Italiani subito

12 maggio 2016.

Agli immigrati di seconda generazione, nati e cresciuti in Italia, deve essere riconosciuto il diritto di cittadinanza. Lo sostengono le riviste missionarie e le associazioni per i diritti dei migranti. Che chiedono sia presentato quanto prima al Senato, per la sua definitiva approvazione, il disegno di legge sullo ius soli.

In sintonia con la Campagna ‘L’Italia sono anch’io’, sostenuta da numerose organizzazioni della società civile, noi rappresentanti della stampa missionaria e di associazioni impegnate per i diritti degli immigrati, chiediamo al Parlamento italiano di portare a termine senza ulteriori dilazioni l’iter di riforma della legge che estende il diritto di cittadinanza agli stranieri nati nel territorio italiano. In modo particolare ci rivolgiamo alla presidente della Commissione affari costituzionali, Anna Finocchiaro, affinché stabilisca quanto prima la data per presentare al Senato il disegno di legge, già approvato in prima lettura alla Camera dei deputati il 13 ottobre 2015, per la sua definitiva approvazione.

La vigente legislazione, fondata su legami di sangue, garantisce il diritto di cittadinanza a nipoti di un nonno o nonna italiani, anche senza mai aver messo piede in Italia. A maggior ragione riteniamo giusto e doveroso che lo stesso diritto venga riconosciuto agli immigrati di seconda generazione, nati e cresciuti nel nostro paese, che oggi sono costretti ad attendere fino alla età di 18 anni prima di poter ottenere la cittadinanza. A tale obiettivo mira la riforma della legge 91 del 1992 che assicura ai figli di immigrati nati in territorio italiano da almeno un genitore con permesso di soggiorno di lungo periodo (ius soli temperato) o a seguito di un percorso scolastico (ius culturæ), il diritto a diventare cittadini.

L’approvazione della nuova legge – ne siamo certi – darà un segnale importante a oltre 1 milione di giovani di origine straniera che vivono in uno stato di precarietà esistenziale, che si sentono italiani di fatto, ma non lo sono per la legge. Grazie a questa normativa più della metà di costoro, con un genitore in possesso di un permesso di lungo soggiorno, potrebbero già beneficiare della riforma.

L’accesso alla cittadinanza è l’unica via in grado di consentire ai figli di immigrati di essere considerati alla pari, nei diritti e nei doveri, rispetto ai loro coetanei, figli di italiani.

Come cittadini e cittadine italiane riteniamo l’approvazione della nuova legge sulla cittadinanza agli stranieri un atto di giustizia che il nostro Parlamento è chiamato a compiere per rimediare a una discriminazione che penalizza i nostri fratelli e sorelle immigrati di seconda generazione.

 

Federazione Stampa Missionaria Italiana (Fesmi), segretario Gigi Anataloni 

Nigrizia, direttore Efrem Tresoldi

Missione Oggi, direttore Mario Menin

Cem Mondialità, direttrice Antonella Fucecchi

Emi, direttore Lorenzo Fazzini

Missionari Saveriani, direttore Filippo Rota Martir

Africa, direttore Marco Trovato

Missioni Consolata, direttore Gigi Anataloni

Mondo e Missione, direttore Giorgio Licini

Il Missionario, direttore Paolo Bagattini

ComboniFem, direttrice Paola Moggi

Andare alle genti, direttrice Gloria Elena López

Centro studi immigrazione (Cestim) – presidente Carlo Melegari

Centro Astalli, presidente Camillo Ripamonti

Migrantes diocesi di Verona, direttore Giuseppe Mirandola

 


Nuove adesioni

13/05/2016 – Aderisco alla campagna sul diritto di cittadinanza
Milena Santerini, deputata, presidente Alleanza parlamentare contro l’intolleranza e il razzismo del Consiglio d’Europa

13/05/2016 – Dichiaro di voler aderire all’appello per chiedere al Parlamento italiano di portare a termine al più presto l’iter di riforma della legge che estende il diritto di cittadinanza ai figli di immigrati nati in territorio italiano.
Agostino Menozzi – Reggio Emilia

13/05/2016 – Aderisco alla campagna
Lucia Saporiti

13/05/2016 – Condividendo pienamente quanto sostenuto dalla Campagna “Italiani subito”, desidero aderire sottoscrivendo.
Piergiorgio Bortolotti
– Vigalzano di Pergine (TN)

Modena, 16 maggio 2016 – Condividendo pienamente l’appello “DIRITTO DI CITTADINANZA-LA RIFORMA VADA AVANTI”, pubblicato su Avvenire del 13 c.m., lo sottoscrivo volentieri. Grazie,
Pasquale Quattrocchi 
(già Ordinario di Algebra presso l’Università di Modena e Reggio Emilia).

16/05/2016 – Aderiamo all’appello.
Giuseppe Casucci
Coord. Nazionale Dipartimento politiche Migratorie UIL

Sottoscrivo l’appello.
p. Dino Dozzi
direttore di “Messaggero Cappuccino


Per adesioni all’appello scrivete a:

Padre Gigi Anataloni segreteria.fesmi@gmail.com




Máxima Acuña Premio Goldman 2016 per l’Ambiente


Máxima Acuña, contadina peruviana, è la vincitrice indiscussa  del Premio Goldman 2016 per l’Ambiente, il Nobel dell’ecologia che ogni anno viene assegnato agli eroi ambientali dalla Fondazione Goldman Environmental. Il Goldman Environmental Prize è il più grande premio al mondo per gli attivisti ambientali.

Il Nobel per l’ambiente è andato quest’anno a Máxima Acuña, coraggiosa contadina peruviana analfabeta che ha difeso il suo territorio contro lo sfruttamento da parte di un colosso minerario intenzionato a scavare una miniera d’oro vicino al suo campo e prosciugare il lago, che serve per irrigare i campi, per trasformarlo in una discarica di rifiuti tossici.

Da: http://www.dailygreen.it/

Maxima è la protagonista del reportage di Simona Caino www.aguasdeoro.org, vincitrice con M.A.I.S. Ong di uno dei premi di Dev Reporter Network


Máxima Acuña, mujer campesina y agricultora gana el premio más importante sobre medio ambiente y ningún medio de comunicación transmitió en el Perú.

Da: https://www.youtube.com/watch?v=MSrzroFceh8


A subsistence farmer in Peru’s northe highlands, Máxima Acuña stornod up for her right to peacefully live off her own land, a plot of land sought by Newmont and Buenaventura Mining to develop the Conga gold and copper mine.

Da: https://www.youtube.com/watch?v=Gz8eZx8V4Uo

 




Lettera da Bangui, capitale della Misericordia

Bangui, 22 marzo 2016.

Eccomi con qualche importante aggiogamento da Bangui. Tra pochi giorni – dopo tre anni di attesa – la Repubblica Centrafricana avrà ufficialmente un nuovo presidente, questa volta eletto dal popolo e non dopo un colpo di stato, nella persona di Faustin-Archange Touadéra. L’elezione è stata un po’ una sorpresa in quanto Touadéra non era tra i favoriti. Ex-primo ministro di Bozizé – il presidente destituito dal colpo di stato del marzo 2013 – 58 anni, di confessione protestante, decano dell’università di Bangui e professore di matematica… dovrebbe avere tutti i numeri per prendere in mano le sorti di un paese provato da anni di guerra e di malgoverno. Siamo quindi autorizzati a dire che la guerra è finita per davvero? Preferiamo dirlo ancora sottovoce perché un po’ di prudenza e di realismo sono d’obbligo; ma c’è sicuramente un’atmosfera diversa e un grande desiderio di voltare pagina, chiudere questo triste capitolo della storia del paese e ripartire su nuove basi. Alcuni fatti sono incontestabili. Da quasi quattro mesi a Bangui – a parte qualche episodio isolato e senza particolari conseguenze – non si spara più. La campagna elettorale – chiassosissima, coloratissima e divertentissima – e le elezioni (presidenziali e legislative con primo e secondo tuo) si sono svolte senza grossi problemi o particolari incidenti. Se forse non sono state elezioni perfette, bisogna però considerare e apprezzare che sono state un passo importante e non scontato verso la normalizzazione del paese. Ma non ci facciamo illusioni: se la guerra è probabilmente finita, c’è però una battaglia importante da combattere contro la povertà e il sottosviluppo. Vi sono poi ancora alcune zone del paese dove l’autorità dello stato e le forze di pace faticano ancora ad imporsi. Inoltre, le minacce dei ribelli ugandesi del LRA, già attivi nella parte orientale del paese, come quelle di Boko Haram, attivi nel nord del Camerun, confinante con la parte nord-occidentale del Centrafrica, non sono da sottovalutare. C’è poi da vincere l’importante battaglia della riconciliazione tra cristiani e musulmani. Se devo essere sincero, mi sembra che sia molto di più ciò che è da costruire per la prima volta, rispetto a ciò che è da ricostruire perché distrutto dalla guerra. Questi brutti anni di sofferenza hanno rivelato i mali antichi del paese, i problemi sottovalutati, le negligenze colpevoli e le occasioni mancate. Ora non c’è che da mettersi al lavoro. Tutti, a cominciare soprattutto dai centrafricani, che forse dovrebbero amare di più il loro paese, essere più esigenti nei confronti di chi li governa, smetterla di accusare gli altri, avere qualche ambizione e osare anche qualche sogno per un Centrafrica diverso. Ma anche il vostro aiuto e il vostro sostegno sono importanti. Ci avete seguito con passione e amicizia in questo notte di guerra… non abbandonateci in questa alba di pace che ci pare di intravedere all’orizzonte!

Non c’è dubbio che la visita di Papa Francesco a Bangui – il 29 e 30 Novembre 2015 – abbia notevolmente contribuito a questo cambio di rotta. Forse non è azzardato affermare che la visita del Papa – incerta fino all’ultimo – sia stata addirittura determinante. Ma andiamo con ordine…

Guerra, ritorno di fiamma

In effetti, tra la fine di settembre e l’inizio di novembre, la città di Bangui è stata nuovamente colpita da una fiammata di violenza, soprattutto nella zona del Km5. Barricate sulle strade, spari, saccheggi, case bruciate, una chiesa distrutta, evasione di massa dalla prigione, decine di morti, feriti, coprifuoco e, ovviamente, un nuovo movimento di profughi in fuga dai quartieri colpiti dalle violenze verso la zona sud della capitale. Gli scontri non sono mai stati così vicini al Carmel e per diversi giorni gli elicotteri da combattimento hanno sorvolato sopra la nostra zona. Per alcune settimane ci è come sembrato di trovare alla casella di partenza. Se a fine agosto contavamo circa 2.000 profughi attorno al convento, in quei giorni il loro numero è rapidamente aumentato, giungendo – nella fase più acuta dei combattimenti e soprattutto durante la notte – a circa 7.000 persone, tra le quali anche qualche vecchia conoscenza e non pochi bambini che, fuggendo, avevano perso i loro genitori. Ovviamente siamo stati costretti a riaprire il grande cortile all’intero del convento e, per qualche notte, anche la chiesa per permettere ai nuovi arrivati di dormire in sicurezza. I ‘vecchi profughi’, che erano ancora rimasti al Carmel, hanno dapprima preso in giro i nuovi arrivati e fatto qualche difficoltà, ma poi l’accoglienza è stata calorosa: “Ve l’avevamo detto che la guerra non era finita! E voi pensavate che fossimo rimasti qui solo per il riso e per i fagioli della Croce Rossa. Non importa. Ci stringiamo un po’ e ci sarà spazio anche per voi”. Non sono mancate le corse all’ospedale per qualche ferito o malato grave e le mamme che hanno dato alla luce le loro creature in situazioni precarie. Una donna ha avuto giusto il tempo di partorire in quartiere e poi, a causa dei combattimenti, è subito scappata qui da noi con la sua bambina in braccio. Un’altra ha partorito durante l’adorazione eucaristica della domenica. Non ha fatto in tempo ad arrivare al cancello del convento e ha partorito distesa per terra, in una tenda. Il nostro postulante Aristide è accorso, quasi a cose fatte, con fra Jeannot-Marie che, senza neanche togliersi il santo abito, ha fatto da aiuto-ostetrico… Un’altra ancora è riuscita a camminare fino al cancello. L’abbiamo subito accompagnata nella sala del capitolo dove si è distesa per terra. Aristide ha avuto giusto il tempo d’indossare i guanti e un grembiule… e abbiamo sentito un bambino piangere. Eravamo tutti alla ricreazione dopo cena. Quando la bimba è stata presentata non sono mancati gli applausi e il padre priore ha proceduto alla benedizione di rito. Se la mamma fosse partita un minuto dopo, o il convento fosse stato 50 metri più in là, avrebbe partorito chissà dove e chissà come!

ALLIEVO SCUOLA CAMPO PROFUGHIQuando la città era semideserta – e anche noi per giorni abbiamo evitato di uscire – c’è stata però una persona che ha avuto il coraggio di raggiungerci per ben due volte, sfidando, con il suo immancabile sorriso e la sua ostinata voglia di pace, le barricate dei ribelli, portando riso, olio, sardine per i nostri profughi. Questa persona è mons. Dieudonné Nzapalainga, il nostro infaticabile arcivescovo.

Superata la fase più acuta dei combattimenti ci siamo organizzati, con l’aiuto di diverse Ong, per venire in soccorso di questo nuovo afflusso di popolazione. Dapprima è stato installato un nuovo serbatornio di acqua, poi sono state fatte alcune distribuzioni di cibo, sapone, vestiario e zanzariere. Sono ripresi i controlli dei bambini malnutriti e le iniziative in favore delle persone anziane o vittime di violenze. In collaborazione con l’Ong Enfants sans frontières siamo stati poi ‘costretti’, in tempi record, ad aprire una scuola elementare di emergenza… senza sedie e senza banchi, ma almeno al riparo del sole e della pioggia. La scuola è ancora funzionante e conta ben 927 allievi!

BAMBINI SCUOLA CAMPO PROFUGHI 1

Papa Francesco

Papa porta BanguiPotete quindi ben immaginare come un po’ di apprensione per la venuta del Papa fosse più che giustificata. Ma per fortuna Papa Francesco – dopo aver dichiarato di essere disposto a raggiungerci anche con il paracadute e di temere più le zanzare che la Seleka – è riuscito finalmente a venire a Bangui e il programma previsto è stato perfettamente rispettato. Quando lo attendavamo in migliaia, assiepati nella cattedrale in attesa dell’apertura della Porta Santa, temevo che Papa Francesco – pur di ricordarci che dobbiamo essere una Chiesa in uscita – sbucasse dalla sacrestia, aprisse le porte della cattedrale dall’interno verso l’esterno e ci facesse uscire tutti per le strade di Bangui fino al Km5. Ma il cerimoniale è stato rispettato, anche se con una piccola sorpresa che è anche una grande responsabilità: papa Francesco ha aperto la Porta Santa di Bangui dall’esterno verso l’interno e ha dichiarato che da quel momento Bangui sarebbe diventata la capitale spirituale del mondo. Ma le strade di Bangui Papa Francesco le ha percorse per davvero. E non ha temuto di attraversare – di fatto il primo a farlo, dopo l’ultima ondata di violenze e senza particolari misure di sicurezza – anche la temutissima zona del Km5 visitando la Moschea Centrale e incontrando i nostri fratelli musulmani. Questo e altri gesti, insieme ai diversi discorsi pronunciati nei due giorni trascorsi a Bangui, hanno di fatto segnato una svolta in questa brutta guerra nella quale il paese era caduto e dalla quale non riusciva a rialzarsi. Ci vorrà del tempo per valutare correttamente le conseguenze di questa visita, ma qualcosa è sicuramente cambiato, qualcosa è iniziato, e nessuno ha più voglia di tornare indietro.

Sorprese natalizie

Poi è arrivato Natale, ormai il terzo in compagnia dei nostri profughi. Per l’occasione abbiamo pensato di compiere un censimento da fare invidia a Cesare Augusto. Ci siamo quindi organizzati in modo che il censimento fosse fatto bene e in tempi rapidi. Una sera, a partire dalle 19.00 quando ormai tutti erano rientrati, ci siamo sparpagliati tra le tende del campo profughi. Ognuno di noi ha censito – persona per persona, indicando le dimensioni di ogni famiglia e il quartiere di origine – una delle dodici zone in cui è suddiviso il campo. È stata anche una bella occasione per stringere la mano a tutti i nostri ospiti. Quando è ormai notte, ad un giovane papà pongo la domanda di rito: “Quanti figli?” “Otto”, mi risponde con un sorriso e non poca fierezza. “Non è possibile! So mvene! Stai mentendo per avere più riso dalla Croce Rossa”. “Mbi tene mvene ape! Non mento! Se non ci crede, entri pure e verifichi. È una scuola matea”. Entro discretamente nella sua umile dimora e conto – su un solo letto e qualche stuoia – otto bambini e ragazzi, profondamente addormentati. “Mio padre ha avuto dieci figli ed io sono l’ultimo. Devo fare altrettanto”. Che dire? Paese che vai, usanze che trovi. A ciascuno le sue tradizioni, i suoi obiettivi e le sue unità di misura! Manca poco a mezzanotte e siamo tutti rientrati in convento. Il conto è presto fatto sommando i dati di ogni zona: nel nostro campo profughi abitano 5.031 persone. Dopo aver comunicato questo dato all’Alto Commissariato per i profughi scopriamo che il nostro è, per popolazione, il secondo campo profughi più grande dopo quello dell’aeroporto.

Natale 2014 nel campo profughi del convento dei carmelitani di bangui.
Natale 2014 nel campo profughi del convento dei carmelitani di Bangui.

Anche questa volta, due giorni prima di Natale, la Provvidenza non ha mancato di sorprenderci. Una mamma molto buona si è presa a cuore i nostri bambini (ne ha messi al mondo cinque e quindi se ne intende) e ci ha fatto pervenire ben 1500 giocattoli in regalo per i tutti i nostri bambini: palloni, bambole, orsacchiotti, macchinine, pupazzi, giochi di società… Per una simpatica e curiosa coincidenza, questi doni per i più piccoli hanno viaggiato, sullo stesso aereo proveniente dalla Francia, insieme alle schede elettorali per i più grandi. Ma non è stato tutto. Tutti i nostri bambini – sempre grazie alla stessa persona – hanno ricevuto anche un grazioso libretto di preghiere tutto colorato e stampato apposta per loro. Siamo ormai capitale spirituale del mondo… noblesse oblige!

Ricominciare

A questo punto sono sicuro che avete una domanda: “Ma se la guerra è finita, perché questa brava gente non se ne torna a casa? Non stanno forse approfittando della situazione? Questa gente non se ne andrà più…”. La domanda è legittima e ce la poniamo anche noi ogni giorno; la risposta è più complessa e richiede discernimento e molta pazienza. Ci siamo dati – fin dall’inizio – alcune semplici regole: accogliere chiunque stia fuggendo (a condizione che non sia armato), non cacciare nessuno, rispondere alle urgenze (nei limiti delle nostre capacità e degli aiuti ricevuti), non fare nulla che favorisca la formazione di un villaggio attorno al Convento. L’impressione di chi viene a visitarci è che ormai il villaggio ci sia già – e anche grande e ben organizzato! – e che le condizioni di vita dei nostri profughi non siano poi così diverse da quelle di chi vive nei quartieri. Occorre però tenere presenti alcune cose. Questa povera gente non è venuta al Carmel per una vacanza: molti di loro hanno effettivamente perso la propria casa perché distrutta, bruciata, saccheggiata o rimasta senza il tetto. E non hanno i mezzi per ricostruirla. Chi aveva i mezzi è già rientrato. Molti hanno anche tentato a rientrare nei quartieri, ma poi sono stati costretti a ritornare da noi a causa degli avvenimenti dello scorso autunno. Non è poi psicologicamente facile rientrare da dove si è fuggiti, soprattutto se si è stati testimoni di violenze. Ci auguriamo che, una volta insediato il nuovo presidente e il nuovo governo, si possano creare le condizioni per un effettivo ritorno dei profughi ad una vita normale nei quartieri di origine. Molte Ong hanno già in cantiere diverse iniziative per incoraggiare e favorire il ritorno al quartiere e l’abbandono del campo profughi. Vi terremo aggioati.

Preghiera, la nostra forza

Nel frattempo – e chissà quanto durerà questo frattempo! – la nostra vita conventuale continua al ritmo della vita del campo profughi. A volte le nostre giornate procedono abbastanza tranquille e quasi dimentichiamo che accanto a noi vivono 5.000 persone; altre volte la loro presenza si fa invece sentire e bisogna intervenire senza ritardi. Molti ci chiedono dove abbiamo trovato la forza e il senso di questo pezzo di strada percorso insieme a questa gente in fuga dalla guerra. Senza fare della retorica e offrirvi una risposta preconfezionata e clerically correct, penso che la forza e il senso di questa avventura si rinnovino ogni giorno quando, insieme, ci ritroviamo per pregare e – per dirla nel gergo carmelitano – facciamo orazione. Un carmelitano senza orazione sarebbe come Roma senza il Colosseo, Parigi senza la Torre Eiffel, il Centrafrica senza bambini. Ogni mattina all’alba e ogni sera al tramonto, la nostra comunità si raduna per pregare insieme, per un’ora e in silenzio. Anche nei momenti più duri della guerra – anche quando il silenzio era solcato dallo scoppio delle bombe o dalle raffiche dei kalashnikov – siamo quasi sempre riusciti ad essere fedeli a questo appuntamento. Anche i profughi sanno bene che, durante questi due momenti di preghiera, possono disturbarci solo per cose importanti: solo se c’è qualcuno che ha fretta di nascere o se per qualcun’altro è giunto il momento di morire.

Quando siamo in orazione i rumori del campo profughi giungono fino alla nostra chiesa: quasi un sottofondo a cui siamo ormai abituati, un brusio che non ci distrae e che non ci disturba affatto, ma anzi sostiene la nostra preghiera. Ogni sera, mentre preghiamo, c’è un bambino che percorre tutte le strade del campo, gridando: “Petrole! Petrole! Petrole!”. Questo bambino non ha trovato un giacimento di petrolio nel ricchissimo sottosuolo del Centrafrica, ma semplicemente vende cherosene per le lampade che i profughi accendono davanti alle loro case, trasformando il Carmel in un bellissimo presepe. Mentre prego, quasi attendo la sua voce e mi piace ascoltarlo. E mi viene sempre in mente la parabola delle dieci vergini, riportata al capitolo 25 del vangelo di Matteo. Cinque vergini furono sagge e si procurarono una provvista di olio con la quale alimentare le loro lampade in attesa dello sposo. Le altre cinque non furono altrettanto sagge e, nel cuore della notte, si trovarono senza olio. Le cinque sagge – a dire il vero un po’ poco generose e un po’ molto supponenti – si rifiutarono di aiutarle e si misero addirittura a prenderle in giro, esortandole ad andare al mercato. Ma era impossibile comprare dell’olio a quell’ora della notte. Qui al Carmel, invece, da ormai più di due anni, c’è olio per tutti e se ne trova a qualsiasi ora del giorno e della notte. Anzi: c’è addirittura chi viene a venderlo davanti alla porta di casa. Per i Padri della Chiesa non c’era dubbio: l’olio in questione sono le opere buone, la carità che non deve mai mancare, anche nella notte più buia e nell’attesa più lunga, nella lampada della fede di ogni cristiano. Al Carmel siamo quindi fortunati: c’è olio in abbondanza per la nostra e la vostra carità. A qualsiasi ora del giorno e della notte. Lo Sposo è sempre tra noi. E grazie a voi e ai nostri profughi questa lampada non si è ancora spenta.

Un abbraccio e buona Pasqua!

Padre Federico, i fratelli del Carmel e tutti i nostri ospiti.

Ecco qualche link interessante:

https://www.youtube.com/watch?v=znLJba_WJ8s&feature=youtu.be

https://youtu.be/x1n9JbCq4w4

https://youtu.be/n3FsA5y5m1o




Una notizia incredibile per l’uomo

 

 

Un vecchio adagio popolare recita: “Natale con i tuoi e Pasqua con chi vuoi” facendo così risaltare il Natale come festa della famiglia mentre la Pasqua viene presentata come una festa un po’ più allargata con amici e parenti da trascorrere magari con la tradizionale gita “fuori porta”. Inutile aggiungere che per i cristiani la Pasqua è la Festa per eccellenza! Anzi a rigor di logica, ogni domenica (ma ancor più, sarebbe il caso di dire) ogni Eucaristia celebrata in un qualunque giorno feriale, è una Pasqua vissuta e celebrata dalla comunità (grande o piccola che sia) che si ritrova attorno all’altare.

La liturgia lungo i secoli ha elaborato, oltre al tempo di preparazione alla Pasqua, cioè la Quaresima, una settimana (definita per l’occasione Santa) ricca e piena di significati simbolici, tutti tesi a ricordare, valorizzare e celebrare il mistero della Passione, della Morte e Risurrezione di Cristo. Non solo la spiritualità cristiana, ma tutta la nostra cultura artistica, letteraria e musicale sarebbe molto più arida e povera, senza l’ispirazione che il Mistero Pasquale ha offerto lungo i secoli ai geni dell’arte, della poesia e della letteratura.

Ma oggi che significato ha la Pasqua? Per i credenti “dietetici” ovvero per coloro abituati ad accostarsi alle celebrazioni liturgiche con la mentalità della cura dimagrante, cioè prendere il minimo indispensabile per poi passare ad altre vivande più succulente, che senso ha la Pasqua? Per i cristiani “mordi e fuggi” cosa può significare una festa così pregnante dal punto di vista simbolico evocativo? Focalizzando ancor più la nostra attenzione sui tempi di crisi in cui ci troviamo a vivere, la Pasqua cosa può dirci? Può una ricorrenza così importante nel calendario annuale ridursi ad una domenica da cui ricavare qualche pia esortazione per vivere un po’ più morigeratamente o peggio ancora dedue un asettico “volemose bene” che si può adattare a Pasqua, a Natale, alla Festa della mamma, ecc. Per i credenti non dovrebbe essere molto difficile recuperare il senso più profondo della Croce, della Morte e della Resurrezione di Cristo, non limitandosi semplicemente a ricordare agli altri che è Pasqua, ma cercando di testimoniare la Resurrezione di Gesù nel concreto impegno di costruire una umanità nuova dove tutti possano partecipare al banchetto della Creazione.

Già gli ebrei celebravano la Pasqua ricordando la liberazione che JHWH aveva operato a favore d’Israele liberandolo dalla schiavitù dell’Egitto, una liberazione che non fu istantanea e immediata, ma che ebbe bisogno di passare dal crogiuolo del deserto, della prova, dell’abbandono, per poter alla fine approdare alla Terra Promessa. La Pasqua fu pertanto per il popolo ebraico un cammino verso la libertà, la stessa libertà che Cristo offre a chiunque decida di seguirlo cercando di vivere il messaggio di amore e tenerezza che Egli da sempre propone ad ogni persona, in ogni tempo, sotto ogni latitudine.

Scrive Sant’Agostino: “Tre sono le cose incredibili e tuttavia avvenute: è incredibile che Cristo sia risuscitato nella sua carne, è incredibile che il mondo abbia creduto ad una cosa tanto incredibile, è incredibile che pochi uomini, sconosciuti, inermi senza cultura, abbiano potuto far credere con tanto successo al mondo, e in esso anche ai dotti, una cosa tanto incredibile!” (Sant’Agostino – “La città di Dio” XXII, 5).

Forse lo stupore di Agostino è la miglior chiave interpretativa per la festività della Pasqua ai nostri giorni in quanto da credente egli sottolinea un avvenimento straordinario che si è imposto all’attenzione del mondo romano ma allo stesso tempo, anche alle persone di buona volontà, coloro che sono in ricerca, coloro che non accettano di subire passivamente le crisi periodiche del modello economico imperante. I commenti dei personaggi della politica e dello spettacolo, possono trovare in questa “buona notizia” le radici di una speranza che non costringe l’uomo contemporaneo al grigiore di una esistenza passiva e senza senso, ma lo proietta verso il vasto orizzonte del futuro con la consapevolezza che solo sperando l’inimmaginabile e contro ogni speranza si può davvero gettare le fondamenta per una società più giusta e solidale in cui tutti possano vivere con carità fratea nella giustizia e nella pace.

Buona Pasqua a tutti.

Don Mario Bandera

PASQUA 2016




il martirio delle suore in yemen

YEMEN

La superiora della comunità di Aden ha affidato a una consorella le drammatiche fasi dell’assalto alla casa di cura per anziani e disabili. Le suore sono morte per la “fedeltà” alla loro missione, facendosi trovare pronte “ad accogliere lo sposo”. Un sacrificio di sangue nella speranza che sia “germoglio di pace per il Medio oriente e perché serva a fermare l’Isis”. La lettera autografa (Pdf).

da Aden (AsiaNews)

“A causa della loro fedeltà, esse si sono trovate al posto giusto e al momento giusto, e si sono fatte trovare pronte per accogliere il loro sposo”. Con queste parole, suor Rio ha descritto il sacrificio delle consorelle missionarie della Carità massacrate ad Aden, nello Yemen, il 4 marzo scorso per “motivi religiosi”. La religiosa ha raccolto la drammatica testimonianza di suor Sally, superiora della casa per anziani e disabili teatro dell’attacco dei miliziani dello Stato islamico (SI). Unica sopravvissuta, suor Sally ha affidato alla consorella suor Rio il racconto dell’attacco, le violenze dei miliziani, le violenze perpetrare in nome e a causa della fede. 

Il racconto è stato trascritto in un secondo momento da una terza religiosa, suor Adriana, che ha diffuso il testo (che trovate pubblicato in questa pagina) fra le varie comunità religiose degli Stati Uniti. Nei giorni scorsi mons. Edward Rice, vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di Saint Louis, ha citato diversi passaggi del drammatico racconto di suor Rio, elogiando il sacrificio compiuto dalle suore per la fede e il loro servizio per gli altri. Un servizio che riflette il carisma della fondatrice dell’ordine, Madre Teresa di Calcutta. 

Ecco, di seguito, il drammatico racconto della mattinata dell’attacco, raccolto dalle missionarie della Carità e pubblicato dal National Catholic Register. Traduzione a cura di AsiaNews: 

Come tutte le mattine, le suore hanno ascoltato la messa e poi hanno fatto colazione. Secondo consuetudine, il sacerdote è rimasto in cappella a pregare, e poi ha iniziato a sistemare le cose rimaste in sospeso nella struttura.

Alle 8 del mattino le suore hanno recitato l’apostolato della preghiera secondo le intenzioni e poi si sono dirette verso la casa.

Alle 8.30 un gruppo di miliziani dello Stato islamico vestiti di blu hanno fatto irruzione, uccidendo una guardia e l’autista.

Cinque giovani etiopi, di religione cristiana, hanno iniziato a correre in direzione delle suore per dire loro che membri dell’Isis avevano fatto irruzione ed erano lì per ucciderle. I cinque sono stati uccisi uno ad uno. I miliziani li hanno legati agli alberi, gli hanno sparato alla testa e poi gli hanno fracassato il cranio a colpi.

Le suore hanno iniziato a correre, a due a due, in direzioni diverse dato che all’interno della struttura vi erano in quel momento ospiti uomini e donne. Quattro donne che lavoravano nel compound hanno iniziato a urlare: “Non uccidete le suore! Non uccidete le suore!”. Una di loro è stata la cuoca per 15 anni del centro. I miliziani hanno ucciso anche loro.

Essi hanno preso per prime suor Judith e suore Reginette, le hanno legate, hanno sparato loro alla testa e hanno fracassato loro il cranio. Mentre le suore correvano in direzioni diverse, la superiora è corsa all’interno del convento per cercare di avvertire p. Tom.

In un secondo momento hanno catturato suor Anselm e suor Marguerite, le hanno legate, hanno sparato loro alla testa e poi l’hanno sepolta sotto la sabbia.

Intanto la superiora, pur provandoci, non riusciva ad accedere al convento. Non era dato sapere quanti uomini dell’Isis ci fossero nella struttura.

Ha visto tutte le consorelle e gli aiutanti uccisi. I miliziani dell’Isis volevano accedere al convento, per questo la suora ha cercato riparo nella cella frigorifera, perché in quel momento la porta era aperta. Vi erano membri dell’Isis dappertutto, in cerca della superiora, perché sapevano che le suore presenti nella struttura erano cinque. Sono entrati almeno tre volte nella stanza frigorifera. Suor Sally non si è nascosta, ma è rimasta in piedi, dietro la porta, e loro non l’hanno mai vista. Questo è un vero e proprio miracolo.

Nel frattempo, al convento, il sacerdote sentendo le urla ha consumato tutte le ostie. Egli non ha avuto il tempo di far sparire anche l’ostia più grande e ha disperso l’olio della lampada gettandolo nell’acqua.

Un vicino ha visto [gli assalitori] gettare p. Tom all’interno della loro auto. E di lui non si è più ritrovata alcuna traccia. Tutto il materiale sacro e gli oggetti di carattere religioso erano gettati a terra e distrutti – la Madonna, il crocifisso, l’altare, il tabeacolo, il sostegno per il libro delle letture – e anche i libri di preghiera e le Bibbie, completamente devastate.

Fra le 10 e le 10.15 i miliziani dello Stato islamico hanno concluso il loro raid e se ne sono andati.

Suor Sally è rientrata per raccogliere i corpi delle consorelle uccise. Le ha riunite tutti insieme. Poi ha visitato i pazienti e gli ospiti, uno ad uno, per verificare che stessero bene. E tutti erano sani e salvi. Nessuno aveva riportato ferite.

Un figlio della cuoca (uccisa nell’assalto) la stava chiamando sul cellulare. Dal momento che non riceveva risposta, egli ha chiamato la polizia e con gli agenti si è recato al compound, dove gli si è presentata agli occhi la scena del massacro. La polizia e il figlio sono arrivati verso le 10.30 del mattino.

La polizia ha cercato di portare via suor Sally, ma lei ha opposto un netto rifiuto dicendo che non avrebbe abbandonato queste persone in lacrime. “Non abbandonarci, resta con noi” le gridavano gli ospiti della struttura. Tuttavia, la polizia l’ha portata via con la forza perché i miliziani dello SI sapevano che, all’interno, vi erano cinque suore ed era pressoché certo che non si sarebbero fermati fino a che non avrebbero ucciso pure lei. Per questo, alla fine, ha dovuto accettare il fatto di andarsene. Ha preso un ricambio di abiti e i corpi delle consorelle; la polizia le ha trasportate fino a un ospedale gestito da personale di “Medici senza frontiere”, all’interno del quale avrebbe ricevuto protezione. Dato che non vi era spazio a sufficienza nella camera mortuaria dell’ospedale, la polizia ha portato i cadaveri delle religiose nell’obitorio di una struttura più grande.

Suor Sally ha detto a suor Rio di essere triste perché ora è sola non ha potuto morire con le sue consorelle. Suor Rio le ha risposto che Dio l’ha voluta come testimone, perché riferisse del massacro e le ha aggiunto: “Chi avrebbe potuto ritrovare i corpi delle suore e chi ci avrebbe potuto raccontare quello che è successo? Dio voleva che sapessimo”.

Il segretario particolare di papa Francesco ha contattato a più riprese le autorità dello Yemen, almeno una volta settimana per sincerarsi delle condizioni delle suore e rassicurarle circa la sua vicinanza. Oggi, il segretario del papa ha inviato un messaggio: “Voglio ringraziarvi, piccole missionarie della Carità oggi martiri”. Egli ha anche aggiunto che offre a loro le 40 ore di preghiera che iniziano il primo venerdì del mese.

Suor Sally ha raccontato a suor Rio che p. Tom diceva loro ogni giorno: “Siamo pronti al martirio”.

Suor Judith: hanno cercato in tutti i modi di farle compiere studi di alto livello, ma non sono riusciti a farla uscire dallo Yemen.

Suore Reginette: per lei erano previsti dei corsi di primo livello, ma non è stato possibile portarla via. Dio voleva che restassero lì.

Aden è una città portuale e ricca. Aden voleva crearsi una propria autonomia statale e amministrativa, per questo hanno favorito l’ingresso dei miliziani dell’Isis per combattere contro le autorità dello Yemen. Ecco perché l’Isis ha vinto ad Aden. Questo è stato il risultato della guerra dello scorso anno, con tutti quei bombardamenti. Hanno vinto, è finita così, ma l’Isis non se ne andrà. Essi vogliono impadronirsi del potere e sradicare la presenza cristiana. Essi non hanno ucciso le suore nel contesto della guerra, perché non avevano alcun interesse politico a perdere tempo con loro. Ma oggi, che sono l’unica presenza cristiana, l’Isis vuole sbarazzarsi di ogni minima traccia o presenza della cristianità. Ecco perché le suore sono delle vere martiri, perché sono morte per il solo fatto di essere cristiane. Avrebbero potuto morire molte volte durante la guerra, ma Dio ha voluto così perché fosse chiaro che esse sono delle martiri per la fede.

Suor Rio racconta che suor Sally si è completamente lasciata andare. La polizia ha cercato di farla andare via, perché i miliziani resteranno sulle sue tracce fino a che non l’avranno uccisa. Si è lasciata andare e ha detto a suor Rio che Dio faccia di lei ciò che vuole. Ha detto anche che gli altri musulmani le trattavano con rispetto. Ha detto anche di pregare perché il loro sangue sia germoglio di pace per il Medio oriente e perché serva a fermare l’Isis.

Ha detto anche che se hanno rapito p. Tom [di cui non si hanno notizie certe a distanza di due settimane dall’attacco, ndr] di aspettare un paio di giorni, e poi avrebbero chiesto un riscatto in denaro per liberarlo oppure il rilascio di alcuni miliziani detenuti in prigione.

Suor Rio ha detto che erano così fedeli, per questo l’Isis sapeva benissimo quando andarsene e quando fare irruzione. E a causa della loro fedeltà, esse si sono trovate al posto giusto e al momento giusto, e si sono fatte trovare pronte per accogliere il loro sposo.

Suor Adriana ritiene che l’aver spaccato loro il cranio potrebbe avere un legame malvagio con il passaggio biblico “e lei schiaccerà la testa del serpente”, in segno di disprezzo o come segnale ulteriore della loro malvagità.

Di seguito i nomi corretti delle suore:

Suor M. Sally, MC (Superiora, unica sopravvissuta al massacro)

Suor M. Anselm, MC (Bihar, India)

Sister M. Marguerite, MC (Rwanda)

Sister M. Judith, MC (Kenya)

Sister M. Reginette, MC (Rwanda)

 




perche no alla guerra in libia

Noi rappresentanti di movimenti, associazioni e gruppi del mondo della pace e della nonviolenza siamo preoccupati delle pressioni esercitate sul nostro governo perché assuma un ruolo guida nell’intervento militare in Libia a fianco di altre potenze occidentali. Il Presidente del Consiglio ha detto che “non è in programma una missione militare italiana in Libia”. Ne prendiamo atto. Ma i problemi restano:

  • il contrasto all’espansione del terrorismo del sedicente Stato islamico;
  • una minaccia alla sicurezza del nostro paese;
  • la stabilizzazione della nazione nordafricana.

La guerra non è il mezzo adeguato per sconfiggere il terrorismo né tantomeno per portare stabilità alla Libia. Basterebbe guardare alla storia di questi ultimi anni per capire che gli interventi militari non hanno risolto i problemi, li hanno invece aggravati.

A partire dalla dissennata guerra lanciata dalla Nato nel 2011 contro il regime di Gheddafi che avrebbe dovuto inaugurare un’era nuova di pace e democrazia. Invece la Libia è precipitata nel caos e nella guerra intestina. Non solo. Quella guerra ha posto le basi per altri conflitti. È ormai risaputo e documentato che il saccheggio di vasti arsenali di armi del colonnello durante l’operazione della Nato ha alimentato la guerra civile in Siria, rafforzato gruppi terroristici e criminali dalla Nigeria al Sinai e destabilizzato il Mali.

Di fatto nessuno dei conflitti iniziati dal 1991 ad oggi – Iraq, Somalia, Balcani, Afghanistan, Siria – ha risolto i problemi sul campo, anzi sono tragicamente aggravati. Il fallimento di tali operazioni è sotto gli occhi di tutti: milioni di profughi abbandonati al loro destino che fuggono a causa delle nefaste conseguenze delle recenti guerre.

Oggi poi, un eventuale secondo intervento armato in Libia avrebbe gravi ripercussioni anche sulla vicina Tunisia che teme il debordare della crisi libica oltre i suoi confini, mettendo a repentaglio il suo fragile equilibrio politico e il faticoso cammino verso la democrazia avviato in questi ultimi anni.

Inutile e ovvio dire che saranno i civili a pagare il prezzo più alto di imprese militari, anche nel caso di attacchi effettuati dai droni. Per quanto si voglia far credere che la precisione di tale aerei telecomandati non causerà vittime tra la popolazione, i fatti dimostrano l’esatto contrario. Indagini condotte su una lunga serie di attacchi hanno messo in evidenza che per un terrorista colpito i droni uccidono altre trenta persone circa, tra cui donne e bambini.

Se un intervento armato di polizia internazionale in Libia ci dovrà essere, sarà da considerarsi come estrema ratio, fatta nell’ambito delle Nazioni Unite e in seguito alla esplicita richiesta del governo unitario libico. Senza la quale – ammoniscono le autorità del governo di Tripoli – “qualsiasi tipo di operazione militare si trasformerebbe da legittima battaglia contro il terrorismo a palese violazione della nostra sovranità nazionale”.

Va aggiunto che la lotta al terrorismo dello Stato Islamico non potrà mai essere vinta con un dispiegamento di forze militari. Anche la macchina bellica più potente è inefficace di fronte al fanatismo e alla capacità di mimetizzarsi dei terroristi in grado di colpire ovunque nel mondo cittadini inermi con attentati sanguinari. La nostra penisola è in una posizione particolarmente vulnerabile perché è la più esposta per la sua vicinanza geografica alle coste libiche.

Per i motivi esplicitati qui sopra, ci rivolgiamo al governo italiano perché assuma un ruolo guida per indicare alla comunità internazionale la ricerca paziente e perseverante di una soluzione politica alla grave crisi libica.

A tale scopo proponiamo con urgenza che l’Italia si impegni:

  • a ricostruire l’assetto statuale della Libia, sostenendo con la diplomazia e la politica l’iniziativa per un accordo tra le controparti e la formazione di un governo unitario tra i governi di Tobruk e di Tripoli;
  • a coinvolgere gli stati membri della Lega araba e dell’Unione africana anche al fine di bloccare i finanziamenti ai movimenti terroristici islamici che provengono da Arabia saudita e Qatar, dal commercio di petrolio e di droga;
  • a valorizzare la partecipazione della società civile della Libia nel processo di ricostruzione della loro nazione;
  • a garantire da parte dell’Europa l’apertura delle frontiere per accogliere e assistere i profughi, mettendo in campo in campo un’operazione di salvataggio in mare.

Sulla base della nostra Carta costituzionale che sancisce che «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa della libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie inteazionali» chiediamo al governo di adoperarsi con determinazione e concretamente al fine di promuovere e restituire pace e giustizia al popolo della Libia. Lavoro al quale partecipano da tempo schiere di cittadini che a vario titolo e in diverse organizzazione operano per la promozione della pace e della giustizia tramite l’educazione nelle scuole, con corsi di formazione alla nonviolenza attiva, con la disseminazione di informazione, con la ricerca, il monitoraggio e la denuncia di vendita illegale di armi e con una variegata gamma di iniziative e progetti.

Infine desideriamo rivolgere un appello a papa Francesco che negli anni del suo pontificato non si è stancato di dichiarare la propria ferma opposizione alla guerra. Che anche in questo caso levi la sua voce profetica per denunciare l’assurdità e l’immoralità di un intervento armato in Libia, sollecitando la comunità internazionale a cercare soluzioni pacifiche e giuste.

Efrem Tresoldi, direttore di Nigrizia;
Mao Valpiana, direttore di Azione nonviolenta;
Alex Zanotelli, direttore di Mosaico di Pace;
Mario Menin, direttore di Missione Oggi;
Filippo Rota Martir, direttore di Cem Mondialità;
Marco Fratoddi, direttore di La nuova ecologia;
Riccardo Bonacina, direttore di Vita;
Pietro Raitano, direttore di Altreconomia;
Claudio Paravati, direttore di Confronti;
Michele Bornato, direttore di Gaia;
Pier Maria Mazzola e Marco Trovato, direttori di Africa;
Silvia Pochettino, direttrice di Volontari per lo sviluppo;
Redazione di Mondo e Missione;
Antonio Vermigli, direttore di In dialogo;
Luca Kocci, direttore di Adista;
Luigi Anataloni, direttore di Missioni Consolata e segretario della Federazione Stampa Missionaria Italiana