Panama. Trump rivuole il Canale

Tra le mire espansionistiche di Donald Trump – che includono l’annessione del Canada e della Groenlandia agli Stati Uniti e la trasformazione del Golfo del Messico in un più nazionalista «Golfo d’America» – ce n’è una in particolare che potrebbe innescare uno scontro politico con la Cina, con ripercussioni in America Latina e sul commercio globale.

Il 20 ottobre 2024, il 47esimo presidente degli Stati Uniti (alllora candidato alla presidenza) ha minacciato di voler riprendere il controllo del Canale di Panama, che, a suo dire, sarebbe controllato dalla Cina attraverso l’impresa di Hong Kong Hutchison Port, attuale responsabile di due porti del Canale, da cui transitano principalmente cargo commerciali degli Stati Uniti.
Il timore di vedere compromessi i propri interessi economici, avrebbe mosso Trump a tale affermazione a cui è seguito il viaggio a Panama di Marco Rubio, attuale Segretario di Stato statunitense, nel tentativo d convincere le autorità panamensi a fermare la supposta influenza cinese sulla compagnia di Hong Kong.
«In caso contrario, dovremo prendere le misure necessarie per proteggere i nostri diritti», ha dichiarato Rubio, alludendo al fatto che Panama avrebbe violato il trattato del 1999 con cui otteneva, da parte degli Stati Uniti, la sovranità totale sul Canale.
Alle parole di Rubio ha fatto eco Trump dalla casa Bianca: «Il canale di Panama non è stato dato ai cinesi, ma ai panamensi, stupidamente», affermazione che ha alimentato i sospetti su un possibile tentativo degli Stati Uniti di contestare il trattato del 1999.
Dal canto suo, il presidente del Paese centroamericano José Raúl Mulino ha dichiarato, visibilmente piccato, che la proprietà del canale non è in discussione e che è e rimarrà di Panama. Tuttavia, per evitare un’escalation di tensione, le autorità panamensi hanno autorizzato un audit (analisi dei conti finanziari, nda) su Hutchison Port, a cui l’azienda ha dichiarato di sottoporsi senza timore, manifestando la sicurezza di chi non ha nulla da nascondere.

Gli Usa possono riprendere Panama?
Facciamo un passo indietro, a quando il canale ancora non esisteva. Nel 1903 Panama e gli Stati Uniti siglarono un accordo per creare una via navigabile attraverso l’istmo, una idea che risaliva già a Carlo V di Spagna, tre secoli prima. Alla fine, dell’800, la Francia aveva tentato un primo sforzo di costruzione, poi abbandonato. A inizio Novecento, quindi gli Stati Uniti acquistarono i diritti dalla Compagnia francese del Canale di Panama e, dopo undici anni di lavori, nel 1914, la prima nave attraversò il Canale.
Nel 1977, Washington e Panama firmarono un accordo per una gestione condivisa e nel 1999 la sovranità passò definitivamente allo Stato panamense.
Oggi Panama è l’unico paese che può decidere le sorti de canale, da cui transita il 5% del commercio mondiale di cui il 75% è statunitense. Secondo il trattato del 1999, gli Stati Uniti potrebbero intervenire militarmente solamente in caso di conflitto da potenza straniera, che causarebbe l’interruzione del traffico. Al momento, però, la Cina non sta limitando il passaggio delle navi, né ci sono prove che stia manovrando l’Hutchison Port, di proprietà di Li Ka-shing, l’uomo più ricco dell’Asia, con una fortuna economica che garantisce a lui e alle sue aziende di mantenere un certo grado di indipendenza da Pechino. Inoltre, pur gestendo due dei porti che orbitano nei pressi del Canale, l’impresa deve sottostare alle regole dell’Autorità del Canale di Panama, il cui board è eletto dal Governo panamense e all’interno del quale non c’è nessun rappresentante della Repubblica popolare cinese o di Hong Kong.

Trump teme il controllo cinese
A parte le evidenze commerciali, l’ipotesi di controllo cinese sul canale di Panama pare un pretesto per un casus belli, dietro il quale si nasconde Trump, deciso ad attaccare, piuttosto che restare a guardare, la crescente, e in questo caso reale, influenza di Pechino su tutta l’America Latina. La Cina è il primo mercato di esportazione per Brasile, Panama e Chile ed è il primo paese per importazioni di Argentina, Colombia e Brasile stesso. Inoltre, Pechino ha finanziato infrastrutture nella regione con investimenti superiori a quelli della Banca mondiale e della Banca interamericana di sviluppo. In particolare, per l’investimento nel settore minerario che vede la Cina dominare soprattutto in Messico, Argentina, Bolivia e Cile nell’estrazione del litio.
Se il Canale di Panama non è nelle mani della Cina, l’influenza di Pechino sull’America Latina è invece più concreta che mai e probabilmente anche avvantaggiata dai discorsi di odio verso i migranti latinoamericani e le ostilità dimostrate nei confronti di numerosi governi locali da parte del nuovo uomo forte della Casa Bianca.

Simona Carnino




Argentina. Contro Milei, presidente incendiario

 

Al forum economico di Davos dello scorso del 23 gennaio, Javier Milei, il presidente ultraliberista dell’Argentina, si era superato, forse anche per non essere da meno del suo mentore Donald Trump che, tre giorni prima, aveva inaugurato la presidenza Usa a suon di proclami e di ordini esecutivi.

Inebriato da alcuni successi economici del suo governo (pagati con un aumento vertiginoso del tasso di povertà) e dalla presunzione di lottare per la libertà, il presidente argentino aveva attaccato a testa bassa e – come sua abitudine – senza usare termini edulcorati. Contro i suoi avversari di sempre (lo Stato leviatano e la sinistra), ma anche contro il femminismo, il mondo Lgbtq+, l’immigrazione e l’ambientalismo.

Sulle donne, Milei ha detto tra l’altro: «Se si uccide una donna, si parla di femminicidio, e ciò comporta una pena più severa rispetto all’omicidio di un uomo, solo a causa del sesso della vittima. Legalizzando, nei fatti, che la vita di una donna vale più di quella di un uomo». Sugli appartenenti alla comunità Lgbtq+, il presidente ha affermato: «L’ideologia di genere costituisce un abuso sui minori, chiaro e semplice. [Costoro] sono pedofili». Toccando poi il tema migratorio, ha sostenuto che in Occidente sta avvenendo una «colonizzazione inversa» ad opera di «orde di immigrati che abusano, violentano o uccidono».

Il discorso incendiario di Milei aveva provocato reazioni immediate, soprattutto in Argentina. Nel paese latinoamericano, l’evento principale è stato la «Marcia dell’orgoglio antifascista e antirazzista» organizzata dai collettivi Lgbtq+ e tenutasi sabato 1° febbraio a Buenos Aires e in varie altre città dell’interno. La manifestazione è stata un successo, ma soprattutto ha raccolto adesioni non scontate, come quella di una parte importante della Chiesa cattolica argentina.

Mons. Marcelo Colombo, arcivescovo di Mendoza e da novembre 2024 nuovo presidente della Conferenza episcopale argentina. Ha sostenuto l’adesione alla marcia di sabato 1 febbraio 2025 organizzata dai collettivi Lgbtq+ contro le dichiarazioni di Milei a Davos. (Foto Cea-Conferencia episcopal argentina)

L’adesione è stata annunciata il 30 gennaio da un comunicato dalla Pastorale della diversità sessuale dell’arcidiocesi di Mendoza: «Esprimiamo – si legge nel documento – la nostra profonda preoccupazione per i discorsi che considerano l’antirazzismo, il femminismo e la lotta per i diritti della comunità Lgbtq+ come un “cancro che deve essere rimosso” in nome di “libertà” o “buon senso”. Queste espressioni, che promuovono la discriminazione e la violenza contro le minoranze, ci sembrano allarmanti e contrarie ai valori del Vangelo. Non possiamo e non dobbiamo restare indifferenti di fronte a queste manifestazioni di odio».

L’adesione è stata ribadita da mons. Marcelo Colombo, arcivescovo di Mendoza e nuovo presidente della Conferenza episcopale argentina (dal 12 novembre 2024). In un’intervista al quotidiano Mendoza Post, l’arcivescovo ha sottolineato che la società argentina non deve fare marcia indietro in tema di tolleranza e diritti.

Su questa presa di posizione della Chiesa cattolica abbiamo sentito padre José Auletta, missionario della Consolata in Argentina che conosce bene mons. Colombo avendoci lavorato insieme per molti anni. «Premesso – ci ha detto padre Auletta – che la pastorale sociale di Mendoza è molto attiva da anni, la scelta di campo dell’arcivescovo è stata forte e chiara. La marcia è stata importante perché non si poteva rimanere silenti davanti a Milei che, a Davos, ha detto cose semplicemente vergognose. Quanto alle sue posizioni contro l’aborto e contro la cosiddetta ideologia gender sono affermazioni fatte da una persona che non ha alcuna autorità morale. In ogni caso, per noi cattolici dovrebbe prevalere un atteggiamento misericordioso verso le realtà diverse. Sempre e in tutti gli ambiti».

Paolo Moiola




Libano. Quaderno di guerra

 

Sabato, 25 gennaio 2025, Libano meridionale. Domani, stando agli accordi per il cessate il fuoco stipulati a novembre tra Israele e governo libanese, i soldati dell’Idf (Israel defense forces) dovrebbero ritirarsi dal Sud del Libano. Dopo 16 mesi, passati da rifugiati interni nel proprio Paese, migliaia di persone si preparano a tornare nelle proprie città.

Alì Ghaleb Kouteich è una di queste. Nato e cresciuto ad Houla, uno dei villaggi più a ridosso del confine con Israele, era proprietario di un supermercato, fino a che, a causa dei bombardamenti di Tel Aviv cominciati ad ottobre 2023, non ha dovuto evacuare come la totalità degli abitanti. Anche nel paese dove ha trovato rifugio, Alì ha aperto un supermercato ma, ora, alla vigilia del ritiro delle truppe israeliane, il suo unico pensiero è quello di tornare a casa. Ad Houla sono rimaste in piedi appena il 10 percento delle abitazioni, tutto il resto è stato distrutto dai bombardamenti. Nonostante questo, tutti sono pronti a tornare e a lavorare per una ricostruzione. Negli ultimi giorni, Alì ha deciso di raccogliere tutto quello che poteva dal suo negozio, aiuti di ogni genere da portare nella sua città natale per contribuire a questo nuovo inizio.

Una delle strade bombardate di Tiro. Con la sua splendida posizione sul mare, questa città del Sud del Libano era molto frequentata da turisti provenienti soprattutto dal mondo arabo. (Foto Angelo Calianno)

Domenica, 26 gennaio. Per impedire il ritorno degli abitanti di Houla, gli israeliani hanno fatto saltare in aria le strade creando crateri che rendano impossibile l’entrata delle auto. I libanesi non si danno per vinti, arrivando tutti a piedi. Alì è il primo ad entrare. Al suo arrivo però, trova i soldati dell’Idf ad attenderlo: hanno deciso di non rispettare gli accordi e continuare a presidiare il villaggio. Aprono il fuoco, Alì si accascia al suolo. Subito dopo, viene colpito anche un suo amico e, successivamente, anche due soccorritori. Nonostante il pericolo, uno dei fratelli di Alì decide di provare a salvarlo. Insieme ad un amico, riesce ad introdursi ad Houla con un piccolo motorino. I due afferrano il corpo di Alì, lo trascinano per un tratto di strada per poi caricarlo in mezzo a loro. Fuggono tra gli spari dei soldati israeliani. Purtroppo, però, per Alì non c’è più nulla da fare.

Ghassan è un giovane ingegnere, anche lui è di Houla, caro amico e vicino di casa di Alì. Ci racconta: «Con Alì siamo praticamente cresciuti insieme. Per lavoro o per studio, molti giovani lasciano il Sud, lui invece aveva deciso di rimanere. Era il più piccolo di dieci fratelli, suo padre era un’insegnante, e sua madre ha sempre lavorato la terra nella produzione del tabacco. Tutti, nel Paese, lo conoscevano come una persona pacifica, dal grande cuore. Nella sua vita non si era mai interessato di politica. Quando hanno evacuato Houla, lui è stato uno di quelli che ha cercato di rimanere fino alla fine, fin quando non è diventato troppo pericoloso. In seguito alla partenza forzata, anche fuori dal suo Paese, Alì continuava a frequentare i suoi concittadini: non vedeva l’ora di tornare. L’amore per la sua terra era così grande che, su Houla, ha scritto poesie meravigliose. Ora, dopo la sua morte e grazie ai social media, le sue parole stanno diventando sempre più conosciute. Una delle cose che più mi ha fatto male, è stato vedere come suo fratello ha dovuto provare a soccorrerlo, caricandolo su un motorino. Il video di quella scena mi ha fatto piangere».

La storia di Alì è solo uno dei numerosi esempi di quello che sta accadendo in questi giorni, nel Sud del Libano. Imboscate, attacchi e bombardamenti stanno colpendo tutti i villaggi da cui Israele avrebbe dovuto ritirare le sue truppe. Famoso è già diventato un video che mostra delle donne, nella cittadina di Maroun El Rais, mettersi di fronte ai carrarmati israeliani per impedirne l’entrata nel loro paese.

Nabatiye, un campo di calcio distrutto. Questo spazio è usato anche durante le funzioni religiose dell’Ashura. Il 28 gennaio, anche Nabatiye ha ripreso ad essere attaccata dall’Idf. Non essendoci più un posto davvero sicuro, molti dei rifugiati del Sud si sposteranno nei centri di accoglienza di Beirut. (Foto Angelo Calianno)

Martedì, 28 gennaio. Oggi si tengono molti dei funerali di chi ha provato a tornare a casa, rimanendo ucciso nel tentativo di farlo. Per molte famiglie è stato impossibile recuperare i corpi, così, molti genitori ora piangono su dei vestiti, l’unica cosa rimasta dei propri figli. Contemporaneamente ai funerali, alcuni razzi israeliani sono tornati anche a colpire Nabatiye, città che era stata già devastata prima del cessate il fuoco. Con il nuovo presidente al potere, sostenuto dall’Occidente, e con il forte indebolimento di Hezbollah, da due mesi totalmente sparito dal campo, le popolazioni del Sud del Libano si sentono abbandonate e senza una voce che possa difenderli.

Quando chiediamo ancora a Ghassan il perché di tutto questo e perché Israele, nonostante gli accordi, continui a occupare il Libano, lui ci risponde: «Storicamente, Israele ha sempre usato la forza contro di noi, anche quando non era necessario. Essendo molto avanzati tecnologicamente, potrebbero raggiungere i loro obiettivi senza il bisogno di uccidere. Invece, usano la violenza per farci del male e intimidirci. Secondo me, questo è il motivo di tutta questa distruzione nel Sud, in nessuna di quelle case bombardate c’era Hezbollah. Gli attacchi sono stati perpetrati per ricordarci la loro presenza, e di che cosa sarebbero capaci se osassimo ribellarci. Noi però non siamo solo numeri, non può esserci tutta questa ingiustizia. Ciò che sta accadendo deve essere raccontato e conosciuto in tutto il mondo».

Angelo Calianno




Filippine. Un villaggio per il dialogo islamo cristiano

 

Nell’isola di Mindanao, in una zona a maggioranza islamica, un missionario cattolico e un intellettuale musulmano hanno fondato un villaggio (e un movimento chiamato Silsilah) del dialogo, nel quale cristiani e musulmani condividono vita quotidiana e fedi.

Quando si entra nel «Villaggio dell’armonia», alla periferia di Zamboanga del Sur, città sull’isola filippina di Mindanao, si ha la sensazione di entrare in un’oasi.
Affacciata sul mare delle Sulu, una corona di piccole isole, Zamboanga si trova all’estremità di una sottile lingua di terra, propaggine occidentale dell’isola di Mindanao, ed è un porto frequentato da commercianti, pescatori, nomadi del mare, genti e viaggiatori di ogni lingua, etnia e cultura che solcano i mari del Sud.

In quest’area, vi sono le province che compongono la Regione autonoma di Bangsamoro in Mindanao musulmana (Barmm), ovvero il territorio che accoglie una consistente popolazione musulmana di circa sei milioni di anime. La regione rappresenta un tratto peculiare delle Filippine meridionali: i seguaci di Maometto in essa sono la maggioranza, mentre nella totalità dell’arcipelago – che conta oltre 100 milioni di abitanti, ed è al 90% cattolico – sono una minoranza di circa il 6%.

Una tenuta di 14 ettari (un villaggio, un bosco, campi coltivati), situata su una collina a 7 chilometri dalla città, ospita un villaggio speciale, ricco di luoghi silenziosi per la meditazione, una casa di preghiera cristiana, una casa di preghiera musulmana, un asilo nido, una biblioteca e una sala conferenze.
La scritta «Villaggio dell’armonia» che accoglie il visitatore, promette bene. Appena si giunge, infatti, si viene accolti da persone sorridenti che guidano quanti voglio addentrarsi in quell’oasi verdeggiante. Lungo il viale d’ingresso, si viene accompagnati da cartelli che propongono la «preghiera dell’armonia», un’invocazione interreligiosa, recitata da cristiani e musulmani, che chiede a Dio di aiutare ogni credente a costruire la pace in quattro fondamentali dimensioni: prima di tutto dentro se stessi; poi nel rapporto con Dio; nella relazione con il prossimo; infine nella cura del creato.
Sono le quattro dimensioni che caratterizzano e raccontano l’essenza di «Silsilah» (temine della mistica che significa «catena»), il movimento per il dialogo islamo-cristiano nato a Zamboanga dall’intuizione di un missionario cattolico italiano, padre Sebastiano D’Ambra, del Pontificio Istituto per le missioni estere (Pime), accanto a un intellettuale e studioso musulmano, con cui condivideva la medesima visione, Dinggi Mc Cormick, cofondatore del movimento.
Toccati dall’esperienza del conflitto tra musulmani e cristiani a Mindanao – una guerriglia nata già dagli anni 70 del Novecento – e desiderando percorrere e approfondire le vie del dialogo con persone di tutte le culture e religioni, i due diedero inizio al movimento Silsilah, insieme a un gruppo di amici musulmani e cristiani, il 9 maggio 1984.

«Il dialogo parte da Dio e riporta le persone a Dio», va ripentendo D’Ambra. Il movimento, promotore di una profonda esperienza di dialogo spirituale e di condivisione di vita tra persone di fedi diverse, ha compiuto 40 anni: un cammino che è stato a tratti accidentato e doloroso, ma anche punteggiato da gioie e frutti insperati.
Una sofferenza indelebile è stata la perdita di Salvatore Carzedda, un altro missionario Pime che aveva condiviso parte del cammino, ucciso da gruppi violenti che avversavano ogni tentativo di dialogo. Grazie alla forza spirituale; grazie al motto «Padayon!», cioè «andiamo avanti», anche nelle avversità; grazie alla sua valenza profetica; Silsilah può dire oggi di aver contribuito a diffondere la cultura del dialogo e lo spirito della riconciliazione nelle Filippine e in tutto il mondo.

«Nel corso di 40 anni – ricorda padre D’Ambra -, Silsilah ha incontrato migliaia di amici musulmani e cristiani. È un’esperienza che ha generato frutti e ha assunto gradualmente un valore universale», spiega il missionario italiano che, fin dall’inizio, volle promuovere la condivisione di vita tra famiglie cristiane e musulmane nell’ottica di considerarsi reciprocamente l’amico, non il nemico, della porta accanto.

Così quel movimento ha unito fin dal principio spiritualità e vita, fede e azione, in una quotidianità comune che ha reso il villaggio un punto di luce per molti: studenti, religiosi, giovani e adulti hanno seguito seminari, corsi residenziali, esperienza di «immersione» che hanno lasciato un segno e generato altrove i Forum Silsilah.
La «spiritualità della vita in dialogo» è contagiosa, e si è diffusa in tutto il mondo.

Paolo Affatato




Stati Uniti. Una voce critica, imprevista e sgradita

 

Applausi e inchini hanno caratterizzato il rientro alla Casa Bianca di Donald Trump. Il 20 gennaio non tutto, però, è filato liscio come il tycoon sperava. L’inconveniente è capitato nella Washington National Cathedral, la chiesa che, dal 1933, nel giorno inaugurale ospita la preghiera ufficiale per i presidenti eletti. È accaduto che una donna abbia rotto l’incantesimo della celebrazione.

Il suo nome è Mariann Edgar Budde, vescovo della Chiesa episcopale di Washington. Sposata e madre di due figli, 65 anni, Budde è la prima donna a guidare la diocesi episcopale della capitale statunitense, una posizione che ricopre dal 2011. Sovrintende a 88 comunità tra il Distretto di Colombia e il Maryland, per un totale di 38mila membri.

Mariann Edgar Budde, vescovo della Chiesa episcopale di Washington, ha tenuto un sermone critico verso Donald Trump il primo giorno del suo mandato (20 gennaio 2025). Il tycoon non l’ha presa bene. (Photo Paul E. Alers – Nasa)

«Mi consenta di fare un ultimo appello, signor Presidente – ha detto il vescovo dal pulpito della cattedrale -. Vi chiedo di avere pietà delle persone nel nostro Paese che ora sono spaventate». Tra queste, ha citato le famiglie composte da persone gay, lesbiche e transgender e poi ha fatto riferimento agli immigranti: «La stragrande maggioranza di loro – ha aggiunto Mariann Budde – non sono criminali, ma buoni vicini e membri fedeli delle comunità religiose».

Visibilmente contrariato, Trump non ha gradito la predica, affermando: «Non penso che abbia fatto un buon servizio». Il sermone critico del vescovo è stato soltanto un piccolo intoppo, ma non è stato dimenticato. Tanto che due giorni dopo il presidente è intervenuto su Truth, la piattaforma social di cui è proprietario, definendo Budde, «il cosiddetto vescovo», una persona di «estrema sinistra che odia Trump» e chiedendo pubbliche scuse per «le sue dichiarazioni inappropriate».

L’interessata non è indietreggiata. In un’intervista con la Associated Press, il vescovo ha detto che avrebbe continuato a pregare per il presidente, com’è sua consuetudine. «Non condivido molti dei suoi valori e presupposti sulla società americana e su come rispondere alle sfide del nostro tempo – ha spiegato -. In realtà, sono fortemente in disaccordo, ma credo che possiamo essere in disaccordo con rispetto mettendo in campo le nostre idee e continuando a sostenere le nostre convinzioni senza ricorrere alla violenza della parola».

Nel suo primo giorno da presidente, Donald Trump ha firmato 26 ordini esecutivi (contro i 9 che firmò Joe Biden), uno dei quali per cancellare 78 ordini esecutivi del suo predecessore.

Nei giorni successivi all’insediamento, il tycoon ha dato il via a quanto ampiamente propagandato: retate e deportazioni dei migranti irregolari presenti sul territorio statunitense. Martedì 28 gennaio la neo segretaria del Dipartimento della sicurezza interna (Homeland security), Kristi Noem, ha annunciato che gli agenti federali dell’immigrazione avevano avviato un’azione di contrasto a New York. La ministra ha, quindi, postato su X il video di un arresto con una frase di commento: «Rifiuti come questo continueranno a essere rimossi dalle nostre strade».

Paolo Moiola




Congo Rd. Il Rwanda alla conquista di Goma

 

La città di Goma, capitale provinciale del Nord Kivu, è da ieri pomeriggio, domenica 26 gennaio, sotto assedio da parte dei cosiddetti ribelli antigoverantivi M23 e dalle truppe regolari del Rwanda (3-4mila uomini). Militari ruandesi e ribelli hanno occupato diversi quartieri della città, compreso l’aeroporto che è stato saccheggiato e, al momento, risulta inagibile anche ai voli umanitari. Tutte le strade di accesso a Goma sono bloccate.

In città sono sempre presenti anche truppe congolesi delle Fardc (Forze armate della Rdc). Nel momento in cui scriviamo la città non è ancora caduta completamente ma alcuni centri di controllo sono in mano ai ribelli e si spara in diversi quartieri. Intanto alcuni reparti della Monusco, missione di peacekeeping delle Nazioni Unite (riconfermata il 20 dicembre scorso), sono stati attaccati dall’M23 nei giorni scorsi, e hanno subito perdite di alcuni caschi blu.

Goma conta circa un milione di abitanti, più un milione di sfollati dal resto del Kivu, causati della guerra in corso da almeno tre anni (nella sua ultima fase), che vivono in campi profughi intorno alla città. Dopo i primi attacchi, molti sfollati sono fuggiti verso la città, dove la popolazione è senza acqua ed elettricità.
«Siamo sotto le bombe» ci scrive da Goma un abitante. «Sono chiuso in casa con la mia famiglia». Intanto giungono video girati con il cellulare di sparatorie e gente che fugge.
La frontiera con il Rwanda (Gisenyi) è chiusa o, meglio, non ci sono funzionari di frontiera. Da parte ruandese autobus aspettano per evacuare il personale umanitario delle Nazioni Unite. Abitanti della città, fin da ieri, hanno tentato ugualmente il passaggio per fuggire da bombe e sparatorie. Il centro urbano arriva praticamente in prossimità della frontiera. Il passaggio pare sia stato bloccato a partire da domenica sera.

La prigione di Munzenze ha preso fuoco, e migliaia di detenuti sono fuggiti.
Si rischia una ulteriore crisi umanitaria con centinaia di migliaia di profughi che cercheranno rifugio nei paesi della regione.
Il presidente del Kenya, Wlliam Ruto, ha convocato un incontro straordinario della Comunità degli stati dell’Africa dell’Est per mercoledì 29 gennaio, al quale dovranno partecipare il presidente del Rwanda, Paul Kagame, e quello del Congo Rd, Félix Tshisekedi.

Domenica 26 si è tenuta una riunione d’urgenza del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (Cs), dedicato al precipitare della situazione nel Nord Kivu.
La ministra degli esteri del Congo Rd, Thérèse Kayikwamba Wagner, ha chiesto al Cs di emettere delle sanzioni nel confronto del Rwanda, che sta a tutti gli effetti, invadendo il territorio del paese sovrano confinante. La ministra ha anche chiesto un embargo totale sui minerali esportati dal Rwanda, come oro e coltan, che sono estratti illegalmente nell’Est del Congo.
Per la prima volta il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha nominato il Rwanda nel chiedere che vengano ritirate le sue truppe dal territorio congolese: «[…] profondamente preoccupato per l’escalation della violenza […] chiedo che le Forze ruandesi di difesa di interrompere il loro sostengo all’M23 e ritirarsi dal territorio congolese».
Per parte sua, Kigali continua a negare al presenza dei propri militari oltre confine.
A Goma, la situazione rimane estremamente volatile, e gli scontri sono tuttora in corso.

Per un approfondimento sul Congo Rd si veda qui.

Marco Bello




Niger. La detenzione arbitraria di Moussa Tchangari

 

Resta in carcere, con accuse pesantissime, l’attivista e difensore dei diritti umani Moussa Tchangari, segretario generale dell’Ong nigerina Alternative espaces citoyens (Aec).

Tchagari è stato prelevato la sera del 3 dicembre, a casa sua, da uomini in abiti civili ma armati, probabilmente elementi dei servizi segreti, senza mandato d’arresto. Il suo computer e il telefono sono stati sequestrati.
Tchangari è poi ricomparso, due giorni dopo, in detenzione presso locali dei servizi di lotta antiterrorismo e la criminalità organizzata.
Non è l’unico che ha subito questo trattamento da quando, dopo il golpe del 26 luglio 2023, sono al potere i militari del Consiglio nazionale per la salvaguardia della patria (Cnsp), diretto dal generale Abderramane Tiani, attuale capo di stato. Le libertà sono state drasticamente ridotte e la società civile, ma anche ogni voce dissonante con la giunta al potere, è presa di mira.

Dopo un mese senza avere contatti con i famigliari, il 3 gennaio Tchangari è stato condotto davanti al giudice d’istruzione che lo ha incolpato di pesanti capi d’accusa, tra i quali: attentato alla sicurezza dello stato, associazione terroristica, attentato alla difesa nazionale e combutta con potenze nemiche. L’attivista è stato, dunque, traferito alla prigione di Filigué, città a 180 km a Nord Est della capitale Niamey.
Qui, il giorno 5 gennaio ha finalmente potuto incontrare la moglie e alcuni stretti collaboratori, tra i quali il giurista Mamane Kaka Touda .
Organizzazioni della società civile nigerine e internazionali si sono mobilitate in suo favore. Amnesty International, Humans Rights Watch e la Federazione internazionale dei diritti dell’uomo (Fidh) hanno chiesto la sua liberazione immediata.
Hassatou Ba Minté, resposabile Africa delle Fidh, ha sottolineato come la repressione dei difensori dei diritti umani e dei militanti pro democrazia è in forte aumento in tutti i paesi dell’area. Ha voluto ricordare come sia contro produttivo, per i governi, considerare la società civile come un nemico interno.

Missioni Consolata ha incontrato a più riprese Moussa Tchangari nel suo ufficio di Niamey e ha pubblicato diverse sue interviste e testimonianze.
Tchangari, fondatore nel 1994 di Alternative espaces citoyens, è un uomo integro, un militante senza compromessi. È rimasta una delle poche voci critiche del regime di Niamey e degli altri stati golpisti del Sahel, Mali e Burkina Faso che, nel settembre 2023, si sono uniti in un blocco di cooperazione militare, politica ed economica, l’Associazione degli stati del Sahel (Aes, sigla in francese).

Abbiamo contattato Mamane Kaka Touda, che ci ha confermato: «Sono andato a visitare Moussa ancora sabato scorso (18 gennaio, ndr). Sta bene e il suo morale è alto, ma non abbiamo nessuna idea di quando potrà essere liberato».
Moussa Tchangari è forte della consapevolezza che nessuna minima prova potrà essere trovata per confermare i capi d’accusa che gli sono stati addebitati.

Marco Bello

 




Africa dell’Ovest. Via le basi della Francia

 

«No, non ci stiamo ritirando dall’Africa, la Francia è semplicemente lucida e si riorganizza. Abbiamo scelto noi di andare via dall’Africa perché era necessario farlo». A pronunciare queste parole è Emmanuel Macron, presidente francese, durante la tradizionale conferenza con gli ambasciatori il 6 e 7 gennaio.

L’inquilino dell’Eliseo poi prosegue: «Credo che abbiano dimenticato di dirci grazie». E chiude, accusando di «ingratitudine» tutti «quei governanti africani che non hanno avuto il coraggio di riconoscere che non sarebbero al potere oggi se l’esercito francese non fosse intervenuto».

A dettare le parole di Macron è stata una rapida catena di eventi: tra novembre e dicembre 2024, Ciad, Senegal e Costa d’Avorio – tre ex colonie, storiche alleate di Parigi – hanno chiesto il ritiro dei militari francesi dai loro territori. Causando la risposta – frustrata e fuori contesto storico – del presidente francese.

Dal canto loro, i governi africani hanno reagito in modo veemente. A riassumerne il pensiero è stato il presidente del Ciad, il militare Mahamat Déby Itno: «Queste parole rasentano il disprezzo per l’Africa e gli africani». Il Primo ministro senegalese, Ousmane Sonko, invece ha puntualizzato che «la decisione [di chiedere il ritiro] è frutto della volontà del Senegal, in quanto Paese libero, indipendente e sovrano».

Ma questa è solo l’ultima tappa di una lunga storia. Quella dell’erosione graduale e inevitabile della Françafrique, l’insieme dei legami che la Francia ha a lungo mantenuto con le sue ex colonie. Negli ultimi anni, i sentimenti antifrancesi in Africa sono crescenti. Parte del malcontento deriva dalle ferite lasciate aperte dalla colonizzazione: ad esempio, Parigi si è assunta solo di recente la responsabilità della violenta repressione dei Tirailleurs sénégalais, avvenuta esattamente 80 anni fa. Si tratta di soldati africani che furono obbligati a combattere per la Francia nella Seconda guerra mondiale e che protestavano per i ritardi nel pagamento dei salari.

Molto altro risentimento invece è frutto delle politiche predatorie delle aziende francesi. Nel continente sono più di 200, tra cui TotalEnergies, colosso degli idrocarburi, e Orano, leader mondiale nell’estrazione di uranio. Ma più che lavorare insieme ai Paesi africani per la loro crescita economica, queste compagnie difendono gli interessi di Parigi, privando l’Africa di risorse e mezzi utili allo sviluppo.

Anche i militari che, negli anni, la Francia ha inviato per assistere e formare i soldati locali spesso sono accusati di debolezza e scarsa determinazione, soprattutto contro i jihadisti nel Sahel. Così, tra il 2022 e il 2023, dopo colpi di stato, Mali, Burkina Faso e Niger hanno chiesto il ritiro di 4.300 soldati francesi, accogliendo al loro posto i mercenari della russa Wagner. Poi hanno interrotto i rapporti diplomatici con Parigi, espellendo gli ambasciatori e sospendendo, tra le altre, «Radio France International» e «France 24».

Il 28 novembre 2024, poche ore dopo la visita del ministro degli Esteri francese, Jean-Noel Barrot, anche il Ciad ha chiesto il ritiro dei francesi. A dettare la decisione diversi fattori (tra cui la volontà di rivendicare la propria sovranità), ma soprattutto la consapevolezza che la Francia aveva nascosto informazioni vitali, che avrebbero evitato la morte di 40 soldati ciadiani per mano di Boko Haram (gruppo terroristico nato del Nord della Nigeria).

La perdita dell’ultimo avamposto nel Sahel è stata un duro colpo per Parigi. Ma neanche il tempo di rendersene conto che il presidente senegalese, Bassirou Diomaye Faye, ha avanzato la stessa richiesta, dicendo: «La sovranità non ammette la presenza di basi militari straniere sul nostro territorio». Niente di inaspettato: già in campagna elettorale, Faye e Sonko avevano fatto leva sulla difesa della sovranità senegalese e sulla riduzione della presenza straniera.

Infine, la Costa d’Avorio. Nel discorso di fine anno, il presidente Alassane Ouattara ha dichiarato che i militari francesi dovranno andarsene entro fine gennaio. Tra tutti, il suo annuncio, forse, è stato il più inaspettato per Parigi: il presidente ivoriano era considerato molto vicino a Macron, tanto da ipotizzare che parte delle truppe in Ciad e Senegal venisse riallocata proprio in Costa d’Avorio. Ma anche lì i sentimenti antifrancesi crescono, mentre si avvicinano le elezioni di ottobre: Ouattara non ha ancora annunciato se cercherà un quarto mandato, ma la possibilità è concreta.

Ad oggi, alla Francia in Africa resta ben poco. Sul piano militare, al di là di qualche contingente qua e là, Parigi ha un’ultima base con 1.500 soldati a Gibuti. A livello politico, invece, la rottura con molte ex colonie sta spingendo la Francia a cercare nuovi alleati, al di fuori della sfera storica della Françafrique. È proprio per questo che, negli ultimi mesi, Parigi ha iniziato a intessere relazioni sempre più forti con una delle maggiori economie del continente, la Nigeria.

Aurora Guainazzi




Mondo. Un grado e mezzo

 

È già accaduto: la soglia di 1,5 gradi centigradi è stata superata. Nei giorni scorsi, più organizzazioni scientifiche hanno annunciato che la temperatura media della Terra è salita oltre quel valore limite che, nel 2015, quasi 200 paesi avevano accettato firmando l’accordo di Parigi sul clima.

Lo scorso 10 gennaio, Copernicus, il programma di osservazione della Terra dell’Unione europea, ha divulgato un report drammatico sul clima del 2024: «Sono stati battuti – si legge – molteplici record globali, per i livelli di gas serra e per la temperatura dell’aria e della superficie del mare, contribuendo a eventi estremi, tra cui inondazioni, ondate di calore e incendi boschivi. Questi dati evidenziano gli impatti accelerati del cambiamento climatico causato dall’uomo».

Secondo gli scienziati, anche i recenti devastanti incendi di Los Angeles sono stati favoriti dai cambiamenti climatici. La rivista «Nature», una delle più prestigiose riviste scientifiche del mondo, ha commentato (10 gennaio) che «il mondo si sta muovendo in territorio pericoloso, forse più rapidamente di quanto si pensasse in precedenza». Tuttavia, ha osservato che la media decennale rimane ancora sotto il limite di 1,5 gradi. Ma per non indulgere in ottimismo precisa che, quando anche la media decennale sarà superata, «il pianeta avrà accumulato ancora più calore, amplificando ulteriormente violente tempeste e incendi, danni all’ecosistema e innalzamento del livello del mare».

Sulla stessa linea l’ultimo rapporto di «The Lancet» su salute e cambiamento climatico (datato 9 novembre 2024) secondo il quale «in tutto il mondo le persone stanno affrontando minacce da record per il loro benessere, la loro salute e la loro sopravvivenza a causa del rapido cambiamento climatico. Dei 15 indicatori che monitorano i rischi per la salute, le esposizioni e gli impatti correlati al cambiamento climatico, dieci hanno raggiunto nuovi record preoccupanti nell’ultimo anno di dati». Per esempio, la mortalità correlata al calore per le persone di età superiore ai 65 anni è aumentata del 167% rispetto agli anni Novanta. Allo stesso modo, è aumentato il rischio di stress da calore per le persone che praticano attività fisica all’aperto e le ore di sonno perse.

Inoltre, si legge ancora nel rapporto di The Lancet, le condizioni meteorologiche più calde e secche hanno contribuito ad aumentare il numero di persone esposte a concentrazioni di particolato pericolosamente elevate. Nel frattempo, i cambiamenti delle temperature e delle precipitazioni stanno favorendo la trasmissione di malattie infettive come la dengue, la malaria, la malattia correlata al virus del Nilo occidentale e la vibriosi, «esponendo le persone al rischio di trasmissione in luoghi precedentemente non colpiti».

Insomma, la comunità degli scienziati e dei ricercatori sta facendo quanto di sua competenza per mettere in guardia e affrontare il cambiamento climatico. Anche papa Francesco lo ripete praticamente in ogni occasione pubblica. «Abbiamo il dovere – ha detto nel discorso al corpo diplomatico (9 gennaio) – di esercitare il massimo sforzo per la cura della nostra Casa comune e di coloro che la abitano e la abiteranno». Molto meno attenta e reattiva è, invece, la parte politica.

Donald Trump, il nuovo presidente Usa, è da sempre un negazionista climatico. Dal canto suo, anche l’Europa, il continente con le normative ambientali più stringenti, pare avere un ripensamento sulla spinta dei partiti sovranisti. Per tutto questo, per la questione climatica le prospettive presenti e future non appaiono per nulla incoraggianti.

Paolo Moiola




Mondo. Bambini senza nome

Due bambini su dieci non vengono registrati all’anagrafe. Sono 150 milioni: privi di uno dei loro diritti fondamentali.

Ogni dieci bambini nati negli ultimi cinque anni nel mondo, due non sono stati registrati.
Sono 150 milioni in tutto, secondo un recente rapporto Unicef, distribuiti in molti Paesi del Sud globale. Novanta milioni solo nell’Africa subsahariana.
Sono bambini «senza nome», privi di identità legale. Giuridicamente invisibili. Inesistenti per i Paesi nei quali sono nati.

Non a caso la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, che il 20 novembre scorso ha compiuto 35 anni, pone il diritto al nome e all’identità personale dei bambini tra quelli fondamentali, subito dopo il diritto alla vita, alla sopravvivenza e allo sviluppo.

«La società – si legge nel rapporto dell’Unicef – riconosce per la prima volta l’esistenza e l’identità di un bambino attraverso la registrazione della nascita. Un certificato di nascita è la prova di questa identità legale ed è la base su cui i bambini possono stabilire una nazionalità, evitare il rischio di apolidia e cercare protezione dalla violenza e dallo sfruttamento. Ad esempio, il possesso di un certificato di nascita può aiutare a prevenire il lavoro minorile, il matrimonio infantile e il reclutamento di minorenni nelle forze armate, poiché consente di verificare l’età del bambino. Il certificato di nascita può essere richiesto anche per accedere ai servizi in settori quali la sanità, l’istruzione e la giustizia».

Dietro la cifra anonima, ci sono volti e vite reali: bambini yemeniti nati in un paese in guerra da anni, rohingya discriminati e non riconosciuti in Myanmar, neonati della striscia di Gaza, ma anche semplicemente un bambino del Ciad o della Papua Nuova Guinea nato in un villaggio sperduto da una madre sola e priva di mezzi.

I motivi della mancata registrazione possono essere molti: i costi inaccessibili per le famiglie, le distanze invalicabili degli uffici dai luoghi di nascita, le discriminazioni etniche o religiose, l’assenza di consapevolezza nei genitori.

«Ho sette figli – dice Rehema, mamma tanzaniana, in un virgolettato riportato nel report di Unicef -. La mia primogenita ha avuto la fortuna di ottenere il suo certificato di nascita con l’aiuto di un’amica, poiché ne aveva bisogno per entrare all’università. Io non ho potuto aiutarla. […] Non potevo permettermi il costo e la procedura per ottenere i certificati di nascita dei miei figli. Abbiamo problemi finanziari e, anche se so che è importante, semplicemente non era una priorità».

Centocinquanta milioni di bambini sotto i 5 anni non registrati alla nascita corrispondono all’intera popolazione di Francia e Germania messe insieme. È una cifra che dobbiamo aumentare di altri 50 milioni se aggiungiamo quei bambini che, pur essendo stati registrati, non hanno un certificato tra le loro mani.

Gli estensori del rapporto Unicef indicano un trend mondiale positivo (nel 2024, la percentuale di piccoli registrati nel mondo è stata del 77%, mentre nel 2019 era del 75%) ma il miglioramento è inferiore alle attese. Di certo non si raggiungerà l’obiettivo dell’Agenda 2030 su questo tema.

 

 

Basti dare uno sguardo al planisfero qui sopra (tratto dal report di Unicef) per capire la portata del problema per molti paesi: in Etiopia, Zambia e Papua Nuova Guinea le registrazioni di bambini sotto i 5 anni sono state inferiori al 25%: meno di 3 bambini ogni 10.

I paesi che registrano una percentuale tra il 25 e il 50% sono dieci in Africa subsahariana (Congo Rd, Repubblica Centrafricana, Mozambico, Mauritania, Guinea Bissau, Ciad, Uganda, Angola, Zimbabwe, Lesotho) e tre in Asia (Yemen, Afghanistan e Pakistan). Seguono poi i dodici Paesi africani che, assieme a cinque asiatici e al Paraguay in America Latina hanno registrato tra il 51 e il 75% dei bambini negli ultimi 5 anni, e i diciotto che, nel mondo, hanno avuto percentuali tra il 76 e il 90%.

In occasione della pubblicazione del report, la direttrice generale dell’Unicef, Catherine Russell, ha concluso, dopo aver descritto la sintesi dei dati: «Nonostante i progressi, troppi bambini rimangono non contati e non censiti, di fatto invisibili agli occhi del governo o della legge. Ogni bambino ha il diritto di essere registrato e di ricevere un certificato di nascita, in modo da essere riconosciuto, protetto e sostenuto».

Luca Lorusso