Cari Missionari

Troppi
obiettori, anzi, troppo pochi!

L’8 marzo 2014, per dare il suo contributo alla
celebrazione della Festa della Donna, il Consiglio d’Europa non ha trovato
niente di meglio da fare che redarguire l’Italia per l’eccesso di
tolleranza verso i medici antiabortisti: «A causa dell’elevato e crescente
numero di medici obbiettori di coscienza, l’Italia viola i diritti delle donne
che alle condizioni prescritte dalla legge 194 del 1978 intendono interrompere
la gravidanza…».

Esattamente un mese dopo, nella vostra Torino, città che
anche io amo molto – come si può non amare la città della Consolata, la città
della Sindone, la città di San Giovanni Bosco, la prima capitale dell’Italia
unita? – è accaduta una cosa molto grave: all’Ospedale Martini si sono
registrate le prime due vittime italiane dell’aborto chimico, Anna Maria e la
creatura che portava in grembo sono morte dopo il trattamento con la odiosa
mistura prostaglandina + RU 486 (dove RU sta per Russel Uclaf, industria del
gruppo Hoecht, la grande multinazionale che negli anni della II Guerra Mondiale
produceva i gas nervini per la Germania nazista, gas che  vennero
usati nei campi di concentramento per uccidere milioni di innocenti).

Ebbene, se per il Consiglio d’Europa i medici e i
farmacisti italiani obbiettori sono troppi, per me sono troppo pochi: se ce ne
fosse stato qualcuno in più, quasi certamente una giovane mamma sarebbe
ancora viva e all’ombra della Mole ci sarebbero un bambino in più e un orfano in meno.

Voglio esprimere un auspicio: i membri del nuovo
Parlamento Europeo e della nuova Commissione Europea rivedano da cima a fondo la scala dei valori alla quale si sono
ispirati i loro predecessori e facciano sentire la loro voce nel Consiglio
d’Europa. La vita umana deve tornare a occupare un posto molto alto in questa
scala; quanto alle libertà individuali, quella da mettere sotto accusa non è la
libertà di obiezione di coscienza, ma quella che eleva l’interruzione di
gravidanza al rango di diritti, e un pesticida antiumano – così lo definiva
anche il grande medico e genetista Jerome Lejeune – al rango di farmaco.
Cordiali saluti

Luciano Montenigri
Fano, 20/05/2014

L’eterno riposo

Trovo molto interessanti, in questa rubrica, gli scambi
tra i lettori assolutamente digiuni di teologia e la redazione, come, sul
numero di Aprile, circa la simbologia del crocefisso. Provo anche io a die
una: come mai la nostra preghiera per i defunti parla di eterno riposo,
che dà l’idea di una noia pazzesca, e non di eterna gioia del paradiso? O forse
per i normali defunti è previsto il riposo fino alla resurrezione dei morti,
mentre intanto la gioia del paradiso è riservata solo ai santi?

Non è che non parli dell’eterna gioia perché nel periodo
dell’affermazione del cristianesimo, tra crisi dell’impero romano e alto
medioevo, la popolazione era scarsissima, i contadini facevano una vita
impossibile, e bisognava scoraggiare la tendenza al suicidio con le più feroci
maledizioni perché senza contadini non mangiavano i cavalieri e neanche preti e
frati?

Claudio Bellavita
21/05/2014

Purtroppo
la parola riposo è inflazionata e ha perso la potenza del suo
significato originale. Il termine riposo della famosa preghiera non è
scelto a caso. Ha le sue radici nella Bibbia e non è certo un’invenzione
medioevale, come lei suggerisce, anche se nel Medioevo l’obbligo del riposo
domenicale e delle feste liturgiche è stato, di fatto, uno strumento di difesa
dei poveri contro le vessazioni dei signori. Quanto ai monaci, essendo in
molti, erano bene in grado di provvedere a se stessi, anche fin troppo bene,
visto che alcuni monasteri e conventi divennero così ricchi da causare la
propria rovina.

Nella Bibbia il primo significato della parola che indica riposo è sedersi per
riposare
, come il cammello che si accovaccia. Ben presto però la parola
assume anche un significato religioso per indicare il posarsi dello spirito
di Dio sull’uomo e sulle cose
. Poi si arriva a un significato più profondo:
concedere il riposo, che è il dono di Dio al suo popolo attraverso il
possesso della Terra Promessa e la vittoria sui nemici. Il vero riposo, allora,
è il risultato della realizzazione della promessa di Dio a Israele e si
attua nel paese nel quale abiterà in pace, senza paure e affanni, «ognuno sotto
la propria vite e sotto il proprio fico» (1 Re 5,4s).

Il riposo è
collegato in modo particolare al settimo giorno, il sabato
(etimologicamente «cessazione dal lavoro»), e nell’Antico Testamento assume tre significati:

Gen 2, 2 e Es 20, 8-11:
è il ricordo del completamento
della creazione
; il riposo di Dio, a conclusione della creazione del mondo,
è il paradigma del riposo dell’uomo. È il giornioso compiacimento nel contemplare
un lavoro ben fatto che dà soddisfazione e pace. È un atto col quale si
riconosce che il mondo, la creazione appartiene a Dio.

Dt 5,12-15:
è risultato della liberazione dalla schiavitù che Dio ha donato al suo
popolo. È frutto della salvezza operata da Dio. Riposare è un’azione da uomini
liberi, è una prerogativa di libertà. Israele, non più schiavo in Egitto, è un
popolo libero nella terra della promessa dove gode il riposo che è felicità,
libertà, pace e sicurezza. Riposare è allora un atto di riconoscenza per
l’azione liberatrice di Dio.

Es 31,12-17:
è il frutto e la celebrazione dell’Alleanza, quel rapporto privilegiato che
c’è tra Dio e il suo popolo
. Riposare diventa atto di comunione con Dio e
partecipazione alla sua vita, di consacrazione e di appartenenza a Lui solo.

Nel Nuovo Testamento
il tema del riposo è presentato con forza nei capitoli 3 e 4 della lettera agli
Ebrei, dove si dice che solo per fede si entra nel riposo di Dio. Lì il
riposo vero è la partecipazione alla vita stessa di Dio
di cui la Terra
Promessa era solo un’anticipazione provvisoria e incompleta. Ma il riposo si
capisce appieno solo con Mt 11, 28ss in cui Gesù dice che solo andando da lui
troveremo il «riposo della nostra vita». Il vero riposo è Gesù stesso, è
lo stare con lui, dove lui è. Questo è un riposo ben diverso da quello del
ricco della parabola di Lc 12, 16-21 che invece di trovare la felicità
nell’amore per Dio e per gli altri è diventato prigioniero delle sue cose.

Questi sono pochi spunti che ci dicono come
quando usiamo la parola «riposo» non intendiamo certo la noia, vuota e triste,
di chi non ha niente da fare e neppure la terapia per chi è malato o stressato.
È invece lo stato di totale felicità e gioia di chi ha raggiunto la piena
libertà e realizzato la propria dignità di figlio e figlia di Dio nella «casa
del Padre» che Gesù ha spalancato per noi.

Coscienza e
salvezza

Caro Padre,
questo è quanto mi ha scritto mia nipote
Debora dopo aver letto la tua riposta sulla rivista di
aprile (MC 4/2014, pag. 6).

«Grazie di aver inoltrato le mie domande alla rivista, è
stato molto interessante leggere la risposta degli esperti in materia. Mi sono
proprio piaciute perché è la stessa identica cosa che ho sempre pensato io, cioè,
riassumendo in due parole, che chi nasce non cristiano non può essere
condannato solo per questo, ma sarà valutato da come si è comportato secondo la
sua cultura, e che nessuno ci assicura che la Bibbia sia un testo al 100% vero,
ci si può soltanto «fidare».

[…] Ho però qualche riserva sul fatto che “ognuno è
chiamato a vivere una vita retta in base alla sua cultura e alla sua coscienza,
su questo sarà valutato e non su quello che non conosce”. Frase vera, ma
pericolosa! Per due motivi: il primo è che la coscienza è influenzata sin dalla
nascita dall’ambiente che ci circonda. […] La coscienza è creata,
passami il termine, dall’ambiente socio-culturale in cui viviamo. Il secondo
motivo è che ci sono tante culture a questo mondo e molto diverse tra loro,
alcune indubbiamente ancora piuttosto barbare, perlomeno ai nostri occhi
occidentali. Non parlo di indigeni isolati nella foresta, ma, cosa assai
peggiore, di culture che pongono a livello inferiore un essere umano rispetto a
un altro in base a non si sa bene quali principi. [Uno che si comporta così]
al momento della morte quindi  risulterà
retto e onesto visto che si è sempre comportato seguendo alla perfezione quello
che gli hanno insegnato e che è ciò che conosce.

Cito ancora: “La condanna è per chi non vive secondo gli
standard migliori della sua cultura”. Da ciò ne deriva che noi siamo tutti
spacciati perché lo standard del nostro Dio è talmente alto che possiamo
soltanto pregare di avvicinarcisi. [Invece il Nostro che tratta le donne
come oggetti, batte la moglie, uccide gli infedeli, impicca chi sceglie
un’altra religione
] è salvo: non è colpa sua perché lui non lo sa. Lui
pensa di far bene, di combattere per il suo Dio. Non può quindi essere
condannato per ciò che lui è convinto sia giusto. E per noi vale la stessa
cosa. Noi cristiani siamo convinti che lassù ci sia Dio e cerchiamo in tutti i
modi di convincere gli altri. Magari quando moriremo e andremo lassù troviamo
[Dio] che ci dirà: “Siete stati dei fessacchiotti, ma non posso condannarvi
perché non lo sapevate”. Alla fine della fiera ne deriva che non saremo
giudicati con dei valori standard per tutti, ma con dei valori tipici
della cultura di ogni luogo. E la cultura la fanno gli uomini, quindi ancora
una volta saremo praticamente giudicati da valori creati dagli uomini.

E poi, un’ultima questione: c’è ancora qualcuno sulla
terra che non sappia che ci sono cristiani, musulmani, ebrei, induisti,
buddhisti e compagnia? Chi può dire “non lo sapevo”? I musulmani sanno bene che
ci sono i cristiani, ma li rifiutano perché sono nati musulmani e pensano che
sia giusto così. Noi sappiamo che ci sono le altre religioni, ma mai ci
sogneremmo di lasciare la nostra per la loro perché siamo nati con questa e
pensiamo che sia giusta. Qua non si tratta di “sapere”, ma di forte influenza
culturale. Sei quel che sei in base a dove nasci.

Concludo con una massima: Grazie Signore per non avermi
fatto nascere in [un paese] dove sarei battuta dalla mattina alla sera». Grazie a voi.

Manuela
22/04/2014

Grazie
dell’esperti in materia. Come missionari e preti dovremmo esserlo, ma
non per dire «così è e non si discute». Dovremmo essere degli esperti nel
testimoniare nei fatti e nella parola l’infinito amore di Dio. Chiedo scusa a
Debora se per ragioni di spazio ho più che dimezzato il suo lungo scritto e
tolto ogni riferimento a una specifica religione.

Bibbia: «testo al 100% vero». Non è libro di storia o scienza: condivide gli errori e
le ignoranze del suo tempo. Racconta invece con verità l’esperienza religiosa
della conoscenza sempre più approfondita di un Dio che si rivela
progressivamente, fino alla pienezza di Gesù Cristo. Certo, senza fede (=
relazione di amore) in Dio, la Bibbia rimane un libro tra tanti.

Ci sono culture intrinsecamente cattive? San Paolo dice che tutti gli uomini sono «discendenza di
Dio» (At 17,29) e hanno in sé una capacità naturale di cercare Dio, «se mai
giungano a trovarlo, come a tastoni, benché egli non sia lontano da ciascuno di
noi» (At17,27). Per questo possiamo dire che in tutte le culture ci sono dei
valori fondamentalmente positivi su cui tutti gli uomini possono ritrovarsi. Il
problema nasce quando degli uomini prendono il posto di  Dio.

«Saremo giudicati da valori creati dagli
uomini»?
Gesù insegna che «saremo
giudicati sull’amore». Amore è compassione, misericordia, solidarietà, aiuto ai
poveri e più deboli della società, giustizia, azione di pace… Questo mi pare
possa valere per tutti gli uomini. Se qualcuno poi usa della (sua) religione
per giustificare violenza, discriminazione, guerra, ingiustizia e avidità, se
la vedrà lui con il Padreterno.

«Chi può dire non sapevo»? C’è differenza tra essere informati e sapere/conoscere.
Si possono avere tutte le nozioni e informazioni del mondo, ma – in fatto di
fede – conoscere è entrare in relazione, è amare. La religione, nelle sue forme
esteriori, nei suoi rituali e nell’organizzazione, è frutto ed espressione di
una cultura, ma la fede no. Per noi cristiani la fede nasce dall’incontro
personale con il Dio rivelato da Gesù Cristo, che con la sua incarnazione,
passione, morte e risurrezione ci ha resi partecipi della famiglia di Dio, qui
sulla terra anticipata nella comunità dei credenti, la Chiesa.

Tags: salvezza, morte, riposo, bioetica, obiezione di coscienza, aborto, coscienza

Risponde il Direttore




Cari Missionari

Avorio e Religiosità

Se è vero che ciò che accade nella Chiesa particolare
riguarda la Chiesa universale, dopo aver letto (M.C. n.10/2013, p.8) che
è stata la Chiesa filippina a convocare la Conferenza asiatica per la Nuova
Evangelizzazione, mi piacerebbe domandare al Primate S. E. Mons. Luis Antonio
Tagle, arcivescovo di Manila nonché cardinale elettore nel Conclave che ha
scelto Papa Francesco, se le scelte compiute dal nuovo pontefice per quanto
riguarda addobbi, decorazioni, suppellettili sono destinate a restare, in Asia,
lettera morta, oppure stimoleranno anche i cattolici dell’Estremo

Oriente, a cominciare da quelli delle Filippine, a
intraprendere un cammino di rinnovamento all’insegna della sobrietà, della
frugalità, della ragionevolezza.

Sono rimasto molto male, leggendo un non certo tenero ma
documentatissimo dossier del National Geographic (cfr. N. Geographic Italia Ottobre 2012), che «in
Asia la domanda di avorio è cresciuta», che «l’avorio sequestrato è ben poca
cosa rispetto a quello che arriva a destinazione», che nella cattolicissima
Manila «i principali clienti sono i preti», che «i principali fornitori sono
filippini musulmani che hanno legami con l’Africa o musulmani malesi», che «nell’isola
di Cebu il legame tra avorio e religione è così stretto che la parola garing
= avorio, significa anche statua sacra…», che «il Vaticano non ha mai firmato
la Cites – Convenzione internazionale
sulle specie in pericolo – dunque non è tenuto a rispettare il
bando del commercio dell’avorio», che persino i cattolici filippini
appartenenti ai ceti meno abbienti considerano il possesso di santi bambini
d’avorio, madonne d’avorio, crocifissi con Cristo d’avorio fondamentali per la
fede, per la preghiera, per la vita cristiana. Vorrei chiedere ancora a Mons.
Tagle: di quanti garing hanno ancora bisogno le chiese e le case
filippine? Se l’avorio è così importante per la liturgia e il culto, che
succederà alla cristianità delle Filippine quando di elefanti asiatici con le
zanne non ne sarà rimasto neppure uno e gli unici elefanti africani
sopravvissuti saranno quelli degli zoo e dei circhi?

Come fanno i vescovi, i preti e i laici filippini a non
sentire alcun senso di colpa quando apprendono di massacri di elefanti […]?
Come si fa a non capire che bisogna rivedere anche il rapporto con gli oggetti
di culto – e, segnatamente, quelli in avorio – se si vogliono salvaguardare i
diritti delle future generazioni. Invece di ambire al possesso di altri garing,
non sarebbe meglio accontentarsi di quelli che già si posseggono? Non sarebbe
più ragionevole e più cristiano riconoscere che sono già tanti?

Grazie
per l’attenzione.

Francesco Rondina
Fano, 19/10/2013

Caro Francesco,
poiché lo spazio è tiranno, ho dovuto tagliare parte della lettera, mantenendo
le questioni essenziali. Concordo con buona parte delle sue osservazioni e mi
auguro che lo stile di papa Francesco abbia un influsso positivo sul problema
da lei posto. Mi permetto però di sottolineare alcuni punti.

1. La relazione tra il fatto che il Vaticano non abbia firmato il
Cites e il «consumo» d’avorio dei filippini non è logica. La firma della
convenzione da parte dello stato del Vaticano avrebbe un peso esclusivamente
morale e non legale sui filippini. Più rilevante per loro è la firma della
convenzione da parte delle Filippine. Tocca infatti alle Filippine
regolamentare il commercio dell’avorio nel proprio territorio, non al Vaticano.
L’associazione del Vaticano (stato) con la Chiesa Cattolica, è un abbinamento
che va molto a orecchio, che può suonare bene per la stampa popolare, ma non
regge all’analisi obiettiva dei fatti.

2. Anche stabilire un rapporto di necessità
tra statue d’avorio e liturgia cattolica è arbitrario. Non è la religione
cattolica che ha creato il bisogno dei garing, anche se essa ha
accettato una tradizione culturale comune a quasi tutte le culture orientali
che da millenni fanno uso dell’avorio nella produzione di oggetti religiosi,
forse proprio per la qualità intrinseca del materiale stesso: raro, prezioso e «puro».
Che oggi si possa e si debba invitare i cattolici delle Filippine a un uso più
cosciente e ragionato di tali oggetti, è indubbio. Che ci sia un nesso tra la
forte richiesta di questi oggetti e lo sterminio degli elefanti, è un fatto che
non contesto. Ma le statue d’avorio non sono proprie né necessarie al culto
cattolico. Sono frutto di una religiosità popolare che si radica in una cultura
che esisteva ben prima dell’evangelizzazione di quelle isole nel XIV secolo.

Due euro per il mare

Leggendo il pregevole articolo di Paolo Bertezzolo (M.C.
n.11/2013, p.68-71
) sulla nuova moneta da 2€ dedicata ai Santi Cirillo e
Metodio, ho pensato che quello scoppiato tra Francia e Slovacchia non è solo un
contrasto tra due modi diversi di intendere il rapporto tra politica e
religione.

Nel
IX secolo Cirillo e Metodio furono dei formidabili evangelizzatori, mediatori e
unificatori che cercarono, riuscendoci, di prendere il meglio di ogni tradizione,
lingua e cultura. Lavorarono sodo per amalgamare germanici e latini, cristiani
d’Oriente e d’Occidente, genti slave del Nord e del Sud, popoli delle grandi
selve e popoli a vocazione marinara. Diedero un alfabeto e una scrittura agli
Slavi traducendo in una lingua nuova Bibbia e Liturgia Cattolica, difesero il
loro metodo di evangelizzazione dalle velleità egemoniche del clero tedesco
che, a un certo punto, si rivolse addirittura alla Santa Sede per togliere di
mezzo i due fratelli greci. Il Papa Adriano II però non solo frustrò le
aspettative di quei tedeschi superficiali e invidiosi, ma assicurò tutto il suo
sostegno all’opera di Cirillo e Metodio.

Agli
amici della Slovacchia, uno dei pochi paesi di Eurolandia a non avere sbocchi
sul mare, e a tutti coloro che hanno voce in capitolo quando si tratta di
ideare, approvare ed emettere nuovi conii, vorrei dare un suggerimento: in una
delle prossime monete da 2€ fate effigiare una tartaruga, un tonno, un pesce
luna, un delfino, uno squalo elefante…

Tale scelta potrebbe essere il segno di una rinnovata
volontà di tutti i popoli europei a procedere sulla strada della protezione
ambientale, rompendo con la linea seguita fin qui da Bruxelles per quel che
riguarda tutto ciò che ha a che fare con il mare, dalla pesca al turismo, dalla
balneazione alla pirateria, dal contrabbando al soccorso dei naufraghi, dalla
perforazione petrolifera al trasporto di sostanze tossiche.

È una
linea che non si concilia in alcun modo con le istanze di giustizia e di pace
ma neanche con quelle della serietà, dell’efficienza, del buon senso, del
rigore e del risanamento dei conti pubblici.

[…]
Vi ringrazio per l’attenzione e Vi saluto cordialmente.

Maria Weistroffer
Bordeaux, 24/11/2013

780.000 bottiglie di plastica

Carissimi,
forse lo avrete già dimenticato, ma il «Cristo de los Desterrados» (M.C.
n.1-2/2012, p.5
) continua a farsi strada e già si è incamminato e vuole
benedire, proteggere e farsi promotore di questo brandello di foresta dove «los
niños ecológicos en acción», contro vento e marea, vogliono dimostrare che una
spiaggia più pulita è un’alternativa al solito menefreghismo di molti e
scetticismo dei più, ed è la strada giusta per crescere senza perdere la
propria identità culturale indietreggiando come un gambero, e per continuare a
scavare come «armadillos».

Intanto 780.000 (settecentoottantamila) bottiglie sono già state
infilzate e circondano i 3000 m2 del
piccolo parco giochi dove la storia di Pinocchio con balena a dimensione
naturale (fatta di bottiglie) con Geppetto nel suo pancione saranno
l’attrazione principale. Intanto il parco sfoggia già il suo stupendo arco
d’ingresso. Direte: dove avete preso quelle 780.000 mila bottiglie? Sulla
spiaggia dell’Oceano Pacifico, naturalmente! E ce ne sono ancora di più. La
raccolta è stata fatta dai bambini e ragazzi, premiati con un centesimo di euro
a bottiglia, soldini che son loro serviti per comprarsi libri e quadei di
scuola oltre che i deliziosi dolci di noce di cocco per completare la loro
povera colazione. La cosa più bella è stata l’esclamazione spontanea di uno dei
ragazzi: «Questo me lo sono guadagnato io!». Che ve ne pare? Pinocchio comincia
a farsi uomo e a capire che in questo mondo «il sudore della fronte» aiuta a
crescere e che è vero ciò che afferma San Paolo quando dice ai suoi
Tessalonicesi fannulloni e molto indaffarati in chiacchiere «che chi non vuol
lavorare, neppure mangi».

Intanto
il piccolo parco ha già pure la sua minuscola cappella da dove un altro pezzo
di legno, lavorato da Ariel, il modesto artigiano tutto fare, sfoggia il Cristo
benedicente, portatore di pace e armonia.

P. Vincenzo Pellegrino
 Cali, Colombia

«Sono» troppi

Lampedusa:
ho visto qualche lettera sulla Rivista. Ma il dato essenziale non viene
evidenziato né lì né altrove. L’Africa contava circa 30 milioni di umani a metà
dell’Ottocento, ora ne ha un miliardo! E con un tempo di raddoppio di 30 anni.
Qui sta il vero problema a monte. Nel frattempo è stato distrutto il 90% degli
altri esseri senzienti (altri animali, piante, ecosistemi) e il processo
continua senza sosta. Se non cessa il mostruoso aumento della popolazione
umana, in quasi tutto il mondo, è evidente che tutti i problemi sono insolubili
e si aggravano sempre più. Non basta dare la colpa «alle multinazionali», al
colonialismo e simili, queste sono solo concause, aggravamenti di una
situazione e di un andamento assolutamente insostenibili. Vi allego un
interessante articolo pubblicato 20 anni fa (che non riportiamo per ragioni di
spazio, ma si può trovare sul sito de La Repubblica, 11/6/1994: Orazio della
Rocca, Guerra delle culle in Vaticano. In esso si sosteneva che anche
l’Accademia Pontificia raccomandava un rilassamento nell’opposizione totale al
problema del controllo delle nascite, ndr). In questo lasso di tempo la
popolazione umana nel mondo è aumentata di due miliardi di umani! Ma come
pensate che si possa andare avanti così? Inoltre, togliere lo spazio vitale
agli altri esseri senzienti è moralmente condannabile, è un delitto. Qui si sta
distruggendo la Terra. Distinti saluti.

Albino Fedeli
Brescia, 7/10/2013

Caro Albino,
su queste pagine abbiamo dibattuto più e più volte sul problema della (sovra)
popolazione (Vedi: M.C. n.1-2/2013, p.7; 3/2013, p.7). Qui mi permetto
di sottolineare alcuni punti circa la Chiesa, implicati dal riferimento
all’articolo de La Repubblica.

La Chiesa,
ritiene sì che i figli sono un dono e che ogni vita va rispettata fin dal
concepimento, ma non sostiene il principio che bisogna fare figli a tutti i
costi. Da anni (almeno 50), nella sua dottrina sociale, insiste su pateità e
mateità responsabile, promuovendo metodi e stili rispettosi della vita e
attenti all’ambiente. È vero che Essa si è sempre opposta all’aborto, alla
sterilizzazione, all’uso di pillole abortive e di altri strumenti che
favoriscano il sesso indiscriminato e irresponsabile fino dall’adolescenza
(ampiamente sostenuti invece da potenti e danarose lobby anche intee all’UE,
vedi ad esempio il documento «Standards for Sexuality Education in Europe»
promosso dalla sezione europea dell’OMS). Ma ritenere la Chiesa responsabile
della crescita demografica perché opposta ai preservativi, è fuori posto.
Sarebbe attribuire a Essa un’influenza che di fatto non ha (e non ha mai
avuto). I fatti sono semplici: la crescita demografica più accentuata è
avvenuta in Cina e in India, dove l’influenza della Chiesa è minimale. In
Europa e America del Nord, dove in teoria il suo influsso era più forte, si è
invece assistito al fenomeno contrario, addirittura alla decrescita della
popolazione. E noi italiani siamo proprio tra i primi al mondo nella decrescita
demografica!

Ben altre sono
le ragioni della crescita della popolazione mondiale, in primis il
grande e positivo sviluppo della medicina, che ha drasticamente ridotto la mortalità
infantile e allungato (anzi, quasi raddoppiato in molti paesi) la vita media. È
un male questo? Non credo proprio. È un fatto che ci chiama a maggior
responsabilità verso questo nostro fragile mondo. E questa responsabilità
comincia con la giustizia nell’uso delle risorse e dell’ambiente. Dio ha un
progetto di armonia per il creato: armonia tra «esseri umani», «esseri
senzienti» e natura. E Lui è il garante di questa armonia.

«Ferie» diverse a Ikonda

Fare
del «volontariato» in un ospedale missionario a Ikonda in Tanzania durante il
proprio periodo di «ferie». È quello che hanno fatto due giovani gambettolesi
dal 26 agosto al 19 settembre scorso, Nicolò Pistoni, ventottenne laureato in
Ingegneria Biomedica, e Sofia Pedrelli, ventenne laureanda in Educatore
Professionale. […] Conosciamoli attraverso il racconto dell’esperienza
vissuta nel continente africano.

Come e per quali ragioni avete deciso di fare un’esperienza
missionaria? Perché in Africa e in questo particolare ospedale?

«Da
tempo collaboro con i Missionari della Consolata che a Gambettola hanno un
centro missionario (ex seminario) con annesso Santuario – precisa Pistoni – per
organizzare raccolte fondi destinate al sostentamento dei diversi centri che
questo Istituto ha realizzato in tutto il mondo: dalle missioni in Colombia,
Venezuela e Mozambico gestite da Missionari miei compaesani all’Allamano
Special School di Wamagana (Kenya) in cui trovano ricovero decine di bambini
portatori di handicap mentali e fisici. L’input di
partire per questa destinazione è venuto da padre Sandro Faedi, allora
vicesuperiore in Italia e ora in Mozambico. Dopo avergli raccontato della mia
carriera universitaria, mi ha proposto di dare una mano concretamente in uno
dei tanti ospedali sparsi nel mondo nei quali, ogni giorno, si dà conforto e si
presta soccorso alle popolazioni più povere. Fra le tante possibili
destinazioni la scelta è ricaduta sul Consolata Hospital di Ikonda in Tanzania,
paese nel quale è stato per molti anni anche l’attuale superiore della casa di
Gambettola, padre Daniele Armanni. Quell’ospedale è ora una delle strutture più
grandi e attrezzate realizzate in Africa dall’Istituto Missioni Consolata. A
Ikonda ho prestato servizio come tecnico nel reparto di radiologia e ho messo a
disposizione le mie conoscenze a chi fa questo stesso lavoro e non ha avuto una
preparazione specifica e strutturata come la mia grazie al tirocinio prima e al
volontariato poi, fatti in gran parte nell’ospedale Bufalini di Cesena in tutti
i reparti di radiologia, a Rimini in Radioterapia e a Forlì in Medicina
Nucleare». «Contattata, ho deciso di condividere questa nuova esperienza di
volontariato – afferma Pedrelli -, che l’anno scorso ho svolto a Skutari
(Albania) in una casa famiglia dell’associazione Papa Giovanni XXIII. Ho
prestato aiuto nella farmacia intea e in alcune giornate ho fatto
l’animatrice presso l’asilo. Rimarrà indelebile il ricordo dello stupore dei
bambini quando ho fatto imprimere le impronte delle loro mani su un foglio di
carta dopo averle colorate».

Cosa vi ha lasciato questa esperienza?

«C’è un antico proverbio cinese che riesce a descrivere al
meglio questa missione umanitaria: “Dai a un uomo un pesce e lo avrai sfamato
per un giorno. Insegna a un uomo a pescare e lo avrai sfamato per tutta la vita”.
È quanto abbiamo fatto quotidianamente per affrontare il contatto con una realtà
tanto diversa – confermano all’unisono -, sia dal punto di vista culturale (lo
swahili è un ostacolo arduo da superare, segnando in un quaderno le parole
essenziali per svolgere il lavoro), sia dal punto di vista ambientale (a oltre
2000 metri di altezza in una delle aree più povere della Tanzania). Ostacoli
che sono stati superati donando per tre settimane tutto di noi, con il sorriso
negli occhi e nel cuore, tutti i giorni, condividendoli con tutti. Quanto
sperimentato ci aiuterà senzaltro a vivere meglio le realtà in cui siamo
inseriti».

Piero Spinosi
Gambettola (CE)

Risponde il Direttore




Cari Missionari

Lampedusa: sfintere
dell’Africa

Signor
Direttore,
i cittadini italiani non si assumono alcuna responsabilità per gli
ennesimi Africani affogati nel Canale di Sicilia. Quei morti siano sulla
coscienza degli «Alti» fautori dell’«accoglienza», di quei partiti e di quei
politici, come la Kyenge del Pd e la Laura Boldrini di Sel, che con i loro
proclami farisaici continuano a spingere i più poveri verso l’illusione del
nostro benessere. Se fuggono dall’Africa lo addebitiamo pure a chi ha voluto
chiudere l’era coloniale, mettendo popolazioni intere in mano a politici
africani inetti e incompetenti, quando non si dimostrano ladri e criminali,
solo per permettere a governi occidentali e orientali di continuare a derubare
l’Africa delle sue ricchezze minerarie e delle sue terre più produttive.
Distinti saluti.

Giorgio Rapanelli
Corridonia (Mc) 28/07/2013

Egregio Signor Giorgio,
anche se parla a nome degli italiani, non me la sento proprio di concordare con
lei. Quei morti stanno sulla nostra coscienza come uomini, come europei e come
italiani. Forse le farebbe bene un viaggio in quelle terre, ma non di quelli
con le agenzie «tutto compreso», per capire che gli emigranti non sono attirati
nel nostro paese dai proclami dei partiti e dei politici, ma sono costretti
alla fuga da povertà, ingiustizie e violenze. Vorrei dire che forse sono
ingannati anche dai nostri (del nostro mondo ricco) film, programmi televisivi,
«soap opera» che colonizzano le loro televisioni. E forse sono attirati dalla
nostra pace, quella che godiamo da quasi settant’anni, mentre da loro c’è
guerra, fame, violenza. E c’è poi il nostro bisogno di loro per fare i lavori
(sottopagati) che noi non vogliamo più fare, quelli sporchi, di notte, senza
ferie, malpagati. Inoltre quei «governi occidentali e orientali» che continuano
a derubare l’Africa, sono i nostri governi, che noi abbiamo eletto, siano essi
di destra o sinistra. E con i nostri governi e le nostre industrie, siamo noi
che continuiamo a rubare, perché abbiamo legittimato lo spreco e il superfluo.
Vivere di spreco e superfluo, come facciamo noi (almeno fino a che la crisi non
ci ha obbligati a diventare più sobri), significa accettare l’ingiustizia come
sistema. La cosa buffa – che poi buffa non è – è che lo stesso sistema
responsabile della morte degli «ennesimi» clandestini (bello il termine «clandestini»,
così anonimamente malvagio che ci fa sentire buoni e rispettosi della legge!), è
lo stesso che cavalca la crisi che fa lievitare i prezzi, aumentare il debito,
chiudere le fabbriche e trasferirle all’estero (dove si possono sfacciatamente
sfruttare i lavoratori), rendere impossibile il lavoro ai giovani e aumentare
il numero dei senza casa. Per questo non possiamo lavarci le mani, dire non ci
riguarda e dare la colpa a chissà chi. Ci siamo dentro. La verità è che non
sono le migliaia di persone in cerca di pace, lavoro e dignità in fuga dai loro
infei verso il nostro presunto paradiso, la causa dei nostri guai, della
nostra insicurezza, della violenza, dei furti. Essi sono il sintomo di una
malattia profonda di tutta l’umanità che ha messo al centro della sua vita non
più il rispetto della legge di Dio ma quella del dio denaro. E la cura non è
certo quella di insultare la signora Cécile Kyenge e le persone come lei.

Grazie

Sono la sorella di p. Aldo Giuliani e voglio ringraziare
di cuore per l’invio della rivista di maggio dove c’era il bellissimo articolo
su Sererit dove vive mio fratello. Sono stata in quei posti nel 1981, l’anno
che mancò in situazione tragica (anche per mio fratello) il nostro carissimo
amico e paesano p. Luigi Graiff. Pur essendo un brutto triste periodo abbiamo
fatto una bellissima esperienza. Dovrebbero provarla tante persone: vale molto
per la vita in special modo per la nostra gioventù. Vi ringrazio nuovamente per
l’immenso regalo prezioso inviatomi. Complimenti per la semplicità e chiarezza
nello spiegare la storia della missione e il personaggio di mio fratello… È
un uomo burbero ma di un grande ma grande cuore missionario. Un ricordo nelle
preghiere, di cui abbiamo tanto bisogno sia per motivi di salute che per le
nostre famiglie. Con affetto

Gianna Giuliani
Romeno (Tn), 24/07/2013

Per me è stata una
gioia raccontare di padre Aldo. Se lo merita. Come cuore è davvero imbattibile.
Quanto alla preghiera, stia tranquilla. I nostri famigliari sono sempre nella
nostra preghiera e poi abbiamo la promessa dell’Allamano il quale ci ha
assicurato che a essi pensa la Madonna Consolata di persona.

Decrescita

Tutte
le volte che ho ascoltato i nostalgici della crescita e i fautori della
decrescita, le argomentazioni portate dai primi mi sono sembrate meno
convincenti di quelle portate dai secondi. Il dossier di M.C. di Luglio
non ha fatto eccezione a questa regola: come ci si può lamentare della crisi
del Pil e dell’occupazione nelle grandi aziende (quelle sulla cui produttività è
basato, in larga parte, il calcolo del Pil) quando ci sono tanti indicatori che
ci raccontano una storia ben diversa?

Perché
per esempio, stracciarsi le vesti se si vendono meno auto, se si fa un uso più
limitato e accorto dei mezzi motorizzati (l’Italia, non va dimenticato, è ai
primissimi posti nel mondo per parco veicolare e numero di autovetture pro
capite), se si consuma meno carburante, se ci sono meno sinistri, se si muore
di meno sulle strade? Perché vivere come un incubo l’eventualità che Marchionne
lasci il nostro paese? Casomai bisogna augurarsi che Fiat non ripeta all’estero
gli errori commessi in Italia, e che le nuove frontiere dell’industria automobilistica
non cadano nella trappola dell’Agnelli-dipendenza in cui sono caduti tanti
italiani.

Anche
il ridimensionamento di un’altra grande industria, quella del calcio, è un
fenomeno con ricadute tutt’altro che negative. È un bene o un male che gli
Italiani giochino meno schedine e che la Tv di stato spenda meno per i
diritti sulle partite? È un bene o un male che gli stadi siano meno affollati e
che i bagarini non facciano più gli «affari» di un tempo, e che per gli
abbonamenti non vengano più dilapidati i patrimoni di prima? È un bene o un
male che i presidenti di alcune società gestiscano con più oculatezza ciò che
incassano? Possiamo definire disfattista e antipatriottico chi prende atto con
soddisfazione che gli allenatori siedono un po’ più a lungo sulle panchine?
Possiamo ragionevolmente e cristianamente considerare recessivo il minore
spreco alimentare, nefasta la minor produzione di rifiuti, e deprimente il
minor ricorso alle vie legali nelle situazioni difficili all’interno delle
coppie?

Possiamo
affermare che è esiziale per l’economia che cali la fiducia verso il mondo
degli avvocati, dei giudici, dei periti di parte e dei tribunali mentre aumenta
quella verso la mediazione familiare finalizzata non al divorzio, al
pendolarismo affettivo e alla dilatazione patologica dei nuclei familiari,
(quelli che l’antilingua pretende di ribattezzare «famiglie allargate») ma al
risanamento spirituale, alla riconciliazione e alla pace?

Possiamo
non rallegrarci per il fatto che la diminuita propensione ad abitare ognuno per
conto proprio ha contribuito alla riduzione della domanda di alloggi?

Possiamo
continuare a raccontarci la balla che i giovani che vanno a cercare lavoro e
fortuna lontano da casa sono tutti bravi, talentuosi e coraggiosi mentre quelli
che amano o comunque accettano serenamente le occupazioni domestiche, quelli
che fanno la spesa, cucinano, lavano, stirano, curano l’orto e il giardino, si
occupano a tempo pieno di figli, nipoti e anziani, sono tutti bamboccioni?

Perché
piangere le migliaia di aziende fallite e le centinaia di migliaia di posti di
lavoro persi nell’edilizia e nell’arredamento e non esultare per il drastico
calo degli infortuni sul lavoro, per
l’altrettanto indiscutibile calo delle morti bianche, per il +9% di occupazione
giovanile in agricoltura, per il dietrofront di alcune amministrazioni locali
che, per impedire ulteriori devastanti cementificazioni in un paese sempre più
a rischio idrogeologico, hanno declassato – ma sarebbe più giusto parlare di
riqualificazione – a «verde» significative porzioni di aree che subdoli Prg
avevano dichiarato «edificabili»? Perché ostinarsi a sperare nella quantità
invece di puntare sulla qualità? Perché non riconoscere (a dirlo è anche Paolo
Buzzetti, il Presidente dell’Ance, l’associazione dei costruttori), che è la
qualità il vero tallone d’Achille dell’edilizia italiana, sono le licenze
facili rilasciate dalla Camera di Commercio a chi poco sa di edilizia e molto
di speculazione, a provocare sfaceli?

Francesco Rondina
Fano, 17/07/2013

Mc via email

Ricevo
la rivista in forma cartacea. Vi chiedo se è possibile riceverla via email.
Grazie e saluti

Antonio Falcone
email, 12/08/2013

Come le ho scritto, per
ora non siamo organizzati per un simile servizio, ma la sua richiesta ha acceso
una spia importante. Come avrà visto, stiamo facendo un notevole sforzo per
migliorare la nostra pagina web e offrire anche uno sfogliabile di prima qualità.
La ringraziamo per il suo stimolo: cade in terra fertile. Quanto allo sfogliabile, ricordo che è possibile sponsorizzarlo, come hanno
fatto i genitori di Marianna con il numero di luglio 2013. Rimarrà un ricordo
che accompagnerà tutta la vita.

Depennatemi

Spett.le
Redazione,
in relazione all’editoriale dell’ultimo numero (luglio 2013), vi informo che
non desidero più ricevere la vostra rivista. Pertanto vi invito a cancellare il
mio nominativo dal vostro elenco.

R. M.
           Torino, fax, 24/07/2013

No comment.
____________________

Nel prossimo numero:
la lettera di Claudio Bellavita sui «Tesori Sepolti» nella memoria dei missionari
anziani e l’affettuosa testimonianza di Liviana che ricorda «Nino Maurel», lo
zio Nino, a dieci anni dalla morte. E molto altro.

SCRIVETECI!

risponde il Direttore




Cari Missionari

Chávez
«profeta e martire»?

Su
Missioni Consolata del giugno 2013 a pag. 20 un sacerdote di Caracas definisce
Hugo Chávez «Profeta e martire». Da tempo non mi meraviglio più di nulla, ma di
fronte a questa affermazione si resta senza fiato. Il nostro dittatore
italiano, non paragonabile ai suoi due colleghi degli anni ’30, era stato
definito più modestamente «L’uomo della Provvidenza». Da Libero del 13
marzo scorso (che ovviamente non è Vangelo) apprendo che l’ex deputato di
opposizione Wilmer Azuaje, attribuisce alla famiglia Chávez le proprietà di
45.000 ettari di terreno (30 anni fa possedevano solo tre ettari).

Il
quotidiano spagnolo Abc (anche quello non è Vangelo) stima in due
miliardi di dollari il valore totale della fortuna accumulata dal Caudillo,
di cui, oltre ai terreni citati, in conti all’estero almeno 200 milioni di
dollari; il conto in banca della madre del presidente sarebbe di 163 milioni.
La famiglia Chávez possiede inoltre 10 Suv Hummer, 17 ville e altro
ancora. Non è una novità, è sempre stato così; anche personaggi storici ben più
importanti di Hugo Chávez tipo Napoleone Bonaparte, hanno privilegiato il
proprio interesse privato. Durante il saccheggio francese del nostro paese,
Napoleone inondava il Tesoro di Parigi di enormi somme, merci e opere d’arte,
non prima di aver trattenuto un «buon pizzo» per sé e la sua numerosa famiglia.

Vi
allego un piccolo articolo di Panorama (del 5/6/2013, pag. 36), dove si informa
che nel Venezuela del dopo Chávez, manca la carta igienica e il vino per le
messe, grazie alla politica economica del defunto presidente. Noterete il
sarcasmo di un titolo: Habemus papel.

Concludo:
penso che, come tutti i caudillos della storia, il presidente Chávez si
sia arricchito alla grande, e che abbia gestito l’economia del suo paese peggio
dei nostri governi italiani; qui, almeno per ora, si trova ancora la carta
igienica…

Ricchini Gianpietro
12/06/2013, lettera da Brescia

Grazie di quanto ci
scrive. È vero che l’articolo da noi pubblicato è troppo elogiativo e poco
critico nei confronti di Hugo Chávez. Personalmente avrei desiderato un’analisi
che fosse attenta anche ai limiti e alle contraddizioni di quell’esperienza.
Certo, quella di Chávez è una figura che ha suscitato grandi passioni e
opinioni molto contrastanti.

Perché ho pubblicato
quell’articolo? Per rispetto al mio giornalista che ama quel paese e i suoi
sogni (che invece per altri sono incubi). Perché Chávez ha avuto anche
intuizioni giuste e il coraggio di tentare di emanciparsi da un vicino
invadente (che – ricordo – ha finanziato abbondantemente la diffusione in
America Latina delle sette evangeliche in funzione anticattolica per difendere
i suoi interessi economici). Perché ha tolto i proventi del petrolio dal
controllo dell’oligarchia e delle multinazionali per condividerli col suo
popolo (lo bollano come populista per questo). Certo non è stato immune da
corruzione e clientelismo, da arroganza e da atteggiamenti messianici e di auto-incensazione;
e forse ha anche premiato più l’adulazione che il merito: aspetti questi che
lasciano molte perplessità. Toeremo ancora sul Venezuela, una nazione che
amiamo e dove siamo presenti come missionari della Consolata. Il tempo ci darà
la possibilità di analisi più oggettive e ragionate.

Carità? Per
carità!

Sono
fra Silvestro, un francescano che ha vissuto 12 anni in Est Africa, Uganda e
Tanzania, e sono stato anche in Kenya e a Gibuti. Scrivo per ringraziare Chiara
Giovetti dell’articolo «Carità? Per carità» (MC, giugno 2013).

Preciso
subito che non ho ancora letto il libro L’industria della carità. Ho letto
invece La carità che uccide di Dambisa Moyo. L’ho letto appena uscito e mi
ha colpito per come l’ho sentito vicino al mio modo di vedere certi metodi di
aiutare la «nostra amata» Africa. Cito un esempio per tutti tra quelli che la
signora Moyo fa per spiegare come alcuni interventi portano l’Africa a essere
più povera. Racconta di certe persone di buona volontà che un giorno regalarono
centinaia e centinaia di zanzariere. Quando arrivarono fu festa e la gente era
contenta perché effettivamente i casi di malaria diminuivano, ma col passare
degli anni le reti si rompevano e lasciavano passare le zanzare malariche.
Quelle zanzariere erano finite, ma non c’era nessuno per ripararle o fae di
nuove perché i piccoli artigiani che le fabbricavano localmente avevano dovuto
chiudere per fallimento: nessuno aveva avuto più bisogno delle loro zanzariere.
E così è ritornata la malaria ancora più forte.

Una
mia ulteriore riflessione riguarda anche la bontà con cui tanti missionari e
(non) hanno costruito pozzi d’acqua. Banalizzando, ma purtroppo la faccenda è
serissima, mi vien da dire che in alcune zone sono più i pozzi che i villaggi,
ma guarda caso tanti di questi non funzionano più. Attoo al mio villaggio,
nel Sud dell’Uganda, ne contavo cinque o sei fuori uso. Perché non
funzionavano? Ma semplicemente perché anche i pozzi hanno bisogno di
manutenzione e chiamare i tecnici, anche locali, dalla capitale (esempio
concreto del mio villaggio distante 350km dalla capitale) veniva a costare
troppo rispetto alle possibilità del villaggio. Non importa se poi le persone
dello stesso villaggio trovassero sempre i soldi per bere birra, tradizionale e
non, nei bar locali.

Altra
piccola riflessione. Mi ha colpito, appena rientrato in Italia nel 2005,
sentire Tony Blair affermare che solo il 20% di quanto raccolto a favore del
Sud del mondo va davvero della povera gente a cui dovrebbe essere destinato.
Poi si sa bene che anche gran parte di quel 20 % va nelle mani di chi già sta
bene, magari politici o faccendieri locali. Certo che vedere viaggiare il
personale delle varie organizzazioni umanitarie con macchinoni che non
finiscono più e sapere che vivono in posti lussuosi che in Occidente non
potrebbero permettersi con tanto di servitù, e che il loro salario mensile è
superiore a… Beh, lasciamo perdere.

Grazie
ancora

Fra Silvestro Arosio o.f.m.
10/06/2013, via email

Il problema che Chiara
ha cercato di focalizzare nel suo articolo è molto vasto. E non nuovo: ricordo
che alla fine degli anni Settanta lessi un libro che criticava i progetti inutili delle organizzazioni umanitarie portando esempi concreti di sprechi e cattivo sviluppo.

Credo che come
missionari abbiamo visto progetti bellissimi che hanno cambiato la vita di
villaggi e regioni, altri che sono stati inutili come cattedrali nel deserto e
altri ancora che hanno dimostrato gran cuore e poca testa. Solo pochi giorni fa
sono stato perplesso di fronte alla pubblicità inserita in un importante
settimanale che invitava all’adozione a distanza. Già altre volte ho provato a
verificare in rete le attività di alcune di queste agenzie di adozione e la mia
impressione è stata quella di trovarmi di fronte a qualcosa di molto vago e
fumoso.

Mi permetto di
aggiungere due cose. La prima è l’invito ad essere critici con quelle agenzie
che fanno pubblicità molto costose o che addirittura vi telefonano e mandano i
loro agenti a raccogliere soldi di casa in casa (o cose simili). Un po’ di
pubblicità è certo necessaria: corretta, dignitosa e rispettosa; ma quando usa
lo stesso stile del telemercato e della vendita porta a porta, c’è qualcosa che
non quadra. Sono davvero interessati al bene dei bambini che dicono di aiutare
o alla loro sopravvivenza come organizzazione?

La seconda è una parola
– – neppure troppo seria, però, visti i limiti della mia esperienza – in favore
della servitù. È vero che ci sono degli operatori di Ong o agenzie
inteazionali che vivono in case di lusso (in rapporto allo standard di vita
locale) circondati da servitù: cuoco, colf, babysitter, giardiniere, portinaio,
guardia, autista o simili. Questo può scandalizzare, soprattutto se si ha
l’occasione di sentire le chiacchiere di chi se ne vanta durante gli incontri
tra espatriati. In realtà è uno degli aspetti positivi della presenza dei
cooperanti: creano lavoro in una realtà dove spesso la disoccupazione è piaga
endemica. Ho conosciuto volontari o membri di organizzazioni inteazionali che
di proposito avevano anche più personale del necessario proprio per dare lavoro
ai locali o non dover lasciare a casa persone già impiegate dai loro
predecesssori.

Donne albanesi

Ho letto l’articolo sulla realtà delle donne albanesi ed
essendo io albanese devo dire che non ce la faccio più. Cosa faccio? Sono in
Italia da diversi anni, qua ho le mie amiche, la scuola… poi too a casa e la
vita immaginaria che mi costruisco «nelle poche ore di libertà» crolla, la
speranza di avere un giorno una vita normale… Diverse volte ho sperato che
questo fosse solo un brutto incubo ma poi i fatti mi risvegliano da questo «sogno».
Io non avrò mai un finale a lieto fine anche se lo vorrei con tutto il cuore,
per me e le mie sorelle.

Klodiana
01/06/2013, via email

L’articolo apparso sul
numero di marzo 2013
, raccontava del sogno di ritornare a casa di donne e
famiglie albanesi provenienti dalla Macedonia: un «lieto fine» che è nei
desideri di tutti gli emigranti. Risparmiare abbastanza per rientrare nel
proprio paese a testa alta e ricominciare una vita nuova, liberando i propri
figli dalla necessità di una dura emigrazione è stato il sogno che ha dato la
forza a milioni di emigranti di sopportare difficoltà e sofferenze indicibili. È
anche il sogno della nostra lettrice. Le case vuote di tanti nostri villaggi
nel Sud d’Italia ci dicono che è un sogno difficile da realizzare, ma noi con
tutto il cuore facciamo il tifo per Klodiana e per tutti gli uomini e donne che
come lei sono stati costretti ad abbandonare il proprio paese.

Sprechi alimentari

Nella
speranza di fare cosa gradita, vorrei condividere con voi questo mio scritto
che ho pubblicato su La Gazzetta del Mezzogiorno dell’11 giugno 2013.
Con molti complimenti per il loro lavoro.

Giorgio Nebbia.

Cultura
dello scarto

Il 5 giugno scorso il Papa Francesco ha preso
l’occasione della quarantunesima «Giornata della Terra» per parlare di ambiente
e di sprechi e lo ha fatto con parole che non ascoltavamo da molto tempo.
Nell’udienza generale (il testo integrale si trova nel sito www.vatican.va) ha
ricordato che la donna e l’uomo sono stati posti nel Giardino perché lo
coltivassero e custodissero, come si legge nel secondo capitolo del libro della
Genesi, e ci ha invitati a chiederci che cosa significa coltivare e custodire:
trarre dalle risorse del pianeta i beni necessari, con responsabilità, per
trasformare il mondo in modo che sia abitabile per tutti, parole che già Paolo
VI aveva usato nell’enciclica «Populorum progressio» del 1967.

Papa Francesco ha detto che non è possibile custodire la
Terra se, non solo le sue risorse, ma addirittura le donne e gli uomini «sono
sacrificati agli idoli del profitto e del consumo», alla «cultura dello scarto».
Le ricchezze della creazione non sono di una persona, o di una impresa
economica, o di un singolo paese, ma sono «doni gratuiti di cui avere cura»,
destinati ad alleviare soprattutto «la povertà, i bisogni, i drammi di tante
persone». Il dramma più grave consiste nel fatto che un miliardo di persone
manca di cibo sufficiente, in ogni parte di un mondo dominato dallo scarto,
dallo spreco e dalla distruzione di alimenti. «Il consumismo, ha detto il Papa,
ci ha indotti ad abituarci al superfluo e allo spreco quotidiano di cibo.
Ricordiamo, però, che il cibo che si butta via è come se venisse rubato dalla
mensa di chi è povero».

Finalmente parole dure, da una autorità ascoltata da
cristiani e non cristiani, credenti e non credenti, che sintetizzano la fonte
dei guasti ecologici: la violenza contro le risorse naturali è violenza contro
gli altri esseri umani, contro il prossimo vicino, contro il prossimo lontano
nello spazio e contro il prossimo del futuro che erediterà un mondo impoverito
per colpa degli sprechi di oggi, dei paesi ricchi e egoisti.

Il
ciclo dello spreco

L’ecologia spiega bene l’origine della fame di troppi
esseri umani: gli alimenti umani diventano disponibili attraverso un complesso
e lungo ciclo che comincia dai raccolti di vegetali: patate, cereali, piante
contenenti oli e grassi. Dei vegetali di partenza solo una parte, meno della
metà, diventa disponibile sotto forma di alimenti e di questi una parte va
perduta, per le cattive condizioni di conservazione e di trasporti dai campi e
dalle fabbriche ai mercati.

Una parte delle vere e proprie sostanze nutritive viene
destinata alla zootecnia che «fabbrica» alimenti animali ricchi di proteine
pregiate con forti perdite: occorrono circa 10 chili di vegetali per ottenere
un chilo di carne; il resto va perduto come escrementi, come gas della
respirazione degli animali da allevamento e come scarti della macellazione. Nei
paesi industriali gli alimenti vegetali e animali, prima di arrivare sulla
nostra tavola o nel nostro frigorifero, passano attraverso una lunga catena che
comprende il trasporto attraverso i continenti o gli oceani, poi attraverso
processi industriali di conservazione, trasformazione, inscatolamento, ciascuno
con rilevanti perdite di sostanze nutritive che diventano scarti da smaltire
come rifiuti.

Poi gli alimenti passano attraverso il sistema della
distribuzione, anch’esso caratterizzato da sprechi, si pensi alle merci
invendute o deteriorate o che superano i limiti di scadenza, che diventano
anch’esse scarti e rifiuti. Alla fine le sostanze nutritive, stimabili in un
quarto di quelle che la natura aveva prodotto, arrivano a casa nostra o ai
ristoranti e anche qui si hanno altri scarti e sprechi: in media, nel mondo,
100 chili per persona all’anno. Indagini della FAO, l’organizzazione delle
Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, indicano in 1,3 miliardi di
tonnellate all’anno il peso degli alimenti complessivamente sprecati, un terzo
di quelli disponibili, circa un decimo delle sostanze nutritive, caloriche e
proteiche, che la natura aveva prodotto con i suoi cicli ecologici.

Lo spreco alimentare è accompagnato da spreco di acqua,
quella che l’intero ciclo del cibo richiede per l’irrigazione e per i processi
di trasformazione: l’agricoltura infatti assorbe circa 10.000 miliardi di metri
cubi di acqua all’anno, una quantità enorme se si pensa che l’acqua dolce
disponibile nel ciclo naturale ammonta a 40.000 miliardi di metri cubi
all’anno. Non solo; l’enorme massa di scarti e rifiuti agricoli e alimentari si
trasforma nei gas anidride carbonica e metano che sono responsabili del
continuo, inarrestabile peggioramento del clima. Una grande battaglia
scientifica e culturale per comportamenti rispettosi «del prossimo», per
diminuire gli sprechi alimentari, assicurerebbe acqua e cibo a chi ne è privo.
La chimica e la microbiologia applicate agli scarti alimentari consentirebbe di
ricavae sostanze adatte per altri usi umani, con minori inquinamenti e minore
richiesta di risorse naturali scarse: una ingegneria e merceologia della carità
al servizio dell’uomo.

Nuova
visione

La
salvezza, insomma, va cercata in un «serio impegno di contrastare la cultura
dello spreco e dello scarto», di «andare incontro ai bisogni dei più poveri»,
di «promuovere una cultura della solidarietà». «Ecologia umana ed ecologia
ambientale camminano insieme». Sono le parole del Papa che è anche un chimico.

Giorgio Nebbia
11/06/2013, via email

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE /* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin-top:0cm; mso-para-margin-right:0cm; mso-para-margin-bottom:10.0pt; mso-para-margin-left:0cm; line-height:115%; mso-pagination:widow-orphan; font-size:11.0pt; mso-ascii- mso-ascii-theme- mso-hansi- mso-hansi-theme-}

risponde il Direttore




Cari missionari

A proposito di Thailandia

Buon giorno,
sono quell’Andrea Panataro che avete ospitato, con lettera e foto, nel numero di marzo 2009 col titolo “Pallottole invece di medicine”. Conosco la Thailandia dal 1993, ci abito almeno 4 mesi all’anno, mi ha dato un nuovo modo di pensare, una moglie capoinfermiera ostetrica, un’attività umanitaria (vedi mia lettera marzo 2009) e tantissimo altro. Conosco il Paese come pochi altri farang (stranieri), sotto tutti gli aspetti.
Non condivido del tutto l’analisi del sig. Vecchia, che dipinge il paese come preda di una dittatura d’élite. Non è cosi. Nel paese non vi è, come da noi, oppressione fiscale nei confronti dei piccoli e piccolissimi operatori, ristorantini ecc., la vita non è cara neppure per loro e lo sanno benissimo, la scolarità è diffusa anche nei villaggi minori, la sanità è gratuita per tutti e costa poco anche per me che sono italiano, i trasporti di base sono capillari e il treno in 3 classe è gratis per i Thai. Questa è la realtà, constatata da anni con i miei occhi attenti ad ogni aspetto del Paese.
Invece, quello che proprio non condivido è l’immagine di paese di prostituzione che il Vecchia dipinge. In 18 anni, io non ho mai potuto constatare un fatto del genere, e non sono uno sprovveduto, ho girato il mondo dall’età di 22 anni. Esistono sì un paio di strade a luci rosse a Bangkok, frequentate da turistucoli e da vecchi deficienti, così come esistono pure anche ad Amsterdam e in tante altre città del mondo. Non parliamo poi delle nostre città italiane, di sera invase da prostitute e trans d’ogni genere. E non scordiamo soprattutto che da noi, unico paese al mondo, la prostituzione, anche minorile, vede coinvolte le più alte cariche del governo, come i processi attualmente in corso testimoniano.
Il luogo comune Thailandia=puttane è vecchio, falso e stantio come quello che dice Italiani=spaghetti e mandolino. E se poi fosse anche vero, potrà o no una donna adulta fare ciò che crede del suo corpo senza che, con spirito talebano, qualcuno vada a ficcare il naso in una cultura tanto diversa dalla nostra? Mi sento offeso nel sentire e leggere cose non vere nei confronti di un paese che amo profondamente, ed è giusto in ogni caso, dopo l’accusa, ascoltare la difesa. Cordialmente.
Andrea Panataro
Biella, 13 /6/2011

Nessun problema per la controanalisi del signor Panataro, con il quale non voglio entrare in polemica. Lui è libero di vedere e credere quello che vuole o può, come lo sono io di valutare (e come me organizzazioni inteazionali, gruppi per la difesa dei diritti civili e umani, società civile locale) il bene e il male del paese e scriverne, che è quello che farebbero i Thai se solo ne avessero la possibilità.
Non vedere la realtà di corruzione, nepotismo, sfruttamento e incapacità di evolvere da parte delle élite come della popolazione, implica delle scelte, avere delle ragioni che non necessariamente devono essere condivise. Quando mi si chiederà di scrivere un pezzo non sulle problematiche ma sulla bontà del paese lo farò volentieri.
Io ci vivo, in Thailandia, e ne amo la gente. Se per lavoro, status e carattere non sono autorizzato a “sparare a zero” su di essa, nemmeno posso accettare la pretesa che si tratti di un paese unito e felice, ignorare che viene gestito nemmeno giocando sulle regole che si è dato ma sulle sue contraddizioni.
Se a guidarlo sono regole “loro” e a loro funzionali, come continuamente si inculca nei Thai e si vorrebbe inculcare nei farang, non sono certo universali come si vorrebbe far credere. Oggi non sono nemmeno più condivise: certamente non dalla maggior parte della popolazione che vede crescere il divario economico, sociale e culturale tra essa e le vecchie e nuove élite. Questo, e un culto, ormai smodato e indicato come antidoto a una vita senza prospettive, del denaro, incentiva anche la prostituzione, tollerata tra cultura e necessità; questo riempie di materia prima i bordelli dei thailandesi e dei turisti del sesso.
Un caro saluto
Stefano Vecchia
da Bangkok

UN ANGELO
SEMPRE IN FESTA
Zio Vito carissimo,
martedì 7 giugno (2011) ci hai salutati dopo una strenua lotta, durata quasi dieci mesi, per non lasciarci e quanto avremmo  tutti desiderato poter godere ancora della tua gioia di vivere e del tuo entusiasmo! Ecco un primo tratto della tua straordinaria personalità: uno smisurato affetto per tutti a partire da tua moglie Elsa. C’è un’altra tua caratteristica che ricordo con nostalgia: costruire e riparare utensili, inventare giocattoli ed altri oggetti funzionali con materiali di recupero per risolvere qualche necessità pratica della vita in campagna, che nel corso di tutte le stagioni richiedeva operazioni innumerevoli e diversificate nei vari luoghi. Quanta passione per la terra ed i suoi doni, per il vino e per la grappa! Quanto entusiasmo per i pomodori, i cetrioli, le cipolle, ecc.! Quanta dedizione alle rose, al giuggiolo, alle zinnie, alle dalie, ai gerani e all’aspidistra! Quanta cura per l’alimentazione degli animali! Quanta attenzione alla pulizia e all’aria nel granaio per la conservazione ottimale di quanto veniva depositato per l’inverno!
L’impegno come contadino, onorato in modo sublime, non ti ha distolto da tanti altri interessi come quelli per le vicende storiche di cui le terre veneta e friulana sono state testimoni, per la lettura di Missioni Consolata, la Madonna di Castelmonte, Famiglia Cristiana e qualche quotidiano, per portare la mente e il cuore alle vicende nazionali ed inteazionali e per conoscere la cronaca che tante indignazioni ti suscitava. La tua chiamata per il «cielo», il non luogo dove si vivono felicità, gioia di stare insieme, creatività incessante, incanto e sorpresa, ci lascia tutti più soli, ma sappiamo che insieme ai nonni e a mia mamma hai formato una squadra pronta ad intervenire e ad intercedere per noi che, nella passione per la vita, troviamo tante difficoltà da superare e tanti contrattempi. Continuiamo quindi a contare su di te ed abbiamo la certezza che farai tutto il possibile ed anche l’impossibile. Grazie per la tua fede indomita che non ha mai avuto cedimenti ed il rispetto per chi ha dedicato la vita al nostro Padre Celeste, seguendo il modello del Figlio Gesù. Grazie per l’affetto ai sacerdoti e religiosi, con particolare riferimento ai nostri parenti come suor Anna Prosdocimi, fratel Agostino De Gaspari, suor Gianna e suor Luisetta Scapin. Zio Vito meraviglioso, è stato un onore crescere con te ed aver goduto del tuo affetto, della tua sensibilità e delle tue lacrime di commozione! Aiuta i tuoi familiari ed anche me ad imitarti e a dare continuità alle passioni che hai coltivato, al bene enorme che hai fatto e all’amore che hai regalato senza risparmiarti.
Tua nipote Milva
Collegno, 4 luglio 2011

KWAHERI,
PADRE TONY
Il 12 agosto scorso, a Nairobi, è morto p. Antonio Bellagamba, nativo di Gambettola. Aveva 84 anni. Su Facebook molti giovani lo hanno ricordato. Tra gli altri.
«Ho incontrato p. Tony per la prima volta nell’Istituto di Filosofia a Nairobi, dove ci insegnava psicologia. Era un uomo dall’aspetto modesto con una vena umoristica senza fine. I suoi sandali – che calzava anche quando aveva il vestito bello – rivelavano una persona che non aveva molti bisogni materiali. Il portamento confidente suggeriva uno che conosceva da dove veniva e dove stava andando. La sua risata schietta diceva che si trovava bene con i confratelli, la sua gente e con quanto la vita gli aveva fatto passare. Riposa in pace».
Kodi Bartholomew
«Quando parlava della fondamentale importanza dell’intimità con Cristo, non diceva solo una teoria, ma esprimeva la convinzione profonda di un missionario pieno di passione».
Julie Muya
I giovani del Consolata Shrine di Nairobi hanno condiviso la foto (qui sotto), fatta al termine del ritiro quaresimale 2010.

OFFRO
ABBONAMENT0
Gentile Redazione,
Vi sarei grata se poteste inviare la Vostra bella rivista alle suore Clarisse di Pollenza. Per questo aumenterò la mia offerta annuale visto che le suore non sono in grado di permettersi l’abbonamento alle riviste missionarie ma desiderano molto informarsi su quello che succede nel mondo. Vi ringrazio infinitamente e Vi auguro buon lavoro
Marina Colacchi
via e-mail 06-07-2011
Grazie di cuore per il sostegno alla rivista attraverso il bel gesto di offrire un abbonamento alle suore Clarisse che con la loro preghiera sono sempre molto vicine ai missionari.




Cari Missionari

 

Magnifica

La rivista «Missioni Consolata» è magnifica più che mai.
Bella l’idea della storia in fumetti. E la cosa che più di tutto Vi rende
rispetto è l’imparzialità religiosa. È evidente che lo Spirito che ci guida è
grande.

Cordiali saluti

Marcello
D’Acquarica
03/05/2015

Il sale non ha perso
sapore

Caro padre Gigi,
domani, 17 maggio, padre Paolo Dall’Oglio compie sessant’anni e mezzo e
desidero rivolgergli gli auguri con le parole dei suoi familiari pubblicate il
17 agosto 2014: «Caro Paolo ti vogliamo bene e continuiamo con insistenza e
speranza ad aspettarti». Non ci sono notizie certe sulla sua sorte dal 29
luglio 2013 ma il suo impegno per costruire legami, tenace e non privo di
rischi, continua attraverso tutti coloro che lo condividono. «Il sale non ha
perso sapore» come affermi nell’editoriale di maggio. I massacri perpetrati
contro i cristiani sono innumerevoli, e non solo nei territori che sappiamo, ma
anche nel nostro mondo, nella nostra nazione, nella nostra città, nei nostri
luoghi di lavoro, pur in forme diverse. La testimonianza della libertà di fede
e di pensiero richiede una scelta che è quotidiana ed è contrastata da tanti
ostacoli, spesso occulti ma non meno micidiali di quelli visibili. Quella
violenza che invoca la «crisi sacrificale», indicata da R. Girard come ipotesi
esplicativa riguardo all’origine della cultura e dell’ordine sociale, continua
ad essere vitale, a rigenerarsi e ad assumere le forme più varie, cercando
vittime espiatorie per placarsi. Decidere di essere cristiani costituisce
quindi un progetto da rinnovare costantemente, da monitorare e da purificare
per mantenerlo cristallino e capace di avere le caratteristiche di lievito e
sale, nonostante le avversità, previste ed impreviste.

Ancora una volta ti ringrazio per le vitali provocazioni
e ti invio moltissimi saluti!

Milva
Capoia
16/05/2015

«Ancora
un sacerdote rapito in Siria. Padre Jacques Murad, della comunità di Mar Musa, è
stato rapito a Qaryatayn, dove è priore del monastero di Mar Elian (affiliato a
Mar Musa) e da dodici anni guida la locale parrocchia siro-cattolica». Così ha
scritto Avvenire il 23 maggio 2015. Un altro sacerdote nelle mani dei
jihadisti, a condividere le sofferenze di centinaia di cristiani anonimi
perseguitati, umiliati e uccisi in quelle terre senza pace, anche a causa delle
politiche miopi e frammentate dei nostri grandi governi democratici.

Ripartire da ieri

Buongiorno a voi,
è appena uscito il mio libro sul volontariato internazionale, pubblicato dalla
Emi. È inserito nella collana Antropolis, diretta da Marco Aime, e Alex
Zanotelli ne ha scritto la prefazione. In esso racconto la mia esperienza del
2003, anno che ho trascorso cornordinando un progetto di sicurezza alimentare nel
Sud dell’Etiopia. Espongo severe critiche alle modalità odiee di fare
cooperazione, con le Ong ridotte ad anonime agenzie concentrate sul fund
raising
e su un’acritica attività di esecutrici degli interventi più
facilmente graditi (e quindi finanziati) dai donatori. Cerco però sempre di
attenermi a uno stile propositivo. Sono infatti convinto che il volontariato
internazionale non vada abbandonato, ma rilanciato in un’ottica di scambio.
Mentre gli africani possono beneficiare di alcuni nostri interventi, allo
stesso tempo noi abbiamo bisogno di imparare da loro, così da recuperare la
capacità di tenere duro, di vivere in spinta, di accogliere la vita con
ottimismo anche nelle situazioni più difficili, al fine di ridare ossigeno alle
nostre società sempre più grigie e disincantate, ben diverse da certi contesti
di fervente attivismo osservabili a Sud del Sahara.

«Ripartire da ieri» non è solo il titolo del libro, ma
un’idea, un progetto che pian piano mi si è abbozzato nella mente. Incontro
infatti un numero crescente di persone che denunciano, nei loro settori, lo
stesso appiattimento da me constatato nell’ambito della cooperazione. Oltre a
molti volontari inteazionali, quindi, c’è tutta una schiera di persone
(impegnate in politica, nella scuola, nella Chiesa, nell’assistenza, ecc.) che
vorrebbero fermarsi un attimo per recuperare le motivazioni e gli ideali
lasciati da parte in quanto affrettatamente considerati obsoleti e
inconcludenti. «Ripartire da ieri» non è né un’idea anacronistica né un moto
nostalgico, ma una necessità di riappropriarci del patrimonio valoriale che ci
serve per andare avanti in maniera più sensata e più determinata, senza
accontentarci di ruoli stereotipati da «timbratori del cartellino».

Visto il taglio della vostra rivista, alla quale sono
abbonato da diversi anni, penso che condividerete quanto da me sostenuto nel
libro. Ritengo che esso possa servire a rivitalizzare il dibattito sul
volontariato internazionale che ultimamente sembra purtroppo passato in secondo
piano.

Ringraziandovi per l’attenzione, vi invio i miei migliori
auguri per tutte le vostre attività!

Alberto
Zorloni
09/05/2015

Del
libro di Zorloni, certamente parleremo in un prossimo numero di MC.

Complimenti

Egregio signor Daniele Romeo, mi permetto di disturbarla
per complimentarmi con lei per il suo articolo su Cuba, pubblicato sulla
rivista MC 5/2015, che qualche giorno fa mi è capitato tra le mani a casa dei
miei suoceri, abbonati. È solo la prima parte e non vedo l’ora di potee
leggere la continuazione. Mi è sembrato di essere un suo compagno di viaggio e
di scoprire il paese come solo un viaggiatore (forse anche un po’ viandante) può
osservare. Grazie, è riuscito ad interessarmi e ad incuriosirmi! Complimenti

Antonio
Testa
16/05/2015

Bello perché vario

Il mondo è bello perché è vario. Io per esempio riguardo
al bollettino dedicato al fondatore dell’ordine, la penso molto diversamente da
chi lo definisce «inutile» e «troppo acriticamente agiografico» (cfr. MC n.
5/2015 p.5). A costo di apparire retorico, dico che gli allegati sull’Allamano
sono come tanti piccoli giornielli e il giorno in cui la loro pubblicazione verrà
sospesa sarà un giorno molto triste. Gli articoli del bollettino mi hanno
insegnato sempre tante cose, a cominciare dall’umiltà e dalla passione per
l’evangelizzazione, aprire il bollettino è come immergersi in un tempo diverso,
in una Torino diversa, in un’Italia diversa, in un mondo diverso.

Ed è un’immersione tutt’altro che banale; direi invece
che ha un benefico effetto «ridimensionante» e ristoratore.

Distinti saluti

Domenico
Di Roberto
19/05/2015

Leggi criminogene

Visto che il giudice Caselli ha citato la Nota
Pastorale Cei
del 04/10/91 (cfr. MC n. 4/2015 p.32), vorrei citarla
anch’io:

«Se si pensa infine» – dicono i vescovi italiani alla
fine del paragrafo 9, significativamente intitolato Meno leggi più legge
– «alla stretta connessione che intercorre tra moralità e legalità, non si può
non attribuire anche ad alcune leggi civili, come ad esempio quelle sul
divorzio e sull’aborto, la responsabilità di alimentare una cultura
individualistica e libertaria; anzi, queste stesse leggi permettono la
trasgressione morale, abbassano e deformano il senso della legalità. In realtà è
del tutto impossibile togliere la valenza educativa, o positiva o negativa,
della legge…».

È solo per dire al giudice Caselli che la lotta contro la corruzione va
condotta non solo con il sostegno ai tutori della legge, ma anche attraverso
l’impegno per l’abolizione di alcune leggi «criminogene» (questo aggettivo non
l’ho inventato io; il giudice Caselli sa che anche tra i suoi colleghi c’è chi
sta conducendo una battaglia molto decisa contro la criminalità
legalizzata…).

Chiaramente i giudici che, invece di contestare le leggi
criminogene, le applicano come se fossero buone leggi, diventano alleati
del crimine. Anche i tribunali possono essere covi di malfattori: come definire
diversamente il tribunale di Savannakhet, in Laos, che ha assimilato la
preghiera per i malati ad «abuso della professione medica» (cfr. MC n. 4/2015
p.9)? Come definire diversamente i tribunali pakistani, che condannano a pene
pazzesche i cristiani in base alla legge contro la blasfemia e assolvono i
responsabili delle aggressioni e delle lesioni con l’acido, che ogni anno
costano la vista e molto altro a centinaia di donne colpevoli solo di aver
detto no a corteggiatori prepotenti e violenti?

Come definire legale e morale il comportamento della
grande Germania, che il problema della prostituzione ha creduto di risolverlo
legalizzando le case chiuse e lucrando a colpi di tasse sulla depravazione
sessuale?

Come definire legale la linea di quei nostri politici, di
destra e di sinistra che, accampando vari pretesti (non ultimo quello del
risanamento dei conti pubblici), vorrebbero imitare proprio la Germania?

Distinti saluti

Giovanni
De Tigris
01/04/2015

MC in carcere
Buongiorno,

sono don Osvaldo Bonello, cappellano del carcere di
Cuneo.

Conosco la vostra rivista, ricca e varia nelle tematiche
affrontate, attenta al nostro mondo «globale» e sempre più piccolo. In carcere,
si sa, sono molti i ragazzi africani o comunque extra europei, anche parecchi
di fede cristiana. Il livello culturale nello spazio carcerario è basso e le
occasioni di crescita pochissime. Sarebbe un grande dono poter avere
mensilmente 1/2 copie di MC. Forse entra già in qualche carcere. Faccio
affidamento sulle vostre possibilità oggettive poiché non mi è possibile fare
abbonamenti. Mi rendo ben conto delle fatiche economiche che certamente dovete
affrontare. In ogni caso vi ringrazio dell’attenzione.

Confidando nell’intercessione del beato Allamano, vi
auguro un fecondo lavoro al servizio del Regno.

Don
Osvaldo
20/04/2015

Per
noi è davvero un piacere inviare la rivista a don Osvaldo. E più di una copia.
Se qualcuno dei nostri amici condivide l’idea, una mano è sempre benvenuta. Se
altri cappellani hanno la stessa esigenza, si facciano vivi. «Là c’è la
Provvidenza». Occorre crederci.

Liturgia, Vangeli e
Storia

Al sig. Giuseppe Corti che scrive su «Franchezza sulla
Chiesa» (MC n. 5/2015 pp. 5-6) con accorati accenti e criticità, vorrei dare
una mia sensazione più che una risposta (N.b.: sottotitoli redazionali, ndr).

Questione antica

La questione della Liturgia è antica quanto la stessa
comunità cristiana ed è sempre stata in «movimento» perché tocca
inevitabilmente l’antropologia e la psicologia umana che, come tutti possono
constatare, si rimodulano in modo diverso in tempi diversi. In altre parole,
nella Liturgia «la persona umana» è coinvolta con atteggiamenti, parole e
gesti, e di conseguenza ciò comporta un innesto nei tempi della storia, nella
cultura dei diversi paesi, nella psicologia delle singole persone. Tutto ciò
nella storia ha prodotto progressi logici, ma anche conflitti terribili e
guerre di religione a non finire.

Il principio

È vero che nel Vangelo non si trovano disposizioni
liturgiche e rituali preconfezionati e che anche per l’Eucaristia si trovano
ben tre formule diverse delle parole di Gesù sul pane e sul vino. Non bisogna
scandalizzarsi, ma nemmeno tirare conclusioni indebite, perché il Vangelo non è
un ricettario o un dizionario alfabetico dove si trova «tutto».

Il Vangelo è «il Principio» che fa sprigionare
l’orizzonte, che, nella dinamica di un nuovo modo di relazionarsi tra gli umani,
basato sulla frateità (Regno di Dio/dei cieli), non espone regole o norme o
galateo e tanto meno un rituale. Sarebbe ben triste se così fosse, perché come
dice Gesù nella sinagoga di Cafaao in Lc 4: «Oggi si è adempiuta nei vostri
orecchi questa Parola». Oggi, vuol dire in ogni tempo e per tutti i tempi. Non è
solo l’oggi di quel giorno, di quel sabato, ma l’«oggi» dell’uomo che ascolta e
che cerca il volto di Dio come la cerva del salmo 42.

Liturgia e religione

La Liturgia è strettamente connessa alla religione che
si esprime attraverso due categorie storiche: il tempo e lo spazio. Poiché
l’uomo ha paura di tutto, della vita, della morte e della natura, sente
l’esigenza, il bisogno di ricorrere alla protezione della potenza di Dio con
cui stipula un contratto: tu, Dio, mi proteggi e io ti riservo un tempo sacro
(domenica) e uno spazio sacro (tempio/chiesa). Questi due contatti sono
collocati fuori della disponibilità umana perché sono gestiti «separatamente»
dai custodi del sacro, cioè la casta sacerdotale che assume su di sé il
privilegio (o la presunzione?) di parlare in nome di Dio. Da qui al rito
solenne, il passo è breve perché più la liturgia è solenne più si dà importanza
al tempo e allo spazio sacri, ma nello stesso più si espone Dio all’obbligo
della protezione.

Detto più semplicemente: in un regime di religione, che è
un bisogno umano come antidoto alla paura esistenziale, la Liturgia esige
teatralità per esprimere la partecipazione anche del corpo attraverso gesti, ritmi
e cantilene, che gli danno la sensazione di entrare nel mondo del divino da cui
è escluso per definizione: Dio non l’uomo.

Liturgia e fede

Diverso è il regime della fede che è un incontro con una
persona reale e sperimentabile. Per me è la persona di Gesù di Nazareth che io
ho incontrato attraverso l’esperienza degli apostoli e che ha segnato la mia
vita come quelle di moltissimi altri e altre. Mentre la religione si esaurisce
nel fatto materiale (andare a Messa, confessarsi, andare in processione, accendere
una candela, ecc.) e non esige adesione etica o sentimentale, la fede esprime
un rapporto affettivo che si consuma nell’innamoramento. Per cui la Liturgia è
tipica degli innamorati. Le persone innamorate vivono di desiderio, di fisicità,
di contatto, di scambio d’idee, di condivisione di sentimenti, emozioni, ansia,
tremore, paura, e tutto questo si traduce in «Liturgia» d’amore: il regalo
confezionato, il bacio inviato via sms, il linguaggio riservato ad esclusivo
uso degli innamorati, il modo di vestirsi o di scegliere il vestito in vista
dell’incontro con l’amante, la gestualità che è insita e istintiva tra
innamorati.

Liturgia cristiana

Se non si capisce questa distinzione, non è possibile
accedere alla Liturgia cristiana che, storicamente, si è sviluppata come
dimensione solo «religiosa», cioè esteriore, per controllare le masse, per
catechizzarle creando un modello di uniformità che è più facile gestire. Solo
alcuni piccoli gruppi e spesso solo singole persone hanno vissuto la Liturgia
come «teo-antropo-drammatica», che si nutre di dubbi più che di certezze, di
desiderio più che di ritualità, di silenzio più che di parola. Alcuni
monasteri, comunità di base, famiglie, piccoli gruppi parrocchiali o missionari
hanno, anche in mezzo alle persecuzioni ecclesiali, tentato e vissuto la
Liturgia come momento di coscienza, anzi, come «sacramento» (segno portatore)
dell’intima unione con Dio e con gli uomini e le donne del loro mondo.

La Liturgia fino al 1967 è stata prevalentemente un
rituale, dominato dalle «rubriche». Dopo, con la riforma di Paolo VI, in
ottemperanza al dettato del concilio Vaticano II, è venuta fuori una Liturgia
in lingua «volgare» (non si osava nemmeno dire «lingua popolare») che è stato
solo un timidissimo inizio, abortito immediatamente perché tutto si è arenato
per la paura di perdere il controllo della gente. Quindi si è subito inoculato
il virus del rimpianto e del ritorno indietro, perfettamente riuscito. Se si
prendono le preghiere eucaristiche in italiano, comprese le due anafore per le
celebrazioni con i bambini, è evidente che la forma è in lingua italiana, ma il
contenuto e la «mens» sono latini. Il liturgo si è preoccupato più
dell’integrità delle formule che non della partecipazione dell’Assemblea,
esautorando la stessa liturgia che è «lèiton èrgon – azione popolare»,
cioè collettiva.

Nella Liturgia latina, il popolo è assente: può solo e
sempre dire «Amen». Addirittura si è arrivati al ludibrio di confezionare
preventivamente la «Preghiera universale», cioè la preghiera dei fedeli che
dovrebbero potere intervenire liberamente, come sono ispirati sul momento o
come si sono preparati preventivamente. Invece in ogni Messa che si rispetti,
dopo il Credo, si tira fuori il libro che contiene tutte le preghiere dei
fedeli per ogni circostanza e si dicono cose senza senso a cui il popolo
risponde meccanicamente «Ascoltaci, Signore». Questo è ammazzare la Liturgia.

Il gesuita Matteo Ricci nel sec. XVII cercò di farsi
cinese con i cinesi, mandarino con i mandarini e per questo fu accolto con
rispetto e dialogo. Egli non impose la Liturgia romana, ma cercò di capire
l’anima cinese per esprimere il cuore di quel grande popolo anche nella
preghiera. Da Roma gl’imposero di mettersi la pianeta, il manipolo e di
osservare scrupolosamente il rituale latino romano. La Chiesa perse la Cina.

Unità e diversità

Non esiste una Liturgia unica per tutti, ma esistono
tanti modi per dire il rapporto con il Dio incarnato in Gesù Cristo quanti sono
i popoli e le culture nel mondo. La vera Liturgia esige la diversità come
condizione di unità, mai l’uniformità.

Il sig. Giuseppe Corti ci invita a riflettere, questo sì,
e gli siamo grati, a non addormentarci sul già visto, a purificare ogni tempo e
ogni epoca di ogni scoria e sovrastruttura per ritornare alla genuinità del
Vangelo per imparare a leggerlo e a viverlo con lo spirito e l’anima del nostro
tempo. Se Dio è in mezzo a noi, occorre che i cristiani lo testimonino anche
esteriormente, ma senza alterigia, affinché il volto del Padre possa essere
sperimentato nel volto di chi crede, perché risplende in esso «immagine del Dio
invisibile». Per fare ed essere questo, è necessario camminare coi tempi, se
vogliamo arrivare in tempo.

Paolo
Farinella, prete
09/05/2015

Risponde il Direttore




Cari Missionari

 

Ricordando P. Gianni Basso

Cari amici,

non siamo propriamente più ragazzi, la nostra età media
si aggira sui 50 anni e più, ma è ancora forte in noi il ricordo degli anni
della formazione. Siamo cresciuti nella parrocchia Regina delle Missioni di
Torino a pochi passi dalla Casa Madre di corso Ferrucci, e i missionari e le
missioni sono stati da sempre una presenza costante nei nostri pensieri e nel
nostro cuore. Ma c’è un motivo in più. Proprio nel momento più significativo
della nostra vita, l’adolescenza, abbiamo avuto la fortuna di avere come
viceparroco e quindi come nostro principale formatore un missionario davvero
speciale, padre Gianni Basso.

Padre Gianni, nato a Quinto di Treviso nel 1946, prima da
seminarista e poi come viceparroco, è stato con noi alcuni anni, presenza
fortissima e insieme riservata. Era lì e ci accoglieva sorridendo, con una
battuta o una frase scherzosa. Sembrava svagato, e invece era sempre tutto per
noi, ci vedeva «dentro», come eravamo davvero oltre l’esteriorità. Di ciascuno
di noi ricordava tutto: vicende, aspirazioni, problemi, ma anche la data del
compleanno, le ricorrenze che si sono via via aggiunte con gli anni.

Padre Gianni c’era, ma era ugualmente pronto a «sparire»,
a tirarsi indietro, a farsi da parte per quanto era umile e schivo. Un merito,
un successo non se lo prendeva mai, ma lo attribuiva agli altri, sempre pronto
invece a chiedere scusa, a camminare in punta di piedi per non disturbare…

Poi il disegno di Dio l’ha portato lontano, in Brasile,
noi sapevamo quanto lui desiderasse andare in missione e, pur immaginando che
ci sarebbe mancato, siamo stati contenti che il suo sogno si realizzasse.

Non sappiamo che cosa abbia rappresentato per le persone
che ha incontrato nei molti anni di Brasile, possiamo immaginarlo a partire
dalla nostra esperienza. Ma sappiamo che, quando ci parlava di loro, emergeva
un insieme di persone vive, concrete a cui padre Gianni aveva voluto bene nello
stesso modo in cui aveva amato noi: singolarmente, a uno a uno come persone,
ciascuna importantissima ai suoi occhi e nel suo cuore.

E siamo convinti di una cosa: è stato proprio questo suo
modo di volerci bene che ha fatto sperimentare a tutti e a ciascuno la
profondità e la concretezza dell’Amore di Dio su di noi.

Quando, due anni fa, ci ha raggiunti la notizia della sua
morte, ci siamo ritrovati dove eravamo sempre stati con lui, nella parrocchia
di Regina delle Missioni, per ricordarlo nella preghiera, con i suoi confratelli
(nella foto qui sotto).

E, piano piano, è nata l’idea di ricordare padre Gianni
anche in un altro modo, aiutando altri missionari che oggi, in giro per il
mondo, continuano a portare avanti i suoi stessi ideali, in particolare quelli
relativi alla formazione dei più giovani. Ed eccoci qui, con una nostra piccola
offerta che vorremmo farvi giungere, umilmente, nel suo nome e nel suo ricordo…

amici
di padre Gianni
17/04/2015


Il fascino di Gesù
Cristo

Una sola piccola rettifica all’articolo sull’India,
relativa al Kumbh Mela (MC 4/2015, p. 53). Questo grande pellegrinaggio
si svolge ogni tre anni (il periodo dipende dalla posizione di Giove e del
Sole) alternandosi nelle quattro località precisate nell’articolo. È il Maha
(Grande) Kumbh Mela che si svolge ogni 12 anni a conclusione del ciclo di
quattro Pua Kumbh Mela. L’ultimo, nel 2013 a Allahabad (già Prayag), ha fatto
registrare una presenza stimata di 80-100 milioni di pellegrini, con un picco
di qualche decina di milioni nella notte fra il 9 e il 10 febbraio. Il prossimo
Kumbh Mela, come precisato nell’articolo, si svolgerà a Nashik e inizierà il 14
luglio 2015, quando Giove e Sole saranno nel segno del Leone (precedente in
quella località 2003).

Ciò che mi ha colpito invece e che mi ha spinto a scrivervi è la descrizione perfetta di Gesù
Cristo, a pagina 19 dello stesso numero. Gesù Cristo, come dice spesso anche
papa Francesco, era l’uomo dei diseredati, dei più deboli, dei meno fortunati,
di coloro che sono nel mirino dei benpensanti, di coloro che vivono ai margini,
di coloro che sono considerati rifiuti, ecc.

Esempio che tanti personaggi che ho avuto la fortuna di
conoscere in terre di missione, nella stragrande maggioranza pochissimo
conosciuti dal grande pubblico, hanno cercato o cercano di imitare. Madre
Teresa è stata grande, ma voi potete testimoniare che di Madri Teresa, nel
mondo, ce ne sono state e ce ne sono parecchie. Sia al femminile, che al
maschile.

Ora che l’età e gli acciacchi mi impediscono di tornare
nelle mie zone preferite (Asia e Africa in particolare), proprio in virtù delle
significative esperienze fatte in molte zone dove la vita è realmente
difficile, sono spesso chiamato da scuole medie per parlare ai ragazzi di altri
loro coetanei meno fortunati, di «infanzia negata», della difficoltà di essere
bambini dove è già difficile vivere: bambini soldato, bambini di strada,
bambini abbandonati, bambini sfruttati, ecc. Il tutto documentato con immagini
scattate da me e quindi molto più credibili agli occhi dei ragazzi.

Sempre più spesso si tratta di scuole ormai
multireligiose (presenze musulmane, induiste, buddiste), ma per evidenziare
maggiormente il coraggio di molti di questi bambini e ragazzi meno fortunati
che hanno saputo reagire, inizio sempre con la figura di Gesù Cristo: «Possiamo
anche non essere tutti d’accordo che Gesù fosse realmente il Figlio di Dio, ma
non possiamo mettere in dubbio la sua esistenza. Non possiamo negare che, fin
da ragazzino, fosse un personaggio scomodo dotato di grande coraggio». Cito
alcuni suoi comportamenti e prese di posizione che lo portarono a essere
crocefisso come i peggiori criminali. Devo dire che funziona. Le risposte che
ottengo alla fine in termine di partecipazione attiva, sono sempre
gratificanti. Grande attenzione e domande a raffica non mancano mai. Cordiali
saluti,

Mario
Beltrami
Sesto San Giovanni (MI)
04/04/2015


Una strada per padre  Antonio Giannelli

Il giorno 07 marzo 2015 è stata inaugurata una strada
della nostra città di Parabita (Lecce), intitolata a padre Antonio Giannelli
(1923-2001), missionario in Kenya per oltre 50 anni. Alla cerimonia,
presenziata dal sindaco Avv. Alfredo Cacciapaglia, da familiari, amici ed
esponenti della cultura, era presente anche padre Efrem Baldasso (alla
sinistra del sindaco nella foto
), missionario della Consolata e superiore
nella sede di Galatina. Per noi ha tracciato un breve profilo di padre Antonio
e delle opere da lui compiute in Kenya: dalle tante cappelle sparse nel
territorio, ai laboratori artigianali, alle case per i poveri. Due opere
eccellono: la scuola per ragazzi portatori di handicap mentali e la chiesa
parrocchiale di Wamagana dedicata alla Madonna della Coltura di Parabita, sua
città natale, all’ombra della quale è nata la sua vocazione per le missioni.

amici
di Parabita
23/03/2015

Risponde il Direttore




Cari Missionari

 

Franchezza sulla Chiesa

Sono un lettore della vostra rivista di cui apprezzo la
franchezza generosa, e desueta, con cui parla dei popoli e delle nazioni del
mondo, e sono stato sorpreso anche del coraggio con cui, parlando del Ce nel
numero di dicembre, P. Pescali riconosce che la scienza è riuscita ad unificare
gli uomini più delle religioni; un riconoscimento certo non facile per una
rivista  religiosa, e neppure del tutto
vero per quanto riguarda la stessa scienza, di cui conosciamo le manipolazioni
passate e della cui onestà di ricerca non siamo sicuri neppure per l’avvenire.
Con la stessa franchezza vi dico che mi sembra inutile l’allegato
sull’Allamano, troppo acriticamente agiografico, così come non trovo lo stesso
coraggio quando affrontate i problemi della Chiesa, soprattutto della sua
gerarchia. Capisco che non si può parlare di corda in casa dell’impiccato, ma
credo che una maggiore schiettezza non danneggerebbe ne voi né la Chiesa
stessa; ricordate Rosmini.

La pratica
liturgica

In un inserto di qualche mese fa, curato da p. A.
Rovelli (di cui sono compaesano, così come lo sono di p. G. Rigamonti), il
problema della crisi della Chiesa è stato affrontato con onestà, ma, a mio
giudizio, tacendo su un fenomeno che la caratterizza da sempre e che reputo uno
degli elementi insieme più limitanti e più da rivedere: intendo il peso che ha
in essa la pratica liturgica e cultuale. Che è centrale nella Chiesa
contemporanea, come nella Chiesa da sempre, almeno dalla sciagurata età
costantiniana in poi, ma che non trova fondamento nel Nuovo Testamento (e qui
mi potrebbe essere d’aiuto p. Farinella, di cui auspico ed attendo il ritorno
sulle vostre colonne). Non ci sono nei vangeli e nell’intero corpus
neo-testamentario esortazioni a funzioni religiose, anzi per lo più se ne parla
in senso molto critico: vedi la parabola del fariseo e del pubblicano,
l’esortazione ad abbandonare il sacrificio per conciliarsi con il fratello, la
stessa preghiera del Padre nostro, che sembra letteralmente strappata a Gesù
dai suoi discepoli. L’unico caso che sembrerebbe smentirlo è l’istituzione
dell’eucaristia, ma il fatto che già ne parli Paolo (I Cor. 11, 23-26) e con
gli stessi accenti che troviamo nei sinottici – e Paolo non ha avuto nessuna
conoscenza diretta del Cristo – fa capire che il memoriale appartiene già alla
prima comunità cristiana come momento di consapevolezza di sé più che alla
verità storica dell’evento. E questo si inserisce perfettamente nella
predicazione del Cristo, che non intende sostituire i vecchi sacrifici e le
vecchie liturgie, ma si propone di creare una mentalità ed un’etica nuova, un
uomo «altro» sia rispetto al modello dell’ebreo che del pagano.

Certo mi direte che la liturgia non fa male a nessuno,
ed in fondo raccoglie la comunità dei credenti in un atto di riaffermazione di
identità e di comunanza di fede. Ma è proprio l’avere puntato soprattutto sulla
liturgia che ha reso marginale l’elemento dirompente dell’annuncio cristiano,
ovvero l’uomo nuovo e l’etica nuova. D’altra parte, a memoria, le esortazioni
che sento e che sentivo sono sempre quelle, riduttive: «sei andato a messa?», «hai
fatto la comunione?», «hai fatto Pasqua?», proprio le domande che Cristo non
rivolge mai ai discepoli. Forse il rispetto della liturgia si accompagna a una
vita scellerata, o anche semplicemente immemore dei suoi doveri o finalizzata
al guadagno senza moralità; l’una e l’altra possono convivere senza lacerazioni
proprio perché il primato della liturgia è neutro; esso assolve la coscienza ed
insieme non impegna, non mette in crisi il proprio modo di vivere.

Due esempi

Mi limito a citare due casi che ne mettono in evidenza
la contraddittorietà. Il momento della cresima, che dovrebbe essere quello
dell’acquisizione della consapevolezza matura di essere cristiano, rappresenta
per lo più un «rompete le righe», il momento in cui finalmente ci si è liberati
del catechismo (per tacer del fatto che la stessa funzione religiosa viene
regolata sugli orari dei ristoranti). Se questa è la reazione più diffusa è
evidente che c’è qualcosa che non funziona nel processo di formazione; nella
maggior parte dei casi quel tempo è stato sprecato e quel seme è andato
perduto. Non si può arrivare alla celebrazione come se questa fosse il tutto;
essa non ne è neppure una parte.

Un altro fatto riguarda la messa: la predica deve essere
ascoltata nel più assoluto silenzio (ho sentito rimproveri alle madri con
bambini molto piccoli o turbolenti; e dove li lasciano?), ma la raccolta delle
offerte è fatta durante la recita del Credo (che dovrebbe essere il momento di
identificazione comunitaria per eccellenza), e se i partecipanti sono numerosi
e il sagrestano è solo si rischia di portare tale raccolta fino al Padre
nostro; è possibile un simile sovvertimento di valori? L’omelia, la parte più
umana, discutibile, spesso la più stantia deve essere privilegiata rispetto ai
momenti più definenti e caratterizzanti? Senza contare (e anche qui don
Farinella mi potrebbe essere d’aiuto) che ecclesia significa comunità, e
soprattutto comunità non organizzata gerarchicamente, e omelia
significava dialogo, confronto, non ascolto supino, spesso volte distratto o
annoiato; e questo dipende anche dal predicatore.

Riempire le
anime

È certo difficile fare proposte: le chiese luterane e
calviniste, che sono da sempre più attente alla Parola, conoscono una crisi
forse ancora superiore a quella della chiesa cattolica. Ma è comunque evidente
che su questa via non si creano né buoni cristiani, né semplicemente persone
messe in crisi dalla loro professione di cristianesimo. Sono consapevole, e
qualcuno me l’ha ricordato, che le celebrazioni liturgiche finiscono con
l’essere l’ultima difesa alla prospettiva di una totale assenza del
cristianesimo nella società contemporanea. Ma non mi pare che si ponga la
stessa cura nella formazione. La conoscenza della storia della cristianità
tutta, la lettura critica dei testi, anche di quelli basilari, la
frequentazione dei numerosi autori cristiani soprattutto delle origini la si
trova più in alcuni laici che non negli stessi uomini di chiesa, che spesso ne
propongono una lettura rapida ed annoiata. Senza dimenticare il monito di
Pascal nella sua polemica contro i gesuiti: vi interessa solo riempire le
vostre chiese, non le anime dei vostri fedeli. Penso che il problema principale
sia innanzitutto uscire da questa condizione che crea fedeli inerti, per
formare cristiani che possono sì sbagliare anche più di quelli che vivono
secondo il modello corrente, ma per vitalità, per passioni, per principi etici.
Se è vero che la conoscenza (purtroppo!) non è tutto e non garantisce, è
altrettanto vero che l’approssimazione non creerà un cristiano autentico. E la
via della liturgia non educa, non forma, non fa crescere.

Per ragioni di correttezza voglio puntualizzare che chi
vi scrive è un agnostico, che tuttavia interessi storici hanno portato allo
studio del cristianesimo delle origini; e ritiene che il cristianesimo abbia
ancora, in questa stagione priva di ideologie e freddamente fondata su principi
economici (non si possono far fallire le banche, ma si può portare alla
disperazione un popolo, vedi la Grecia!), un grande ruolo da svolgere nella
coscienza contemporanea, ma deve cercare modi nuovi e non usuali per parlare
all’uomo. In fondo quegli antichi cristiani lo trovarono: senza chiese, intese
come edifici, e con un culto scao; forse è necessario riesaminare nel profondo
i caratteri delle origini; certo la consapevolezza e l’etica, ma anche la
conoscenza, erano superiori. E, lo ripeto ancora una volta, la comunità non era
fondata sul culto.

Mi scuso del disturbo, e con i più sinceri auguri che la
vostra rivista sopravviva.

Giuseppe
Corti
Barzago (LC), 16/02/2015

Grazie
sig. Giuseppe di questa lunga e interessante email. La sua disamina circa la
liturgia, tocca punti sostanziali della vita delle nostre comunità cristiane e
denuncia una situazione che certamente è una delle sfide più impegnative che la
Chiesa sta vivendo oggi.


Per
chi, come un missionario, rientra da paesi dove la liturgia è viva e celebrata,
il ritrovarsi in chiese dove la prima regola è «sii breve» perché la gente ha
fretta e ha tanto altro più importante da fare, lascia davvero sconsolati e
confusi.


«Si
ha spesso l’impressione che oggi nella chiesa la liturgia sia percepita più
come un problema da risolvere che una risorsa alla quale attingere. Eppure il
futuro del cristianesimo in occidente dipende in larga misura dalla capacità
che la Chiesa avrà di fare della sua liturgia la fonte della vita spirituale
dei credenti. Per questo la liturgia è una responsabilità per la chiesa di oggi».
Così scrive Goffredo Boselli, monaco di Bose.


Che
i cristiani italiani abbiano spesso ridotto la liturgia a un culto fatto di
pratiche esteriori, riti folkloristici, obblighi assolti, precetti e devozioni,
è un fatto. Senza entrare poi in merito a funerali a partecipazione zero e
matrimoni ridotti a spettacolo. Se poi si aggiungono le processioni in odore di
mafia e la difficoltà di trovare padrini e madrine «in regola» per battesimi e
cresime, il quadro è davvero preoccupante. La liturgia che la Chiesa sogna e
tutt’altra cosa. Per questo non posso concordare con lei quando dice che «la
via della liturgia non educa, non forma, non fa crescere».


Il
Concilio Vaticano II ha scritto che «la liturgia è il culmine verso cui tende
l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù» (Sacrosantum Concilium n. 10). Culmine e
fonte: due parole molto significative. Tutta la vita della comunità cristiana
dovrebbe trovare la sintesi nella liturgia e dalla liturgia attingere poi
l’energia per dare senso alla vita.


I
Cristiani dovrebbero poter dire «Senza la Domenica non possiamo vivere»,
insieme ai 49 martiri di Abitene (Tunisia) che nel 304 preferirono morire
durante la persecuzione di Domiziano piuttosto che rinunciare a celebrare
settimanalmente il memoriale della Pasqua del Signore.


Certo,
se quel che si celebra comincia in chiesa e in chiesa finisce, allora lei ha
pienamente ragione.

Non demordete

Da anni sono un’assidua lettrice della vostra rivista, e
dopo averla letta e apprezzata e meditata cerco di diffonderla, di «farla
girare» anche presso persone non completamente «cristiane ortodosse». È oggetto
ogni volta di discussioni costruttive. Trovo che riuscite sempre a essere
obiettivi, anche se trattate argomenti sociali, ambientali o politici.

È logico che quello che anima il vostro «andare a chi ha
avuto di meno» è animato dalla carità di Cristo, anche quando non viene
espressamente detto negli articoli: «non quando dite Signore, Signore siete
fedeli osservanti, ma quando fate la volontà del Padre mio» (cito a memoria
[cfr. Mt 7,21 ndr])… e qual è questa volontà di Dio se non dare la
vita per il progresso sia spirituale che umano dei nostri fratelli, spartendo
la nostra esperienza di Dio e, a volte, anche imparando da chi, a prima vista
giudichiamo «lontani».

Lo Spirito soffia dove vuole e non viene meno l’amore
alla nostra identità di Cristiani, se non ci mettiamo sempre sul pulpito,
credendoci gli unici detentori della Verità. D’altronde (dico un’eresia), il
Figlio di Dio avrebbe potuto starsene tranquillo col Padre e il Santo Spirito,
invece, per puro amore ha voluto scendere a «sporcarsi le mani» con le povere
faccende di noi umani, condividendo con noi giornie e dolori, e «ci ha pure
rimesso le piume» per aver denunciato le ingiustizie dei poteri del suo tempo.

Scusate le imprecisioni e le inesattezze nell’esporre
quel che penso (non ho studiato e sono vicina agli ottanta), ma quando ho letto
lo scritto del signor Alfredo di Genova (MC 03/2015, p. 7) non ho potuto far a
meno di mandarvi il mio incoraggiamento nel proseguire lo stile della vostra
rivista. Grazie del bene che fate a me, che fate a tutti quelli che vi leggono
e… non demordete: il Cristo è con voi!

Mira
Mondo,
Condove (TO), 08/03/2015

Caro Padre Gigi,

ho iniziato a ricevere e a leggere la vostra rivista
casualmente, e ora l’attendo con impazienza tutti i mesi; le scrivo per
condividere con lei alcune riflessioni (un po’ tardive, mi perdoni!) sulla
lettera molto bella e molto profonda del signor Garianol sullo stravolgimento
della figura del missionario.

Insegno storia e geografia ai licei e sono cattolica,
credente ma non strettamente osservante, anzi spesso lacerata da dubbi
interiori in merito ad alcune posizioni della Chiesa: ritengo doverosa questa
premessa perché la mia formazione culturale mi porta a guardare le cose da osservatrice
estea, cercando di comprendere le ragioni degli uni e degli altri, di essere
imparziale e oggettiva (esercizio faticoso e difficile).

Per questo motivo ho trovato gli articoli della vostra
rivista interessanti al punto da leggerli regolarmente in classe, e vi
considero un prezioso punto di riferimento: nelle vostre pagine si parla di
umanità – vicina e lontana – che spesso non riceve dai media l’attenzione che
meriterebbe, oppure la riceve distorta, condizionata da interessi di parte ed
appartenenze politiche. Un esempio per tutti: siete stati gli unici a suo
tempo, ad esporre in modo chiaro, equilibrato ed esauriente in che cosa
consista la protesta dei No Tav. Non ho mai trovato niente di equiparabile in
nessun articolo o rivista di geopolitica, tanto meno sui quotidiani.

Quindi la vostra testimonianza è importantissima, e così
come avete scelto di presentarla rispecchia – a parer mio – l’intenzione di
essere al passo con tempi e con il mondo che si evolve: la creazione di pozzi,
di strutture, l’attenzione alla figura femminile, alla gioventù e all’ambiente
ritengo siano gli strumenti ineludibili per una evangelizzazione consapevole e «matura».

Ma il messaggio cristiano c’è eccome: io lo vedo ovunque,
fra le righe e non. Ed è proprio questa la vostra forza: coniugare il messaggio
di Gesù con le urgenze del nostro mondo e del nostro tempo, con serenità ed
apertura verso l’altro. Inoltre la vostra preoccupazione di voler essere letti
da tutti – come lei afferma nella risposta – mi sembra non una debolezza, ma un
saggio modo per avvicinare alla lettura e alla riflessione il maggior numero di
persone.

Con gratitudine

Anna
Patrone
email, 14/03/2015

Il papa
stile Consolata

Cari fratelli e sorelle missionari della Consolata, con
gioia mi sto rendendo conto che c’è un grande parallelismo tra quello che il
nostro papa sta insegnando e gli insegnamenti del nostro padre fondatore, il
beato Giuseppe Allamano. Dall’anno della vita consacrata all’anno della
misericodia, è tutta gioia di consolazione che ci porta Gesù, la vera
consolazione. Noi come missionari della Consolata, credo che siamo chiamati a
questa testimonianza. Con papa Francesco giochiamo in casa.

Nel libretto Rallegratevi, prima lettera
circolare ai consacrati e alle consacrate (basata su citazioni dal magistero di
papa Francesco), il papa lancia il tema della gioia dicendo: «La gioia del
Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù».
Il papa cita poi il profeta Isaia: «Consolate, consolate il mio popolo, dice il
vostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemme» (Isaia 40,1-2). Il parlare al
cuore è proprio la nostra chiamata. Il papa ci dà poi uno spunto importante: «Si
tratta perciò di un linguaggio da interpretare nell’orizzonte dell’amore, non
in quello dell’incoraggiamento: quindi azione e parole insieme, delicate e
incoraggianti, ma che richiamano i legami affettivi intensi di Dio “sposo” di
Israele». Continua poi: «La consolazione deve essere epifania di una reciproca
appartenenza, gioco di empatia intensa, di commozione e legame vitale». In
quest’ultima frase trovo in nostro fondatore quando manda i missionari dicendo
che dobbiamo amare la gente, imparae la lingua e stare con loro. Imparare la
lingua credo non sia solo questione di grammatica, ma richieda entrare in
gioco, sapere la lingua comune, la lingua dei giovani e la lingua degli
anziani. Da tanzaniano dico che non basta saper lo swahili occorre imparare a
parlare al cuore della gente. Il padre fondatore diceva che dobbiamo «elevare»
la gente (cfr. MC 06/2014, p. 32), questo è parlare al cuore.

Il papa scrive ancora: «La gente oggi ha bisogno
certamente delle parole, ma soprattutto ha bisogno che noi testimoniamo la
misericordia, la tenerezza del Signore che scalda il cuore, che risveglia la
speranza, che attira verso il bene. La gioia di portare la consolazione di Dio!».
«Gli uomini e le donne del nostro tempo aspettano parole di consolazione, di
prossimità, di perdono e di gioia vera. Siamo chiamati a portare a tutti
l’abbraccio di Dio, che si china con la tenerezza di una madre verso di noi». È
un richiamo al chinarci, al cercare di farci «tutto a tutti, per salvare ad
ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22).

La domanda è: come? La risposta del papa è che tocca a
noi curare l’amicizia tra di noi umanizzando le nostre comunità. Dobbiamo
curare la vita della comunità, perché diventi come una famiglia. Lì lo Spirito
Santo è nella comunità. Sempre con un cuore grande. Lasciar passare, non
vantarsi, sopportare tutto, sorridere dal cuore. È il segno della gioia. Non è
per caso che il nostro padre fondatore ci volesse famiglia. Noi lo siamo. Il
papa ci invita a non privatizzare l’amore. Padre Allamano ci voleva fratelli e
sorelle.

Quando il papa annuncia la gioia di un anno giubilare
della misericordia, mi lascia senza parole. Il papa spera che «tutta la chiesa
possa ritrovare in questo Giubileo la gioia per riscoprire e mantenere feconda
la misericordia di Dio, con la quale, siamo chiamati a dare consolazione ad
ogni uomo e ad ogni donna del nostro tempo».

Noi riusciremo a dare questa testimonianza della misericordia
o della consolazione sapendo che Dio ci ha consolati per primo. Il papa trova
il coraggio di annunciare l’anno della misericordia perché «Ecco, questo sono
io, un peccatore al quale il Signore ha rivolto i suoi occhi». Soltanto colui
che è stato perdonato sa perdonare, uno sa amare se è stato amato, e uno è misericordioso
perché trova la misericordia di Dio.

Danstan
Mushobolozi,
Martina Franca, 17/03/2015

Risponde il Direttore




Cari Missionari

Bufala

Sono un estimatore della vostra rivista perché tratta
sovente articoli di politica ed economia internazionale con grande profondità
ed originalità (es. gli articoli sul mobile money).

Per questo mi ha un po’ colpito che Angela Lano, che
stimo, si sia lasciata ingannare da una bufala che corre su internet da
quest’estate, secondo la quale il proclamato califfo dello stato islamico di
Iraq e Siria, al-Baghdadi, è un agente del Mossad figlio di genitori ebrei
(cfr. articolo sul numero di gennaio-febbraio).

La notizia, non firmata ma probabilmente vergata dal
direttore Gordon Duff, è stata lanciata dal sito neonazista Veterans Today
e ripresa in Italia solo dal sito altrettanto ultraconservatore Apostatisidiventa.
Giova ricordare quanto sia attendibile il sito statunitense, che nel settembre
del 2012 ci informava che la Marina Usa ci stava difendendo segretamente da un
attacco alieno. La fantascienza è un argomento molto usato da Gordon Duff,
secondo cui la cometa Ison era formata da un gruppo di navicelle spaziali
(settembre 2013); d’altronde per sua stessa ammissione, il 40% di quanto
pubblica sulla sua rivista è falso.

Un saluto

Paolo
Macina
Torino, 24/01/2015

Il
riferimento all’ipotesi di al-Baghdadi come agente del Mossad è stato fatto
nell’ambito delle tante e diverse teorie – in una lettura attenta lo si evince
bene -, e dunque non mi sono fatta ingannare da nessuno. Come studiosa e
giornalista ho il dovere di citare tutte le teorie e fonti. Infatti, tra le fonti
non c’è solo Veterans Today, ma anche altri due siti come citato nella
nota n. 10.

Angela Lano
05/02/2015

Nonchalance
Gent.mo Direttore,

sono un abbonato da anni della rivista Missioni
Consolata; ho ritrovato solo oggi la copia del dicembre 2013 che avevo tenuto «troppo»
da parte per scriverle, cosa che faccio solo ora, in merito alla sua risposta
alla lettera «Scriveteci» pubblicata a pag. 5. Il punto interessato, a circa metà pagina di colonna 4,
recitava così: «Che poi ci siano dei missionari che abbiano amato una donna,
generando anche dei figli, non dovrebbe stupire nessuno, eccetto coloro che li
ritengono degli automi programmati e non degli uomini in carne e ossa». Ebbene, io mi ritengo proprio tra coloro che invece si
sono stupiti leggendo questa sua parte di risposta, non ovviamente (riguardo)
all’amare una donna, ma al generare dei figli. Ma ciò che più ancora mi ha
stupito, è la nonchalance con cui è stato scritto, quasi questa
eventualità fosse una normalità e una giustificazione più che doverosamente da
accettare. Per carità, non mi permetterei assolutamente di giudicare nessuno,
sono io il più peccatore di tutti, ma mi ha lasciato molto perplesso quanto ho
letto.
Grato comunque per il lavoro che fanno i missionari nel
mondo e per il suo/vostro lavoro redazionale, porgo distinti saluti.

Elio
Gatti
Trinità CN, 03/02/2015

No,
da parte mia non c’era giustificazione, ma solo comprensione di una realtà
umana molto complessa. In quasi quaranta anni di vita missionaria, ho visto più
di uno dei miei amici – persone anche migliori di me – lasciare il sacerdozio e
la missione per amore di una donna o per senso di responsabilità verso il
figlio da loro concepito. Sono sempre state storie di sofferenza e lacrime,
vissute spesso in solitudine. Solitudine oggettiva, quella fisica data da
ambienti geograficamente e culturalmente isolati dal mondo, e quella
spirituale, causata dalla lontananza dagli amici e dal dito accusatore di
confratelli poco fratelli. In certi casi c’è stata della leggerezza, in altri
solo un momento di debolezza, spesso riscattato dalla scelta responsabile di
dare un padre al nascituro rifiutando soluzioni che sarebbero state più
semplici in accordo con le tradizioni locali.

Il dossier  sull’Isis
Signor Direttore,

abito a Bruxelles, in Belgio, e collaboro gratuitamente
con una rivista francese di dibattito ecclesiale, «Golias», con sede a Lione (http://golias-editions.fr).
Il direttore, Christian Terras, trova che il vostro articolo «Nessuna
compassione per gli “infedeli”» è particolarmente illuminante per evitare
discorsi all’ingrosso, soprattutto dopo gli attentati del 7 e 9 gennaio a
Parigi. Non mancano evidentemente studi francesi sull’Islam, ma Golias
ritiene che il punto di vista del vostro articolo è abbastanza originale (e in
un certo senso profetico, visto che è stato redatto ben prima dei noti
fatti di sangue) rispetto alla valanga di tante altre opinioni espresse in
questo mese di gennaio nella stampa francese.
Per queste ragioni vi chiediamo l’autorizzazione per
pubblicarlo. Contando sulla vostra simpatia, vi ringraziamo anticipatamente.
Cordiali saluti,

Carmine
Casarin
Bruxelles, 29/01/2015

Cibo e violenza

Abbiamo iniziato lunedì 9 febbraio 2015, a leggere nella
celebrazione della messa il libro della Genesi. Il passo di oggi descrive il
quinto, sesto e settimo giorno della creazione (Gn 1,20-2,4a). Secondo il primo
libro della Bibbia il cibo dell’uomo è esclusivamente vegetale (cfr. Gn 1,29);
così pure per gli animali (cfr. Gn 1,30). Dopo il diluvio ci fu la concessione
del cibo carneo a esclusione del sangue animale, poiché il sangue è simbolo di
vita. Gli animali si dividono in: caivori – onnivori – erbivori – scimmie
antropoidi. L’uomo non rientra fisiologicamente e anatomicamente nei  primi
tre grandi insiemi. Egli è assai simile alle scimmie antropoidi il cui cibo
elettivo è: frutta – grani – semi. Un comandamento del decalogo comanda di «non
uccidere»: nel testo è riferito all’uomo. Ma se «Dio è amore» (1Gv 4,8.16) come
mai la violenza dell’uccisione di un animale da parte di un altro animale è
permessa? La scrittrice Annamaria Manzoni, rispondendo al mio interrogativo,
affermò categorica-
mente che nell’uomo c’è libertà (ovvero possibilità di scegliere), mentre
l’animale non umano agisce per istinto. Ma rimango nell’interrogativo del perché
l’esistenza della violenza. La mia risposta: «La vita è un mistero». Come
sostiene il teologo Luigi Lorenzetti, non è indifferente la scelta del cibo da
parte dell’essere umano: mangiare cibi vegetali è certamente meno violento che
consumare cibi frutto di prevaricazione. E gli alimenti vegetali sono
sicuramente portatori di maggiore serenità: tanti uomini illustri come il
Mahatma Gandhi sono stati vegetariani e pacifici. La Bibbia non è certo un
libro di cucina o nutrizione: consumare un alimento o l’altro è frutto di una
scelta, che dovrà essere razionale e responsabile. Per non parlare
dell’abbigliamento: fa freddo; è poi indispensabile coprirsi con pellicce e
montoni? E se il cane è il miglior amico dell’uomo, gli altri animali possono essere
uccisi senza scrupoli?

Stefano
Severoni
Roma, 10/02/2015

Grazie
della sua condivisione con noi. Mi permetto di sottolineare solo due punti.
La
Bibbia è una raccolta di libri molto diversi tra loro che raccontano anzitutto
un’esperienza religiosa. Se è vero che si trovano frasi come quelle da lei
citate a sostegno del vegetarianismo, è anche vero che ce ne sono molte altre
che danno per scontato il consumo di carne. Tutta la struttura dei sacrifici,
dall’agnello pasquale agli olocausti, presuppone che i partecipanti al rito
consumino carne. Come lei giustamente sottolinea, «la Bibbia non è certo un
libro di cucina o nutrizione». E nemmeno un libro di sartoria. A proposito
delle pelli, posso dire di aver visto delle popolazioni che le indossavano
quotidianamente. Era una scelta di necessità causata dall’ambiente difficile,
dallo stile di vita e dall’isolamento. Oggi quella stessa gente usa gli abiti
di pelle solo in occasioni cerimoniali o folkloristiche, mentre normalmente
veste abiti di stoffa (magari usati), ormai venduti anche negli angoli più
remoti. Con gran beneficio dei denti delle loro donne, che un tempo dovevano
masticare le pelli per conciarle.

Quanto
alla violenza, la Bibbia ci dice che è entrata nel mondo con il peccato. È il
mistero della libertà. L’uomo sceglie di fare a meno di Dio. Quando l’uomo (l’adam,
uomo e donna uniti) rifiuta Dio come baricentro delle sue relazioni e pone se
stesso al centro, l’equilibrio delle relazioni salta ed esplode la violenza.
Nel mondo riconciliato nella croce e resurrezione di Gesù, la violenza non
dovrebbe aver più spazio. La comunità cristiana (popolo di Dio, Chiesa)
dovrebbe essere profezia di un mondo riconciliato e in pace. Ecco perché negli
ordini monastici antichi frateità e pace, povertà e vegetarianismo,
contemplazione e obbedienza a Dio viaggiavano insieme.

Parrocchie accorpate

Con la presente Vi preghiamo voler annullare invio della
rivista alle seguenti parrocchie… (ben quattro, ndr). Certi che
comprenderete nella giusta luce quanto richiesto, porgiamo cordiali saluti

La
segreteria (delle 4) Parrocchie
email, 09/01/2015

Questa
email non era per la pubblicazione. Per questo ogni riferimento specifico è
stato omesso. Ho pensato di farla conoscere ai nostri lettori per condividere
alcune considerazioni, poiché ci è chiesto di comprendere «nella giusta luce
quanto richiesto».
Ovviamente
comprendo benissimo la dura realtà dell’accorpamento di parrocchie, risultato
della crisi in atto nella Chiesa italiana (ed europea) che si trova con un
clero in costante diminuzione e sempre più anziano. È la stessa crisi che sta
decimando i missionari italiani nel mondo.
Ma
mi è difficile capire perché cancellare tutte le quattro copie in questione. La
mia illusione è che una rivista mandata a una parrocchia non debba essere solo
per il sacerdote, ma per i fedeli, per il gruppo missionario, per chi ha a
cuore la missione della Chiesa. Senza sacerdote, i laici di quella comunità
dovrebbero sentirsi ancora più missionari e responsabili dell’annuncio del
Vangelo. Una apertura alla missione universale non dovrebbe essere vista come
un rubare forze all’impegno locale di evangelizzazione, ma come un
incoraggiamento.
L’interesse
per la missione universale (quella detta ad gentes) non è un furto di risorse,
una fuga dai problemi o una scusa per non impegnarsi «qui e ora». Da sempre la
Chiesa sa di essere missionaria per sua natura e non invia missionari solo
perché è nell’abbondanza, ma perché sa bene che se non esce da se stessa muore.
La sua fede si mantiene solo donandola, condividendola nell’amore. Papa
Francesco ci ricorda tutto questo con grande forza. Niente di nuovo. Lo ha già
detto il Concilio Vaticano II, cinquant’anni fa. E neanche allora era una novità,
solo una realtà un po’ dimenticata.

Faccia a faccia

Gent.mo Padre,
solo recentemente mi sono accorto della sua risposta alla mia lettera apparsa
sulla rivista di novembre. Mi sono veramente commosso, perché non l’aspettavo
più. Attendevo una risposta per corrispondenza. Nella sua risposta ho notato
una ripetizione nei riguardi di Dio. La prima è quando dice: «Ha preparato i
suoi figli all’incontro: faccia a faccia con Dio». La seconda quando dice: «Dal
momento che la morte è l’ingresso nella visione di Dio, faccia a faccia».

Questi due passaggi io non li condivido, perché:

Giovanni 5,37 recita: «Voi non avete mai sentito la Sua
voce, né visto mai il Suo volto».
Giovanni 1,18: «Nessuno ha mai veduto Dio, l’unigenito
figlio, che è nel seno del Padre, egli stesso (Cristo) ce lo ha fatto conoscere».
Colossesi 1,15: «Egli (Cristo) è l’immagine
dell’invisibile Dio».

Genesi 1,26 (nota in fondo pagina), «Dio non ha corpo».

Complimenti per l’articolo «Una voce in meno» rivista n.
11. Condivido tutto quello che ha scritto. Complimenti. In chiesa vedo un vuoto
dei giovani. Alla messa festiva, ove presenziano circa 200 persone, mancano i
fedeli di età inferiore ai 30-40 anni e di conseguenza ci sono i bambini. «È
triste», le persone assistono alla Messa in modo superficiale. Giunga a lei, a
don Farinella e ai suoi collaboratori, un cordiale e sincero saluto.

Guido
Dal Toso,
lettera da Somma Lombardo (VA), 23/01/2015

Caro
Sig. Guido,
pubblico con piacere la sua seconda lettera, scritta a mano in un bel corsivo
che ormai si vede sempre più raramente. Mi scusi se ho tagliato molte delle
cose che mi ha raccontato e non le ho risposto personalmente. Le lettere che
riceviamo sono normalmente considerate per queste pagine.
Riguardo
al «faccia a faccia» è certamente un’espressione inadeguata per esprimere un
mistero, ma il bello della Sacra Scrittura è che Dio ha scelto di parlare agli
uomini di sé usando il nostro limitato linguaggio, pur senza lasciarsi esaurire
dallo stesso. «Quando vedrò il tuo volto?», supplica l’orante nel salmo 41.
Certamente con la morte, non più limitati da questa corporeità, potremo «vedere
Dio faccia a faccia», godere cioè della sua conoscenza (amore) pieno, totale e
senza veli. È un linguaggio umano, è vero, ma noi non sappiamo esprimerci in
altro modo. Per questo Dio si è «abbassato» al nostro livello, mandando il suo
Figlio prediletto per rivelarci il suo vero volto di Amore.

Caselli

Gentili Direttore e Collaboratori vari della bella
rivista MC,
da tanti anni la leggo – ora un po’ meno – con i miei 80
anni. (Quello che) desidero ancora è vedere il carcere, incontrare i detenuti e
tutto quanto compete. È diventato la mia casa, la mia grande famiglia, è un
momento di relazioni e incontri con tanti detenuti e i loro cari, quando è
possibile.

Vado due volte alla settimana per i colloqui personali
con i detenuti ed alle ore 16,00 per la messa. Prego ed offro la mia vita con
tutti i miei limiti. Prego, ma soprattutto ci sono tante persone che pregano
per me, per il carcere di Cuneo. Sono, siamo in comunicazione di amicizia con
cinque monasteri di clausura e con le mie consorelle e tante persone buone.
L’anno scorso ho incontrato circa 350 diverse persone, ho fatto oltre 1.300
colloqui. Le manderò una relazione annuale e qualcosa di relativo a questo
campo. Preghi anche per me e quanti incontro. Grazie. Lascio una lettera per il
Procuratore Caselli Giancarlo. Lo conosco da 16 anni, sempre per carcere e
dintorni. Non ho un recapito, ora che non è più in Procura. Grazie tanto.

Suor
Elsa Caterina,
Cuneo, 08/01/2015

I dannati di
Atene,

gli eroi del
Lussemburgo e l’eroina di Berlino

Spero che il giudice Caselli scriva ancora tanti articoli
su MC perché quello della legalità è un concetto che va approfondito.

Per me che sono credente legalità significa innanzitutto
rispetto della legge naturale, quella del Vangelo, quella della Bibbia, quella
della Chiesa, quella di Papa Francesco, ma siccome sono anche italiano
significa anche rispetto della Costituzione della Repubblica Italiana.

Ora certe leggi, certe regole, certi patti, certi
impegni, dai quali i nostri governanti dicono di non poter assolutamente
derogare mal si conciliano con la nostra Costituzione.

Non passa giorno che la Commissione Europea non minacci
sanzioni contro i paesi come l’Italia, non passa giorno che i nostri politici
non discutano di riforme, non passa giorno che non si parli di spread con i
bund tedeschi, di crescita, di rispetto dei parametri di Maastricht, di Grecia
sull’orlo del disastro. Dopo la vittoria di Tsipras, dopo la sua decisione di
riassumere una parte di coloro che erano stati licenziati, di ridare la
tredicesima ai pensionati che se l’erano vista sottrarre dalle riforme di
Samaras, di innalzare le pensioni minime, il Presidente della Commissione
Europea J.C. Juncker, in perfetta sintonia con la signora Merkel, Schaeuble,
Weidmann, Katainen & C, ha subito minacciato: «Tsipras ci rispetti, la
Grecia non può derogare dagli impegni presi».

Neanche due mesi prima però lo stesso Juncker, che è
stato Primo Ministro del Lussemburgo per ben 18 anni, a chi gli faceva notare
che nel suo paese le multinazionali avevano pagato e continuavano a pagare solo
l’1% di tasse sui profitti d’impresa rispondeva: «Tutto regolare, tutto legale,
non c’è evasione».

La domanda che faccio al giudice Caselli è questa: c’è
una relazione tra il + 40% di mortalità infantile e + 90% di suicidi in Grecia
e l’1% di tasse sui profitti dei nababbi in paradisi fiscali legali come il
Lussemburgo?

Arriverà un giorno in cui i nostri giudici costituzionali
riconosceranno l’incompatibilità di certe leggi come quelle che impongono il
pagamento di tasse sulla casa e su tutti gli ambienti in cui si vive
onestamente, si lavora onestamente, si produce ricchezza pulita (materiale e
non…), con gli articoli 1 e 53 della nostra Costituzione?

C’è una relazione tra le immani difficoltà e le tremende
vessazioni fiscali che coloro che svolgono lavori umili (lavoro dei campi,
lavoro casalingo, lavoro mal retribuito, e, checché ne dica Renzi, a tutele
decrescenti) e il lavoro dorato a cui si sono abituati i cittadini del
Lussemburgo (dove 1 abitante su 19 è banchiere o bancario)?

Come mai invece di parlare di riforme in generale gli
eurovertici non dicono chiaro e tondo ai governanti e ai magistrati greci di
intervenire con mano ferma nei riguardi dei loro connazionali armatori? Come
mai non fanno nulla contro l’evasione fiscale degli armatori in generale che,
sulle loro navi, grandi e piccole, anziché la bandiera del proprio paese, fanno
sventolare quella liberiana e panamense?

Distinti saluti

Luciano
Montenigri
Fano, 04/02/2015

La
rubrica di Giancarlo Caselli è appena cominciata e già suscita aspettative.
Bello. In verità gli abbiamo dato mano libera nella scelta degli argomenti,
pregandolo di non chiudersi solo nelle problematiche italiane o europee, ma di
avere a cuore il mondo, soprattutto i poveri e le vittime dell’ingiustizia
globale.

risponde il Direttore




Cari Missionari

Calendario di Suor Irene

Caro padre,
scrivo da Roraima, in Brasile. Complimenti a te e a tutti per Missioni
Consolata N. 11. Tutto molto, molto «buonissimo»! Ma per quel calendario di
suor Irene non basta il 10 e lode! Fantastico per le foto e per le
sottolineature dei temi. Anche il tuo editoriale, Una voce in meno, la
dice lunga sulla solidarietà che ha un sapore ben diverso dalla competizione!
Che ne dici: non c’è posto per tutti in questo mondo? Buone le domande, le
statistiche, gli interrogativi che fanno pensare… Non mollate. Un giornale è
sempre un’opera d’arte.

Leta
Botta, missionaria della Consolata
Roraima, 15/12/2014

San Domenico Savio

Spettabile Redazione,
sono un lettore – magari un po’ discontinuo – della vostra rivista. Noto con
piacere che davvero non vi mancano notizie, messaggi, riflessioni utili; ciò è
dimostrato anche dal carattere piuttosto piccolo che prevale nelle pagine della
vostra MC.

Nel Congresso Eucaristico Diocesano che si è svolto a
Castelnuovo Don Bosco circa mezzo secolo fa, ho cantato anch’io l’inno: «Ritorna,
o Signore, è questa la terra da te prediletta, la terra dei Santi (…). In
mezzo a noi, Signor, scegli i tuoi Santi; scegli i tuoi Santi ancor, in mezzo a
noi, Signor!» (Parole di José Cottino e musica di Camillo Milano).

Nell’articolo di pagina 32, a metà della seconda colonna,
leggo: «… anche se dovrebbe essere battezzato Castelnuovo dei Santi perché
ben quattro (va aggiunto infatti anche Domenico Savio) sono i santi che lì
hanno avuto i loro natali…». Condivido con voi tutto il contenuto
dell’articolo, ma vorrei precisare che Domenico Savio è nato a Riva presso
Chieri e non a Castelnuovo. È però verissimo che ha vissuto la massima parte
della sua vita nel comune di Castelnuovo.

Il Signore vi aiuti a fare sempre del bene, soprattutto
nei «luoghi di frontiera», nei quali vi siete già distinti in molte occasioni.
Grazie di tutto! Cordiali saluti ed auguri di ogni bene da

Antonio
Caron
email, 06/12/2014

Ridateci i libri

Ricevo
la bella rivista da un cinquantennio e prima ancora la stessa era presente
nella mia famiglia di origine. Il suo arrivo è sempre una gioia per ricchezza
di contenuti, profondità degli argomenti trattati e pregevolezza della veste
editoriale. Mi permetto di proporre alla redazione il ripristino di due
antiche, per me e penso per altri lettori, utili e interessanti rubriche: la
presentazione bibliografica di nuovi libri e la rubrica filatelica che fu
presente per moltissimi anni. Due arricchimenti certamente utili specie per i
lettori più anziani o per chi risiede in luoghi decentrati.

Ringrazio per l’attenzione e unisco, per tutti i
missionari, un cordialissimo saluto.

Luigi
Bisignano
15/12/2014

Grazie di averci scritto. La rubrica dedicata
ai libri, rinnovata, torna proprio in questo numero, a pag. 2, mentre per
quella filatelica… non potrà più essere come una volta. Dovesse ritornare,
son sicuro che rimarrà piacevolmente sorpreso. Ogni bene a lei.

Batik

Ho avuto l’occasione di visitare la mostra missionaria
dell’Immacolata a Torino in favore dell’ospedale di Neisu in Congo e vi ho
potuto ammirare e acquistare alcuni batik provenienti dal Kenya. Confesso la
mia
ignoranza in materia e pertanto mi permetto di suggerire per la vostra rivista
di dedicare un articolo a questa forma artistica. Non mi pare, salvo
distrazioni, di ricordae sull’argomento. Potrebbe anche essere una buona
pubblicità per suscitare interesse a decorare la propria casa in questa forma.
Se ci fosse sufficiente varietà potreste anche pensare ad esporli
fotograficamente sul vostro sito web. Magari lo avete già fatto!

Claudio
Solavagione
email, 19/12/2014

DI bambini e missionari

Caro Padre Gigi,
ancora una volta ringrazio per l’editoriale,
oltre che per tutti i contenuti del mensile. Mi riferisco a Un sogno da
bambini
. Ringrazia per me la scuola dell’infanzia che ha organizzato il
presepio vivente descritto perché le insegnanti, nonostante l’impegno
richiesto, hanno affrontato tale evento per far vivere a piccoli e grandi «qualche
cosa» del mistero del S. Natale. Mi permetto di sottolineare, come pedagogista,
che non si tratta né di una recita e né di un teatrino. Se non c’è l’assillo
della parola esatta o del gesto perfetto o del movimento sempre identico, i
bambini interpretano i ruoli in modo spontaneo e giornioso, così come sono stati
descritti, e fanno sul serio, non recitano, sono veri nelle loro espressioni!

Quanto all’affermazione conclusiva dell’articolo citato e
pubblicato su La Stampa del 23 ottobre dell’anno scorso, che cosa dire?
Purtroppo l’ignoranza è molto diffusa ed è trasversale. Non c’è conoscenza
relativa al tipo di lavoro, agli obiettivi e grado di impegno dei missionari,
per cui chi ha scritto non si è reso conto della contraddizione in cui è
incappato. Se in
Africa c’è bisogno della giustizia sociale, in Italia c’è bisogno sia della
stessa che della cultura, oltre che della formazione e dell’educazione.

Auguro che Missioni Consolata trovi, nel 2015, sempre più
lettori e lettori critici e propositivi!

Milva
Capoia
Collegno, 02/01/2015

Bambini Salvadoregni, E
adozioni illegali

Dopo aver letto il dossier di MC di luglio 2014 ci
permettiamo di scrivere su questo importante argomento.

Quanti bambini salvadoregni sono stati adottati in Italia
negli anni ’80?

È una domanda senza risposta. La
sparizione di persone fu una pratica sistematica durante il conflitto armato
nel Salvador fra il 1980 e il 1992. Di più: infame fu la sparizione di bambine
e bambini, una pratica impiegata come strategia militare controrivoluzionaria.

Nei suoi 20 anni di esistenza, Pro Búsqueda ha
registrato 934 casi di separazione forzata di bambini dai loro genitori durante
la guerra del Salvador. A tutt’oggi è riuscita a trovare 392 di loro. Il lavoro
di
Pro Búsqueda si riferisce a quei bambini che furono fatti sparire dalle
loro famiglie, rivendicando i loro diritti violati e servendo da tramite fra le
famiglie biologiche e quelle adottive.

I bambini furono considerati un bottino di guerra che
generò sostanziosi benefici economici a favore di coloro che ne fecero motivo
di commercio. Durante la guerra del Salvador si creò una rete di adozioni
illegali con la complicità di militari, funzionari pubblici, avvocati,
responsabili di orfanotrofi e addirittura di volontarie della Croce Rossa del
Salvador.

Il nostro paese fu tra quelli che realizzarono più
adozioni inteazionali negli anni ’80. In quel periodo gli Stati Uniti emisero
più di 2.300 visti di adozioni per bambini del Salvador. Furono adottati
numerosi bambini anche in Europa, specialmente in Italia.

Pro Búsqueda
non possiede dati esatti sul numero di adozioni di bambini salvadoregni in
Italia durante la decade degli anni ’80. Tuttavia in Italia sono stati risolti
già 39 casi. La collaborazione delle autorità italiane per conoscere il numero
esatto di adozioni nel paese sarebbe di vitale importanza per capire la
dimensione del fenomeno dell’infanzia scomparsa in El Salvador.

La sparizione di questi bambini e la loro successiva
adozione fraudolenta ha violato i loro diritti fondamentali e anche quelli dei
loro genitori biologici e adottivi. Si è strappato ai genitori biologici la
cosa più preziosa della loro vita e ai bambini si è negato il diritto alla loro
identità, a rimanere con la loro famiglia e, oggi, a sapere quali sono le loro
origini. Si è abusato anche della fiducia e della buona volontà di molti
genitori adottivi che non erano a conoscenza delle irregolarità che venivano
commesse in El Salvador.

L’aiuto delle autorità italiane permetterebbe di avanzare
nella risoluzione di molti casi che rimangono irrisolti. Non sarebbe solo un
gesto di umanità verso le vittime salvadoregne di questo orribile crimine, ma
anche di responsabilità verso i suoi obblighi inteazionali, come quelli
contenuti nella Convenzione Internazionale sui Diritti del Bambino, ratificata
dall’Italia e da El Salvador.

Inoltre sarebbe un sanare un debito verso tutti quei
cittadini italiani di origine salvadoregna che vogliono ricostruire il loro
passato e la loro identità. E diventerebbe meno pesante il fardello di tutti
quei genitori che continuano a cercare i loro figli scomparsi.

Asociación
Pro Búsqueda de niñas y niños
 desaparecidos
www.probusqueda.org.sv
email, 21/11/2014

CHE senso ha la Missione, oggi?

(N.B.:
i titoletti nel testo sono redazionali)

Rev. Padre,
lasci che un quasi settantenne utilizzi ancora anche lui una lettera cartacea
vista la mia poca dimestichezza con il computer (che, tuttavia, sia chiaro, non
demonizzo!). Scrivo in merito al suo editoriale apparso sul numero di novembre
del 2014, che un mio caro riceve e che poi mi passa. Concordo circa il dolore
nell’apprendere della cessazione di una pubblicazione missionaria, né è mia
intenzione fare analisi socio-economiche sul continuo decrescere dell’amore
alla lettura o – quanto meno – nei confronti della carta stampata.

Mi conceda alcune riflessioni in cui, le assicuro, non vi
è la più piccola parte di polemica.

La missione, un tempo

Quando ero giovane, e anche desideroso di farmi
missionario, lo scopo delle missioni e della vocazione missionaria, era
chiarissimo a tutti: portare il cristianesimo (il cattolicesimo) a popoli che
ancora non avevano avuto la gioia di conoscerlo. In parole povere, anche se
oggi il termine non è politically correct: convertire. Alle foto di
allora, con il padre missionario con la sua veste bianca, il casco coloniale,
una bella lunga barba, facevano seguito resoconti del tipo, quanti villaggi
visitati, quante cappelle aperte, quanti battesimi celebrati, quanti matrimoni.
In altri termini tutta una relazione circa l’apostolato del convertire. Forse,
anzi, toglierei anche il forse, in quelle relazioni emergeva una dose di
trionfalismo, ma il lettore almeno aveva le idee chiare, forse troppo semplicistiche,
ma chiare.

La missione oggi

Poi venne il Vaticano II (e qui, prima di andare avanti
vorrei precisare che considero quel concilio un vero dono di Dio) e le grandi
attese: seminari pieni e vocazioni a valanga. Ma per motivi che non so
spiegarmi, poco per volta avvenne l’esatto contrario.

Too all’aspetto delle missioni e dei missionari. Si
cominciò col dire che lo scopo delle missioni non era quello di convertire,
bensì «testimoniare», e qui la chiarezza dei concetti incominciò ad
annebbiarsi. Poi un sempre e crescente impegno del missionario nel creare
pozzi, forme nuove di agricoltura, sviluppare artigianato, occuparsi della
promozione della donna, prendersi cura della gioventù e tante altre belle cose
che sicuramente ogni missionario curava anche prima, ma che erano secondarie
all’evangelizzazione.

Poi tutta un’altra serie di messaggi belli, sì, ma forse
non ben spiegati al popolo cristiano. Anch’io mi sono commosso a vedere le foto
delle grandi preghiere ecumeniche ad Assisi, ma il messaggio che è giunto è
stato che tutte le religioni sono nobili e degne allo stesso modo, e che ognuna
è una strada per giungere a Dio.

A questo punto diventava ineludibile la domanda: e
allora, se Dio ha dato a quei popoli una loro forma di espressione religiosa,
dato che Dio non lascia orfano nessun popolo, in base a quale principio io devo
andare là per convincerlo a lasciare i suoi culti e divenire cattolico?

Mi ricordo che in un’intervista letta anni or sono, ad un
certo punto, il giovane missionario che partiva, alla domanda se andava per
convertire, rispose: «No, vado per essere convertito». Probabilmente intendeva
dire che quanto di buono avrebbe trovato in terra di missione lo avrebbe
spronato a diventare un miglior cattolico, ma letta così, tout court, la
frase spiazzava.

Siamo giunti a tal punto che oggi il missionario per
eccellenza è quello che è stato a Korogocho (pron. Corogocio, ndr)
e che guida cortei per la tutela dell’acqua
pubblica.

Qual è l’essenza della missione

Belle e sante cose, ma torniamo alla base: qual è l’essenza dell’essere missionario? E a questa domanda ne
segue un’altra. Tutte le riviste missionarie, compresa la sua, non fanno altro
che riportare inchieste interessantissime e quasi sempre molto equilibrate,
inchieste sociali, politiche, storiche, il
tutto – ripeto – molto bello. Ma quante volte compare il nome di Gesù Cristo? È tutto un resoconto di sopraffazioni di stati su
stati, di etnie su etnie, di caste su altre caste. Ma cosa serve studiare
teologia e tutte le materie a essa connesse se poi offrite un prodotto per il
quale sarebbe sufficiente un esperto di politica internazionale o uno storico
equilibrato?

Se prima, a mio parere, l’essenza della missione era
quella di predicare il cristianesimo a popolazioni che avevano altre forme
religiose a nostro avviso belle, nobili, ovviamente da rispettare, per certi
aspetti anche da prendere ad esempio, ma comunque non equiparabili al messaggio
di Cristo, oggi quale è questa essenza?

Avviene quello che succede ad ogni aggregazione umana, ad
esempio tra partiti politici che si fondono: la perdita della propria identità
e specificità annulla anche il movente interiore, lo stimolo che prima c’era a
voler partire missionari.

Se un giovane che dovesse avere la vocazione riflette un
po’, se va per costruire pozzi, case, ponti, impiantare aziende, creare
movimenti di sindacalizzazione, creare scuole (tutte cose bellissime, sia
chiaro) non gli basterebbe essere un buon geometra, un buon ingegnere, un buon
manager, un buon professore? Poi, se è anche un buon cristiano, meglio ancora!

Concludendo
Due questioni aperte.

1. Un tempo il missionario portava Cristo e il Vangelo,
di conseguenza tutta la sua azione si completava anche, visto che l’uomo è
corpo e anima, con opere umane di promozione sociale dei popoli ai quali era
inviato. Ma l’essenziale era ben distinto dal secondario. Oggi il secondario ha
preso il posto di ciò che prima era ritenuto essere l’essenziale della
missione. Capovolgendo i valori la missione non poteva che soffrie.

2. Il secondo punto è la necessità di spiegare con
chiarezza il significato di certi gesti in sé bellissimi, compiuti ad esempio
dai papi, ma che possono prestarsi a equivoci o a volute distorsioni da parte
della stampa laicista. Lo si è visto con la frase di papa Francesco «Chi sono
io per giudicare» che, sulla stampa nazionale è diventata una sorta di
sdoganamento dell’omosessualità. Anche recentemente, l’inchino verso il primate
degli ortodossi, la preghiera nella moschea rivolto alla Mecca. Se tutto ciò
non viene spiegato, altro non porta che alla solita conclusione. Ogni religione
è strada verso Dio, di conseguenza una forma missionaria della chiesa cattolica
altro non può essere vista che come una forma di sopraffazione nei confronti di
altri culti.

La saluto con stima e affetto, spero di essere stato
sufficientemente chiaro nell’esposizione dei miei pensieri, cordialmente suo,

Alfredo
Garianol
Genova, 16/12/2014

Caro
Sig. Alfredo,

è stato più che chiaro. Sull’ultimo punto, avesse scritto dopo il viaggio del
Papa in Sri Lanka, avrebbe potuto aggiungere altri argomenti al dibattito. La
ringrazio della sua lettera che tocca il tema scottante della missione della
Chiesa oggi. Non ho una risposta precisa da darle. Le assicuro che quanto lei
ha esposto costituisce il cuore del dibattito sulla missione e la nuova
evangelizzazione.

È vero, in
questi anni, per noi giornalisti missionari è stato più facile raccontare di
sviluppo, di giustizia e di pace che dell’esperienza di fede che vivono i
missionari. Questi ultimi spesso hanno pudore a raccontare della vera forza che
li anima dentro, l’amore per Gesù Cristo. In più anche noi abbiamo forse
un’eccessiva preoccupazione di voler essere accettati/letti da tutti senza
apparire integralisti o impegnati a fare proselitismo.

Ricordo
che io stesso ho criticato con forza la redazione di MC nel 2002, quando, in
occasione del centenario dell’arrivo dei missionari della Consolata in Kenya,
aveva preparato un bellissimo numero speciale dove però si era scritto di
tutto, eccetto che degli incredibili risultati di cento anni di
evangelizzazione: una comunità cristiana vibrante, una Chiesa locale quasi
autosufficiente e soprattutto una Chiesa diventata missionaria.

Noi
siamo profondamente convinti che l’unica ragione della missione è Gesù Cristo e
l’annuncio della Buona Notizia (Vangelo) che è Lui. È Lui che dà la forza ai
missionari di resistere anche nelle situazioni più dure, fino a dare la vita.
Papa Francesco, nonostante possa confondere qualcuno con i suoi gesti di
apertura, dialogo e rispetto per le altre religioni, è molto chiaro in questo.
La sua Evangelii gaudium non lascia dubbi.

Il
problema per noi di MC si presenta di mese in mese quando veniamo alla scelta
concreta degli articoli. Non sempre riusciamo ad avere materiale che ci
permetta un buon bilanciamento dei testi, ce ne rendiamo conto. Corriamo così
il rischio di dare prevalenza ad articoli che potrebbero apparire benissimo in
riviste di socio-politica ed economia internazionale.

Le
assicuriamo comunque che, come è stato detto al Convegno missionario di
Sacrofano (cfr pag. 10), è nostro grande desiderio «Rimettere Cristo al
centro», perché è solo in Lui che, come persone e come cristiani, troviamo le
motivazioni vere per dare la vita per un mondo nuovo, giusto, fraterno, a norma
«divina».

risponde il Direttore