Cari Missionari

Pagare le tasse

Caro Direttore,
lo spirito critico credo sia fondamentale per non accettare supinamente le
varie sfaccettature di un pensiero che è sempre molto personale nel vissuto
esistenziale di un cristiano o laico, in una società piena di contraddizioni.

Non ho nulla che mi divida nella risposta che hai voluto
dedicare al mio più che amichevole intervento (cf. MC 4/2014, pag. 7). Io,
politico e amministratore sindaco per 10 anni, e, per altri 5, consigliere
provinciale a Como, tante volte mi espongo a giudizi e valutazioni molto
settoriali di pensiero anche se supportati da esperienze di vita. D’altronde,
se il pensiero sul come e sul perché non avesse sbocchi verso i nostri
fratelli, ci renderemmo colpevoli di un grave furto culturale e di crescita
consapevole. È per questo che cerco di leggere e documentarmi su pensieri molte
volte contradditori di Martini, Biffi, Tettamanzi, Kung, Augias e Mancuso,
riviste come Civiltà cattolica, Il Regno e tante altre, come la vostra, sempre
gradita.

Mercoledì 2 Aprile, su La Stampa di Torino, nel «Buongiorno:
Palpeggia e Patteggia» del giornalista Massimo Gramellini (che apprezzo molto),
ho avuto modo di condividere senza soluzione di dubbio quanto la società
attuale sia consapevolmente e coscientemente peggiorata facendo affogare (col
vil danaro) i principi che ogni cristiano dovrebbe difendere, anche con le
unghie, contro una società sempre più laica e insensibile alla povertà che come
la peste si espande nei paesi cosiddetti ricchi. Nella nostra Italia un
cittadino su tre ha bisogno di sostegno.

Il nostro impegno nel combattere queste emergenze sociali
si fa di giorno in giorno sempre più difficile e improbo, nella speranza che il
futuro, senza scomodare il medioevo e il rinascimento, ci porti nella
consapevolezza di credere nell’amicizia, nella carità e nell’amore verso il
creato.

Il mio sogno nei confronti della Chiesa?

Che un confessore non chieda più dei peccati di sesso, ma
che faccia una domanda secca: «Paghi le tasse oppure frodi?».

Il motivo di questa richiesta evangelica è molto semplice
per un cristiano credente. Nel primo caso (dei «peccati di sesso», ndr) è
lui stesso il soggetto implicato, con la sua coscienza, la sua morale e, se
vogliamo, una ristretta cerchia di persone.

Nel secondo caso, «frode all’erario» (vedi gli scritti
evangelici «date a Cesare quel che è di Cesare e date a Dio quel che è di Dio»),
è tutta una società che viene coinvolta in un processo che ci rende colpevoli
della povertà di tanti nostri fratelli, responsabilità inaudita.

La Chiesa è fratea, la Chiesa è amore, la Chiesa è
perdono, etc. La Chiesa, come principio fondamentale, dovrebbe insegnare anche
la strada della rettitudine e non del contagio come spesso viene ripetuto da
tanti cristiani «con i soldi compri anche il Paradiso». È spiacevolissimo.

Giovanni
Besana
18/04/2014

Caro Giovanni,
grazie del commento. Don Paolo Farinella ha dedicato pagine illuminanti su
questa rivista a quel «date a Cesare» (vedi la serie di otto articoli
pubblicati da marzo a novembre 2013). La Chiesa nel suo insegnamento non ha mai
condonato la frode, anche fiscale, benché senza la forza applicata ad altri
peccati. Il Catechismo della Chiesa cattolica, pubblicato nel 1992, non ha un
capitolo specifico sul tema, ma usa comunque parole forti e chiare in due brevi
interventi. Nel primo, spiegando il quarto comandamento «onora il padre e la
madre», al numero 2240 è scritto: «La sottomissione all’autorità e la
corresponsabilità nel bene comune comportano l’esigenza morale del versamento
delle imposte, dell’esercizio del diritto di voto, della difesa del paese:
Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo il tributo; a chi le
tasse le tasse; a chi il timore il timore; a chi il rispetto, il rispetto (Rm
13,7 )».

Il secondo intervento
è nel contesto del settimo comandamento «non rubare», al numero 2409:  «Ogni modo di prendere e di tenere
ingiustamente i beni del prossimo, anche se non è in contrasto con le
disposizioni della legge civile, è contrario al settimo comandamento. Così,
tenere deliberatamente cose avute in prestito o oggetti smarriti; commettere
frode nel commercio; pagare salari ingiusti; alzare i prezzi, speculando
sull’ignoranza o sul bisogno altrui. Sono pure moralmente illeciti: la
speculazione, con la quale si agisce per far artificiosamente variare la stima
dei beni, in vista di trae un vantaggio a danno di altri; la corruzione, con
la quale si svia il giudizio di coloro che devono prendere decisioni in base al
diritto; l’appropriazione e l’uso privato dei beni sociali di un’impresa; i
lavori eseguiti male, la frode fiscale, la contraffazione di assegni e di
fatture, le spese eccessive, lo sperpero. Arrecare volontariamente un danno
alle proprietà private o pubbliche è contrario alla legge morale ed esige il
risarcimento».

C’è di che riflettere
e agire, anche in questa nostra bella Italia.


Sesta volta in Etiopia

Un nuovo viaggio all’insegna del volontariato (il sesto),
l’ho realizzato nel mese di marzo 2014, presso la missione di Modjo, gestita
dal missionario della Consolata padre Paolo Angheben, da 36 anni uomo di Dio in
terra di Etiopia. Ciò che ho visto e vissuto è stato per l’ennesima volta una
catarsi umana, cristiana e psicologica. A Modjo, grazie all’Associazione «Altri
Orizzonti» di cui sono vicepresidente, è stata realizzata e inaugurata la sala
mensa e dormitorio della scuola matea che servirà per 180 bambini. Con
l’aiuto di tutta la nostra comunità di Borgo Valsugana (Tn) e del territorio,
in questi anni sono state realizzate molte opere: la scuola di Daka Bora, il
ponte «Della Stella, della Speranza, della Solidarietà» nel villaggio di Minne,
la costruzione di una biblioteca a Debre Selam, ove 5.000 ragazzi possono
studiare, scambiarsi libri e imparare l’uso del computer e di Inteet, la
chiesetta intitolata all’Emmanuele, la realizzazione del campo sportivo di
metri 90 x 40. I fondi raccolti sono serviti anche per pagare gli stipendi dei
40 maestri per 1400 bambini delle scuole dei villaggi di Weragu e Minne. La
riconoscenza delle comunità locali è grande. L’ho sperimentata negli incontri
quotidiani e nella gioia dei bambini.

Ho fatto una nuova e interessante esperienza con venti
giovani cattolici della missione, di cui nove ragazze. Alcuni lavorano come
catechisti o infermieri. Assieme a fratel Vincenzo Clerici ci siamo recati
presso la casa di accoglienza ad Addis Abeba retta da tre suore missionarie del
Movimento Contemplativo Padre De Foucauld di Cuneo, che ospita dai 15 ai 20
rifiutati dalla società. Quanto amore, dedizione, generosità, professionalità
da parte di queste suore. Queste persone si sentono amate, protette e, malgrado
la grande sofferenza, sorridono sempre. Unitamente a padre Paolo sono ritornato
a visitare il vicariato di Meki retto da un Vescovo etiope e ho rivisto con
piacere padre Giovanni Monti.  Anche in
quell’occasione hanno ricordato la figura sublime del compianto cugino
missionario padre De Marchi Giovanni. Sono ritornato per alcuni giorni assieme
al Fratel Vincenzo, (che ringrazio sentitamente per i viaggi effettuati) nel
villaggio di Weragu dove ho lasciato il mio cuore e la mia mente. Ringrazio il
padre Denys Revello, da Cuneo, per la sua ospitalità e gentilezza. Ho rivisto
con estremo piacere quei luoghi a me cari, specialmente i bambini con cui ho
sempre avuto un rapporto speciale. Il nuovo progetto dell’instancabile padre
Paolo è la costruzione di un Centro multifunzionale nel Villaggio di Alemtena
(regione Wereda). Una zona semidesertica senza strade, elettricità, mezzi di
trasporto e acqua potabile. La regione è il deserto per la sanità: vi sono solo
due piccoli centri con una sola infermiera ciascuno, per servire una
popolazione di 450.000 persone.

A nome dei missionari e della gente incontrata in
Etiopia, ancora un grazie a tutti coloro che ci hanno aiutato fino a ora.
Grazie di cuore anche a tutti coloro che vorranno continuare a sostenerci in
questa avventura per aiutare donne, uomini a bambini a vivere con più dignità.
Il Signore e la Madonna vi proteggano sempre.

Giovanni De Marchi
Borgo Valsugana (Tn)

risponde il Direttore




Cari Missionari

Ancora tasse

Precedenti
puntate:
MC 7/2014 pag. 5 e
MC 10/2014 pag. 6.

1. Mi
riferisco al «pagare le tasse» del mese di luglio per una brevissima
osservazione. Il Vangelo riporta «Date a Cesare quello che è di Cesare» e non
(tutto) quello che egli pretende! Questo perché poi mi chiedo: «Come vengono
impiegati i nostri soldi?».

Saverio
Compostella
email, 18/07/2014

2. Ritengo che
un’ottima replica ai mugugni di Giovanni Besana sia la prolusione letta dal
cardinal Angelo Bagnasco, in qualità di Presidente della Conferenza Episcopale
Italiana, lo scorso 22 settembre al Consiglio permanente della Conferenza
stessa.

«L’occupazione difficile e il fisco predatorio, la
burocrazia asfissiante e la paura di fare passi sbagliati, tutto concorre a non
creare lavoro nei vari settori del pubblico e del privato, non stimola
l’inventiva, non trattiene i giovani nel paese».

Ritengo che l’aggettivo usato dal Cardinale, cioè «predatorio»,
calzi a pennello per il fisco locale, a cominciare da quello che riscuote tasse
come la Tasi sulla prima casa: questa nuova imposta infatti ha confermato il
peggio dell’Ici di Amato e dell’Imu di
Monti, togliendo in più quel pochissimo di buono che avevano, ossia la
detrazione, che consentiva almeno ai possessori di case più modeste – ovvero
quelle dalla rendita catastale più bassa – e a chi ha figli a carico, di
limitare e, in non pochi casi, di annullare l’importo dovuto al Comune di
residenza.

Consapevoli della porcheria fatta dal Goveo nazionale,
alcuni sindaci (i primi sono stati quelli di Ragusa, Positano e Olbia…) hanno
deciso l’azzeramento totale della Tasi sulla prima casa. Spero che, magari dopo
aver letto le parole del Presidente dei Vescovi Italiani – che certo non è un
estremista né uno che ha mai incitato chicchessia alla rivolta fiscale – gli
altri sindaci optino per questa soluzione invece di continuare a fare i Robin
Hood alla rovescia (togliere a chi ha di meno per dare a chi ha già tanto…).

Grazie per l’attenzione.

Mario
Pace
email, 26/09/2014

3.Caro padre
Gigi,
noto che la mia provocazione produce riflessioni condivise oppure critiche e mi
fa un immenso piacere.

L’affermazione era: «Il confessore non chieda più dei
peccati di sesso, ma che faccia una domanda secca: “paghi le tasse oppure
frodi?”» e mi è venuta dopo aver affrontato con un prete il discorso della
confessione. La sua tesi è stata: «Caro Giovanni, nella tua Brianza non c’è
nessun penitente che confessi un peccato di sesso e tanto meno di altre cose
molto importanti, tipo sul come si fanno i soldi; siamo tornati al punto delle
prime confessioni: “Ho rubato la marmellata alla mamma”». Questa è una cosa
molto seria che tutta la Chiesa deve approfondire.

Non mi sono permesso di affermare che la coscienza del
penitente debba rifiutare e non confessare i suoi pruriti sessuali, ma che è il
confessore oppure il padre spirituale che deve far capire l’importanza per un
cristiano della lealtà nei confronti dello stato e non nascondersi in
dietrologie senza costrutto in difesa dei propri egoismi. Mi sembra che se si
approfondissero seriamente questi concetti non avrei da rimproverarmi nessuna
deficienza al mio pensiero verso i più bisognosi delle nostre comunità
credenti.

Chi si appella alla Chiesa dando del «ladro» a chi è impegnato
sacrificando tempo e denaro per una società più giusta, con quale «misericordia»
si approccia al suo essere cristiano? Non tutti (quelli che si impegnano
nella politica
) hanno le mani nel sacco. Questi sono discorsi da bar.

Se ci sono tanti, troppi poveri nella nostra bella Italia
e nel mondo, la colpa non può essere data solo ai 150mila super ricchi che
detengono un patrimonio che equivale a quanto possiede la restante popolazione
mondiale. Ciascuno si deve prendere le sue responsabilità. Sono le nostre
azioni che ci renderanno colpevoli al di là di ogni giustificazione. Contano i
nostri comportamenti: dobbiamo saldare un debito e non ci facciamo fare la
fattura e paghiamo in nero perché soltanto così possiamo avere uno sconto e non
pagare l’Iva… Succede con il dentista, l’imbianchino, l’idraulico, il
carrozziere, il garagista e tanti altri professionisti e artigiani, che ci
prestiamo ad arricchire, pur di risparmiare.

E allora tutti siamo colpevoli! Essere cristiani è, come
dice Papa Francesco, credere al «valore della povertà», il che certamente non è
facile come non è facile accettare la frase evangelica: «è più facile che un cammello entri
nella cruna di un ago che un ricco in paradiso». Chi ha orecchi da intendere,
intenda.

Un caro saluto,

Giovanni
Besana
email, 4/10/2014

4.Alla luce
dei nuovi interventi letti sulla rivista di ottobre sottolineo che si tratta di
quanto chiede Cesare, non se ha diritto di chiedere. Anche gli schiavi davano
il lavoro a Cesare, ma molti hanno pensato che fosse troppo! Ultima
osservazione: quando vengono scoperti i grandi evasori (cantanti, corridori,
industriali…) lo stato si accorda sul 20% del dovuto. Che sia questo quanto
lo stesso stato pensa sia il giusto da pagare? Grazie dell’attenzione e
cordiali saluti.

Saverio
Compostella
email, 15/10/2014

Cari
amici,
credo che potremmo continuare all’infinito a parlare di tasse, ciascuno con le
sue buone ragioni, perché la situazione italiana è davvero complicata, con
situazioni di palese ingiustizia e corruzione diffusa. Non entro nei
particolari, penso basti già quanto ricordato dai nostri lettori. Due punti
vanno però salvati: non tutti gli italiani sono evasori, anche se la tentazione
di farlo è grande; e non tutti gli amministratori pubblici o i politici sono
dei corrotti o corruttori. La complessità della situazione, e i perversi
meccanismi economici nazionali e inteazionali, non aiutano certo. Secondo
fonti autorevoli, la prima causa d’ingiustizia (e quindi della grande
tassazione) è il debito pubblico, diventato ingestibile non per l’ammontare dei
soldi effettivamente usati, ma per il diabolico sistema di calcolo degli
interessi manovrati da grandi speculatori fuori da ogni controllo. Fino a
quando tutta la politica non si darà una mossa per riportare la finanza sotto
il controllo dei governi, i governi stessi (e le nazioni che rappresentano)
resteranno alla mercé di questi sistemi economici ormai sovranazionali, mentre
i normali cittadini saranno dissanguati dalle tasse. Gli stessi politici, poi,
devono smetterla di legiferare tenendo più conto degli indici di gradimento che
del vero bene comune, soprattutto dei giovani e di chi (troppi!) ormai vive
sotto il livello di povertà.

Grazie
per la partecipazione a questo dibattito, che, per ora, finisce qui.

 
Prostata

Posso dire la mia? Sono un lettore antico di MC, da
trent’anni con l’Associazione «S.O.S. Tanzania» che riunisce un centinaio di
famiglie e offre qualche aiuto con l’invio di farmaci e prodotti medicali
all’ospedale di Ikonda ed alla missione di Iringa. Fatta questa premessa che
nulla ha a che vedere con il tema in oggetto vorrei innanzi tutto
complimentarmi con la D.sa Rosanna Novara Topino per la professionalità, la
dotta, sintetica e chiara esposizione nel trattare la patologia in questione.

Sono anche il responsabile dell’Associazione «Missione
Vita» che opera presso l’Ospedale di Rivoli nel reparto di urologia diretto dal
Dott. Maurizio Bellina. Offriamo sostegno umano e psicologico, coadiuvati dalla
psicologa D.sa Piera Rosso, ai pazienti che, colpiti da neoplasia, sono
sottoposti a prostatectomia radicale. Sento in modo particolare il tema della
sofferenza e nel caso specifico il problema della prevenzione.

Quanti sono abbonati e leggono le riviste di medicina? Le
nostre Asl quanto investono nella prevenzione?

Ho la profonda convinzione che ogni atto, ogni mezzo
d’informazione, ogni pubblicazione laica o cattolica che abbia come obiettivo
la salute delle persone sia legittimo e non deve scandalizzare nessuno.

Mi pare di ricordare che Gesù proprio attraverso le
guarigioni del corpo arrivava a convertire i cuori. Forse che il primo pensiero
dei nostri missionari è limitato alla sola Parola di Dio? Non mi risulta. Per
quel poco che conosco, li ho visti impegnati a curare e alleviare prima di ogni
cosa le sofferenze umane. Lasciamo quindi che questa nostra rivista, letta da
migliaia di persone, offra questa opportunità e se qualche lettore è in
disaccordo pazienza, sicuramente ci saranno molti consensi a partire dal
sottoscritto.

Vincenzo
Misitano
email, 13/10/2014

La risposta alla lettera riguardo il servizio sulla
Prostata pubblicata sulla rivista Missioni Consolata di ottobre 2014 a pag. 5
mi induce al seguente commento: «Caro Direttore, la Sua risposta è
assolutamente condivisibile e azzeccata. Complimenti!».

Egizia
Angheben
email, 17/10/2014

Unità dei Cristiani

(Che onore) ricevere una risposta ampia e articolata da
un dotto biblista, che, in base allo stile, potrebbe addirittura essere il
mitico Don Farinella (vedi MC 8-9/2014, p. 5, L’eterno riposo). Allora,
siccome l’appetito vien mangiando, mi permetto di sottoporre altri due dubbi da
dilettante, senza alcuna fretta per la risposta.

Unità dei cristiani: il processo, più che lento, mi sembra cerimoniale, perché
obiettivamente penso sia dura parlare di unità con chi, in via preventiva, si è
proclamato infallibile. E poi, è sacrosanto chiedere il reciproco rispetto dove
si convive da secoli, superando rapporti tempestosi (per esempio Calvino a
Ginevra non era tenero né coi cattolici né con gli altri protestanti, e aveva
sempre il fiammifero in mano, che neanche l’inquisizione…). Mi sembra poco
gentile lanciarsi in «missioni» in terre dove non ci sono cattolici ma ci sono
chiese di cui accettiamo i sacramenti, come quella ortodossa. Insomma, Giovanni
Paolo II, lanciando la missione in Russia, mi è sembrato più polacco che
papa…

Un dubbio fantascientifico: guardando il cielo stellato, uno dubita che sia un po’
presuntuoso pensare che tutta questa meraviglia sia stata creata per dare un
panorama ai rissosi abitanti di un piccolo pianeta, e che da qualche parte
dovrebbero esserci degli altri esseri raziocinanti. Se è così, anche loro hanno
fatto la trafila del peccato originale? E hanno avuto un Salvatore? E come la
mettiamo con la Trinità e l’unigenito figlio di Dio del nostro Credo?

Claudio
Bellavista
email, 20/08/2014

Onorato
di essere paragonato all’impareggiabile Don Farinella. Per la breve risposta è
bastato l’aiuto di un solido dizionario biblico. Quanto alle altre due
questioni, provo solo ad accennare dei punti di riflessione.

Unità dei cristiani

L’esperienza
della divisione è antica quanto la Chiesa, come documentano le lettere di s.
Paolo e i testi attribuiti a s. Giovanni. Probabilmente il capitolo 17 del
Vangelo di Giovanni, dove Gesù prega per l’unità, è già una rilettura che la
Chiesa, ferita dalle divisioni che esistevano nel suo seno verso la fine del
primo secolo, ha fatto della Parola del Signore per ricordarsi che l’unità non è
frutto semplicemente degli sforzi umani ma è dono di Dio e risposta a una
precisa volontà del Signore.

Nella
situazione attuale la preghiera per l’unità non è fatta perché tutti entrino a
far parte della Chiesa cattolica e le altre Chiese spariscano. Si prega invece
perché tutti ci si converta al progetto di unità come è voluto da Dio.

Non
c’è qualcuno che sia a posto e qualcun altro che debba tornare nell’ovile
(gestito da chi si sente nel giusto). Bene o male un po’ tutti siamo ancora
fuori dell’ovile di Cristo o siamo in viaggio per raggiungerlo in modo definitivo.
L’unità, che è dono di Gesù, è molto di più di quanto si possa realizzare in
questo mondo e richiede conversione da tutti, noi cattolici compresi.

Allo
stesso tempo è importante già qui e ora che tutte le Chiese compiano passi
insieme verso l’unità. Benvenute allora tutte le iniziative di preghiera, di
dialogo e di collaborazione che aiutano a conoscersi meglio, a chiarire vecchi
pregiudizi, ad abbattere incomprensioni accumulate negli anni, ad aumentare il
rispetto reciproco, a lottare insieme per un mondo più giusto, per la pace e la
riconciliazione, e a testimoniare con più verità e umiltà il Vangelo.

L’unità
non è unificazione e appiattimento, ma conversione a Dio, apertura al suo
Regno. Grazie a Dio, nessuna Chiesa, neanche la nostra Cattolica, può dire di
essere al 100% la perfetta realizzazione in terra del progetto di Dio. In
questo cammino ha senso il rispetto e l’accoglienza reciproca delle varie
Chiese anche nelle nazioni dove una Chiesa per secoli ha creduto di avere un
quasi-monopolio. Nessuna Chiesa dovrebbe dire: «Questo pezzo di mondo
appartiene in esclusiva a me». Come in
Italia la Chiesa cattolica accoglie oggi – grazie al nuovo spirito del Concilio
Vaticano II – la presenza della Chiesa ortodossa russa o di altre Chiese, così
anche in Russia c’è ampio spazio per l’azione pastorale e missionaria dei
Cattolici. Questo perché ci sono significative minoranze cattoliche nel paese,
e poi non tutti i russi sono Ortodossi e l’eredità di quasi un secolo di
ateismo comunista ha lasciato ampio spazio per l’annuncio missionario.

Extraterrestri

Dubbio
fantascientifico o fantareligioso. A dir la verità mi sono trovato anch’io a
riflettere su quello che lei scrive, vista l’immensità dell’universo, il numero
delle galassie e la possibilità di tantissimi altri pianeti abitabili come la
Terra (secondo la Nasa sarebbero almeno 40 miliardi solo nella nostra
galassia). Ma, considerate le distanze in milioni di anni luce, dubito che
avremo mai la possibilità di verificare se esistano o meno altri «uomini» o
esseri «razionali». Il mio fantasticare mi ha fatto considerare che, se
esistono, devono essere anche loro «a immagine e somiglianza» di Dio, se
davvero si accetta che Dio è creatore dell’universo. Dovrebbero quindi avere
delle caratteristiche molto simili alle nostre, se non dal punto di vista
fisico, almeno dal punto di vista spirituale: capaci di intendere e volere, di
pensare e creare, di amare e fare scelte nella libertà, di gustare la bellezza
e di giornire, ridere e stare insieme. In ogni caso, non potrebbero essere più «mostri»
di quanto non siamo già noi con i nostri simili! Se poi abbiano fatto o no
l’esperienza del peccato come ribellione a Dio e quella della redenzione per
tornare a Lui… è davvero una pura speculazione che non porta da alcuna parte.

Probabilmente
la risposta a queste domande sarà
una delle sorprese che ci attendono in Paradiso.

Dio e Mammona

Mi permetto una domanda su cui forse avrà già detto,
ridetto e stradetto: «Ma la Chiesa nel corso dei secoli non si è resa complice
di un sistema immorale d’economia, mentre Cristo aveva detto “o Dio o mammona”?».
Probabilmente un san Francesco resta un mito che in pochi sono in grado di
imitare. Anche ai suoi tempi c’è stato chi nella Chiesa ha preferito stare con
il mondo.

Emanuela
email, 15/08/2014

Provo
a essere telegrafico. Molti uomini e donne che si dicono «di chiesa», e anche
ecclesiastici, si sono lasciati corrompere dal denaro nei secoli, a cominciare
dal famoso
Anania degli Atti degli Apostoli (5,1-11). Anche oggi ci sono Cristiani solo di
battesimo che in realtà sono servi del denaro e della ricchezza. Un esempio per
tutti, visto che lo citiamo più avanti (p. 78), è il re Leopoldo II del Belgio,
«buon cattolico», che non si fece scrupolo di sfruttare ignobilmente i
Congolesi. Non è raro poi che uomini di Chiesa, religiosi, preti e vescovi,
siano coinvolti in scandali economici. Il punto è: cosa si intende per Chiesa?
Mi pare troppo facile dire Chiesa e intendere Vaticano o Gerarchia (vescovi),
come se tutti i mali venissero da là, dimenticando che la Chiesa siamo tutti
noi, uomini e donne battezzati. Noi che con le nostre mille contraddizioni,
peccati e fatiche cerchiamo di camminare verso il Cielo, più o meno coscienti
di aver continuamente bisogno di conversione e spesso incapaci di vincere la
tentazione del denaro.

Risponde il Direttore




Cari Missionari

Ogni promessa è
debito

Sono
Paolo Farinella, il prete di Genova che in questi anni ha tenuto la rubrica
biblica «Così sta scritto» e che i lettori hanno avuto la pazienza di seguire,
mi pare con qualche profitto. Vi avevo promesso di riprendere in primavera, ma
non sono in grado di mantenere la parola. Ho qualche problema di salute che mi
porta via molto tempo in giro per ospedali e non riesco più, per ora, a seguire
gli impegni di scrittura che esigono calma, meditazione, ricerca e studio.
Chiedo ai lettori di MC di avere ancora un po’di pazienza che non sarà delusa,
se Dio lo concederà. Per la città di Genova, infatti, sto preparando un «corso
biblico» sulla formazione della Bibbia (storia del testo) con lettura ed
esegesi delle parti più importanti. Se la Direzione di MC è d’accordo, vorrei
condividere il lavoro con i lettori. Penso che si possa partire con questo
nuovo progetto dal mese di gennaio del 2015, come dire dopo domani. Prima non è
possibile. Chiedo scusa, ma penso che sia meglio un tempo di silenzio e di
fatica, e fare bene ciò deve essere fatto, piuttosto che fare in fretta e
abborracciare. In attesa di rivederci presto su queste pagine, un caro e
affettuoso abbraccio a tutte le lettrici e a tutti i lettori, ovunque essi
siano. Con affetto,

Paolo Farinella, prete
10/4/2014

I non cristiani si
salvano? (2)

Ho
letto la sua risposta (MC aprile 2014, p. 6) e non la condivido tanto.
Probabilmente ho bisogno di più umiltà nell’accettare la realtà e il mistero.
Ma non riesco a far combaciare le diverse verità sull’argomento inferno. Forse
sono vittima d’insegnamenti sbagliati, di retaggi duri a morire nei fedeli, ma
le dirò che il racconto di un esorcismo (da un libro che racconta di fatti
del 1978
), dove un’anima dannata sotto comando risponde che «tante anime
vanno all’inferno perché fanno svogliatamente il loro dovere, si intiepidiscono
e poi…», mi ha colpito.

Poi
sono andata a leggere le indicazioni della Lumen Gentium, al n.14 che
lei non ha citato. Lì, a proposito dei «fedeli cattolici», è scritto che: «Perciò
non possono salvarsi quegli uomini, i quali, pur non ignorando che la Chiesa
cattolica è stata fondata da Dio per mezzo di Gesù Cristo come necessaria, non
vorranno entrare in essa o in essa perseverare. […] Non si salva, però, anche
se incorporato alla Chiesa, colui che, non perseverando nella carità, rimane sì
in seno alla Chiesa col “corpo”, ma non col “cuore”. Si ricordino bene tutti i
figli della Chiesa che la loro privilegiata condizione non va ascritta ai loro
meriti, ma a una speciale grazia di Cristo; per cui, se non vi corrispondono
col pensiero, con le parole e con le opere, non solo non si salveranno, ma anzi
saranno più severamente giudicati». Buona Santa Pasqua

Piccola figlia della Luce
11/4/2014

Premetto che con la
lettrice abbiamo scambiato diverse email, e in questa pagina è stato
sintetizzato in poche righe (lo spazio è tiranno) il punto essenziale del nostro
dialogo. Rimane aperto un secondo punto,
su cui toeremo nel prossimo numero, a Dio piacendo.

Ho anche omesso il
titolo del libro da cui la lettrice ha tratto la testimonianza di un’anima
dannata, non perché il sottoscritto non creda all’esistenza del diavolo, ma
perché, a mio parere, molte di queste storie – su cui speculano quel tipo di
pubblicazioni – non riflettono il sano insegnamento della Chiesa e fanno
sensazionalismo e terrorismo spirituale. Forse qualcuno pensa che si debba
essere cristiani per paura. Io preferisco pensare che lo siamo per amore.

Nella mia risposta
precedente sottolineavo due punti: 1. Tutti gli uomini sono salvi per volere di
Dio, che ha mandato il suo Figlio Gesù proprio per questo. 2. Ogni uomo è
immagine di Dio e risponde a questo dono nella misura in cui vive una vita
retta secondo coscienza (anche se non conosce il messaggio cristiano).

Con questo non ho
voluto dire che «nessuno va all’inferno» e non sono entrato in merito alla vita
di chi si dichiara cristiano, ma da cristiano non vive. Neppure ho toccato
l’argomento dei non cristiani che, pur conoscendolo, rifiutano apertamente e
coscientemente il Vangelo. Concordo pienamente con il testo della Lumen Gentium
al n. 14. L’essere cristiano non è una questione di etichetta e il battesimo
non è un’assicurazione. È invece una vita vissuta nella libera accettazione e
pratica di un dono di amore.

Come già detto, anche
chi non ha mai conosciuto Gesù ha la capacità «umana» di relazionarsi con Dio e
vivere una vita degna del suo Creatore.

La situazione,
invece, è ben diversa per chi, pur sapendo, rifiuta, si oppone o addirittura
combatte sia Gesù che la comunità dei suoi discepoli e testimoni (vedi
l’articolo di pag. 63 dove si distingue bene tra religione e fondamentalismo).
Lo stesso vale per chi, pur dichiarandosi cristiano, non pratica affatto e vive
un cristianesimo di forma e facciata, ma non di sostanza.

È vero: «Tutti sono
salvati in Cristo», ma non tutti si salvano. Si è salvati, sì, ma il vivere da
salvati è una scelta, una risposta libera a un atto di amore. È entrare in
relazione e accettare l’incontro con Dio in Gesù Cristo con una risposta libera
e responsabile, non di un momento, ma di una vita. Chi coscientemente non
accetta o rifiuta Gesù, si autoesclude.

Però non si può
essere cristiani per paura. Gesù ci ha rivelato Dio come Amore, gioia e vita;
un Dio che si interessa dell’uomo, che lo cerca, che è misericordia e
tenerezza; un Dio che si commuove come una madre e ci ha dato un solo
comandamento: «Amate Dio e amatevi come io vi ho amato». Questo è il vero culto
che onora Dio, l’amore vicendevole. E dove c’è Amore non c’è posto per la
paura.

Ospedale di Sololo

Le scrivo a nome del gruppo missionario di Manta, diocesi
di Saluzzo (Cuneo), che da anni ha come attività principale quella di sostenere
l’ospedale di Sololo nel Nord del Kenya ai confini con l’Etiopia. Cerchiamo di
essere utili operando su più fronti. Da un lato, organizziamo interventi
tecnici, che hanno lo scopo di rendere più funzionale l’ospedale, riducendone
contemporaneamente i costi di gestione, dall’altra ci impegniamo, in
particolare nella zona del saluzzese, a raccogliere fondi che poi inviamo alla
Diocesi di Marsabit come aiuto alla ristrutturazione dell’ospedale e alle spese
della pediatria e della mateità. In questo periodo, i missionari di Sololo
sono un giovane sacerdote fidei donum rumeno e tre suore keniane,
dell’ordine francescano di San Giuseppe. Oltre a loro, c’è un chirurgo, di
origine burundese ma cittadino italiano, unico medico dell’ospedale che conta
circa 90 posti letto.

Quest’anno la diocesi di Marsabit (Kenya) compie
cinquant’anni. Mezzo secolo speso con e per la gente, dai Samburu ai Borana,
dai Rendille ai Gabbra, dai Turkana a tutti gli altri. Un anno dopo, nel 1965,
nasceva la missione di Sololo voluta dal vescovo di allora monsignor Carlo
Cavallera (missionario della Consolata di Centallo).
I primi missionari vivevano sotto una tenda. Piano piano, la missione si
ingrandì e con esso il piccolo dispensario costruito dal vescovo.

Grazie anche al lavoro di preti e suore Comboniani, che
succedettero ai missionari della Consolata, furono costruiti la General Ward,
la mateità con la sala operatoria, l’isolamento, gli ambulatori e il
laboratorio analisi, la farmacia, e anche la cucina, l’officina e la
falegnameria.

Lentamente, l’ospedale St. Anthony of Padua è
diventato il miglior ospedale della zona, una delle più povere a cerniera tra
il Nord Kenya e il Sud dell’Etiopia. Amministrato dal 2012 dalla suora
francescana, sister Judith Bomett, l’ospedale ha 90 posti letto, un medico
chirurgo e circa 35 dipendenti.

Due anni fa, grazie alla Quaresima di Frateità,
l’ospedale poté dare avvio all’iniziativa «Madre Maria», per pagare le cure
alle donne in gravidanza e alle partorienti. Da allora il numero delle nascite
in ospedale è in continua crescita.

Da amministratrice attenta, ma soprattutto da missionaria
che dedica tutta se stessa ai poveri, sister Judith si è resa conto da subito
della necessità di porre mano alla ristrutturazione dell’ospedale, che mostra i
suoi anni. Partiti tre anni con la mateità, abbaimo poi aiutato la
ristrutturazione del reparto di medicina generale con pediatria e chirurgia. In
questo 2014 vogliamo sostenere il rinnovamento del reparto accettazione e
pronto soccorso e attrezzarlo con il laboratorio analisi per offrire un
supporto diagnostico al medico. La richiesta della suora, accettata
dall’Ufficio Missionario Diocesano di Saluzzo su suggerimento del nostro
gruppo, è stata proposta a tutta la diocesi nella terza settimana della
Quaresima di Frateità 2014.

Grazie a nome del gruppo missionario.

Ines Mussetto
Manta (Cn)
www.gruppomissionariosololohospital.it

risponde il Direttore




Cari Missionari

Beato l’uomo castigato?

Il dossier «Giustizia riparativa», per quanto lungo e
articolato non dice alcune cose che a mio modesto avviso sarebbe stato meglio
dire.

1 – Ammesso che i carcerati
«effettivamente pericolosi» siano il 20% del totale non mi pare opportuno
definire «piccola» una percentuale così. Un conto è chiarire che la gran parte
della popolazione carceraria è costituita da persone che meritano più rispetto,
più credito, più fiducia, un altro è dire che la minoranza è esigua.

2 – Nella Bibbia punizione,
castigo, espiazione e giudizio non sono parolacce. Il Dio che castiga non è in
contraddizione col Dio che ama, che perdona, che salva: «Beato l’uomo che tu
castighi Signore», recita il Salmo 93, che può essere tradotto anche con «Beato
l’uomo che tu istruisci Signore». Qual è la traduzione giusta? Sono giuste
entrambe, perché l’originale greco paideuo può essere tradotto con
castigo, punisco, ma anche con: educo, ammaestro, istruisco, addestro. […] Come
facciamo a dire che nella Bibbia Dio non punisce? Se Dio vuole castigare,
purificare, decontaminare, […] chi siamo noi per contestarglielo? […] Chi siamo
noi per dire che «non sappiamo cos’è la giustizia», come se la Parola di Dio
fosse incomprensibile, come se l’insegnamento della Chiesa fosse roba alla
portata di una piccola élite? […].

3 – Gesù nel Vangelo non
parla mai del castigo e del giudizio di Dio come di sovrastrutture create dagli
uomini, ma come di atti di giustizia, di amore e di solidarietà con chi è stato
angariato, ferito, umiliato. E, quando parla di pentimento, di contrizione, di
cilicio (cfr. Matteo 11, 21-26), non ne parla mai come di optional e
neppure come di residui di religiosità gretta e antiquata. I castighi di Dio
sono sempre retti, equi, perfetti, ineccepibili. Se gli uomini non li
riconoscono come tali vuol dire che sono ancora prigionieri del loro orgoglio,
della loro arroganza, della loro superbia.

4 – Se non è bello fare di
tutta l’erba un fascio con i carcerati, non è giusto farlo per i luoghi di
detenzione. […] ci sono esempi di professionalità, di abnegazione, di
eccellenza. […] Che senso ha dunque dire che il carcere non serve e bisogna
abolirlo? Bisogna fare in modo invece che tutti i luoghi di rieducazione […]
raggiungano i livelli di eccellenza che finora solo alcuni hanno raggiunto […].

5 – Ormai del ritornello «ce
lo chiede l’Europa» ne abbiamo fin sopra i capelli, chi vuol fare
europersuasione deve specificare nome e cognome di chi brontola, minaccia,
tuona e sanziona. Dopo quello che è accaduto in questi ultimi anni solo una
persona molto disattenta, molto disinformata o molto in malafede può continuare
a equivocare tra la sacrosanta aspirazione a un’Europa pacificata, unita, equa,
solidale e l’Europa delle grandi speculazioni bancarie camuffate sotto le
spoglie del rigore, del risanamento, dell’efficienza, del consolidamento
dell’Euro. Non basta lamentare che 29 miliardi di euro in dieci anni sono
troppi per un sistema penitenziario come il nostro, bisogna intervenire laddove
vi sono stati abusi, sprechi, malaffare, clientelismo e corruzione. […]

Francesco Rondina
Email, 21/02/2014
Caro sig. Rondina,

la ringraziamo per la
sua lettera e ci scusiamo per averla dovuta tagliare. Speriamo di aver lasciato
le parti sostanziali delle sue obiezioni, alle quali è impossibile rispondere
se non rimandando a una rilettura del dossier e ai libri lì citati. Qui
abbozziamo solo qualche spunto di riflessione seguendo la numerazione da lei
usata.

1- L’aggettivo
«piccola» nasce da una reazione al pensiero che il corrispettivo 80% di
detenuti non pericolosi, circa 50mila persone tenute in carcere, senza una
reale necessità, in condizioni disumanizzanti, sia una quantità decisamente
«grande». Non diciamo che gran parte dei carcerati meritino più rispetto,
diciamo di più: che tutti i carcerati ne hanno diritto (il diritto non si
merita, si ha per il solo fatto di esistere), a prescindere dai loro delitti.

2 e 3- Non è il luogo
questo per una «disputa biblica». Ciascuno può citare versetti o capitoli
interi della Scrittura per avvalorare la propria posizione (addirittura Satana
lo fa in Lc 4). Noi facciamo solo due brevi esempi (sperando di non fare come
Satana). Gesù in Mt 5,38 dice: «Avete inteso che fu detto: “Occhio per occhio e
dente per dente”; ma io vi dico di non oppporvi al malvagio; anzi…»; e in Lc
23,34: «Padre, perdonali». Inoltre, se volessimo credere a un Dio che punisce,
sarebbe Lui a farlo, non l’uomo. Il «pentimento» – o per lo meno la libera
disponibilità a rimettersi in gioco – da parte del reo è necessario per l’avvio
di una pratica di giustizia riparativa. Il pentimento quindi non è escluso,
anzi, la giustizia riparativa promuove la possibilità di un pentimento
autentico, che sia un atto libero e responsabile, non un atto indotto dalla
costrizione, dalla paura della punizione, o dal premio sperato (come è tipico
della giustizia retributiva-punitiva).

4- Nel dossier non si
dice che il carcere non serve e che va abolito, anzi, a pagina 39 viene
affermato: «Chi è pericoloso deve essere separato», aggiungendo poi che «la
separazione dovrebbe essere mirata a prevenire l’effettiva pericolosità. Non è
logico, né utile, ricorrere al carcere anche per chi non lo è. Nei confronti di
chi è pericoloso, la limitazione della libertà di movimento deve però essere
modellata caso per caso, e non deve essere accompagnata dalla limitazione, o
addirittura esclusione, delle altre libertà fondamentali che non comportino
pericoli per la società: il diritto allo spazio vitale, alla salute,
all’affettività, all’informazione, al lavoro, all’istruzione».

5- La corte di
Strasburgo, cui probabilmente si riferisce, e della cui condanna parliamo a
pagina 34 del dossier, è un organo del Consiglio d’Europa – e non dell’Unione
Europea – che vigila sui diritti umani. Ogni istituzione o organizzazione, e
ogni loro atto, sono ovviamente contestabili. Alcune volte però possono offrire
un’occasione per crescere nel rispetto della dignità umana.

Luca Lorusso


Leggibilità

Finalmente! Avete dunque capito dopo anni che tutte
quelle lettere piccole e i terribili sfondi colorati rendevano illeggibile la
bella rivista! Alla buon ora, hurrà! Poi via con gli sfondi che rendono
difficile la lettura. Ma perché non si può fare sempre i bei leggibili sfondi
bianchi? Che mistero c’è? Economico? Artistico? Voglia di non fare i normali ed
essere per forza creativi? Semplicità è bellezza. Corpo 11 e sfondo bianco. Un
vostro «vecchio» lettore ed ammiratore

Alfio
Tassinari
email 28/02/2014

Caro Direttore,

congratulazioni per il vostro sforzo per ingrandire il
corpo del testo della pregiata Rivista. Mi azzardo a darle la mia in tre punti:

1. Missioni Consolata è «rivista missionaria della
famiglia» come dice il sottotitolo. Ora nelle nostre famiglie chi legge la
rivista sono quelli che abbisognano di inforcare gli occhiali, per cui un corpo
leggermente più grande nel testo sarà molto apprezzato.

2. Gli articoli di Missioni Consolata sono in gran parte,
e giustamente, ad argomento unico di poche pagine, eccetto il Dossier, per cui
caratteri diversi e corpo diverso non tolgono nulla all’unità del tema, «la
missione», della rivista, anzi possono enfatizzae l’argomento.

3. Ho notato che nel n. 3/14 della rivista compare un
articolo sulla cerimonia di nozze in Corea del Sud in cui, forse per la prima
volta da tanti anni, la rivista sacrifica il testo per le foto. Forse è questa
una gradita risposta alla sincera e benevola curiosità dei lettori.

Mi permetto di dirle che questo numero 3/14 l’ho letto di
un fiato, mentre trovavo fatica a leggere i numeri precedenti, e di porgere a
lei e tutti i suoi collaboratori le più belle felicitazioni di buon lavoro,
conscio che portare avanti una rivista prettamente missionaria e renderla di
interesse a lettori, che possono spigolare per mezzo di Inteet su tutti i
campi, non è facile. Ma pure rimane in tutti la soddisfazione di leggere
qualcosa che si ha tra mano e che si sente più consono di tutto quello che si
può trovare «on line».

P.
A. Giordano
email 25/02/2014

Il corpo 11 va decisamente bene: si legge con facilità,
non si perde tempo a decifrare, volendo si legge «a colpo d’occhio». Ho dimenticato di premettere che ho 15 lustri, ma che
comunque con gli occhiali e in buona luce ci vedo benissimo! E che comunque gli esperti siete voi. Grazie e buon
lavoro a tutti!

Paola
Andolfi
email 14/03/2014

Diversi lettori ci hanno scritto rispondendo
alla domanda circa il carattere da usare nella rivista. Qui ne riportiamo solo
alcuni. Il consenso sui caratteri più leggibili è unanime e ci incoraggia a
continuare nel miglioramento della qualità delle rivista, e non solo dal punto
di vista grafico. Grazie a tutti voi.

Eritrea
Caro padre Gigi,
ho letto con piacere e interesse la serie di articoli
apparsi sulla tua bellissima rivista che parlano dell’Eritrea. Forse non sai
che mia moglie ed io siamo nati in Eritrea, lei ad Asmara e io a Massaua. Solo
dopo la guerra siamo andati a vivere in Kenya dove ci siamo conosciuti. Ed è
anche per questo che seguo con attenzione ciò che succede in quel paese ora
sconvolto dalla follia di un dittatore. Speriamo che un giorno la situazione
possa cambiare in meglio e che il popolo eritreo possa avere una vita
tranquilla e serena.
La speranza, purtroppo, è un po’ debole perché nessuno ha
interesse ad aiutare il popolo eritreo, così come sta succedendo per altre
parti dell’Africa. Basta vedere la guerra full scale che si sta
consumando tra vari paesi che ben conosciamo: Uganda, Ruanda, Congo, Zaire,
Zambia. Burundi, ecc. Se ne parla pochissimo!
Kenya Juu
(W
il Kenya)!

Augusto
Vezzaro
email 10/3/2014

Un grazie e una
poesia

Caro padre,

pur con ritardo desidero ringraziare per le tre parole
augurali per il 2014: gioia, bellezza, audacia. Non è semplice
attivarle, viverle e onorarle perché la quotidianità presenta tanti intoppi e
tante sofferenze, ma ci provo. A tale proposito ho dedicato la composizione che
allego a Matteo, figlio di un amico, che il 2 marzo compirà il suo primo anno
di esistenza; c’è la felicità per una nuova vita, c’è la celebrazione del gioco
come forma d’intesa interpersonale e di scoperta della realtà, e c’è l’invito a
vivere relazioni in cui si è orgogliosi l’uno dell’altro. Trovo tante analogie
con l’impegno dei missionari per tutelare e valorizzare la vita, impegno che, a
mio parere, rappresenta una delle espressioni del cristianesimo. Mi farebbe
piacere che il testo fosse pubblicato per onorare tutti coloro che, a partire
dai missionari, cercano di difendere il grande valore della vita.

A Matteo

Auguri a te, Matteo,
stupenda creatura,
in occasione del tuo primo compleanno!

La tua presenza ci dà gioia e felicità,
moltiplica le energie,
rende lievi le fatiche,
ci interpella sul cammino, mai concluso,
dell’essere
pienamente uomini.

Quando giochiamo insieme,
è come se ci trovassimo
per “strada”
e celebrassimo
il nostro incontro:
quel che tu sei
e quel che siamo noi
si compongono
come accordo di una sonata
e rifulgono
come una goccia di rugiada.

Quando ci rallegriamo
l’un l’altro
è come se ci
comprendessimo
misteriosamente
e per magia
diventassimo leggeri
come acrobati sul trapezio.

Ci libriamo nel cielo
e ci immergiamo
nelle profondità degli
abissi marini
per scoprire tanti mondi,
così siamo orgogliosi,
a vicenda,
delle nostre magnifiche
vite.

Milva Capoia
Torino 23/02/2014

Risponde il Direttore




Cari Missionari

IL SEGNO DEI CRISTIANI

Egregio Padre,
sovente mi chiedo perché il segno dei cristiani debba ricordare la croce e non
la risurrezione, visto che, come dice Paolo di Tarso, «se Cristo non è
risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra
fede» (1Cor 15,14); non solo, ma la risurrezione include in ogni caso anche la
morte. Dopo due millenni di cristianesimo possibile che non si sia affrontato
l’argomento, al di là delle speculazioni sui primi cristiani? Da un po’ di
tempo quando entro in chiesa mi segno dicendo: «Nel nome del Padre che ha
risuscitato il Figlio per mezzo dello Spirito Santo. Amen». Gradirei un suo
parere in proposito. Grazie.

Vincenzo
Palumbo
Moncalieri (TO)

Caro
Vincenzo,
trovo molto interessante la sua domanda. Credo che la risposta non stia tanto
nella modifica delle parole quanto nella comprensione dei significati nascosti
in quell’umile segno cui siamo così abituati. Due i livelli da considerare: le
parole e il segno.

Le parole.
L’espressione si trova in Mt 28,19: «Battezzandoli nel nome del Padre del
Figlio e dello Spirito Santo». È messa in bocca a Gesù stesso e riflette
certamente il modo di battezzare della comunità cristiana primitiva. Le parole «nel
nome» indicano un rapporto personale, una relazione con qualcuno vivo. Nella
Bibbia il nome è la persona. E certo ricorda la scena di Mosè che chiede a Dio
il suo nome (Es 3,13-14). Conoscere il nome di qualcuno o dare il nome è molto
più della banalizzazione burocratica a cui siamo abituati oggi, quando il nome
diventa una cifra in un computer. È invece entrare in un rapporto personale di
amicizia e di famigliarità. In questo caso è entrare nella comunità trinitaria,
Padre, Figlio e Spirito. Pronunciare quindi queste parole ha una doppia
valenza: è un atto di fede nel Dio Uno e Trino, ma è anche riconoscere con
meraviglia e timore che Dio mi ama e mi accoglie, mi rende parte del calore
della sua famiglia.

Il segno.
Ricorda la croce di Cristo: palo del patibolo, albero della vita, trono della
gloria dal quale Gesù attrae tutti a sé, scala che congiunge cielo e terra,
fontana e sorgente del fiume di acqua viva che rigenera l’umanità nuova,
torchio del vino nuovo. Le citazioni bibliche e patristiche in proposito sono
innumerevoli. Basti ricordare come Giovanni racconta la crocifissione (cfr. Gv
12,32; 3,14; 8,28; 19,16-37). Nella comprensione della fede, la croce non è mai
solo morte, ma è il segno rivelatore del trionfo dell’amore di Dio che nel dono
totale di sé vince una volta per tutte la morte e il peccato. In più questo
segno è carico di altri significati:
– toccandoci la testa, il petto e le braccia ricordiamo l’espressione «amare
Dio (e il prossimo) con tutto il cuore, con tutta la mente e tutte le forze»
(Dt 6,4-5; Mc 12,29-31) e rinnoviamo quindi il nostro impegno di coinvolgere la
totalità della nostra persona – pensieri, affetti e opere (e cose possedute) –
per «fare bene il bene» (Allamano), affinché «vedendo le vostre opere belle
rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,16);


il braccio verticale della croce ci ricorda che nel Crocefisso è ristabilito il
legame, la comunicazione tra cielo e terra, già spezzato col peccato presso il
primo albero (Gn 3,1-6); la croce ci rimette in comunione con Dio;

– il braccio orizzontale ci richiama alla
comunione con gli altri, l’abbraccio di Gesù per tutta l’umanità e per ciascuno
di noi; la croce ci permette di costruire relazioni nuove con tutti gli uomini;

– è
anche scudo di protezione contro la tentazione, contro il male;

– è
segno di speranza perché proclama la vittoria della vita sulla morte, della
luce sulle tenebre, dell’amore sull’odio, della gratuità sull’utilitarismo e il
calcolo.

MC, troppo polemica?

Rev. padre,
da tempo mi porto nel cuore una obiezione che trattenevo per timidezza. Preciso
che nel 1973 fui in contatto con voi per verificare se la vita missionaria
fosse adatta per me […] e così conobbi alcuni dei vostri missionari come p.
Mura Salvatore e p. Vincenzo Pellegrino. La vostra rivista, mi perdoni, è
troppo polemica (virtù che ascrivo ai torinesi e a pochi altri in Italia) in
religione, in politica, in tutto. Si narra che Madre Teresa di Calcutta
dicesse: «Chiedo di lavorare in carità, non guardo i governi». Conosco anche
altre comunità missionarie e nessuno parla di politica. Accetto volentieri una
sua, ma la penso così da decenni.

Lorenzo B.
email, 19/01/2014

Caro
amico,
anzitutto grazie di averci scritto. «La virtù della polemica è da ascriversi ai
torinesi», scrive lei. Vorrebbe proprio dire che in redazione ci siamo
inculturati bene, perché di torinesi veri e propri qui non ce ne sono: tutti
acquisiti! Facezie a parte, mi preme precisare che i missionari della
Consolata, nella loro storia, non hanno mai fatto delle scelte di campo in base
all’approvazione o disapprovazione di un governo o un regime. Hanno sempre
scelto in obbedienza a direttive specifiche di Propaganda Fide o secondo
una lettura dei bisogni oggettivi di un paese alla luce del Vangelo. Con una
scelta preferenziale: i posti più difficili, più poveri, più impegnativi. Basti
pensare all’impegno nel Nord del Congo. Con questo non legittimano situazioni
politiche discutibili, piuttosto vivono il principio che il missionario non è
un agente politico ma un servo del Vangelo.

Il
che non significa che un missionario non faccia politica, perché con le sue
scelte in favore dei poveri, degli esclusi, dei popoli minoritari e delle
periferie, di fatto fa politica. E diventa una spina nel fianco di poteri
ingiusti, illiberali e diseguali, ma anche di quei poteri che in nome della
democrazia in realtà sfruttano e schiavizzano intere popolazioni. Volente o
nolente il missionario fa politica anche quando semplicemente propone la pace
invece della guerra, il perdono invece della vendetta, la gratuità invece del
profitto, il rispetto della diversità invece dell’omologazione, la difesa della
vita per quello che è invece che per quello che rende, la giustizia invece dei
privilegi.

Come
rivista cerchiamo di essere prudenti per non danneggiare chi vive sul terreno e
potrebbe pagare per nostre espressioni troppo esplicite. Preferiamo far parlare
la Chiesa locale, evitando nostre opinioni personali e usando invece documenti
o interviste di religiosi e vescovi dei diversi paesi di cui scriviamo.

Troppo polemici? Non è
nostra intenzione. Cerchiamo il più possibile di offrire un’informazione onesta
e documentata. Riteniamo però alienante parlare di poveri senza affrontare le
cause della povertà, di orfani senza approfondire il perché del loro abbandono,
di malati senza capire perché non hanno cure, di guerre e violenze senza
analizzae le cause immediate e remote. Ci sembra un nostro dovere, scrivendo
su una rivista mensile, fornire un’informazione approfondita e non edulcorata
sulla realtà del mondo.

I non cristiani si salvano?

Mia nipote mi ha posto alcune domande partendo dal fatto
che ha un ragazzo albanese di famiglia musulmana.

La prima domanda è: chi è nato in una nazione non
cristiana e pertanto assume per default la religione del posto,
qualunque essa sia, sarà convinto della sua verità e del suo Dio. Se Dio si
presenta loro in punto di morte e loro non possono accettarlo avendone sempre
avuto un altro, sono tutti destinati all’Infeo? O in un altro caso,
ammettendo che alcuni di loro decidano di accettarlo e questo sia sufficiente
per la salvezza, perché mai noi dovremmo fare tanta fatica per tutta una vita
se poi basta sinceramente pentirsi alla fine?

La seconda domanda è: come sai che qualsiasi libro che
sia stato scritto in materia, Bibbia inclusa, non contenga in parte o in
totalità delle cose non vere visto che non esiste possibilità di verifica?

Figlia della luce
20/12/2013

Cara
lettrice,
noi (cristiani) crediamo che Dio è uno solo: ieri, oggi e sempre, anche quando è
conosciuto sotto nomi differenti. E questo Dio «vuole che tutti gli uomini
siano salvi e giungano alla conoscenza della verità» (1 Tm 2,3-4). E gli uomini
sono fatti per conoscere e amare Dio perché portiamo il suo imprint:
sono fatti a sua immagine e somiglianza. Da sempre nella storia dell’umanità la
fede nell’esistenza di Dio è una dimensione fondamentale di ogni cultura. È
solo negli ultimissimi secoli, e nella nostra cultura occidentale che degli
uomini si sono ufficialmente dichiarati agnostici o atei e sostengono che Dio
non esista e sia solo un’invenzione.

Attraverso
i secoli e i continenti, popoli diversi hanno imparato a conoscere Dio a
tentoni (At 17,24-28) e ciascuno l’ha chiamato secondo la propria lingua,
celebrato con i propri riti e capito secondo la propria teologia. Dalla
comprensione di Dio e dall’esperienza quotidiana, ogni popolo si è dato regole
di vita in base alle quali una persona è considerata giusta, buona e
rispettabile. Parafrasando le parole di s. Paolo nel testo sopra citato,
possiamo dire che seguendo il meglio delle proprie tradizioni umane e religiose
ogni uomo ha potuto realizzare la sua vocazione fondamentale: quella di essere
immagine («stirpe») di Dio (cfr. Gn 1,26).

È
vero che nella storia della Chiesa questa visione è stata spesso dimenticata ed
è prevalsa l’idea che tutti i non battezzati fossero destinati alla dannazione
eterna, con conseguenze anche gravi, come il battesimo forzato dei popoli
latino-americani. Ma il Concilio Vaticano II (1962-1965) ha avuto il merito di
purificare la Chiesa da queste visioni non evangeliche della storia della
salvezza. Basti per questo la costituzione Gaudium et Spes: n.16, sulla
coscienza retta; n.17 sulla libertà; n.58, su Vangelo e culture; oppure Lumen
Gentium
: n.16 sui non cristiani; o la brevissima dichiarazione Nostra
Aetate
firmata da Paolo VI.

Così,
circa la prima domanda, questo è ciò
che si pensa oggi nella Chiesa. Ogni uomo ha una capacità naturale di
relazionarsi con Dio, perché creato da Dio. Ognuno è chiamato a vivere una vita
retta in base alla sua cultura e alla sua coscienza; su questo sarà valutato
e  non su quello che non conosce. Gesù è
morto e risorto per salvare tutti gli uomini di ogni epoca e di ogni angolo del
mondo, non solo chi espressamente lo riconosce e aderisce a lui liberamente e
coscientemente con un atto di fede e col battesimo. La «condanna» è per chi
coscientemente non vive secondo gli standard migliori della sua cultura. Non si
tratta quindi di una decisione all’ultimo minuto per il Dio dei cristiani, ma
di un modo continuo di essere persona degna, onorata e giusta, secondo una
coscienza retta. Ciascuno è chiamato a rispondere per quello che sa, non quello
che ignora senza colpa. Questo vale per il non-cristiano quanto per il
cristiano. Non c’è illuminazione dell’ultimo minuto.

La
seconda domanda: «Chi ci assicura che la Bibbia non contenga
sbagli?».
Nessuno. La Bibbia contiene sbagli scientifici, geografici e storici
perché non è né un libro di storia né di geografia né di scienze. Scritta
nell’arco di oltre 1000 anni, la biblioteca della Bibbia è condizionata dalle
conoscenze degli uomini contemporanei a ciascuno dei suoi libri. Anche dal
punto di vista religioso la Bibbia contiene una progressione tra le idee ed le
esperienze raccontate nei suoi libri più antichi e quelle contenute nei libri
conclusivi come quelli del Nuovo Testamento. Questo perché  non è un unico libro «di religione» scritto
da un solo autore che ne ha poi revisionato attentamente ogni parte per una
perfetta armonizzazione di tutto e l’eliminazione delle contraddizioni o degli
elementi sfavorevoli. La Bibbia riflette il cammino di fede di un popolo che a
fatica è cresciuto nella sua comprensione delle cose di Dio e si racconta,
offrendo ai lettori una testimonianza del proprio cammino spesso faticoso. Fino
alla testimonianza di Gesù Cristo, figlio dell’uomo e figlio di Dio.
Testimonianza ancora una volta affidata alla fragilità di altri uomini.

Come possiamo
verificare allora che la Bibbia dice parole vere su Dio? Prima che un libro di
idee e di dogmi, la Bibbia è un libro di persone che hanno creduto e offrono
liberamente la loro testimonianza su quello che hanno visto, toccato, udito,
incontrato e amato (cfr. 1 Gv 1,1-4), su quello che ha dato senso alla loro
vita. La verità si scopre solo accettando di entrare in relazione con dei
testimoni e attraverso loro con Colui che loro hanno conosciuto e amato.

 

Non sono d’accordo

Carissimo direttore.
Sono un fedelissimo della vostra rivista missionaria e apprezzo sempre leggere
gli articoli sui/dei missionari della Consolata […]. Vorrei farle notare, per
la mia esperienza di missionarietà acquisita sul campo a fianco di padre Noè
(Cereda) nell’isola dei lemuri (Madagascar), che non sono per niente d’accordo
sull’introduzione del suo editoriale «Santa audacia» (gen. 2014) quando
confonde il potere temporale della Chiesa con la vera storia della nostra
cristianità , «con la nostra fede che ha perso sapore per non essere più in
grado di creare Chiese di bellezze straordinaria» … (sic!).

Personalmente credo che Papa Francesco nel suo dire si
riferisca ad altre giornie, ad altre bellezze e ad altra audacia. è un richiamo a essere meno succubi
alle realtà dorate di questo millennio. È il denaro, la ricchezza e la fame di
vanagloria che la nostra società ci presenta come l‘inizio di una felicità
eterna. Riuscire a non farci trascinare nel «così fan tutti» e superare le
barriere di chi sposa il faceto e le tendenze dell’egoismo più sfrenato è
sicuramente l’audacia che ci chiede Papa Francesco. Una frase che ha detto ai
cristiani è sulla bocca di tutti: «I fondatori della chiesa Cattolica non
avevano il libretto degli assegni».

Nel mio piccolo ritengo, senza supponenza, che ne passa
di acqua nella storia fra scelte condivise e oppressioni tipiche del medioevo
verso i più deboli, depredati dai pochi ricchi che avevano anche i privilegi
dello ius primae noctis.

In terra di missione è la fede della gente che fa la
differenza, e non certamente le chiese gotiche che da ai nuovi cristiani la
gioia di amare, la bellezza della loro anima e l’audacia di professarsi
cristiani e distinguersi nel sacrificio verso i propri fratelli a scapito della
loro vita. Da noi è l’egoismo che impera nella società, è l’indifferenza di
tanti nuclei famigliari che davanti a tanti fratelli meno fortunati si chiudono
in «chi se ne frega». L’importante è che a noi non
manchi nulla. Non si può certo fare di ogni erba un fascio dimenticando che per
chi vuol essere «credente» la carità è la massima espressione del cristianesimo
sia nelle parrocchie che nelle missioni sparse in tutto il mondo, una carità
che parte dal cuore e irradia l’universo di gioia, di bellezza e di audacia
senza se e senza ma come tantissime persone impegnate in associazioni che
sacrificano per un messaggio solidale la loro vita per i propri fratelli.

Per chiudere l’argomento credo che le chiese debbano
essere dignitose in ogni parte del mondo, con un imperativo: «Non essere
bellissime scatole, ma senza fedeli». Vuote.

Giovanni
Besana
Missaglia (Lc), 30/01/2014

Caro
Sig. Giovanni,
grazie del suo interessante commento. Mi permetto solo di precisare che la mia
frase è leggermente diversa da come lei l’ha riportata. Scrivevo: «Basti
pensare a molte delle chiese costruite alla fine del secolo scorso, spesso
livellate da un’architettura populista incolore che non ha più neppure l’eco
della giorniosa bellezza e dello slancio audace delle chiese gotiche. Specchio di
una fede che ha perso il sapore, che non osa più». Con quello non intendevo
certo esaltare il potere temporale della Chiesa, ma mi riferivo a un periodo
della nostra storia, il Medioevo, su cui abbiamo delle opinioni diverse. Le
chiese gotiche non sono frutto di un periodo cupo e triste della nostra storia
ma espressione di un mondo pieno di luce, colore, slancio e speranza. Le
comunità cittadine che costruirono tali cattedrali vivevano tempi d’intensa
vitalità economica e culturale e di relativa pace, nei quali, accanto a mura e
castelli, era anche possibile costruire, con il lavoro di tutti, la casa della
comunità, in cui celebrare le feste, dare rifugio ai pellegrini e viandanti,
trovare asilo in tempi di calamità e di abusi da parte dei poteri politici.

Quanto
alle oppressioni verso i deboli da parte di pochi ricchi predatori, credo
proprio che noi oggi abbiamo ben poco da insegnare a riguardo, giacché,
nonostante la crisi economica tocchi tutto il mondo, i ricchi diventano sempre
più ricchi, i poveri impoveriscono sempre di più e la classe media scompare.
Storia di oggi, non del Medioevo. E lo «jus primae noctis» lasciamolo al mondo
delle bufale rinascimentali cui appartiene, come tanti altri luoghi comuni sul
Medioevo come scrive Alessandro Barbero (vedi l’articolo su La Stampa del
28.8.2013, pag. 30-31 e l’intervista su Zenit.org del 16.9.2013). «Tutti quelli
che ne parlano, dalla fine del Medioevo in poi, la associano a un’alterità
barbarica, all’esotismo dei nuovi mondi, o a quell’altro esotismo, di gran
fascino, che è l’esotismo del passato. Ed è il motivo per cui da queste
leggende è così difficile liberarsi. Non importa se da cento anni nessuno
storico serio le ripete più, e se grandi studiosi come Jacques Le Goff hanno
insistito tutta la vita a parlare della luce del Medioevo. Nel nostro
immaginario è troppo forte il piacere di credere che in passato c’è stata
un’epoca tenebrosa, ma che noi ne siamo usciti, e siamo migliori di quelli che
vivevano allora».

La
realtà è che nella storia la costruzione di una cattedrale non ha mai portato
alcuna città alla bancarotta, mentre, ad esempio, certe faraoniche costruzioni
olimpiche hanno invece rovinato delle nazioni.

Rirsponde il Direttore




Cari Missionari

Esistono orfani in Africa?

Ho l’impressione
che si dicano un sacco di esagerazioni sulla vicenda degli orfani che non
vengono fatti partire dal Congo insieme ai genitori adottivi italiani. Per quel
che ne so, non esistono orfani nell’Africa nera, in quanto quando muore il
padre, oppure quando muoiono ambedue i genitori, i bambini non sono
abbandonati, ma vengono adottati dallo «zio», e pure da tutto il clan. Nel 1966
volevo adottare una bambina orfana di tre anni, Hélène, ma lo «zio» si oppose,
pur ringraziando, poiché in Congo non esistevano gli orfani. Ciò è stato
confermato sere fa in un dibattito pubblico a Corridonia da un missionario
della Consolata, da anni in Congo a Kinshasa.

Se le
autorità congolesi si oppongono, oppure ci vanno caute, è perché americani e
canadesi si stanno portando via i bambini congolesi senza alcun controllo. Ciò
sempre secondo quel missionario. Esiste, allora, una «tratta» dei bambini
congolesi, fatti passare per «orfani» da una organizzazione missionaria o
laica, o da burocrati governativi? Quanto è costato ai futuri genitori italiani
adottare un bambino congolese?

I bambini sono una ricchezza per l’Africa nera e in tale
maniera vengono considerati da quelle popolazioni. In questo caso gli Africani
si dimostrano più civili e umani di noi Occidentali.

Certe cose il ministro Kyenge dovrebbe
conoscerle; a meno che, stando nel mondo civilizzato, abbia dimenticato come la
pensano dalle sue parti.

Giorgio Rapanelli
Corridonia (Mc), 1/1/2014

Premesso che provo grande empatia e dispiacere per le coppie che si
trovano bloccate con le loro     
adozioni in Congo, anche perché ho avuto modo di vederle e sentire la
loro situazione. E che nell’incontro tenutosi a Corridonia, a cui fa
riferimento l’amico Giorgio, si è parlato di altri temi, e solo di sfuggita di
adozioni. Voglio qui condividere alcuni punti che ritengo importanti come
contributo alla riflessione:

1. È vero, almeno secondo la mia esperienza, che nella cultura africana è
inconcepibile affidare un bambino orfano a estranei, perché esiste la realtà
della famiglia
allargata, per cui
anche il parente più lontano ha una serie di diritti/doveri sul bambino, tanto
da rendere praticamente impossibile, per qualsiasi tribunale, dichiarare
l’adottabilità di un minore senza suscitare forte malcontento nella famiglia.
Purtroppo, a causa della povertà e delle guerre che assediano l’Africa, oggi
assistiamo anche a delle degenerazioni della questione, per cui c’è il caso, ad
esempio, degli orfani di guerra e dei bambini-stregoni. In quest’ultimo caso
essi sono considerati dei veri e propri rifiuti da parte delle famiglie che
addossano ai bambini tutte le colpe della loro triste situazione.

2. Le adozioni inteazionali sono disciplinate dalla Convenzione dell’Aja, cui hanno aderito quasi tutti gli stati
del mondo tranne quelli africani e musulmani. Anche il Congo non ha
sottoscritto tale convenzione e non ha neppure un trattato bilaterale con
l’Italia in merito. Perciò le poche pratiche che si fanno in Congo dipendono
dai giudici locali che cercano più di spillare soldi che di aiutare e sistemare
i bambini. L’ideale sarebbe sempre che uno possa fiorire dove è stato seminato.
Anche la Convenzione
dell’Aja vede
l’adozione come una scelta estrema e sostiene la volontà di garantire al
bambino la possibilità di rimanere nel suo mondo culturale. Un’associazione che
coinvolga una coppia nell’adozione di un bambino in uno stato che non abbia
aderito alla Convenzione
dell’Aja o che
non abbia sottoscritto un trattato bilaterale compie un atto temerario, assai
rischioso sia per i bambini che per gli aspiranti genitori. Non ci si dovrebbe
fidare facilmente.

3. Inoltre, per finire, l’intervento del governo Congolese, non è
direttamente contro le coppie italiane. è
dovuto al fatto che vogliono vederci chiaro su una situazione critica da anni
che ha favorito il commercio dei bambini da parte di funzionari, compagnie e
associazioni senza scrupoli. Per una volta che un governo si assume le sue
responsabilità lo facciamo passare come antiumano e crudele.

Grazie, auguri e buona riflessione! Coraggio e avanti in Domino!

P. Stefano
Camerlengo
Roma 09/01/2014

 

Caro Signor Giorgio,
ho scomodato il nostro padre generale per questa risposta, perché ha avuto una
lunga esperienza in Congo ed è anche suo compaesano. Da parte mia posso solo
aggiungere che la situazione degli orfani in Africa si è aggravata, oltre che
per le ragioni sopra riportate – povertà, guerre e malattie -, paradossalmente
anche grazie agli effetti positivi di quello che impropriamente chiamiamo
sviluppo: miglioramento degli standard di vita, diminuzione della mortalità
infantile e scolarizzazione. Un tempo, nella società pastorale o agricola, un
orfano era sì una bocca in più da sfamare, ma ben presto diventava anche un
soggetto che poteva contribuire alla vita della famiglia e del clan attraverso
il lavoro nei campi o nella cura del bestiame. Ora invece moltissime famiglie
sono impoverite, vivono nelle periferie delle grandi città senza campi né
bestiame; in più i bambini devono essere mandati a scuola. E la scuola non è
gratuita, ma costa, e tanto. E in città il cibo è caro, non si raccoglie nel
campo, si compra. E non bastano più le medicine tradizionali quando uno è
malato, le medicine si pagano. Per questo, nonostante la grande solidità della
famiglia allargata africana, gli orfani aumentano.

Oltre all’adozione vera e propria, che è una delle
risposte a questi problemi, c’è anche un altro modo di aiutare: l’adozione (o,
meglio, il sostegno) a distanza o a progetto, che permette ai bambini di
restare nel loro ambiente e aiuta una comunità a prendersi cura dei propri
figli.

Noi come missionari, da oltre un secolo stiamo seguendo
questa strada, per altro proposta oggi da tantissime organizzazioni, alcune
molto serie, altre anche fraudolente. Il dramma degli orfani è così grave da
esigere la collaborazione di tutti, senza sterili polemiche.

 
Verità sulla Siria

Se Natale è la festa della luce che scaccia le tenebre e
della verità che sconfigge la menzogna, quindi anche la cattiva informazione,
un regalo migliore dell’articolo sulla Siria, pubblicato proprio nel mese di
dicembre, non potevate farcelo.

Mi sembra superfluo aggiungere che condivido le critiche
da voi fatte ai grandi mezzi di comunicazione. Anche la nostra Rai, che molti
definiscono la maggiore industria culturale italiana, con pochissimi eguali in
Europa, poteva fare di più e di meglio: quella che ci ha raccontato finora
sulla Siria è una storia che lascia un po’ a desiderare. Eppure proprio la Rai,
con l’enfasi data a certi grandi eventi come la Fiera Aeronautica di Dubai di
metà novembre, ha confermato quanto pesino Arabia Saudita, Emirati Arabi e
Qatar nello scacchiere globale e quali ripercussioni abbiano le loro mosse
sull’economia, sulla finanza e, di riflesso, sulla politica.

Sono proprio i paesi arabi del Golfo, quegli stessi che
voi giustamente avete indicato come responsabili della catastrofe siriana, a
comprare le grandi società di calcio, a dare lavoro alle grandi imprese
dell’edilizia e dell’arredo, a ospitare i Gran Premi di Formula Uno, ad
acquistare compagnie aeree o parti di esse, e soprattutto a dare sbocchi di
mercato altrimenti introvabili ai grandi e costosissimi (anche in termini di
impronta ecologica e impatto ambientale…) consorzi dell’industria aeronautica
– l’americano Boeing e l’europeo Airbus -, dei quali è partner, specie per quel
che riguarda la realizzazione delle fusoliere, la nostra Alenia Aeronautica.

Quando, in appena due giorni, tre compagnie aeree arabe
riescono, da sole, ad acquistare duecento grandi aerei, tra cui i Boeing 787
Dreamliner («aereo dei sogni»…) e Airbus 380, facendo finire nelle casse di
Seattle, Tolosa, Amburgo, Londra, Madrid, Grottaglie e Nola la bellezza di
cento miliardi di dollari, possiamo farci un’idea di quale sia il potere
contrattuale degli Arabi e del grado di dipendenza del Pil mondiale dallo
shopping degli sceicchi. Possiamo farci un’idea però anche di quanto sia
urgente procedere a una drastica correzione dell’attuale modello di sviluppo,
affinché quello con gli Arabi non diventi un abbraccio mortale, per noi e per
loro.

La pace non può non essere il primo degli obbiettivi e il
primo dei sogni di paesi che si dicono civili, democratici, evoluti,
progrediti: pazienza se questo significherà qualche affare in meno con i
nababbi del Golfo Persico, pazienza se ci sarà qualche punto di Pil in meno e
qualche mugugno in più di industriali e sindacati.

Se poi anche Papa Francesco dice che «la pace è
artigianale» e quindi né industriale, né petrolchimica, né avionica, né
imprenditorial-finanziaria, né agrobusiness… Buon Natale e Buon Anno.

Francesco Rondina
Fano, 25/12/2013

L’età di Gesù

Alle pagine 30-32 della rivista del dicembre scorso ho
letto con grande interesse l’articolo di don Paolo Farinella. Ho una domanda:
che età poteva avere il Cristo quando è morto? Là trovo scritto 36 anni circa,
mentre ci hanno sempre insegnato che ne aveva 33. Posso contare su una risposta
sia pur telegrafica? Grazie

cav. Sergio
Gentilini
Roveredo in Piano (Pn)

A che età è
morto Gesù? A 33 anni o a 36? La questione è dibattuta da due mila anni e ancor
a oggi non ne veniamo a capo. Si possono solo fare ipotesi con i pochi dati che
abbiamo a disposizione. Non sappiamo quando Gesù sia nato perché la data del 25
dicembre è puramente convenzionale, come spiegammo nel numero di MC di
dicembre. Sappiamo che nel redigere un computo temporale Dionigi l’Aeropagita
fece un errore di calcolo, in base al quale considerò l’«anno 0» come data di
nascita, mentre oggi sappiamo, e tutti gli studi lo confermano, che Gesù nacque
tra il 7 e il 5 a.C. Ma cambiare il calendario, spostandolo indietro sarebbe
un’impresa ormai impossibile. Le notizie che abbiamo dai Vangeli e da altre
fonti non sono decisive a riguardo. I Vangeli affermano che Gesù morì un venerdì
sera antecedente la Pasqua ebraica, la quale cade nel mese di Nisan,
corrispondente al nostro metà marzo, metà aprile (dipende dalla luna). Per gli
Ebrei, il giorno comincia al tramonto del sole del giorno prima, quindi venerdì
sera, dopo il tramonto è già il giorno Sabato. Per Mc, Mt e Lc (Vangeli
sinottici), infatti, Gesù morì il giorno di Pasqua (Pesach, il sabato 15 del
mese di Nisan), mentre per Giovanni la morte sarebbe avvenuta la vigilia del
Sabato, cioè prima del tramonto. Lo scopo di Giovanni è fare coincidere la
morte di Gesù con l’ora (le ore 16,00) del sacrificio nel tempio di Gerusalemme
per presentare Gesù come «Agnello di Dio» sgozzato sulla croce.

Da tutta una serie di computi, confronti e studi, le date possibili
sono tre: il 7 aprile dell’anno 30, oppure il 27 aprile dell’anno successivo o
il 3 aprile dell’anno 33. Sia i Vangeli che lo storico ebreo Giuseppe Flavio ci
dicono che Gesù morì durante l’amministrazione del procuratore romano Ponzio
Pilato che gli studiosi fissano tra il 26 e il 36 dC. I Vangeli dal canto loro
aggiungono che Gesù fu condannato a morte durante il sommo sacerdozio di Caifa,
che era manovrato dal suocero Anna (a sua volta ex sommo sacerdote). Il
pontificato di Caifa si colloca tra l’anno 18 e il 36 dC, in concomitanza con
il procuratore Ponzio Pilato. Secondo Lc, Pilato per un atto politico inviò Gesù
a Erode Antipa che regnò per conto dei Romani sulla Galilea tra il 4 aC e il 39
dC. Da tutta questa ubriacatura di date, di anni e di nomi, la conclusione è
che la morte di Gesù deve essere avvenuta tra il 26 e il 36, logicamente dC. Se
fosse stato l’anno 26, tenuto conto che è nato circa 6 anni prima di quanto
crediamo noi, sarebbe morto all’età di 32/33 anni circa; se invece fosse stato
l’anno 36, tenuto conto dello stesso motivo, Gesù sarebbe morto dieci anni
dopo.

Come si vede
non possiamo chiedere ai Vangeli una «precisione» cronologica che non possono
darci, perché il loro scopo è catechetico e teologico, non storico (come
intendiamo noi questa valenza). Noi sappiamo che i primi cristiani hanno identificato
Gesù con Isacco, il figlio di Abramo che stava per essere sacrificato dal padre
sul monte Moria. Secondo la tradizione ebraica, Isacco incitava il padre a
compiere fino in fondo il suo dovere di obbedienza a Dio e quindi si offrì
liberamente al sacrificio. La stessa tradizione parla di Isacco «legato» alla
legna come Gesù fu «legato/inchiodato» alla croce. Poiché si suppone che
l’episodio del sacrificio d’Isacco sia avvenuto quando questi aveva 36 anni,
applicando a Gesù un’età simile, non si è lontani dalla realtà perché si resta
perfettamente tra i 32/33 anni e i 42/43. Ciò che conta per i Vangeli è che Gesù
nacque, visse e morì, offrendo la sua vita in dono e senza chiedere in cambio
nulla. Sì, tutta la sua vita fu un atto permanente di amore a perdere.

Paolo Farinella


Un brindisi
a padre Egidio (Crema)

In data 2 Gennaio 2014 padre Egidio Crema ha festeggiato
il suo 90esimo compleanno qui al Consolata Hospital di Ikonda dove si trova
ospitato. Vi inviamo due fotografie della cena conviviale a cui hanno
partecipato padre Sandro Nava, la dottoressa Manuela, la dottoressa Virginia
Quaresima, il dottor Gianpaolo Zara, il dottor Giuseppe Vasta e la sua badante
Rosy. Sarebbe bello che queste foto fossero pubblicate
per rendere onore a un missionario che dal
1950 ha lavorato in Tanzania e ora si è ritirato al Consolata Hospital che
funge anche da casa di riposo e cure per i missionari anziani e ammalati in
Tanzania.

Un saluto cordiale.

p. Sandro Nava e dott.ssa Manuela Buzzi
Ikonda, Tanzania

Risponde il Direttore




Cari Missionari

Correzione: Le cornordinate giuste di Sererit in Kenya (vedi
MC 5/2013, p 21) sono 1°40’47.08” N e 37°10’37.31” E e non quelle indicate che
si riferiscono invece alla chiesa di San Bartolomeo a Serle, Brescia. Scusate
lo svarione. Inoltre Sererit significa «acqua che scorre» e non «acqua scarsa»
(Sereolipi).

RITORNO IN ETIOPIA

Egregio
direttore,
amare e vivere la vita è donarsi agli altri. Il tempo corre veloce e il «mal
d’Africa» aumenta sempre di più. Da poco sono ritornato dal quinto viaggio
nella mia amata Etiopia. Altre emozioni, altre esperienze e altri orizzonti e
realtà vissute. Pensavo di conoscere già la gente dei villaggi di Weragu e
Minne, il loro modo di vivere, di comportarsi ma ho costatato che ho molto
ancora da apprendere. Nei villaggi sono ormai di casa, sono uno di loro fra
loro. I bambini, le donne e i giovani mi vogliono bene. Ho potuto fotografarli
anche all’interno delle loro capanne. Sono stato accolto con amicizia da una
famiglia cattolica, una musulmana e una ortodossa. Le suore della clinica ogni
due-tre sabati al mese si recano in un villaggio vicino, distante due ore di cammino,
per insegnare a leggere e scrivere agli adulti, e le norme igieniche e
comportamentali. Ho portato a p. Angheben Paolo la somma raccolta in Borgo e
valle, frutto della generosità dei benefattori che hanno donato con amore. Dal
profondo del cuore un grazie sentito, sincero, affettuoso con l’augurio di ogni
bene. La somma è servita per pagare lo stipendio per quaranta maestri che
insegnano a 1.200 bambini nella scuola primaria e secondaria dei due villaggi.
Lo studio è una tappa fondamentale per lo sviluppo di quel paese. Lo stato non
dà nulla ma pretende il rendiconto dei soldi ricevuti: ora anche le bambine,
anche quelle musulmane, vanno a scuola come i coetanei maschi. Nella biblioteca
di Debre Selam (rifugio di pace), ora funzionante, circa 5.000 studenti possono
studiare, scambiarsi libri e imparare a usare il computer e l’internet. P.
Paolo è ritornato a Modjo: la missione stava morendo ed ha portato una ventata
di fede, di entusiasmo e di speranza. Ora il bellissimo centro di animazione
missionaria e vocazionale è funzionante. I nuovi progetti di p. Paolo sono: la
costruzione di una sala mensa per 180 bambini della locale scuola matea
(costo circa 20.000 euro) e una chiesetta chiesta da un collega missionario
senza mezzi, in un villaggio vicino (costo circa 7.000).

La
fede profonda del padre, la solidarietà vera dei benefattori e l’onestà della
ditta del geometra Caevale faranno un altro prodigio.

A
p. Paolo, uomo di preghiera, di azione, di poche parole, schivo ma grande
psicologo e apostolo di anime, vada il mio grazie infinito. A tutti i
missionari, suore e fratelli della Madonna Consolata di Torino, sparsi sui
cinque continenti, testimoni di Cristo e della Vergine Maria, di cuore un
grazie sincero con affetto filiale e spirituale. Siete luce di verità, di amore
e di altruismo per tanta gente povera, abbandonata, oppressa e dimenticata dai
popoli ricchi. Attraverso p. Oscar, superiore dei missionari in Etiopia, un
grazie a tutti i missionari per l’ospitalità ad Addis Abeba (nuovo fiore) e nelle
altre missioni.

Con
affetto e un forte abbraccio di amicizia e cordialità.

Giovanni
De Marchi

via email, 2/5/2013

PADRE GIANNI, UNO CHE C’ERA

Oggi
siamo qui. Sono passati trent’anni eppure è come ieri. Noi abbiamo capelli più
o meno bianchi, rughe più o meno marcate eppure siamo noi. È passata una vita,
la nostra vita, abbiamo fatto lavori diversi, scelte diverse, percorso strade
diverse eppure siamo noi. Ci siamo ritrovati, un po’ storditi e commossi,
quando abbiamo saputo della sua morte, inattesa anche se conoscevamo le sue
condizioni di salute. Ci siamo ritrovati dove eravamo sempre stati con lui,
nella parrocchia Maria Regina delle Missioni, per ricordarlo nella preghiera,
con i suoi confratelli.

Ben
poco oggi ci unisce ancora, se non l’amore che abbiamo ricevuto da lui. Due
amori anzi: la sua amicizia, umana, tenera e profonda, e l’Amore, con la «a»
maiuscola, quello di Dio, che proprio lui ci ha fatto incontrare e sperimentare
negli anni dei gruppi giovanili. Trenta anni fa, quando noi eravamo i «suoi»
ragazzi.

Non
si dava delle arie p. Gianni, non conosceva la dinamica di gruppo, allora tanto
di moda, la psicologia, la sociologia…

Lui
semplicemente «c’era». Era lì, sempre a nostra disposizione, quando casualmente
«passavamo» vicino alla parrocchia. Era lì, spesso a fare i lavori più
semplici, raddrizzava un cartello, spostava un vaso di fiori, metteva in fila
le sedie…

Era
lì e ci accoglieva sorridendo. Con una battuta, una frase scherzosa.

Sembrava
svagato, ed invece era sempre tutto per noi, ci vedeva «dentro», come eravamo
davvero oltre l’esteriorità. Di ciascuno di noi ricordava tutto: vicende,
aspirazioni, problemi, ma anche la data del compleanno, le ricorrenze che si
sono via via aggiunte con il passare del tempo. Anche da lontano, negli anni in
cui è stato in Brasile, nel giorno giusto, dall’altra parte del mondo, arrivava
immancabilmente un suo biglietto, un sms, un saluto, un ricordo, una preghiera.
E non parole generiche, ma personali, sentite, profonde…

P.
Gianni c’era, ma era ugualmente pronto a «sparire», a tirarsi indietro, a farsi
da parte tanto era umile e schivo. Un merito, un successo non se lo prendeva
mai, ma lo attribuiva agli altri, sempre pronto invece a chiedere scusa, a
camminare in punta di piedi per non disturbare…

Non
so cosa abbia rappresentato per le persone che ha incontrato nei molti anni di
missione, posso immaginarlo a partire dalla nostra esperienza. Ma so che,
quando ci parlava di loro, emergeva un insieme di persone vive, concrete, alle
quali p. Gianni aveva voluto bene nello stesso modo in cui aveva amato noi:
singolarmente, ad uno ad uno come persone, ciascuna importantissima ai suoi
occhi e nel suo cuore. E sono convinta di una cosa: è stato proprio questo suo
modo di volerci bene che ha fatto «sperimentare» a tutti e a ciascuno la
profondità e la concretezza dell’Amore di Dio su di noi.

Claudia
Carpegna

(giovani di Maria Regina delle Missioni, anni 70-80), 15/5/2013

 

P. Gianni Basso, nato a
Quinto di Treviso nel 1949, ordinato sacerdote nel 1973, ha esercitato il suo
ministero sacerdotale dapprima in Italia e poi per molti anni in Brasile.
Rientrato per ragioni di salute, è stato alcuni anni a Vittorio Veneto,
ultimamente aveva iniziato il suo servizio missionario a Olbia, in Sardegna. Là
la morte lo ha colto all’improvviso il 17 aprile scorso come conseguenza di un
ictus. Sepolto al suo paese di origine, a Torino è stato ricordato con molto
affetto dai «suoi ragazzi» nella parrocchia Maria Regina delle Missioni.

AL DIO DELLE SAVANE

Caro
direttore,
ti allego la mia poesia “Al Dio delle Savane” segnalata al Concorso S. Sabino”
di Torreglia (Padova) lo scorso 5 maggio:

«O Dio di queste bellezze selvagge
che susciti canti da gole riarse
e accogli preghiere
impastate di terra e sudore.

Dio che ti fai dono
invisibile
sotto tettornie
di lamiera ardente,
che scendi e ti adagi
là dove si annida
la fame
e morde e grida forte
la sua esigenza
impellente.

Dio che ti fai insolito pane
di anime senza attese,
cibo di una fame
diversa
che non chiede
latte o sangue
ma sorsate d’amore,
di speranza,
di condivisione.

Dio, lampada di una notte
senza luna né stelle,
notte di angosce
e di dolori,
di mute invocazioni.

Busso forte
alla tua porta o Dio,
ti tempesto
di richieste.

Dio che mai spegni
il sorriso
sul volto di questi bambini,
dona pioggia e
ristoro,
pace e riconciliazione,
pazienza e saggezza.

Conserva il sacro senso della vita
da rispettare e trasmettere
con umiltà e fiducia
qui, dove il tempo è così lento
e l’attesa infinita
ma mai priva di
speranza.

A te affido Dio
la gente di questa
savana».

Giulia
Borroni

Wamba – Kenya, marzo 2011

Francesco e rinnovamento nella Chiesa

Molte sono le novità apportate da Francesco «vescovo» di
Roma, positive, condivisibili, accattivanti. E tuttavia mi pare che il
rinnovamento della Chiesa, per la fedeltà al Vangelo meriti un approfondimento.

Egli ha subito invitato i fedeli a chiedere la
misericordia di Dio, senza stancarsi, perché essa è infinita. Dunque un
rapporto verticale tra l’uomo e la divinità, proprio comunque di ogni
religione. Ma Cristo introduce anche un altro rapporto, correlato al primo,
essenziale, cui dedica tutti i suoi insegnamenti: quello orizzontale tra l’uomo
singolo e gli altri uomini. Quest’ultimo condiziona lo stesso rapporto con Dio,
perché non è concesso ottenere da lui misericordia, se poi la si nega agli
altri e privi di compassione si calpestano i loro diritti fondamentali. Una
parabola del Vangelo è eloquente: quella in cui si parla d’un debitore che
chiede e ottiene la remissione del debito ma poi strozza, senza pietà, chi a
lui deve qualcosa. L’importanza del rapporto con gli altri uomini viene poi
sottolineata dal passo in cui Gesù afferma: «Se stai per deporre l’offerta
sull’altare e là ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia la
tua offerta vai prima a riconciliarti con lui». E soprattutto là dove vengono
enunciati i criteri secondo cui saremo giudicati: avevo fame, sete, ero ignudo,
prigioniero.

È dunque chiaro che per Dio i rapporti con gli altri
uomini sono essenziali, primari; non ci può essere amore per lui se non nel suo
spirito, che dobbiamo attuare nel mondo in cui viviamo. Gesù viene in terra per
rivolgersi a tutti gli uomini, ma nello stesso tempo, pone una linea netta di
demarcazione: chi vuole seguirmi, deve conformarsi ai miei comandamenti, al mio
spirito. C’è un dovere di giustizia innanzitutto ed è chiarito dalla parabola
di Lazzaro e il ricco epulone. Il negare agli altri i propri diritti – e dunque
dare la preferenza al proprio egoismo anziché all’amore e al rispetto – pone
l’uomo al di fuori del rapporto con Dio, tra gli ingiusti, e Gesù verso
Epulone, non dimostra alcuna pietà, non gli dà alcuna chance.

Le ingiustizie, l’appropriarsi dei beni, lasciando
l’altro nella miseria, non si attuano tanto principalmente nel rapporto tra
uomo e uomo, ma soprattutto attraverso regole ingiuste imposte mediante
l’organizzazione sociale.

Don Camara affermava la necessità di chiedersi: come mai
tanti poveri?
Nella situazione
attuale, occorre aver ben presente gli strumenti mediante cui le nostre società,
che riteniamo e si dicono cristiane, realizzano l’ingiusta ripartizione dei
beni e il dominio sulla terra. Al di là delle leggi di mercato, che penalizza e
riduce alla fame chi potere contrattuale non ne ha, nonché tutti gli altri
strumenti economici che conseguono lo stesso fine, v’è qualcosa di più
terribile, immorale e devastante. La guerra in primis, attuata in forza
della propria superiorità tecnologica, usando ogni tipo di armi, le più
micidiali: gli embarghi, le destabilizzazioni, il terrorismo.

La Chiesa dovrebbe farsi una domanda: quale educazione ha
fornito ai suoi fedeli e quale contributo ha dato alle strutture che hanno
formato e formano le nostre società? Com’è possibile una devianza così
macroscopica dai comportamenti che dovrebbero discendere dal Vangelo?

Lo scandalo delle ingenti somme destinate alle armi,
quando una moltitudine di persone nel mondo sono prive di cibo e medicine.

Gesù pone altresì un’altra barriera, invalicabile: tra
Dio e «mammona». Mammona è la logica e la pratica del mondo per ottenere
successo, onori, prestigio, danaro, potere, senza alcun riguardo e a danno
delle altre persone. Opposte sono le strade volute da Dio e le logiche cui
conformarsi. La Chiesa attuale, che mette al primo posto la propria immagine,
la sostiene usando mezzi non dissimili da quelli del mondo, evitando di
guardare le sue pecche e di prendere atto dei gravissimi danni provocati, ad
esempio, col proporre «l’ingerenza umanitaria», non è in linea col Vangelo;
semmai la sua immagine deve generarsi, spontaneamente, dai comportamenti fedeli
al Vangelo e dai cambiamenti che essa riesce a realizzare nei rapporti tra gli
uomini indirizzandoli alla giustizia e all’amore.

Se la Chiesa avesse il coraggio di guardare alla sua
storia, di ricercare il perché di tanti e gravissimi peccati di cui ha chiesto
perdono, vedrebbe come questi siano stati generati dal connubio con i poteri
temporali, dalla pretesa d’usarli come braccio secolare, dal pensare che sia
compito degli stati formare dei buoni cristiani (e dunque d’esercitare delle
pressioni in tal senso ed addivenire a dei compromessi) quando tale compito è
invece della Chiesa soltanto. Non solo le politiche che attualmente gli stati
cattolici o cristiani perseguono, del tutto immorali, escludono ciò, ma nella
differenza sostanziale tra i fini e i mezzi proposti da Cristo (la libera
scelta del suo messaggio, che si pone agli antipodi del pensare del mondo), e
quelli naturali degli stati (di cui è propria la coercizione e il cui fine, nel
migliore dei casi, è quello di organizzare una buona convivenza), sta la
necessità che ciascuno dei due poteri non interferisca con l’altro.

Questo non significa che il singolo cattolico non ispiri
il suo agire in politica, l’essere cittadino, alla luce del Vangelo o che la
Chiesa non possa insegnarlo, ma senza pretendere d’imporlo a chi in essa non si
riconosce.

Giuseppe Torre
Arenano 08/04/2013

a cura del Direttore




Cari Missionari

Scriveteci!

Che problema avete? Non vi cerca più nessuno? A volte mi
verrebbe da scrivervi, fosse anche un disappunto, ma non ne ho il tempo, poi ne
passa troppo e infine penso, «tanto a voi cosa ve ne frega della mia opinione? È
comunque in contrasto con la vostra, perché scrivere?». Posso dirvela una cosa?
Finché non ho letto tutto il dossier della rivista di ottobre, avevo
un’angoscia dentro, «una tristezza da spararsi», meno male che nelle ultime due
pagine mi tirate su il morale. So che la mia vita da cristiana non è perfetta e
me lo spiaccicate in faccia come una sberla, il cammino lungo e faticoso della
conversione non finisce con l’incontro con Cristo – c’è la sequela, la coerenza,
e questo è un altro punto dolente.

[…] Con mia nipote, classe 1981, ho provato a fare «proselitismo»
(se così si può dire) richiamandola al suo battesimo. La reazione è stata
violenta. «Zia basta. Siete tutti bigotti, credo in Dio e non nella chiesa! La
verità la sto cercando, e non l’ho ancora trovata». A me non resta che piangere
e pregare per lei e tanti altri familiari. È riduttiva la fede vissuta in casa?
Intendo dire: la crisi m’impedisce di prendere l’auto ogni giorno per andare a
messa, e a volte gli orari non combaciano con il mio tempo libero. Allora mi
metto in casa davanti al crocefisso. Ma secondo voi è sempre una fede da poco,
da gente tiepida, troppo prudente, non azzardata, accomodante, pigra, inetta
fino al rigurgito di Cristo.

Che dire di altri sacerdoti che ho incontrato: alcuni
troppo hard e altri rigorosi fino al rifiuto dell’assoluzione. […]
Adesso capisco perché la Madonna a Medjugorje insiste con il pregare per i
sacerdoti. Siete sotto attacco? O lo siete sempre stati nel mirino del Nemico?
Mi piace molto anche quando Papa Francesco chiede di pregare per lui.

Ciò che vorrei chiedervi è questo: una conferma o una
smentita. Mi han detto che ci sono dei missionari cattolici che sono costretti
a sposarsi, per non essere diversi dagli altri, sennò non sono credibili
nell’annuncio. Ho obbiettato dicendo che vivranno da fratelli e sorelle! La
risposta è stata: «No, no! Fanno figli e anche tanti. Dovrebbero essere in
Oceania». Me ne sto zitta poiché non conosco tutto il mondo missionario […].
Un’altra cosa volevo dirvi. Un nostro amico circa dieci anni fa fece
un’esperienza vocazionale in Ecuador con dei missionari. Ne toò sconvolto
perché ci disse che là ogni prete ha minimo dieci donne a disposizione. Noi gli
abbiamo detto: «Esagerato!». Risultato, lui non frequenta più la chiesa,
obbiettando che è un moralismo inutile, un’ipocrisia lampante.

Avete il coraggio di dire la verità? Caspita, se lo
trovate avete un fegato da vendere! Cordiali saluti.

Piccola
figlia della Luce,
San Zenone degli Ezzelini, 13/10/2013

Gentile
lettrice,
grazie di averci scritto. Provo a essere breve.

Scrivere. Ci sembra
un modo importante per una comunicazione a due vie, non autoritaria, come
rischia comunque di essere quella stampata. Il diritto al dissenso è importante
e una contestazione argomentata e intelligente ci aiuta ad approfondire idee e
argomentazioni o ci obbliga a spiegarci meglio.

Sacerdoti. È pregare
per i sacerdoti è bello ed essenziale, perché il sacerdote ha bisogno del
sostegno della comunità. L’ordinazione non rende il sacerdote invulnerabile al
peccato, inattaccabile dalla tentazione. Il sacerdote è e rimane sempre un uomo
e come tale percorre un cammino di conversione continua, rinnovando ogni giorno
il suo sì a Dio. Come uomo può cadere, sbagliare ed essere contraddittorio.
Qualche volta può cercare la popolarità facendo il moderno e il disinibito,
altre volte può usare la tradizione e l’intransigenza senza misericordia come
scudo alle sue paure. Ma la maggioranza vive con umiltà («timore e tremore»
scriverebbe Kierkegaard) il proprio stato sapendo che il Salvatore è uno solo:
Gesù Cristo. Certo, il cammino del prete è più impegnativo di quello dei
semplici cristiani, perché se un sacerdote cade, non è solo lui a cadere, ma fa
male a tanti. «Nel mirino del Nemico», dice lei. È vero. E il Nemico si serve
anche di tanti buoni cristiani che invece di sostenere i loro sacerdoti, li
criticano, credono a mille dicerie, generalizzano e malignano. E anche di
quelli che confondono la Chiesa col prete, si dimenticano che per il battesimo
anch’essi sono Chiesa diventando giudici impietosi che si difendono accusando
di «bigottismo, ipocrisia e falso moralismo». Purtroppo non solo è più facile
far così, tirandosi fuori «dal gruppo», ma il nostro sistema stesso di vita
oggi incoraggia questo individualismo assoluto per cui uno risponde solo a se
stesso (al suo «dio»).

Missionari che si sposano? Onestamente è la prima che sento parlare di missionari che si devono
sposare, per non essere diversi. Da secoli i missionari «sono diversi» e non
solo per il celibato. Sono diversi per il colore della pelle, per la lingua che
non conoscono, per il modo di vivere e «anche» perché non si sposano. Nella
storia, più di uno ha pagato con la vita la fedeltà al celibato che lo rendeva «diverso»
e anche pericoloso agli occhi di certi popoli. Che poi ci siano dei missionari
che abbiano amato una donna, generando anche dei figli, non dovrebbe stupire
nessuno, eccetto coloro che li ritengono degli automi programmati e non degli
uomini in carne e ossa. Ma che questa sia la situazione normale e accettata («dieci
donne a testa»), è tutto da provare. La realtà è ben diversa. Quando si sentono
voci sui preti, bisognerebbe avere più senso critico, più amore della verità
(come dice anche lei), tanta misericordia e un po’ di autocritica.

Fede da poco. L’ultima
cosa che vogliamo fare è sottovalutare la fede delle persone e la grazia di
Dio. La fede non è mai «da poco». È vero, scrivendo si rischia di generalizzare
ed enfatizzare. Anzi, a volte si deve alzare il tiro per riallinearci alle
esigenze della Parola, quella vera, senza diluirla nel «minimo comun
denominatore» della mediocrità del «fan tutti così». Ma il cuore delle persone
solo Dio può giudicarlo.

La teocrazia iraniana

Caro p. Gigi,
condivido il suo no comment al lettore che ha
disdetto l’abbonamento a causa del suo editoriale di luglio. Non l’avevo letto
a suo tempo, ma, incuriosito, l’ho cercato e letto dal vostro sfogliabile
(ottima iniziativa) e davvero non c’è nulla da dire.

1. Sono favorevole alla vostra scelta di articoli
lunghi, cosa per la quale mi risulta che altri vi critichino. Adesso è diffusa
la mania di dover scrivere poco perché la gente si stanca a leggere e ha poco
tempo per farlo. Allora lasci perdere di leggere. […]

2. Nel dossier di A, Lano sull’Iran (MC, ago. 2013)
sembra che quella nazione sia lo stato migliore del mondo. Può essere che sia
davvero così, anch’io diffido della comunicazione di massa che orienta
l’opinione pubblica, quindi sono naturalmente e favorevolmente predisposto
verso l’informazione «alternativa». Ciò premesso, però, avrei fatto domande più
«dure» all’interlocutore. Ad esempio, è vero o no che il precedente presidente
voleva la distruzione dello stato di Israele? E ora come la si pensa in
proposito? Su altra rivista missionaria l’Iran non è definito una repubblica
così meravigliosa, chi sbaglia?

Giovanni Guzzi
Vimercate (MI), 11/10/2013

Caro
lettore,

non
ho descritto l’Iran come una «Repubblica meravigliosa», ma come una Repubblica
islamica teocratica basata su meccanismi della cosiddetta «democrazia». È una
democrazia teocratica con molti problemi da affrontare e risolvere, dunque non
certo perfetta. Ma esiste una democrazia perfetta? Gli Stati Uniti lo sono,
forse, con la loro pena di morte, le extraordinary renditions, i tanti
dissidenti «missing» e lo spiare anche gli alleati? Lo sono gli stati
europei, con una repressione sempre più forte delle proteste dei cittadini? Lo è
Israele, stato mediorientale che bombarda civili?

Nel
mio dossier ho poi paragonato alcuni principi chiave dello sciismo con quelli
del sunnismo, deducendone una maggiore possibilità d’interpretazione razionale
e libertà di pensiero del mondo sciita, che, nella mia pluridecennale
esperienza di studiosa sul campo di Islam, ho notato più «colto» e interessato
alla cultura di quello sunnita.

Questo
non toglie che durante l’era di Ahmadinejad ci fossero molti problemi interni,
oltre che estei, dovuti al suo populismo e a posizioni  estremiste, nonché censure di vario tipo –
tra cui internet -, di cui ho parlato nel mio articolo.

L’era
di Rohani sembra aprire nuove frontiere e nuove speranze, e molti critici
interni del passato regime stanno appoggiando con fiducia il nuovo presidente.

Quanto
alle invettive contro Israele, ormai famose, in parte si è trattato di
traduzioni errate dal farsi – la famosa frase “scomparirà dalla mappa
geografica” aveva altro significato che non la fine fisica di Israele -, in
parte di retorica populista dell’ex presidente.

Le
offro un consiglio, comunque: faccia un viaggio in Iran, e capirà che paese e
che popolo accogliente è. Poi vada in qualche altro stato del Golfo, tipo
l’Arabia Saudita o gli Emirati Arabi. O anche solo l’Egitto, e ci racconterà
cosa ne pensa.

Angela Lano

Ancora
Yanomami

Carissimo Fratel Carlo (Zacquini), prima di tutto ti
voglio ringraziare; grazie perché mia figlia Martina, dopo aver parlato della
tua intervista e delle condizioni del popolo Yanomami (MC, ott. 2013) mi
ha detto di te qualcosa che mi ha toccata profondamente: che «Conoscerti è
stata una vera fortuna», che «tu ci aiuti a diventare persone migliori. Siamo
tutti persone “normali” che stanno sedute aspettando che siano altri a cambiare
il mondo. [Se] poi c’è una persona che si alza e prova a cambiare il mondo,
quella è una persona migliore e m’insegna che anch’io posso e devo alzarmi
dalla mia normalità-mediocrità e diventare migliore» […].

A volte gli amici mi chiedono perché mi interessano
tanto gli Yanomami. È semplice: perché sono dei nostri fratelli. Punto.
Condividono con noi la fortuna di far parte di questo meraviglioso creato. E
non è abbastanza? Noi apparteniamo alla razza che si sente padrona del creato,
superiore agli indigeni di qualsiasi parte del mondo, e con il nostro egoismo e
la nostra presunzione non riusciamo e non cerchiamo di comprendere altre
culture. Possibile che non ci sia una via percorribile di evoluzione e di
progresso in cui non venga calpestata la dignità umana? In cui sia presente la
dovuta tutela dell’ambiente dal quale tutti indistintamente dipendiamo? Oggi ci
sono uomini che distruggono la foresta e ingannano i popoli che ci vivono,
ricchi che diventano sempre più ricchi a scapito della cultura, degli usi e dei
costumi degli indigeni che vengono sfruttati e resi dipendenti dal dio denaro
che tutto permette di avere. Bisogna alzarsi e combattere per un mondo più
giusto.

Ci sono molte persone che ti sono vicine in tutto il
mondo, ma forse ancora non bastano. Credo che sia necessario coinvolgere più
persone possibili […].

È molto triste quando tu dici che gli stessi brasiliani
si vergognano dei loro fratelli indigeni, ma lo comprendo. Anche qui gli
immigrati cercano di nascondere le loro origini il più possibile, ma, per i
popoli indigeni della foresta deve essere diverso, loro sono i fratelli custodi
di quella grande foresta di cui tutti noi abbiamo bisogno. Mi piacerebbe
invertire il loro status da vittime a protagonisti orgogliosi che con la
loro vita e cultura e rispetto salvano la foresta di cui tutti abbiamo bisogno.
Non più esseri inferiori, e i paesi che li ospitano devono sentirsi orgogliosi
di occuparsi di loro. Caro Carlo se questa inversione di considerazione non
avviene, prima o poi un governo o un altro troverà un «buon motivo» per
annientarli per sempre in nome della civiltà.

Con immenso affetto e riconoscenza.

Nicoletta Testori
18/09/2013

La formica alla cicala

Egregio direttore, ho appena letto la risposta che Lei
si è permesso di dare al sig. Giorgio Rapanelli (MC ott. 2013) e ne sono
rimasto profondamente indignato. Il sig. Giorgio può sicuramente permettersi di
parlare a nome degli italiani, quantomeno di quelli che pagano le tasse. Non so
invece a chi si riferisca Lei quando scrive che «siamo noi che continuiamo a
rubare». Spero che si riferisca a chi vive a scrocco degli altri e non agli
italiani che lavorano e che si sono faticosamente guadagnati il loro benessere
senza per questo doversi sentire in colpa.

Egregio direttore, sono un italiano che paga le tasse
(quindi anche il suo 8 per mille), cattolico praticante e volontario in Africa
(sempre a spese mie). Ho girato l’Africa in lungo e in largo quindi posso
affermare con sicurezza che gli europei hanno dato all’Africa molto più di
quello che hanno preso, sia in termini di infrastrutture che in termini di
aiuti umanitari. Sono europei quei tanti suoi confratelli missionari e
volontari laici che in Africa fanno solo ed unicamente del bene, spendendo la
loro vita al servizio degli altri, anche a costo del martirio. Che poi ci siano
anche le multinazionali è un altro discorso, anche perché queste ultime non
sfruttano solo l’Africa ma chiunque e qualunque cosa. Smettiamola di dare
sempre la colpa all’Occidente! Vede, credo in Dio e non nel denaro, ma
l’esperienza mi ha insegnato che coloro i quali dicono che il denaro non è
importante solitamente non sono abituati a guadagnarselo e tendono a vivere
sulle spalle degli altri e in questo, probabilmente, Lei non fa eccezione.

Se ha voglia di contestarmi, mi parli della sua dichiarazione
dei redditi e di quanti migranti lei ospita a casa sua e a spese sue. Il
benessere che noi italiani ci siamo guadagnati (lei escluso) deriva dal lavoro,
e chi lavora onestamente e faticosamente (senza tanti “pole pole”) non deve
certamente sentirsi in colpa del proprio benessere né responsabile di tragedie
che sono imputabili unicamente alla disperazione e a coloro che, sulla tratta
delle persone, costruiscono le loro fortune economiche. Anche nelle missioni si
chiudono a chiave le porte di casa, eppure Lei ci viene a dire che dovremmo
fare entrare in Italia chiunque, senza alcun controllo, quando l’immigrazione
clandestina è considerata illecita in tutto il mondo, anche nei paesi africani
dove addirittura sono previste pene molto più severe per chi entra nel paese
illegalmente.

Vede, egregio direttore, la solidarietà è un valore
cristiano ma non la si può imporre, e gli ipocriti non sono i più adatti a
insegnarla. Se Lei si sente in colpa per le tragedie dei migranti, vada ad
aiutarli a casa loro o li accolga a casa sua, ma lo faccia in silenzio e a
spese sue, e non sempre a spese di Pantalone. Solo così, sarà un buon cristiano
e, se vorrà, potrà venirci a insegnare l’accoglienza con meno ipocrisia. Smetta
di fare la cicala e inizi a fare la formica, come tanti suoi confratelli che
lei disonora con le sue parole offensive per tutti noi che la solidarietà la
facciamo in silenzio, a spese nostre.

Alessio
Anceschi
Sassuolo (MO), 14/10/2013

Caro Sig. Anceschi,
quando scrivo che «siamo noi che continuiamo a rubare», non lo dico io, ma
statistiche che sono pubblicamente disponibili.

Sistema «che ruba». Segnalo solo pochi dati. Il «nostro» mondo, troppo semplicisticamente
definito «l’Occidente», ha il 20% della popolazione e consuma l’80% delle
risorse mondiali. L’Italia consuma ogni anno quattro volte più della sua
biocapacità; fa meglio di altri paesi, ma è sempre sopra il livello di guardia.
L’Europa butta il 15% del cibo che produce; in Italia il 25% del cibo comperato
finisce nella pattumiera.

È vero che la maggior parte degli italiani
sono grandi e onesti lavoratori (o candidati a esserlo, visto l’incredibile
livello di disoccupazione), ma è anche vero che siamo dentro un sistema che non
funziona e si regge sulle spalle di chi vive sotto la soglia della povertà
grazie a un sofisticato sistema di rapina delle risorse di cui nessuno sembra
essere responsabile. Le famose multinazionali che oggi sfruttano tutto e tutti,
anche noi (il mostro che mangia se stesso!), non sono un prodotto della
fantasia dei poveri, ma il frutto più alto e perverso del sistema economico di
cui noi viviamo.

Rifugiati.
I paesi africani ospitano molti più rifugiati di quanti noi non ne riceviamo in
dieci anni. Da noi non esiste una realtà come il campo profughi di Daabab in
Kenya, con le sue centinaia di migliaia di disperati provenienti dalla Somalia.
E quanti sono i rifugiati in Congo RD, in Ciad, in Sudafrica, in Ruanda, in
Tanzania, tanto per nominare solo alcuni paesi? Le statistiche parlano di oltre
quattro milioni. Tutti clandestini schedati dalla polizia?

Lascio poi ai lettori il resto del suo
intervento.

La cicala ipocrita. Per quel che mi riguarda – mi permetta questa autodifesa -, preciso
che da quando ho finito gli studi nel 1976 e sono stato ordinato sacerdote,
lavoro una media di 8-12 ore al giorno – fine settimana incluso -, e non ho
pesato sull’8×1000 e neppure sul sistema sanitario nazionale fino ai 60 anni
compiuti. Quando nel 2010, rientrato in Italia dopo 21 anni di servizio in
Kenya, sono diventato viceparroco (mentre i miei coetanei andavano in
pensione), ho ricevuto il mio primo stipendio di 699,00 euro netti al mese,
tasse pagate, che mi lucra un totale annuo di ca. 8200,00 euro, tredicesima
compresa, troppo per essere esente dal ticket sanitario.

Quanto ai migranti, o potenziali tali, li ho aiutati
quando ero a casa loro e continuo ad aiutarli da qui, perché ritengo che la
cosa migliore sia metterli in condizione di vivere una vita dignitosa restando
a casa propria. Come fanno tanti miei confratelli in Africa, America Latina e
Asia, cui dò voce attraverso questa rivista, e come possono testimoniare le
centinaia (non ho mai tenuto il conto!) di ragazzi e ragazze che ho fatto, e
continuo a fare studiare con l’aiuto di tanti amici. Essi – ragazzi e amici –
sanno bene che sono più una formica e che una cicala, anzi più un «canale che
una conca», per dirla col Beato Allamano, perché quello che «mendico» dagli
amici e benefattori va tutto per aiutare chi è nel bisogno, creando non poche
ansietà al mio amministratore con i miei conti perennemente in rosso.

Che il Signore e i lettori mi perdonino questo momento
di vanità. •

Risponde il Direttore




Cari Missionari

Michele De Michelis

Nasce
a Nichelino (To) il 06/12/39. In tenera età perde la mamma e vive con la
sorella poco più grande e il padre. Dopo la scuola media studia dai Salesiani
per diventare tipografo e, finita la scuola, inizia subito il lavoro in
tipografia. All’inizio degli anni ‘60 il padre viene trasferito a Biella per
lavoro, ma Michele sceglie di rimanere a Torino perché ama la sua città e le
montagne. Alcuni anni dopo inizia la sua avventura con le missioni, lavora a
Mani Tese, collaborando con il cuore e le mani; la sua disponibilità per la
realizzazione degli ideali del Movimento, e verso gli amici, è totale. Con gli
anni matura la decisione di andare in Africa, con i missionari della Consolata,
dove mette a disposizione la sua professionalità. Rimane due anni in Kenya.
Rientrato in Italia, riprende la sua vita da single e trova lavoro come custode
nel seminario di Via XX Settembre dove svolge il suo servizio con grande umanità
fino al-
l’età di 71 anni. Nella sua piena disponibilità verso il prossimo, i poveri e i
bisognosi per anni presta servizio al Sermig. Muore a Torino il 16 marzo 2013.
Michele, che hai amato la natura e la montagna, che hai sempre tenuto presente
e vissuto i valori dell’amicizia, sarai sempre nei nostri cuori.

Gli
Amici con p. Giordano Rigamonti,
16/04/2013

FESTA PER ROLANDO RIVI

Nel
68° dell’uccisione del Servo di Dio Rolando Rivi, il 13 aprile, alle 18,00, nel
Duomo di Modena, l’arcivescovo Antonio Lanfranchi ha dato l’atteso annuncio
della promulgazione del decreto della Congregazione della Cause dei santi che
ne riconosce il martirio avvenuto nel 1945, quando Rivi aveva solo 14 anni.

La
vita di Rolando è legata alla chiesa di San Valentino di Castellarano (Modena),
dove i missionari della Consolata sono stati fino al 2011. P. Colusso Giovanni
(1915-2007), parroco per molti anni e ivi sepolto, è stato uno dei principali
promotori della causa di beatificazione del martire e una concausa del
miracolo a lui attribuito, come racconta Emilio Bonicelli, autore del libro «Il
sangue e l’amore» sulla storia di Rivi, in un articolo del settembre 2012 su www.tempi.it.

«Sono rimasto folgorato dalla storia di questo piccolo
ragazzo, profondamente innamorato di Gesù e trasformato da questo amore, su cui
aveva progettato la sua intera esistenza. E per tale amore è stato sequestrato,
torturato e ucciso da uomini accecati dall’ideologia. Quando ho “incontrato”
Rolando vivevo una vicenda personale molto difficile. Ero da poco tornato al
lavoro dopo una lunga convalescenza seguita a un trapianto di midollo osseo per
curare una leucemia. Allo stesso modo, un bambino inglese era guarito da questo
cancro ma attraverso una grazia. Sotto il suo cuscino, un amico aveva posto una
ciocca di capelli di Rolando, intriso del sangue del martirio.

Come ha fatto una ciocca di capelli di Rolando Rivi a
finire in Inghilterra?

Un giovane di origine indiana, che aveva studiato a Roma
e completato i suoi studi in Inghilterra, dove guidava un gruppo di preghiera,
era stato accolto da una famiglia di amici protestanti. Rimase colpito da un
articolo dell’Osservatore romano, che parlava proprio di Rolando. Il giovane si
mise in contatto con padre Colusso, parroco di San Valentino dove Rolando è
sepolto e venerato. Il figlio più piccolo di quegli amici protestanti si era
ammalato di leucemia e il giovane chiese al prete una reliquia per poter
chiedere l’intercessione di Rolando. Padre Colusso gli spedì la ciocca di
capelli. Al termine di una novena di preghiera, il bambino stava bene».

Ora finalmente, dopo sessant’anni, il silenzio su Rolando
è finito e sarà dichiarato beato. Sono sicuro che p. Colusso, dal cielo, esulta
con tutti noi.

Bruno
Bardelli
Castellarano, 15/04/2013

Precisazione

Caro
direttore, mi permetta una piccola precisazione circa un dettaglio riguardante
il dossier «Missione di carta» marzo 2013 apparso sulla sua pregiata rivista
che leggo con tanto piacere. La precisazione riguarda l’articolo di Lorenzo
Fazzini, in chiusura di dossier. Di don Luigi Bonomi si dice che era «uno dei
preti mazziani rimasti prigionieri del Mahdi in Sudan». Don Bonomi non era un
mazziano, ma un sacerdote diocesano veronese reclutato da mons. Daniele Comboni
per il Sudan nel 1874. Alla morte di don Nicola Mazza (2 agosto 1865), il suo
successore don Gioacchino Tomba non si sentì di continuare l’impegno del suo
istituto per la missione africana e a Comboni non restò che continuare il suo
progetto con l’aiuto di missionari reclutati tra sacerdoti diocesani e altri
vari. Uno di questi fu anche don Luigi Bonomi, che divenne membro dell’istituto
fondato dal Comboni stesso nel 1867.

P.
Giuliano Chisté
Verona,10/04/2013

a cura del direttore




Cari Missionari

COSì STA SCRITTO

Cari
Missionari,
mi unisco a quanti hanno manifestato riconoscenza ed entusiasmo per il favoloso
lavoro di esegesi biblica svolto in questi anni da don Paolo Farinella sulla
parabola del figliol prodigo e sul racconto del miracolo di Cana.

Anche
la nuova avventura è iniziata alla grande e un risultato importante don Paolo
l’ha ottenuto già con la scelta del titolo. Infatti la famosa frase di Gesù a
torto continua a essere tradotta con «date a Cesare quel che è di Cesare»,
mentre la traduzione corretta è «restituite (o, appunto, «rendete») a Cesare
quel che è di Cesare».

Troppe
volte l’errata traduzione ha spianato la strada a spiacevolissimi equivoci,
tipo «l’ha detto anche Gesù che bisogna pagare le tasse anche se sono ingiuste»
o «lo dicono anche le Sacre Scritture che le tasse vanno pagate sempre anche se
chi le esige è un mascalzone» (erano questi i termini in cui nell’estate del
2007 si esprimevano l’allora Presidente del Consiglio Romano Prodi e alcuni dei
suoi ministri).

Quando
raccomanda di non rubare, di non frodare, di non ingannare il prossimo e di
onorare quelli che oggi chiamiamo «obblighi fiscali» e qualche volta
addirittura «fedeltà fiscale», Gesù usa verbi (apodecatoo, didomi, ballo)
diversi da quello che usa nel momento in cui risponde ai farisei e agli erodiani
sulla questione del tributo a Cesare.

Sia
in Matteo, sia in Marco, sia in Luca il verbo usato da Gesù è apodidomi
che anche don Paolo ha ritenuto di dover tradurre con «rendete» non con «date».
Questo stesso verbo, apodidomi, è il verbo che ritroviamo in bocca
all’esattore Zaccheo (cfr. Luca 19,8) quando, divenuto consapevole degli abusi
compiuti ai danni dei contribuenti e desideroso di iniziare un cammino di
conversione, si impegna davanti a Gesù a «restituire» quanto ingiustamente
prelevato alla collettività. Un capovolgimento di prospettiva che don Paolo non
mancherà di approfondire con quei meravigliosi itinerari ai quali ormai ci ha
abituato. Grazie
per l’attenzione.

Francesco Rondina, Fano
23/03/2013 

Spett.le
redazione,
seguo già da tempo il vostro sito, in particolare la rubrica «Così sta scritto»
di don Paolo Farinella, le cui esegesi uso per il corso di cresima agli adulti
e per le giornate di ritiro spirituale che svolgiamo con il nostro gruppo
(R.n.S.). Sono felice che don Paolo continuerà la sua attività e, in modo
particolare, della scuola di Sacra Scrittura che inizierà nei prossimi mesi (la
aspetto come la «cerva che anela ai corsi d’acqua»). Volevo semplicemente
ringraziarvi per quello che fate. Cordiali
saluti,

Salvatore Di Peri
14/03/2013

Beneficenza  e Carità

Leggendo
le parole dell’editoriale di marzo, mi sono identificato nello «spirito» dello
stesso. Trovandomi da anni coinvolto in esperienze missionarie in Kenya e
Tanzania, ho organizzato incontri ove esponevo e condividevo ad amici, colleghi
ed estranei la mia, anzi la nostra (da quando ho conosciuto, in Kenya, mia
moglie) esperienza tra i missionari, non solo della Consolata ma anche di altri
ordini, e con la gente locale.

Quello
che vivi, provi, senti e ti entra dentro il cuore in Africa non puoi tenertelo
dentro e pertanto è di fondamentale importanza condividerlo, cercando di far
capire che non esiste solo il nostro «ego» ma esistono anche bambini e adulti
che, senza colpe, sopravvivono giorno dopo giorno, vedendo calpestata la propria
dignità di esseri umani. È difficile indovinare a fondo quanto prova la gente
di fronte alle immagini, ai filmati e ai racconti, ma si percepisce comunque un
certo distacco, una lontananza ancorata al proprio quieto vivere, seppur con il
sincero intento di voler fare qualcosa per aiutare. Solamente se stimolata ogni
volta la gente s’interessa nuovamente a queste problematiche, mentre pochi,
direi rari, si sentono così colpiti da fare proprio, dal profondo del cuore, il
concetto di carità efficacemente espresso nell’editoriale. La carità non è un
fare ma un modo di vivere e di condividere tra esseri umani, tra tutti.

Troppa
gente, come padre Gigi sottolinea, è superficiale ed emotiva di fronte alla
carità, agendo quasi per pagare dazio e lavarsi le mani, facendo i «buoni»
senza però essere «buoni» fino in fondo, senza cioè fare propria la profondità
della carità-amore. Una virtù che dovrebbe essere radicata nei credenti, nei
religiosi, negli uomini di buona volontà ma che purtroppo è spesso soffocata da
ben altre amenità ed è rispolverato a comando solo in talune occasioni.

La
carità non è un concetto astratto, semmai è di difficile attuazione, perché si
pensa che non sia possibile donare al povero se prima non si ha una propria
sicurezza; prima bisogna pensare a se stessi e poi agli altri, agli estranei,
seppur fratelli. Si rischia di passare per «folli» se si dona un paio di scarpe
nuove tenendo per sé quelle bucate. Figuriamoci poi se si arriverà a
condividere la povertà, calzando le malandate scarpe del povero stesso.

Padre
Bergoglio, alias papa Francesco, in poco tempo ha offerto al genere
umano delle occasioni di riflessione e, possiamo dirlo, condivisione. Speriamo
con questo che la sensibilità e attenzione verso taluni concetti come la povertà
e soprattutto la carità possano diventare patrimonio comune, educandoci dal
profondo del nostro cuore e spirito. Asante sana (tante grazie),

Vincenzo e famiglia
Email, 26/03/2013

a cura del Direttore