità», come afferma s. Paolo e, come Cristo, nella sua Fede è la stessa «ieri oggi e sempre» (ancora l’apostolo delle genti). Inoltre sarebbe opportuno contestualizzare con più cura affermazioni come «Io non posso combattere gli infedeli… Ce lo dice tutta la Parola di Dio». Forse il professore non conosce l’Antico Testamento o l’Apocalisse? Saranno simboli ma sono pur sempre S. Scrittura. Non è con un rancoroso disprezzo del proprio passato che i cristiani annunceranno il Vangelo nel XXI sec. Spero di non urtare la sensibilità di nessuno, ma amo profondamente la S. Chiesa e reagisco a questa divisione (pre o post-conciliare) come un figlio che vede la propria madre squarciata in due, da altri figli che considerano brutta una parte di lei. La Chiesa è per me Tota pulchra et nigra (a causa di noi suoi figli), sed formosa. Chiedo le vostre preghiere e assicuro le mie. Cordiali saluti.
lettera firmata
5/10/2011

Caro amico che hai chiesto di restare anonimo, quando si parla di due chiese non si intende certo dividere la Chiesa che Cristo ha voluto una in Lui, come sua sposa, anzi come suo corpo.
Ma questa Chiesa vive nella storia, ed è in questa storia, fatta di tempo e di spazio, che realizza la sua fedeltà al suo Capo/Sposo che è Cristo. Se la fede in Cristo, che ha la sua pienezza nell’amore, rimane sempre la stessa, il modo di vivere ed esprimere questa fede cambia nel tempo, offrendo risposte nuove, fresche e vive al mondo presente.
La Chiesa è fatta di persone che cercano di vivere al meglio la fede nel loro presente. Quando si parla di un cattolicesimo «stile (san) Pio V» o «Vaticano II» si sottolinea il fatto che, pur nella continuità, non si può portare indietro il tempo e vivere come se nulla fosse successo. Lo «stile s. Pio V» era certamente innovativo rispetto a quello di s. Gregorio Magno, vissuto circa mille anni prima, o a quello di s. Clemente I, del primo secolo, ma non è certamente del tutto adeguato al nostro presente. Non si tratta di un «rancoroso disprezzo del proprio passato», ma di apprezzare il passato, senza usarlo per delegittimare il presente ed evitare gli errori di cui il beato Giovanni Paolo II ha chiesto perdono a nome di tutta la Chiesa.
è vero che nella Bibbia si parla molto di lotta e combattimento, soprattutto contro il male e il maligno, ma è un linguaggio che va inteso nella sua valenza simbolica non letterale, alla luce del «ma io vi dico» di Gesù (cf. Mt 5) che parla di amore per i nemici e invita a non lasciar spazio alla rabbia nel cuore.
Il reale problema della Chiesa oggi, lo dice anche il Papa, non viene da fuori, ma sta soprattutto nei moltissimi battezzati che non vivono il battesimo, non amano la Chiesa, non pregano più, non ascoltano la Parola, non vanno a messa, non accettano guide morali e sono sicuri di essere nella verità, perfettamente a posto pur riducendo la loro fede ad alcune pratiche formali e burocratiche. Se tutti gli italiani che hanno ricevuto il battesimo lo vivessero davvero, la Chiesa sarebbe davvero «tota pulchra et formosa».

KENYA 2011
Ancora una volta siamo tornati in Africa, in Kenya. Eravamo stati undici anni fa, in un viaggio organizzato dai padri della Consolata, purtroppo la realtà del Kenya di ieri non è mutata in meglio, anzi è, per certi versi, peggiorata.
La globalizzazione ha investito in modo pesante anche i paesi poveri, portando un aumento dei prezzi dei beni di prima necessità (farina, riso, mais, fagioli) e quindi un peggioramento delle condizioni di vita per la popolazione più povera.
Fame, sete, aids, sono le realtà contro cui si combatte ogni giorno. I cambiamenti climatici, la deforestazione hanno determinato una siccità spaventosa, da due anni le piogge cadono irregolarmente e poco, per cui l’acqua sta diventando il bene più prezioso e più atteso. Ad ottobre dovrebbero arrivare le piogge, se non sarà così moriranno prima gli animali e poi tanti bambini.
In alcuni villaggi l’acqua delle fontane, da due anni, è razionata, ciò significa che solo una volta alla settimana è possibile fare rifoimento, con conseguenze facili da capire sul piano sanitario.
Quando pensiamo al Kenya la nostra fantasia corre alla savana, ai safari, alle distese sconfinate e selvagge, ma è sufficiente inoltrarsi nei villaggi per capire le difficoltà di vita soprattutto delle donne e dei bambini. Capanne di fango e di sterco di mucca, accolgono questa umanità che, comunque, pur tra mille difficoltà trova i mezzi per andare avanti. Esiste un’Africa fatta di donne che, da sole, sostengono la famiglia, provvedono all’acqua, alla legna (unica fonte di energia), zappano la terra con i bambini legati sulla schiena, partoriscono da sole.
Donne schiacciate da enormi bidoni d’acqua, da fasci di legna pesantissimi portati sulla schiena anche per diversi chilometri costituiscono un quadro che si ripete ogni giorno.
La donna è la vera forza della società africana, non per la sua emancipazione, ma per il coraggio con cui affronta la lotta quotidiana, non ultimo quella dell’aids. Abbandonata dal marito, vittima di credenze tribali, combatte per la sopravvivenza sua e dei suoi figli una battaglia talvolta dall’esito drammatico.
Ci sarà un futuro migliore per queste persone? L’unica strada da percorrere è l’istruzione, la donna istruita potrà prendere consapevolezza dei propri diritti, della propria sessualità; l’uomo istruito, non considererà più la donna un oggetto da sfruttare e da abbandonare quando è malata o incinta, ma insieme potranno intraprendere un cammino di cambiamenti.
è proprio la diffusione dell’istruzione, con la costruzione di aule scolastiche, l’obiettivo principale dei missionari e delle missionarie che, ogni giorno, condividono le difficoltà della gente.
Diffusione di scuole, formazione professionale, costruzione di pozzi e dispensari sono gli sforzi principali verso cui convergono gli aiuti dei centri missionari da noi visitati.
Anche la nostra associazione «I sogni dei bambini – onlus» si è unita a questi obiettivi provvedendo alla costruzione di due aule scolastiche in un piccolo villaggio nel distretto di Isiolo a nord di Nairobi, e aiutando un centro di formazione professionale per ragazzi di strada, a Nairobi, con l’acquisto di materiale e macchine per la realizzazione di finestre in ferro, sedie, mobili. Il nostro aiuto è una goccia in un mare di necessità e bisogni primari, di fronte ai quali ci si sente impotenti e angosciati, ma il sorriso di tanti bambini ci sprona ad andare avanti e a trovare quegli aiuti, anche piccoli, che laggiù possono salvare dalla fame e dall’ignoranza anche solo una vita.
Rosella e Mario
6/10/2011

Grazie della condivisione che fate. Il Kenya, come altre nazioni africane, è una terra di grandi contraddizioni e, più il tempo passa, più si nota il contrasto tra la vita di una minoranza ricca (anche ricchissima) e quella della gente normale.
Davvero i missionari hanno sempre investito, e continuano ad investire in educazione e formazione professionale, in questo aiutati proprio da chi sostiene i loro mille progetti, tra cui l’adozione a distanza. Grazie a tutti coloro che sostengono queste attività di lotta all’ignoranza e povertà, sia che lo facciano direttamente attraverso la nostra onlus che con le molte onlus legate a tanti singoli missionari.
Però il missionario non può limitarsi a sviluppo, educazione e sanità. Sua missione è quella di dare un’anima all’impegno per la promozione dell’uomo attraverso l’annuncio di Gesù. In Cristo ogni uomo ri-scopre e ri-apprezza le vere radici della sua dignità, perché in Lui ogni uomo si scopre per quello che è, figlio e figlia di Dio, uguale nella diversità, membro di una sola famiglia, la famiglia di Dio. Una famiglia chiamata a vivere nella pace, giustizia, solidarietà e corresponsabilità.
Così non basta che chi può aiutare lo faccia anche attraverso progetti meravigliosi. Occorre darsi da fare per cambiare la mentalità, per promuovere leggi più giuste, per una nuova economia solidale e corresponsabile, per una politica di pace e non di guerra, una politica della fiducia e non della paura, della cooperazione e non dell’egemonia, dell’integrazione e non del razzismo.
E questo è un lavoro «da laici», un passo in più per cambiare il mondo che va fatto da questa splendida costellazione di forze che sono già impegnate nella solidarietà ai missionari, siano esse le Ong di vecchia tradizione o le molte nuove onlus radicate nel territorio.




Cari missionari

Lettere dei lettori

Lutto all’Avi
Lo scorso marzo ci ha lasciato Ardulino Lazzaron, storico socio della sezione dell’AVI di Trebaseleghe (Treviso) rapito da una malattia fulminante mentre si accingeva a tornare in Kenya per un nuovo progetto.
Ce lo ha comunicato l’AVI (Associazione Volontari
Italiani di Montebelluna – Treviso), che lavora in stretta collaborazione con molti missionari della Consolata.

ARDULINO LAZZARON
L’amore per l’Africa
Doveva esserci anche lui, nell’ultimo viaggio in Kenya. Aveva già in tasca il biglietto aereo, ma una visita medica di controllo prima della partenza e gli esami clinici lo avevano fermato. La rapidità della sua rinuncia ci aveva lasciati increduli e costeati. Ardulino Lazzaron, mio zio, era sempre stato un uomo energico, innamorato della vita, della sua famiglia, di tutte le persone semplici, indifese, sofferenti. Per questo l’Africa era arrivata dritta al suo cuore, dando un nuovo impulso alla sua esistenza, nutrendo ed accrescendo il suo desiderio di andare oltre il ritmo piatto della quotidianità. Aveva bisogno di emozioni intense, di sentimenti veri e profondi per cause umanitarie nelle quali attirare, travolgendole con il proprio entusiasmo, le persone che incontrava, per coinvolgerle nei progetti. Io sono una di queste. Per otto anni andammo in Kenya assieme e da quell’esperienza nacque l’ associazione Karibu di Scorzé, formata da un gruppo di volontari sensibili ai problemi dei paesi meno sviluppati e con grandi disparità sociali soprattutto per quanto riguarda la condizione femminile e dell’infanzia. Assieme, iniziammo un percorso di conoscenza e di operatività in un paese affascinante per la bellezza selvaggia della natura, ma in balia di devastanti piogge torrenziali alle quali si alternano periodi di siccità, con una carenza d’acqua in superficie diffusa nelle gran parte del paese. La difficoltà di comunicazione tramite una rete stradale spesso su terreni impervi, rese difficile la nostra opera di aiuto, ma allo stesso tempo alimentò la passione per la sfida e lo spirito di avventura. Ardulino fu sempre in prima linea per promuovere progetti educativi ed assistenziali in Kenya e raccogliere fondi. Era instancabile nel parlare con i nostri compaesani di quelle popolazioni lontane, delle quali riusciva ad evocare, assieme ai bisogni, la carica umana, i giorniosi sorrisi, la speranza di un futuro migliore di cui la nostra opera era il sostegno e lo è tuttora. Aiutare e far crescere la gente nel suo habitat naturale, rispettandone l’identità, fu lo scopo di Ardulino Lazzaron; per questo girava sempre con le foto dei bambini africani in tasca, per far vedere che il suo impegno era una realtà. Ricordo che in Kenya, nonostante non sapesse l’inglese e neppure lo swahili, riusciva a “parlare” con tutti. Era il primo nella preghiera, nell’entusiasmo di confondersi e sentirsi assimilato alla gente africana in uno scambio di reciproco amore. La sua opera caritatevole non si interruppe nemmeno nei suoi ultimi giorni. Quando andai a trovarlo in ospedale, mi chiese di portargli le fotografie ed il filmino dell’ultimo viaggio. “Qui c’è molta gente sensibile, che sicuramente ci sosterrà nei nostri progetti”, mi disse, con gli occhi che gli brillavano. Ai suoi nipoti era solito ripetere: “Anche voi dovete aiutare i bambini bisognosi. Andate in Africa a vedere come vivono. Non dovete lavorare solo per voi stessi, per avere una casa, per accumulare soldi”. Ardulino aveva un carattere forte, facile ad alterarsi, ma era anche capace di riconoscere i propri errori e di scusarsi, come seppe fare con me, dopo un malinteso, dandomi una grande lezione di vita. Il nostro compito di parenti ed amici è ora quello di mantener fede alle sue ultime parole: “Aiutate soprattutto i bambini poveri africani”. Per questo uno dei prossimi progetti in Kenya sarà dedicato a lui. Caro zio, ho visto in te la Luce di Dio. Certamente Egli non sta tra le nuvole, ma agisce dentro di noi e tramite noi. Ti prometto che porterò avanti l’opera iniziata insieme. Che tu sia nella Pace Etea!
Il Consiglio Direttivo AVI
email 05/04/2011

Guatemala
Salve Paolo: grazie tante, ho letto l’articolo in italiano e mi è piaciuto. Sicuramente non piacerà a molti del Guatemala, ma credo di aver detto la verità. Soltanto una piccola osservazione: Union Fenosa non ha progetti idroelettrici. Spero che l’affermazione del collegamento tra la morte dei leaders e la resistenza contro Union Fenosa non sia intesa come un’accusa contro la stessa. Di nuovo grazie di tutto.
Mons. Alvaro Ramazzini, Guatemala

Egemonia
L’esultanza statunitense dopo l’uccisione di Osama Bin Laden rievoca altre squallide immagini, ad esempio i corpi martoriati dei figli di Saddam Hussein; i prossimi saranno forse Gheddafi e la sua famiglia?
L’America non cambierà mai, ce lo dimostra ogni giorno Hollywood coi film d’azione nei quali l’orgasmo conclusivo è sempre la distruzione compiaciuta del “cattivo” con volumi di fuoco esagerati. La vendetta per l’immaginario statunitense è l’ultimo imperativo etico, dopo che ogni altro è stato svuotato dalla mercificazione. Questa volta il rituale macabro è anche sospetto: un cadavere fatto sparire in fretta, le immagini contraffatte apparse in rete. Perché occorreva euforizzare i cittadini americani? Il quadro internazionale sta cambiando: le rivolte in nord Africa sono state accese anche dalla speculazione finanziaria sui generi alimentari (vedi il quantitative easing della Federal Reserve nell’agosto 2010). Tutto accade proprio quando è sopraggiunto il cosiddetto picco del petrolio, ossia la fine della sua disponibilità a basso costo. Il disastro del golfo del Messico non sarebbe mai accaduto se la BP non avesse cercato petrolio a profondità marine prima considerate troppo dispendiose e troppo rischiose. L’incoscienza e la brutalità americane non devono stupire dati i precedenti: Dresda rasa al suolo a guerra finita, le bombe atomiche sul Giappone già sconfitto, la diossina sparsa sulle foreste del Vietnam, l’uranio impoverito nei vari teatri di guerra attuali. Ciò che stupisce ed amareggia è la nullità europea: una pseudo-destra francese che anticipa, giustificandole, le ingerenze USA in Nord Africa, una pseudo-sinistra (italiana e non solo) che plaude alla punizione del tiranno libico, senza considerare coloro che lo sostengono. Non dimentichiamo che la prevalenza statunitense nel mondo ha coinciso con un “ecocidio” di proporzione planetaria, che nessuno pare in grado di fermare. L’egemonia statunitense si regge su due pilastri:
1. Il consumismo spacciato per benessere, che occulta il saccheggio operato dall’alta finanza;
2. La criminalizzazione di ogni capo di stato che si opponga al baratto della sovranità nazionale col libero mercato.
Nessuno più di chi è impegnato nelle missioni credo possa aver capito che i dittatori, di destra o di sinistra, sono da sempre il pretesto interventista degli USA, indispensabili come il terrorismo. Le guerre, come spiega il saggio Shock economy dell’americana Naomi Klein, sono parte essenziale del gioco. Come può un’ Europa di antica tradizione e radici cristiane assoggettarvisi? Il sangue versato in Libia, Siria e altrove lo sarebbe stato anche senza l’azione destabilizzante atlantica? Negli USA con denaro pubblico si sono tamponate le voragini finanziarie della lobby bancaria, poi spalmate anche sull’Europa; è questa la democrazia da diffondere? Una società senza valori non ha futuro, e oggi è tutto il mondo a non avee. Non possiamo aspettare che il gigante USA imploda nel suo delirio, divorato dai conflitti interetnici, è necessario un mondo più saggio, da perseguire anzitutto astenendoci da una sudditanza che orienterebbe l’odio del terzo mondo contro tutta la cristianità.
Prof. Vincenzo Caprioli
www.iperlogica.it

Condivido con lei il disagio per come si sia fatto spettacolo dell’uccisione di Bin Laden.
Ho i miei dubbi, invece, quando si danno tutte le colpe all’America. In fondo l’egemonia dell’America fa comodo a tutti noi che, coscientemente o no, stiamo forse diventando più americani degli americani.
Una volta dicevano che «la storia è maestra di vita». La storia potrebbe ancora insegnarci tante cose, ma bisognerebbe essere degli studenti che hanno voglia di imparare.

su «Troppe riviste…»
Spett.le Redazione,
il 3 gennaio 2011 Il Sole 24 Ore ha dedicato un’intera pagina a 8/9 punti caldi della terra dove sarebbero potute scoppiare durante l’anno guerre o rivolte. Non era citato nessuno dei Paesi dell’Africa del Nord. Leggendo il Bollettino Salesiano del novembre 2010 c’era un servizio di Giancarlo Manieri che descriveva cosa succede attorno al Cairo, dove la gente lavora «in condizioni peggiori di quelle degli antichi schiavi d’Egitto».
Questo per dire che Riviste come Missioni Consolata, Nigrizia, Mondo e Missione, Il Bollettino Salesiano (per citae solo alcune), grazie anche alla presenza sul posto dei vari missionari, danno una fotografia della realtà di paesi lontani che nessun’altra fonte d’informazione sa dare in maniera così oggettiva.
Per questo mi sorprende e mi preoccupa che il seminarista Alberto V. (MC 05/2011, pag. 5) abbia chiesto di sospendere l’invio della vostra interessantissima rivista. Non voglio insegnargli nulla, ma sicuramente ha più tempo di me che dedico quasi ogni giorno 3 ore in auto per raggiungere e tornare dal posto di lavoro. Vivendo in comunità di 10 seminaristi, a tavola potrebbe scambiarsi le informazioni più importanti con gli altri seminaristi (senza che tutti leggano tutto). Interessa o no a questi seminaristi capire quelli a cui “prestate la vostra voce”? Perfetta e sferzante – a mio avviso – è stata la risposta della redazione data alla lettera.
 Vi auguro di continuare con coraggio.
Andrea Gobbo
via email, 27/05/2011

Carissimi, salve!
Vorrei essere «Alberto del seminario di M.». Mi farei portavoce dei miei solidali benedetti nove compagni/amici e del nostro amatissimo staff di formatori e accompagnatori, per ringraziare sentitamente della simpatia con cui ci regalate ancora la vostra rivista missionaria senza richiederci quote d’abbonamento. Scriverei: «Ci è assai caro che comprendiate come in effetti noi manipolo facciamo un po’ fatica a onorare tutti gli abbonamenti delle tante riviste che ci arrivano… Grazie a Dio e ai benefattori di alcune testate, invece, abbiamo la fortuna di poter arricchire la nostra formazione culturale a tutto tondo, nel panorama ecclesiale; anche se, ovviamente, non tutti leggiamo tutto, né tutto sempre alla pari approfondiamo e facciamo nostro. Non solo. La nostra biblioteca è aperta alla parrocchia, ai gruppi e ai singoli che vogliono frequentarla per ampliare a loro volta le proprie conoscenze in ambito d’informazione cristiana attraverso pubblicazioni che non si trovano facilmente in edicola, in libreria o in oratorio. Quindi, vi siamo grati anche a nome di altri, sperando così che qualcuno in più prenda nota del vostro c.c.p. e del codice del 5×1000 …
Riconosciamo che senza alcune riviste missionarie il nostro orizzonte ecclesiale moderno risulterebbe davvero… un po’ miope e provincialotto. I nostri superiori, crediamo, corrono serenamente “il rischio” che qualcuno fra i non troppi candidati al servizio diocesano… si orienti, prima o poi, ad gentes; loro cura e premura è infatti, tenerci ben  esposti al «vento dello Spirito», mentre ci educano al servizio del Regno e della Chiesa, nel Mondo. Grazie, allora, e ogni fraterno cordiale cristiano augurio!».
«Vorrei essere Alberto del seminario di M.», ma sono soltanto Elio ex seminarista che ai suoi tempi non restava mai senza il Piccolo Missionario e l’Italia Missionaria… ma oggi ritiene che anche allora sarebbe stato utile, su nelle sale di studio, avere a disposizione qualcosa in continuità; per parecchi anni poi ha provveduto in proprio con più abbonamenti, pur avendone ridotto il numero dopo gli anta senza mai eliminarli tutti.
Non sono un formatore né un vescovo, né un editore o distributore di (buona) stampa. Se fossi vescovo d’una diocesi con iniziale “M” e con dieci allievi in seminario vi pregherei di render noto che da oggi la mia diocesi raddoppia (pagando) l’abbonamento: uno per il seminario minore, uno per il maggiore; oppure vi direi un bel grazie per avermi aperto gli occhi, e correrei al mio seminario per capire se si sia trattato di un eccesso di zelo conservazionista (risparmiare la carta e spese postali) o scarsità di spirito missionario.
Aurelio Resta
Seriate (BG)

Andrea e Aurelio, grazie dei vostri commenti. La risposta non voleva essere «sferzante» (se ho dato quell’impressione, mi scuso con Alberto e i suoi amici!), ma simpatetica, anche se un po’ provocatoria. Questo perché, in fondo, in noi missionari (per vocazione) rimane un’apprensione: che i giovani sacerdoti, presi come sono dalle tante sfide del mondo attuale e della realtà in cui vivono, si dimentichino che sono responsabili del Vangelo fino agli «estremi confini…» proprio perché sacerdoti.




Cari missionari

Lettere dai lettori

Non ti è lecito
Stimata Sr. Rita e sorelle, comunità Rut,
fermo restando il totale apprezzamento della vostra opera e la solidarietà verso Susan e tutte le altre, e non di meno ferma restando l’intima vergogna per le umane miserie e insensibilità, non mi pare giusto accostare le feste di certe «ville del potere» con l’immagine della donna (assai mercificata) della nostra società contemporanea e addirittura con lo schiavismo sessuale di quest’epoca di bibliche emigrazioni. Credo proprio che anche senza quelle feste e quelle ville, la strumentalizzazione dell’immagine femminile sarebbe uguale (e pure lo schiavismo sessuale).
Quest’immagine femminile che deprechiamo, al contrario, proviene dalle stagioni 68ttine, dalle conquiste e libertà di ben identificate culture e politiche, che poi si sono risolte in mera commercializzazione del corpo femminile, che fa da antipasto al trionfo della pornografia. Per questo devo manifestare il più vivo turbamento nel constatare che lo sdegno per l’odiea immagine e concezione mercificata della donna (basta guardare qualsiasi pubblicità, anche su Famiglia Cristiana), abbia avuto bisogno di certe feste nelle ville del potere per emergere finalmente. Perché non prima e proprio adesso? Se poi penso che uguali critiche (tardive), provengono in blocco da giornali, culture e politiche che di quelle conquiste e libertà sono state paladine (ricordo bene che fino a che non divenne assai impopolare, anche la pedofilia rientrava tra le libertà da conquistare e da sottrarre all’oscurantismo dei preti e dei fascisti), mi viene da raccomandare prudenza, di non farsi immischiare. L’immoralità di [un] politico o dei politici (di ogni singola persona) è una cosa, l’immagine e la concezione della donna sono cosa diversa, e ancora diverso è lo schiavismo sessuale. Allego un interessante articolo di Antonio Socci che mi pare imposti correttamente la questione. Distinti saluti.

Luigi arch. Fressoia,
email, 05/04/2011

L’articolo di Socci si può trovare su http://www.
antoniosocci.com/2011/02/quando-ci-irridevano-per-la-castita/
No comment, direbbero gli inglesi. Spero solo che suor Rita, di certo ben navigata nella vita, abbia preso con un sorriso quel «suorina» che nell’articolo le viene generosamente appioppato.
Ammesso poi che la strumentalizzazione dell’immagine femminile sia colpa del ‘68, c’è da riconoscere che tutto un mondo pseudo-anti-Sessantotto ha saputo impossessarsi senza scrupoli dell’idea per fare soldi in abbondanza. Anzi, sembra che ci abbia proprio preso gusto. A meno che si pensi che i proprietari delle Tv dominananti, degli imperi mediatici, delle case di moda e delle agenzie pubblicitarie siano tutti sessantottini, come, a rigor di logica, dovrebbero essere anche tutti quelli che beneficiano dei servizi delle ragazze costrette alla strada, e soprattutto quelli che si possono permettere le escort.
Distinguere e separare l’immoralità dei politici dalla concezione della donna e dallo schiavismo sessuale può avere delle sue ragioni – che mi sfuggono -, ma mi domando se non siano tutte cose concatenate e conseguenti e segni di un degrado morale, civile e sociale di cui tutti soffriamo, senza distinzione tra destra o sinistra.
Quanto al non immischiarsi e all’essere prudenti: mi pare che lo si sia fin troppo da parte di chi dovrebbe invece parlare. Si diceva una volta che «chi tace, acconsente». Grazie a suor Rita e alle «suorine» che hanno invece il coraggio di parlare.

Quel Moloch chiamato PIL
Mi riferisco al problema sollevato, meritoriamente, dall’articolo di S. Siniscalchi sulla rivista di aprile. Credo di poter aggiungere elementi utili a capire perché esiste e non crolla quel Moloch che si chiama Pil. Prospetto la spiegazione per sommi capi.
– Il Pil è un indicatore che esprime l’entità dell’utile monetario, in qualunque modo realizzato, così come il tachimetro sul cruscotto (per fare un esempio) indica la velocità dell’automezzo. Altri indici esistenti o allo studio esprimono altre grandezze, quali il benessere economico, il livello di istruzione, il grado di sopravvivenza, l’impronta ecologica, ecc. Essi sono come altrettante spie sul cruscotto, che indicano l’andamento delle altre componenti del meccanismo “automezzo”.
– Il sistema politico-economico determina il modo di essere dell’economia reale, ed è paragonabile al conducente dell’automobile. Quello che è seduto al volante da qualche decennio, che si definisce neoliberismo, è esclusivamente e maniacalmente interessato alla velocità (il Pil appunto). Non gli importa nulla del fatto che tutte le spie sul cruscotto sono accese. L’indice della distribuzione della ricchezza segnala il progressivo impoverimento della popolazione, a fronte dell’arricchimento di chi è già ricco? La percentuale di CO2 continua a salire, a fronte della continua distruzione delle foreste che contrasterebbero questo aumento? La riduzione della disponibilità di petrolio è preceduta dall’esaurimento imminente del rame e dell’alluminio? La pesca con modalità industrializzate sta distruggendo la fauna marina? Al nostro autista interessa solo il proprio personale utile monetario di oggi e di domani. Alla catastrofe del dopodomani non ci vuole proprio pensare.
– L’attuale sistema perverso ha potenti mezzi di autoconservazione: gli avversari vengono tacitati col denaro, se non addirittura convertiti e l’informazione viene zittita o adulterata (perfino Voi credete che il problema siano gli indici di benessere).
Concludo. L’inferno esiste, e Ve l’ho descritto. Se gli uomini di buona volontà esistono ancora, si facciano avanti.
Con ossequi.

Gino Folletti
Torrazza P.,
 email 07/04/2011

vari




Cari missionari

Troppe riviste da leggere
Salve, sono Alberto del seminario di M…; stiamo ricevendo la vostra rivista senza esserci abbonati e pertanto vi chiediamo di interrompee la spedizione, sia perché in seminario siamo in 10 e ci arrivano 15 riviste a settimana (che pochi riescono a leggere), sia per aiutarvi a risparmiare carta e soldi. Grazie.

Alberto V.
via email

È stata nostra politica, fin quasi dalle origini della rivista, inviae copie a tutti i seminari maggiori d’Italia per aiutare i futuri sacerdoti ad aprire i loro orizzonti alla missione universale. Nei seminari esisteva allora il Circolo Missionario, nel quale le riviste missionarie trovavano lettori entusiasti. Diversi membri di quei circoli hanno poi fatto la scelta missionaria a vita o sono partiti come Fidei Donum.
Ovviamente prendiamo atto che la situazione oggi è cambiata, i circoli missionari non esistono più e il numero dei seminaristi è ridotto.
Cancellare l’invio della rivista è un’azione di pochi secondi sul computer, ma una copia o mille o diecimila in meno non sono un risparmio, quanto piuttosto la condanna ad una morte lenta, relegati nel silenzio. Questa è una morte che non possiamo accettare perché abbiamo «qualcosa d’importante da dire», non per noi stessi ma per coloro a cui prestiamo la nostra voce: i poveri, i piccoli, gli esclusi, i popoli emergenti del sud del mondo e le nuove Chiese vive, spesso martiri, che stanno venendo a maturità. Le riviste missionarie italiane, in trent’anni, hanno subito una flessione tremenda: da oltre sei milioni di copie annue stampate e distribuite a fine anni Settanta, a meno di tre milioni di questi tempi. Un calo inevitabile nel contesto della scristianizzazione progressiva che la nostra nazione sta vivendo e della trasformazione in atto nel mondo della comunicazione. Forse anche un segno della mancanza di interesse ad approfondire la realtà di quello che un tempo era definito il «Terzo Mondo», privilegiando un tipo di informazione più visiva, turistica, veloce e meno responsabilizzante.
Naturalmente le riviste missionarie non stanno subendo passivamente la crisi attuale. Ci si rinnova con creatività e ottimismo affiancando allo stampato le pagine in rete. Molte testate della Fesmi hanno splendidi siti web; basti pensare al nuovo sito della Misna (www.misna.org).
Per quel che ci riguarda, vi invito a visitare il nuovo sito di Amico (http://amico.rivistamissioniconsolata.it) e il popolare www.consolata.org (ex www.ismico.org). I devoti del beato Giuseppe Allamano trovano un sito poderoso e documentatissimo su http://giuseppeallamano.consolata.org/.
In cantiere c’è anche il rinnovamento del sito di questa stessa rivista, a cui metteremo mano molto presto. Speriamo solo che voi, seminaristi della generazione internet, abbiate imparato a far scalo anche nei nostri porti (e nei ricchi siti delle varie riviste missionarie) quando navigate nella world wide web.

Elisabetta
Leggendo le righe scritte su Missioni Consolata da Elisabetta Borda sono rimasto entusiasta da quanto renda reale tutto ciò che descrive. La conosco da 20 anni e non l’ho mai più vista. Felice però che abbia proseguito nella/e missioni di cui mi aveva tanto parlato e che il suo enorme bene verso il prossimo si sia giustamente espresso. Un ringraziamento a tutti coloro che partecipano ad aiutare le persone e culture bisognose, cariche di foga per migliorare e non per soffocare il prossimo con tante inutilità! Vi sarei grato se le mie parole potessero giungere a lei che con tanta passione e sacrificio ci aiuta a tenere i piedi per terra e a valutare quanto ognuno di noi potrebbe fare per gli altri. Un saluto a Elisabetta e un arrivederci. Grazie.

Lucio Pierandrei
via email, 18.02.2011

«Le righe» a cui lei si riferisce sono state pubblicate nel marzo 2006, un bel dossier dedicato all’Albania in cui Elisabetta contribuiva con diversi scritti e belle foto. Elisabetta ha finito da tempo il suo servizio volontario  e fa ora l’insegnante in un paese del Piemonte. Non sono sicuro che sia tra i nostri lettori, ma abbiamo amici comuni che certamente le faranno avere copia di questo numero della rivista.

ECOSOFIA
Ho letto la lettera “Tigri e leoni” di Francesco Rondina (MC 03/2011). Finalmente qualcuno che si occupa del male fatto dall’uomo a tanti esseri senzienti! Le estinzioni aumentano, splendidi esseri viventi scompaiono per sempre, le foreste vengono abbattute, e la Chiesa non dice quasi niente, o veramente troppo poco. Un avvicinamento alle posizioni del movimento dell’ecologia profonda (o ecosofia) non guasterebbe, anche se si vogliono mantenere chiare le differenze. Non mi risulta che sia mai stato detto che abbattere una foresta è “un peccato”.
Ben pochi sanno che sul quotidiano La Repubblica del 14 maggio 2007 è stato pubblicato un articolo dell’esponente vaticano Navarro-Vals intitolato “La questione ecologica”. Poco prima era stato richiesto dal Vaticano all’Associazione Eco-Filosofica di Treviso il testo in italiano del “Manifesto per la Terra” redatto da Mosquin e Rowe, eminenti studiosi canadesi di biodiversità. Pur ribadendo con (troppa) forza la posizione antropocentrica, che assegna all’uomo un ruolo del tutto speciale su questa Terra, l’esponente vaticano manifestava una certa possibilità di avvicinamento alle posizioni dell’ecologia profonda, sulla base di un comune rifiuto dello scientismo-materialismo cartesiano e del riconoscimento di una profonda spiritualità, presente anche nel movimento ecosofico. C’era tuttavia anche una giustificazione dello sfruttamento della natura da parte dell’uomo: il dualismo veniva conservato, o confermato. Comunque nessuno ne ha più parlato, o quasi.
Auspico comunque un avvicinamento e un colloquio fra la Chiesa cattolica e le posizioni ecocentriche, come opposizione comune al materialismo e al meccanicismo.
Invito poi vivamente a leggere e meditare il “Manifesto per la Terra” sul sito www.ecospherics.net.
Grazie per l’attenzione.

Albino Fedeli, Milano
via email, 11.03.2011

FILATELIA
MISSIONARIA

Vorrei farvi conosce il sito www.filateliareligiosa.it che raccoglie articoli scritti a commento di vari francobolli – annulli postali di natura religiosa.
C’è un capitolo specifico che raccoglie numerosi articoli relativi ai santi piemontesi con particolare riguardo alle ricorrenze – manifestazioni che hanno ricordato le iniziative dei Missionari della Consolata in tutto il mondo. Riteniamo che queste notizie possano essere gradite specie nei Paesi di missione dove sono presenti numerose suore e missionari (che abbiamo anche avuto occasione di incontrare nei viaggi in Kenya, Tanzania e ora in Etiopia con Padre Adolfo De Col).
Certo che potrà essere gradito conoscere l’interesse, anche filatelico, nei confronti della Vostra Opera missionaria. Con simpatia,

Angelo Siro
via email

La malga di
Kizabavra

Gentile Sig.ra Bianca Maria Balestra,
vorrei complimentarmi in primo luogo con il suo articolo (MC 02/2011) che mi pare una sintesi perfetta di quello che è la Georgia di oggi. Ci fa inoltre molto piacere che lei abbia apprezzato l’intervento di cooperazione realizzato che è in primo luogo un vero scambio di esperienze e di conoscenze per entrambe le parti. Abbiamo cominciato nel 2005 a fare questo piccolo caseificio con i partner finanziari che lei conosce, ma non avremmo avuto la fortuna di arrivare ai risultati che lei ha potuto toccare direttamente con mano se le persone che hanno partecipato volontariamente alla successiva formazione in loco non fossero andate ogni anno a parlare, consigliare e spingere gli operatori locali verso nuove forme e metodi di produzione. Speriamo che l’iniziativa continui, noi certamente anche quest’anno avremo due nostri esperti presso la malga per circa 10 giorni, inoltre per la fine di maggio abbiamo organizzato un viaggio di studio con l’Associazione degli Agronomi e Forestali di Belluno proprio a Kizabavra. (La ringrazio) a nome di tutto il gruppo di bellunesi per l’articolo che ha scritto. Siamo a disposizione comunque se volesse approfondire altri aspetti di questo progetto.
Con i più cordiali saluti.

Dr. Agronomo
Giuseppe Pellegrini
Via email, 17.03.2011

FONTANE SENZ’ACQUA
Caro Gigi,
da settembre 2010 stiamo razionando l’acqua perché non piove dal giugno scorso. Sono sei mesi che questo problema mi angoscia. Sto preparando un terzo invaso in foresta, della capacità di 120 milioni di litri d’acqua, anche se non so dove e come trovare i soldi, ma la Divina Provvidenza ha sempre provveduto.
Grazie per gli aiuti che i lettori mi stanno mandando per le fontane (dopo l’articolo pubblicato su MC 09/2010). Ma il problema è avere l’acqua da dare alle fontane.
Grazie.

Fratel Peppino Argese, Mukululu, 28.02.2011

Questo laconico messaggio è arrivato accompagnato da alcune foto, tra cui questa foto della diga numero due: quasi vuota! (vedi qui sotto).
 Per fortuna il 19 marzo scorso sono ricominciate le piogge, speriamo siano abbondanti, ma non troppo. Grazie Peppino!

IL SIGNIFICATO DI MISSIONE OGGI
Fin da bambini sogniamo l’Africa e le opere dei missionari. Siamo partiti a settembre e l’impatto con la realtà ha purtroppo tradito le attese. Veniamo ospitati presso il Catholic Hospital of Wamba, opera della Consolata nel nord del Kenya. Il fulcro della missione è l’ospedale, ben integrato nel difficile territorio dei Samburu, che garantisce assistenza adeguata mediante personale prevalentemente locale. Il contrasto è provocato dai vertici della missione e dallo stile di vita che hanno imposto nella guesthouse. Questi “cattolicissimi missionari”, figure poco preparate alla gestione di un progetto nel Terzo mondo, hanno fatto dell’Africa la loro America. La contraddizione è lampante: dentro giardini fioriti, campo da tennis privato, viali ordinati, fuori strade polverose e abitazioni fatiscenti. Dentro tre piatti per pasto, quattro ricche portate italianissime, bibite americane e birra keniota, fuori bambini scalzi, giovani ubriachi e vecchi affamati. Sono queste le cose che ci hanno scandalizzato, più che le criticate tradizioni delle popolazioni autoctone.
Il nostro viaggio si è infine concluso a Korogocho dove abbiamo vissuto pezzi di “missione vera”,  conoscendo persone che quotidianamente si spendono a fianco di poveri e emarginati. Oggi il significato di missione impone, secondo noi, innanzitutto di andare alle radici della povertà per abbattere i sistemi che la provocano. Scrive Zanotelli: “ Per me è fondamentale il legame inscindibile tra fede e vita, fede ed economia, fede e politica…”.

Alberto e Romina
Cuneo, 21.03.2011

Mi piace che abbiate sentito il bisogno di scrivere le vostre impressioni, e proprio su quell’ospedale di Wamba al quale abbiamo già dedicato parecchi interventi su questa rivista. Quel che mi dispiace è che non abbiate avuto in loco un interlocutore che vi aiutasse a chiarire i dubbi e lo «scandalo» che vi hanno fatto dare giudizi pesanti sui missionari di Wamba in confronto a quelli di Korogocho. Conoscendo bene sia la realtà di Wamba che di Korogocho, mi permetto di fare alcune precisazioni.
1. Wamba è a oltre 300 km di distanza da Nairobi, e fino a pochi mesi fa gli ultimi 100 km erano sterrati (oggi lo sterrato è solo di circa 50 km); Korogocho è alla periferia di Nairobi.
2. Per fare gli acquisti di cibo e materiale necessario per l’ospedale, da Wamba si va a Isiolo (100 km) o Meru (140) o Nanyuki (150) o Nairobi (300 e rotti) con il rischio di essere fermati a mitragliate dai banditi di strada. A Korogocho il primo supermercato e/o centro commerciale è solo alla periferia dello slum.
3. A Wamba l’acqua viene da un pozzo scavato dalla missione, è molto salmastra e per essere potabile va bollita e filtrata. Tutta l’acqua usata viene poi riciclata per i servizi igienici, l’orto e i giardini. A Korogocho l’acqua arriva dall’acquedotto municipale, anche se a singhiozzo e non dovunque, ed è potabile.
4. La Coca Cola bevuta a Wamba è prodotta in Kenya e, se avete notato, ha un sapore più forte della nostra. La birra del Kenya è tra le migliori del mondo. Bibite e birra si trovano in abbondanza in ogni angolo del Paese, compreso Korogocho, e una coca, all’ingrosso, costa circa 15 centesimi di euro, probabilmente a Wamba un po’ di più visti i problemi di trasporto.
5. Wamba si trova a circa 1.200 m di altezza, in una regione semiarida, calda e prona alla siccità, dove temperature sopra i 30° sono normali. Korogocho è a 1.700 m, con un clima fresco, piogge relativamente abbondanti e temperature medie attorno ai 20-25°.
6. Il campo da tennis privato, che tanto vi ha scandalizzato, è stato costruito dal medico che ha fondato l’ospedale e lo ha gestito per quasi quarant’anni, come aiuto per mantenere la sua sanità mentale e fisica, visto che l’ospedale gli richiedeva una presenza «24/7» senza sostituti, tui e ferie.
7. I giardini sono frutto del buon gusto e dell’amore al bello che ci caratterizza; rendono l’ospedale un ambiente accogliente e rasserenante, combattono la polvere dilagante nei periodi di siccità e offrono una scusa per dare lavoro ai locali. Sono costituiti soprattutto da siepi di buganvillea che tutti potrebbero coltivare, anche gli abitanti del villaggio, se non fosse che nella tradizione dei pastori nomadi Samburu l’idea del giardino proprio non esiste.
A Korogocho i giardini di Wamba non sono possibili, ma la missione è una struttura solida e sicura, certo non precaria come le baracche che la circondano.
8. La casa dove voi siete stati è normalmente usata dai medici che si recano a servizio dell’ospedale per brevi, intensi periodi di interventi specializzati. Venendo dall’Italia, oltre alle medicine necessarie, si portano anche ogni ben di Dio, che viene poi usato per tutti gli ospiti. In più a Nairobi si trova con molta facilità ogni prodotto italiano. I medici che fanno dieci ore o più di interventi ogni giorno, hanno bisogno anche di una nutrizione adeguata che non può essere garantita dalla dieta locale a base di té e latte al mattino e mezzogiorno, e polenta e cavoli o granoturco e fagioli la sera.
A Korogocho, in pochi minuti di macchina si può raggiungere una pizzeria,  un ristorante italiano o la casa provinciale dei missionari.
9. Se dopo quarant’anni di esistenza l’ospedale e le strutture ad esso connesse fossero nelle stesse condizioni delle case del villaggio o delle manyatte Samburu, sarebbe un fallimento. Quanto alle critiche a certe tradizioni delle popolazioni autoctone, bisognerebbe forse spenderci dentro qualche anno, aver visto centinaia di bambini morti per malaria perché «curati» a casa e portati all’ospedale quando è troppo tardi; aver ricucito ferite, curato fratture o estratto pallottole; aver speso tempo, soldi ed energie per curare le conseguenze della circoncisione femminile; aver visto il muto dolore di tante donne e madri; aver sepolto giovani promesse – uccise dall’Aids -, che avevano ottenuto una qualifica professionale a spese della missione; aver fatto una visita al cimitero dell’ospedale; mettersi nei panni dell’amministratore diocesano che ogni anno fa miracoli per trovare i fondi necessari a far funzionale quel giorniello di ospedale; aver sentito un medico africano dire, quando gli ho portato dei giovani neo circoncisi con emorraggia inarrestabile, «benedetta (non era proprio questa la sua espressione!) gente, pagano per farsi rovinare e poi noi, qui, dobbiamo ricucirli gratis!».
10. Wamba è al centro di un’area vasta come Lombardia e Piemonte messi insieme, con una popolazione di poco più di 200.000 persone, in gran parte nomadi, che nelle case come le nostre non si trovano a proprio agio. Korogocho è un piccolo spazio densissimamente popolato, dove le distanze sono irrisorie.
11. Potrei andare avanti con molte altre differenze, ma non è corretto contrapporre Wamba a Korogocho. Sono realtà diverse e, come tali, hanno suscitato risposte molto diverse, dove i missionari che vi hanno prestato servizio hanno pagato di persona. Il rischio è quello di lasciarsi ingannare dalle apparenze. Se ci toerete, pur senza perdere il vostro senso critico, provate a guardarci dentro con occhi nuovi.

Gigi Anataloni




Cari missionari

Moschee e reciprocità
Abbonato da tanti anni, apprezzo il respiro universale della rivista […]. Mi permetto però di dissentire dall’orientamento delll’editoriale del gennaio 2011. È inammissibile paragonare le stragi di cristiani effettuate a sangue freddo in vari Paesi islamici (e non) ad episodi di intolleranza che in Italia non hanno mai travalicato il dibattito politico. Nel nostro Paese stragi di islamici non se le sogna nessuno! è vero invece che, in nome di una malintesa apertura ad altre religioni (in particolare l’Islam) si passa sotto silenzio la necessità di rispettare reciprocamente diritti e doveri. Nel nostro caso l’ostilità all’apertura di moschee nella maggior parte dei casi è motivata dal giustificato timore che si possano costituire luoghi privi di controllo, dove col pretesto della pratica religiosa si possa dare attuazione a programmi politici eversivi, ispirati da collegamenti inteazionali.
Per chi vive a Milano questa situazione è purtroppo ampiamente documentata. L’esperienza ci insegna che l’Islam è anche terrorismo e che si avvale di notevoli strumenti finanziari per alimentare una penetrazione capillare nelle nostre città. Non bisogna trascurare che anche i cristiani hanno diritto di costruire chiese e semplicemente di testimoniare la loro fede in paesi che spesso nella loro legislazione negano il diritto elementare di libertà religiosa.
Sul piano dei diritti/doveri lo Stato e le istituzioni locali non possono prescindere da questi punti fermi riguardanti la reciprocità delle effettive libertà di credere e praticare la propria religione. Questi principi vanno calati nella realtà, chiedendo per esempio delle garanzie, che nel caso dell’Islam vuol dire per es. selezionare gli Imam con la creazione di albi, ovvero poter controllare i testi, che spesso non sono solo preghiere ma anche messaggi politici (come avviene in Germania); la trasparenza deve valere anche per loro! Creare delle regole servirà prima di tutto a garantire chi nell’Islam ha soltanto a cuore gli insegnamenti dell’unico Dio. Ne trarranno giovamento anche i cristiani che saranno aiutati a liberarsi da diffidenze non sempre ingiustificate e a stabilire un’effettiva collaborazione con tutti i credenti. Cordiali saluti.
Franco Bianchi
via email, 25.01.2010

Gent.mo  Direttore,
nulla da eccepire sul contenuto del suo editoriale del gennaio 2011, ma ritengo prematuro il concedere le moschee ai musulmani. Noti, non sono contrario, ma vorrei la reciprocità. Noi giustamente dovremmo concedere loro le moschee, ma loro non ci concedono chiese, ci perseguitano e ci ammazzano anche. Guai a parlare di proselitismo, mentre loro il proselitismo lo fanno e costringono anche alla conversione forzata. Da noi la conversione deve essere voluta, mai forzata. Da queste considerazioni mi pare che concedere loro le moschee sia uno spalancare le porte all’islamismo. […] Se spalanchiamo le porte all’Islam nessuno di noi avrà la forza di arginare l’invadenza e la violenza delle correnti estremiste. Cordiali saluti.
Graziano Grua
via email, 24.01.2010

Grazie del vostro contributo su questo tema scottante. Certamente gli avvenimenti passati e recenti, come i massacri di cristiani in Iraq, Egitto, Indonesia, Pakistan e in altre nazioni a maggioranza islamica non fanno che aumentare le legittime riserve e paure riguardo all’apertura di luoghi di culto e centri islamici nelle nostre città. Tuttavia credo sia necessario affrontare il problema nella giusta prospettiva, aprendo un dialogo tra le varie parti, ciascuno secondo le proprie competenze. A mio avviso ci sono due livelli da considerare: il livello politico-sociale e quello religioso. A livello politico-sociale mi pare sia accettato che lo scopo della legge non è solo quello di prevenire abusi e violazioni e stabilire doveri, ma anche quello di garantire e difendere i diritti fondamentali della persona e della comunità. È quindi giusto e doveroso che una nazione da una parte assicuri a tutti i cittadini l’esercizio dei diritti fondamentali (tra cui la libertà di culto) e dall’altra esiga l’osservanza delle leggi da parte di tutti richiedendo quindi ad ogni nuova «istituzione» una ragionevole garanzia «di conformità» affinché il bene comune sia salvaguardato. Per questo concordo pienamente con molte delle osservazioni del sig. Franco.
Ma porre come condizione essenziale la «reciprocità», mi pare vada oltre il dovuto, soprattutto quando questo si applica a livello locale. Una piccola comunità islamica (spesso di nazionalità eterogenee) che vuol costruire un luogo di preghiera, non ha più potere di influenza nello scacchiere della reciprocità di un singolo missionario in Cina, in Buthan o in Egitto alle prese con la burocrazia locale per il permesso di costruire una nuova chiesa. La reciprocità ha un suo ambito specifico, rafforzato da diritti e doveri codificati a livello internazionale, nelle relazioni tra stati e organizzazioni sovra-nazionali.
Dal punto di vista religioso, soprattutto della nostra religione, le cose vanno oltre la logica del diritto-dovere. È nel contesto religioso che ho osato chiamare traditori de «la loro religione e il loro Dio» i fondamentalisti sia islamici che cristiani, anche se oggettivamente l’ammazzare cristiani e l’opporsi alla costruzione di una moschea non sono certo la stessa cosa (come voi fate giustamente notare). Tuttavia, se l’azione finale è di una gravità ben diversa, l’atteggiamento di fondo può essere ugualmente sbagliato. E questo è importante per noi. Per un cristiano (= una persona che segue la via di Gesù Cristo e con lui si identifica) non conta tanto l’azione finale, ma l’atteggiamento di fondo, la mentalità, quello che uno sente nel cuore. Un cristiano ha come punto fondamentale di riferimento la «via di giustizia» insegnata da Gesù, non la logica della legge umana. Basta andare al capitolo 5 del vangelo di Matteo per sapere qual è la logica che ci deve guidare, anche se agli occhi del senso comune può sembrare «stoltezza». In quel capitolo Gesù non declina la parola reciprocità, ma gratuità, che è amore misurato sulla perfezione di Dio. «Vi è stato detto… ma io vi dico: porgi l’altra guancia, ama i nemici, a chi ti chiede la tunica dà anche il mantello… Se amate quelli che vi amano che merito ne avete? Siate perfetti come il Padre…».
Ideale? Certamente. Questi comandi, «legge» del cristiano da 2000 anni, non sono una norma stabilita dalla Chiesa (che, tra l’altro, ha tradito questa stessa legge troppe volte!), ma «Parola» di Gesù stesso. Gesù è il punto di verifica del vivere sociale e politico del cristiano, non la cosiddetta «cultura cristiana» di cui qualcuno si fa paladino. Questa legge di Cristo – per i cristiani – è l’anima della legge umana, pur nel rispetto della reciproca autonomia.

Congo belga
Egregio Direttore,
sono un occasionale lettore della vostra bella e interessante rivista che ho sempre apprezzato, e mi è capitato di leggere l’articolo di Giusy Baioni sulla R. D. Congo (MC 10/2010, pp. 47-50). Ne riporto un passaggio: «… un passato remoto segnato da una delle colonizzazioni più feroci, quella Belga, che ha dimezzato la popolazione di allora con una schiavitù inumana…» (p. 47).
Vorrei, molto brevemente, affermare quanto segue, e Le sarei molto grato se potesse pubblicarlo, per amore della verità. Premetto che ho vissuto venti anni, fino al 1966, in Congo, prima colonia belga, poi Repubblica del Congo/Zaire, e posso affermare nel modo più assoluto che non ho mai visto, conosciuto, né sentito raccontare la colonizzazione feroce di cui parla la dott.ssa Baioni. Mio nonno, con nonna e figli, nel secolo scorso ha attraversato tutto il Congo perché era un esploratore; mio padre vi ha vissuto tanti anni, e riposa nella regione del Kivu/Sud. I miei suoceri con la loro famiglia e fratelli hanno lavorato nel Katanga/Lubumbashi; le mie figlie sono nate a Bukavu, ed erano la terza generazione residente in Africa; amici hanno trascorso la loro vita nella zona del Virunga/Kivu Nord; ho conosciuto la famiglia, moglie, figli e nipoti di uno dei primi comandanti del battello di servizio sul fiume Congo e molti altri, nessuno di loro ha mai visto o conosciuto questa colonizzazione feroce. Avrei molto da dire sui lati positivi della colonizzazione belga, e sono obbligato a contestare nel modo più assoluto certe affermazioni penso basate sul «sentito dire». Cordialmente La saluto.
Saverio Giancarlo
Riva del Garda (TN)

Egregio Sig. Saverio,
grazie per la sua testimonianza che nasce dal vissuto. Vorrei farle però notare che le affermazioni della dott.ssa Baioni non si basano affatto sul «sentito dire». Tutta la documentazione storica è concorde nel provare che il primo periodo della colonizzazione belga (1876-1908, quando il Congo era considerato «proprietà privata» del re del Belgio Leopoldo II) è stato terribile, cinico e violento, con la soppressione spietata di qualsiasi forma di opposizione allo sfruttamento commerciale soprattutto del caucciù, che in quel tempo era molto richiesto. Perfino la nostra Enciclopedia Italiana Treccani nel 1929 scriveva: «Sembra che specialmente nello sfruttamento del caucciù alcune società concessionarie e senza dubbio anche agenti dello stato si fossero resi colpevoli di abuso in pregiudizio degl’indigeni. Questi fatti provocarono in alcuni paesi una violenta campagna di protesta, specialmente in Inghilterra, dove le critiche furono esagerate al punto da assumere spesso carattere di vere calunnie. Tutto ciò affrettò l’annessione del Congo allo stato belga: il 15 novembre 1908 una legge faceva dello Stato del Congo una colonia belga» (Treccani XI, 142/2).
Una delle vittime più note di queste violenze fu Isidore Bakanja (1885-1909), morto a seguito delle punizioni ricevute dal suo padrone e beatificato nel 1994 da papa Giovanni Paolo II.
Le parole, datate, della Treccani ammettono una realtà molto grave, tanto grave che il governo belga intervenne nel 1908 togliendo il Congo dalle mani del re e delle compagnie private.
P. Benedetto Bellesi, nostro redattore, scrisse su questa rivista (MC 10-11/2004, pag. 17): «La scoperta della vulcanizzazione della gomma e il suo impiego industriale fecero della colonia uno dei più grandi serbatorni mondiali di questo prodotto fondamentale per l’industrializzazione dell’Occidente. Ma occorreva mano d’opera per raccoglierlo e trasportarlo al mare. Il problema fu subito risolto: tutti gli africani (ironicamente chiamati «cittadini») furono obbligati a raccogliere il caucciù senza alcun compenso e ogni villaggio doveva consegnare agli emissari del re-proprietario una certa quota del prezioso prodotto vegetale. Chi si rifiutava, o consegnava quantità minori di quelle richieste, era punito duramente, fino alla mutilazione: a chi non produceva la quota di caucciù veniva tagliata una mano o un piede, alle donne le mammelle. Contro i ribelli si ricorreva all’assassinio, a spedizioni punitive, distruzioni di villaggi e presa in ostaggio delle donne.
A fare il lavoro sporco erano circa 2.000 agenti bianchi, disseminati nei punti più importanti del paese: molti di essi erano malfamati in patria e mal pagati in Congo. Ogni agente comandava un certo numero di nativi armati (capitani), presi da etnie diverse e dislocati nei singoli villaggi, per assicurare che la gente facesse il proprio dovere. Se la quota era inferiore a quella stabilita, anche i capitani subivano fustigazioni o mutilazioni. Era il metodo del terrore, tanto efficace quanto diabolico.
In 23 anni di esistenza, nel Libero stato del Congo morirono circa 10 milioni di persone, direttamente per la repressione o indirettamente per epidemie o fame, dovuta alla distruzione punitiva dei raccolti. Fu un vero genocidio, in cui perì quasi metà della popolazione congolese, stimata a circa 20-25 milioni di abitanti nel 1880.
A ciò si aggiunga la caduta del tasso di natalità: un missionario giunto in Congo nel 1910 fu stupito dall’assenza quasi totale di bambini tra i 7 e i 14 anni, nati cioè tra il 1896 e il 1903, periodo in cui la raccolta di caucciù raggiunse il suo apice».
Quanto scrisse p. Bellesi non sono calunnie, ma informazioni documentate raccolte da una commissione d’inchiesta mandata dal governo belga in Congo nel 1906.
Con una riserva: la cifra di 10 milioni pare molto esagerata e andrebbe valutata realisticamente contro i dati della popolazione presente prima dell’inizio della colonizzazione e il censimento del 1928, rapportati anche al numero di coloni bianchi coinvolti (poche migliaia). Questo però non toglie nulla all’estrema gravità di quello che p. Bellesi chiama «genocidio dimenticato»: fossero state anche solo 100 mila le vittime di questa violenza, non renderebbero la tragedia più accettabile.
Che lei e i suoi familiari non abbiate avuto sentore di questo dramma, non stupisce. Il re Leopoldo II prima di consegnare la sua proprietà privata al governo bruciò sistematicamente gran parte dei documenti incriminanti, mentre i coloni belgi avevano tutte le buone ragioni per passare il tutto sotto silenzio.

Suor Eugenia, grazie
Cari Missionari
e Missionarie,
desidero ringraziare ed esprimere tutta la mia stima e condivisione alla consorella che domenica scorsa 13.02 u.s., a Roma, in P.za del Popolo, è intervenuta a favore della dignità della donna. Per televisione si è visto e sentito solo uno stralcio del suo discorso, che, però, mi piacerebbe leggere per intero. Il suo intervento, la sua presenza, la sua partecipazione mi hanno dato speranza e fiducia nel sapere che anche nei nostri difficili tempi c’è chi segue, con la vita, in prima persona, la linea del Maestro Gesù. Penso che la stessa mia speranza e fiducia sia arrivata ad altre persone che credono nei valori della fede e della Verità. Provo tanta pena per i fatti che succedono in Italia, non solo ora, ma da anni e mi chiedo quando crollerà quell’immenso castello di sabbia costruito da un solo uomo, ricco oltre ogni misura e sostenuto da tanti servitori che lo difendono a spada tratta perché ricompensati abbondantemente da ogni grazia che un uomo può desiderare ed una donna sognare.
Nemmeno il Papa, del quale anche i non credenti sanno che è persona buona, dedita a servire Dio ed il prossimo, è stato così difeso, quando da molte parti era attaccato per lo scandalo della pedofilia. Evidentemente non paga così bene, non offre denaro a volontà, festini hard e neanche pregiata erbetta verde. Il Signore però gli ha dato forza, fede, salute e, sia pure con sofferenza, ha saputo affrontare le difficoltà e le problematiche che si sono presentate. Quando si lavora con il Signore e per il Signore, l’aiuto viene da Lui, altrimenti – e questo mi consola, come dice Samuele, nel 1° libro – «certo non prevarrà l’uomo malgrado la sua forza». Questa è la vera giustizia a cui nessuno sfugge. Affidiamo al Padre Beato Giuseppe Allamano, del quale oggi ricordiamo la festa, a 85 anni dalla morte, la nostra patria, chiedendo la sua intercessione per ognuno di noi perché riusciamo a fare sempre bene il bene. Grazie, cara sorella missionaria per la tua limpida testimonianza. Un abbraccio.
Bruna Dalbesio
Terzuolo, via email

Penso che moltissimi dei nostri lettori abbiano già visto quel video. Per chi lo volesse rivedere lo si trova in http://tv.repubblica.it/politica/suor-eugenia-bonetti-riprendiamoci-dignita/61991?video. Il testo si trova sul sito delle Suore Missionarie della Consolata http://www.consolazione.org/donna-nel-mondo/379-messaggio-di-suor-eugenia-bonetti.html e anche nel nuovo sito di Amico (http://amico.rivistamissioniconsolata.it) con link al video. Il mese scorso, in queste pagine, abbiamo pubblicato una sua «rifessione sulla dignità della donna» (MC 3/2011, pag. 5-6).

PLASTICA & MC
Leggo sul numero di gennaio, in questa rubrica, la vostra risposta alla lettera di Isa Monaca sulla richiesta di avvolgere la vostra rivista in una pellicola biodegradabile.  Contrariamente a quanto dite voi, di pellicole biodegradabili ce ne sono. Mi piacerebbe vederla usata anche da voi, visto che spesso trattate in maniera ammirevole temi ecologici. Cordialmente.
Andrea Paolini
via email, 29.01.2011

Dopo aver consultato la tipografia, che cura anche la spedizione della rivista, Le posso assicurare che la pellicola che usiamo è in polietilene totalmente riciclabile (naturalmente il totalmente si realizza solo grazie alla collaborazione di chi fa raccolta differenziata). La tipografia è stata certificata conforme alle norme inteazionali UNI EN ISO 9001:2008 e UNI EN ISO 14001:2004 (vedi il sito www.canale.it). Abbiamo inoltrato anche a loro la questione della pellicola biodegradile. La ricerca di una possibile soluzione è avviata. Grazie della pazienza.

Sì, in teoria (la pellica) è riciclabile, come tutta la plastica. Anche i sacchetti del supermercato erano in polietilene, eppure si è dovuto vietarli. Biodegradabile è molto meglio, come i nuovi sacchetti per la spesa. Cordialmente,
Andrea Paolini
via email, 12.02.2011
Speriamo un giorno di poterLe dare la buona notizia che la rivista è spedita in pellicola biodegradabile. Per ora contiamo sulla collaborazione dei lettori per la pratica di un riciclaggio responsabile.




Cari missionari

Omaggio ad un amico
Mi ha fatto tanto piacere vedere nella rivista Missioni Consolata di Novembre 2010 la foto del Dott. Silvio Prandoni con in braccio la bambina Marina nella sua casa famiglia di Mombasa.
Lasciamo stare le diatribe e i battibecchi. È chiaro che gli Amici di Wamba (includendo tutti i gruppi: Amici di Wamba, Wamba Athena, Lucia di Mestre, Belluno, la famiglia stessa del dottore e molti altri) hanno fatto moltissimo per quell’ospedale cornordinati com’erano dal Dott. Prandoni che tanto apprezzavano e amavano. Certamente senza di loro non ci sarebbe quella Rosa del Deserto che è l’ospedale Cattolico di Wamba, il quale, in 40 anni, da un semplice Health Centre di pochi letti è diventato quell’ospedale che è ora con 200 posti.
Con tutto il rispetto per i Benefattori che furono (e sono tanti, i nomi di alcuni di essi sono scritti nei muri dell’ospedale) la mia ammirazione va a lui, al Dott. Silvio Prandoni che dedicò i 40 anni migliori della sua vita e professionalità per creare quella bellissima struttura che è l’ospedale di Wamba a favore delle tribù nomadi locali.
Incontrai il Dott. Silvio Prandoni quando arrivò in Kenya verso il 1967 e aveva 30 anni. Dopo un breve tempo di apprendistato all’Africa nell’ospedale Cattolico del Mathari a Nyeri e poi a quello di Gaichangiro, andò subito al Nord fra le tribù nomadi nel semideserto ove diede tutto se stesso per creare quell’ospedale a favore della gente che ha tanto amato e dalla quale fu tanto apprezzato, stimato e ri-amato. Mi recai spesso a quell’ospedale per le mie necessità personali e per portare della mia gente ammalata, a volte con viaggi di 10-12 ore, senza preavviso e a tutte le ore del giorno e della notte. Quando arrivavo, lui, il dottore, era là, pronto ad attenderci. Lui era sempre là, presente nell’ospedale 24 ore al giorno. Tanto che, specialmente al sabato e la domenica, dagli ospedali governativi mandavano le emergenze a Wamba perché sapevano che lui c’era, con le suore della Consolata e lo staff locale, aiuto insostituibile nello svolgere un servizio indispensabile e tanto apprezzato dalla gente locale.
L’ho sempre ammirato perché vedevo in lui la vera vocazione del medico pronto a dare anche la vita per la sua gente. Non lo nego, mi fu pure di sprone nella mia vocazione missionaria: la sua dedizione, generosità, altruismo mi toccavano.
Il Dott. Prandoni era riuscito a crearsi molti amici in tutti gli ambienti specialmente nel campo medico: gruppi di specialisti (Ortopedici, Ginecologi, Farmacisti, Oculisti, Dentisti) disposti a venire ad aiutare nelle necessità dell’ospedale; quasi tutti i mesi c’erano degli amici a dare una mano. Il Dott. Prandoni preparava i pazienti poi gli specialisti venivano ad operare ed aiutare. Quale ammalato di quelle aree remote avrebbe potuto vedere uno specialista senza passare attraverso l’ospedale di Wamba?
Pochissimi o nessuno, sia per le distanze, 400 km da Nairobi, che per i costi insostenibili.
Quante gambe drizzate, quanti occhi riaperti, quante labbra leporine rimesse a nuovo, quante mamme hanno riacquistato speranza attraverso di loro.
Tutto questo fu sempre organizzato e portato avanti da lui con tanta semplicità, dedizione e bontà.
Il Dott. Prandoni non aveva a cuore solo gli ammalati, ma anche l’istituzione stessa dell’ospedale per il quale non mancavano altri tipi di amici: ingegneri, carpentieri, radiologi, meccanici, elettricisti ecc. che venivano pure a dare una mano a risolvere i vari problemi che sorgevano di tanto in tanto.
Direi che, nonostante il carattere che ogni persona può avere, all’ospedale di Wamba c’era un clima di famiglia, di amore vicendevole, di volontà di aiutare i fratelli ammalati nel miglior modo possibile senza risparmiare tempo, tecnologie e mezzi.
Per tutto questo io direi un grande grazie al Dott. Prandoni a nome di tutti noi che l’abbiamo conosciuto, apprezzato ed amato e a nome di tutti coloro che in un modo o in un altro hanno potuto usufruire dell’ospedale di Wamba ricuperando salute e gioia.
L’ospedale di Wamba, la “Rosa del Deserto”, e il nome del Dott. Prandoni non potranno mai essere divisi (un piccolo monumento li dovrebbe immortalare) perché sono nati così e vivranno così.
So che il Dott. Prandoni è molto schivo e restio a sentirsi ricordato, ringraziato e apprezzato, ma penso che l’unico ringraziamento che potrebbe piacergli e renderlo veramente felice sarebbe il sapere che l’ospedale di Wamba continua ad andare avanti bene svolgendo la sua opera medico-caritativa in favore di tutti, ma specialmente dei più bisognosi della zona per la quale è stato sognato, amato e fu realizzato.
P.L.G.
Diani-Ukunda (Kenya)




Cari missionari

Far di ogni erba un fascio

Spettabile rivista,
se uno afferma categoricamente: il popolo italiano è ladro e corrotto, facendo di ogni erba un fascio, come è tipico del nostro maledetto qualunquismo disfattista e antipatriottico, è certo che non verrà mai preso per razzista. Considerate le nostre attitudini a parlarci sempre male addosso, un tale simile verrebbe anzi applaudito e coronato di gloria. Se, viceversa, un altro tale accusa i Rom o altre minoranze etniche di essere ancora più ladre e delinquenti del popolo italiano, costui si vedrà subito arrivare la patente di solenne razzista e dovrà anche subire il pubblico ludibrio di marca chiaramente progressista e anche catto-comunista. In questo secondo e grottesco caso ci troveremo di fronte a un bell’esempio di pensiero unico alternativo (perché mica esiste solo quello attribuito al potere ufficiale, esiste anche e soprattutto quello sinistrorso), tipico di chi sta a sinistra, cattolici degenerati compresi.
Un pensiero unico che puzza tanto di ipocrisia. E, a chi coltiva questo pensiero unico alternativo, vorrei chiedere: sappiamo di Rom e di romeni che vanno a rubare nelle case e nelle ville degli italiani, ma quanti italiani vanno a rubare nelle case degli immigrati romeni o ucraini o moldavi o in quelle degli zingari, per quanto presumibilmente poco ci possa essere da rubare? E non solo gli italiani si ritrovano derubati, ma per giunta guai se si lagnano e si lamentano e se scendono in piazza a manifestare la propria esasperazione! Stando così le cose, sarebbe il caso di organizzare sit-in di protesta davanti alle varie Ong Cattoliche e non solo, che si occupano di immigrazione et similia. Sarebbe ora che le illuminate menti dei catto-progressisti si decidano una volta e per tutte a prendere in considerazione non soltanto i diritti di chi è costretto a fuggire dal proprio Paese, ma anche di chi vive in questo Paese perché ci è nato e vorrebbe continuare a viverci nella maggior sicurezza possibile! Leviamoci dalla testa utopie di integrazione sic et simpliciter. In America, dopo quasi duecento anni dalla fine della guerra di secessione, hanno ancora problemi seri di razzismo tra neri e bianchi. E pretendere, qui da noi, che le persone di etnia Rom si integrino nella società italiana, vuol dire aspettarsi che abbandonino la propria cultura per assimilare la nostra. E questo non sarebbe razzismo? Anche perché, chi di noi italiani si sognerebbe di compiere l’esatto opposto, ossia rinunciare alla nostra, di cultura, per abbracciare quella Rom?
Vorrei tanto che le tribune cattoliche e laiche più focose su questi temi mi rispondano, evitando di svicolare alquanto indecorosamente, allorché, davanti a precise obiezioni dei lettori, si cerca di far passare tali sacrosante osservazioni per miserevoli pretesti, venati, magari, di razzismo.
Distinti saluti.
Giovanni Pirrera
 Agrigento

Non so se quel catto-comunisti e catto-progressisti è indirizzato a noi, ma mi permetto di offrire alcune precisazioni. Dire che in Italia c’è corruzione (Trasparency Inteational ci pone al 67° posto, dopo il Ruanda, nella lista di 178 paesi dai più virtuosi ai più corrotti) e mafia, che ci sono ladri ed evasori, che c’è lo sfruttamento della prostituzione e pedofilia, non è dire che tutti gli italiani sono ladri, corrotti, mafiosi e pedofili. Sarebbe un’ingiusta generalizzazione. Lo stesso deve valere per altri popoli. Che ci siano ladri tra i rom, imbroglioni e trafficanti di persone tra i nigeriani, sfruttatori di manodopera tra i cinesi, non è dire che tutti i rom, i nigeriani e i cinesi sono così. Che ci siano ladri tra i rom, è vero. Ma se i 1.400.000 furti ca. del 2008 fossero tutti fatti dai 160.000 – dati del Viminale – rom stanziati in Italia, significherebbe che ognuno di loro (anche i neonati e quelli già in prigione) ne ha fatti almeno 9 all’anno!

Quando ero in Kenya, mi faceva molto male sentir dire che gli italiani sono tutti mafiosi. È vero che in Kenya, soprattutto a Malindi, ci sono anche italiani mafiosi e drogati e trafficanti di minori e ragazze, ma la stragrande maggioranza degli italiani in quella nazione sono persone oneste e grandi lavoratori, e certo non sono mafiosi gli oltre 700 missionari italiani che là spendono la loro vita. Ma mi dava (e mi dà ancora) fastidio anche la classifica di italiani donnaioli o latin lover (caratterizzazione che pure è normale anche in campagne pubblicitarie su riviste al di sopra di ogni sospetto e, purtroppo, anche ad altri livelli). In Svizzera, la campagna denigratoria dello scorso settembre contro i frontalieri è stata disgustosa, pericolosa e totalmente ingiusta.
Come giustamente lei fa osservare, il processo di integrazione è un fatto molto lento e i pregiudizi sono duri a morire. Il razzismo (o il suo equivalente chiamato tribalismo in Africa) è un virus pericoloso e difficile da curare, che prospera quando si usano generalizzazioni, etichette e schedature invece di nomi e cognomi, quando si parla di masse, gruppi e categorie e non di persone. Ma prospera anche quando la cosiddetta sicurezza diventa il valore principale, perché in nome della stessa si creano gli «altri, i nemici» e invece di dialogare e cornoperare per costruire un mondo migliore, si costruiscono muri, difese, barriere …
Non pensa forse che il modo migliore per avere sicurezza per tutti sia quello di aiutare tutte le persone di buona volontà ad avere una vita decente con un lavoro dignitoso (e non da schiavi o sfruttati) e una  casa che non sia un tugurio sovraffollato, fatiscente, malsano e strapagato a chi lucra sulla povertà altrui? Questo vale per i rom o gli altri extracomunitari, ma vale anche per gli Italiani, e sono tanti, che in questa crisi si trovano senza lavoro, sfrattati e umiliati da un sistema politico ed economico che sembra non aver occhi né orecchie, e tantomeno cuore, per le fasce più deboli e per le famiglie.

Prendersela con le organizzazioni cattoliche e missionarie che danno voce ai Rom e a chi come loro, accusandole di parzialità e anti-italianismo, non è giusto, anche perché è provato che sono proprio queste stesse organizzazioni, Caritas in testa, che stanno dalla parte degli italiani che sono vittime della presente situazione: disoccupati, sfrattati, quelli con il problema non solo della quarta, ma anche della terza settimana. Tra l’altro non è certo zittendo queste organizzazioni che si risolve il problema, anzi.

DIALOGHI DI PACE
DALLA BRIANZA ALLE MARCHE, CUORI CHE
BATTONO PER LA PACE E LA SALVAGUARDIA DEL CREATO
Sembrava un’impresa folle: invitare i turisti in pieno agosto o gli operosi brianzoli in ottobre a dimenticare per una sera i rispettivi svaghi e impegni e predisporsi, invece, all’ascolto di un messaggio del Papa! Eppure proprio questo è avvenuto, in occasione della Giornata per la Salvaguardia del Creato 2010, per la quale la Chiesa italiana sollecitava la riflessione sullo stretto legame esistente fra il rispetto dell’ambiente naturale e la costruzione della pace fra popoli e persone.
Il tema è stato dettato da Benedetto XVI che vi ha dedicato il Messaggio della Giornata Mondiale per la Pace 2010 al tema «Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato».
Approfittando di questa non frequente concomitanza, e considerando che i temi della pace e della salvaguardia ambientale sono propri anche di chi non crede e di chi appartiene a religioni diverse da quella Cristiana Cattolica, si è diffusa oltre le aspettative degli organizzatori la riproposizione dei «Dialoghi di Pace 2010: lettura scenica del Messaggio del Papa» affidata ad attori-lettori le cui voci si incontrano, si incalzano e si accavallano come in un vero e proprio dialogo.
Ideata nella parrocchia Regina Pacis di Cusano Milanino, dove da alcuni anni va in scena in gennaio con crescente successo, l’iniziativa quest’anno è stata replicata anche a Fano, sulla riviera Adriatica, ad Oreno di Vimercate in apertura del tradizionale triduo dedicato a San Francesco, ed a Milano, nel quartiere Corvetto, come momento di riflessione nell’ambito della decennale Festa del Creato e contraltare positivo a cronache poco amiche di chi opera per il bene nella zona.
In tutte le occasioni, a sottolineare il valore civile e non solo religioso dell’iniziativa,c’era la presenza delle amministrazioni pubbliche (anche rappresentate da Sindaci in veste istituzionale) e, sempre, delle tante realtà del volontariato e dell’associazionismo locale e nazionale in ambito missionario e di salvaguardia ambientale (Gruppo Naturalistico della Brianza, Amici del Sidamo, Gruppi di acquisto solidale, AGe…).
È stato bello constatare come, in ogni luogo in cui è stata allestita, l’iniziativa si è arricchita con le specifiche ed originali capacità e sensibilità di chi ha scelto di farla propria: che si trattasse di concertisti affermati ed attori professionisti o di giovani di talento e filodrammatici per passione.
In tutti i casi, grande merito nel successo dell’iniziativa hanno avuto la musica, affidata a formazioni variabili (chitarre soliste, quintetto di fiati blues, trio multietnico di violini e chitarra), e la lettura di poesie dedicate alla natura ed alla relazione dell’uomo con essa e con la dimensione del soprannaturale cui rimanda scritte da dom Helder Camara, il vescovo brasiliano da alcuni definito il Gandhi cattolico o il San Francesco del Novecento. Intermezzi che hanno visualizzato e commentato con la forza espressiva dell’arte i passaggi più significativi di un’elevazione spirituale che si è rivelata tanto attraente per i non credenti quanto coinvolgente e significativa per chi crede… E che vale la pena riproporre anche altrove!
Già ci si prepara per l’edizione 2011 che, accanto al Messaggio del Papa (Libertà religiosa, via per la pace), prevede la lettura di testi di Oscar Romero. Chi volesse approfittare della documentazione che verrà predisposta non ha che da farsi avanti.
Giovanni Guzzi
Vimercate
http://www.parrocchiamilanino.it/scossa_on_line/in_vetrina/dialoghi_pace/dialoghi_pace.htm

POESIA
Gentilissimo Padre, le scrivo perché questa povera vecchia maestra è venuta a conoscenza che una sua ex allieva presta il suo lavoro da anni in Mozambico. I genitori di Chiara, che è nata nel 1978, mi hanno donato degli appunti di viaggio scritti dal papà.
Tra questi ho trovato una poesia di Chiara che ho fatto leggere anche ai miei nipotini.
Questa sua presenza tra mamme e bambini è a prevenzione dalle malattie che più colpiscono il continente africano; mi ha resa orgogliosa e grata a Dio di questa ex alunna.
La invio a Lei che ringrazio per tutto il bene che fate anche attraverso la vostra rivista che ci giunge sempre preziosa!
In fede con Gesù, per Gesù, in Gesù, la mia più grande riconoscenza.
Maria G. Sansone
 Milano
Ecco la poesia di Chiara.
«…c’è un mondo là fuori
che grida in silenzio
le sue ragioni di essere!
Questo mondo
che noi teniamo
ben lontano
dalle nostre vite,
vorrei che un giorno
potesse parlare.
Ho il cuore aperto
dalla gentilezza
di questa gente,
dalla loro dolcezza,
dalla loro frustrazione.
Cerco di contenere
l’emozione
che mi sta travolgendo
come un fiume in piena.
Devo farcela,
non ho il diritto
di mostrare
il mio stato d’animo;
non posso permettermi
di perdere
neanche una lacrima;
ma continuo a tenere
i bambini per mano,
a sorridere
ai loro grandi occhi neri…
Chiara Gargano
Moma, Mozambico

Extra comunitari
Cari Missionari,
a proposito della domanda «Veneto il più duro?» e alla lettera pubblicata sul numero di settembre u.s. che mi è appena arrivato, posso dire che a Modena da circa 8-10  mesi siamo letteralmente «invasi» da extracomunitari che vengono da Verona. Sono aumentati da 3-5 ogni mattina a 8-15, quasi tutti nigeriani, di cui almeno il 50% da Benin City. Ho inserito un deviatore e staccato il campanello, ma loro mi aspettano alla porta).
Insisto che si rivolgano alle parrocchie di residenza perché, non essendo in grado di aiutare tutti, solo le Caritas parrocchiali possono conoscere le reali condizioni di bisogno e disagio di ciascuno di loro. La risposta è che purtroppo dalle parrocchie arriva pochissimo perché (anche qui) sono già da tempo impegnate nell’aiuto delle famiglie e dei «poveri consolidati», modenesi o comunque italiani. Così suonano al campanello dei singoli cittadini perché almeno non vengono cacciati in malo modo né viene chiamato il 112, come invece succede a Verona (così dicono, ma forse a Verona sono invasi da quelli che scappano di Modena!). Certo che se non si arriva «a lavorare meno, ma a lavorare tutti», la situazione non può che peggiorare.
Saluti.
Romano Ognibene
Modena

Dal Brasile
Caro amico!
Sono figlio di emigrati italiani che vivono nel sud del Brasile… scusa i molti errori del mio “maccaronico” italiano, ma credo mi capirai. Lavoro da molti anni in campagna e ho chiesto a una cugina per scrivere questa mia.
Ho conosciuto la vostra bella rivista con un  sacerdote. Mi piace molto leggere e anche scrivere per attaccare legami con la bella Italia, che ancora non ho mai visto. Qui come lì, si piantano vigneti, si fa vino… Sono solo e la solitudine non è facile. Ho già 60 anni e mi passo il tempo a piantare ortaggi, fiori, camminare, leggere, sentire musica e anche dipingere… vede, tengo nel sangue l’Italia.
Vorrei avere degli amici/che in Italia e altri paesi. Vi prego di pubblicare la mia lettera. Si!! Sono pensionato e ho molto tempo anche per aiutare nella chiesa, nella liturgia e catechesi. Mi puoi fare questo piacere? Aspetto di ricevere diverse lettere, mi piace anche tramite lettera conoscere altri paesi…
Vi ringrazio molto. Tanti saluti da un vostro fratello lontano.
Ivano Dal Magro
Brasile
Se qualcuno vuole mettersi in contatto con Ivano, ce lo faccia sapere e foiamo l’indirizzo.

Biodegradabile
Fate felice Madre Terra e i suoi abitanti, avvolgete la vostra bella rivista in materiale biodegradabile o lasciatela… nuda. Qualcuno lo fa già. Saluti da
Isa Monaca
(via email)
Vorrei poterle dire che esaudiremo il suo desiderio immediatamente. Davvero. Ma non è così. Per ora usiamo plastica riciclabile. Se un giorno ci saranno disponibili confezioni biodegradabili per spedizioni postali, le useremo certamente. Quanto al mandare la rivista «nuda» … non è questione di pudore, ma forse non ha mai visto con quanta sollecita premura e garbo le poste trattano le riviste.

Il mio Pakistan
Ciao Paolo (Moiola, ndr),
complimenti, hai fatto un grande lavoro. In Italia per  prima volta qualcuno ha dedicato un intero servizio al «mio Pakistan» (vedi MC 12/2010, pp.49-56). La mia intervista è bellissima. Sarebbe stato meglio scrivere «matrimonio combinato forzato» invece di matrimonio combinato. Il matrimonio combinato è fulcro della società mentre il matrimonio combinato «forzato» sta ostacolando la vita dei giovani pakistani in occidente. Grazie.
Ejaz Ahmad
(via email)

Well done!
Caro P. Ugo,
complimenti. Hai veramente ricavato un articolo coi fiocchi dai miei pensieri scornordinati, un lavoro ben fatto, molto professionale e una bella grafica (vedi MC 11/2010 pp. 10-16). è stato un piacere incontrate te e gli altri missionari della Consolata. L’espereinza mi ha davvero arricchito. In Cristo
Michael van Heerden
 dal Sudafrica (via email)

NOSTRA MADRE TERRA
Da mesi ero preoccupato per l’assenza dalla rivista MC della rubrica in oggetto. Ora con dispiacere e tristezza ho scoperto su MC la probabile causa di tale vuoto. Esprimo la mia condoglianza alla famiglia del dottor Roberto. Spero che tale apprezzata rubrica possa continuare come prima con la dottoressa Rosanna.
Cordialmente.
Sergio Brovelli
(via email)
Come promesso e può vedere in questo stesso numero, «Nostra Madre Terra» è tornata ad avere il suo spazio nella rivista grazie alla dedizione e competenza della dottoressa Rosanna.




Cari missionari

Inesattezze

Caro Direttore,
ho letto il suo editoriale «Golia 2010» sul numero di luglio-agosto di Missioni. Non mi hanno colpito tanto le inesattezze (volute? dovute a disinformazione? Entrambe ipotesi disdicevoli ad un giornalismo irreprensibile come il vostro). [La lettera contiene poi puntualizzazioni su tre punti: l’attacco alla Freedom Flottilla, il giudizio sul ruolo della Turchia e la liberazione di A. Lano].
Questo, ed altro; ma – come dicevo all’inizio – non sono state tanto le inesattezze ad addolorarmi quanto il clima che si sprigiona dall’editoriale che per me ha evocato (spero a torto) una parola inquietante: antisemitismo. Con tutto ciò rinnovo l’espressione della mia immutata ammirazione per i tanti, ottimi servizi della rivista, che da decenni mi porta il mondo in casa. Cordialmente.
F. Aschieri e Vassia Carla
sostenitori da mezzo
secolo delle Missioni della Consolata – Cumiana (TO)

Intervengo con poche righe di risposta alla lettera «Inesattezze», scritta in reazione all’editoriale «Golia 2010», da me firmato in quanto allora direttore editoriale di Missioni Consolata. Vi sono infatti due sottili insinuazioni che non accetto e che mi permetto di segnalare, senza voler fare eccessiva polemica. La prima riguarda la mia presunta malafede. Se avete riscontrato inesattezze, queste non sono state «volute». Anzi, a ben vedere, le inesattezze da voi segnalate altro non sono che interpretazioni diverse dalle mie di fatti che restano documentati negli archivi dei maggiori mezzi di informazione del nostro paese e inteazionali (e su cui si continuerà a discutere all’infinito). Non credo di avere scritto nulla di falso, al massimo, sicuramente, di non condivisibile. Sono dell’idea che il bianco e il nero non sono i colori più adatti a rappresentare una realtà complessa come quella Medio Orientale che è invece fatta di molti grigi. Potremmo restare a discutere per delle ore su Gaza, sul ruolo della Turchia e alla fine continuare a non essere d’accordo. A consolazione di quanto da me scritto va il fatto che, il 29 settembre scorso (quattro mesi dopo i fatti in questione), il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite ha approvato la risoluzione che condanna le forze israeliane per aver violato le leggi inteazionali nel blitz condotto contro la Freedom Flotilla diretta a Gaza (anche se Israele, com’è logico, non accetta questa sentenza).
La seconda insinuazione, più grave, riguarda il mio presunto antisemitismo. Perdonatemi, il Dizionario Garzanti della lingua italiana, definisce l’antisemitismo come «ostilità, intolleranza nei riguardi degli ebrei». Esprimere dissenso e protesta nei confronti della politica del Goveo di Tel Aviv non significa assolutamente voler disprezzare gli ebrei e la loro fede. Ci sono ebrei che dissentono dal modo in cui il governo di Israele tratta la questione palestinese, lo sapete meglio di me. L’equazione «critica a
Israele = antisemitismo» può far comodo ad alcuni, ma non è applicabile a Missioni Consolata.
Ugo Pozzoli

Non Solo
Vacanza

Non ho mai baciato, abbracciato e stretto mani così tanto come in quella vacanza in Colombia durante lo scorso agosto. Se potessi darle un titolo sarebbe: «La vacanza dell’accoglienza», un valore che invece troppo spesso dimentichiamo di coltivare (ed insegnare) nei gesti quotidiani. Quanti volti, quante persone ho incontrato e conosciuto! Quello che mi ha colpito di più è stato il continuo contatto con la gente delle parrocchie di Bocachica e Marialabaja, sempre pronta ad accoglierci: una porta aperta, una sedia offerta e tanti racconti di vita quotidiana. Niente ferma questa gente; né le difficoltà, né la povertà. Sono pronti a donare un sorriso, un aiuto a quelli che hanno meno di loro. Si accontentano semplicemente di un tetto sulla testa. Poi, non importa se dal tetto entra acqua, anzi può essere un segno di grazia, si raccoglie e non si butta. Tutto è un dono. Non chiedono molto, solo di essere ascoltati e di parlare, di stare con loro e trascorrere del tempo nelle loro case. Questi momenti sono, per questo popolo, molto importanti: in qualche modo ci hanno chiesto di condividere la loro vita. Essi, danno molta importanza alle persone: le «cose» da fare possono aspettare. Non c’è premura nei loro incontri, non importa se si fa tardi, c’è sempre tempo per le cose; sono le persone che hanno la priorità. Così, ogni incontro diventa un momento di gioia e una festa.
Ho avuto la fortuna di fare questa vacanza speciale perché ho incontrato la comunità dei Padri della Consolata di Bevera, dove Padre Gianfranco Zintu ha organizzato un viaggio – incontro in Colombia per un piccolo gruppo di giovani (vedi foto sotto). Questa vacanza mi ha fatto apprezzare quello che abbiamo e mi ha fatto riflettere sull’enorme ricchezza che possediamo: «l’umanità», che non fa differenze di religione o di razza. Riscopriamo l’amore che batte dentro il cuore e che tendiamo invece a far tacere a vantaggio della ricchezza materiale!
Wilma
Marialabaja – Colombia
 Agosto 2010




Cari missionari

Ospedale di Wamba
Dopo 40 anni di missione, il medico Silvio Prandoni ha lasciato Wamba e aperto una Casa Famiglia a Mombasa. La diocesi di Maralal è una delle più povere del Kenya e l’attuale vescovo Virgilio Pante – missionario della Consolata – chiede aiuto agli Amici di Wamba per far quadrare i conti dell’ospedale. Con il dott. Prandoni noi abbiamo «fatto miracoli per 40 anni»… Salvo errore, l’Istituto Missioni Consolata finora non ha sostenuto finanziariamente il peso di questa opera grandiosa che versa in gravi difficoltà economiche. In Tanzania gli «Amici di Consolata Ikonda Hospital» affiancano l’Istituto Missioni Consolata di Torino nel sostegno finanziario di quest’opera grandiosa! Con la massima stima.
Associazione
 Amici di Wamba

L’ospedale di Wamba sta a cuore a tutti proprio per il prezioso e insostituibile servizio che offre alle popolazioni dell’area. Su questa rivista ne abbiamo parlato molte volte (non ultima, nel numero di settembre 2010), perché siamo molto vicini a quell’ospedale, anche se – a differenza di quello di Ikonda – non appartiene ai Missionari della Consolata, ma alla diocesi di Maralal. Ne conosco personalmente la qualità e il servizio, non solo perché vi sono stato curato all’inizio della mia esperienza missionaria, ma anche perché vi ho mandato innumerevoli pazienti sempre trattati con grande competenza e amore. Quanto al sostegno, l’Istituto ha sempre dato quanto ha potuto senza fae pubblicità, pur non avendone responsabilità diretta e senza tener conto di quanto i suoi missionari (che pure sono Istituto) hanno fatto (anche solo saldando i conti di molti, moltissimi pazienti insolventi). Gestire un ospedale non è facile, tanto più in Africa, e ancor più in un’area come il distretto Samburu. C’è bisogno di almeno mezzo milione di euro ogni anno. Per questo non servono le polemiche, ma, come ha scritto in una lettera a tutti gli amici dell’ospedale il vescovo mons. Virgilio Pante di Maralal, diretto responsabile e proprietario, occorre «lavorate con gioia e stima reciproca, evitando critiche, confronti, affermazioni inesatte, per non cadere nel protagonismo o forme di gelosie. Sottolineo questa ultima frase, anche se forte … L’ospedale deve continuare e non guardare indietro con rimpianti».
I bisogni sono tanti e c’è spazio per la collaborazione di tutti, rallegrandosi di trovare tante persone diverse e solidali in uno stesso progetto.

Un santino per
Siamo due genitori, molto rassegnati e preoccupati, con una figlia di 7 anni; simpatica, carina e vivace ma affetta da distrofia muscolare grave. Chiediamo un piacere per accontentarla: possiamo avere per posta, qualche santino con immagine sacra del Beato Giuseppe Allamano e della Ss.ma Vergine Consolata. Ne sarebbe tanto, ma tanto contenta. Che tristezza e che sofferenza dà il vedere nostra figlia ridotta in questo stato. Le amichette vengono a trovarla, lei si diverte ed è felice. A sera, dopo cena, prima di portarla a letto, preghiamo insieme la Beata Vergine, che la possa aiutare, consolare e guarire. Lo desideriamo tanto. Qualche volta la vediamo piangere, agitarsi nel sonno per i dolori allucinanti che ha alle deboli e fragili gambe.
In attesa, vi ringraziamo; perdonateci il disturbo. Porgiamo con affetto i nostri saluti. Ciao!
Paolo e Ada Turchetto
 Jesolo (VE)

La vostra sofferenza è la nostra, come nostra è la vostra speranza. Vi abbiamo mandato tutte le immagini a nostra disposizione, ma vi assicuriamo soprattutto la nostra vicinanza nella preghiera, sicuri che anche i lettori faranno catena di preghiera e amore con voi per la vostra piccola.

Missionari
e soldi

Caro Direttore,
mi sono portato sulla spiaggia il numero di luglio-agosto della sua rivista e ho letto con attenzione la lettera del signor Di Cosimo e la risposta che lei ha dato. Entrambe mi sono piaciute. Queste sono le lettere che mi piacciono e le risposte che fanno pensare. Aggiungerei che siete sempre contro Israele, ma non conoscendo bene la materia mi astengo da giudizi. Quello che desidero dirle è che mi sento sempre meno unito alla chiesa cattolica. Il fatto è che non esce uno scandalo finanziario nel quale non sia coinvolto sempre un qualche monsignore. Ne ho l’anima piena!
E perché lo dico a lei, aggiungendole magari un peso sullo stomaco invece che una soddisfazione? Perché voi missionari siete l’ultima frontiera della stima che ho per la chiesa cattolica. Dopo, il nulla. è per questo che ho provato veramente un senso di schifo quando ho conosciuto la vicenda del costruttore Anemone e dei suoi soci in imbrogli, tra i quali un certo padre bancomat, in quanto teneva nella sua cassaforte quattro milioni di euro in contanti, non ho capito se per attuare corruzioni oppure per trafficare questi soldi in vista di utili. Cosa vengo a scoprire? Che appartiene ad un ordine missionario come il vostro. […] Io spero tanto che voi Missionari della Consolata siate diversi, ma perché non indicate come impiegate i soldi di cui alla pagina dove sono descritte le forme di aiuto che vi si possono dare (cf. pag. 67, ndr)? I lasciti, siano essi appartamenti, ville, castelli, sottoscala, come li utilizzate? Sarebbe bello poterlo sapere e sicuramente vi farebbe onore, poiché non vi reputo disonesti e perché, come le ho detto in apertura, voi Missionari siete l’ultima linea di trincea che mi tiene ancora legato a questa chiesa dalla quale un disamore costante e progressivo mi allontana.
Con affetto. Sentivo proprio il bisogno di sfogarmi!
Alfredo Nagorìa
Torino

Ho omesso un bel pezzo della sua lettera, ma l’idea è chiara. Chi le risponde ora non è lo stesso direttore di allora, ma siamo in continuità. Commento qui solo sul tema soldi. Dall’inizio della Chiesa i soldi sono stati un fattore di rischio e corruzione. Anania e Saffira negli Atti degli Apostoli, sono il primo esempio. I più grandi monasteri hanno cominciato il loro declino quando sono diventati troppo ricchi. L’Allamano, nostro fondatore, ha sempre insistito che i suoi missionari fossero «canali e non conche» per quanto riguarda i soldi. Ma quante tentazioni!
Penso alla sofferenza dei confratelli di padre bancomat, messi alla gogna con lui. Ho visto con i miei occhi le loro bellissime missioni in Tanzania, prova che i soldi dei benefattori arrivavano a destinazione e che forse padre bancomat si è fatto prendere la mano proprio per amore delle missioni. Ho conosciuto missionari che si sono lasciati ingannare e strumentalizzare da presunti benefattori nella speranza di avere le somme necessarie per un ospedale, una scuola, una chiesa. Ingannati e usati in buona fede! E di falsi benefattori è pieno il mondo missionario. Approfittano del bisogno, della reale povertà, delle difficoltà che i missionari affrontano per far quadrare i conti, e, a volte, anche della loro inesperienza. La speranza di avere grosse somme risolutive da grandi benefattori è come la tentazione di giocare al lotto. Se vincessi i milioni del superenalotto, avrei già in mente una lista infinita di emergenze da risolvere e di bene da fare. Ma, mi viene un dubbio: se poi la tentazione (del potere dei soldi!) fosse troppo grande? Forse è meglio continuare ad arrancare con i 2, 5, 10 o 50 euro che i benefattori normali mandano con fedeltà e amore pur nelle loro difficoltà.
Dare conto sulla rivista di come spendiamo i soldi che riceviamo. Fin dalla sua fondazione questa rivista portava la lista delle offerte ricevute. Poi, negli anni ‘90, si è dovuto rinunciare a quell’informazione per le troppe complicazioni che insorgevano. Quello che le posso dire è questo: tutte le offerte che riceviamo vengono versate integralmente al missionario indicato, senza neppure caricare le spese che i nostri uffici si sobbarcano come personale, rivista, spese postali e/o bancarie – è per questo motivo che abbiamo cominciato a suggerire 5 euro extra per la rivista e spese postali!
Lasciti o altre donazioni (il cui fine non viene specificato) servono per la vita stessa dell’istituto: formazione di nuovi missionari, cure dei malati, assistenza agli anziani (che sono sempre di più), gestione di tutte le attività necessarie ad un’istituzione complessa come la nostra. Il bilancio dell’istituto è strettamente monitorato e, adempiuti gli obblighi di legge civile e canonica, non si può capitalizzare. L’utile di ogni anno (magro in questi anni di crisi) viene ridistribuito alle varie regioni dell’istituto per progetti specifici: fame, sviluppo, ospedali, scuole, progetti di riconciliazione e pace, giovani, rifugiati, catechesi, chiese …
Le assicuro che se noi avessimo attività apostoliche in Italia invece che nelle aree più povere del mondo, non avremmo bisogno di chiedere continuamente soldi ai nostri benefattori e potremmo vivere del nostro ministero. È l’amore per la gente, per i poveri, i piccoli e gli emarginati di questo mondo che ci rende mendicanti. È vero che qui in Italia oggi ci troviamo a vivere in grandi strutture nate in altri tempi, che danno un’impressione di ricchezza. I rapidi cambiamenti di questi anni, la diminuzione delle vocazioni (in Europa) e l’invecchiamento del personale, hanno costretto anche gli istituti missionari a prendere decisioni, a volte confuse, contraddittorie e non oculate. E poi non è così facile disfarsi di edifici carichi di storia. Per avere la certezza che i soldi mandati in missione non sono finiti nelle sue tasche, basterebbe andare ad accogliere un missionario che rientra dalla missione dopo 20/30/50/ 60 anni di servizio e vedere cosa si porta a casa: non un container (come fanno gli impiegati delle ambasciate o delle grandi compagnie), ma una sola valigia (perché ormai non ha più la forza di portae due) con pochi indumenti e tanti ricordi. E spesso, dalle sue mani sono passati miliardi per i poveri del mondo.
Certo, ci sono casi di cattivo uso del denaro da parte di missionari. Il denaro può essere come una droga e ha il potere di corrompere. Ma un caso, dieci casi non dovrebbero scoraggiare e indurre a generalizzare. Molti dei nostri lettori hanno visto con i loro occhi cosa han fatto i missionari con i soldi ricevuti dai benefattori e questo dovrebbe bastare a togliere i dubbi o almeno a non accusare tutta la categoria quando succedono degli scandali. D’altra parte, va considerato che neppure i missionari si stancano di benefattori che mandano uno e poi spendono tre per andare a vedere se il loro uno è stato speso bene. E neppure cacciano fuori di casa chi va a trovarli e sta due mesi a sbafo, (trasporto e traduzioni comprese) sempre a causa di quell’uno donato una volta.

Sbilanciati?

Egregio Direttore, Caro Dio (esageròma nen),
noto che ogni tanto qualche lettore, come il sig. Di Cosimo, si lamenta del vostro «fare politica», ossia schierarvi a sinistra. Ciò non dovrebbe stupire, chi ha un po’ di memoria e nozioni storiche sa che il grande dono divino dei sacerdoti e missionari è condizionato dallo «zeigest», lo spirito del tempo; per cui, in epoca risorgimentale alcuni preti progressisti combatterono in armi a fianco dell’esercito piemontese contro l’impero austroungarico, sotto il fascismo altri religiosi rivoluzionari fecero in talare il saluto romano, altri ancora inquieti seminaristi, a Rivoli nel «formidabile ‘68», accolsero il card. Pellegrino in visita al grido di «Mao Tze Tung» per poi diventare preti operai.
è difficile riempire un mensile di cose interessanti e voi, pur non dicendo tutta la verità, ve la cavate egregiamente. Non ho mai letto però quanto sia pesato nel mancato o ritardato sviluppo democratico del II e III mondo l’influenza nefasta del comunismo sovietico, che durante la guerra fredda combatteva con ogni mezzo per esportare la rivoluzione violenta sovvenzionando e incitando le masse povere. Avete parole di condanna per Israele, ma non per Hamas, organizzazione terroristica, che nel suo statuto dichiara di volere la distruzione fisica dello stato ebraico. Non dite nulla sull’Egitto che anch’esso blocca il suo tratto di frontiera con la striscia di Gaza da cui potrebbero transitare gli aiuti per i palestinesi, giunti con le mani semipacifiche. Tenete una rubrica con un titolo da religione animista primordiale «nostra madre terra», ma la terra è stata creata da Dio per l’uomo non perché gli fosse madre (c’è già la Consolata), ma come un dono prezioso da sfruttare al meglio. Vi opponete al nucleare facendo leva sulla paura provocata dall’insicurezza, ma nessuna fonte energetica è sicura e non inquinante, si tratta di scegliere con la testa e non con i sentimenti. Infine permettetemi un piccolo aneddoto su s. Giovanni Bosco, coevo dell’Allamano, a chi gli chiedeva come mai non prendesse posizione in quei tempi pericolosi e mutevoli che visse, rispose che attuava la politica del Padre Nostro. Sante parole.
Vittorio Mortarotti
 Savigliano (CN)

Quando il mio predecessore scrisse che «Dio rimane il vero direttore editoriale» non voleva certo garantirsi il marchio dell’infallibilità o darsi un’autorevolezza indebita. Ricordava solo che questa rivista non è una rivista di politica né di economia né di sociologia, né di destra né di sinistra, ma una rivista diretta da missionari che cercano di avere l’amore di Dio al centro della loro vita, del loro interesse e del loro modo di vedere la storia. Non potremmo fare diversamente: Dio deve essere al centro. Ma proprio per questo vediamo la realtà da sbilanciati verso i poveri, i deboli, gli emarginati e gli oppressi, dovunque essi siano. E diventiamo allergici a ingiustizie e bugie.
A rischio di antisemitismo? è vero che come rivista, Angela Lano in testa, siamo sulla lista nera di siti sionisti, ma scrivere della situazione degli ordinari palestinesi discriminati e oppressi e resi prigionieri di una situazione che ha rafforzato gli estremisti di Hamas e si trascina ormai da troppi anni, non è esaltare Hamas. ed essere tristi ed anche delusi perché uno stato di diritto come Israele si comporta come si comporta lasciandosi ricattare dai suoi estremisti, non è essere antisionisti. Quando Israele è nato, ci aveva fatto sognare cose ben diverse da quelle che vediamo oggi. Ricorda il film Exodus? Ma tra quello e il muro che oggi taglia e divide la Terra Santa ci sono anni luce. Intanto la gente normale soffre e gli estremismi prosperano nell’impotenza (o calcolo?) internazionale.
Lei, signor Vittorio, menziona poi diversi altri sbilanciamenti di cui noi saremmo colpevoli. Circa il non aver mai parlato contro i danni del comunismo, il mio predecessore, p. Gabriele Soldati, con cui ho lavorato agli inizi degli anni ‘80, si rivolterebbe nella tomba, lui che era un anticomunista militante.
La rubrica «nostra madre terra». Legga questa citazione: «Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra, | la quale ne sustenta et governa, | et produce diversi fructi con coloriti flori et herba». L’autore è al di sopra di ogni sospetto: san Francesco.
Esprimere dubbi sul nucleare è legittimo, e non sponsorizziamo acriticamente altre fonti alternative, soprattutto quando corrono il rischio di finire nelle mani di enti che hanno solo fine di lucro e sono fuori dal controllo della gente comune (come si vuol fare con l’acqua).

Come una
goccia

Egregio Direttore,
sono un vostro “vecchio” lettore. Mi permetto di scriverVi per dirVi che l’articolo “Come una goccia di rugiada” (del Settembre 2010) è stato bello, uno dei più emozionanti che mi possa ricordare. Le scuole italiane dovrebbero adottarlo… Ancora grazie per il vostro lavoro.
Alfio T.
Cervia (Ra)




Cari missionari

I conti della pace

Riflettendo sulla lettera «Armi e bandiere» (Missioni Consolata dicembre 2009), e senza entrare nel merito dell’opportunità o meno dell’acquisto degli F-35, ho pensato di mettere a disposizione la mia competenza professionale (faccio il contabile) per chiarire un po’ la questione dei posti di lavoro che verrebbero creati dall’assemblaggio a Cameri dei suddetti aerei: 300 posti a fronte di un investimento complessivo stimato in 15 miliardi di euro. Facendo la divisione risulta che ogni posto di lavoro verrebbe a costare allo Stato (cioè ai contribuenti) 50 milioni di euro. Ipotizzando che il lavoro per la produzione dei caccia si protragga per un ventennio, è possibile fare un confronto con il costo di un posto di lavoro «pacifico» per lo stesso periodo di tempo Dunque, calcolando (ad abundantiam) in 50 mila euro il costo del lavoro medio annuo (comprensivo di stipendio, imposte e contributi) di un operaio specializzato, o impiegato, o insegnante ecc., e moltiplican- dolo per venti, si ottiene un costo totale per vent’anni di 1 milione di euro, vale a dire un cinquantesimo del costo per ogni unità lavorativa nel programma F-35. Detto in altri termini, con quel che costa un posto di lavoro nello stabilimento di Cameri, si possono creare 50 posti di lavoro nelle industrie civili, nel commercio, nella sanità, nella scuola. In totale 15.000 posti di lavoro invece di 400. Riservati 300 di questi posti di lavoro “pacifici” ai mancati lavoratori di Cameri – al Sig. Pietro perché possa pagare le rate del mutuo, all’Ing. Giorgio appena divenuto papà, al Dott. Giuseppe perché possa mantenere la famiglia, ecc. – con i costi rimanenti si petrebbe permettere a 14.700 altre persone attualmente disoccupate di provvedere agli stessi bisogni.
Tengo a precisare, a scanso di equivoci, che l’abissale differenza nel costo dei posti di lavoro (50 a 1, come detto), non dipende assolutamente da un’altrettanto grande differenza nelle retribuzioni dei lavoratori. Il fatto è che nel programma F-35 l’incidenza del costo del lavoro è minima, il grosso dei costi essendo costituito dalle spese per lo sviluppo (o l’acquisto dagli Usa) delle sofisticatissime tecnologie del nuovo caccia.
Viceversa, il costo per creare un posto di lavoro nell’istruzione o nella sanità equivale in pratica alla sola retribuzione lorda del lavoratore in quanto non si tratterebbe di costruire nuove scuole ed ospedali (che pure costerebbero assai meno dei cacciabombardieri) ma solo di assegnare personale aggiuntivo alle strutture già esistenti, quasi tutte sofferenti per carenza di organico (si veda per la scuola la riforma Gelmini).
Se poi si volessero investire i 15 miliardi di euro nell’edilizia popolare, calcolando in 100 mila euro il costo di costruzione di un dignitoso appartamento, risulta che se ne potrebbero costruire ben 150 mila! A quante persone si darebbe lavoro costruendo 150 mila alloggi? E a quante si darebbe un tetto?

Giorgio Parodi
Asti

Anche la «ragioneria della pace» può essere utile a chiarire i vari aspetti di un problema complesso come quello degli armamenti. Ringraziamo il lettore che ha provato a dare fondamento economico a una discussione che si era finora mantenuta su un piano prettamente etico .

Grazie Antonella

Carissimi amici,
Gesù dice che non c’è amore più grande che dare la vita per coloro che si amano. Così vi racconto di una giovane madre, che ho aiutato a crescere da quando aveva otto anni.
Ho ricevuto tre messaggini dal Kenya. Il primo era del 2 dicembre scorso: «Ho bisogno di preghiere, sono malata. La settimana scorsa mi han detto che ho un cancro del sangue. Sono incinta di sette mesi. Per favore, domanda a Dio che mi dia ancora tre mesi». Il secondo, del 9 febbraio di quest’anno, era scritto dal marito: «Sembra che la fine sia vicina. Dio è stato buono. Abbiamo una bellissima figlia nell’incubatore. I dottori qui non possono fare di più». L’hanno chiamata Olivia. L’11 febbraio è arrivato il terzo: «Mi dispiace. Il Signore ha chiamato Seya questa mattina». In questi tre messaggini si sintetizza il grandissimo atto di amore di Antonella Seya, giovane mamma turkana che avrebbe compiuto 28 anni il prossimo settembre.
Antonella ha dato la sua vita per la figlia che portava in grembo. Non ha scelto l’aborto, che certamente le hanno proposto. Ha dato tutto. Un grandissimo dono, da chi non aveva altro che la sua vita da donare.
Antonella, piccola donna africana, la tua morte non ha fatto notizia, neanche nel tuo paese, il Kenya. Con l’appoggio di molti amici avevo investito tanto su di te, per aiutarti a diventare un’infermiera. Economicamente è stato un povero investimento davvero, visto che hai lavorato solo per pochi anni. Ma sono fiero di te, perché hai dato una grandissima prova d’amore. Sei stata l’investimento più bello che abbia mai fatto.
Approfitto di queste poche righe per ringraziare tutti coloro che han letto la storia pubblicata sulla rivista dello scorso dicembre, «Colei-che-ride non ride più», e hanno dato una mano. Il vostro aiuto è investito specialmente in educazione, perché con l’educazione si combatte la povertà e si rendono persone soggetto del proprio riscatto. Se poi, donando un po’ di affetto, si aiutano anche delle persone a fare delle scelte d’amore, allora l’investimento è davvero perfetto. Grazie di cuore. Se altri vogliono unirsi e dare una mano a far studiare tanti ragazzi e giovani, sono i benvenuti, perché questo servizio ha tempi lunghi e i bisogni sono tanti. Grazie, asante sana (kiswahili), ace olen (samburu).

p. Gigi Anataloni
Torino

I missionari alla Rai: spegnete il gossip,
riaccendete l’informazione

La Federazione Stampa Missionaria Italiana (Fesmi), che raduna una quarantina di testate per un totale di 500mila copie mensili, interviene contro l’intenzione della Rai di chiudere 5 sedi estere.

A meno di clamorosi ripensamenti, la Rai sta per chiudere cinque sedi di corrispondenza nel mondo: Beirut, Il Cairo, Nairobi, New Delhi e Buenos Aires. Cinque su quindici in totale. Stiamo parlando di entrambe le sedi africane, dell’unica in America Latina e di quella in un paese così importante, non solo politicamente ed economicamente, come l’India, oltre che di quella di un paese-simbolo come il Libano.
Se andasse in porto, sarebbe una decisione grave, contraddittoria e miope. In una parola: controproducente.
Come Federazione della Stampa Missionaria Italiana, la condanniamo con forza, auspicando che la dirigenza Rai torni sui suoi passi, anche alla luce delle proteste non solo nostre, ma di molte altre realtà della società civile che in queste ore si stanno levando.
L’ipotesi di chiudere un terzo delle sedi di corrispondenza nel mondo è grave, perché va a colpire il Sud del mondo, quella parte di pianeta già oggi marginale nel circuito informativo italiano. È grave perché ispirata a criteri economicisti che, come tali, dovrebbero essere estranei a un «servizio pubblico» che voglia qualificarsi davvero come tale. Se un problema di compatibilità economica esiste, non è spegnendo l’informazione sul mondo che si risolve ma, semmai, vigilando sugli esosi compensi alle «star» del piccolo schermo o sugli sprechi cui la Rai ci abituato da troppo tempo.
È una decisione contraddittoria, perché la sede di Nairobi è stata aperta – anche per effetto di un tenace «pressing» delle riviste missionarie – soltanto due anni fa.
Ancora: qual è il senso della chiusura di una sede come l’Egitto, cruciale per monitorare l’area mediterranea e, in parte, il mondo islamico? Che senso avrebbe abbandonare oggi l’India, da tutti indicata come uno dei paesi-chiave del presente e del futuro? Appare chiaro che siamo di fronte a una scelta – se attuata – per nulla lungimirante e, alla distanza, destinata a ricadute negative. Controproducente, appunto. Il contrario di quell’efficienza che tanto viene sbandierata.
Contro la deriva di un’informazione Tv sempre più avvitata su stessa, ci eravamo pronunciati nel febbraio 2006 con l’appello «Notizie, non gossip», pubblicato da tutte le riviste della Fesmi: chiedevamo alla Rai una risposta alla scarsità di notizie da intere aree del mondo. Nel maggio 2007, dopo l’apertura della sede di Nairobi, avevamo salutato con favore l’evento: «Se la Rai ha aperto una sede in Africa, molto lo si deve alla mobilitazione del mondo missionario», aveva detto in quell’occasione Enzo Nucci, corrispondente Rai da Nairobi. Speravamo fosse l’inizio di un impegno serio. Per dar voce a popoli, culture, paesi senza voce. Purtroppo – duole constatarlo – non è andata così.
Con tutta evidenza, il problema dei tagli delle sedi estere è solo la punta di un iceberg: la questione riguarda la sensibilità complessiva per i fatti del mondo, le vicende dei continenti solo apparentemente «lontani». Non vorremmo che la scelta di dismettere le sedi straniere confermasse una volontà di ritirarsi nel guscio di un’informazione che per baricentro abbia l’Italia o l’Europa.
Un servizio pubblico che voglia dirsi realmente tale dovrebbe puntare a rendere i suoi telespettatori autentici «cittadini del mondo». Non è certo questa la strada. Chiediamo ai vertici di Viale Mazzini un tempestivo e radicale ripensamento.

FESMI (Federazione Stampa
Missionaria Italiana)