Noi e voi, lettori e missionari in dialogo

 


Taiwan 10 anni di presenza

Il 21 settembre 2024 è stata celebrata la festa per i dieci anni di presenza dei Missionari della Consolata a Taiwan. Le celebrazioni si sono svolte con una messa nella parrocchia del Sacro Cuore di Gesù, a Hsinchu, gestita dai missionari dal 2017.

L’inizio

Era il 12 settembre del 2014, quando tre missionari atterravano all’aeroporto Taoyuan di Taipei. Iniziava così l’avventura dell’istituto fondato da Giuseppe Allamano a Taiwan. I tre erano i padri Eugenio Boatella (Spagna), Mathews Owuor Odhiambo (Kenya) e Piero Demaria (Italia).

Oggi i missionari sono sette. Alcuni sono partiti e altri sono arrivati. Padre Jasper Kirimi, keniano, arrivato nel 2016, è l’attuale coordinatore dei missionari della Consolata a Taiwan. Con lui a Hsinchu, lavora padre Caius Moindi, anch’esso keniano.

I padri Bernado Kim (Corea) e Antony Chomba (Kenya) hanno preso in carico la parrocchia san Joseph di Xinpu, una città vicina a Hsinchu, mentre il padre Emanuel Temu (Tanzania) segue da alcuni mesi la parrocchia di Xinfong, la terza gestita dai missionari della Consolata a Taiwan. I padri Thiago Jacinto da Silva (Brasile) e Pablo Soza Martin (Argentina) stanno attualmente studiando la lingua cinese.

La voce del vescovo

La celebrazione dei dieci anni ha visto la partecipazione del vescovo di Hsinchu, monsignor John Baptist Lee e del pro-chargé d’affaires della Nuziatura apostolica di Cina, Taipei, monsignor Stefano Mazzotti.

Nella lunga omelia, il vescovo Lee ha esordito dicendo: «Oggi è un giorno di gioia nel quale celebriamo dieci anni di contributi e sacrifici dei Missionari della Consolata nella diocesi di Hsinchu. Non si tratta di un periodo lungo nella storia della Chiesa di Taiwan, ma una volta arrivati in questa terra ci si scontra con grandi sfide e difficoltà e la Consolata, affrontandole, ci ha manifestato la grazia di Dio. Carente di vocazioni, la diocesi di Hsinchu è molto grata alla generosità della Consolata nell’aiuto al lavoro pastorale».

Il vescovo ha poi sottolineato come sia cambiata l’origine dei missionari: «Il Dicastero per l’evangelizzazione in Vaticano ha visto un grande numero di missionari africani lavorare in Europa, invertendo la regola per cui i missionari arrivati dal vecchio continente andavano a predicare in Africa. Adesso la buona notizia è che li vediamo arrivare in direzione di Taiwan, nella diocesi di Hsinchu».

Monsignor Lee ha chiesto ai cristiani locali di «lavorare con i missionari, supportarli e aiutarli nei bisogni della missione». Perché, ha detto rivolgendosi a loro: «Dopotutto, ognuno di voi è un missionario ed è vostro dovere partecipare all’evangelizzazione, vivendo a pieno la sinodalità».

La Consolata a Taiwan

Padre Jasper Kirimi dopo la celebrazione e la festa di condivisione ci dice: «È stato emozionante. In primo luogo, perché ho visto questi video con le testimonianze dei missionari che hanno lavorato qui (video di saluto e augurio sono stati mostrati dopo la messa, nda). Ho lavorato con tutti loro ed è passato un bel po’ di tempo. Quando io sono arrivato, non pensavo di stare tanto così, perché era davvero dura. Imparare questa lingua e la cultura così diversa. Invece sono ancora qui. In secondo luogo, la partecipazione oggi è stata davvero importante. Io penso che la gente sia venuta anche per la Consolata. Questo vuol dire che c’è un nuovo riferimento che aggrega i cristiani di Taiwan ed è proprio la Consolata. Giuseppe Allamano, che sta per diventare santo, penso che non abbia mai immaginato di arrivare fino a questa terra».

Padre Jasper conclude: «Taiwan è molto diversa da Africa e America Latina. Noi siamo qui per imparare un nuovo modo di fare missione».

Dall’Asia

Una delegazione dei missionari della Consolata dalla Mongolia, con padre Dieudonné Mukadi Mukadi (congolese), e dalla Corea del Sud, con i padri Pedro Han Kyeong Ho (coreano) e Clement Kinyua Gachoka, superiore della Regione Asia, è venuta a Taiwan per l’occasione.

Secondo padre Clement: «Siamo la presenza più recente nella diocesi. Dal 2014 a Taiwan sono passati undici missionari della Consolata, che voglio ringraziare per l’apporto che hanno dato.  È una presenza giovane, che ha affrontato tante sfide: la lingua, la cultura, la fatica di adattarsi. Dall’altra parte c’è stata la perseveranza che hanno avuto e la collaborazione con la Chiesa di Hsinchu, a tutti i livelli. La celebrazione dei primi dieci anni ci dà la speranza, che nonostante le sfide, le difficoltà e le paure, il cammino andrà avanti e la presenza sarà significativa».

Pensando al santo Giuseppe Allamano, Clement ci dice: «Siamo a un mese dalla canonizzazione e poco più di un anno dai cento anni della sua scomparsa. Penso che sia contento e ci guardi con orgoglio e stima, perché vede che stiamo camminando nella via dei sogni che lui aveva per la missione. Questo ci incoraggia a dare delle risposte alle sfide attuali della chiesa di Hsinchu».

Dopo la celebrazione la festa è continuata ed erano presenti anche i parrocchiani di Xinpu e Xinfong, oltre che diversi amici e membri di congregazioni venute anche dalla capitale Taipei.

 Marco Bello, da Hsinchu
(Taiwan) con l’aiuto di Lucia Ku (per le traduzioni), 21/09/2024 da consolata.org


E vissero felici al contrario

Alla redazione MC,
vorrei sottoporre alla vostra attenzione un fatto di cronaca accadutomi pochi giorni fa. Forse può essere di interesse generale, soprattutto in questo periodo di forti contrasti xenofobi.

Cronaca di un contropiede con gol da fuori area

Arrivo, di fretta, alla stazione alle 7:45 am, giusto il tempo di comprare il biglietto dal distributore automatico e prendere il treno per Lecce delle 8:00. Ma, disgraziatamente, per piccoli importi (2,5 euro) il distributore riceve solo monete o banconote da 5 e da 10 e io ne avevo solo una da 20. Cavolo, che fare? Piano A, cercare un bar vicino, ma, ahimè, nessuno aperto in zona. Piano B: salire sul treno senza biglietto. «No dai, prima piano C, se non va in porto torno al piano B»: chiedere se qualcuno mi cambia la banconota.

Tra gli astanti, una decina in tutto, molti bianchi e qualche africano. Chiedo a un africano, il quale, in un discreto italiano, mi risponde che non ha da cambiare e, senza aspettare ulteriori domande, mi chiede se devo andare a Lecce. Annuisco. Allora mi fa segno di avvicinarci al distributore e, senza dire nulla, digita la destinazione, tira fuori il suo portafogli e mette le monete necessarie alla compera. Mi ha pagato il biglietto! Sinceramente io sono rimasto di stucco, sorpreso, meravigliato. Ovviamente contento, ma allo stesso tempo pensavo, «Chi lo avrebbe mai detto, chi lo avrebbe pensato? Cosa sta succedendo in questo momento?». L’ho ringraziato ampiamente, ci siamo stretti la mano forte, gli ho detto che a Lecce avrei cambiato la banconota per restituirgli i soldi. E lui, pacatamente, sguardo gentile, sorriso sereno, ha detto educatamente di no, che non ce n’era bisogno.

Un africano semplice, sui 35 anni, vestito in forma decorosa, chissà se stava andando a Lecce per vendere ciò che aveva in un mini-trolley bianco un po’ malandato.

Il treno è arrivato. È arrivato anche un suo connazionale e si sono messi a chiacchierare mentre tutti salivamo sul treno. L’ho perso di vista.

Arrivati a Lecce lo ritrovo sulla banchina, gli dico «andiamo al bar a prendere un caffè», e lui, sempre molto decorosamente, declina l’invito. Insisto, lui pure. Mi dice «non c’è bisogno», con occhi gentili e direi felici.

Felice perché? Ha fatto la sua buona azione quotidiana? Ha messo il suo positivo granello di arena nel calderone dell’integrazione? Ci ha insegnato che nero non è uguale a male? (Tanto di moda ultimamente…).

Chissà se qualcuno dei miei compaesani avrebbe avuto lo stesso atteggiamento alla mia richiesta; chissà se, a parti invertite, io mi sarei comportato allo stesso modo. Sta di fatto che lui ha segnato un piccolo grande spartiacque nella nostra ideologia contemporanea.

La gentilezza, l’educazione, la generosità non hanno colore. Se le coltivi, puoi avere la faccia nera, bianca o gialla ed è la stessa cosa. Se non le coltivi, puoi essere bianco, giallo, nero o meticcio e comunque non averle quelle qualità.

Anche perché per coltivare tutte quelle qualità che ci rendono veramente umani, basta avere il cuore e il cuore, si sa, è rosso per tutti.

Carmine Masciullo
Galatina, 01/09/2024

 




Noi e Voi, dialogo lettori – missionari


Sererit, grazie a padre Aldo

padre Aldo Giuliani

Caro padre Aldo (Giuliani),
vorrei esprimere il mio sincero apprezzamento per il tuo servizio a noi, la comunità Sererit della sotto contea di Samburu Nord. Tu ci hai dato uno dei servizi regolari più affidabili. Da quando la Chiesa cattolica ha inaugurato Sererit nel 1999 nell’area dello Ndoto (sulle Ndoto Mountains – le Montagne del sogno, ndr), sotto la tua guida come parroco, ha offerto servizi di altissima qualità e anche di sostegno umanitario alla comunità di Sererit e dello Ndoto in generale.

Scrivo per esprimere la mia sincera gratitudine per il grande impegno, la devozione e la leadership che hai dimostrato per le nostre comunità attraverso la tua guida spirituale e i tuoi insegnamenti. Hai condiviso la parola di Dio con i membri della nostra comunità. Grazie per la tua umiltà, integrità e dedizione che hanno creato un ambiente amorevole e costruttivo per tutti, specialmente per i giovani.

Io e il governo della contea Samburu abbiamo riconosciuto con apprezzamento la cura, l’amore e il sostegno offerti ogni giorno dalla parrocchia cattolica di Sererit attraverso i servizi di assistenza sanitaria nel dispensario grazie alla tua iniziativa personale. Riconosciamo i programmi sanitari della chiesa, compresi il trasporto gratuito di malati fino all’ospedale di livello quattro della sotto contea di Baragoi (da due a tre ore di macchina su una pista tra le montagne, ndr) e le cliniche gratuite per la salute delle madri e dei neonati.

L’istruzione è davvero uno degli strumenti più potenti per ridurre la povertà e la disuguaglianza nelle nostre società. L’istruzione allevia ulteriormente la povertà in quanto produce manodopera qualificata e crea un atteggiamento giusto per il lavoro e lo sviluppo.

In qualità di rappresentante della popolazione dell’area dello Ndoto, sono grato per gli investimenti che hai fatto nelle infrastrutture educative, tra cui l’illuminazione della scuola di Sererit e due dormitori per la scuola primaria, le due aule per la scuola secondaria di Lekeri, le due scuole materne per le comunità di Sererit e Lekeri. Apprezzo sinceramente anche il trasporto degli studenti delle scuole superiori da e per Baragoi durante l’apertura e la chiusura della scuola. Le borse di studio a oltre 200 studenti che studiano in vari college e università (a Nairobi o altri centi, ndr) sono riconosciute e molto apprezzate.

Normalmente si dice che «l’acqua è vita». Sono grato ai progetti idrici che hai avviato nello Ndoto. Questi progetti hanno migliorato gli standard di vita delle comunità locali promuovendo la buona salute e l’approvvigionamento di acqua potabile a distanza ravvicinata, (con grandi vantaggi) soprattutto per le donne e i bambini che vanno a scuola. Grazie per i progetti di approvvigionamento idrico a Maragi, Lkitagesi, Naisunyru e Sererit.

Panorama della missione di Sererit (p Aldo Giuliani)

Durante le gravi siccità, sei venuto in aiuto delle comunità dello Ndoto per restituire la dignità umana a coloro che soffrivano. Apprezziamo il cibo che hai fornito attraverso il sostegno della parrocchia. Hai anche facilitato i beneficiari del programma governativo nazionale «Inua Jamii» («solleva i vicini», ndr) che si sono trovati ad affrontare sfide per raggiungere (con sei e più ore di viaggio, ndr) la Kenya commercial bank (Kcb) a Maralal. Grazie infinite, reverendo padre Giuliani.

Esprimo anche gratitudine per aver impiegato una decina di persone per il lavoro della parrocchia. Questo ha migliorato direttamente lo status economico delle loro famiglie e indirettamente quello dei loro parenti. Apprezziamo anche la manutenzione delle strade (che hai fatto) con l’impiego di manodopera locale.

Guardando in avanti prometto la mia continua collaborazione e quella di sua eccellenza, il governatore della contea di Samburu, S.E. Lati Lelelit, in progetti di sviluppo per migliorare i mezzi di sussistenza delle persone.

Mi impegno a sostenere la parrocchia di Sererit nelle sfide che deve affrontare, in particolare nel settore sanitario. La nostra collaborazione avrà l’obiettivo di valorizzare i progetti di approvvigionamento idrico. Nel bilancio finanziario 2024/2025, il progetto di manutenzione Loikumkum è stato approvato, ci consulteremo e ci appoggeremo sulla vostra competenza tecnica durante l’attuazione di questo progetto.

Ancora una volta, grazie mille per la tua assistenza. Apprezzo molto la tua presenza e l’aiuto dato alle comunità dello Ndoto.

Onorevole Ali Lealmusia
Contea Samburu, Kenya, 19/06/2024

Leggi anche:

La misione sui Monti dei sogni (MC 05/2013)
Le meraviglie del passato, le sfide del presente (MC 05/2015)

Distribuzione cibo ai bambini

Accoglienza a nuovo visitatore

Festa e benedizione del campo sportivo

La missione sui Monti dei sogni

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Sconosciuto

Un libro avvincente che racconta storie di vita. Un affresco corale dove trovano posto le vicende dell’esistenza umana in relazione all’amore e al valore della vita. L’amore per Dio e per il mondo come quello della quotidianità vissuta nella missione di suore in Perù, che accoglie minori abbandonati. L’amore per la vita dei protagonisti Marta e Joaquin, due giovani alla ricerca di se stessi che si incontrano in un viaggio al Machu Picchu, senza sapere di dover poi condividere la medesima sorte inaspettata e vertiginosa.

Sono molti i personaggi e le storie che si intrecciano nel racconto, da Marta e Joaquin con le loro famiglie, a Bianca e Greta, le giovani ospiti della missione di suore in Perù. Sullo sfondo le due città europee di Milano e Madrid da dove vengono i protagonisti, entrambi poco più che ventenni, alle prese con la voglia di vivere e la sofferenza per quella figura paterna evanescente presentata loro dalle rispettive madri. Due i mondi a confronto: quello della moderna civiltà occidentale e quello tradizionale delle popolazioni indigene dell’America Latina.

Nel romanzo l’autrice riesce a cogliere e raccontare bene l’essenza delle istanze che appartengono ad ogni vita umana: l’importanza dell’elaborazione identitaria per la persona, la necessità di conoscere il volto della mamma e del papà che colmano naturalmente il desiderio di sentirsi amati e parte della famiglia umana. Di contro, l’avanzare veloce della società contemporanea che minaccia il senso identitario delle persone lasciandole in balia di un’odiosa sensazione di vuoto e disperazione che disorienta. Si smarriscono così il senso della misura e l’amore per la vita che educa ad accettare anche la sofferenza.

Luisa Rota

Se il racconto è di fantasia, non lo sono però le problematiche sollevate che penetrano nella solitudine e negli interrogativi che potrebbero sorgere in futuro tra i figli nati da fecondazione eterologa. Tema questo più che mai attuale ma volutamente ignorato o trattato con superficialità. […]

Con questo libro, che per ragioni personali è rimasto a lungo nel cassetto, ho voluto sollecitare alcune riflessioni. […] È difficile sviscerare motivazioni che hanno a che fare con sensibilità differenti, soprattutto quando il contesto va in una certa direzione, seguendo leggi ormai presenti in molti Stati europei e non. Ma c’è dell’altro che potrebbe succedere con queste tecniche di fecondazione, di cui non si parla e che solo un romanzo può mettere in evidenza, trattandosi ancora di una rarissima probabilità. A voi lettori scoprire di che cosa si tratta. Buona lettura.

Faccio notare che validi consulenti per la traccia logistica del libro sono stati diversi articoli della rivista «Missioni Consolata».

Silvana Ferrario
27/06/2024

Silvana Ferrario, Sconosciuto, edizioni Marna, Ponteranica (Bg) 2022, pp. 288, € 16.




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari


Siamo tutti fratel Argese

Si è concluso il 25 marzo 2024, con la premiazione il concorso dal titolo «Siamo tutti fratel Argese – la cura del creato» organizzato dalla onlus Nostra Africa, dagli amici dei Missionari della Consolata e con il patrocinio del comune di Martina Franca. Vi hanno partecipato le scuole di ogni ordine e grado del territorio cittadino. Il concorso è giunto aIla terza edizione.

Fratel Giuseppe Argese (1932-2018), nativo di Martina Franca e missionario della Consolata, è una celebrità in città dove è iscritto tra le persone «patriae decor» (cioè decoro della patria) sulla lapide all’entrata del palazzo ducale sede del municipio.

Ogni anno, dalla sua morte, l’onlus Nostra Africa in collaborazione con i Missionari della Consolata ne mantiene viva la memoria. Particolarmente attivo è padre Pio Callegari, che per diversi anni è stato nella stessa missione con fratel Argese ed è quindi la persona più adatta a divulgare l’opera meravigliosa di Mukiri (il silenzioso, come lo chiamavano i suoi amici africani) sia a Martina Franca che in diverse parrocchie di Taranto. Fin da subito fu presa in considerazione l’idea di una attività regolare per far conoscere, specie ai giovani a Martina, l’ideale e l’opera di fratel Argese, sia per il suo grande amore per gli africani che per il profondo rispetto e cura che aveva dell’ambiente, del creato (che si rispecchiava anche nella ricchezza e varietà del suo orto – vedi foto -, curato come un giardino, ndr).

È nata così l’idea di un concorso tra le varie scuole di Martina.

Queste le tematiche affrontate negli ultimi tre anni scolastici.

  • 2021- 2022: «Siamo tutti fratel Argese: l’acqua».
  • 2022 – 2023: «Siamo tutti fratel Argese: la siccità».
  • 2023 – 2024: «Siamo tutti fratel Argese: la cura del creato».

Ogni anno padre Pio, visita le scuole della città per presentare agli studenti di vario ordine la persona, gli ideali e il lavoro di Mukiri. La Nostra Africa, con il patrocinio del comune e associazioni/privati, ha finanziato tre premi di 1.000 € ciascuno.

Ecco i premiati di quest’anno (nelle foto qui di fianco):

1 C – Amedeo di Savoia

Perché gli elaborati grafici e multimediali degli alunni rappresentano coerentemente le problematiche ambientali e sociali del tema del concorso. Dai lavori emerge la consapevolezza delle sfide ambientali e sociali della società in cui viviamo e del suo futuro, l’individuazione del proprio ruolo di cittadinanza attiva per una nuova vivibilità della terra e della società.

1 C – Giovanni XXIII

Perché gli alunni, attraverso un e-book, lavori di animazione e un testo poetico hanno espresso con racconti fantastici, descrizione di esperienze e simulazioni, una conoscenza dei temi dell’ambiente originale e creativa auspicando la salvaguardia e la bellezza del creato.

Premio Siamo tutti fratel Argese 2024 (foto non in ordine preciso)

Istituto Maria Ausiliatrice – scuola primaria S. Teresa

Perché gli alunni hanno evidenziato nei lavori grafici e multimediali con consapevolezza l’importanza delle risorse naturali della terra ponendosi positivamente per un impegno responsabile e diretto nella cura dell’ambiente e delle sue specie viventi.

I premi verranno spesi per migliorie dell’ambiente scolastico.

La manifestazione è stata definita «interessante e lodevole» dal pubblico che ha letteralmente gremito la sala consigliare. La vicesindaca e gli assessori presenti si sono compiaciuti con gli ideatori e organizzatori del concorso per aver scelto una tematica attualissima che ha consentito a oltre trecento ragazzi e ai loro docenti di riflettere sull’attuale condizione del pianeta terra.

Margherita Martucci
Martina Franca, 13/05/2024

Giubileo di 75 anni

«La vergine mi inspira a fondare l’Istituto dei fratelli». Così affermava mons. Attilio Beltramino, missionario della Consolata, fondatore dell’Istituto dei Servi Cordis Immaculati Mariae (Scim). È un istituto di diritto diocesano, fondato dal primo vescovo della diocesi di Iringa in Tanzania nel lontano 31 maggio 1949.

Da allora sono passati esattamente 75 anni. È giubileo!

L’8 giugno 2024, festa del Sacro Cuore di Maria, si sono svolte le celebrazioni a Tosamaganga, dove sorge la casa madre dell’istituto. Quel giorno ha visto numerosissime persone, da diverse parti del Tanzania, radunarsi per ringraziare il Signore per le cose grandi che ha operato in questi 75 anni. Erano presenti il presidente della Conferenza episcopale del Tanzania mons. Gervas Nyaisonga, il nunzio apostolico mons. Angelo Accattino, l’arcivescovo di Songea mons. Damian Dallu, il vescovo di Iringa mons. Tarcisius Ngalalekumtwa, il vescovo di Mpanda mons Eusebius Nzigilwa e i nuovi vescovi di Njombe e Mafinga, Monsignori Kyando e Mwagalla (foto qui sotto).

«Il giubileo è un momento di grazia, ma anche un momento per chiedere perdono per non essere stati coerenti alla propria vocazione religiosa e alla vita cristiana. È soprattutto un momento per rinnovarsi, in modo tale che, celebrando il prossimo giubileo del centenario, possiamo essere cresciuti in numero e qualità», ha sottolineato il superiore generale dell’istituto fratello Christopher Chavala.

Mons. Nyaisonga nella sua omelia ha sottolineato l’importanza di avere Maria come modello, lei che ha avuto un cuore immacolato. «Colpisce, ha detto, notare che il fondatore ha voluto che i fratelli rispecchino Maria, cioè abbiano un cuore immacolato. Solo chi ha un cuore pulito, immacolato, può servire efficacemente la Chiesa e l’umanità».

Nell’occasione si è celebrato pure il cinquantesimo della vita religiosa del fratello Gaspar Chongolo.

L’istituto ha il carisma di servire l’umanità in modo olistico, cioè il corpo e l’anima in modo profondo e costante nella catechesi, formazione, educazione, edilizia, e sanità.

In questi 75 anni l’istituto ha contato 143 membri. Al momento presente ci sono 98 fratelli con voti perpetui, 45 professi, 12 novizi e 5 postulanti e 25 aspiranti. Svolgono il loro apostolato nelle diocesi di Iringa, Mbeya, Sumbawanga, Mpanda, Mwanza, Geita, Moshi, Mbulu e Dar es Salaam. Il beato Giuseppe Allamano, che sarà canonizzato prossimamente, in questa occasione avrebbe detto: «Carissimi fratelli Scim, il Signore vi benedica e dia coraggio, e avanti in Domino». Il bello deve ancora venire.

Baba Godfrey Msumange
13/06/2024 – Mafinga

Matteo, ciao

«Nessuno è ancora riuscito a spiegarmi come mai, durante la stagione dell’harmattan (un vento molto forte e polveroso, ndr), quando ti trovi polvere rossa anche fra i denti, i mucchi di cotone nei campi rimangono bianchi immacolati».

È questa frase la prima cosa che mi viene in mente quando penso a padre Matteo Pettinari.

Questa, e l’immagine di un cartone di uova appoggiato sulle gambe, sue e mie, mentre eravamo seduti nel doppio sedile per il passeggero tipico di molti 4×4, con padre Ramón Lázaro Esnaola (nella foto sotto) alla nostra sinistra che guidava da Dianra a Dianra Village, dove stavamo andando per visitare il centro di salute che Matteo accompagnava.

la mano di Chiara che tiene le uovo e quelle di padre Matteo che maneggia il tablet per pregare il breviario

Era mattina presto, saranno state le sei. Il cartone di uova serviva per il programma nutrizionale del centro e io tentavo di proteggerlo dai sobbalzi del 4×4 tenendolo fermo con le mani. Matteo lo bloccava invece con i gomiti, perché con le mani reggeva un tablet, dal quale leggeva le lodi mattutine: «Abbiamo giusto quaranta minuti di strada», aveva detto poco prima con un gran sorriso, quasi a infondermi un po’ di forza dopo aver constatato la mia aria non proprio vispa per via della levataccia, «è perfetto per iniziare con una preghiera questa bella giornata di sole».

Ho conosciuto Matteo lavorando all’ufficio progetti di Missioni Consolata Onlus, mi piace pensare che siamo cresciuti professionalmente insieme nel corso di oltre un decennio. Il rapporto di stima e di simpatia si era creato all’inizio via mail e via whatsapp, ma poi nel 2017 sono andata in Costa d’Avorio e lì ho avuto la possibilità di passare più tempo con lui visitando la missione, il dispensario e le sue casette della salute, la chiesa allora non ancora completata e la piccola ma vivace comunità di Sononzo.

Da quel momento, dopo averlo visto al lavoro e dopo le lunghe chiacchierate sulla Costa d’Avorio, sulla missione, sulla cooperazione, essere in contatto con Matteo non è più stato soltanto come seguire un bravo collega che presentava opportunità e problemi di lavoro, ma come ascoltare un amico con cui condividere, benché da lontano, difficoltà, soddisfazioni, timori, sogni.

Il suo modo di lavorare mi era piaciuto da subito: Matteo era preparato, studiava, si informava, sapeva con esattezza che cos’era un progetto, in tutto quello che faceva ci metteva cura, precisione, attenzione. Parlava un francese e uno spagnolo eccellenti, modulandone anche la pronuncia per avvicinarsi a quella dell’interlocutore e risultare sempre chiaro ed efficace.

Ma col tempo ho capito che c’era uno strato più profondo, che andava oltre la padronanza della lingua, o l’aver appreso e l’applicare una tecnica, o la semplice volontà di fare le cose bene: Matteo ci metteva quella cura perché sapeva che dietro ogni progetto, ricevuta, dato statistico, rapporto sulle attività, dall’altro capo di ogni connessione internet, c’era una persona. Un paziente, o un lavoratore del centro di salute, un collega, un confratello o un membro di un’associazione amica, un donatore, un benefattore, un parrocchiano.

Fare e dire le cose bene era il suo modo di dirti: io ho a cuore te e la relazione che creo con te, perché questa è la cosa più importante. Le relazioni e la loro capacità di costruire una comunità in cui nessuno sia più solo, in cui ognuno abbia dignità e si senta responsabile dell’altro. È per questo che lavorare con lui sfuggiva alla logica del semplice aiutare e assistere e diventava un condividere, un immergersi, un capire ogni volta un pezzetto in più: della Costa d’Avorio, di Dianra, del mondo e anche di noi stessi.

Quanto ho imparato da te, Matteo. Mi mancheranno molto i tuoi vocali: «Chiara, ciao, ho sentito i tuoi messaggi, ti rispondo al volo, che sto andando [al centro di salute, a un incontro, in chiesa, alla sottoprefettura, …], scusa, poi ci sentiamo con calma, però intanto dimmi: come stai?».

Mi mancheranno il tuo modo di prenderti cura, la tua ironia bonaria, fatta per sdrammatizzare, alleggerire. Mi mancherà la tua curiosità, la tua voglia di capire, il tuo costante sforzo di concentrarti su ogni persona e sul presente senza perdere la visione d’insieme e senza smettere di immaginare il futuro. Mi mancherà la tua intelligenza limpida e generosa.

Ciao Matteo, grazie davvero.

Il mio modo di portarti con me sarà fare del mio meglio perché non si rompa neanche un uovo, affinché tutti arrivino a destinazione.

Chiara Giovetti
14/06/2024 – Senigallia




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari


Un gigante della Missione

Gent.mo padre Gigi,
grazie per il ricordo di padre Oscar Goapper nel recente articolo (del sito rivistamissioniconsolata.it in occasione del 25° del suo passaggio al Cielo). Ricordo ancora quel pomeriggio del 1999 in cui mio papà, dispiaciuto e triste, mi comunicò la notizia, arrivata per telefono, della sua morte. Sapere che non c’era più, dopo così poco tempo da quella laurea con quegli anni di sacrifici e gioie che con amicizia avevo accompagnato come altri, era stato devastante.

Padre Oscar si era laureato in Medicina e chirurgia a Milano, Università degli studi, il 7 marzo 1994, con 110 e lode. Ricordo la commozione, non solo dei confratelli e amici presenti, ma anche dei professori che hanno ascoltato la sua tesi che parlava di Neisu.

Il 7 Luglio 1994 raccontava così il suo ritorno in Africa da medico e missionario: «Carissimi, alla fine sono tornato al punto di partenza, dopo viaggi con peripezie e qualche avventura che in Africa non mancano mai.

Il viaggio fino alla capitale Kinshasa, tutto regolare, il problema è l’aeroporto sommerso sempre nel caos, ma tutto è andato bene perché ci aspettava padre Celestino (Marandu) che ci ha accompagnato per fare tutte le pratiche, anche il visto d’ingresso dopo un’ora e mezza di attesa.

Dopo una settimana in capitale abbiamo preso il volo interno, in un altro piccolo aeroporto, dove tutto è calmo e tranquillo, un aereo a elica che ci ha portati attraverso il cielo africano fino a Isiro, dopo cinque ore di volo. Sull’aereo non si contano i 25 posti, ma i chili, così che più ne stanno e meglio è, la gente viaggia in piedi, accatastati uno sull’altro, tra le borse. Siamo in Africa e tutto è possibile.

Arrivati all’aeroporto nessuno ci aspettava, perché l’aereo era arrivato parecchie ore prima del previsto, poi il superiore ci ha dato l’auto e dopo qualche ponte avventuroso, dopo esserci fermati una ventina di volte lungo la strada per salutare la gente che accorreva dappertutto, siamo arrivati a 300 metri dalla missione. Qui la gente ha bloccato l’auto e sono sceso a piedi tra canti, urli di donne, lacrime, saluti, abbracci, spinte varie. Ho avuto paura e molta emozione allo stesso tempo. Vi confesso che in dieci anni non avevo mai visto i Mangbetu così, mi ha ripagato tanto delle pene, preoccupazioni, fatiche. Tutto, in un momento è stato cancellato».

Padre Oscar ha continuato ad operare e visitare fino all’ultimo giorno. Ha curato un orto di piante medicinali per sopperire ai medicinali che mancavano, ha dato tutto se stesso per la gente che passava per l’ospedale di Neisu, ha fatto crescere medici, infermieri che oggi continuano a dare aiuto, pace e speranza in quell’angolo di Africa dove è rimasto il suo cuore. Un grande grazie (come direbbe padre Oscar) a loro e a tutti coloro che permettono la continuazione di questa opera.
Grazie padre Oscar.  Grazie padri della Consolata per fare memoria e ricordare a tanti questo gigante della Missione.

Carlo
15/05/2024

 

Grazie del bel ricordo di un missionario che ha davvero dato tutto, anche la sua vita (1951-1999). È stato mio compagno di studi a Torino, l’ho visitato nell’83 a Neisu dove esisteva solo un centro di salute molto spartano (vedi le foto), che ha poi trasformato in un centro di eccellenza a servizio dei più poveri, nel cuore dell’Africa. Ricordarlo il 18 maggio è stato un momento bello anche per me mentre, con la memoria, visualizzavo quel posto così remoto trasformato da area di lazzaretti a centro che difende e promuove la vita.


A proposito di Beniamino

Ho letto con molto interesse l’articolo di Angelo Fracchia titolato: «Tamar, una palma nel deserto» (MC 04/2023). Se può avere un valore la mia opinione, condivido in toto il contenuto: bravo Angelo.

Mi permetto solo di suggerire una correzione descrittiva poiché, confrontando il testo biblico, risulta che Beniamino è nato durante il viaggio di ritorno di Giacobbe, nell’ultimo tratto prima di arrivare ad Efrata; il parto è stato drammatico per mamma Rachele perché lei morì subito dopo (Gen 35,16-20).

Questa precisazione mi permette di rilevare l’inesattezza della frase del testo di Angelo Fracchia dove scrive: «A questo punto del libro, Giacobbe ha undici figli (Beniamino non è ancora nato)». In verità la testimonianza di Tamar è descritta sì al cap. 38, ma precedentemente Giacobbe con tutto il suo clan ha trovato residenza al di là di Migdal-Eder (Gen 35, 21) e subito dopo il narratore descrive tutta la famiglia di Giacobbe precisando che ha avuto 12 figli, compreso Beniamino (Gen 35, 22-26).

Il cap. 36 è tutto dedicato alla discendenza di Esaù e il 37 inizia con la storia di Giuseppe e i suoi fratelli tra i quali già vive Beniamino.

Storia che però viene interrotta, come scrive giustamente Angelo, col cap. 38 per fare spazio alla drammatica esperienza di Tamar e di Giuda, alla quale Angelo fa un commento che, a mio avviso, non fa una piega.

So che l’imprecisione descrittiva che mi sono permesso di sottolineare, non toglie nulla al bel commento di Angelo. Potrebbe anche essere che, non essendo io un biblista, mi sia lasciato sfuggire dei particolari che invece confermano che Beniamino non fosse ancora nato; casomai chiedo venia.

Comunque sia, il commento di Angelo è molto bello. Scusate il mio essermi intromesso. Buon lavoro.

Luigi Guarisco
13/05/2024

Bravo a Luigi Guarisco, e non solo in riconoscenza per i troppo generosi complimenti. Disattenzione mia abbastanza rilevante di cui chiedo scusa, ma che è anche l’occasione per ringraziare commosso per tanta delicata attenzione. Mi resta da capire come abbia potuto incorrere in una simile scivolata, ma sono veramente grato per la doverosa correzione.

Angelo Fracchia,
13/05/2024


Da semplice chiesa a cattedrale

Egregio direttore,
un saluto a lei, ai suoi lettori e un augurio di pace a tutti.

Mi chiamo Bertillo Possamai. Sono abbonato a MC da moltissimi anni. Inoltre, sono un ex allievo dei Missionari della Consolata, avendo frequentato la scuola media a Biadene (Treviso).

Dei missionari, miei educatori e professori, conservo un costante e riconoscente ricordo. I padri Tullio Bosello, Adolfo De Col, Domenico Pizzuti e altri, me li porto ancora nel cuore. Il loro esempio di dedizione mi accompagna ancora oggi, anziano di 84 anni.

Un detto latino recita: «Non scholae sed vitae discimus» (non si studia per la scuola, ma per la vita). È anche il mio caso. Questo grazie ai miei maestri missionari.

Porto nel cuore, in modo speciale, anche padre Angelo Pizzaia, mio compagno di scuola a Biadene. Dopo diversi anni ci siamo ritrovati, lui missionario in Tanzania ed io geometra a Vidor (Treviso). Un giorno padre Angelo mi disse:

– Bertillo, perché non manifesti il tuo spirito missionario con qualcosa di concreto.

– Che cosa intendi dire, Angelo?

– Tu sei un geometra. Perché non disegni una chiesa per il Tanzania?

Disegnai una chiesa da costruirsi nella modestissima missione di Mafinga, diocesi di Iringa. Sempre a contatto con i missionari della Consolata. Per diverso tempo ho fatto la spola tra il mio studio di geometra a Vidor e la chiesa in costruzione a Mafinga (vedi foto sotto). E non mancavo di incontrare il mio compagno di scuola, padre Angelo. Il nostro incontro era sempre una festa, dove non mancava una bottiglia di Prosecco, che mettevo in valigia per l’occasione. Ma, se io edificavo una chiesa, padre Angelo «edificava la mia persona» (insieme alla mia famiglia) con la sua generosità e la sua fede cristallina.

Quando nel 2018 padre Angelo Pizzaia morì, dopo aver annunciato per tanti anni il Vangelo nelle diocesi di Iringa e Dar es Salaam, il suo funerale a Onigo (Tv), suo paese natale, lasciò un segno profondo.

Sto scrivendo questa lettera a Dar es Salaam, mentre mi appresto a ritornare in Italia. Lo credereste? Quella stessa chiesa, che io terminai nel 2003, oggi è una cattedrale con un nuovo vescovo, Vincent Mwagala, la cui consacrazione è avvenuta il 19 marzo 2024. Ed io c’ero con mia figlia Simona, il genero Gianni e l’amica Ivana. Una celebrazione che dire solennissima è poco. Al termine il nuovo vescovo mi disse: «Geometra Possamai, grazie. Se non ci fosse stato lei, non ci sarebbe neppure questa cattedrale ed io non sarei vescovo».

Bertillo Possamai
25/03/2024, Dar es Salaam


Che possiamo fare?

Da quindici mesi sono nonna di un cucciolo, Jonatan, che è la gioia e l’interessamento di tutta la famiglia. La dedizione della sua mamma è totale e a volte a rischio della sua stessa salute.

Sarà forse per questo che i fatti di Alessia Pifferi e la sua condanna all’ergastolo mi hanno colpito in modo spropositato. E il mio cuore non trova pace: Alessia ha lasciato morire la sua bimba di 18 mesi, abbandonandola sola in casa, senza assistenza alcuna.

I neonati sopravvivono solo se attorniati dall’interessamento affettuoso di quelli che stanno loro intorno. La mamma e la sorella di Alessia hanno esultato per la sua condanna all’ergastolo. Non sta a me giudicare se sia una condanna esemplare, oppure no. Ma questi fatti chiamano in causa tutta la società. Possibile che nessuno si sia reso conto che questa mamma così insussistente rispetto ai propri doveri, avrebbe dovuto essere supportata? Poteva essere segnalata ai servizi sociali! C’è una dimensione di corresponsabilità che riguarda ognuno di noi!

Le nostre città nascondono persone fragili che possono far male a se stesse o agli altri. Sappiamo essere attenti a quelli che ci stanno attorno? A volte non conosciamo neanche il nostro vicino di pianerottolo. Passiamo indifferenti davanti al mendicante che porge il cappello per l’elemosina.

Siamo ancora cristiani? Siamo ancora umani? Chissà quanti altri casi simili nascondono le nostre anonime città: non è sufficiente scandalizzarsi quando diventano fatti di cronaca nera.

È necessario prevenire. Cosa possiamo fare nel nostro piccolo?

Mira Mondo,
maggio 2024

Cara Mira,
come lei sono anch’io pieno di domande e faccio fatica a trovare risposte. Nonno anch’io – almeno per età – vengo da un mondo dove la privacy non si sapeva cos’era, le case avevano le porte aperte, tutti sapevano tutto di tutti e i bambini giravano in libertà. Mi rendo conto che, invece, oggi abbiamo un sistema di vita che ci vuole isolare e tagliar fuori dalle relazioni di vicinato per trasformarci in un branco di consumatori anomini che riempiono i centri commerciali, gli stadi, le spiagge e le piste da sci.

Sono ammucchiate per poterci spremere, senza darci però il tempo di relazioni umane profonde, di interessarci gli uni degli altri o farci carico delle gioie e dolori reciproci. E così succedono fatti come quello di Alessia, ma anche come quelli di anziani che vengono trovati morti nella loro casa dopo giorni se non mesi. Che fare?

Come cristiani abbiamo un «luogo» che può aiutarci a guarire le nostre relazioni: la parrocchia, nel suo significato originale di «vicinato». Lì, celebrando davvero la «domenica» come famiglia di Dio, nell’ascolto della sua Parola e facendo festa insieme come fratelli e sorelle, possiamo trovare l’energia per rinnovare le nostre relazioni in una logica di amore e di cura reciproca.




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari


PADRE MATTEO, IL MISSIONARIO INNAMORATO

Carissimi amici,
ho in mano la rivista di aprile e sfoglio il dossier sulla chiesa a Dianra (Bellezza che evangelizza. Una chiesa inculturata in Costa d’Avorio), ricordando la gioia di padre Matteo Pettinari quando gliel’abbiamo inviata in anteprima.

Contemplo la Gerusalemme del cielo, dove la vita di comunione non ha fine, e chiedo aiuto al Signore per tutti noi, straziati dal dolore: padre Matteo, il 18 aprile scorso, ha avuto un tragico incidente stradale ed è entrato in quell’abbraccio d’oro. Ci siamo arrabbiati col Signore, ci siamo sentiti soli e persi, abbiamo pianto, di rabbia e dolore.

È il dolore della famiglia Pettinari per la perdita del caro Matteo, figlio e fratello amato, è il dolore della nostra Chiesa diocesana di Senigallia e di tutti gli amici di oggi e di sempre, è il dolore dei Missionari della Consolata, è il dolore di tutta la comunità di Dianra, mentre il volto di Matteo torna al cuore, con tutta la sua straordinaria bellezza di pastore innamorato: innamorato del Signore, della Chiesa, della sua missione, di ogni uomo e ogni donna che incontrava sul cammino. Il volto di Dio che si fa accanto, che dà la vita per tutti, che ci viene a cercare.

E allora attraversiamo con Matteo questo tempo di dolore, e dopo la rabbia e la disperazione, dopo l’assenza che sentiamo, piano piano arriva la Consolazione per ciascuno di noi. E Matteo manda segni in ogni momento tanto da farci esclamare: Matteo c’è! Continua a essere tra noi in modi e forme che scopriamo ogni giorno. Ci sorprende venendo ancora a «scomodare» le nostre vite e a non farci fermare.

È lui stesso a donarci parole per trasformare il dolore in una strada che ci fa sentire sorelle e fratelli del mondo intero. Condivido con voi uno stralcio di un audio che padre Matteo ha inviato a una amica per Pasqua.

«A me fa tanto bene sprofondarmi in questo pensiero:
Cristo ha trasformato la morte da un sepolcro chiuso, sigillato, in una porta spalancata.
La pietra che rotola via, quindi, il sepolcro aperto, sono il segno del fatto che con Lui, in Lui, e per Lui, per chi crede in Lui, per chi vive veramente gettando il cuore dentro la Sua vita, cercando di accoglierla giorno dopo giorno, la morte è una porta spalancata
verso un futuro tutto da scoprire, tutto da vivere.

Allora è bello pensare, e credere, e anche fare l’esperienza
che tutti i nostri cari che bruscamente o dopo una malattia,
in maniera per noi incomprensibile, ci hanno lasciato,
è bello sapere che per loro si è spalancata questa porta
ed è iniziato un nuovo percorso, una nuova vita, tutta da vivere,
da gustare, da scoprire, una vita che non muore, che non finisce.

Questo il pensiero in cui sprofondare.

È bello che Paolo dica (cfr. 1 Tess 4,13-18): “Non voglio fratelli che siate privi di speranza come tutti gli altri”.
Questo per noi è da sapere: che vivremo sempre con Cristo.

Questa speranza non ci cancella l’assurdità di questa vita in alcune sue sfaccettature, in alcune sue esperienze, però ci apre a un senso.
Anche dentro il sepolcro, da lì dentro, si può fare esperienza di un nuovo inizio: dentro le nostre paure, quindi, dentro quello che non
capiamo, dentro l’assurdo, c’è qualcosa che va aldilà di quello che ci è dato con la nostra testa di capire.
Anche lì dentro si può fare strada, si può fare spazio, anche in maniera non percettibile, non sensibile,
una possibilità nuova di amare. Non c’è da capire, c’è da amare, c’è da darsi tutto fino in fondo.

Pettinari p Matteo et deux jumeaux d’Étienne et Bernadette

La fede cristiana non dà
risposte razionali a certe domande.
La fede cristiana propone
di amare sempre,
amare comunque, amare per primi,
amare fino a dare tutto,
amare fin quando fa male,
amare anche quando non si capisce
perché si deve amare
o perché si è chiamati ancora
a riscommettere sul dono di sé.

Questo vorrei chiedere
come dono per me,
per te,  per le persone
che amiamo,
per le persone
che incontriamo».

padre Matteo


Grazie amico grande, portiamo con noi il tuo sguardo e il tuo sorriso, la tua energia, la fede in Dio Padre buono, che comunica la vita indistruttibile e l’Amore sempre. Ora rendici testimoni credibili del tanto amore che ci hai donato.

 Daniela Giuliani
Senigallia, 26/04/2024

 Lettera aperta

A partire dal mese di aprile, MC si è presentata ai lettori con una impaginazione, a primo impatto, più sobria e una qualità di carta differente. Marco Bello, direttore editoriale, ci ha spiegato che il cambiamento è dovuto, in termini di denaro, a favorire investimenti anche per la rivista online, che ultimamente compare settimanalmente, con aggiornamenti, sui nostri schermi dei computer. E che sicuramente è seguita più agevolmente da un pubblico di lettori giovani o comunque da chi ha dimestichezza con la digitalizzazione, se non addirittura la preferisce.

«Missioni Consolata» ha una sua storia importante, legata all’istituto missionario dell’Allamano, ed io, oltre che leggerla, ho avuto anche il privilegio di collaborarvi anni addietro. Sono quindi felice delle novità positive, che la rendono sempre più fruibile attraverso nuove rubriche, tenute da esperti dei diversi settori, e articoli che offrono la possibilità di argomentare con intelligenza soprattutto di politica estera. Questo è importante, a mio parere, perché i nostri missionari si calano, per svolgere il servizio, in parecchi Paesi del villaggio-mondo e noi che li seguiamo dall’Italia abbiamo così cognizione delle effettive problematiche che essi si trovano a dovere affrontare, giorno dopo giorno, e il nostro aiuto a loro diventa un aiuto mirato.

Inoltre «Missioni Consolata» offre molte letture di spiritualità che favoriscono la crescita interiore della persona in un panorama, per quanto riguarda la carta stampata, decisamente povero di questo genere di contenuti, se non rare eccezioni. E la guida del lettore avviene attraverso un linguaggio comprensibile ai più. E ciò non è poca cosa. È facile salire in cattedra, difficile è farsi comprendere da molti. Importante è il dialogo con i lettori (le lettere alla rivista) che, da sempre, è stato uno spazio privilegiato, molto curato dai direttori che si sono avvicendati. E continua a esserlo.

Interessante è anche la presenza delle diverse agenzie stampa che ci fanno conoscere gli eventi della Chiesa nel mondo ma ci fanno prendere dimestichezza con l’utilizzo delle stesse, in modo di avere a nostra volta, come lettori interessati, un’informazione puntuale in qualunque altro momento. Insomma «Missioni Consolata» è scuola se sappiamo leggerla. Un grande «grazie» a tutti coloro che vi lavorano e lo fanno senza mai risparmiarsi. Un «grazie» sentito, che può leggersi tranquillamente come gratitudine.

Marianna Micheluzzi
Olbia 26 aprile 2024

Grazie dell’incoraggiamento. Uno dei vantaggi della nuova carta è che la lettura dei testi è più facile, anche se la qualità delle immagini ne risente un po’, ma stiamo lavorando per ottenere i risultati migliori.

I tempi che viviamo richiedono vigilanza e discernimento per servire davvero la missione e i poveri anche con la comunicazione. A volte non è facile scegliere il meglio tra chi pensa che il digitale sia l’unica strada ormai da seguire e chi ritiene che la carta sia ancora lo strumento più efficace per una comunicazione profonda che stimoli la riflessione, il coinvolgimento, e aiuti le persone a una presa di responsabilità che vada oltre l’emotività di pochi momenti. Noi ci stiamo provando. È un’avventura interessante e sfidante. Grazie per il sostegno e l’incoraggiamento che riceviamo da molti. Benvenute anche le critiche che ci aiutano a riflettere e stimolano a cercare vie nuove.

Certo, il desiderio sarebbe che queste pagine restassero un luogo di incontro, di riflessione e di scambio, ma siamo anche coscienti che oggi il digitale esige immediatezza, cosa che qui non è possibile, avendo il processo di stampa tempi più lunghi. Buona lettura.

Eccezionale

Direttore buongiorno,
non trovo le parole per ringraziare Lei ed i suoi collaboratori per il numero di marzo della rivista. Quanta ricchezza di informazioni, quanti temi trattati, con la consueta competenza e passione, che non si leggono da nessuna parte.

Non che i precedenti fossero «scarsi», anzi, ma quello di marzo 2024 lo trovo davvero un numero eccezionale: Palestina, Brasile, Congo, Cina. Quante notizie sconosciute ci avete dato. E prezioso anche il dossier sulla rete di scuole con Penny Wirton (altro che le stupidaggini che continuiamo a sentire in questi giorni sul limite del 20% di alunni non italiani in classe).

Voglia il Signore dare a lei e ai suoi collaboratori tanta vita e tanta energia per continuare in questa vostra preziosa opera di informazione. E che la Madonna della Consolata vi assista sempre. Un grande Grazie, ma proprio grande.

Alfio Bolzonello
02/04/2024 (Treviso)

Il mistero della @

Buongiorno,
da parecchi anni sono un sostenitore della vostra rivista. Apprezzo in modo particolare servizi sulla socialità, rispetto dei diritti umani e l’obiettività dei queste informazioni. Mi incuriosisce il significato della chiocciolina (@) che ogni tanto viene inserita in certi articoli. Non ho ancora trovato qualcuno che me ne dia una spiegazione. Complimenti ancora per i contenuti sociali della rivista. Per certi versi la definirei, (come complimento) di una sinistra onesta e sincera. Grazie e Cordiali saluti

Sergio Lanfranconi
02/04/2024

Grazie di cuore del vostro incoraggiamento. Di questi tempi ne abbiamo proprio bisogno.
Quanto alla chiocciolina (@) che appare nella rubrica «Cooperando», è un simbolo per ricordare che c’è un link a un testo che si trova nell’internet, a cui uno può accedere, se interessato, dalla nostra edizione digitale. Mettiamo quel simbolino perchè i riferimenti sono così tanti che stampati occuperebbero diverse colonne di testo, mentre sul web sono lì, immediatamente accessibili.


Compleanno 100 di P Antonio Bianchi. 13 giugno 2022

Kwaheri Guka

In pochi giorno il Signore si è preso il più giovane e il più vecchio dei missionari della Consolata italiani, il 14 aprile padre Antonio Bianchi, classe 1922, da Verbania (Vco), e il 18 aprile padre Matteo Pettinari (vedi pagina precedente), nato a Chiaravalle (An) nel 1981.

Padre Bianchi, detto Guka (nonno), ordinato nel 1945, dopo essere stato diversi anni in Portogallo, era arrivato in Kenya nel 1955, all’età di 33 anni, durante la lotta per l’indipendenza. Lì ha trascorso la maggior parte della sua vita missionaria, lavorando in varie missioni e dedicandosi soprattutto alla pastorale e all’evangelizzazione, facilitato da una memoria raffinata e dalla perfetta conoscenza della lingua kikuyu. Assegnato inizialmente a Ngandu-Murang’a, oggi diocesi, ma all’epoca terreno favorevole ai combattenti Mau Mau, in seguito, venne mandato a Ichagaki, sempre nella diocesi di Murang’a. Negli anni ‘90 è stato nella nuova missione di Rumuruti, nella diocesi di Nyahururu, e poi nella parrocchia di Makima, nella diocesi di Embu.

Ritirato ormai da diversi anni nella casa centrale di Nairobi, dove curava l’orto con passione e competenza, è morto due mesi prima del suo 102° compleanno, proprio nella III domenica di Pasqua, giorno in cui il Vangelo ci invitava a testimoniare il Cristo vivo, Cristo risorto. Questa è stata senza dubbio la sua vita missionaria e apostolica. Ha vissuto la sua vocazione in modo esemplare, tutto per Gesù, tutto per il Vangelo. Che riposi in pace, tra le braccia del buon Dio, che ha tanto amato e servito.

adattato da Cisa news, Nairobi

P. Antonio Bianchi con Gemma




Noi e Voi, lettori e missionari in dialogo

Racconto delle nozze di Cana

Carissimo padre Gigi, direttore di MC,
ho terminato ora la lettura/meditazione del commento al brano evangelico del «racconto delle nozze di Cana» meravigliosamente spiegato dal sacerdote biblista Paolo Farinella, che voi con grande lungimiranza avete pubblicato sulla rivista Missioni Consolata in 38 puntate dal febbraio 2009 al febbraio 2013. Una lettura impegnativa, ma molto interessate e coinvolgente.

La meticolosa indagine mi ha «costretto» a calarmi nell’analisi fin nel profondo, sviscerando tutte le sfaccettature mai nemmeno ipotizzate e intuite, a scoprire i significati più nascosti e reconditi di un racconto di «soli» undici versetti. Una passeggiata che da tempo volevo intraprendere, ma avrei voluto effettuare solo dopo aver raccolto e messo assieme tutte le puntate pubblicate così d’avere un testo uniforme e scorrevole senza interruzioni lunghe un mese che avrebbero potuto fiaccare sia la mia memoria che la mia costanza. Grazie alla tua grande disponibilità ad aiutarmi a raccogliere e comporre tutto questo materiale, ho avuto la spinta necessaria per continuare in questo tuo grande lavoro e così ho potuto immergermi, naturalmente un po’ al giorno, nella lettura delle stupende pagine che don Farinella ci aveva gentilmente concesso.

Un grazie a Missioni Consolata per questo grande regalo e a te che essendo il direttore ne hai reso possibile la realizzazione. Il Vangelo raccontato da Giovanni rimane per noi, poveri tapini, un cibo difficile da digerire se non a piccoli bocconi, magari premasticati, come in natura fanno le madri per nutrire i propri piccoli ancora implumi e inconsciamente incapaci di cibarsi. L’importante in tutto questo è trovare la persona giusta che ti serva un piatto con il cibo sminuzzato, digeribile e allettante per te. Impresa non facile, ma in questo caso, e per me, di sicuro riuscita. Grazie ancora e speriamo di poter presto intraprendere un’altra «avventura» alla scoperta di un libro, il Vangelo e la Bibbia in generale, spesso letto e interpretato «alla nostra maniera» in modo superficiale e tradizionale senza riuscire a coglierne il profondo significato e il singolare messaggio nascosto ai più.

Giacomo Fanetti, 27/02/2024

Grazie a te per lo stimolo e l’aiuto che mi hai dato nel raccogliere tutte le 38 puntate di quel lungo cammino. Ora il testo è disponibile per tutti sul nostro sito in pdf, ben 240 pagine da leggere online o scaricare sul proprio computer. Voglio anche ringraziare di cuore don Paolo Farinella che ha dato il suo consenso all’operazione. Una fruttuosa lettura a tutti.

Un milione di firme per fermare la violenza alle frontiere dell’Europa

Stop border violence: entro il 10 luglio occorre raggiungere un milione di firme dai cittadini di almeno sette paesi dell’unione per chiedere alla Commissione Ue una nuova legislazione per un trattamento più giusto e umano dei migranti e rifugiati sia in Europa che alle sue frontiere. Questo è il senso di una proposta lanciata dal basso.

«L’Unione europea si fonda sui valori indivisibili e universali della dignità umana, della libertà, dell’uguaglianza e della solidarietà», così il preambolo della Carta dei diritti fondamentali.

L’Iniziativa dei cittadini europei (Ice) denominata «Art. 4: Stop tortura e trattamenti disumani alle frontiere d’Europa», prende il via dall’assunto enunciato nell’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali, in cui si afferma che nessuna persona «può essere sottoposta a tortura, né a trattamenti disumani e degradanti», quotidianamente violato lungo le frontiere di tutto il continente e non solo.

L’obiettivo della campagna Stop border violence, che ha avuto inizio lo scorso 10 luglio e si concluderà allo scadere dell’anno il 10 luglio 2024, è quello di arrivare a un milione di firme per chiedere alla Commissione Ue una nuova legislazione che preveda misure concrete per contrastare e prevenire violenze e torture contro migranti e rifugiati in Europa e alle frontiere.

Per raggiungere l’obiettivo è però indispensabile che ci sia non solo un milione di firme, ma che questo milione sia l’espressione della volontà dei cittadini di almeno sette paesi europei differenti. Un obiettivo non facile per una campagna che non ha finanziamenti, né una organizzazione di riferimento, essendo portata avanti da attivisti che da tutta Italia e da alcuni paesi Ue, si sono messi in rete coordinandosi spontaneamente. L’iniziativa rischia di non arrivare alla meta se le realtà della società civile e religiosa, del grande associazionismo, dei sindacati, della politica e della stampa, non ne supporteranno attivamente la diffusione e la promozione.

Cosa si chiede in particolare al Parlamento europeo?

La tutela delle persone igranti o richiedenti asilo:

  • all’ingresso dello spazio comune europeo attraverso la regolamentazione dell’attività di controllo delle frontiere con la previsione di sanzioni specifiche per i paesi che violino apertamente il divieto dell’uso della violenza;
  • all’interno di paesi terzi, fuori dalla Ue, nell’ambito di operazioni volte alla cosiddetta «esternalizzazione delle frontiere» europee, attraverso la previsione di sanzioni specifiche per i paesi membri che concludano accordi che non prevedano il controllo del rispetto dell’articolo 4;
  • nella definizione degli standard di accoglienza all’interno dello spazio dei paesi europei per tutto il periodo di permanenza sul territorio attraverso la previsione di sanzioni specifiche per i Paesi che si rendano protagonisti con i propri organismi e/o le proprie forze dell’ordine di violazioni dei diritti delle persone migranti o richiedenti asilo.

Durante i prossimi mesi, a poca distanza dalla chiusura della campagna, in tutta Italia saranno allestiti banchetti per la raccolta delle firme in numerose città ed organizzati eventi e dibattiti.

È importante la partecipazione quanto più ampia possibile di tutti i cittadini e le cittadine che credono nella possibilità di un cambiamento attraverso il loro attivo coinvolgimento divenendo protagonisti di un processo di pace tanto necessario e invocato ma che può concretizzarsi solo a partire dal riconoscimento pieno dei diritti di tutti, piuttosto che dei privilegi di pochi.

L’interesse incontrato fino a ora ci conferma che il momento sia maturo per utilizzare questo strumento democratico.

di Anna Bellamacina, 14/03/2024 su Citta Nuova

Questa rivista fa sua la campagna in coerenza con il mondo missionario di cui è portavoce, un mondo che è a diretto contatto con le sofferenze di chi è vittima di guerre, ingiustizie, dittature, sopraffazioni, invasioni di terre, disastri climatici e scontri tribali (spesso alimentati ad arte per permettere lo sfruttamento incontrollato di risorse minerarie o energetiche).

Link diretto per firmare: https://eci.ec.europa.eu/032/public/#/screen/home
Per adesione e informazioni: stopborderviolence@gmail.com


Il Papa a Verona

La giornata di sabato 18 maggio sarà una grande festa della Chiesa di Verona nella vigilia di Pentecoste e un incontro tra papa Francesco e la città scaligera sul tema «Giustizia e pace si baceranno».

Il programma

Come anticipato, la giornata inizierà con la festa in piazza san Zeno, rivolta a bambini e ragazzi fino alla terza media, alle scuole e all’associazionismo dei ragazzi: sarà anche il momento dell’accoglienza di papa Francesco. In particolare, per i ragazzi di terza media questo incontro sarà l’inizio della «Festa del passaggio» che durerà tutto il giorno.

Il secondo appuntamento per il Pontefice sarà all’interno della basilica di san Zeno con un momento di dialogo e preghiera, nei pressi delle spoglie del patrono, riservato a preti, diaconi, consacrati e consacrate.

Di lì è poi previsto il trasferiento in Arena per partecipare ad una parte dell’evento «Arena di pace 2024» che si svolgerà nell’anfiteatro cittadino dalle 9 alle 13.

Successivamente, il Pontefice si sposterà alla casa circondariale di Montorio, per l’incontro con i detenuti, la polizia penitenziaria, i familiari, la cappellania, i volontari e tutti coloro che compongono questo mondo in cui, come ha sottolineato il vescovo Domenico, «sembra che regni il silenzio», mentre in realtà spesso salgono grida, speranze e lacrime, rispetto alle quali la società tace e si dimostra indifferente.

Culmine della giornata sarà la messa di Pentecoste allo Stadio Bentegodi che papa Francesco presiederà alle 16; sarà anticipata dalla festa dei giovani con musica, riflessioni, testimonianze, a partire dalle 14.

Ufficio stampa diocesi
 di Verona, 04/02/2024

Sessantesimo di sacerdozio

Padre Giovanni Marconcini celebra il 60° di messa a Milano, casa IMC

Mi presento. Mi chiamo John (Giovanni) e da 65 anni sono missionario della Consolata. L’avventura missionaria che il Signore ha scelto per me è stata molto variopinta. Dopo tre anni in un seminario minore a Bevera di Castello Brianza (Lc) come vicerettore, ho cominciato a viaggiare per il mondo: cinque anni come animatore missionario in Andalusia (Spagna); tredici anni in Kenya, prima in una missione con una superficie di 850 km2 a Siakago (Embu), poi come professore e formatore in un nostro seminario a Langata (Nairobi); sette anni a Pittsburgh negli Stati Uniti e due a Toronto in Canada, come animatore missionario; undici anni a Roma, prima in aiuto alla direzione generale e poi in un ambiente accademico, e dieci anni, ancora a Roma, come padre spirituale in una residenza di sacerdoti provenienti da oltre sessanta paesi per ottenere i gradi accademici di licenza e dottorato in diverse discipline nelle università romane. Alla bella età di 80 anni, sono approdato a Milano, in un centro dei Missionari della Consolata, nel territorio parrocchiale di San Benedetto (in aprile è tornato a vivere a Bevera, dove ha cominciato il suo servizio, ndr).

Il 21 dicembre scorso ho celebrato 60 anni di sacerdozio. La sensazione che il tempo sia volato è normale. Affiora però nel cuore un vivo ringraziamento e un proposito di usare bene il tempo che ancora mi sarà dato. Certamente il ringraziamento va al Signore, che mi è stato vicino in tutti questi anni, ma non posso non riconoscere la sua premurosa presenza in tutti coloro che hanno condiviso il mio cammino e mi hanno sostenuto, confortato, incoraggiato con la loro amicizia sincera. […]

I miei spostamenti non sono stati sempre facili. Alcune volte ho fatto ciò che i miei superiori volevano – sapevo che in loro lo voleva anche il Signore – in maniera pulita, cioè accettando subito di buon grado. Altre volte invece con qualche resistenza […]. Così anch’io ho finito sempre di fare ciò che mi è stato chiesto.

Tante sono state le «idee forza» che mi hanno guidato in questi 60 anni di servizio missionario, ma ne scelgo solo due, quelle, forse, che sono state più incisive e direi anche più efficaci. […]

La prima idea forza è stata il «momento presente»: come tutti i santi hanno insegnato con convinzione, il passato è nella misericordia di Dio, il futuro è nella sua provvidenza. Solo il presente mi è dato per viverlo con impegno. Il nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano, lo riassumeva nel «hic et nunc» e nel «nunc coepi» (qui e ora e ora ricomincio). L’attimo presente mi ha salvato tantissime volte dal sostare nella delusione di un fallimento, dal cadere nell’ansia per ciò che sarebbe accaduto, dal prendere decisioni avventate e rimanere nella calma, da reazioni esagerate in momenti di tensione, nel vivere con solennità ogni parte della mia giornata, senza dare importanza più a una che all’altra. Tutto è importante, se volontà di Dio: la preghiera, prendere cibo, la passeggiata, un incarico anche di poco conto a servizio degli altri.

La seconda idea forza è stata considerare il mio sacerdozio non uno stato di privilegio o un tantino superiore ad altri, ma un servizio. Mi ha fatto tanto bene un articolo di don Tonino Bello, intitolato «Stola e grembiule» (che invito tutti a leggere), in cui egli dice tra l’altro che Gesù, nella messa solenne celebrata nel Giovedì Santo, non indossò né casule né stole, ma si cinse ai fianchi un panno rozzo, con un gesto squisitamente sacerdotale.  Ho visto sempre il mio Sacerdozio come «ministeriale», come lo è effettivamente, in confronto a quello «regale», ricevuto da tutti i cristiani nel giorno del loro battesimo. Quante volte ho ripetuto a me stesso e poi agli altri: «Con voi sono cristiano, per voi sono sacerdote», (riferendomi a ciò che dice ancora Sant’Agostino: «Con voi sono cristiano, per voi sono vescovo»), per partecipare a incontri di preghiera, per esempio, senza la pretesa di prendere la parola o avvicinare anche chi ha altre convinzioni religiose, senza la smania di convincere nessuno.

Che brutto, fino a sentirmi addolorato, al tempo del mio servizio come padre spirituale, sentire da sacerdoti una espressione come questa: «Siamo sacerdoti, dovremmo essere trattati meglio», quando c’era qualche disservizio involontario. Allora prendevo la prima occasione per ricordare loro che tutti gli studi che avevano fatto per diventare sacerdoti erano per prendere il diploma in «schiavitù», cioè per essere completamene al servizio della gente a loro affidata. Cercare di usare il mio sacerdozio come scusa per ottenere qualcosa mi è parso sempre sbagliato.

Vi chiedo una preghiera.

padre John Marconcini, Imc
Milano, 16/01/2024

 




Noi e Voi, lettori e missionari in dialogo


La sola vera religione

Re.mo padre direttore,
desidero da lei un consiglio spirituale. Sono abbonato alla rivista Missioni Consolata e leggo con piacere sulle sue riviste le notizie delle grandi religioni del mondo trasmesse dai Missionari della Consolata nelle diverse parti del mondo.

Le chiedo con precisione e in breve come possiamo noi cristiani confermare che la religione cristiana è l’unica e sola religione [dove] si adora e crediamo in un unico solo Dio e non come le altre religioni che adorano altri dei. Qual è la differenza? A quale religione dobbiamo credere?

In attesa di una sua cortese risposta, ringrazio vivamente e invio cordiali saluti di pace e bene.

Giuseppe, 11/02/2024

Caro signor Giuseppe,
grazie della lettera che ha scritto (a mano). Perdoni se l’ho tagliata un po’  per evidenziare la questione centrale: il cristianesimo è l’unica vera religione?

Credo dobbiamo partire da un principio fondamentale del nostro credo: tutti gli esseri umani sono creati da Dio a sua immagine e somiglianza, che essi lo sappiano o no. La conseguenza è che ogni uomo ha, consciamente o inconsciamente, nostalgia della sua origine. Quindi tutti gli uomini, di tutte le culture e di tutti i tempi, hanno trovato una loro via (legittima e doverosa) per arrivare a Dio e, soprattutto, per rispondere alle domande più profonde che ciascuno porta in sé: il senso della vita, le ragioni del dolore, il futuro dell’universo, le relazioni con gli altri, il perché della morte e tante altre.

Le religioni sono la risposta concreta a questo bisogno interiore degli uomini che hanno cercato a tentoni di dare un volto a un Dio (l’unico Dio di tutti) che non conoscono, spesso facendosi degli dèi a loro immagine e somiglianza. C’è chi ha fatto questo con malizia, usando Dio per dominare gli altri, c’è chi l’ha fatto con fede sincera per dare un volto a quella nostalgia profonda di Dio che sentivano.

Di questa ricerca è stato partecipe anche il popolo di Dio, Israele. La storia di Abramo è emblematica in proposito. Israele lo ha cercato sì, ed è uscito dall’idolatria solo grazie all’autorivelazione di Dio attraverso la parola dei profeti. Ma quanta fatica ha fatto per rimanere fedele e non ricadere nelle forme religiose dei popoli vicini e dominanti. Dio si è, però, rivelato a Israele non per fare di lui un popolo privilegiato e separato dagli altri, ma per realizzare una duplice missione: quella di far conoscere il vero volto di Dio a tutti gli uomini e diventare un «popolo di sacerdoti» che intercede e loda a nome di ogni creatura nel mondo.

Tutti i popoli del mondo sono coscienti che Dio è il creatore del mondo, ma spesso lo ritengono troppo alto e irraggiungibile per quelle povere e cattive persone che possono essere gli uomini; quindi, hanno preferito rivolgersi a intermediari più vicini e simili a noi, come gli spiriti o altri dei.

In questo contesto, perché diciamo che la religione cristiana è l’unica vera, anzi, meglio, che è l’unica che ci fa conoscere e amare il vero Dio?

Perché questa verità ci è stata trasmessa da Dio stesso attraverso Gesù Cristo, suo figlio, che si è incarnato, ha vissuto in mezzo a noi, ci ha comunicato la sua parola di Verità e per questo è stato ucciso e poi è risorto. Di questo sono diventati testimoni i suoi discepoli dopo aver ricevuto lo Spirito Santo.

Gesù, nella sua persona, ha portato a compimento le promesse e le profezie fatte da Dio ad Abramo e ai suoi discendenti, Mosè compreso. Gesù è la testimonianza viva che Dio è uno solo e non esistono altri dei. Solo attraverso Gesù noi possiamo vedere il vero volto di Dio. «Chi vede me, vede il Padre», ha detto.

Tutto bello, mi può dire, ma sono passati duemila anni da quando Gesù è venuto. Come possiamo dimostrare oggi che il Cristianesimo è l’unica vera religione?

Ecco, probabilmente l’unico modo per provarlo davvero è mettere in pratica i principi fondanti di questa religione: vivere cioè secondo l’esempio di Gesù, amando Dio e il prossimo come lui ha fatto. Una vita da santi, cioè da persone che davvero vivono sullo stile di Gesù la loro umanità come immagine di Dio è la prova migliore della verità di Gesù e della religione da lui trasmessa. Forse la prova più bella della verità della fede cristiana sono i martiri, anche e soprattutto quelli di oggi: persone che rispondono alla violenza con il perdono, all’odio con l’amore, all’avidità con la gratuità del dono, alla logica di morte con scelte di vita.

Si possono fare tutte le discussioni possibili sulle varie religioni, ognuna delle quali porta in sé un germe della verità di Dio, ma non c’è prova migliore di una vita d’amore per garantire che il Cristianesimo è la vera religione e che Gesù non è morto e risorto invano.


Beato Allamano, grazie

Vorrei condividere con voi una cosa bella successa proprio oggi, 16 febbraio 2024, festa del beato Giuseppe Allamano.

Il 13 novembre del 2022 hanno diagnosticato un tumore ad un ragazzo che conosco: Simone (nome di fantasia), 30 anni. Era un tumore molto brutto con due metastasi, una sulla spalla e l’altra sulla schiena, e inoperabile in quanto molto grande e troppo vicino alla colonna vertebrale. Pochi giorni dopo è stato operato con urgenza per asportare la metastasi sulla spalla. L’operazione è riuscita bene, ma l’istologico ha confermato la gravità della massa non operabile.

I medici purtroppo non hanno dato molte speranze perché sostenevano che, trattandosi di un ragazzo così giovane, il tumore sarebbe stato galoppante. Decisero comunque di iniziare la chemioterapia. All’inizio di gennaio 2023 era comparsa un’altra metastasi sulla spalla. Altra operazione d’urgenza con poche speranze di miglioramento. La situazione era sempre più critica. Sembrava non reagire alle cure.

La settimana successiva abbiamo accompagnato padre Francesco Peyron a Torino (da Fossano) per il terzo sabato del mese. Prima della messa ci ha accompagnati nella cappella del beato Allamano. Prima di entrare aveva detto: «Quando si visita per la prima volta una chiesa con la tomba di un santo o di un beato si può chiedere una grazia».

Abbiamo sostato un po’ sulla tomba dell’Allamano. Ho pensato a Simone. Non ho chiesto niente, ho soltanto detto: «Stai con lui e la sua famiglia». Poi qualche settimana dopo, a febbraio dell’anno scorso, il primo giorno del triduo dell’Allamano nella casa dei missionari a Fossano, all’inizio della messa, padre Francesco ha detto: «Il triduo è un momento di grazia. Ora faremo un momento di silenzio nel quale ognuno di voi può presentare al Signore, con l’intercessione del beato Allamano quello che sente più vero nel cuore». Io ho di nuovo pensato a Simone. Non ho chiesto nulla. Ho solo detto: «L’affido a Te, Tu hai guarito l’Allamano». E ho detto un’Ave Maria.

Nel frattempo Simone proseguiva con la chemioterapia, senza miglioramenti ma neanche peggioramenti. Il 5 aprile (mercoledì santo) i medici gli hanno comunicato che avrebbero sospeso la chemioterapia due settimane prima del previsto perché inaspettatamente i valori si erano normalizzati. Gli esami successivi hanno confermato che i valori erano rientrati. I medici erano stupiti e sorpresi. Non riuscivano a spiegare l’accaduto. L’11 maggio (mese di Maria), dopo ulteriori accertamenti, Simone, ha ricevuto una telefonata dall’oncologo che lo seguiva. Gli ha detto: «Simone, sei seduto?». E lui ha subito pensato al peggio. Ha proseguito dicendo: «Inspiegabilmente sei guarito, gli esami sono perfetti, i linfonodi quasi completamente rientrati». Gli ha detto che non aveva mai visto una reazione del genere, assolutamente inaspettata.

Il linfonodo nella schiena c’è ancora, ma non risulta più pericoloso. Altra cosa che i medici non sono riusciti a spiegare: dal mese di giugno 2023 si è sottoposto periodicamente ad esami e controlli, risultati tutti ok. A fine di gennaio di quest’anno aveva i primi esami di controllo generale: tutti ok.

Lode a Dio e a Maria e un grazie immenso e specialissimo al beato Allamano.

Ultima cosa che vorrei ancora raccontarvi per lodare e ringraziare è questa. Durante i mesi della terapia, nonostante fosse debole e sofferente, spesso diceva: «Sto male, ma mi sento sereno». In quei mesi abbiamo pregato tanto, l’ho portato ogni giorno nella messa. L’Allamano è proprio stato con lui. «Il bene va fatto bene» e lui è stato di parola. Gesù con Maria sono andati oltre, sorprendendo come sempre. Che bello.

Nadia Luciano,
Villanovetta, Cn, 16/02/2024


Nelle steppe di Gengis Khan

Alla fine del 2023 è uscito in libreria, pubblicata dalla Effatà editrice, il corposo libro (oltre 270 pagine) intitolato «Nelle steppe di Gengis Khan» di Pier Giuseppe Accornero, un sacerdote giornalista di Torino che si occupa di informazione sociale ed ecclesiale.

Più che un semplice libro, quello di Accornero è quasi un’enciclopedia dedicata alla vita missionaria della Chiesa piemontese. Partendo dal cardinal Giorgio Marengo, e quindi anche dal beato Giuseppe Allamano che ha fondato i Missionari della Consolata di cui il cardinale è parte, l’autore ci conduce per mano a scoprire la vitalità missionaria della regione fin dai tempi del Regno di Sardegna. Pagine piene di informazioni e curiosità di estremo interesse e poco conosciute.

Ma lascio la parola a padre Stefano Camerlengo che ne ha scritto la prefazione.

«Il libro di Pier Giuseppe Accornero si prefigge di offrire ai lettori lo spaccato di una realtà, per certi versi, ignota al grande pubblico. Nei primi capitoli illustra come nell’immensa distesa della Mongolia, un figlio della terra pedemontana guida con mano sicura e con grande apertura di cuore e di intelligenza il suo «pusillus grex, piccolo gregge» di cristiani e riesca a intessere relazioni fraterne e fruttuose con uomini e donne di altre fedi religiose. Un seme che sta spuntando e che annuncia un futuro promettente. La fecondità del Piemonte per la sua poliedrica personalità merita attenzione e diffusione. Un attore giovane ha raggiunto quella terra e vive ora nella lontana Mongolia.

Questa terra dalle dimensioni enormi merita attenzione anche perché ha attirato l’amore apostolico di papa Francesco. […]

Dal capitolo terzo l’autore continua la sua opera con mano decisa e con un linguaggio svelto e leggero a presentare i grandi protagonisti, principalmente subalpini, che hanno segnato le tappe più importanti della diffusione del Vangelo, sotto il patronato di grandi papi che si sono succeduti nella Sede apostolica […].

In questa sezione del libro, l’autore presenta in sequenza un grandissimo numero di grandi missionari, tutti, eccetto qualcuno, figli e figlie della terra pedemontana. La loro azione missionaria abbraccia l’intero globo terraqueo. Si va dalle numerose nazioni latinoamericane alle molte nazioni africane e ad alcune regioni dell’Asia. Il loro idioma piemontese si riverbera su molte latitudini e longitudini del globo e semina nel cuore dei popoli il seme della Parola eterna del Padre, la quale darà frutto a suo tempo perché irrorata anche dal sangue di molti che hanno pagato la loro testimonianza a Cristo risorto con la loro vita. Tertulliano ha detto: “Il sangue dei martiri è il seme di nuovi cristiani”. Il Piemonte ha dato anche questo meraviglioso contributo alla propagazione del Vangelo.

Ci permettiamo di raccomandare questo libro a tutti coloro che amano essere edotti del cammino, anche se faticoso, della Chiesa di Cristo. Tra le pagine di questo libro, che raccoglie la testimonianza di gente generosa infiammata dall’amore del Vangelo, si respira un’aura di fede e uno sviscerato amore per la Parola del Vangelo. A un lettore attento germoglierà nel cuore, oltre che l’ammirazione di tanta fedeltà al Vangelo anche una timida preghiera per coloro che consumano ogni giorno la loro esistenza nei diversi angoli della terra».

padre Stefano Camerlengo
superiore generale emerito

Si può ordinare il libro direttamente su https://editrice.effata.it


Settimana biblica a Caserta

Egregio Direttore,
anche quest’anno la diocesi di Caserta organizza la Settimana biblica, giunta alla XXVII edizione, con il patrocinio dell’Associazione biblica italiana, in collaborazione con l’Istituto superiore di Scienze religiose interdiocesano «SS. Apostoli Pietro e Paolo» e con la segreteria del Centro apostolato biblico diocesano.

La Settimana biblica si terrà a Caserta da lunedì 1° luglio 2024 e fino a venerdì 5 luglio 2024.

Tema della XXVII edizione sarà «La comunità e i discepoli nel Vangelo secondo Matteo», con i biblisti Giulio Michelini e Francesco Filannino.

Questa esperienza di conoscenza del testo biblico ci pone davanti il cammino sinodale della Chiesa aperta all’ascolto della Parola di Dio per discernere secondo lo spirito del Vangelo, il cammino da seguire tutti insieme. Tutto il popolo di Dio è convocato in assemblea per ascoltare ciò che lo Spirito dice alla Chiesa.

Sul sito del Centro apostolato biblico trovate tutte le notizie utili per iscriversi e partecipare alla Settimana biblica di Caserta.

Cordiali saluti

don Valentino Picazio,
Caserta, 25/02/2024

Per partecipare alla settimana biblica vai al sito
www.centroapostolatobiblicocaserta.it
email: centroapostolatobiblicogmail.com




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

 


Dall’umiliazione alla dignità

Dopo aver condiviso le forti impressioni provocate da quanto descritto sull’umiliazione a cui si sottomettono vasti strati impoveriti della popolazione argentina, (vedi «Uomini e maiali» su MC notizie) ho avuto occasione di visitare recentemente una delle comunità indigene che la Provvidenza mi ha permesso di accompagnare vent’anni fa nelle vicinanze di Orán (Salta) nella lotta per il diritto al territorio ancestralmente occupato, contrastato dalla grande multinazionale Seabord Corporation (ex Ingenio San Martín del Tabacal), ma grazie a Dio recuperato.

È stata una mezza giornata di intense emozioni, al ricordare l’esperienza vissuta insieme dal 2004 al 2011, come parte di un’équipe della diocesi di Orán, per accompagnare la dura realtà dei conflitti per la terra di diverse comunità che dovevano affrontare l’opposizione ostile e violenta di potenti gruppi economici presenti nella zona.

Mi sto riferendo concretamente alla comunità Tupí Guaraní Iguopeigenda, situata a pochi chilometri della città di Orán.

La resistenza decisa di questa comunità ha fatto sì che si rafforzasse l’organizzazione comunitaria con criteri e valori propriamente indigeni, a cui è seguita l’elaborazione pratica di progetti di sviluppo produttivo per non finire nel circolo umiliante dell’impoverimento e dell’assistenzialismo. Sin dall’inizio, la resistenza ha avuto un obiettivo chiaro: «Non vogliamo dipendere da un precario pacco di alimenti, ma vivere del lavoro della terra che generosamente ci offre quello che coltiviamo con le nostre mani e che ci appartiene». Era, ed è, una dimostrazione chiara di dignità per affrontare le sfide della sussistenza.

Provvidenzialmente, proprio nel giorno in cui ho visitato questa comunità, mi si mostrava con sano orgoglio un riassunto di tutta l’esperienza, attraverso un cartello che riproduceva la memoria viva lasciata come eredità da Pablo Andrada, un hermano (fratello), morto recentemente.

«Siamo un’eredità viva, presente, dei Tupí Guaraní in questo mondo. E rimaniamo in una comunità radicata nel sud del Río Blanco. Iguopeigenda, la nostra identità.

Abbiamo un consiglio di anziani, e anche un nobile consiglio direttivo, e, insieme a tutti i fratelli, cerchiamo di raggiungere gli obiettivi.

Qui la cultura è trascendentale, così come le nostre tradizioni; professarla sarà veramente fondamentale per le future generazioni.

Come ogni comunità ancestrale, con coraggiosa saggezza, anche noi vigileremo sulla biodiversità e la preservazione dell’ambiente.

Siamo produttori di diversi tipi di frutta di stagione, così come ortaggi, tuberi e moringa per la medicina tradizionale.

Le nostre banane sono il nostro orgoglio, sia perché fonte di sostentamento per tutti sia per la loro pregiata qualità è nota in tutto il paese.

Siamo immensamente ed eternamente grati a tante persone per la loro collaborazione, e alle istituzioni per essere state un ponte verso un futuro migliore.

Allo stimato, padre José Auletta, un degno esempio di benevolenza: “grazie” da parte della comunità, per il suo aiuto, consiglio, saggezza e anche per la perpetua amicizia» (Pablo Andrada, Orán – Salta, 10/04/2021).

Un’ulteriore prova della dignità di questa comunità – che porto nel cuore, insieme a tante altre che la missione mi ha fatto incontrare – è il fatto che durante la mia visita essa abbia condiviso con altre comunità pervenute da diverse località la propria esperienza produttiva e di auto sostegno.

Tutto questo è un segno di speranza per una vita fraternamente sostenibile e degna.

José Auletta
missione di Yuto (Jujuy), Argentina, gennaio 2024

PADRE K’OKAL
Il missionario che spargeva allegria

La notizia arriva nel pomeriggio del 2 gennaio: padre K’Okal è scomparso. Penso subito a un sequestro. In Venezuela è diventata una pratica ricorrente. Poi la doccia fredda: è stato ritrovato il suo cadavere. Non ci credo. Cosa è successo? Mille sono le domande. Nei giorni successivi arrivano altri dettagli. La polizia conclude l’indagine in maniera sbrigativa: per loro si tratta di suicidio.

Non è possibile. Non K’Okal.

Padre Josiah Asa K’Okal («K’» per dire «figlio di», ndr), era riconosciuto in America Latina come difensore dei diritti degli indigeni, in particolare dei Warao, che erano diventati il suo popolo, la sua missione. Lavorava con loro oramai da molti anni, parlava bene la loro lingua, conosceva la loro cultura.

«Tu eri impegnato con i diritti umani del popolo Warao, e stavi alzando la voce per denunciare la sempre più preoccupante tratta di persone, dai villaggi indigeni warao verso Trinidad [e Tobago]. Stavi mettendoti contro una mafia pericolosissima, alla quale il tuo presunto suicidio è convenuto tremendamente, per diffondere tra le comunità il terrore del suo potere. Perché si suiciderebbe qualcuno che si è messo in una lotta tanto ardua?», scrive l’attivista Santiago Arconada Rodriguez.  I Warao mettono in dubbio il verdetto della polizia e chiedono un’inchiesta indipendente, un’autopsia indipendente. Lo stesso fanno altri movimenti indigenisti, di difesa dei diritti umani e della società civile venezuelana. Una lunga petizione è firmata da centinaia di organizzazioni e attivisti.

Grande sorriso, sempre allegro, positivo nei confronti della vita. Parlava tante lingue padre Bare Mekoro (il «Padre Nero», come lo chiamavano i Warao), e sempre con un approccio accogliente con tutti. Era keniano, ma era anche venezuelano (nel Paese dal 1997), e fiero d’esserlo.

Ricordo quando ci mostrò la sua carta d’identità di quel paese che amava. Era stato felice di tornarci, quando ci accompagnò per girare parte di «Odissea Warao» sulla migrazione warao dal delta dell’Orinoco verso il Brasile.

«Chi ha conosciuto K’Okal pensa che fosse un santo in carne e ossa. Era un uomo meraviglioso», dice un attivista che ha lavorato con lui.

Le parole di un membro della comunità Warao lo descrivono così: «Padre K’Okal ci ha insegnato ad amare la nostra gente, la nostra cultura. È stato il sale e la luce del nostro popolo, ci ha trasmesso la luce della Parola di Dio e il sale dell’allegria che spargeva ovunque andava».

Marco Bello
Torino, 19/01/2024

Una risata indimenticabile

Ancora lo ricordo mentre balla con un folto gruppo di rifugiati warao a Pacaraima, cittadina brasiliana posta sul confine con il Venezuela.

Stavamo viaggiando per documentare la migrazione di quel popolo indigeno, costretto ad abbandonare i villaggi posti lungo i canali del delta dell’Orinoco. Padre K’Okal, missionario della Consolata e antropologo, era persona fondamentale sia per aver condiviso con i Warao un lungo percorso, sia perché aveva imparato la loro lingua (come lo spagnolo, l’italiano e non so quante altre).

Nel 2022, a Quito, in Ecuador, aveva studiato alla Flacso e la sua tesi era stata proprio sui Warao rifugiati a Boa Vista («Entre vulnerabilización y resistencia estratégica: caso de los desplazados warao en Boa Vista»). Insomma, era una persona di grande intelligenza e preparazione.

Tuttavia, la cosa più bella di Josiah era la sua gioia contagiosa: sorrideva e rideva con estrema facilità e con tutti.

Padre Josiah Asa K’Okal è morto a soli 54 anni. Non di malattia e non per scelta. Una perdita pesante che in tantissimi sentiamo come una grande ingiustizia.

Paolo Moiola
Torino, 19/01/2024


ICE, Iniziative dei Cittadini Europei

Gen.mi direttore e redazione,
sono una vostra lettrice da sempre, e accolgo con gioia MC perché vi trovo parole sagge, notizie di prima mano da tantissime parti del mondo, semi di speranza, pagine di storia e di fede, presentazione di situazioni critiche analizzate senza pregiudizi né ipocrisia, rubriche interessanti. I dossier mi hanno sempre aiutata a capire meglio questo nostro mondo e talvolta li ho presentati anche a scuola (sono un’insegnante in pensione); tramite la vostra rivista sono venuta a conoscenza di problemi di cui i media più diffusi non si occupano, anche con anni di anticipo rispetto al deflagrare di una crisi.

Segno dei tempi, in una rivista missionaria trovano spazio sempre più spesso anche l’Europa e l’Italia, sia perché bisognose di una nuova evangelizzazione, sia perché terre di immigrazione.

A questo proposito mi riferisco  al bell’articolo «Sostituzione etnica o necessità?» che leggo nella pagina di «E la chiamano economia» del numero di dicembre ‘23, in cui, dati alla mano, Francesco Gesualdi presenta con chiarezza la situazione italiana con l’immigrazione clandestina, il «curriculum» di Frontex, il ruolo delle Ong, e la costruzione della paura. Condivido al cento per cento la necessità di una «operazione verità» e sottoscrivo la conclusione dell’articolo: «Dovremmo togliere la questione migratoria dalle grinfie dei trafficanti di esseri umani e dei trafficanti della politica. Dovremmo riportare il fenomeno nelle nostre mani per gestirlo con spirito di umanità, solidarietà e lungimiranza». Ora, proprio a questo scopo, perché non far conoscere le seguenti Iniziative dei cittadini europei (Ice)?

La prima è «Stop border violence», nata «per costringere la Commissione europea a garantire e applicare anche nei confronti dei migranti quanto previsto nell’art. 4 della carta dei diritti fondamentali della Unione europea» (che afferma: «Nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti», ndr).

L’altra è «Dignity in Europe, per garantire un’accoglienza dignitosa dei migranti in Europa».

L’Ice è un prezioso strumento di democrazia partecipativa a disposizione dei cittadini dell’Ue, che possono influire direttamente sulle politiche messe a punto dalla Commissione europea, presentando richieste sottoscritte da almeno un milione di cittadini Ue in almeno sette paesi membri.

Le due Ice di cui sopra sono nate, rispettivamente in Italia e in Francia, da persone di diversa formazione, e indipendenti da partiti politici, ma accomunate dall’angoscia per le violenze subite dai nostri fratelli migranti e per i loro diritti negati.

Penso che anche questi strumenti  possano contribuire a creare una società aperta, solidale, consapevole, che cura e ripara.

Grazie per l’attenzione e ancora complimenti e auguri per la rivista.

Giovanna Golzio
02/01/2024

 

Molte grazie per la segnalazione. Il tema dell’immigrazione ci sta ovviamente molto a cuore, essendo testimoni sul posto delle terribili e disumane realtà di tanti popoli.

Mi viene una «provocazione» leggendo l’art. 4 della carta dei diritti fondamentali della Unione europea: ho pensato che i soggetti cui riconoscere tali diritti siano molti, tra essi, ad esempio, anche i carcerati costretti a vivere in condizioni disumane (cfr. articolo del 15 gennaio in MC notizie sul nostro sito web).


Dossier sul Canada

Ciao Paolo (Moiola),
ho letto quanto hai scritto sul Canada nel dossier del mese scorso. Ho percorso con te, con l’aiuto del computer, il viaggio nell’Ovest del Paese. La lettura è affascinante; penso che anche il viaggio lo sia stato. Hai presentato in forma molto appropriata il tema dello sfruttamento minerario a scapito dell’ambiente e, sicuramente, con ritorni finanziari ingiusti in molti aspetti; la tematica della conquista e spogliazione dei popoli originari; il difficile e doloroso rapporto delle Chiese (e del governo coloniale e post) con essi.

Mi è piaciuto il riquadro sul multiculturalismo, di cui il Canada va giustamente fiero. Credo che tale tema insieme a quello del fenomeno migratorio (Toronto è la più grande «città Italiana» fuori Italia) meriti un approfondimento.

Paolo Fedrigoni, 02/01/2024, Montreal, Canada

Ho letto (il dossier) per intero. È molto, molto interessante. Non so se qualcuno ti ha detto che nella Carta canadese c’è scritto che nel nostro Paese ci sono due lingue ufficiali: l’inglese e il francese. Sono stati i francesi di François I, compreso Jacques Cartier, a dare il nome Canada al Paese. Avevano sentito gli irochesi pronunciare la parola kanata (non sapevano che significasse villaggio) ed è così che il nome è comparso (un po’ storpiato) sulle mappe. Gli inglesi vennero dopo. Mi è piaciuto molto il tuo approccio più antropologico.

Ghislaine Crête,  03/01/2024, Montreal, Canada




Lettori e Missionari in dialogo


Parlami nel silenzio

Padre Giampietro Casiraghi (© AfMC/Gigi Anataloni)

Abituato a parlarti
con troppe parole,
mi rivolgo a Te, Signore,
nel silenzio.
Parole belle e gradevoli,
ma astratte e lontane,
ripetute all’infinito.

Nel frastuono che mi circonda
non sento più la Tua voce.
Parlami, o Signore, nel silenzio.

Ho bisogno del tuo silenzio
che mi penetri dentro
nell’intimità del cuore,
che mi avvolga e mi parli
per ridare slancio
alla mia preghiera.

Ho bisogno del tuo silenzio.
Che possa ascoltarlo a lungo!
Mentre mi immergo
nel mistero del Tuo amore,
parlami nel silenzio.

Che possa sempre ascoltare
la Tua voce, Signore.

Giampietro Casiraghi

Questa preghiera era nella stanza di padre Giampietro Casiraghi, missionario della Consolata che il Signore ha chiamato a sé il 16 novembre scorso. Una preghiera particolarmente intensa per uno come lui che era un maestro della parola.

Nato il 23 aprile 1936 a Osnago, allora provincia di Como, a vent’anni emette i primi voti come missionario della Consolata ed è ordinato sacerdote il 7 aprile 1962. Brillante e preparato, è mandato prima come professore nel seminario minore di Bevera (Como, ora Lecco) fino al 1964, e poi è trasferito a Rivoli (Torino) nella redazione di questa rivista e di altre due che erano pubblicate allora: «La vedetta» (per ragazzi) e «Selezione missionaria». Il suo compito è pubblicare quest’ultima, che vuole essere la versione missionaria di Selezione del Reader’s Digest per far conoscere in Italia il meglio di quanto si pubblica nel mondo sulle riviste missionarie degli altri paesi. La bella avventura si conclude nel 1970 e nel 1971 diventa insegnante di Cristologia (lo studio approfondito della figura di Gesù Cristo) nella scuola di teologia della Fist (Federazione italiana studentati teologici) a Torino dove studiano i seminaristi della Consolata (tra cui lo scrivente) e di altri istituti.

Da quel momento la sua vita è segnata dall’insegnamento e, quando nel 1990 la Fist chiude, passa a insegnare all’Università di Vercelli dove può condividere un’altra delle sue passioni, l’Epigrafia e lo studio della storia medioevale, campo nel quale diventa uno degli esperti più qualificati sulla storia della Sacra di San Michele e delle pievi del Piemonte.

Impegnato a livello della diocesi di Torino nell’ufficio della pastorale, assistente del Movimento Rinascita cristiana, responsabile degli studi nell’Imc, padre Casiraghi vive una vita intensa, pubblicando diversi libri e collaborando attivamente con questa rivista fino al 2015, quando la sua salute è condizionata pesantemente da una malattia cerebrale che gli impedisce di dedicarsi agli studi e alla predicazione come era nel suo stile brillante e profondo.

Nel 2021 deve essere trasferito nella residenza per missionari anziani ad Alpignano (Torino), dove il Signore lo chiama a sé.

Una cosa importante abbiamo imparato da lui, noi che siamo stati suoi studenti, quella di non accontentarci mai delle risposte più ovvie e popolari, ma di mantenere sempre un forte senso critico e continuare ad approfondire la conoscenza a tutto campo. Grazie.

Il testamento di una mamma

Caro padre,
mi faresti un grande regalo se potessi pubblicare questa lettera testamento che mia mamma scrisse nel lontano 1955 prima di andare all’ospedale per l’asportazione di un rene, un’operazione molto rischiosa allora. Grazie a Dio tutto è andato bene e lei è vissuta ancora per molti anni, fino al 1994. Ho sempre conservato gelosamente questa lettera. Allora avevo solo undici anni, ora vivo anch’io nell’attesa di andare in Paradiso a fare festa con lei e mio padre Guido. Grazie

padre Carlo Laguzzi, Imc
Torino, 02/11/2023

 

«Caro Guido e carissimi figli miei,
se per caso non tornassi più (sia fatta la volontà di Dio! Adoriamola) raccomando a voi che siete i miei amatissimi, di avere l’un verso l’altro un grande amore scambievole; ed ai maggiori raccomando anzitutto di sopportare ciascuno col suo carattere, e di aver cura dei più piccoli.

Abbiate tutti voi figli cura di vostro padre, che è sempre stato verso di voi generoso e affettuoso, e pei quali non ha risparmiato sacrifici.

Quel poco che è mio egli lo dividerà equamente fra di voi: abbiate sacri i suoi pareri e i suoi consigli. Vi manifesto i miei ultimi desideri che avrei piacere fossero ottemperati:

Non fate avvisi per la mia morte: se proprio il babbo lo vuole, a funerali avvenuti e senza lutto per mio espresso desiderio. Il funerale deve essere il più umile possibile, e desidero essere sepolta nel campo comune, senza tomba, senza pietra. Quando potete mi porterete qualche fiore di campo, qualche margherita, che io ho sempre prediletto.

Quello che invece caldamente vi raccomando, è che mi facciate dire, e soprattutto che ascoltiate per me, il maggior numero di Messe possibile.

Avrei voluto andarci sovente, per voi non ho potuto; riparate per quel che potete alla mia negligenza. Vestitemi col mio vestito nero solito e bruciate tutti gli scritti miei che troverete in casa, soprattutto quelli (lettere) riuniti in una scatola nella parte inferiore della libreria, e quelli (quaderni) in uno scatolone posto sopra la libreria.

Ho pregato spesso perché a tutti i miei cari fosse concessa la grazia della perseveranza finale: possa essere veramente il nostro viatico comune per l’aldilà. Vi bacio tutti e porto tutti con me nel cuore».

La vostra mamma
Torino, 27/01/1955

 

I racconti di padre Rondina

Camminare nella foresta, di notte…

Storia che ho raccolto dalla bocca del novantaquattrenne padre Aimone Rondina, ospite nella Residenza Allamano ad Alpignano.

«Quella mattina dovevo alzarmi presto per recarmi in un dispensario a qualche chilometro da Matiri (la mia missione, nella regione del Meru in Kenya). Mi avrebbero dato un passaggio ma solo all’andata, il ritorno era affidato alle mie stanche gambe, che conoscevano bene il sentiero attraverso il bush (lett. cespuglio, figurativamente indica una zona disabitata con folti cespugli e piante, ndr). Non avevo però fatto i conti con l’unica e più subdola variabile, le chiacchiere; una tira l’altra e il tempo passò senza che me ne rendessi conto. Fu solo quando osservai l’orologio che tornai alla realtà, erano quasi le sei del pomeriggio e fra un po’ si sarebbe fatto buio, quel buio che qui in Kenya arriva all’improvviso. Mi affrettai a salutare e ripresi la via di casa. Il tramonto mi colse quando ero già sulla piccola strada sterrata. La sicurezza iniziale cominciò a lasciare il posto a un po’ di ansia, mentre sentivo chiaramente i mille rumori della foresta venirmi incontro.

Frugai in tasca alla ricerca della torcia, che sciocco, non l’avevo presa con me tanto sarei tornato presto. Solo, nel buio che più buio non si può, compresso fra due “muri” di vegetazione da dove poteva spuntare qualsiasi cosa da un momento all’altro. Non sapevo quanto avevo camminato (l’orologio non era fosforescente), né quanto mi restasse da camminare, soprattutto se avevo tenuto il sentiero giusto. Unica fonte luminosa che mi dava un po’ di sicurezza: una grande luna sempre di fronte.

Cominciai a pregare per rassicurarmi, ma per fortuna dopo appena qualche minuto intravvidi una flebile luce in lontananza che faceva capolino fra la vegetazione. Era proprio la missione! La raggiunsi abbastanza velocemente, entrai e il missionario mio collega mi accolse con un “era ora, cominciavamo a preoccuparci”.

Da allora andai nei villaggi sempre in auto, andata a e ritorno, anche quando pensavo di rientrare presto».

R.L. Rivelli
Torino, novembre 2023

 

Sete di verità

Spett. Redazione,
grazie mille della vostra preziosa risposta su MC di novembre. Considero il dialogo, anche per email, sempre fonte di crescita, specie se con persone speciali come vi ritengo.

La famosa frase del papa che lei cita «chi sono io per giudicare» forse è stata un po’ strumentalizzata dai sostenitori dell’omosessualità. Non si tratta di giudicare le persone ma lo sbaglio, infatti occorre separare l’errore dall’errante. Drogarsi è sbagliato e da condannare, i drogati sono da accogliere e da guidare verso il superamento dell’errore, liberarli.

Il mio discorso non era un voler giudicare ma una preoccupazione per i giovani. Chi è genitore sa quanto sia difficile crescere i figli in una società che non sa più ciò che è bene e ciò che è male. Siamo in un tempo in cui è di moda il relativismo, il «così è se vi pare».

Invece esiste la verità, abbiamo un grandissimo bisogno di verità, di sapere ciò che è realmente buono e non solo apparentemente. Quando non distinguiamo più ciò che è veramente bene dal falso bene unica ancora di salvezza è la chiesa, il Vangelo e gli Atti degli apostoli. Conosco la preoccupazione di tanti genitori che vedono i giovani alla deriva specie quelli che sono più soli, per un motivo o per l’altro abbandonati a se stessi e che si trovano senza guida senza sapere più ciò che è bene o ciò che è male.

Non si tratta di essere progressisti o meno, di diritti o meno, ma di salvaguardia della natura umana e di riconoscimento di molti casi di omosessualità come malattia psicologica. Le malattie per guarirle bisogna prima riconoscerle come tali. Malattia causata sovente dalla moda e dal fatto che i media, il libero accesso a internet anche a 9/10 anni spingono i giovani a una sessualità sempre più precoce. Gli insegnanti lamentano preoccupazioni e interessi in età in cui si dovrebbe poter crescere serenamente, giocare, studiare, ecc. ma non essere precocemente spinti alla sessualità. Unica luce è il Vangelo e gli Atti degli apostoli. Al riguardo ci sono brani contro l’ipocrisia, contro chi vede la pagliuzza nell’occhio altrui e non vede la trave nel proprio, ma ci sono sapientemente altri brani che rappresentano una guida sicura.

I comportamenti dei sodomiti continuano ad essere indicati come errori, considerati tali nella Bibbia ma anche nel Vangelo. Nella lettera di san Paolo ai Romani si legge: «Essi, che pretendono di essere sapienti, sono impazziti: adorano immagini dell’uomo mortale, di uccelli, di quadrupedi e di rettili, invece di adorare Dio glorioso e immortale. Per questo Dio li ha abbandonati ai loro desideri: si sono lasciati andare a impurità di ogni genere fino al punto di comportarsi in modo vergognoso gli uni con gli altri … Dio li ha abbandonati lasciandoli travolgere da passioni vergognose: le loro donne hanno avuto rapporti sessuali contro natura invece di seguire quelli naturali. Anche gli uomini, invece di avere rapporti con le donne, si sono infiammati di passioni gli uni per gli altri. Uomini con uomini commettono azioni turpi, e ricevono così in loro stessi il giusto castigo per questo traviamento…» (Rm 1,20-32).

Nella lettera di Giuda, fratello di Giacomo, si legge: «Ricordate Sodoma e Gomorra e le città vicine: anche i loro abitanti si comportavano male, si abbandonarono ad una vita immorale e seguirono vizi contro natura. Ora subiscono la punizione di un fuoco eterno, e sono un esempio per noi» (Giuda 1,7).

Il Vangelo è veramente luce del mondo e i preti che con fatica e con eroismo annunciano la Parola di Dio sono grandi portatori della luce evangelica. Il mondo ha tantissima sete della verità evangelica.

Con ammirazione per le vostre missioni e per il vostro lavoro porgo cordiali saluti

Enrica B.
11/11/2023

La tentazione era quella di tagliare alcune delle frasi della sua lunga lettera perché possono suscitare reazioni polemiche, in un tempo come il nostro in cui sembra che il dialogo non sia più consentito e sperimentiamo una forte radicalizzazione delle posizioni. Un esempio è l’accesissimo dibattito che stiamo vivendo a proposito della guerra in atto in Palestina, dove chi cerca veramente il dialogo è ostracizzato ed emarginato.

Nello stesso tempo, i temi che lei affronta, così scottanti e conflittivi, trovano conferme terribili quasi ogni giorno. Mentre scrivo, la scena è occupata dall’uccisione di Giulia, centocinquesima nella lista dei femminicidi del 2023 (il cui numero sta tristemente continuando a crescere) è un segnale di allarme che sfida tutti a un ripensamento forte del nostro modo di relazionarci.

Probabilmente l’umanità ha sempre avuto gli stessi problemi che abbiamo oggi. I testi nel libro della Genesi e le tirate di Paolo, ne sono una prova. Certo noi oggi stiamo vivendo le stesse problematiche ma con nuove dimensioni, forse anche perché, soprattutto nella nostra società, l’educazione sembra essere scappata dalle mani della famiglia, della scuola e della comunità cristiana.

Basti pensare alla pervasiva influenza che hanno sui nostri bambini i contenuti da cui sono raggiunti tramite i molteplici schermi e piattaforme, incantati dai cartoni animati e dalla pubblicità consumista (io sono il centro e ho diritto ad avere tutto, se non ce l’ho sono un fallito e un infelice) che subiscono senza possibilità di reagire. Senza poi parlare della realtà dei social, spesso usati acriticamente e soprattutto senza un supporto di relazioni di amicizia sane e concrete.

È un tempo, questo, che non ha bisogno solo di preti testimoni autentici della Parola di Dio, ma soprattutto del risveglio di ogni cristiano, che diventi soggetto vivo e attivo nella comunità, nella società, nella politica. È lo spirito del Sinodo che stiamo celebrando. Nessuno può dire «non tocca a me». Solo così si evita il rischio di dividere il mondo in «buoni e cattivi», in «noi e loro», «padroni e servi» o negli altri mille stereotipi che siamo abilissimi a creare.

L’ascolto della Parola di Dio ci fa allora sperimentare che il vero amore non è possedere l’altro e avere tutto, ma è la felicità dell’altro. La vera felicità è far felici gli altri, è diventare «servi» degli altri e non padroni, custodi del creato e non rapinatori di risorse.

Il giorno in cui davvero impareremo a vivere questo, sarà un mondo nuovo, pur nella diversità e unicità di ogni persona.

Ambiguità

Gentile Sig. Pescali,
ho letto con interesse il dossier del numero 8-9 2023 di MC sull’Islanda. Lei dice che con il sindaco Gnarr la città si arricchita di riferimenti alla pace. Siccome mi incuriosiva mi sono informato e sono rimasto molto deluso nel constatare che le strade della città in realtà sono/erano dipinte con l’arcobaleno… a sei colori (senza l’azzurro). Ma scusi, lei conosce la differenza tra la bandiera arcobaleno a sei colori e quella della pace a sette colori? Credo che confondere le due cose sia molto grave! Non so se pensare ad una ingenuità (grave per chi intende fare giornalismo di buon livello) o voluta ambiguità, che sarebbe ancora peggio. Rischio di fare il sapientone ma ci tengo a evitare queste confusioni nelle quali siamo purtroppo quotidianamente immersi. La bandiera della pace è un arcobaleno a sette colori e il viola è in alto (spesso con la scritta Pace). C’è l’azzurro. La bandiera arcobaleno a sei colori è l’emblema della lobby Lgbtiq+ per rivendicare diritti (secondo me non tutti legittimi e quindi solo presunti) e con la pace non c’entra nulla. Sarebbe auspicabile almeno che sulle riviste cristiane, e comunque sulle riviste serie, questa confusione non venga più fatta. Cordiali saluti

Andrea Sari
14/11/2023

Abbiamo passato la sua lettera all’autore del dossier. Qui il nocciolo della sua risposta.

Gentile sig. Sari,
nell’articolo in questione non ho scritto che «con il sindaco Gnarr, la città (Reykjavik, ndr) si è arricchita di riferimenti alla pace». Ad una più attenta lettura, ciò che invece ho scritto è che «viaggiando per la nazione non si può fare a meno di notare la quantità di riferimenti alla pace: strade vivacizzate con i colori arcobaleno, semafori con luci a forma di cuore». Il riferimento, quindi, non era limitato alla città di Reykjavik, ma all’Islanda tutta, dove ho visto strade e bandiere (lo ribadisco) arcobaleno.

Arcobaleno perché, se la fisica non ci inganna, i colori dell’arcobaleno sono… sette. Quindi, da uomo di scienza, nessuna ingenuità, nessuna voluta ambiguità, nessuna confusione e, soprattutto, nessun deterioramento della serietà dell’articolo e della rivista. Anzi, semmai questa distinzione razionale e scientifica denota una maggiore autorevolezza della stessa.

Piergiorgio Pescali
04/12/2023

 




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

La freccia della pace

Anche a Dar es Salaam (Tanzania), dove opero, i ragazzi vanno a scuola zaino in spalla. Persino i bambini dell’asilo indossano lo zainetto, decorato con paperette e caprette. Pochi bimbi, però, perché la scuola materna è un lusso da queste parti.

A questi zaini e zainetti ho pensato, cari missionari della Consolata, visitando il vostro «Polo culturale» Cam, Cultures and Mission, di Via Cialdini 4, Torino. Già. Iniziando la visita, sono stato «accolto» proprio da uno zaino e da un paio di sandali. Corredo essenziale per chi affronta un viaggio a piedi.

Un viaggio, quello nel Cam, attraverso reperti culturali di valore assoluto, esperienze di missionari e missionarie, danze e musiche coinvolgenti, che mi hanno avvicinato ai Kikuyu del Kenya, ai Wahehe del Tanzania, ai Pigmei del Congo, agli Amara dell’Etiopia. Senza scordare gli Yanomami del Brasile e altre popolazioni dell’America Latina. Realtà affascinanti, documentate da foto dell’«archivio Missioni Consolata». E l’Asia? L’Asia non manca nel «Polo culturale». Così ho attraversato le steppe gelide e sterminate della Mongolia…

Anno 1241, Cracovia (Polonia). Dal campanile della chiesa di Santa Maria un trombettiere lancia l’allarme: «I Mongoli sono alle porte!». Ma un arciere mongolo colpisce a morte quel trombettiere polacco. Ancora oggi, a Cracovia, ogni ora un trombettiere suona quell’allarme del 1241.

E dalla Mongolia il 10 giugno 2018 Paola Giacomini è partita a cavallo con nello zaino una freccia simile a quella dell’arciere mongolo che trafisse il trombettiere polacco. Paola ha cavalcato per 15 mesi, fino al 16 settembre 2019, allorché entrò nella basilica di Santa Maria, a Cracovia, per deporre la freccia della … pace.

Grazie Mongolia, grazie Polonia. Grazie Paola, ambasciatrice di pace.

Francesco Bernardi,
Dar es Salaam, 13/10/2023

In memoria di padre Paolo Tablino

Don Paolo Tablino, prete della diocesi di Alba, è stato missionario fidei donum e poi missionario della Consolata a Marsabit, nord del Kenya, dalla fine degli anni Cinquanta al 2009.

Per ricordare la sua opera e il suo impegno pastorale che negli anni ha favorito l’istruzione, l’accesso alla sanità, l’inculturazione del Vangelo nella valorizzazione della cultura locale, lo scorso 28 ottobre è stato inaugurato ad Alba un monumento, opera del giovane artista albese Samuel Di Blasi.

L’installazione dal titolo «Marsabit», opera d’arte alta più di quattro metri che rappresenta un albero, è stata posta nell’area verde che l’amministrazione comunale aveva già dedicato al missionario, in prossimità della chiesa Cristo Re, tra via Romita e via san Teobaldo.