Cari Missionari

Volontariato

Carissimi,
ho appena finito di leggere l’interessante, e in gran parte condivisibile,
esperienza del volontario Alberto Zorloni (MC 8-9/2015 p. 51). Non ho letto il
libro, ma quanto scrive Marco Bello, per me, è più che sufficiente, chiaro e
circostanziato sulla vita di Alberto.

Sono un professore universitario di lingua araba, in
pensione, appena rientrato dalla Guinea (grazie a Dio senza ebola!) completando
così i miei primi 13 anni di volontariato. I primi 5 anni in Medio Oriente,
precisamente la Palestina, dove ho potuto dare sfogo e sfoggio della lingua
locale e ricevere i migliori apprezzamenti e incredulità di fronte alla mia
ottima loquacità. Quindi sono approdato in Africa, passando in vari paesi:
Egitto, Darfour, Sudan, Burundi, Sud Sudan, e ora, per la terza volta, in
Guinea: canto ogni giorno «misericordias Domini in aeteum cantabo». Vi scrivo
per complimentarmi dell’esperienza di Alberto e volevo non solo abbracciarlo
ma, soprattutto, incoraggiarlo a continuare nel testimoniare quei valori di «ieri»
che saranno la sua corona e il suo trofeo, non da parte di qualche Ong, ma dei
bambini, delle persone, dei bisognosi che avrà incontrato. Dico spesso anch’io:
«Gli occhi dei bambini africani mi giudicheranno». La mia attività è stata ed è
nel campo educativo-scolastico e ne vale veramente la pena: ciò che ho e ricevo
è molto di più di quanto cerco di dare. Quindi, bravissimo

Alberto e sempre alla grande: questa è una grande sfida e
dobbiamo fare di tutto per lasciare questo bel mondo un po’ migliore di come
l’abbiamo ricevuto.

Un abbraccio,

Gianni
Foccoli
12/08/2015

Coi soldi dei
poveri?

Caro padre Gigi,

lei non può ricordarsi di me, ma io mi ricordo molto bene
di lei perché l’ho incontrata durante il mio primo viaggio in Kenya nel 1991,
quando lei era missionario a Maralal. Sono tornata laggiù altre volte negli
anni per accompagnare mio marito che aiutava i missionari come falegname e
fabbro. In particolare nel 1998 eravamo a Karaba, dal caro amico padre Alex
Moreschi (1944-2011), quando abbiamo avuto l’onore di conoscere e pranzare con
il vescovo John Njue (allora primo vescovo di Embu) in occasione di una grande
festa della chiesa locale. Oggi però non lo considero più un onore, alla luce
delle notizie da me apprese da fonti sicure: lussuosi palazzi a uso ufficio ed
affitto per le banche, e il progetto di un parcheggio multipiano, il tutto
costruito con le offerte raccolte tra la gente delle parrocchie di Nairobi.

La Chiesa permette ai suoi pastori di ripetere i grandi
errori della sua storia? Almeno nel Medioevo era stata costruita la basilica di
San Pietro con i soldi della povera gente… L’arcivescovo di Nairobi non vede
più gli occhi degli street boys perché forse la sua automobile ha i
vetri oscurati? Vorrei fargli arrivare il messaggio che sono sicura che sono
altre le opere di cui necessitano i suoi fratelli e sorelle kenioti: mi vengono
in mente promozione sociale e umana, tutela dell’infanzia, formazione ad un
mestiere onesto, come ci hanno indicato i miei compaesani padre Allamano e don
Bosco.

Grazie e cordiali saluti,

Caterina
S.
22/07/2015

Gentile
Caterina,
conosco il progetto a cui lei si riferisce: riguarda un’area proprio nel centro
di Nairobi, dietro alla cattedrale. Quando ho lasciato il Kenya a metà del 2009
non era ancora stato realizzato, ma era in discussione ormai da molti anni. Per
questo posso precisare i seguenti punti.

1. Il
progetto, chiamato «Cardinal Otunga plaza»,
è un edificio di nove piani con l’interrato. Sei piani sono di uffici da
affittare, mentre gli ultimi tre sono riservati per le attività della diocesi. È
costato cinque milioni di euro ed è stato inaugurato il 23 agosto 2013. Ma tale
costruzione non è frutto della fantasia del card. Njue. Quando lui è diventato
arcivescovo di Nairobi, nel 2007, il progetto era già in stato molto avanzato,
approvato dall’arcivescovo precedente, dal Consiglio economico e dal Consiglio
presbiterale dell’arcidiocesi e dalle autorità civili competenti.

2.
All’origine del progetto
c’è il desiderio della Chiesa di Nairobi di rendersi indipendente dalle
donazioni fatte dalle Chiese sorelle d’Europa e d’America, e dai sussidi di
Propaganda Fide. Essendo chiaro che le offerte dei fedeli non sono sufficienti
per le spese che una diocesi in continua crescita deve affrontare (seminario,
sacerdoti, uffici, nuove parrocchie – ce ne vorrebbero subito almeno 40 nuove
di zecca: terreno, chiesa e strutture parrocchiali) e che non si può contare in
eterno sulle donazioni dall’estero (in diminuzione, anche per la crisi
economica generalizzata), la Chiesa del Kenya ha lanciato una politica per «contare
sulle proprie forze» (self-reliance) e «auto sostenersi» (self-supporting).

3. Per quanto il progetto sia discutibile, l’idea è
valida, anche se il vecchio giardino dietro alla cattedrale era più romantico.
Una volta pagati i debiti, sarà un investimento sicuro, pulito e duraturo, pur
rimanendo sempre un fattore di rischio: l’uomo. Infatti quando ci sono di mezzo
molti soldi, anche dei buoni cattolici possono essere tentati dalla corruzione.
Forse per questo hanno dedicato la «plaza» (un nome che ben si associa con «affari»)
al card. Otunga (1923-2003) che era invece un uomo molto sobrio e staccato dai
soldi, un santo.

4. Il card.
John Njue rimane
sempre lo stesso: guida personalmente la sua auto, che non ha i vetri oscurati,
ed è sempre molto attento alle necessità dei suoi fedeli, sapendo bene che solo
un milione degli abitanti di Nairobi è benestante o davvero ricco, mentre gli
altri quattro (o più) milioni vivono sotto il livello di povertà.

5. Il
parcheggio multipiano. Non ho
informazioni in merito, ma tenendo conto del traffico ipercongestionato di
Nairobi e della cronica mancanza di parcheggi nel centro storico della città
dove si trova la cattedrale, ritengo che anche questo potrebbe essere un
investimento intelligente. A mio parere la questione dovrebbe essere vista come
un fatto positivo, perché segna un’inversione di tendenza: invece di continuare
a elemosinare aiuti dalle Chiese sorelle, la Chiesa d’Africa sta cominciando a
valorizzare le risorse locali per rispondere ai suoi crescenti bisogni.

Dio cerca l’Uomo

Cari, anzi,
carissimi missionari,
prima di tutto grazie di seguitare a mandarmi la vostra rivista… ho ormai
compiuto 90 anni, ma non ho mai finora trovato stampa che chiamasse pane al
pane e vino al vino senza paure né timidezze, svelando le occulte (ma non
tanto) violenze dei potentati.

Però ogni qual volta finisco di leggere sono impaurita
del potere demoniaco che sta stravolgendo la vita dei terrestri,
sottomettendoli al predominio del potere e dell’avere.

Certo, Cristo, e il suo popolo, cioè il corpo mistico,
seguiteranno a essere perseguitati fino alla fine del mondo. E questo mi
spaventa.

Perché vi scrivo? Sì, sono forse presuntuosa e un po’
sfacciata. Ma voglio dirvi una cosa che mi pare assai importante. L’apertura
agli altri – anche alle altre religioni – mi fu insegnata fin dai 18 anni. Mi
fu insegnato che tutti gli onesti davanti a Dio, appartengono al Logos, sono il
Suo corpo mistico – anche se non lo sanno. Ma mi fu pure insegnato, che non
tutte le religioni sono pari, come sembra indicare un certo sincretismo
religioso che si va diffondendo a macchia d’olio.

Mi fu insegnata una verità senza la quale non so davvero
se avrei potuto appartenere a una Chiesa che, allora, predicava più che altro
un perbenismo molto borghese e ipocrita, chiusa nelle forme esteriori, senza
vita spirituale. La verità è che il Cristianesimo non è una religione, (ma) è
una rivelazione!

Fin da quando Abramo parte da Ur, è Dio che lo muove, e
attraverso i secoli parla per mezzo dei profeti al popolo «di dura cervice»,
sempre disposto all’idolatria, correggendolo e sostenendolo perché «i tempi
sono maturi». Allora Dio si fa addirittura uomo.

È forse questa verità che fa paura alla gente?

Anche sfrondando tutte le sovrastrutture – liturgiche e
filosofiche –, la base è questa. Non è l’uomo che cerca Dio, ma Dio che si
rivela all’uomo. E se Gesù non fosse risorto, dimostrando di non essere un
invasato, e se chi lo ha visto risorto (dichiarando di aver faticato a crederlo
risorto) non avesse preferito morire che negare la verità, saremmo stolti a
esser cristiani.

Dio seguita a cercare l’uomo. Ma l’uomo è assente e
sordo. E specie ora che l’uomo si sente molto «evoluto», fa fatica a credere al
Risorto.

Sbattiamo continuamente in faccia la verità incredibile.Scusatemi, ma mi vedo intorno tanta nebbia. Fate chiaro
voi! A tutti!

Pina
Tiezzi Moscaldi
Asciano (Si), 01/08/2015

Padre Tarcisio

Vi sono grato per aver ricordato il fante, il semplice,
il piccolo grande Tarcisio (Crestani). L’ho incontrato nella missione di Mater
Dei
a Kimbondo, Kinshasa, dieci anni fa. Mi ha dato molte chiavi per
conoscere la Rdc. L’avevo conosciuto a Torino nei primi anni Settanta e poi più
nessuna sua notizia. Quando glielo dissi mi rispose: «Caro mio, sono stato
dimenticato, da 30 anni nessuno mi ha mai cercato, non sono nessuno».

E invece quanto conta essere semplice (la sua camera
aveva solo l’essenziale) per essere in sintonia con le persone che incontri.
Grazie Tarcisio

Maurizio
M.
02/08/2015

Scusate se mi permetto un piccolo ricordo. Padre Tarcisio
lo conoscevo, o meglio l’ho conosciuto, quando avevo tre anni (34 anni fa).
Allora gli ho regalato il fiocco rosa che era stato appeso alla porta della
nostra casa perché era appena nata la mia sorellina. Mi avevano detto che stava
partendo per l’Africa, così poteva portarlo a quei bambini là, che non ce
l’avevano.

Di
lui mi ricordo un enorme barbone nero e crespo, così lungo che mentre mi
spingeva con il triciclo mi faceva il solletico! Forse anche lui si ricorda di me, da lassù, e sorride insieme
a zio Benedetto (Bellesi) di quel lontano episodio.

Alice
Bellesi
18/08/2015

Svenditore di
Cristo

Al signor (o padre) Gigi Anataloni,
sostenitore dei negatori di Cristo (musulmani).

Sono il marito di una vostra lettrice e ho letto con vivo
rincrescimento e sgomento il suo editoriale su Missioni Consolata del
luglio u.s. Rilevo che anche lei fa parte di quei cristiani che sono pronti a
svendere Cristo e il cristianesimo purché si dica di loro che sono a posto e
accoglienti, cioè buoni e considerati tali dalla maggioranza dominante
cattocomunista e massonica.

Vorrei portare alla sua attenzione le parole
dell’apostolo Giovanni nelle sue lettere: «Chi è menzognero se non colui che
nega che Gesù è il Cristo? (musulmani). L’Anticristo è colui che nega il Padre
e il Cristo» (1Gv 2, 22). E ancora: «Se qualcuno viene a voi e non porta questo
insegnamento (di Cristo) non ricevetelo in casa e non salutatelo, poiché chi lo
saluta partecipa alle sue opere perverse» (2Gv 10-11).

Non ho bisogno di aggiungere altro alle sante parole;
soltanto la diffido dal mandare ancora al mio domicilio la sua rivista, né
ricevere alcuna risposta.

Lettera
firmata
07/08/2015

In
quasi quarant’anni di servizio missionario nella stampa me ne sono sentite dire
molte, ma mai di essere uno che svende Cristo. A «cattocomunista» mi ero
abituato, ma questa mi mancava. Comunque non è niente in confronto a quanto si
stanno sentendo dire i vescovi italiani, con mons. Galantino in testa, e
soprattutto a quanto viene vomitato sul nostro amato papa Francesco.

Venezuela Pro e
Contro

Egregio Direttore, ho letto con attenzione gli articoli
dedicati al Venezuela nel numero di agosto-settembre. Sono stupefatto della
superficialità con cui si descrive la Venezuela di oggi, e delle affermazioni
dei due personaggi intervistati. Ma questo è il tipico modo di operare del sig.
Moiola: non dare mai numeri o cifre a supporto di una tesi.

La Venezuela di oggi, e la conosco bene, è un paese con
una democrazia al limite della dittatura, perché il governo ha in mano tutte le
leve del potere e di tutti gli organismi di contrappeso. Il che permette a
Maduro di dire che il sig. Lopez, che è in carcere in attesa di giudizio, è un
assassino e va condannato. Questo è qualcosa di impensabile in qualsiasi paese
democratico. La situazione economica è disastrosa perché gli ammanicati al
potere hanno fatto sparire negli ultimi 15 anni qualcosa come 250 miliardi di
dollari (è un dato ormai accettato da tutti). Il regime attuale in Venezuela
assomiglia molto al fascismo. Il sig. Moiola dovrebbe riportare non solo
interviste di compiacenti al governo, ma anche i dati economici del paese.

Mi dispiace che una rivista del calibro di Missioni
Consolata cada nel racconto della verità.
Distinti Saluti

Alvise
Moschen
04/08/2015

Salve! Conosco e apprezzo il lavoro dei missionari e
delle missionarie della Consolata in vari paesi. Ora ho avuto modo di
apprezzare anche il lavoro della rivista (che comincerò a seguire); grazie ai
servizi di Paolo Moiola sul Venezuela. Danno voce a persone che in Venezuela
vivono, e che presentano un quadro ben diverso da quello offerto dalla
dittatura mediatica internazionale e italiana, la stessa che aiuta guerre
devastanti (in Medioriente e Africa) con la disinformazione. Cordiali saluti

Marinella
Correggia
Torri in Sabina (Ri), 18/08/2015

Due
opinioni opposte sullo stesso articolo, riflesso della difficoltà che si
incontra a voler conoscere la verità e scrivere su situazioni complesse e
polarizzate come quella del Venezuela e di altri paesi.
È un dato di fatto che gran parte dell’informazione che arriva sui nostri
quotidiani o sui nostri notiziari televisivi è controllata da poche agenzie
fortemente interconnesse con gli interessi europei e nordamericani. Pochi
giornali o televisioni possono permettersi oggi di avere propri corrispondenti
in loco.

Noi
non abbiamo la pretesa di fare concorrenza ai grandi network, non è il nostro
scopo. Ma siamo liberi da influenze politiche o economiche, e abbiamo un
vantaggio: la libertà di contattare testimoni sul posto, possibilmente
testimoni fuori dal coro, che non cantino lo stesso spartito di tutti gli
altri. Al lettore la valutazione e il confronto.

Circa il nostro
giornalista, non è vero che sia tipico suo «non dare mai numeri o cifre a
supporto di una tesi». Paolo è un professionista serio e preciso e basta una
rapida scorsa ai suoi articoli pieni di box, cartine e tabelle per avere la
conferma della sua accuratezza, a volte
persino pignola. La stessa professionalità l’ha posta nello scrivere l’articolo
che il sig. Moschen critica, anche se forse, in questo caso, s’intuisce
simpatia e una severità meno accentuata del solito nel porre domande
alle sue fonti.

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risponde il Direttore




Cari Missionari

EXPO 2015: la Carta di
Milano

Con l’avvio di Expo 2015 è stata resa pubblica la Carta
di Milano
. È chiesto alla società civile di aderire. A questo proposito
avanziamo 5 considerazioni:

1 – La Carta di Milano
presenta una lunga lista di suggerimenti. Si tratta di elementi ampiamente
condivisibili sulla necessità di migliorare il modello di produzione e di
consumo, di ridurre radicalmente lo spreco, con impegni da parte di tutti,
società civile e imprese, ma sorge una serie di preoccupazioni soprattutto
rispetto a quello che viene omesso.

2 – In questa lunga lista
di suggerimenti non vengono poste le priorità. I messaggi essenziali non
emergono. Ad esempio la questione della giustizia sociale per un’equa
distribuzione del cibo, enunciata con forza da papa Francesco, non viene mai
avanzata come priorità essenziale e ineludibile (solo con riferimento alla
distribuzione di cibo che altrimenti verrebbe sprecato). Allo stesso modo non
emerge con forza la necessità del cambiamento del modello di sviluppo, delle «strutture
di peccato», che causano da un lato fame e dall’altro sovrabbondanza. Gli
impegni delle imprese vanno nel senso di migliorare la produzione e la
distribuzione ma niente viene detto sul controllo dei mercati, sulla questione
della proprietà intellettuale, sulle sementi, sulle catene del valore.

3 – Non viene
colta la necessità di sostenere la piccola agricoltura familiare quale misura
indispensabile per lottare contro la fame nel sud del mondo. L’impostazione
della Carta risente di un forte approccio occidentale. Manca di una visione
veramente internazionale e di attenzione verso i paesi e i gruppi sociali più
poveri.

4 – Nonostante la lunga lista, non viene dedicata alcuna
attenzione alla questione della speculazione finanziaria e alla necessità di
adottare una tassa sulle transazioni finanziarie così come una regolazione più
stringente sui mercati finanziari. Così come non viene dedicata alcuna
attenzione alla questione delle guerre e dei conflitti, che invece sono le
prime cause di fame nei paesi fragili. Speculazione finanziaria e conflitti
sono peraltro enunciate con forza nella campagna «Cibo per tutti» promossa da
Focsiv, Caritas ed altri 25 soggetti cattolici in Italia.

5 – La rilevanza politica
della Carta è minima, in considerazione del fatto che nel 2015 le vere partite
negoziali si giocano ad Addis Abeba con riferimento alla finanza per lo
sviluppo, a New York con riferimento ai nuovi obiettivi dello sviluppo
sostenibile post 2015, ed a Parigi rispetto al cambiamento climatico. A questo
proposito la Carta di Milano manca di prendere posizione rispetto a questi
eventi.

Per queste considerazioni proponiamo di portare
all’attenzione e proporre questi emendamenti alla Carta, altrimenti non saremo
in grado di potervi aderire.

Assemblea
Focsiv
(www.focsiv.it)
Roma, 23-24/05/2015

Delusione

Spettabile redazione, mi ha dato molta tristezza la
lettura dell’articolo di Luca Bressan sul numero di giugno […].

Mi sembra un’omelia fatta di belle parole. Sinceramente,
dalla vostra rivista che conosco da tanti anni e apprezzo mi sarei aspettato un
articolo «differente». Tanti saluti e buon lavoro.

Daniele
Engaddi
23/06/2015

Il
testo, scritto prima dell’inizio dell’Expo, presenta con ottimismo le ragioni e
le speranze della presenza della Chiesa. Per quanto possibile cercheremo di
offrire un bilancio approfondito e critico a Expo conclusa.

Difficoltà a firmare
il 5×1000

Buongiorno, sono un lettore della rivista e vorrei
segnalarvi un problema nella scelta per le donazioni sul modello 730 di
quest’anno (redditi 2014).

Mi avvalgo da anni dell’assistenza del Caf ma, a
differenza degli anni precedenti, nell’ultima dichiarazione presentata non mi è
stato possibile validare la scelta del 5 e quella dell’8×1000.

Io ho sempre compilato le apposite caselle e firmato
negli spazi dedicati, sulla dichiarazione cartacea da me pre-compilata. Mio
figlio poi (io ho 80 anni e da 10 sono sulla sedia a rotelle causa ictus),
consegnava il tutto e ri-firmava al mio posto sul modello che veniva stampato
al momento al Caf, dopo le necessarie verifiche a cura dell’impiegata, delle
detrazioni/deduzioni per le spese mediche.

Secondo le nuove disposizioni dell’Agenzia delle Entrate
(così mi hanno riferito al Caf), per le scelte in oggetto, avrei dovuto recarmi
a firmare personalmente, altrimenti la mia volontà sarebbe stata disattesa,
come in effetti è avvenuto. Aggiungo che, stante il peggioramento delle mie
condizioni di salute, sono costretto a chiamare l’ambulanza per i miei
spostamenti.

Lo stato, in tal modo, è riuscito scorrettamente a
risparmiare un po’ di soldi, almeno nei casi simili al mio (che non devono
essere pochi). Oppure cosa più semplice, onesta e corretta, oltre alla
scansione di tutti gli scontrini e fatture delle spese mediche, avrebbe potuto
prevedere la scansione del foglio della denuncia dei redditi con le varie
scelte e firme da me effettuate a domicilio relativamente a 5 e 8×1000.

Spero che la mia segnalazione possa consentire alle
organizzazioni Onlus meritorie come la vostra di risolvere il problema, almeno
per il prossimo anno. Vi saluto cordialmente.

Luciano
Zacchero Gambro
Seregno (MB), 09/06/2015

Grazie
della segnalazione. Saremo felici di ospitare altre opinioni o esperienze di
lettori, mentre chiediamo a chi ha competenza in materia un parere su come il
sig. Luciano (e chi come lui) possa risolvere il problema.

Cioccolato, Ferrero e
Olio di Palma

«La coltura dell’olio di palma rispetta ambiente e
popolazione». Questa risposta che la Ferrero ha dato a Ségolène Royal dopo il
suo invito a non mangiare Nutella, non depone a favore della azienda
dolciaria italiana. Non si risponde con le bugie a chi, sia pure in modo goffo
e non troppo simpatico (né la Ferrero né tantomeno la Nutella possono diventare
il capro espiatorio di un problema come quello della deforestazione…), cerca
di invitare l’opinione pubblica a mettere in pratica il titolo di Expo 2015 e
quindi dare anche qualche scossa per stimolare un consumo alimentare più
responsabile, che tenga conto delle esigenze di tutti gli abitanti del pianeta.

I prodotti, alimentari e non, che richiedono
l’impiego di olio di palma sono tanti, e domandarsi se sono davvero così
necessari, entrare nell’ordine di idee di diminuire questa enorme produzione e
questa dipendenza, è fondamentale per la sopravvivenza di tante specie,
compresa quella umana.

La caduta di stile della Ferrero è molto più grave
di quella della Royal: come si fa a sorvolare sul fatto che le piantagioni di
palma da olio, in paesi come l’Indonesia e la Malaysia, hanno sì creato tanti
posti di lavoro, ma tanti ne hanno fatti sparire?

Che intende la Ferrero quando dice «popolazione»? Intende
i dipendenti delle piantagioni di palma da olio (come anche di caffè, di ananas,
di banane, di cacao e del mai abbastanza vituperato tabacco), o anche i popoli
indigeni, le minoranze etniche, linguistiche e religiose, le persone che non
hanno accettato lo stile di vita che i proprietari delle multinazionali
pretendono di imporre a tutti?

Cosa intende la Ferrero quando dice «ambiente»? Intende i
padiglioni dell’Expo, intende gli zoo, intende i giardini in cui sono
immerse le ville e i palazzi dei nababbi d’Oriente e d’Occidente, o intende
anche i parchi nazionali, intende gli oceani, intende gli habitat d’acqua
dolce, intende quel poco di foreste naturali che è riuscito a sopravvivere alle
guerre, ai saccheggi, al cinismo e all’indifferenza?

Chi si è tanto scandalizzato per la presa di posizione
della Royal, provi a confrontare lo status attuale della tigre, del
rinoceronte, dell’orango, della nasica, del gibbone, dell’elefante asiatico,
con quello di cent’anni fa, di cinquant’anni fa o di trent’anni fa, e poi
chieda lui (o lei) scusa per le cose che ha detto e scritto, ma anche
per ciò che ha prodotto e per come lo ha prodotto.

Non discuto la squisitezza della Nutella, del Ferrero
Rocher, del Moncherì e delle uova di cioccolata: è evidente però che chi
racconta certe frottole, assolvendo con formula piena il business della
palma da olio, ovvero contraddicendo una realtà che da decine di anni è sotto
gli occhi di tutti, non fa buona pubblicità ai suoi prodotti.

L’industria della cioccolata non può crescere
all’infinito, i primi a preoccuparsi del futuro dell’albero del Theobroma (minacciato
da parassiti antichi e modei, minacciato dalla drastica riduzione della
diversità biologica) e della qualità, oltre della quantità, dei semi contenuti
all’interno delle spettacolari capsule, sono proprio gli operatori del settore,
sono le grandi firme della gastronomia e dell’arte culinaria, sono gli
industriali, sono i buongustai. Una maggiore attenzione verso le foreste
naturali, a cominciare da quelle dei parchi indonesiani e malesi assediati
dalle piantagioni di palma da olio, procurerà dei vantaggi anche alle industrie
dolciarie italiane. Meglio qualche cioccolata in meno sugli scaffali dei
supermercati e qualche tribù autoctona in più in quei paesi tropicali a
cui dobbiamo tanto.

Colgo l’occasione per augurare una serena e proficua
estate.

Francesco
Rondina
19/06/2015

Non
è mia intenzione fare il difensore d’ufficio della Ferrero, della Nutella e
neppure dell’olio di palma. Le preoccupazioni sollevate dal sig. Francesco sono
condivise da questa rivista.

Ma
come diversi quotidiani hanno riportato dal 19 giugno: «La dottoressa Eva
Alessi, responsabile sostenibilità del Wwf, promuove la Ferrero, che dal 1°
gennaio di quest’anno utilizza esclusivamente olio di palma certificato al 100%
come sostenibile dalla “Tavola Rotonda sull’Olio di Palma Sostenibile” (Roundtable
on Sustainable Palm Oil
– Rspo). “È l’unica certificazione esistente che
assicura che le palme vengano coltivate solo in certe aree, per esempio campi
già destinati all’agricoltura, senza intaccare le foreste, e che l’irrigazione
venga fatta in modo sostenibile e consapevole, senza un utilizzo sconsiderato
di pesticidi. L’Rspo tutela non solo l’habitat naturale e le specie
animali ma anche le comunità locali che spesso vengono sfruttate dalle
multinazionali per la produzione”» (vedi box).

Scritto
questo, il problema resta. Lo denuncia con forza anche papa Francesco nella sua
recentissima «Laudato si’», soprattutto nei paragrafi 32-42, che cominciano così:
«Anche le risorse della terra vengono depredate a causa di modi di intendere
l’economia e l’attività commerciale e produttiva troppo legati al risultato
immediato». Per questo tutti devono cambiare rotta e mentalità: «Prima di tutto
è l’umanità che ha bisogno di cambiare» (n. 202). Tutti.

Pregiudizi sulla Turchia

Gentile redazione,
scrivo a proposito del mio articolo sulla Turchia pubblicato sul numero di
luglio. Non sono d’accordo a chiamare l’Akp partito «islamico». Nel testo non
lo definisco mai così. Al limite può andare bene chiamarlo «islamico moderato»
o «di ispirazione islamica». La parola «islamico» non compare né nello statuto
del partito, e nemmeno nel suo nome. Dato che ci sono già un’infinità di
pregiudizi sulla Turchia, temo che utilizzare questa etichetta non faccia altro
che creare una barriera che ostacola la comprensione delle dinamiche complesse
del paese. Spero si possa farlo sapere ai vostri lettori.

Fazila
Mat
Istanbul, 24/06/2015

Grazie
a Fazila Mat per le sue precisazioni. Pubblicando il suo articolo non era certo
nostra intenzione aumentare i pregiudizi verso il popolo turco, piuttosto
offrire elementi per una comprensione più rispettosa e oggettiva di un grande
paese che da sempre ha giocato un ruolo importante nella storia.

Sud Sudan dimenticato

Gentile direzione, mi permetto di farvi notare che nel
numero ultimo di MC di luglio, a pagina 42, manca il Sud Sudan, nuovo stato
ufficiale africano nato dopo una guerra di oltre 25 anni contro il governo
islamista di Khartoum. Sembra strana questa mancanza quando nella stessa
cartina mettete (giustamente) la nazione del Sahara Occidentale non ancora
(ahimè) riconosciuta ufficialmente dall’Onu. Voglio pensare ad una svista, non
so. Tanti saluti e sempre complimenti del vostro prezioso lavoro.

Alfio
Tassinari
Cervia, 27/06/2015

Vero,
verissimo. Ed è stata proprio una bella svista. Il problema è semplice: nei
repertori di cartine geografiche disponibili per i programmi di grafica, è
presente sì il Sahara Occidentale, registrato dal 1963 nella lista Onu dei
Territori non autonomi, ma non ancora il Sud Sudan la cui indipendenza risale
solo al 2011. Dovremmo saperlo bene, visto che nella mappa pubblicata a centro
rivista a gennaio 2015, ci siamo preoccupati di inserirlo. Spero che i
cittadini del Sud Sudan ci perdonino.

Per
concludere sulle sviste – questo mese ne abbiamo collezionate diverse – anche
uno dei miei confratelli mi ha detto scherzoso: «Sai che ho trovato un errore
in MC?». «Uno solo?», ho risposto. «Mons. Lerma non è portoghese, ma spagnolo!»
(Mc 7/2015, p. 35; in effetti è nato a Murcia, nel Sud della Spagna).

Speriamo
proprio che monsignore abbia fatto una bella risata, come abbiamo fatto noi.

Mal di Pancia

Carissimo padre Gigi,
nel leggere il tuo bellissimo articolo di fondo del luglio 2015 mi si è aperto
il cuore e non posso che congratularmi per la chiarezza dell’esposizione che
hai voluto donarci, una sintesi perfetta come portatore di fede e poi anche
come cittadino attento e sensibile alle situazioni sociali del nostro
incasinatissimo paese dove 67 milioni di italiani hanno tutti la ricetta magica
per occupare cattedre universitarie sullo scibile umano.

Bisogna però dire che anche la Chiesa deve ammettere le
sue colpe. Hanno purtroppo ragione tanti sociologi nel dire che la Chiesa
denuncia solo ciò che è già risaputo e nel tempo rimane solo un monito.

Senza essere considerato retrogrado, ricordo
sommariamente le severe prese di posizione della Chiesa, avute per molto meno,
nei lontani tempi dove chi professava il credo marxista era considerato eretico
e scomunicato; mia moglie spesso mi ricorda che suo nonno iscritto al Psiup non
aveva neanche la benedizione natalizia con grande dolore della nonna matea.

L’annuncio evangelico attualmente mi sconcerta quando
sento e vedo che anche qualche vescovo e tantissimi preti avallano con il loro
comportamento i mal di pancia sostenendo candidature che nella sostanza
portano in sé valori da far tremare il pensiero della madre Chiesa. Leghisti
che di fatto frequentano consigli pastorali e sagrestie di potere.

Ora padre mi chiedo, come si può essere cristiani e
fedelissimi del credo padano, sciupatori di inginocchiatorni e nello stesso tempo
assertori di crudeltà verso i fratelli meno fortunati?
Dobbiamo rassegnarci o pagare a caro prezzo questa nuova morale a fisarmonica?
La morale cristiana, a che livello (di interpretazione) personale vogliamo
spingerla? «Pace e bene fratelli, vogliamoci bene perché la chiesa è matea,
ma la coscienza è nostra e ce la gestiamo noi». Una bella porcata oppure no?

Sarebbe bene che la Chiesa adotti, pur rispettando la
libertà di ogni credente, una soglia o delle regole per un cattolico che vuol
essere tale a costo di rendere il gregge meno numeroso ma più fedele agli
insegnamenti evangelici.

Padre Gigi, questo è il mio mal di pancia che è continuo
e non mi lascia tregua in questi tragici momenti dove l’egoismo impera e
travalica la più bieca impudicizia.

Grazie per aver potuto leggere anche l’amico e fratello
in Cristo Paolo Farinella, prete.

Giovanni
Besana
01/07/2015

Grazie
della condivisione. Un breve commento. Non credo sia necessario che la Chiesa
detti delle «soglie minime di cristianità»: per chiunque voglia essere un po’
serio con la sua fede, c’è materiale più che abbondante a disposizione:  dal Vangelo al «Catechismo della Chiesa
Cattolica» del 1997, dal Concilio Vaticano II alle tante encicliche, non ultima
la «Laudato si’». Bisogna però sperare che questi testi non rimangano nella
libreria di casa (sempre che ci sia), e che non si preferiscano a essi il
gossip televisivo e il vento altalenante dei social.

Risponde il Direttore




Cari Missionari

La Morte
Gent.mo padre,
non so se avrà la pazienza di leggermi fino alla fine e
magari rispondere ai quesiti che Le andrò via via sottoponendo. Mi ha
particolarmente colpito la frase espressa nell’articolo dell’agosto-settembre
2013: «Alle prime ore del 3 luglio 2013 il Signore ha chiamato a sé il nostro
fratello, amico e collaboratore Padre Benedetto Bellesi». Leggo poi sulla
rivista di Ottobre 2013 a pag. 9: «Al nostro fratello, amico e collega
Benedetto Bellesi, chiamato alla Casa del Padre lo scorso 3 luglio». Alla pag.
11 dello stesso mese si afferma che nel luglio c’è stata una sua ricaduta nel
tumore, da cui non si è più ripreso, nonostante i massicci interventi. E a pag.
10 Ugo Pozzoli scrive: «Purtroppo questa carogna di una malattia ti ha portato
via troppo presto».

Padre Bellesi è morto perché il Signore l’ha chiamato
oppure è morto in seguito a un tumore, quella carogna di malattia? È proprio
vero che alla nostra morte è il
Signore che ci chiama a sé? O piuttosto è la natura, che, inclemente, detta
legge? […] Dio chiama a sé l’uomo, dice il catechismo e ce lo ripete la
liturgia. Allora: ci stiamo prendendo in giro! La morte certo non è opera di
Dio, né Egli giornisce che i vivi debbano morire.

Ora vorrei chiederLe: è possibile dire alla madre di una
bambina violentata e poi uccisa, che il Signore l’ha chiamata a sé? Quando
giungono le bare con la bandiera tricolore, i Cardinali se ne guardano bene dal
dire che «è il Signore che li ha chiamati a sé».

Ora che dirò: avevo un ragazzo di 12 anni, vivace,
intelligente, artista, una équipe di medici mascalzoni me lo ha ucciso. Al
pensiero che il Signore me lo abbia chiamato, io, quel Signore, non lo voglio
più. La scorsa settimana sono stato avvicinato da una giovane signora che
faceva proselitismo per una setta evangelica e mi ha quasi convinto a cambiare
religione. Come vede, Padre, a me sorgono molti dubbi, ma non mi preoccupo più
di tanto, perché anche molti Santi ne hanno avuti. «Quando si parla di Dio, si
parla di mistero».

Madre Teresa di Calcutta ha affermato che, più ci
avviciniamo a Dio, più aumenta la distanza. Madre Teresa ha attraversato una
lunga crisi spirituale. Nei suoi diari ha scritto che ha sempre cercato Cristo,
ma non lo ha mai trovato. […]

Ero amico di Padre Alberto Placucci della Consolata,
morto nel 1995. Alla sua morte mi sono chiesto: perché a lui e non a me? Lui
avrebbe fatto più bene di me. Se è vero che è stato il Signore che l’ha
chiamato, il Signore ha perso un valido aiuto. Qual è quel padrone che licenzia
un bravo operaio per tenersene uno scadente? Su diciamo la verità: Dio è per la
vita. La morte viene comandata dalla natura.

Nel caso volesse rispondermi però non concluda con: «Caro
figliolo, bisogna aver fede». La ringrazio in anticipo.

Guido
Dal Toso
Somma Lombardo (Va), 25/6/2014

Caro
sig. Guido,
mi sono permesso di mantenere solo l’essenziale della sua lunga lettera (sì,
per una volta una bella lunga lettera, non un’email). Il problema che lei
solleva è talmente grande che la cosa più saggia da fare sarebbe quella di un
umile silenzio. Provo comunque a condividere con lei quello che sto imparando a
mie spese, anche solo in questi ultimi cinque anni, nei quali ho dovuto vivere
da vicino molte morti oltre a quella dell’amico e collaboratore p. Bellesi: da
quella di un’amica che preparandosi al momento mi ha chiesto di far sì che il
suo funerale fosse una festa, ai nove funerali celebrati (o più spesso «assistiti»)
in parrocchia durante lo scorso agosto; dalla morte di una mia sorella più
giovane di me seguita, pochi mesi dopo, da quella di un mio pronipote, vissuto
solo 22 giorni e che ho battezzato il giorno stesso del mio ritorno dal Kenya,
a quella di altri parenti stretti. Dall’uccisione di p. Giuseppe Bertaina al
vedere la morte in faccia quando sulla collina di Mekinduri un infarto mi ha
messo ko.

In
ognuno dei casi si sa benissimo cosa ha causato la morte: tumore, leucemia, età,
violenza, incidente, malattia… La natura ha fatto il suo corso, «inclemente»! È
un dato di fatto inconfutabile. In alcuni casi c’è stato il plauso per la
natura che ha fatto il suo corso, mettendo fine a una lunga vita ben vissuta.
In altri si è accettato in pace che la morte abbia messo fine a lunghe
sofferenze. Altre volte ci si è ribellati perché la morte è stata ingiusta,
improvvisa, impietosa, violenta.

Se
è stato facile celebrare con serenità la morte di uno di 99 anni, meno facile è
stato accompagnare un bimbo di 22 giorni. Se poi si pensa a fatti come quelli
che lei racconta, diventa ancor più difficile farsene una ragione. Eppure,
quando la mia amica Anna mi ha chiesto una «festa e non un mortorio» al suo
funerale, è stato perché aveva capito il segreto della morte, la risposta alla
domanda che tutti tormenta: perché?

Molto
mi aveva fatto capire mia madre, che ha avuto solo 70 giorni di tempo dalla
diagnosi alla morte. Abbiamo passato l’ultimo mese insieme, una grazia grande,
nella consapevolezza che non c’era più cura per lei. Ed è stata lei che ha
preparato noi, suoi figli e figlie, non alla sua morte ma al passaggio, alla
nascita, all’incontro faccia a faccia con Dio e con tutte le persone amate che
l’avevano preceduta, mio padre per primo, oltre quella soglia che apre alla
Vita. Aveva 66 anni, compiuti da neppure un mese. Ovviamente è stato duro, ma
ci siamo detti «arrivederci, a Dio».

La
morte è l’evento più giusto di tutti, perché non fa distinzioni: tutti si
muore. Ci sono culture nel mondo che hanno imparato ad accettare la morte per
quel che è: un fatto naturale fuori del nostro controllo. Noi invece,
inorgogliti dai nostri successi tecnologici, attaccati alla nostra logica
economica del dare e avere, siamo passati dall’accettazione al rifiuto,
soprattutto se «il come e il quando» della morte non rientrano nei nostri
canoni e puzzano d’ingiustizia e diseguaglianza: perché alcuni «muoiono» e
altri invece «sono uccisi»? Un articolo lo chiedeva a proposito di Israeliani e
Palestinesi durante la tremenda crisi di Gaza; noi ce lo chiediamo per chi
muore di morte naturale e per chi invece è vittima di malattie, incidenti,
violenza.

La
morte è un fatto naturale e Dio non va mai contro le leggi della natura che lui
ha fatto. Davvero inutile arrabbiarsi con Lui.

Perché
allora diciamo «Dio chiama»? Chiaramente questo è un linguaggio simbolico
comprensibile per chi ha fede. Nella fede l’evento naturale della morte diventa
segno della chiamata di Dio. I detti e le parabole di Gesù sono pieni di questi
simbolismi. Ma non solo. è solo
Gesù, il figlio di Dio costretto a un’orribile e ingiusta fine, che ci ha fatto
capire come la morte non significhi «fine», ma «inizio, nascita». Quella che
noi viviamo qui non è tutta la vita, è solo la preparazione, quasi una
gestazione alla Vita. Non siamo fatti per finire e consumarci in questo tempo e
in questo spazio, il nostro io più profondo chiama l’infinito. Siamo fatti per «diventare
dei»! Il nostro Dna vero è quello di essere «immagine/icona» di Dio, non
polvere che sparisce nel nulla.

Allora,
se quella dopo il trapasso è davvero la Vita, non abbiamo ragioni per temere la
morte. S. Paolo scriveva che per lui «vivere è Cristo e morire (è) un guadagno»
(Fil 1,21) e soltanto l’amore per «coloro che aveva generato» alla fede con
tanta fatica gli rendeva sopportabile l’idea di dover ancora attendere prima di
riuscire a conquistare Colui che si era impadronito di lui (cfr. Fil 3,12)
sulla strada di Damasco. «Per Paolo come per ciascuno di noi la vita si può
vivere solo dove vive Colui di cui si è innamorati. Per i cristiani,
sull’esempio di San Paolo desiderare la morte non solo è lecito, ma anche segno
di maturità nella fede, dal momento che la morte è l’ingresso nella visione di
Dio faccia a faccia. Se i cristiani fossero coerenti dovrebbero correre verso
la morte, che dopo la risurrezione di Gesù, ha perso il suo pungiglione di
paura e di terrore (cfr. 1Cor 15,55-56) per diventare quello che dovrebbe
essere: la pienezza della vita» (P. Farinella).

Ebola

Caro don Gigi,
vorrei condividere con lei, sempre così attento a tutto ciò che succede nel Sud
del mondo, un problema che mi angustia: il dramma dell’ebola e le conseguenze
che potrebbero arrivare anche a noi, attraverso le migrazioni, purtroppo
inarrestabili, o, almeno, inarrestabili sino a quando non si interviene in
qualche modo nei luoghi di partenza. Ora, io seguo da sempre il dramma di
quelle popolazioni, anche con un coinvolgimento indiretto (sono operatrice del
Commercio Equo e Solidale e socia dell’Accri, ong di cooperazione
internazionale: tanto per farle capire come tutto questo sia per me motivo di «sofferenza»
e non di «insofferenza»). In breve, mi sembra più che giusto, soprattutto come
cristiana impegnata, condividere i problemi dei popoli impoveriti, ma
condividere anche l’ebola, va al di là della mia capacità di accoglienza:
eppure temo che presto o tardi con questo dramma dovremo confrontarci: e
allora? Già la tubercolosi, da tempo debellata, è tornata a preoccupare le
strutture sanitarie, assieme ad altre malattie frutto della promiscuità,
dell’assenza di precauzioni igienicosanitarie, e così via: lei che ne pensa? So
bene che tante malattie sin dall’inizio del periodo coloniale le abbiamo
portate noi, giungendo sino a sterminare gran parte, ad esempio, delle
popolazioni indigene del continente americano, ma non mi sembra una ragione sufficiente… Aspetto con ansia una
sua risposta, e cordialmente la saluto, congratulandomi ancora per la validità
della vostra-nostra rivista.

Silva Duda
Trieste, 25/6/2014

Con
Silva ci siamo già scambiati delle email a proposito dell’ebola. È grazie al
suo stimolo che in questo numero trovate un breve dossier sul quale i nostri
redattori hanno lavorato sodo. L’ebola è una malattia che fa paura perché sfida
la nostra illusione di onnipotenza e ci fa sentire fragili. Eppure c’è chi ci
specula sopra, pregustando i possibili lauti guadagni. È nel 1976 che i primi
280 morti in Congo RD hanno fatto notizia. Come è possibile che oggi ci si
trovi così impreparati? È forse perché non era ancora un affare abbastanza
remunerativo? E tutto quel diffondere notizie allarmanti, è davvero segno di
interesse per i malati o è un altro modo per far pressione e trasformare il
tutto in un grande business?

Quel
che è triste è costatare che ci sono due aree che permettono a chi è senza
scrupoli di fare soldi a palate sulla pelle degli altri: le guerre e le
malattie. E guarda caso, in questo nostro mondo non più controllato dalla
politica ma da una finanza senza freni, le guerre prosperano più che mai
muovendo fiumi di denaro.

Per
restare alla sua domanda sul «condividere l’ebola» come espiazione dei contagi
che un tempo noi abbiamo portato ai popoli indigeni dell’America e dell’Africa,
certamente non credo che sia il caso. Gli errori del passato non si compensano
certo con errori del presente. In più, tutte le statistiche a riguardo (vedi la
ricerca
Istat del 12 febbraio 2014, Cittadini stranieri: condizioni di salute,
fattori di rischio, ricorso alle cure e accessibilità dei servizi sanitari
)
dicono che la stragrande maggioranza degli stranieri che arrivano da noi sono «persone
in buona salute, che devono affrontare un viaggio lungo e pericoloso, che
portano come capitale da investire nel paese in cui emigrano il proprio corpo
sano. Il migrante si ammala nel paese in cui arriva come ospite a causa delle
insalubri condizioni di vita in cui spesso è costretto a inserirsi (scarsa
alimentazione, ambienti sovraffollati, lavoro faticoso e spesso senza
protezione)».

Secondo
il parere dei medici del Comitato di Collaborazione medica di Torino (Ccm), da
noi consultati, «sulla base (dei dati a disposizione) e di quanto evidenziato
in merito al concetto di “migrante sano”, è veramente improbabile che possano
insorgere epidemie, nel nostro paese, determinate da patologie d’importazione,
se non in focolai circoscritti e di scarsa rilevanza epidemiologica, come nel
caso della Chikungunya (malattia febbrile acuta virale, epidemica, trasmessa
dalla puntura di zanzare infette – it.wikipedia.org) nel Ravennate nel
2007».

Quanto
al ritorno di malattie da noi considerate debellate, come la tubercolosi, credo
che esso coinvolga più fattori: dalla sempre maggior resistenza degli agenti
patogeni agli antibiotici spesso usati troppo disinvoltamente, ai sempre
maggiori contatti globali, non solo per i flussi migratori ma anche per la
crescita esponenziale del turismo internazionale; dall’allentamento della
guardia delle nostre strutture sanitarie, alla scarsa conoscenza di queste
malattie.

Sfortunatamente
tutto questo rischia di finire per ritorcersi contro i più deboli, proprio i
migranti, visto che non manca chi è pronto a cavalcare la disinformazione per
sostenere le proprie agende xenofobe.

Il gas del Mozambico
Cari amici di MC,
ho letto su Il Sole 24 Ore del 20/7/2014 che
l’Eni avrebbe fatto la «più grande scoperta di gas della sua storia» in
Mozambico. Si tratta di 2,4 miliardi di metri cubi che consentirebbero di
soddisfare il bisogno degli italiani per 30 anni». Premesso che anch’io consumo
gas e che cerco di utilizzarlo il meno possibile per non sprecarlo (e pagarlo),
mi piacerebbe sapere per favore da voi delle Missioni della Consolata quanto di
quel gas rimarrebbe a disposizione dei poverissimi abitanti del Mozambico. Lo
sfrutteremmo tutto noi? Quale sarebbe il vantaggio per il paese africano? Che
cosa cioè guadagnerebbe dall’operazione in una parola? Ed è morale e giusto che
Mauro Moretti, attuale A.d. dell’ENI, guadagni quel che guadagna? Non è
l’Italia in condizioni disastrose? E il Mozambico come sta? Grazie.

Piergiorgio S.
20/7/2014

L’assalto
alle materie prime africane è vecchio di secoli: Romani, Egiziani, Arabi,
Indiani e perfino Cinesi hanno depredato l’Africa per secoli, se non millenni.
Poi è scoppiato il colonialismo, e dopo il colonialismo la dipendenza
economica, l’indebitamento cronico e l’instabilità politica, e poi sono tornati
i Cinesi affamati di energia e materie prime, e le crisi mediorientali che
hanno reso appetibili grandi riserve di petrolio e gas prima troppo costose. Da
sempre il nostro paese ha cercato, proprio con l’Eni, di restare indipendente
dal monopolio delle «sette sorelle» (le più grandi compagnie petrolifere
inteazionali) creando la sua rete di sicurezza per un paese come il nostro
sempre più affamato di energia. Non stupisce allora, lo dico con tristezza, che
in questa durissima competizione per le risorse, anche l’Eni si sia adeguata ai
metodi dei suoi competitori. I Cinesi prendono tutto chiudendo gli occhi su
giustizia e diritti umani e facendo lavorare i loro carcerati; i Francesi e gli
Inglesi si tengono bene legate le loro ex colonie, le multinazionali non
guardano in faccia nessuno e l’Eni paga tangenti esorbitanti che approfittano
della corruzione e l’alimentano (vedi Nigeria per fare un esempio).

Quello
che l’Eni fà rientra perfettamente nella logica economica di oggi, che è senza
scrupoli, anche se qualche volta ammantata di verde ma non certo del rosso
dell’amore e della giustizia. Questo vale per l’Eni, e si può dire delle
multinazionali del cibo, dei fiori, delle comunicazioni. L’Africa non è solo
una grande riserva di materie prime, è anche un grande bacino di manodopera a
basso costo (schiavi) per alimentare il nostro benessere e la ricchezza
ingiusta di pochi.

Non
entro in merito ai compensi di Mauro Moretti o di quelli come lui. È fin troppo
facile dire che certi stipendi sono fuori di testa e ingiusti. Anche se uno è
un dirigente, che diritto ha di prendere 10, 20, 100 volte di più di un suo
dipendente del Nord del mondo e magari anche 1000 o 2000 volte in più di uno
del Sud del mondo?

Quanto
al Mozambico (o ai vari Mozambico del mondo): se da noi va male, da loro
va certamente peggio, anche se il Fondo Monetario Internazionale dice che il
Pil delle nazioni africane è in crescita. Per l’Onu il Mozambico è 183° su 187
nella scala dello sviluppo, ma sembra andare controcorrente: da 20 anni gode di
una crescita annua del 6% e in questi ultimi anni sta sperimentando una
migrazione inversa con l’arrivo di europei alla ricerca di una vita nuova e
fortuna. In realtà chi ci guadagna è una piccola minoranza straricca, mentre i
poveri diventano sempre più poveri. La sfida cade allora sulle élite locali che
sono a un bivio: amministrare la nuova ricchezza per il proprio tornaconto o
per il vero sviluppo del proprio paese e la creazione di servizi per uscire
dalla spirale di povertà.
Certo, le storie delle bustarelle, non sono proprio incoraggianti.

Risponde il Direttore




Cari Missionari

Bahá’í
Reverendo Padre,

ho letto con piacere sulla vostra rivista di novembre
l’articolo sulla Fede Bahá’í. Vorrei congratularmi con lei e con l’autore del
documento Vittorio Stabile per l’accuratezza dell’articolo, anche nei minimi
particolari. Attendo il prossimo numero sulle persecuzioni dei Bahá’í.

Come saprà, proprio a Torino nel lontano 1880 (esattamente
il 5 e 12 dicembre), il noto naturalista e letterato piemontese Prof. Michele
Lessona tenne due conferenze sulla Fede Bahá’í. Il testo della sua relazione di
66 pagine fu pubblicato dall’editore Ermanno Loescher. Era la prima volta che
gli italiani venivano a conoscenza della Fede Bahá’í.

Ora a distanza di 134 anni, la vostra rivista aiuterà molti
altri a comprendere che la base di tutte le religioni è amore e che tutti i
profeti di Dio proclamano la medesima fede. Cordialmente,

Feri Mazlum
Locao, Svizzera, 16/11/2014

Le mani sul Mozambico

Per nessun paese il Prodotto Inteo Lordo (Pil) è un buon
indicatore del livello di benessere e il Mozambico non fa eccezione. I calcoli
alla base della determinazione del Pil hanno un valore scientifico prossimo
allo zero e nulla hanno a che vedere con le regole dell’aritmetica.

Se i Mozambicani vogliono davvero progredire, lascino da
parte la determinazione del Pil e pensino a conservare i loro tesori
naturali che si chiamano acqua, suolo agricolo, foreste, oceano…

Assieme a Malawi e Tanzania trovino il modo per tutelare
efficacemente il Lago Niassa (o Malawi) che, con i suoi 31mila chilometri
quadrati di superficie e 8400 chilometri cubi di volume, è una delle maggiori
riserve d’acqua dolce del pianeta e, con le sue oltre 500 specie endemiche di
pesci, è uno dei templi mondiali della biodiversità. Pensino a mettere in
sicurezza la Foresta del Monte Mabu che la scienza ufficiale ha scoperto,
grazie ai satelliti, solo alla fine del 2008, ma che rischia di essere
distrutta ancor prima che gli studiosi riescano a compiere delle ricerche degne
di questo nome. Pensino a valorizzare convenientemente il Parco Nazionale di
Bazzaruto e gli ecosistemi marini, il cui valore è infinitamente superiore a
quello di tutti i giacimenti di gas e petrolio presenti in Africa e nel resto
del mondo.

Quanto all’Italia e all’Eni, dopo la lettura dell’articolo
di Chiara Giovetti (MC n.10 p.29), prendo atto ancora una volta della
disinvoltura con cui il nostro paese continua a investire decine di miliardi di
euro per sfruttare le fonti di energia non rinnovabile a fronte delle cifre
irrisorie destinate a quelle rinnovabili.

Credo che ciò accada anche perché una gran parte degli
Italiani non è consapevole degli abusi e delle devastazioni che le compagnie
energetiche perpetrano nei paesi del Sud del mondo dietro il paravento dello
sviluppo, del progresso, del rilancio economico e occupazionale, della
crescita del Pil.

Gli autori anglosassoni, quelli dotati di un minimo di
sensibilità ecologica, lo chiamano «encroachment» (entrare nella proprietà
altrui senza diritti o senza permessi), in italiano una traduzione abbastanza
fedele di questo termine potrebbe essere «usurpazione».

Cari Missionari Italiani che siete in Mozambico e paesi
limitrofi per servire Dio e il prossimo, state attenti a non farVi
infinocchiare da quei nostri connazionali che arrivano in Africa soltanto per
servire la dea Europa e il dio Denaro…Cordiali saluti,

Mario Pace
Email, 30/10/2014

L’orrore di Beslan
Gentilissima Redazione,

vi leggo con attenzione da tanti anni e vi rinnovo la mia
stima, spesso la rivista è uno strumento che uso a casa o a scuola per far
avvicinare figli ed allievi a tante realtà mondiali che conosciamo poco o,
spesso, male.

Però ho fatto un balzo sulla sedia leggendo a pag. 58 del
n.11 (novembre 2014), nel trafiletto sulle guerre cecene: «2004, un gruppo di
ribelli caucasici tra cui separatisti ceceni “occupano” la scuola di Beslan». Occupano?
Ma la sapete la differenza tra occupare una scuola (termine che tra l’altro dà
l’idea di un’allegra sarabanda studentesca) e tenere in ostaggio una scuola (e
soprattutto le persone che sono lì)? Perché di questo si è trattato, non certo
di sostituirsi al normale svolgimento delle lezioni! Ho dovuto spiegare a mia
figlia tredicenne, che stava leggendo l’articolo e nulla ancora sapeva di
quell’evento atroce, che non si era affatto trattata di un’occupazione, ma di
una carneficina pianificata, e ahimè poi avvenuta; lei stessa si è detta
sconcertata dall’uso del termine, che era del tutto fuorviante.

Grazie per l’ascolto. Beslan è stato un tale orrore, che non
chiamare quel piano micidiale con il suo vero nome mi sembra un’ulteriore
offesa alle vittime.

Charlotte, mamma
Email, 11/11/2014

Gentile signora Charlotte,
concordo con Lei che «prendere in ostaggio» è un termine più appropriato e non
porta con sé le ambiguità del termine «occupare», ambiguità che non era nelle
mie intenzioni creare e che è stata causata anche dal numero ferreo di battute
in cui siamo costretti in questi box. La tragedia accaduta nella scuola di
Beslan è stato un crimine contro l’umanità.

Roberta Bertoldi
(Osservatorio Balcani e Caucaso)

Una voce in meno

Caro Padre,
ho letto l’editoriale «Una voce in meno» e mi unisco al dispiacere per la
chiusura della rivista «Popoli». Sono stata un’abbonata fino a qualche anno fa
e poi ho dovuto sospendere l’abbonamento per motivi economici e non per il
valore del contenuto. Che cosa dire? L’impegno per collaborare, tenere attivo,
vivere lo Spirito di Cristo non può venir meno perché verrebbe meno anche
l’uomo, ma il tempo presente è un tempo che impone delle riflessioni e dei
cambiamenti, che non sono motivati solo dalle ridotte risorse economiche. Sono
coinvolte l’dea di uomo e della sua pienezza, della cosa pubblica e della sua
funzione, dell’educazione e dei suoi obiettivi, della società e della sua amministrazione,
del lavoro e delle sue garanzie, della religione e delle sue forme, in ultima
analisi è in gioco l’idea della «ragione» e del suo significato. Auguro a
«Missioni Consolata» di continuare a contribuire a tali riflessioni e ad
approfondire il compito della «missione» che non può non esserci ma che deve
svincolarsi, a mio parere, da alcuni tradizionali connotati che potrebbero
indurre degli equivoci rispetto alla sua nobile funzione. Ringrazio e saluto
con tanta cordialità!

Milva Capoia
Collegno, 07/11/2014

Caro Direttore,

nel tuo editoriale di novembre racconti di esserti commosso
dopo avere appreso la notizia della chiusura di «Popoli». Sappi che io mi sono
commosso a mia volta nel leggere il tuo articolo, così ricco di solidarietà e
di stima. E anche da altri colleghi di «Missioni Consolata» mi sono arrivate
testimonianze di affetto. Ringrazio tutti voi, augurandovi ovviamente migliore
fortuna…

Quanto ai contenuti del tuo editoriale, hai certamente
centrato una questione cruciale: la crisi dell’editoria missionaria non è in
fondo specchio della crisi della stessa missione, almeno in Italia? Devo
aggiungere, però, che il caso di «Popoli» è in parte diverso e sui generis: da
tempo la rivista aveva scelto di togliersi l’etichetta di rivista missionaria
in senso stretto, provando a raccontare – naturalmente con un’ispirazione
cristiana di fondo ben riconoscibile – le questioni inteazionali con lo stile
e il linguaggio dei media laici. Questo per provare a far uscire l’informazione
su certi temi dal ghetto in cui, non sempre per scelta loro, spesso finiscono
le riviste missionarie.

In questo senso, le migliaia di giovani nuovi abbonati
conquistati in questi anni e le decine e decine di lettere arrivate in
redazione alla notizia della chiusura, ci confortano e dicono che la strada
forse non era sbagliata. Il problema è che per far sì che questo tipo di
operazione stia in piedi, e dunque stia a tutti gli effetti «sul mercato», come
dicono gli economisti, occorre che l’editore possa e voglia investire anche
nella promozione e nel marketing, cosa che nel caso di «Popoli» non è stata
fatta.

Infine una precisazione: «Popoli» non chiude perché
«strozzata dai debiti», come hai scritto. Il deficit della rivista certamente
non era piccolo, ma veniva regolarmente ripianato con altre entrate su cui può
contare l’editore della rivista, ovvero la Fondazione Culturale San Fedele di
Milano, di proprietà dei Gesuiti: in questi anni la Fondazione non si è
indebitata per un solo euro per sostenere «Popoli». Semplicemente è stato
deciso di usare diversamente tali risorse, privilegiando altre priorità.

So bene che hai scritto queste cose solo motivato da affetto
e ti ringrazio nuovamente, ma mi sembra doveroso fare arrivare questa
precisazione ai lettori per rispetto verso il lavoro mio e dei miei colleghi e
verso l’editore di «Popoli».Un abbraccio

Stefano Femminis
Direttore di «Popoli»
Email, 24/11/2014

Grazie della precisazione, che certo non addolcisce quanto è avvenuto.

Quanto all’etichetta di rivista missionaria, sai bene che dal dopo
Concilio abbiamo tutti noi fatto un grande cammino per scrollarci di dosso gli
stereotipi che ostinatamente rimangono legati a una antiquata concezione di
missione. Quanti missionari hanno pagato con la vita e a volte col sangue per
una missione nuova fatta di giustizia e pace, dialogo e rispetto, accoglienza e
incontro, e cura e difesa del creato. Una nuova visione di Chiesa popolo di
Dio, tutta missionaria perché testimone e serva dell’amore di Dio per gli
uomini, una Chiesa non clericale, una comunità di comunità, lievito e fermento
di vita e di bene nella famiglia umana. Sulle pagine delle nostre riviste, nei
nostri siti, abbiamo speso fiumi di parole per questo. Ma gli stereotipi sono
duri a morire, soprattutto quando superarli richiederebbe un profondo cambio di
mentalità, e non solo nella Chiesa. I retaggi di colonialismo, razzismo,
patealismo e superiorità culturale sono duri a morire in tutti.

Noi viviamo in una società in cui si pensa di risolvere i problemi
cambiando le parole senza modificare i contenuti e il modo di pensare. Mi sento
di dire che noi missionari, circa la Missione, non abbiamo fatto un semplice
lavoro di cosmesi o metamorfosi linguistica, ma l’abbiamo davvero liberata
dalle incrostazioni e dall’usura del tempo facendola diventare una parola
«potente», capace di rivoluzionare il mondo sullo stile di Gesù.

Forse dovremmo cambiare le testate delle nostre pubblicazioni, salvando
la sostanza. Anch’io mi sento ferito quando qualcuno, senza conoscerci, rifiuta
la nostra rivista perché, vedendo la parola «missioni», pensa a soldi e
beneficenza patealista che crea dipendenza.

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Risponde il Direttore




Cari Missionari

Troppi
obiettori, anzi, troppo pochi!

L’8 marzo 2014, per dare il suo contributo alla
celebrazione della Festa della Donna, il Consiglio d’Europa non ha trovato
niente di meglio da fare che redarguire l’Italia per l’eccesso di
tolleranza verso i medici antiabortisti: «A causa dell’elevato e crescente
numero di medici obbiettori di coscienza, l’Italia viola i diritti delle donne
che alle condizioni prescritte dalla legge 194 del 1978 intendono interrompere
la gravidanza…».

Esattamente un mese dopo, nella vostra Torino, città che
anche io amo molto – come si può non amare la città della Consolata, la città
della Sindone, la città di San Giovanni Bosco, la prima capitale dell’Italia
unita? – è accaduta una cosa molto grave: all’Ospedale Martini si sono
registrate le prime due vittime italiane dell’aborto chimico, Anna Maria e la
creatura che portava in grembo sono morte dopo il trattamento con la odiosa
mistura prostaglandina + RU 486 (dove RU sta per Russel Uclaf, industria del
gruppo Hoecht, la grande multinazionale che negli anni della II Guerra Mondiale
produceva i gas nervini per la Germania nazista, gas che  vennero
usati nei campi di concentramento per uccidere milioni di innocenti).

Ebbene, se per il Consiglio d’Europa i medici e i
farmacisti italiani obbiettori sono troppi, per me sono troppo pochi: se ce ne
fosse stato qualcuno in più, quasi certamente una giovane mamma sarebbe
ancora viva e all’ombra della Mole ci sarebbero un bambino in più e un orfano in meno.

Voglio esprimere un auspicio: i membri del nuovo
Parlamento Europeo e della nuova Commissione Europea rivedano da cima a fondo la scala dei valori alla quale si sono
ispirati i loro predecessori e facciano sentire la loro voce nel Consiglio
d’Europa. La vita umana deve tornare a occupare un posto molto alto in questa
scala; quanto alle libertà individuali, quella da mettere sotto accusa non è la
libertà di obiezione di coscienza, ma quella che eleva l’interruzione di
gravidanza al rango di diritti, e un pesticida antiumano – così lo definiva
anche il grande medico e genetista Jerome Lejeune – al rango di farmaco.
Cordiali saluti

Luciano Montenigri
Fano, 20/05/2014

L’eterno riposo

Trovo molto interessanti, in questa rubrica, gli scambi
tra i lettori assolutamente digiuni di teologia e la redazione, come, sul
numero di Aprile, circa la simbologia del crocefisso. Provo anche io a die
una: come mai la nostra preghiera per i defunti parla di eterno riposo,
che dà l’idea di una noia pazzesca, e non di eterna gioia del paradiso? O forse
per i normali defunti è previsto il riposo fino alla resurrezione dei morti,
mentre intanto la gioia del paradiso è riservata solo ai santi?

Non è che non parli dell’eterna gioia perché nel periodo
dell’affermazione del cristianesimo, tra crisi dell’impero romano e alto
medioevo, la popolazione era scarsissima, i contadini facevano una vita
impossibile, e bisognava scoraggiare la tendenza al suicidio con le più feroci
maledizioni perché senza contadini non mangiavano i cavalieri e neanche preti e
frati?

Claudio Bellavita
21/05/2014

Purtroppo
la parola riposo è inflazionata e ha perso la potenza del suo
significato originale. Il termine riposo della famosa preghiera non è
scelto a caso. Ha le sue radici nella Bibbia e non è certo un’invenzione
medioevale, come lei suggerisce, anche se nel Medioevo l’obbligo del riposo
domenicale e delle feste liturgiche è stato, di fatto, uno strumento di difesa
dei poveri contro le vessazioni dei signori. Quanto ai monaci, essendo in
molti, erano bene in grado di provvedere a se stessi, anche fin troppo bene,
visto che alcuni monasteri e conventi divennero così ricchi da causare la
propria rovina.

Nella Bibbia il primo significato della parola che indica riposo è sedersi per
riposare
, come il cammello che si accovaccia. Ben presto però la parola
assume anche un significato religioso per indicare il posarsi dello spirito
di Dio sull’uomo e sulle cose
. Poi si arriva a un significato più profondo:
concedere il riposo, che è il dono di Dio al suo popolo attraverso il
possesso della Terra Promessa e la vittoria sui nemici. Il vero riposo, allora,
è il risultato della realizzazione della promessa di Dio a Israele e si
attua nel paese nel quale abiterà in pace, senza paure e affanni, «ognuno sotto
la propria vite e sotto il proprio fico» (1 Re 5,4s).

Il riposo è
collegato in modo particolare al settimo giorno, il sabato
(etimologicamente «cessazione dal lavoro»), e nell’Antico Testamento assume tre significati:

Gen 2, 2 e Es 20, 8-11:
è il ricordo del completamento
della creazione
; il riposo di Dio, a conclusione della creazione del mondo,
è il paradigma del riposo dell’uomo. È il giornioso compiacimento nel contemplare
un lavoro ben fatto che dà soddisfazione e pace. È un atto col quale si
riconosce che il mondo, la creazione appartiene a Dio.

Dt 5,12-15:
è risultato della liberazione dalla schiavitù che Dio ha donato al suo
popolo. È frutto della salvezza operata da Dio. Riposare è un’azione da uomini
liberi, è una prerogativa di libertà. Israele, non più schiavo in Egitto, è un
popolo libero nella terra della promessa dove gode il riposo che è felicità,
libertà, pace e sicurezza. Riposare è allora un atto di riconoscenza per
l’azione liberatrice di Dio.

Es 31,12-17:
è il frutto e la celebrazione dell’Alleanza, quel rapporto privilegiato che
c’è tra Dio e il suo popolo
. Riposare diventa atto di comunione con Dio e
partecipazione alla sua vita, di consacrazione e di appartenenza a Lui solo.

Nel Nuovo Testamento
il tema del riposo è presentato con forza nei capitoli 3 e 4 della lettera agli
Ebrei, dove si dice che solo per fede si entra nel riposo di Dio. Lì il
riposo vero è la partecipazione alla vita stessa di Dio
di cui la Terra
Promessa era solo un’anticipazione provvisoria e incompleta. Ma il riposo si
capisce appieno solo con Mt 11, 28ss in cui Gesù dice che solo andando da lui
troveremo il «riposo della nostra vita». Il vero riposo è Gesù stesso, è
lo stare con lui, dove lui è. Questo è un riposo ben diverso da quello del
ricco della parabola di Lc 12, 16-21 che invece di trovare la felicità
nell’amore per Dio e per gli altri è diventato prigioniero delle sue cose.

Questi sono pochi spunti che ci dicono come
quando usiamo la parola «riposo» non intendiamo certo la noia, vuota e triste,
di chi non ha niente da fare e neppure la terapia per chi è malato o stressato.
È invece lo stato di totale felicità e gioia di chi ha raggiunto la piena
libertà e realizzato la propria dignità di figlio e figlia di Dio nella «casa
del Padre» che Gesù ha spalancato per noi.

Coscienza e
salvezza

Caro Padre,
questo è quanto mi ha scritto mia nipote
Debora dopo aver letto la tua riposta sulla rivista di
aprile (MC 4/2014, pag. 6).

«Grazie di aver inoltrato le mie domande alla rivista, è
stato molto interessante leggere la risposta degli esperti in materia. Mi sono
proprio piaciute perché è la stessa identica cosa che ho sempre pensato io, cioè,
riassumendo in due parole, che chi nasce non cristiano non può essere
condannato solo per questo, ma sarà valutato da come si è comportato secondo la
sua cultura, e che nessuno ci assicura che la Bibbia sia un testo al 100% vero,
ci si può soltanto «fidare».

[…] Ho però qualche riserva sul fatto che “ognuno è
chiamato a vivere una vita retta in base alla sua cultura e alla sua coscienza,
su questo sarà valutato e non su quello che non conosce”. Frase vera, ma
pericolosa! Per due motivi: il primo è che la coscienza è influenzata sin dalla
nascita dall’ambiente che ci circonda. […] La coscienza è creata,
passami il termine, dall’ambiente socio-culturale in cui viviamo. Il secondo
motivo è che ci sono tante culture a questo mondo e molto diverse tra loro,
alcune indubbiamente ancora piuttosto barbare, perlomeno ai nostri occhi
occidentali. Non parlo di indigeni isolati nella foresta, ma, cosa assai
peggiore, di culture che pongono a livello inferiore un essere umano rispetto a
un altro in base a non si sa bene quali principi. [Uno che si comporta così]
al momento della morte quindi  risulterà
retto e onesto visto che si è sempre comportato seguendo alla perfezione quello
che gli hanno insegnato e che è ciò che conosce.

Cito ancora: “La condanna è per chi non vive secondo gli
standard migliori della sua cultura”. Da ciò ne deriva che noi siamo tutti
spacciati perché lo standard del nostro Dio è talmente alto che possiamo
soltanto pregare di avvicinarcisi. [Invece il Nostro che tratta le donne
come oggetti, batte la moglie, uccide gli infedeli, impicca chi sceglie
un’altra religione
] è salvo: non è colpa sua perché lui non lo sa. Lui
pensa di far bene, di combattere per il suo Dio. Non può quindi essere
condannato per ciò che lui è convinto sia giusto. E per noi vale la stessa
cosa. Noi cristiani siamo convinti che lassù ci sia Dio e cerchiamo in tutti i
modi di convincere gli altri. Magari quando moriremo e andremo lassù troviamo
[Dio] che ci dirà: “Siete stati dei fessacchiotti, ma non posso condannarvi
perché non lo sapevate”. Alla fine della fiera ne deriva che non saremo
giudicati con dei valori standard per tutti, ma con dei valori tipici
della cultura di ogni luogo. E la cultura la fanno gli uomini, quindi ancora
una volta saremo praticamente giudicati da valori creati dagli uomini.

E poi, un’ultima questione: c’è ancora qualcuno sulla
terra che non sappia che ci sono cristiani, musulmani, ebrei, induisti,
buddhisti e compagnia? Chi può dire “non lo sapevo”? I musulmani sanno bene che
ci sono i cristiani, ma li rifiutano perché sono nati musulmani e pensano che
sia giusto così. Noi sappiamo che ci sono le altre religioni, ma mai ci
sogneremmo di lasciare la nostra per la loro perché siamo nati con questa e
pensiamo che sia giusta. Qua non si tratta di “sapere”, ma di forte influenza
culturale. Sei quel che sei in base a dove nasci.

Concludo con una massima: Grazie Signore per non avermi
fatto nascere in [un paese] dove sarei battuta dalla mattina alla sera». Grazie a voi.

Manuela
22/04/2014

Grazie
dell’esperti in materia. Come missionari e preti dovremmo esserlo, ma
non per dire «così è e non si discute». Dovremmo essere degli esperti nel
testimoniare nei fatti e nella parola l’infinito amore di Dio. Chiedo scusa a
Debora se per ragioni di spazio ho più che dimezzato il suo lungo scritto e
tolto ogni riferimento a una specifica religione.

Bibbia: «testo al 100% vero». Non è libro di storia o scienza: condivide gli errori e
le ignoranze del suo tempo. Racconta invece con verità l’esperienza religiosa
della conoscenza sempre più approfondita di un Dio che si rivela
progressivamente, fino alla pienezza di Gesù Cristo. Certo, senza fede (=
relazione di amore) in Dio, la Bibbia rimane un libro tra tanti.

Ci sono culture intrinsecamente cattive? San Paolo dice che tutti gli uomini sono «discendenza di
Dio» (At 17,29) e hanno in sé una capacità naturale di cercare Dio, «se mai
giungano a trovarlo, come a tastoni, benché egli non sia lontano da ciascuno di
noi» (At17,27). Per questo possiamo dire che in tutte le culture ci sono dei
valori fondamentalmente positivi su cui tutti gli uomini possono ritrovarsi. Il
problema nasce quando degli uomini prendono il posto di  Dio.

«Saremo giudicati da valori creati dagli
uomini»?
Gesù insegna che «saremo
giudicati sull’amore». Amore è compassione, misericordia, solidarietà, aiuto ai
poveri e più deboli della società, giustizia, azione di pace… Questo mi pare
possa valere per tutti gli uomini. Se qualcuno poi usa della (sua) religione
per giustificare violenza, discriminazione, guerra, ingiustizia e avidità, se
la vedrà lui con il Padreterno.

«Chi può dire non sapevo»? C’è differenza tra essere informati e sapere/conoscere.
Si possono avere tutte le nozioni e informazioni del mondo, ma – in fatto di
fede – conoscere è entrare in relazione, è amare. La religione, nelle sue forme
esteriori, nei suoi rituali e nell’organizzazione, è frutto ed espressione di
una cultura, ma la fede no. Per noi cristiani la fede nasce dall’incontro
personale con il Dio rivelato da Gesù Cristo, che con la sua incarnazione,
passione, morte e risurrezione ci ha resi partecipi della famiglia di Dio, qui
sulla terra anticipata nella comunità dei credenti, la Chiesa.

Tags: salvezza, morte, riposo, bioetica, obiezione di coscienza, aborto, coscienza

Risponde il Direttore




Cari Missionari

Avorio e Religiosità

Se è vero che ciò che accade nella Chiesa particolare
riguarda la Chiesa universale, dopo aver letto (M.C. n.10/2013, p.8) che
è stata la Chiesa filippina a convocare la Conferenza asiatica per la Nuova
Evangelizzazione, mi piacerebbe domandare al Primate S. E. Mons. Luis Antonio
Tagle, arcivescovo di Manila nonché cardinale elettore nel Conclave che ha
scelto Papa Francesco, se le scelte compiute dal nuovo pontefice per quanto
riguarda addobbi, decorazioni, suppellettili sono destinate a restare, in Asia,
lettera morta, oppure stimoleranno anche i cattolici dell’Estremo

Oriente, a cominciare da quelli delle Filippine, a
intraprendere un cammino di rinnovamento all’insegna della sobrietà, della
frugalità, della ragionevolezza.

Sono rimasto molto male, leggendo un non certo tenero ma
documentatissimo dossier del National Geographic (cfr. N. Geographic Italia Ottobre 2012), che «in
Asia la domanda di avorio è cresciuta», che «l’avorio sequestrato è ben poca
cosa rispetto a quello che arriva a destinazione», che nella cattolicissima
Manila «i principali clienti sono i preti», che «i principali fornitori sono
filippini musulmani che hanno legami con l’Africa o musulmani malesi», che «nell’isola
di Cebu il legame tra avorio e religione è così stretto che la parola garing
= avorio, significa anche statua sacra…», che «il Vaticano non ha mai firmato
la Cites – Convenzione internazionale
sulle specie in pericolo – dunque non è tenuto a rispettare il
bando del commercio dell’avorio», che persino i cattolici filippini
appartenenti ai ceti meno abbienti considerano il possesso di santi bambini
d’avorio, madonne d’avorio, crocifissi con Cristo d’avorio fondamentali per la
fede, per la preghiera, per la vita cristiana. Vorrei chiedere ancora a Mons.
Tagle: di quanti garing hanno ancora bisogno le chiese e le case
filippine? Se l’avorio è così importante per la liturgia e il culto, che
succederà alla cristianità delle Filippine quando di elefanti asiatici con le
zanne non ne sarà rimasto neppure uno e gli unici elefanti africani
sopravvissuti saranno quelli degli zoo e dei circhi?

Come fanno i vescovi, i preti e i laici filippini a non
sentire alcun senso di colpa quando apprendono di massacri di elefanti […]?
Come si fa a non capire che bisogna rivedere anche il rapporto con gli oggetti
di culto – e, segnatamente, quelli in avorio – se si vogliono salvaguardare i
diritti delle future generazioni. Invece di ambire al possesso di altri garing,
non sarebbe meglio accontentarsi di quelli che già si posseggono? Non sarebbe
più ragionevole e più cristiano riconoscere che sono già tanti?

Grazie
per l’attenzione.

Francesco Rondina
Fano, 19/10/2013

Caro Francesco,
poiché lo spazio è tiranno, ho dovuto tagliare parte della lettera, mantenendo
le questioni essenziali. Concordo con buona parte delle sue osservazioni e mi
auguro che lo stile di papa Francesco abbia un influsso positivo sul problema
da lei posto. Mi permetto però di sottolineare alcuni punti.

1. La relazione tra il fatto che il Vaticano non abbia firmato il
Cites e il «consumo» d’avorio dei filippini non è logica. La firma della
convenzione da parte dello stato del Vaticano avrebbe un peso esclusivamente
morale e non legale sui filippini. Più rilevante per loro è la firma della
convenzione da parte delle Filippine. Tocca infatti alle Filippine
regolamentare il commercio dell’avorio nel proprio territorio, non al Vaticano.
L’associazione del Vaticano (stato) con la Chiesa Cattolica, è un abbinamento
che va molto a orecchio, che può suonare bene per la stampa popolare, ma non
regge all’analisi obiettiva dei fatti.

2. Anche stabilire un rapporto di necessità
tra statue d’avorio e liturgia cattolica è arbitrario. Non è la religione
cattolica che ha creato il bisogno dei garing, anche se essa ha
accettato una tradizione culturale comune a quasi tutte le culture orientali
che da millenni fanno uso dell’avorio nella produzione di oggetti religiosi,
forse proprio per la qualità intrinseca del materiale stesso: raro, prezioso e «puro».
Che oggi si possa e si debba invitare i cattolici delle Filippine a un uso più
cosciente e ragionato di tali oggetti, è indubbio. Che ci sia un nesso tra la
forte richiesta di questi oggetti e lo sterminio degli elefanti, è un fatto che
non contesto. Ma le statue d’avorio non sono proprie né necessarie al culto
cattolico. Sono frutto di una religiosità popolare che si radica in una cultura
che esisteva ben prima dell’evangelizzazione di quelle isole nel XIV secolo.

Due euro per il mare

Leggendo il pregevole articolo di Paolo Bertezzolo (M.C.
n.11/2013, p.68-71
) sulla nuova moneta da 2€ dedicata ai Santi Cirillo e
Metodio, ho pensato che quello scoppiato tra Francia e Slovacchia non è solo un
contrasto tra due modi diversi di intendere il rapporto tra politica e
religione.

Nel
IX secolo Cirillo e Metodio furono dei formidabili evangelizzatori, mediatori e
unificatori che cercarono, riuscendoci, di prendere il meglio di ogni tradizione,
lingua e cultura. Lavorarono sodo per amalgamare germanici e latini, cristiani
d’Oriente e d’Occidente, genti slave del Nord e del Sud, popoli delle grandi
selve e popoli a vocazione marinara. Diedero un alfabeto e una scrittura agli
Slavi traducendo in una lingua nuova Bibbia e Liturgia Cattolica, difesero il
loro metodo di evangelizzazione dalle velleità egemoniche del clero tedesco
che, a un certo punto, si rivolse addirittura alla Santa Sede per togliere di
mezzo i due fratelli greci. Il Papa Adriano II però non solo frustrò le
aspettative di quei tedeschi superficiali e invidiosi, ma assicurò tutto il suo
sostegno all’opera di Cirillo e Metodio.

Agli
amici della Slovacchia, uno dei pochi paesi di Eurolandia a non avere sbocchi
sul mare, e a tutti coloro che hanno voce in capitolo quando si tratta di
ideare, approvare ed emettere nuovi conii, vorrei dare un suggerimento: in una
delle prossime monete da 2€ fate effigiare una tartaruga, un tonno, un pesce
luna, un delfino, uno squalo elefante…

Tale scelta potrebbe essere il segno di una rinnovata
volontà di tutti i popoli europei a procedere sulla strada della protezione
ambientale, rompendo con la linea seguita fin qui da Bruxelles per quel che
riguarda tutto ciò che ha a che fare con il mare, dalla pesca al turismo, dalla
balneazione alla pirateria, dal contrabbando al soccorso dei naufraghi, dalla
perforazione petrolifera al trasporto di sostanze tossiche.

È una
linea che non si concilia in alcun modo con le istanze di giustizia e di pace
ma neanche con quelle della serietà, dell’efficienza, del buon senso, del
rigore e del risanamento dei conti pubblici.

[…]
Vi ringrazio per l’attenzione e Vi saluto cordialmente.

Maria Weistroffer
Bordeaux, 24/11/2013

780.000 bottiglie di plastica

Carissimi,
forse lo avrete già dimenticato, ma il «Cristo de los Desterrados» (M.C.
n.1-2/2012, p.5
) continua a farsi strada e già si è incamminato e vuole
benedire, proteggere e farsi promotore di questo brandello di foresta dove «los
niños ecológicos en acción», contro vento e marea, vogliono dimostrare che una
spiaggia più pulita è un’alternativa al solito menefreghismo di molti e
scetticismo dei più, ed è la strada giusta per crescere senza perdere la
propria identità culturale indietreggiando come un gambero, e per continuare a
scavare come «armadillos».

Intanto 780.000 (settecentoottantamila) bottiglie sono già state
infilzate e circondano i 3000 m2 del
piccolo parco giochi dove la storia di Pinocchio con balena a dimensione
naturale (fatta di bottiglie) con Geppetto nel suo pancione saranno
l’attrazione principale. Intanto il parco sfoggia già il suo stupendo arco
d’ingresso. Direte: dove avete preso quelle 780.000 mila bottiglie? Sulla
spiaggia dell’Oceano Pacifico, naturalmente! E ce ne sono ancora di più. La
raccolta è stata fatta dai bambini e ragazzi, premiati con un centesimo di euro
a bottiglia, soldini che son loro serviti per comprarsi libri e quadei di
scuola oltre che i deliziosi dolci di noce di cocco per completare la loro
povera colazione. La cosa più bella è stata l’esclamazione spontanea di uno dei
ragazzi: «Questo me lo sono guadagnato io!». Che ve ne pare? Pinocchio comincia
a farsi uomo e a capire che in questo mondo «il sudore della fronte» aiuta a
crescere e che è vero ciò che afferma San Paolo quando dice ai suoi
Tessalonicesi fannulloni e molto indaffarati in chiacchiere «che chi non vuol
lavorare, neppure mangi».

Intanto
il piccolo parco ha già pure la sua minuscola cappella da dove un altro pezzo
di legno, lavorato da Ariel, il modesto artigiano tutto fare, sfoggia il Cristo
benedicente, portatore di pace e armonia.

P. Vincenzo Pellegrino
 Cali, Colombia

«Sono» troppi

Lampedusa:
ho visto qualche lettera sulla Rivista. Ma il dato essenziale non viene
evidenziato né lì né altrove. L’Africa contava circa 30 milioni di umani a metà
dell’Ottocento, ora ne ha un miliardo! E con un tempo di raddoppio di 30 anni.
Qui sta il vero problema a monte. Nel frattempo è stato distrutto il 90% degli
altri esseri senzienti (altri animali, piante, ecosistemi) e il processo
continua senza sosta. Se non cessa il mostruoso aumento della popolazione
umana, in quasi tutto il mondo, è evidente che tutti i problemi sono insolubili
e si aggravano sempre più. Non basta dare la colpa «alle multinazionali», al
colonialismo e simili, queste sono solo concause, aggravamenti di una
situazione e di un andamento assolutamente insostenibili. Vi allego un
interessante articolo pubblicato 20 anni fa (che non riportiamo per ragioni di
spazio, ma si può trovare sul sito de La Repubblica, 11/6/1994: Orazio della
Rocca, Guerra delle culle in Vaticano. In esso si sosteneva che anche
l’Accademia Pontificia raccomandava un rilassamento nell’opposizione totale al
problema del controllo delle nascite, ndr). In questo lasso di tempo la
popolazione umana nel mondo è aumentata di due miliardi di umani! Ma come
pensate che si possa andare avanti così? Inoltre, togliere lo spazio vitale
agli altri esseri senzienti è moralmente condannabile, è un delitto. Qui si sta
distruggendo la Terra. Distinti saluti.

Albino Fedeli
Brescia, 7/10/2013

Caro Albino,
su queste pagine abbiamo dibattuto più e più volte sul problema della (sovra)
popolazione (Vedi: M.C. n.1-2/2013, p.7; 3/2013, p.7). Qui mi permetto
di sottolineare alcuni punti circa la Chiesa, implicati dal riferimento
all’articolo de La Repubblica.

La Chiesa,
ritiene sì che i figli sono un dono e che ogni vita va rispettata fin dal
concepimento, ma non sostiene il principio che bisogna fare figli a tutti i
costi. Da anni (almeno 50), nella sua dottrina sociale, insiste su pateità e
mateità responsabile, promuovendo metodi e stili rispettosi della vita e
attenti all’ambiente. È vero che Essa si è sempre opposta all’aborto, alla
sterilizzazione, all’uso di pillole abortive e di altri strumenti che
favoriscano il sesso indiscriminato e irresponsabile fino dall’adolescenza
(ampiamente sostenuti invece da potenti e danarose lobby anche intee all’UE,
vedi ad esempio il documento «Standards for Sexuality Education in Europe»
promosso dalla sezione europea dell’OMS). Ma ritenere la Chiesa responsabile
della crescita demografica perché opposta ai preservativi, è fuori posto.
Sarebbe attribuire a Essa un’influenza che di fatto non ha (e non ha mai
avuto). I fatti sono semplici: la crescita demografica più accentuata è
avvenuta in Cina e in India, dove l’influenza della Chiesa è minimale. In
Europa e America del Nord, dove in teoria il suo influsso era più forte, si è
invece assistito al fenomeno contrario, addirittura alla decrescita della
popolazione. E noi italiani siamo proprio tra i primi al mondo nella decrescita
demografica!

Ben altre sono
le ragioni della crescita della popolazione mondiale, in primis il
grande e positivo sviluppo della medicina, che ha drasticamente ridotto la mortalità
infantile e allungato (anzi, quasi raddoppiato in molti paesi) la vita media. È
un male questo? Non credo proprio. È un fatto che ci chiama a maggior
responsabilità verso questo nostro fragile mondo. E questa responsabilità
comincia con la giustizia nell’uso delle risorse e dell’ambiente. Dio ha un
progetto di armonia per il creato: armonia tra «esseri umani», «esseri
senzienti» e natura. E Lui è il garante di questa armonia.

«Ferie» diverse a Ikonda

Fare
del «volontariato» in un ospedale missionario a Ikonda in Tanzania durante il
proprio periodo di «ferie». È quello che hanno fatto due giovani gambettolesi
dal 26 agosto al 19 settembre scorso, Nicolò Pistoni, ventottenne laureato in
Ingegneria Biomedica, e Sofia Pedrelli, ventenne laureanda in Educatore
Professionale. […] Conosciamoli attraverso il racconto dell’esperienza
vissuta nel continente africano.

Come e per quali ragioni avete deciso di fare un’esperienza
missionaria? Perché in Africa e in questo particolare ospedale?

«Da
tempo collaboro con i Missionari della Consolata che a Gambettola hanno un
centro missionario (ex seminario) con annesso Santuario – precisa Pistoni – per
organizzare raccolte fondi destinate al sostentamento dei diversi centri che
questo Istituto ha realizzato in tutto il mondo: dalle missioni in Colombia,
Venezuela e Mozambico gestite da Missionari miei compaesani all’Allamano
Special School di Wamagana (Kenya) in cui trovano ricovero decine di bambini
portatori di handicap mentali e fisici. L’input di
partire per questa destinazione è venuto da padre Sandro Faedi, allora
vicesuperiore in Italia e ora in Mozambico. Dopo avergli raccontato della mia
carriera universitaria, mi ha proposto di dare una mano concretamente in uno
dei tanti ospedali sparsi nel mondo nei quali, ogni giorno, si dà conforto e si
presta soccorso alle popolazioni più povere. Fra le tante possibili
destinazioni la scelta è ricaduta sul Consolata Hospital di Ikonda in Tanzania,
paese nel quale è stato per molti anni anche l’attuale superiore della casa di
Gambettola, padre Daniele Armanni. Quell’ospedale è ora una delle strutture più
grandi e attrezzate realizzate in Africa dall’Istituto Missioni Consolata. A
Ikonda ho prestato servizio come tecnico nel reparto di radiologia e ho messo a
disposizione le mie conoscenze a chi fa questo stesso lavoro e non ha avuto una
preparazione specifica e strutturata come la mia grazie al tirocinio prima e al
volontariato poi, fatti in gran parte nell’ospedale Bufalini di Cesena in tutti
i reparti di radiologia, a Rimini in Radioterapia e a Forlì in Medicina
Nucleare». «Contattata, ho deciso di condividere questa nuova esperienza di
volontariato – afferma Pedrelli -, che l’anno scorso ho svolto a Skutari
(Albania) in una casa famiglia dell’associazione Papa Giovanni XXIII. Ho
prestato aiuto nella farmacia intea e in alcune giornate ho fatto
l’animatrice presso l’asilo. Rimarrà indelebile il ricordo dello stupore dei
bambini quando ho fatto imprimere le impronte delle loro mani su un foglio di
carta dopo averle colorate».

Cosa vi ha lasciato questa esperienza?

«C’è un antico proverbio cinese che riesce a descrivere al
meglio questa missione umanitaria: “Dai a un uomo un pesce e lo avrai sfamato
per un giorno. Insegna a un uomo a pescare e lo avrai sfamato per tutta la vita”.
È quanto abbiamo fatto quotidianamente per affrontare il contatto con una realtà
tanto diversa – confermano all’unisono -, sia dal punto di vista culturale (lo
swahili è un ostacolo arduo da superare, segnando in un quaderno le parole
essenziali per svolgere il lavoro), sia dal punto di vista ambientale (a oltre
2000 metri di altezza in una delle aree più povere della Tanzania). Ostacoli
che sono stati superati donando per tre settimane tutto di noi, con il sorriso
negli occhi e nel cuore, tutti i giorni, condividendoli con tutti. Quanto
sperimentato ci aiuterà senzaltro a vivere meglio le realtà in cui siamo
inseriti».

Piero Spinosi
Gambettola (CE)

Risponde il Direttore




Cari Missionari

Lampedusa: sfintere
dell’Africa

Signor
Direttore,
i cittadini italiani non si assumono alcuna responsabilità per gli
ennesimi Africani affogati nel Canale di Sicilia. Quei morti siano sulla
coscienza degli «Alti» fautori dell’«accoglienza», di quei partiti e di quei
politici, come la Kyenge del Pd e la Laura Boldrini di Sel, che con i loro
proclami farisaici continuano a spingere i più poveri verso l’illusione del
nostro benessere. Se fuggono dall’Africa lo addebitiamo pure a chi ha voluto
chiudere l’era coloniale, mettendo popolazioni intere in mano a politici
africani inetti e incompetenti, quando non si dimostrano ladri e criminali,
solo per permettere a governi occidentali e orientali di continuare a derubare
l’Africa delle sue ricchezze minerarie e delle sue terre più produttive.
Distinti saluti.

Giorgio Rapanelli
Corridonia (Mc) 28/07/2013

Egregio Signor Giorgio,
anche se parla a nome degli italiani, non me la sento proprio di concordare con
lei. Quei morti stanno sulla nostra coscienza come uomini, come europei e come
italiani. Forse le farebbe bene un viaggio in quelle terre, ma non di quelli
con le agenzie «tutto compreso», per capire che gli emigranti non sono attirati
nel nostro paese dai proclami dei partiti e dei politici, ma sono costretti
alla fuga da povertà, ingiustizie e violenze. Vorrei dire che forse sono
ingannati anche dai nostri (del nostro mondo ricco) film, programmi televisivi,
«soap opera» che colonizzano le loro televisioni. E forse sono attirati dalla
nostra pace, quella che godiamo da quasi settant’anni, mentre da loro c’è
guerra, fame, violenza. E c’è poi il nostro bisogno di loro per fare i lavori
(sottopagati) che noi non vogliamo più fare, quelli sporchi, di notte, senza
ferie, malpagati. Inoltre quei «governi occidentali e orientali» che continuano
a derubare l’Africa, sono i nostri governi, che noi abbiamo eletto, siano essi
di destra o sinistra. E con i nostri governi e le nostre industrie, siamo noi
che continuiamo a rubare, perché abbiamo legittimato lo spreco e il superfluo.
Vivere di spreco e superfluo, come facciamo noi (almeno fino a che la crisi non
ci ha obbligati a diventare più sobri), significa accettare l’ingiustizia come
sistema. La cosa buffa – che poi buffa non è – è che lo stesso sistema
responsabile della morte degli «ennesimi» clandestini (bello il termine «clandestini»,
così anonimamente malvagio che ci fa sentire buoni e rispettosi della legge!), è
lo stesso che cavalca la crisi che fa lievitare i prezzi, aumentare il debito,
chiudere le fabbriche e trasferirle all’estero (dove si possono sfacciatamente
sfruttare i lavoratori), rendere impossibile il lavoro ai giovani e aumentare
il numero dei senza casa. Per questo non possiamo lavarci le mani, dire non ci
riguarda e dare la colpa a chissà chi. Ci siamo dentro. La verità è che non
sono le migliaia di persone in cerca di pace, lavoro e dignità in fuga dai loro
infei verso il nostro presunto paradiso, la causa dei nostri guai, della
nostra insicurezza, della violenza, dei furti. Essi sono il sintomo di una
malattia profonda di tutta l’umanità che ha messo al centro della sua vita non
più il rispetto della legge di Dio ma quella del dio denaro. E la cura non è
certo quella di insultare la signora Cécile Kyenge e le persone come lei.

Grazie

Sono la sorella di p. Aldo Giuliani e voglio ringraziare
di cuore per l’invio della rivista di maggio dove c’era il bellissimo articolo
su Sererit dove vive mio fratello. Sono stata in quei posti nel 1981, l’anno
che mancò in situazione tragica (anche per mio fratello) il nostro carissimo
amico e paesano p. Luigi Graiff. Pur essendo un brutto triste periodo abbiamo
fatto una bellissima esperienza. Dovrebbero provarla tante persone: vale molto
per la vita in special modo per la nostra gioventù. Vi ringrazio nuovamente per
l’immenso regalo prezioso inviatomi. Complimenti per la semplicità e chiarezza
nello spiegare la storia della missione e il personaggio di mio fratello… È
un uomo burbero ma di un grande ma grande cuore missionario. Un ricordo nelle
preghiere, di cui abbiamo tanto bisogno sia per motivi di salute che per le
nostre famiglie. Con affetto

Gianna Giuliani
Romeno (Tn), 24/07/2013

Per me è stata una
gioia raccontare di padre Aldo. Se lo merita. Come cuore è davvero imbattibile.
Quanto alla preghiera, stia tranquilla. I nostri famigliari sono sempre nella
nostra preghiera e poi abbiamo la promessa dell’Allamano il quale ci ha
assicurato che a essi pensa la Madonna Consolata di persona.

Decrescita

Tutte
le volte che ho ascoltato i nostalgici della crescita e i fautori della
decrescita, le argomentazioni portate dai primi mi sono sembrate meno
convincenti di quelle portate dai secondi. Il dossier di M.C. di Luglio
non ha fatto eccezione a questa regola: come ci si può lamentare della crisi
del Pil e dell’occupazione nelle grandi aziende (quelle sulla cui produttività è
basato, in larga parte, il calcolo del Pil) quando ci sono tanti indicatori che
ci raccontano una storia ben diversa?

Perché
per esempio, stracciarsi le vesti se si vendono meno auto, se si fa un uso più
limitato e accorto dei mezzi motorizzati (l’Italia, non va dimenticato, è ai
primissimi posti nel mondo per parco veicolare e numero di autovetture pro
capite), se si consuma meno carburante, se ci sono meno sinistri, se si muore
di meno sulle strade? Perché vivere come un incubo l’eventualità che Marchionne
lasci il nostro paese? Casomai bisogna augurarsi che Fiat non ripeta all’estero
gli errori commessi in Italia, e che le nuove frontiere dell’industria automobilistica
non cadano nella trappola dell’Agnelli-dipendenza in cui sono caduti tanti
italiani.

Anche
il ridimensionamento di un’altra grande industria, quella del calcio, è un
fenomeno con ricadute tutt’altro che negative. È un bene o un male che gli
Italiani giochino meno schedine e che la Tv di stato spenda meno per i
diritti sulle partite? È un bene o un male che gli stadi siano meno affollati e
che i bagarini non facciano più gli «affari» di un tempo, e che per gli
abbonamenti non vengano più dilapidati i patrimoni di prima? È un bene o un
male che i presidenti di alcune società gestiscano con più oculatezza ciò che
incassano? Possiamo definire disfattista e antipatriottico chi prende atto con
soddisfazione che gli allenatori siedono un po’ più a lungo sulle panchine?
Possiamo ragionevolmente e cristianamente considerare recessivo il minore
spreco alimentare, nefasta la minor produzione di rifiuti, e deprimente il
minor ricorso alle vie legali nelle situazioni difficili all’interno delle
coppie?

Possiamo
affermare che è esiziale per l’economia che cali la fiducia verso il mondo
degli avvocati, dei giudici, dei periti di parte e dei tribunali mentre aumenta
quella verso la mediazione familiare finalizzata non al divorzio, al
pendolarismo affettivo e alla dilatazione patologica dei nuclei familiari,
(quelli che l’antilingua pretende di ribattezzare «famiglie allargate») ma al
risanamento spirituale, alla riconciliazione e alla pace?

Possiamo
non rallegrarci per il fatto che la diminuita propensione ad abitare ognuno per
conto proprio ha contribuito alla riduzione della domanda di alloggi?

Possiamo
continuare a raccontarci la balla che i giovani che vanno a cercare lavoro e
fortuna lontano da casa sono tutti bravi, talentuosi e coraggiosi mentre quelli
che amano o comunque accettano serenamente le occupazioni domestiche, quelli
che fanno la spesa, cucinano, lavano, stirano, curano l’orto e il giardino, si
occupano a tempo pieno di figli, nipoti e anziani, sono tutti bamboccioni?

Perché
piangere le migliaia di aziende fallite e le centinaia di migliaia di posti di
lavoro persi nell’edilizia e nell’arredamento e non esultare per il drastico
calo degli infortuni sul lavoro, per
l’altrettanto indiscutibile calo delle morti bianche, per il +9% di occupazione
giovanile in agricoltura, per il dietrofront di alcune amministrazioni locali
che, per impedire ulteriori devastanti cementificazioni in un paese sempre più
a rischio idrogeologico, hanno declassato – ma sarebbe più giusto parlare di
riqualificazione – a «verde» significative porzioni di aree che subdoli Prg
avevano dichiarato «edificabili»? Perché ostinarsi a sperare nella quantità
invece di puntare sulla qualità? Perché non riconoscere (a dirlo è anche Paolo
Buzzetti, il Presidente dell’Ance, l’associazione dei costruttori), che è la
qualità il vero tallone d’Achille dell’edilizia italiana, sono le licenze
facili rilasciate dalla Camera di Commercio a chi poco sa di edilizia e molto
di speculazione, a provocare sfaceli?

Francesco Rondina
Fano, 17/07/2013

Mc via email

Ricevo
la rivista in forma cartacea. Vi chiedo se è possibile riceverla via email.
Grazie e saluti

Antonio Falcone
email, 12/08/2013

Come le ho scritto, per
ora non siamo organizzati per un simile servizio, ma la sua richiesta ha acceso
una spia importante. Come avrà visto, stiamo facendo un notevole sforzo per
migliorare la nostra pagina web e offrire anche uno sfogliabile di prima qualità.
La ringraziamo per il suo stimolo: cade in terra fertile. Quanto allo sfogliabile, ricordo che è possibile sponsorizzarlo, come hanno
fatto i genitori di Marianna con il numero di luglio 2013. Rimarrà un ricordo
che accompagnerà tutta la vita.

Depennatemi

Spett.le
Redazione,
in relazione all’editoriale dell’ultimo numero (luglio 2013), vi informo che
non desidero più ricevere la vostra rivista. Pertanto vi invito a cancellare il
mio nominativo dal vostro elenco.

R. M.
           Torino, fax, 24/07/2013

No comment.
____________________

Nel prossimo numero:
la lettera di Claudio Bellavita sui «Tesori Sepolti» nella memoria dei missionari
anziani e l’affettuosa testimonianza di Liviana che ricorda «Nino Maurel», lo
zio Nino, a dieci anni dalla morte. E molto altro.

SCRIVETECI!

risponde il Direttore




Cari Missionari

Chávez
«profeta e martire»?

Su
Missioni Consolata del giugno 2013 a pag. 20 un sacerdote di Caracas definisce
Hugo Chávez «Profeta e martire». Da tempo non mi meraviglio più di nulla, ma di
fronte a questa affermazione si resta senza fiato. Il nostro dittatore
italiano, non paragonabile ai suoi due colleghi degli anni ’30, era stato
definito più modestamente «L’uomo della Provvidenza». Da Libero del 13
marzo scorso (che ovviamente non è Vangelo) apprendo che l’ex deputato di
opposizione Wilmer Azuaje, attribuisce alla famiglia Chávez le proprietà di
45.000 ettari di terreno (30 anni fa possedevano solo tre ettari).

Il
quotidiano spagnolo Abc (anche quello non è Vangelo) stima in due
miliardi di dollari il valore totale della fortuna accumulata dal Caudillo,
di cui, oltre ai terreni citati, in conti all’estero almeno 200 milioni di
dollari; il conto in banca della madre del presidente sarebbe di 163 milioni.
La famiglia Chávez possiede inoltre 10 Suv Hummer, 17 ville e altro
ancora. Non è una novità, è sempre stato così; anche personaggi storici ben più
importanti di Hugo Chávez tipo Napoleone Bonaparte, hanno privilegiato il
proprio interesse privato. Durante il saccheggio francese del nostro paese,
Napoleone inondava il Tesoro di Parigi di enormi somme, merci e opere d’arte,
non prima di aver trattenuto un «buon pizzo» per sé e la sua numerosa famiglia.

Vi
allego un piccolo articolo di Panorama (del 5/6/2013, pag. 36), dove si informa
che nel Venezuela del dopo Chávez, manca la carta igienica e il vino per le
messe, grazie alla politica economica del defunto presidente. Noterete il
sarcasmo di un titolo: Habemus papel.

Concludo:
penso che, come tutti i caudillos della storia, il presidente Chávez si
sia arricchito alla grande, e che abbia gestito l’economia del suo paese peggio
dei nostri governi italiani; qui, almeno per ora, si trova ancora la carta
igienica…

Ricchini Gianpietro
12/06/2013, lettera da Brescia

Grazie di quanto ci
scrive. È vero che l’articolo da noi pubblicato è troppo elogiativo e poco
critico nei confronti di Hugo Chávez. Personalmente avrei desiderato un’analisi
che fosse attenta anche ai limiti e alle contraddizioni di quell’esperienza.
Certo, quella di Chávez è una figura che ha suscitato grandi passioni e
opinioni molto contrastanti.

Perché ho pubblicato
quell’articolo? Per rispetto al mio giornalista che ama quel paese e i suoi
sogni (che invece per altri sono incubi). Perché Chávez ha avuto anche
intuizioni giuste e il coraggio di tentare di emanciparsi da un vicino
invadente (che – ricordo – ha finanziato abbondantemente la diffusione in
America Latina delle sette evangeliche in funzione anticattolica per difendere
i suoi interessi economici). Perché ha tolto i proventi del petrolio dal
controllo dell’oligarchia e delle multinazionali per condividerli col suo
popolo (lo bollano come populista per questo). Certo non è stato immune da
corruzione e clientelismo, da arroganza e da atteggiamenti messianici e di auto-incensazione;
e forse ha anche premiato più l’adulazione che il merito: aspetti questi che
lasciano molte perplessità. Toeremo ancora sul Venezuela, una nazione che
amiamo e dove siamo presenti come missionari della Consolata. Il tempo ci darà
la possibilità di analisi più oggettive e ragionate.

Carità? Per
carità!

Sono
fra Silvestro, un francescano che ha vissuto 12 anni in Est Africa, Uganda e
Tanzania, e sono stato anche in Kenya e a Gibuti. Scrivo per ringraziare Chiara
Giovetti dell’articolo «Carità? Per carità» (MC, giugno 2013).

Preciso
subito che non ho ancora letto il libro L’industria della carità. Ho letto
invece La carità che uccide di Dambisa Moyo. L’ho letto appena uscito e mi
ha colpito per come l’ho sentito vicino al mio modo di vedere certi metodi di
aiutare la «nostra amata» Africa. Cito un esempio per tutti tra quelli che la
signora Moyo fa per spiegare come alcuni interventi portano l’Africa a essere
più povera. Racconta di certe persone di buona volontà che un giorno regalarono
centinaia e centinaia di zanzariere. Quando arrivarono fu festa e la gente era
contenta perché effettivamente i casi di malaria diminuivano, ma col passare
degli anni le reti si rompevano e lasciavano passare le zanzare malariche.
Quelle zanzariere erano finite, ma non c’era nessuno per ripararle o fae di
nuove perché i piccoli artigiani che le fabbricavano localmente avevano dovuto
chiudere per fallimento: nessuno aveva avuto più bisogno delle loro zanzariere.
E così è ritornata la malaria ancora più forte.

Una
mia ulteriore riflessione riguarda anche la bontà con cui tanti missionari e
(non) hanno costruito pozzi d’acqua. Banalizzando, ma purtroppo la faccenda è
serissima, mi vien da dire che in alcune zone sono più i pozzi che i villaggi,
ma guarda caso tanti di questi non funzionano più. Attoo al mio villaggio,
nel Sud dell’Uganda, ne contavo cinque o sei fuori uso. Perché non
funzionavano? Ma semplicemente perché anche i pozzi hanno bisogno di
manutenzione e chiamare i tecnici, anche locali, dalla capitale (esempio
concreto del mio villaggio distante 350km dalla capitale) veniva a costare
troppo rispetto alle possibilità del villaggio. Non importa se poi le persone
dello stesso villaggio trovassero sempre i soldi per bere birra, tradizionale e
non, nei bar locali.

Altra
piccola riflessione. Mi ha colpito, appena rientrato in Italia nel 2005,
sentire Tony Blair affermare che solo il 20% di quanto raccolto a favore del
Sud del mondo va davvero della povera gente a cui dovrebbe essere destinato.
Poi si sa bene che anche gran parte di quel 20 % va nelle mani di chi già sta
bene, magari politici o faccendieri locali. Certo che vedere viaggiare il
personale delle varie organizzazioni umanitarie con macchinoni che non
finiscono più e sapere che vivono in posti lussuosi che in Occidente non
potrebbero permettersi con tanto di servitù, e che il loro salario mensile è
superiore a… Beh, lasciamo perdere.

Grazie
ancora

Fra Silvestro Arosio o.f.m.
10/06/2013, via email

Il problema che Chiara
ha cercato di focalizzare nel suo articolo è molto vasto. E non nuovo: ricordo
che alla fine degli anni Settanta lessi un libro che criticava i progetti inutili delle organizzazioni umanitarie portando esempi concreti di sprechi e cattivo sviluppo.

Credo che come
missionari abbiamo visto progetti bellissimi che hanno cambiato la vita di
villaggi e regioni, altri che sono stati inutili come cattedrali nel deserto e
altri ancora che hanno dimostrato gran cuore e poca testa. Solo pochi giorni fa
sono stato perplesso di fronte alla pubblicità inserita in un importante
settimanale che invitava all’adozione a distanza. Già altre volte ho provato a
verificare in rete le attività di alcune di queste agenzie di adozione e la mia
impressione è stata quella di trovarmi di fronte a qualcosa di molto vago e
fumoso.

Mi permetto di
aggiungere due cose. La prima è l’invito ad essere critici con quelle agenzie
che fanno pubblicità molto costose o che addirittura vi telefonano e mandano i
loro agenti a raccogliere soldi di casa in casa (o cose simili). Un po’ di
pubblicità è certo necessaria: corretta, dignitosa e rispettosa; ma quando usa
lo stesso stile del telemercato e della vendita porta a porta, c’è qualcosa che
non quadra. Sono davvero interessati al bene dei bambini che dicono di aiutare
o alla loro sopravvivenza come organizzazione?

La seconda è una parola
– – neppure troppo seria, però, visti i limiti della mia esperienza – in favore
della servitù. È vero che ci sono degli operatori di Ong o agenzie
inteazionali che vivono in case di lusso (in rapporto allo standard di vita
locale) circondati da servitù: cuoco, colf, babysitter, giardiniere, portinaio,
guardia, autista o simili. Questo può scandalizzare, soprattutto se si ha
l’occasione di sentire le chiacchiere di chi se ne vanta durante gli incontri
tra espatriati. In realtà è uno degli aspetti positivi della presenza dei
cooperanti: creano lavoro in una realtà dove spesso la disoccupazione è piaga
endemica. Ho conosciuto volontari o membri di organizzazioni inteazionali che
di proposito avevano anche più personale del necessario proprio per dare lavoro
ai locali o non dover lasciare a casa persone già impiegate dai loro
predecesssori.

Donne albanesi

Ho letto l’articolo sulla realtà delle donne albanesi ed
essendo io albanese devo dire che non ce la faccio più. Cosa faccio? Sono in
Italia da diversi anni, qua ho le mie amiche, la scuola… poi too a casa e la
vita immaginaria che mi costruisco «nelle poche ore di libertà» crolla, la
speranza di avere un giorno una vita normale… Diverse volte ho sperato che
questo fosse solo un brutto incubo ma poi i fatti mi risvegliano da questo «sogno».
Io non avrò mai un finale a lieto fine anche se lo vorrei con tutto il cuore,
per me e le mie sorelle.

Klodiana
01/06/2013, via email

L’articolo apparso sul
numero di marzo 2013
, raccontava del sogno di ritornare a casa di donne e
famiglie albanesi provenienti dalla Macedonia: un «lieto fine» che è nei
desideri di tutti gli emigranti. Risparmiare abbastanza per rientrare nel
proprio paese a testa alta e ricominciare una vita nuova, liberando i propri
figli dalla necessità di una dura emigrazione è stato il sogno che ha dato la
forza a milioni di emigranti di sopportare difficoltà e sofferenze indicibili. È
anche il sogno della nostra lettrice. Le case vuote di tanti nostri villaggi
nel Sud d’Italia ci dicono che è un sogno difficile da realizzare, ma noi con
tutto il cuore facciamo il tifo per Klodiana e per tutti gli uomini e donne che
come lei sono stati costretti ad abbandonare il proprio paese.

Sprechi alimentari

Nella
speranza di fare cosa gradita, vorrei condividere con voi questo mio scritto
che ho pubblicato su La Gazzetta del Mezzogiorno dell’11 giugno 2013.
Con molti complimenti per il loro lavoro.

Giorgio Nebbia.

Cultura
dello scarto

Il 5 giugno scorso il Papa Francesco ha preso
l’occasione della quarantunesima «Giornata della Terra» per parlare di ambiente
e di sprechi e lo ha fatto con parole che non ascoltavamo da molto tempo.
Nell’udienza generale (il testo integrale si trova nel sito www.vatican.va) ha
ricordato che la donna e l’uomo sono stati posti nel Giardino perché lo
coltivassero e custodissero, come si legge nel secondo capitolo del libro della
Genesi, e ci ha invitati a chiederci che cosa significa coltivare e custodire:
trarre dalle risorse del pianeta i beni necessari, con responsabilità, per
trasformare il mondo in modo che sia abitabile per tutti, parole che già Paolo
VI aveva usato nell’enciclica «Populorum progressio» del 1967.

Papa Francesco ha detto che non è possibile custodire la
Terra se, non solo le sue risorse, ma addirittura le donne e gli uomini «sono
sacrificati agli idoli del profitto e del consumo», alla «cultura dello scarto».
Le ricchezze della creazione non sono di una persona, o di una impresa
economica, o di un singolo paese, ma sono «doni gratuiti di cui avere cura»,
destinati ad alleviare soprattutto «la povertà, i bisogni, i drammi di tante
persone». Il dramma più grave consiste nel fatto che un miliardo di persone
manca di cibo sufficiente, in ogni parte di un mondo dominato dallo scarto,
dallo spreco e dalla distruzione di alimenti. «Il consumismo, ha detto il Papa,
ci ha indotti ad abituarci al superfluo e allo spreco quotidiano di cibo.
Ricordiamo, però, che il cibo che si butta via è come se venisse rubato dalla
mensa di chi è povero».

Finalmente parole dure, da una autorità ascoltata da
cristiani e non cristiani, credenti e non credenti, che sintetizzano la fonte
dei guasti ecologici: la violenza contro le risorse naturali è violenza contro
gli altri esseri umani, contro il prossimo vicino, contro il prossimo lontano
nello spazio e contro il prossimo del futuro che erediterà un mondo impoverito
per colpa degli sprechi di oggi, dei paesi ricchi e egoisti.

Il
ciclo dello spreco

L’ecologia spiega bene l’origine della fame di troppi
esseri umani: gli alimenti umani diventano disponibili attraverso un complesso
e lungo ciclo che comincia dai raccolti di vegetali: patate, cereali, piante
contenenti oli e grassi. Dei vegetali di partenza solo una parte, meno della
metà, diventa disponibile sotto forma di alimenti e di questi una parte va
perduta, per le cattive condizioni di conservazione e di trasporti dai campi e
dalle fabbriche ai mercati.

Una parte delle vere e proprie sostanze nutritive viene
destinata alla zootecnia che «fabbrica» alimenti animali ricchi di proteine
pregiate con forti perdite: occorrono circa 10 chili di vegetali per ottenere
un chilo di carne; il resto va perduto come escrementi, come gas della
respirazione degli animali da allevamento e come scarti della macellazione. Nei
paesi industriali gli alimenti vegetali e animali, prima di arrivare sulla
nostra tavola o nel nostro frigorifero, passano attraverso una lunga catena che
comprende il trasporto attraverso i continenti o gli oceani, poi attraverso
processi industriali di conservazione, trasformazione, inscatolamento, ciascuno
con rilevanti perdite di sostanze nutritive che diventano scarti da smaltire
come rifiuti.

Poi gli alimenti passano attraverso il sistema della
distribuzione, anch’esso caratterizzato da sprechi, si pensi alle merci
invendute o deteriorate o che superano i limiti di scadenza, che diventano
anch’esse scarti e rifiuti. Alla fine le sostanze nutritive, stimabili in un
quarto di quelle che la natura aveva prodotto, arrivano a casa nostra o ai
ristoranti e anche qui si hanno altri scarti e sprechi: in media, nel mondo,
100 chili per persona all’anno. Indagini della FAO, l’organizzazione delle
Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, indicano in 1,3 miliardi di
tonnellate all’anno il peso degli alimenti complessivamente sprecati, un terzo
di quelli disponibili, circa un decimo delle sostanze nutritive, caloriche e
proteiche, che la natura aveva prodotto con i suoi cicli ecologici.

Lo spreco alimentare è accompagnato da spreco di acqua,
quella che l’intero ciclo del cibo richiede per l’irrigazione e per i processi
di trasformazione: l’agricoltura infatti assorbe circa 10.000 miliardi di metri
cubi di acqua all’anno, una quantità enorme se si pensa che l’acqua dolce
disponibile nel ciclo naturale ammonta a 40.000 miliardi di metri cubi
all’anno. Non solo; l’enorme massa di scarti e rifiuti agricoli e alimentari si
trasforma nei gas anidride carbonica e metano che sono responsabili del
continuo, inarrestabile peggioramento del clima. Una grande battaglia
scientifica e culturale per comportamenti rispettosi «del prossimo», per
diminuire gli sprechi alimentari, assicurerebbe acqua e cibo a chi ne è privo.
La chimica e la microbiologia applicate agli scarti alimentari consentirebbe di
ricavae sostanze adatte per altri usi umani, con minori inquinamenti e minore
richiesta di risorse naturali scarse: una ingegneria e merceologia della carità
al servizio dell’uomo.

Nuova
visione

La
salvezza, insomma, va cercata in un «serio impegno di contrastare la cultura
dello spreco e dello scarto», di «andare incontro ai bisogni dei più poveri»,
di «promuovere una cultura della solidarietà». «Ecologia umana ed ecologia
ambientale camminano insieme». Sono le parole del Papa che è anche un chimico.

Giorgio Nebbia
11/06/2013, via email

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risponde il Direttore




Cari missionari

A proposito di Thailandia

Buon giorno,
sono quell’Andrea Panataro che avete ospitato, con lettera e foto, nel numero di marzo 2009 col titolo “Pallottole invece di medicine”. Conosco la Thailandia dal 1993, ci abito almeno 4 mesi all’anno, mi ha dato un nuovo modo di pensare, una moglie capoinfermiera ostetrica, un’attività umanitaria (vedi mia lettera marzo 2009) e tantissimo altro. Conosco il Paese come pochi altri farang (stranieri), sotto tutti gli aspetti.
Non condivido del tutto l’analisi del sig. Vecchia, che dipinge il paese come preda di una dittatura d’élite. Non è cosi. Nel paese non vi è, come da noi, oppressione fiscale nei confronti dei piccoli e piccolissimi operatori, ristorantini ecc., la vita non è cara neppure per loro e lo sanno benissimo, la scolarità è diffusa anche nei villaggi minori, la sanità è gratuita per tutti e costa poco anche per me che sono italiano, i trasporti di base sono capillari e il treno in 3 classe è gratis per i Thai. Questa è la realtà, constatata da anni con i miei occhi attenti ad ogni aspetto del Paese.
Invece, quello che proprio non condivido è l’immagine di paese di prostituzione che il Vecchia dipinge. In 18 anni, io non ho mai potuto constatare un fatto del genere, e non sono uno sprovveduto, ho girato il mondo dall’età di 22 anni. Esistono sì un paio di strade a luci rosse a Bangkok, frequentate da turistucoli e da vecchi deficienti, così come esistono pure anche ad Amsterdam e in tante altre città del mondo. Non parliamo poi delle nostre città italiane, di sera invase da prostitute e trans d’ogni genere. E non scordiamo soprattutto che da noi, unico paese al mondo, la prostituzione, anche minorile, vede coinvolte le più alte cariche del governo, come i processi attualmente in corso testimoniano.
Il luogo comune Thailandia=puttane è vecchio, falso e stantio come quello che dice Italiani=spaghetti e mandolino. E se poi fosse anche vero, potrà o no una donna adulta fare ciò che crede del suo corpo senza che, con spirito talebano, qualcuno vada a ficcare il naso in una cultura tanto diversa dalla nostra? Mi sento offeso nel sentire e leggere cose non vere nei confronti di un paese che amo profondamente, ed è giusto in ogni caso, dopo l’accusa, ascoltare la difesa. Cordialmente.
Andrea Panataro
Biella, 13 /6/2011

Nessun problema per la controanalisi del signor Panataro, con il quale non voglio entrare in polemica. Lui è libero di vedere e credere quello che vuole o può, come lo sono io di valutare (e come me organizzazioni inteazionali, gruppi per la difesa dei diritti civili e umani, società civile locale) il bene e il male del paese e scriverne, che è quello che farebbero i Thai se solo ne avessero la possibilità.
Non vedere la realtà di corruzione, nepotismo, sfruttamento e incapacità di evolvere da parte delle élite come della popolazione, implica delle scelte, avere delle ragioni che non necessariamente devono essere condivise. Quando mi si chiederà di scrivere un pezzo non sulle problematiche ma sulla bontà del paese lo farò volentieri.
Io ci vivo, in Thailandia, e ne amo la gente. Se per lavoro, status e carattere non sono autorizzato a “sparare a zero” su di essa, nemmeno posso accettare la pretesa che si tratti di un paese unito e felice, ignorare che viene gestito nemmeno giocando sulle regole che si è dato ma sulle sue contraddizioni.
Se a guidarlo sono regole “loro” e a loro funzionali, come continuamente si inculca nei Thai e si vorrebbe inculcare nei farang, non sono certo universali come si vorrebbe far credere. Oggi non sono nemmeno più condivise: certamente non dalla maggior parte della popolazione che vede crescere il divario economico, sociale e culturale tra essa e le vecchie e nuove élite. Questo, e un culto, ormai smodato e indicato come antidoto a una vita senza prospettive, del denaro, incentiva anche la prostituzione, tollerata tra cultura e necessità; questo riempie di materia prima i bordelli dei thailandesi e dei turisti del sesso.
Un caro saluto
Stefano Vecchia
da Bangkok

UN ANGELO
SEMPRE IN FESTA
Zio Vito carissimo,
martedì 7 giugno (2011) ci hai salutati dopo una strenua lotta, durata quasi dieci mesi, per non lasciarci e quanto avremmo  tutti desiderato poter godere ancora della tua gioia di vivere e del tuo entusiasmo! Ecco un primo tratto della tua straordinaria personalità: uno smisurato affetto per tutti a partire da tua moglie Elsa. C’è un’altra tua caratteristica che ricordo con nostalgia: costruire e riparare utensili, inventare giocattoli ed altri oggetti funzionali con materiali di recupero per risolvere qualche necessità pratica della vita in campagna, che nel corso di tutte le stagioni richiedeva operazioni innumerevoli e diversificate nei vari luoghi. Quanta passione per la terra ed i suoi doni, per il vino e per la grappa! Quanto entusiasmo per i pomodori, i cetrioli, le cipolle, ecc.! Quanta dedizione alle rose, al giuggiolo, alle zinnie, alle dalie, ai gerani e all’aspidistra! Quanta cura per l’alimentazione degli animali! Quanta attenzione alla pulizia e all’aria nel granaio per la conservazione ottimale di quanto veniva depositato per l’inverno!
L’impegno come contadino, onorato in modo sublime, non ti ha distolto da tanti altri interessi come quelli per le vicende storiche di cui le terre veneta e friulana sono state testimoni, per la lettura di Missioni Consolata, la Madonna di Castelmonte, Famiglia Cristiana e qualche quotidiano, per portare la mente e il cuore alle vicende nazionali ed inteazionali e per conoscere la cronaca che tante indignazioni ti suscitava. La tua chiamata per il «cielo», il non luogo dove si vivono felicità, gioia di stare insieme, creatività incessante, incanto e sorpresa, ci lascia tutti più soli, ma sappiamo che insieme ai nonni e a mia mamma hai formato una squadra pronta ad intervenire e ad intercedere per noi che, nella passione per la vita, troviamo tante difficoltà da superare e tanti contrattempi. Continuiamo quindi a contare su di te ed abbiamo la certezza che farai tutto il possibile ed anche l’impossibile. Grazie per la tua fede indomita che non ha mai avuto cedimenti ed il rispetto per chi ha dedicato la vita al nostro Padre Celeste, seguendo il modello del Figlio Gesù. Grazie per l’affetto ai sacerdoti e religiosi, con particolare riferimento ai nostri parenti come suor Anna Prosdocimi, fratel Agostino De Gaspari, suor Gianna e suor Luisetta Scapin. Zio Vito meraviglioso, è stato un onore crescere con te ed aver goduto del tuo affetto, della tua sensibilità e delle tue lacrime di commozione! Aiuta i tuoi familiari ed anche me ad imitarti e a dare continuità alle passioni che hai coltivato, al bene enorme che hai fatto e all’amore che hai regalato senza risparmiarti.
Tua nipote Milva
Collegno, 4 luglio 2011

KWAHERI,
PADRE TONY
Il 12 agosto scorso, a Nairobi, è morto p. Antonio Bellagamba, nativo di Gambettola. Aveva 84 anni. Su Facebook molti giovani lo hanno ricordato. Tra gli altri.
«Ho incontrato p. Tony per la prima volta nell’Istituto di Filosofia a Nairobi, dove ci insegnava psicologia. Era un uomo dall’aspetto modesto con una vena umoristica senza fine. I suoi sandali – che calzava anche quando aveva il vestito bello – rivelavano una persona che non aveva molti bisogni materiali. Il portamento confidente suggeriva uno che conosceva da dove veniva e dove stava andando. La sua risata schietta diceva che si trovava bene con i confratelli, la sua gente e con quanto la vita gli aveva fatto passare. Riposa in pace».
Kodi Bartholomew
«Quando parlava della fondamentale importanza dell’intimità con Cristo, non diceva solo una teoria, ma esprimeva la convinzione profonda di un missionario pieno di passione».
Julie Muya
I giovani del Consolata Shrine di Nairobi hanno condiviso la foto (qui sotto), fatta al termine del ritiro quaresimale 2010.

OFFRO
ABBONAMENT0
Gentile Redazione,
Vi sarei grata se poteste inviare la Vostra bella rivista alle suore Clarisse di Pollenza. Per questo aumenterò la mia offerta annuale visto che le suore non sono in grado di permettersi l’abbonamento alle riviste missionarie ma desiderano molto informarsi su quello che succede nel mondo. Vi ringrazio infinitamente e Vi auguro buon lavoro
Marina Colacchi
via e-mail 06-07-2011
Grazie di cuore per il sostegno alla rivista attraverso il bel gesto di offrire un abbonamento alle suore Clarisse che con la loro preghiera sono sempre molto vicine ai missionari.




Cari Missionari

 

Magnifica

La rivista «Missioni Consolata» è magnifica più che mai.
Bella l’idea della storia in fumetti. E la cosa che più di tutto Vi rende
rispetto è l’imparzialità religiosa. È evidente che lo Spirito che ci guida è
grande.

Cordiali saluti

Marcello
D’Acquarica
03/05/2015

Il sale non ha perso
sapore

Caro padre Gigi,
domani, 17 maggio, padre Paolo Dall’Oglio compie sessant’anni e mezzo e
desidero rivolgergli gli auguri con le parole dei suoi familiari pubblicate il
17 agosto 2014: «Caro Paolo ti vogliamo bene e continuiamo con insistenza e
speranza ad aspettarti». Non ci sono notizie certe sulla sua sorte dal 29
luglio 2013 ma il suo impegno per costruire legami, tenace e non privo di
rischi, continua attraverso tutti coloro che lo condividono. «Il sale non ha
perso sapore» come affermi nell’editoriale di maggio. I massacri perpetrati
contro i cristiani sono innumerevoli, e non solo nei territori che sappiamo, ma
anche nel nostro mondo, nella nostra nazione, nella nostra città, nei nostri
luoghi di lavoro, pur in forme diverse. La testimonianza della libertà di fede
e di pensiero richiede una scelta che è quotidiana ed è contrastata da tanti
ostacoli, spesso occulti ma non meno micidiali di quelli visibili. Quella
violenza che invoca la «crisi sacrificale», indicata da R. Girard come ipotesi
esplicativa riguardo all’origine della cultura e dell’ordine sociale, continua
ad essere vitale, a rigenerarsi e ad assumere le forme più varie, cercando
vittime espiatorie per placarsi. Decidere di essere cristiani costituisce
quindi un progetto da rinnovare costantemente, da monitorare e da purificare
per mantenerlo cristallino e capace di avere le caratteristiche di lievito e
sale, nonostante le avversità, previste ed impreviste.

Ancora una volta ti ringrazio per le vitali provocazioni
e ti invio moltissimi saluti!

Milva
Capoia
16/05/2015

«Ancora
un sacerdote rapito in Siria. Padre Jacques Murad, della comunità di Mar Musa, è
stato rapito a Qaryatayn, dove è priore del monastero di Mar Elian (affiliato a
Mar Musa) e da dodici anni guida la locale parrocchia siro-cattolica». Così ha
scritto Avvenire il 23 maggio 2015. Un altro sacerdote nelle mani dei
jihadisti, a condividere le sofferenze di centinaia di cristiani anonimi
perseguitati, umiliati e uccisi in quelle terre senza pace, anche a causa delle
politiche miopi e frammentate dei nostri grandi governi democratici.

Ripartire da ieri

Buongiorno a voi,
è appena uscito il mio libro sul volontariato internazionale, pubblicato dalla
Emi. È inserito nella collana Antropolis, diretta da Marco Aime, e Alex
Zanotelli ne ha scritto la prefazione. In esso racconto la mia esperienza del
2003, anno che ho trascorso cornordinando un progetto di sicurezza alimentare nel
Sud dell’Etiopia. Espongo severe critiche alle modalità odiee di fare
cooperazione, con le Ong ridotte ad anonime agenzie concentrate sul fund
raising
e su un’acritica attività di esecutrici degli interventi più
facilmente graditi (e quindi finanziati) dai donatori. Cerco però sempre di
attenermi a uno stile propositivo. Sono infatti convinto che il volontariato
internazionale non vada abbandonato, ma rilanciato in un’ottica di scambio.
Mentre gli africani possono beneficiare di alcuni nostri interventi, allo
stesso tempo noi abbiamo bisogno di imparare da loro, così da recuperare la
capacità di tenere duro, di vivere in spinta, di accogliere la vita con
ottimismo anche nelle situazioni più difficili, al fine di ridare ossigeno alle
nostre società sempre più grigie e disincantate, ben diverse da certi contesti
di fervente attivismo osservabili a Sud del Sahara.

«Ripartire da ieri» non è solo il titolo del libro, ma
un’idea, un progetto che pian piano mi si è abbozzato nella mente. Incontro
infatti un numero crescente di persone che denunciano, nei loro settori, lo
stesso appiattimento da me constatato nell’ambito della cooperazione. Oltre a
molti volontari inteazionali, quindi, c’è tutta una schiera di persone
(impegnate in politica, nella scuola, nella Chiesa, nell’assistenza, ecc.) che
vorrebbero fermarsi un attimo per recuperare le motivazioni e gli ideali
lasciati da parte in quanto affrettatamente considerati obsoleti e
inconcludenti. «Ripartire da ieri» non è né un’idea anacronistica né un moto
nostalgico, ma una necessità di riappropriarci del patrimonio valoriale che ci
serve per andare avanti in maniera più sensata e più determinata, senza
accontentarci di ruoli stereotipati da «timbratori del cartellino».

Visto il taglio della vostra rivista, alla quale sono
abbonato da diversi anni, penso che condividerete quanto da me sostenuto nel
libro. Ritengo che esso possa servire a rivitalizzare il dibattito sul
volontariato internazionale che ultimamente sembra purtroppo passato in secondo
piano.

Ringraziandovi per l’attenzione, vi invio i miei migliori
auguri per tutte le vostre attività!

Alberto
Zorloni
09/05/2015

Del
libro di Zorloni, certamente parleremo in un prossimo numero di MC.

Complimenti

Egregio signor Daniele Romeo, mi permetto di disturbarla
per complimentarmi con lei per il suo articolo su Cuba, pubblicato sulla
rivista MC 5/2015, che qualche giorno fa mi è capitato tra le mani a casa dei
miei suoceri, abbonati. È solo la prima parte e non vedo l’ora di potee
leggere la continuazione. Mi è sembrato di essere un suo compagno di viaggio e
di scoprire il paese come solo un viaggiatore (forse anche un po’ viandante) può
osservare. Grazie, è riuscito ad interessarmi e ad incuriosirmi! Complimenti

Antonio
Testa
16/05/2015

Bello perché vario

Il mondo è bello perché è vario. Io per esempio riguardo
al bollettino dedicato al fondatore dell’ordine, la penso molto diversamente da
chi lo definisce «inutile» e «troppo acriticamente agiografico» (cfr. MC n.
5/2015 p.5). A costo di apparire retorico, dico che gli allegati sull’Allamano
sono come tanti piccoli giornielli e il giorno in cui la loro pubblicazione verrà
sospesa sarà un giorno molto triste. Gli articoli del bollettino mi hanno
insegnato sempre tante cose, a cominciare dall’umiltà e dalla passione per
l’evangelizzazione, aprire il bollettino è come immergersi in un tempo diverso,
in una Torino diversa, in un’Italia diversa, in un mondo diverso.

Ed è un’immersione tutt’altro che banale; direi invece
che ha un benefico effetto «ridimensionante» e ristoratore.

Distinti saluti

Domenico
Di Roberto
19/05/2015

Leggi criminogene

Visto che il giudice Caselli ha citato la Nota
Pastorale Cei
del 04/10/91 (cfr. MC n. 4/2015 p.32), vorrei citarla
anch’io:

«Se si pensa infine» – dicono i vescovi italiani alla
fine del paragrafo 9, significativamente intitolato Meno leggi più legge
– «alla stretta connessione che intercorre tra moralità e legalità, non si può
non attribuire anche ad alcune leggi civili, come ad esempio quelle sul
divorzio e sull’aborto, la responsabilità di alimentare una cultura
individualistica e libertaria; anzi, queste stesse leggi permettono la
trasgressione morale, abbassano e deformano il senso della legalità. In realtà è
del tutto impossibile togliere la valenza educativa, o positiva o negativa,
della legge…».

È solo per dire al giudice Caselli che la lotta contro la corruzione va
condotta non solo con il sostegno ai tutori della legge, ma anche attraverso
l’impegno per l’abolizione di alcune leggi «criminogene» (questo aggettivo non
l’ho inventato io; il giudice Caselli sa che anche tra i suoi colleghi c’è chi
sta conducendo una battaglia molto decisa contro la criminalità
legalizzata…).

Chiaramente i giudici che, invece di contestare le leggi
criminogene, le applicano come se fossero buone leggi, diventano alleati
del crimine. Anche i tribunali possono essere covi di malfattori: come definire
diversamente il tribunale di Savannakhet, in Laos, che ha assimilato la
preghiera per i malati ad «abuso della professione medica» (cfr. MC n. 4/2015
p.9)? Come definire diversamente i tribunali pakistani, che condannano a pene
pazzesche i cristiani in base alla legge contro la blasfemia e assolvono i
responsabili delle aggressioni e delle lesioni con l’acido, che ogni anno
costano la vista e molto altro a centinaia di donne colpevoli solo di aver
detto no a corteggiatori prepotenti e violenti?

Come definire legale e morale il comportamento della
grande Germania, che il problema della prostituzione ha creduto di risolverlo
legalizzando le case chiuse e lucrando a colpi di tasse sulla depravazione
sessuale?

Come definire legale la linea di quei nostri politici, di
destra e di sinistra che, accampando vari pretesti (non ultimo quello del
risanamento dei conti pubblici), vorrebbero imitare proprio la Germania?

Distinti saluti

Giovanni
De Tigris
01/04/2015

MC in carcere
Buongiorno,

sono don Osvaldo Bonello, cappellano del carcere di
Cuneo.

Conosco la vostra rivista, ricca e varia nelle tematiche
affrontate, attenta al nostro mondo «globale» e sempre più piccolo. In carcere,
si sa, sono molti i ragazzi africani o comunque extra europei, anche parecchi
di fede cristiana. Il livello culturale nello spazio carcerario è basso e le
occasioni di crescita pochissime. Sarebbe un grande dono poter avere
mensilmente 1/2 copie di MC. Forse entra già in qualche carcere. Faccio
affidamento sulle vostre possibilità oggettive poiché non mi è possibile fare
abbonamenti. Mi rendo ben conto delle fatiche economiche che certamente dovete
affrontare. In ogni caso vi ringrazio dell’attenzione.

Confidando nell’intercessione del beato Allamano, vi
auguro un fecondo lavoro al servizio del Regno.

Don
Osvaldo
20/04/2015

Per
noi è davvero un piacere inviare la rivista a don Osvaldo. E più di una copia.
Se qualcuno dei nostri amici condivide l’idea, una mano è sempre benvenuta. Se
altri cappellani hanno la stessa esigenza, si facciano vivi. «Là c’è la
Provvidenza». Occorre crederci.

Liturgia, Vangeli e
Storia

Al sig. Giuseppe Corti che scrive su «Franchezza sulla
Chiesa» (MC n. 5/2015 pp. 5-6) con accorati accenti e criticità, vorrei dare
una mia sensazione più che una risposta (N.b.: sottotitoli redazionali, ndr).

Questione antica

La questione della Liturgia è antica quanto la stessa
comunità cristiana ed è sempre stata in «movimento» perché tocca
inevitabilmente l’antropologia e la psicologia umana che, come tutti possono
constatare, si rimodulano in modo diverso in tempi diversi. In altre parole,
nella Liturgia «la persona umana» è coinvolta con atteggiamenti, parole e
gesti, e di conseguenza ciò comporta un innesto nei tempi della storia, nella
cultura dei diversi paesi, nella psicologia delle singole persone. Tutto ciò
nella storia ha prodotto progressi logici, ma anche conflitti terribili e
guerre di religione a non finire.

Il principio

È vero che nel Vangelo non si trovano disposizioni
liturgiche e rituali preconfezionati e che anche per l’Eucaristia si trovano
ben tre formule diverse delle parole di Gesù sul pane e sul vino. Non bisogna
scandalizzarsi, ma nemmeno tirare conclusioni indebite, perché il Vangelo non è
un ricettario o un dizionario alfabetico dove si trova «tutto».

Il Vangelo è «il Principio» che fa sprigionare
l’orizzonte, che, nella dinamica di un nuovo modo di relazionarsi tra gli umani,
basato sulla frateità (Regno di Dio/dei cieli), non espone regole o norme o
galateo e tanto meno un rituale. Sarebbe ben triste se così fosse, perché come
dice Gesù nella sinagoga di Cafaao in Lc 4: «Oggi si è adempiuta nei vostri
orecchi questa Parola». Oggi, vuol dire in ogni tempo e per tutti i tempi. Non è
solo l’oggi di quel giorno, di quel sabato, ma l’«oggi» dell’uomo che ascolta e
che cerca il volto di Dio come la cerva del salmo 42.

Liturgia e religione

La Liturgia è strettamente connessa alla religione che
si esprime attraverso due categorie storiche: il tempo e lo spazio. Poiché
l’uomo ha paura di tutto, della vita, della morte e della natura, sente
l’esigenza, il bisogno di ricorrere alla protezione della potenza di Dio con
cui stipula un contratto: tu, Dio, mi proteggi e io ti riservo un tempo sacro
(domenica) e uno spazio sacro (tempio/chiesa). Questi due contatti sono
collocati fuori della disponibilità umana perché sono gestiti «separatamente»
dai custodi del sacro, cioè la casta sacerdotale che assume su di sé il
privilegio (o la presunzione?) di parlare in nome di Dio. Da qui al rito
solenne, il passo è breve perché più la liturgia è solenne più si dà importanza
al tempo e allo spazio sacri, ma nello stesso più si espone Dio all’obbligo
della protezione.

Detto più semplicemente: in un regime di religione, che è
un bisogno umano come antidoto alla paura esistenziale, la Liturgia esige
teatralità per esprimere la partecipazione anche del corpo attraverso gesti, ritmi
e cantilene, che gli danno la sensazione di entrare nel mondo del divino da cui
è escluso per definizione: Dio non l’uomo.

Liturgia e fede

Diverso è il regime della fede che è un incontro con una
persona reale e sperimentabile. Per me è la persona di Gesù di Nazareth che io
ho incontrato attraverso l’esperienza degli apostoli e che ha segnato la mia
vita come quelle di moltissimi altri e altre. Mentre la religione si esaurisce
nel fatto materiale (andare a Messa, confessarsi, andare in processione, accendere
una candela, ecc.) e non esige adesione etica o sentimentale, la fede esprime
un rapporto affettivo che si consuma nell’innamoramento. Per cui la Liturgia è
tipica degli innamorati. Le persone innamorate vivono di desiderio, di fisicità,
di contatto, di scambio d’idee, di condivisione di sentimenti, emozioni, ansia,
tremore, paura, e tutto questo si traduce in «Liturgia» d’amore: il regalo
confezionato, il bacio inviato via sms, il linguaggio riservato ad esclusivo
uso degli innamorati, il modo di vestirsi o di scegliere il vestito in vista
dell’incontro con l’amante, la gestualità che è insita e istintiva tra
innamorati.

Liturgia cristiana

Se non si capisce questa distinzione, non è possibile
accedere alla Liturgia cristiana che, storicamente, si è sviluppata come
dimensione solo «religiosa», cioè esteriore, per controllare le masse, per
catechizzarle creando un modello di uniformità che è più facile gestire. Solo
alcuni piccoli gruppi e spesso solo singole persone hanno vissuto la Liturgia
come «teo-antropo-drammatica», che si nutre di dubbi più che di certezze, di
desiderio più che di ritualità, di silenzio più che di parola. Alcuni
monasteri, comunità di base, famiglie, piccoli gruppi parrocchiali o missionari
hanno, anche in mezzo alle persecuzioni ecclesiali, tentato e vissuto la
Liturgia come momento di coscienza, anzi, come «sacramento» (segno portatore)
dell’intima unione con Dio e con gli uomini e le donne del loro mondo.

La Liturgia fino al 1967 è stata prevalentemente un
rituale, dominato dalle «rubriche». Dopo, con la riforma di Paolo VI, in
ottemperanza al dettato del concilio Vaticano II, è venuta fuori una Liturgia
in lingua «volgare» (non si osava nemmeno dire «lingua popolare») che è stato
solo un timidissimo inizio, abortito immediatamente perché tutto si è arenato
per la paura di perdere il controllo della gente. Quindi si è subito inoculato
il virus del rimpianto e del ritorno indietro, perfettamente riuscito. Se si
prendono le preghiere eucaristiche in italiano, comprese le due anafore per le
celebrazioni con i bambini, è evidente che la forma è in lingua italiana, ma il
contenuto e la «mens» sono latini. Il liturgo si è preoccupato più
dell’integrità delle formule che non della partecipazione dell’Assemblea,
esautorando la stessa liturgia che è «lèiton èrgon – azione popolare»,
cioè collettiva.

Nella Liturgia latina, il popolo è assente: può solo e
sempre dire «Amen». Addirittura si è arrivati al ludibrio di confezionare
preventivamente la «Preghiera universale», cioè la preghiera dei fedeli che
dovrebbero potere intervenire liberamente, come sono ispirati sul momento o
come si sono preparati preventivamente. Invece in ogni Messa che si rispetti,
dopo il Credo, si tira fuori il libro che contiene tutte le preghiere dei
fedeli per ogni circostanza e si dicono cose senza senso a cui il popolo
risponde meccanicamente «Ascoltaci, Signore». Questo è ammazzare la Liturgia.

Il gesuita Matteo Ricci nel sec. XVII cercò di farsi
cinese con i cinesi, mandarino con i mandarini e per questo fu accolto con
rispetto e dialogo. Egli non impose la Liturgia romana, ma cercò di capire
l’anima cinese per esprimere il cuore di quel grande popolo anche nella
preghiera. Da Roma gl’imposero di mettersi la pianeta, il manipolo e di
osservare scrupolosamente il rituale latino romano. La Chiesa perse la Cina.

Unità e diversità

Non esiste una Liturgia unica per tutti, ma esistono
tanti modi per dire il rapporto con il Dio incarnato in Gesù Cristo quanti sono
i popoli e le culture nel mondo. La vera Liturgia esige la diversità come
condizione di unità, mai l’uniformità.

Il sig. Giuseppe Corti ci invita a riflettere, questo sì,
e gli siamo grati, a non addormentarci sul già visto, a purificare ogni tempo e
ogni epoca di ogni scoria e sovrastruttura per ritornare alla genuinità del
Vangelo per imparare a leggerlo e a viverlo con lo spirito e l’anima del nostro
tempo. Se Dio è in mezzo a noi, occorre che i cristiani lo testimonino anche
esteriormente, ma senza alterigia, affinché il volto del Padre possa essere
sperimentato nel volto di chi crede, perché risplende in esso «immagine del Dio
invisibile». Per fare ed essere questo, è necessario camminare coi tempi, se
vogliamo arrivare in tempo.

Paolo
Farinella, prete
09/05/2015

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