L’alluvione che ha preparato il ciclone Idai


Dunque, qui è stato un disastro. C’è stato un’alluvione come quello che ho vissuto a Vilanculos nel 2000.

All’inizio di marzo, è cominciato a piovere tantissimo sull’altopiano di Angonia (nella zona montuosa a Nord della città di Tete, verso il lago Niassa), dove ha piovuto per 5-6 giorni continui, con vento forte. Nella parrocchia di Mpenha circa 200 famiglie hanno perso casa e campi. E adesso si stanno aggiustando con capanne alla meglio

Angonia è una zona particolarmente agricola con colline e valli. Le nostre prealpi. Ben 7 cappelle hanno ceduto e sono andate distrutte

L’acqua scesa dall’altopiano di Angonia, si è riversata nei ruscelli. Questi, cresciuti sono sfociati nel Rowubwe, ingrossandolo all’inverosimile. Il Rowubwe è un’affluente dello Zambesi, al quale si unisce proprio qui vicino a Tete. Il Rowubwe  di solito è mezzo secco, ma in quei giorni giorni era in piena e ha cercato di riversarsi nel fiume Zambesi, che pieno a sua volta non ha potuto accoglier quella quantità di acqua.  Per cui, il Rowubwe è straripato, invadendo campi, isolotti e villaggi in riva la fiume. Il grande ponte, ne ha risentito, e tuttora e intransitabile.

Centinaia di famiglie, si dice 860 famiglie, sono state prese di sorpresa durante la notte, e hanno appena salvato la vita. Casa, cose, utensili, tutto… alla malora. I morti… non si sa, forse una quarantina.

Le famiglie da allora accolte nella scuola industriale di Tete, alla belle-meglio.

Governo e privati hanno e stanno soccorrendo alla meglio. Noi pure per tre volte nel centro di accoglienza abbiamo dato viveri e vestiti, frutto di una generosa raccolta tra le parrocchie.

Adesso lo stato sta assegnano un pezzo di terra, in altra zona, per costruire case.  Non so se daranno anche i mezzi… Dal centro di accoglienza li stanno mandando in questo quartiere nuovo. Con tende.

Io aspetto qualche giorno, per vedere come andrà a finire e quali saranno i bisogni, almeno che non manchi il mangiare.

Non so poi come sarà la zona di Doa e Mutarara, lontana 200 e 290 Km rispettivamente dalla città di Tete, dove lo Zambesi, ha invaso tutti i campi.  Tuttora abbiamo una 15 di villaggi che non siamo riusciti a contattare, e il granoturco è a bagno nell’acqua.  Il raccolto non ci sarà per questo anno.

Altra cosa è stato il ciclone che qualche giorno dopo ha colpito Beira e dintorni. Una tragedia, quella che si vede alla TV. Non so quando Beira potrà rialzarsi. Tutto distrutto. Grazie a Dio, anche la ONU sta intervenendo. I danni sono ingenti.

padre Sandro Faedi
amministratore apostolico di Tete




Kenya: Visita alla tomba della Beata Leonella Sgorbati, martire


Suor Leonella, missionaria della Consolata italiana è stato assassinata il 17 settembre 2006 da estremisti islamici in Somalia, mentre lasciava la scuola di infermiere per rientrare a casa.

Fu colpita da sette proiettili. In ospedale, prima di morire, sussurrò: “Io perdono, perdono, perdono”. La martire è stata beatificata il 26 maggio 2018 in una cerimonia presieduta dal Cardinale Angelo Amato, Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, a Piacenza, Italia, luogo di nascita della missionaria.

La Beata è sepolta nella chiesa Nostra Signora dell’Universo, accanto alla Casa Regionale delle Suore Missionarie della Consolata a Nairobi, in Kenya.

Il luogo è stato visitato mercoledì, 13 marzo, dalla Direzione Generale dei Missionari della Consolata in occasione di un incontro di condivisione e comunione con le missionarie. Ricordando che la Beata Leonella Sgorbati è la Protettrice e modello per l’anno 2019 sia delle missionarie che dei missionari.

Attraverso la sua intercessione, chiediamo la protezione del Signore per i nuovi percorsi missionari intrapresi dalle due congregazioni fondate dal Beato Giuseppe Allamano.

Chiesa Nostra Signora dell’Universo della casa regionale delle suore della Consolata a Nairobi

Chi è la beata Leonella Sgorbati?

Leonella è nata il 9 dicembre 1940 a Rezzannella di Gazzola (Piacenza). Fu battezzata nella parrocchia di San Savino di Gazzola, proprio il giorno della sua nascita con il nome di Rosa. Riceve la sua prima comunione e confermazione il 26 maggio 1947. Entra nella congregazione il 5 maggio 1963, e il 22 novembre 1965, emette la sua prima professione religiosa. Fa gli studi infermieristici in Inghilterra e in Kenya, dove ha emette la professione perpetua il 19 novembre 1972. Lavora poi per molti anni negli ospedali del Kenya, in particolare a Nkubu nel Meru, e nella formazione di giovani infermieri e infermiere.
Nel 1993 è stata nominata Superiora Regionale MC del Kenya. Nel 2002, alla fine di questa missione, Suor Leonella parte per Somalia, in un momento in cui il paese sta attraversando una convulsione politica, e l’influenza islamica estremista sta guadagnando terreno. Nonostante ciò, vede con entusiasmo la possibilità di gestire il centro di formazione per infermieri, preparando professionisti per l’unico ospedale in Somalia. Tra i fondamentalisti islamici serpeggia il sospetto che Suor Leonella, attraverso la scuola, faccia fatto proselitismo, per formare dei cristiani. Per questo è stata brutalmente uccisa con la sua guardia del corpo.

Jaime C. Patias, IMC, Consigliere Generale per l’America

Nella casa regionale delle suore della Consolata a Nairobi la direzione generale dei missionari in visita della sorelle missionarie.

Alla tomba di suor beate Leonella Sgorbati nella chiesa Nostra Signora dell’Universo della casa regionale delle suore della Consolata a Nairobi




Si chiamava Moussa Ba

Si chiamava Moussa Ba. Era
Senegalese. Aveva 28 anni. È morto, arso vivo nell’incendio scoppiato la notte
del 15 Febbraio nella baraccopoli di San Ferdinando in Calabria. È la terza
vittima in un anno in questa zona di braccianti.

Il “ghetto” di San Ferdinando non
è degno di un paese civile, non è degno delle persone che sono costrette ad
abitarlo!

La Conferenza Instituti Missionari Italiani (CIMI) esprime cordoglio
ai famigliari della vittima, chiede che prontamente sia fatta luce sulle
circostanze che hanno portato al rogo e alla morte di Moussa Ba.

Moussa Ba e tanti altri sono oggi
i nuovi schiavi invisibili nelle campagne insieme ai contadini e come loro
vengono affamati, schiacciati e ghettizzati dalla logica del profitto e dal
controllo delle mafie.

Tra le autorità c’è chi in queste ora sta paventando lo sgombero di San Ferdinando. Crediamo che la soluzione non sia quella dell’invisibilizzazione del problema ma quella di trovare soluzioni e misure che favoriscano l’accoglienza diffusa e la integrazione dei lavoratori.

Commissione Giustizia e padre Della CIMI
17/02/2019




Brasile, Roraima: accogliere, proteggere, promuovere e integrare i migranti dal Venezuela

“Vogliamo aiuto per darci
ragione di andare avanti perché sappiamo che un giorno le cose
cambieranno”

L’aggravarsi della crisi in
Venezuela costringe la popolazione a lasciare il paese in cerca di
sopravvivenza. Sono oltre 3 milioni i venezuelani che sono fuggite all’estero.
Nel Stato di Roraima, nord di Brasile, nelle città di Pacaraima e Boa Vista,
migliaia di migranti si trovano in condizioni estremamente precarie. La
mancanza di infrastrutture per i fuggitivi in cerca di una sistemazione crea
una preoccupante tensione sociale.

Juan Carlo Olivero è arrivato con
tre cugini e due amici. Hanno camminato per 215 chilometri tra Pacaraima e Boa
Vista, ma non sono riusciti a trovare un rifugio. Di notte dormono lungo il
viale vicino alla stazione degli autobus dove si contendono un pezzo di pane e
uno spazio sul marciapiede con centinaia di connazionali, nelle stesse
condizioni. “Spezza il cuore chiamare i nostri figli che sono rimasti con
la mamma in Venezuela e sentire che oggi non hanno mangiato nulla”, dice
Juan Carlo. “Vogliamo aiuto per darci una ragione per andare avanti perché
sappiamo che un giorno le cose cambieranno”, dice speranzoso.

Audio Juan Carlo Olivero

William Hernandez ha lasciato
moglie e cinque figli, come migliaia di altri venezuelani, nella speranza di
trovare lavoro e cibo. Sono passati 15 giorni dal suo arrivo, ma senza successo.
“Volevo che qualcuno mi aiutasse perché siamo in difficoltà”.

Audio di William Hernandez

Tra gli immigrati si trovano
muratori, meccanici, poliziotti, panettieri ma anche insegnanti, avvocati, e molti
professionisti qualificati, come la dottoressa Fiorella Blanco.

L’Istituto Brasiliano di
Geografia e Statistica (IBGE) stima che più di 30.000 venezuelani sono in
Roraima, ma solo circa 6.000 hanno trovato posto nelle 13 strutture di
accoglienza sostenute con i fondi del governo federale e costruite
dall’Esercito con l’appoggio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i
Rifugiati (UNHCR). Un buon numero si trova in case o stanze affittate che sono
destinate al sovraffollamento. Senza aiuto, è difficile pagare l’affitto che
costa tra R$ 300 e 500 Reais (moneta brasiliana: 1 Euro = 4.20 Reais). Ma ciò
che colpisce è la quantità di persone che dormono nelle viali e piazze. Durante
il giorno agli incroci e ai semafori si posizionano molti venditori ambulanti
che cercano di vendere qualche cosa o semplicemente guadagnare una moneta.

Il governo brasiliano concede
asilo, ma l’accoglienza dovrebbe anche garantire un minimo di protezione sociale,
di accesso al sistema sanitario, all’istruzione al cibo e sicurezza per tutti.
Una delle azioni per sollevare Boa Vista dalla catastrofe umanitaria è la
distribuzione dei profughi venezuelani in altri stati del Brasile. Come è
successo il 2 febbraio scorso quando un gruppo di 99 sono stati trasferiti a Dourados,
una città nel Stato di Mato Grosso del Sud, in un volo pagato dalla Organizzazione
Internazionale per le Migrazioni (OIM). Lì lavoreranno in un’industria
alimentare.

Progetto Percorsi di Solidarietà

La Diocesi di Roraima attraverso
la Caritas Diocesana e con l’appoggio della Conferenza Nazionale dei Vescovi
del Brasile (CNBB), la Caritas brasiliana, Servizio Pastorale per i Migranti
(SPM), Istituto di Migrazione e Diritti e Umani (IMDH), Servizio dei Gesuiti
per i Migranti e Rifugiati (SJMR) e altre entità partner, guidano il Progetto “Percorsi
di Solidarietà: Brasile e Venezuela”.

Le Diocesi disponibili ad
accogliere gli immigrati attraverso questo Progetto possono registrarsi su il
Sito www.caminhosdesolidariedade.org.br

Il sito contiene informazioni dettagliate
ed è stato creato per aiutare l’accoglienza degli immigrati nelle diocesi di
tutto il Brasile. Il vescovo di Roraima, Dom Mario Antonio, sottolinea
l’importanza dell’integrazione degli immigrati. “Molti arrivano affamati e
hanno bisogno di cure mediche”. “Sono nuovi fratelli che vivono in
mezzo a noi”.

Audio di Dom Mario Antonio

Lanciato nell’ottobre 2018, il
progetto “Percorsi di solidarietà: Brasile e Venezuela” ha già coinvolto oltre
60 persone. Il 31 gennaio un gruppo di 17 venezuelani ha lasciato Boa Vista per
Paraíba. Nella città di João Pessoa, sono stati accolti dell’Arcidiocesi di
Paraíba e il Servizio Pastorale dei Migranti e saranno eventualmente inseriti
al lavoro.

La coordinatrice di Progetti nella
Caritas Diocesana, Gilmara Fernandes, vede la necessità di dare visibilità
all’azione.

Audio Gilmara Fernandes

La mancanza di occupazione, la
fame, l’insicurezza e la malattia sono per i migranti un test di sopravvivenza.
E in una città di 500.000 abitanti, con poche opportunità nel mercato di lavoro
e accesso ai servizi sanitari pubblici, trasporti e educazione, i migranti sono
molto facilmente considerati un problema. Sfortunatamente, di fronte a questa crisi
umanitaria, risorgono preoccupanti atteggiamenti di xenofobia. Questo scenario
non permette di vedere le potenzialità che questo fenomeno porta. E quanta
ricchezza portano i migranti quando arrivano nei nostri paesi. Quante abilità,
novità e conoscenze!

D’altra parte, ci sono molte
persone che aiutano e sono solidali. Famiglie che gli lasciano vivere a favore,
altri che abbandonano uno spazio nel cortile, danno lavoro e cibo. Le pastorale
della Diocesi, le parrocchie e comunità, congregazioni religiose e movimenti
con centinaia di volontari, aprono le loro porte e il loro cuore.

Davante la Casa delle Suoere
della Consolata ogni mattina si forma una fila che può raggiungere piu di 500
persone per ricevere un pane con il caffè.

Equipe Missionaria Itinerante

L’Equipe Missionaria Itinerante
del’Istituto Missioni Consolata (IMC) composta da P. Luiz Carlos Emer (RB), P.
Jaime Carlos Patias (DG) e Manolo Loro (RAM) sta dando priorità alle persone
più vulnerabili nella situazione di strada e agli indigeno Warao che sono fuori
dal rifugio. Dopo molte pressioni, il  01
febbraio, un gruppo dell’UNHCR si è recato in Piazza Augusto Germano Sampaio e
ha registrato più di 60 Warao di tutte le età che sono sensa rifugio. Ma finora
non hanno ancora avuto una risposta positiva.

La situazione di vulnerabilità
aumenta i rischi di sfruttamento, uso di droghe, illeciti, fame e malattie in
una popolazione già minacciata dal fatto di migrare.

Ecco perché, come Papa Francesco
ci invita, è urgente: “Accogliere, proteggere, promuovere e
integrare”.

P. Jaime C. Patias, IMC, Consigliere Generale per America.




Roraima, Brasile: le sfide dell’accoglienza e dell’integrazione dei venezuelani

Testo e foto di padre Jaime C. Patias

Warao, accampati in una piazza di Boa Vista

«Abbiamo bisogno di aiuto. Stiamo dormendo in piazza. Non
possiamo entrare nel rifugio». Questa richiesta di aiuto viene dal giovane
indigeno warao Jean Luís Jimenez, ed è inviata da Boa Vista, Roraima, a padre Vilson
Jochem, missionario del Consolata a Caracas. Jean Luís è uno dei 3 milioni di immigrati
che hanno lasciato il Venezuela per i paesi limitrofi.

A seguito di questa richiesta, andiamo al quartiere
Pintolândia, a Ovest della città, dove si trova il rifugio destinato agli
indigeni, e vi troviamo fuori 17 Warao, nove adulti e otto bambini accampati in
Plaza Augusto Germano Sampaio. Due giorni dopo, gli indigeni sono già 30, con
17 bambini sotto i 12 anni. Il rifugio può ospitare fino a 665 indigeni e non
riceve nessun altro.

La nostra attenzione è richiamata da Mardelia Rattia, 25
anni, arrivata qui con cinque bambini, compreso un piccolo di due mesi: «La
nostra situazione è difficile. Penso ai bambini», ci dice Mardelia preoccupata.
Vuole continuare il viaggio e raggiungere Manaus (nello stato brasiliano di
Amazonas), dove si trova già sua suocera con altri parenti.

Malato e indebolito, Jean Luís è stato ammesso all’ospedale
generale di Roraima, che è anch’esso pieno di gente. «Qui almeno sto meglio che
in piazza», osserva sdraiato su una barella nei corridoi accanto a diversi
pazienti, molti dei quali venezuelani. Quando lo dimetteranno sarà lui a essere
nuovamente in strada.

Indigeni Warao a Boa Vista durante incontro col team itinerante dei Missionari della Consolata

L’insicurezza della piazza

Il 18 gennaio, di notte, alcuni soldati dell’esercito che
sono i responsabili della struttura e della sicurezza nei rifugi, passano nella
piazza e abbordano alcuni Waraos dicendo che non possono più dormire lì. La
minaccia spaventa tutti. La sera del 19 andiamo sul posto per evitare una
possibile ritirata. Dopo aver dialogato con i rappresentanti dell’Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), responsabili della
protezione dei profughi, i Warao hanno ricevuto la garanzia di poter continuare
a restare nella piazza. Durante la notte i soldati arrivano in due auto, ma non
si avvicinano al gruppo. In ogni caso la situazione è insicura per i Warao, ed
è per questo che è urgente trovare una soluzione.

Tra gli immigrati ci sono diversi professionisti
qualificati, come da dottoressa Fiorella Lisenni R. Blanco, Warao arrivata qui
con un bambino, una sorella insegnate e un fratello formato in diritti umani.
Lei improvvisa consulenze con coloro che hanno bisogno e organizza un registro
del gruppo. «Perché il Brasile offre un’accoglienza di questo tipo? Senza un
dignitoso benvenuto? Stanno minacciando di buttarci fuori dalla piazza», dice
Fiorella. Le popolazioni indigene godono dei diritti garantiti dalla
costituzione e dalle leggi internazionali. Inoltre, gli antropologi ricordano
che i Warao dovrebbero poter esercitare la libertà transfrontaliera di andare e
venire grazie a una base culturale che storicamente precede la nascita delle due
nazioni Brasile e Venezuela.

Indigeni Warao accampati in una piazza di Boa Vista

Pablo Mattos, del coordinamento dell’Unhcr a Boa Vista,
spiega che «la decisione di creare nuovi rifugi è una responsabilità del
governo brasiliano». L’Unhcr monitora i flussi migratori, sostiene l’accoglienza
nei rifugi e l’integrazione. Per quanto riguarda i Warao, Mattos s’impegna a
proseguire la ricerca di soluzioni in dialogo con le istituzioni coinvolte nel
lavoro.

Il problema non è di oggi. Un rapporto pubblicato nel giugno
2018 dalle Nazioni Unite ha fatto 35 raccomandazioni per garantire i diritti
degli indigeni venezuelani su tre assi: i diritti universali, i diritti dei
migranti, e i diritti specifici dei popoli indigeni. Essi devono essere
trattati come immigrati, ma soprattutto come indigeni. Secondo i dati della Ong
Fraternidad
Humanitaria Internacional
, almeno 957 Warao e E’ñepá sono accampati
nelle città di Pacaraima e Boa Vista. Hanno viaggiato più di 900 chilometri su
una strada rischiosa.

Il posto di registrazione offre diversi servizi di
documentazione e indirizza verso i rifugi e il programma di integrazione. Gli
immigrati ricevono sostegno dalle istituzioni in altri sei luoghi diversi per
fare i documenti. È evidente la carenza di posti nei rifugi. Tutti i lunedì
sono disponibili solo 40 posti a fronte di una richiesta di oltre 200. Il 14
gennaio, dopo aver camminato per almeno 8 km fino al primo posto di identificazione,
un gruppo di Warao è dovuto tornare in piazza senza aver ottenuto niente.

Mamma Warao e figlio in una piazza di Boa Vista

La squadra di emergenza dei missionari itineranti

Dopo una pausa, il team missionario itinerante dei
Missionari della Consolata ha ripreso le sue attività il 12 gennaio 2019. I padri
Luiz Carlos Emer (missionario impegnato in brasile), Jaime Carlos Patias (della
direzione Generale dell’IMC) e Manolo Loro (impegnato in Amazzonia) fanno parte
del secondo gruppo. La priorità del gruppo è quella di accompagnare le persone
più vulnerabili e gli indigeni warao originari della regione del Delta Amacuro
in Venezuela, dove ci sono i missionari del Consolata. «Il poco che possiamo
fare ora è già molto per alleviare la sofferenza di coloro che hanno lasciato
tutto per sopravvivere», dice p. Luiz Emer tornando da una visita al gruppo
indigeno.

Il team sostiene e indirizza le varie situazioni agli
organismi competenti, sapendo che non è possibile risolverle tutte. Ciò che
conta sono gli atteggiamenti evidenziati da Papa Francesco: «Accoglienza,
protezione, promozione e integrazione».

La diocesi di Roraima con i suoi pastori, parrocchie e
congregazioni come le suore Scalabriniane, San Giuseppe di Chambéry, la Madonna
Addolorata, le figlie della carità, le missionarie dei Consolata, i gesuiti, i
Maristi, tra gli altri, prestano diversi Servizi.

Per il vescovo di Roraima, Monsignor Mário Antônio, oltre
alla logistica, «vediamo la necessità di accoglienza da parte delle Comunità
attraverso l’integrazione tra la popolazione locale e i venezuelani, nuovi
residenti che vengono con la prospettiva di una nuova vita. Hanno il diritto di
arrivare e noi abbiamo il dovere di accogliere, promuovere, proteggere e
integrare», ricorda il vescovo. «Vogliamo che le nostre comunità cerchino di
integrare gli immigrati nelle celebrazioni in Portoghese, spagnolo o in lingua
indigena. Vedo la migrazione come un’opportunità per vivere il Vangelo: amatevi
l’un l’altro, come li ho amati», ribadisce Monsignor Mário.

José Miguel Pinto e sette altri amici e familiari, due donne
e due bambini, è venuto a piedi da Pacaraima, 215 km da Boa Vista. Quando sono
arrivati al posto di servizio della parrocchia Nostra Signora Consolata
mostrano le ferite sulle piante dei piedi e le scarpe rotte. Come tanti altri,
di notte il gruppo dorme sul marciapiede in una delle strade vicine al terminal
degli autobus. Il numero dei migranti nelle vie e nelle piazze impressiona. José
Miguel dice che una notte la polizia è passata e ha cacciato tutti. Questo è il
clima di insicurezza che molti di loro vivono.

Indigeni Warao a Boa Vista in un centro di identificazione e registrazione

Il secondo mandato di Maduro aggrava la crisi

Con l’inizio del secondo mandato del presidente Nicolas
Maduro, la cui elezione è contestata, e che non è riconosciuta dal Parlamento
venezuelano e da vari paesi e organizzazioni internazionali, la crisi in
Venezuela sta peggiorando. La previsione è che il flusso migratorio aumenterà.
Nel frattempo, cresce anche la pressione su Maduro. In Boa Vista, uno
striscione appeso su un viale chiede la fine del regime e il sostegno per il
leader dell’opposizione, il Presidente dell’Assemblea nazionale, Juan Guaidó perché
diventi il presidente del paese.

Cartello contro Maduro a Boa Vista

La situazione di vulnerabilità aumenta il rischio di
sfruttamento, consumo di stupefacenti, furto, insicurezza, fame e malattie in
una popolazione già minacciata dalla migrazione. Con così tante persone senza
occupazione e luogo per vivere, aumenta la tensione sociale. La recente visita
di cinque ministri governativi alla città di Boa Vista ha ratificato la prosecuzione
dell’operazione di accoglienza e internalizzazione.

I dati della Polizia federale mostrano che 85.000
venezuelani hanno cercato rifugio in Brasile dal 2015. Le stime del IBGE
sottolineano che più di 30.000 sono attualmente in Roraima.

Jaime C. Patias, IMC, consigliere generale per l’America.

Bambino Warao a Boa Vista assistito dal team itinerante dei Missionari della Consolata



Decreto Sicurezza è una legge repressiva anche nei confronti degli italiani

Cimi (Conferenza Istituti missionari Italiani)
Fesmi (Federazione stampa missionaria italiana)

Comunicato

7 dicembre 2018


Come rappresentanti degli Istituti (esclusivamente) missionari italiani (CIMI) e delle riviste missionarie aderenti alla Fesmi,
condividiamo e sosteniamo l’appello del nostro confratello padre Alex Zanotelli, comboniano, contro il Decreto Sicurezza approvato recentemente che «prevede per i migranti l’abolizione della protezione umanitaria, il raddoppio dei tempi di trattenimento nei Centri per il Rimpatrio(CPR), lo smantellamento dei centri SPRAR (Sistema per i richiedenti asilo e rifugiati) affidati ai Comuni (un’esperienza ammirata a livello internazionale, per non parlare di Riace), la soppressione dell’iscrizione anagrafica con pesanti e concrete conseguenze, l’esclusione all’iscrizione del servizio sanitario nazionale e la revoca di cittadinanza per reati gravi».

Ricordiamo che come missionari

  • Siamo impegnati anzitutto nei paesi di provenienza dei migranti a sostenere tutta una serie di attività orientate a garantire alla gente di quei paesi il diritto di restare nella loro terra;
  • siamo impegnati in Italia con la Chiesa italiana e le sue organizzazioni (Caritas, San Vincenzo, Uffici Migrantes e quanto altro) in una miriade di iniziative a favore dei migranti con l’impegno di personale con grande esperienza di servizio ai popoli più diversi;
  • tramite le nostre riviste offriamo una informazione puntuale, corretta, approfondita e documentata sul fenomeno migratorio senza fare di questo uno strumento di propaganda.

Invitiamo le nostre consorelle e i nostri confratelli

  • a esprimersi con chiarezza su questa realtà, anche a rischio di diventare impopolari;
  • a sostenere tutte le iniziative della Chiesa locale sul territorio per venire incontro a coloro che soffriranno (e già soffrono) le conseguenze di questo decreto;
  • a firmare l’appello pubblicato da padre Alex su Change.org e qui sotto riportato.

CIMI e Fesmi

 



Testo dell’appello di padre Alex Zanotelli

«Il 27 novembre 2018 sarà ricordato come il Martedì Nero della Repubblica italiana perché il Parlamento ha trasformato in legge il Decreto Sicurezza che è in netta contraddizione con i principi della nostra Costituzione. E questo è avvenuto senza una discussione parlamentare e senza la possibilità di inserire emendamenti.
Altro che centralità del Parlamento! È un brutto segnale per la nostra democrazia!

Infatti il Decreto Sicurezza è una legge repressiva anche nei confronti degli italiani. Rende reato, per esempio, il blocco delle strade o delle ferrovie (strategia nonviolenta attiva), proibisce l’assembramento di persone (elemento costitutivo della stessa democrazia), impone il daspo e gli sgomberi. È forse l’inizio di un sistema poliziesco guidato dall’uomo forte?

Ma la gravità di questo Decreto sta nel fatto che nega i principi di solidarietà e di uguaglianza che sono alla base della nostra Costituzione. Infatti questo Decreto prevede per i migranti l’abolizione della protezione umanitaria, il raddoppio dei tempi di trattenimento nei Centri per il Rimpatrio (CPR), lo smantellamento dei centri SPRAR (Sistema per i richiedenti asilo e rifugiati) affidati ai Comuni (un’esperienza ammirata a livello internazionale, per non parlare di Riace), la soppressione dell’iscrizione anagrafica con pesanti e concrete conseguenze, l’esclusione all’iscrizione del servizio sanitario nazionale e la revoca di cittadinanza per reati gravi.

Trovo particolarmente grave il diniego del diritto d’asilo per i migranti, un diritto riconosciuto in tutte le democrazie occidentali, menzionato ben due volte nella nostra Costituzione. Questa è una legge che trasuda la ‘barbarie’ leghista e rappresenta un veleno micidiale per la nostra democrazia. Di fatto il decreto è profondamente ingiusto perché degrada la persona dei migranti e crea due classi di cittadini, rendendo lo ‘straniero’ una minaccia, un nemico e sancendo così la nascita del ‘tribalismo’ italiano, come lo definisce G. Zagrebelsky. Anzi crea l’apartheid giuridica e reale. E questo conduce alla separazione e la separazione è peccato. Per di più questo Decreto che si chiama sicurezza, ma sicurezza non offre, perché moltiplicherà il numero dei clandestini e degli irregolari che verranno sbattuti per strada. E l’effetto è già sotto i nostri occhi: tre migranti su quattro si sono visti negare l’asilo, migliaia di titolari di un permesso di soggiorno sono stati messi alla porta, circa quarantamila usciranno dagli SPRAR. E sono spesso donne con bambini che hanno attraversato l’inferno per arrivare da noi! Così entro il 2020 si prevedono oltre 130.000 irregolari per strada. E gli irregolari verranno rinchiusi nei nuovi lager, i CPR. A questi verrà ingiunto, entro sette giorni, di ritornare nei loro paesi. Ma né i migranti né il governo hanno i mezzi per farlo. Così rimarranno in Italia mano d’opera a basso prezzo per il caporalato del nord e del sud.

E’ questa la conclusione amara di un lungo cammino xenofobo di questo paese, iniziato con la Turco-Napolitano (i CIE!), seguito dalla Bossi-Fini, dai decreti Maroni e dalla legge Orlando-Minniti, oltre che al criminale accordo di Minniti con la Libia. Questo Razzismo di Stato è poi sfociato in una guerra contro le ONG presenti nel Mediterraneo, per salvare vite umane, e alla chiusura dei porti, in barba a leggi nazionali e internazionali! Non c’è più Legge che tenga, la legge la fa la maggioranza di turno al governo! È in ballo il diritto, la legge, la nostra stessa democrazia. È grave che ora anche il Presidente della Repubblica abbia firmato questo Decreto. Non possiamo più tacere. Dobbiamo reagire, organizzare la resistenza per salvare la nostra comune umanità.

Per questo ci appelliamo a:

  • Corte Costituzionale, perché dichiari il Decreto sicurezza incostituzionale;
  • Giuristi, perché portino queste violazioni dei diritti umani alla Corte Europea di Strasburgo;
  • Conferenza Episcopale Italiana perché abbia il coraggio di bollare questo Decreto e la politica razzista di questo governo come antitetici al Vangelo;
  • Istituti missionari, perché facciano udire con forza la loro voce, mettendo a disposizione le loro case per ‘clandestini’ come tante famiglie in Italia stanno facendo;
  • Parroci, perché abbiano il coraggio di offrire l’asilo nelle chiese ai profughi destinati alla deportazione, attuando il Sanctuary Movement, praticato negli USA e in Germania;
  • Responsabili degli SPRAR, CAS e altro, perché disobbediscano, trattenendo nelle strutture i migranti, soprattutto donne con bambini;
  • Medici, perché continuino a offrire gratuitamente servizi sanitari ai clandestini;
  • Cittadinanza attiva, perché in un momento così difficile e buio, si oppongano con coraggio a questa deriva anti-democratica, xenofoba e razzista anche con la ‘disobbedienza civile’ così ben utilizzata da Martin Luther King che affermava: «L’individuo, che infrange una legge perché la sua coscienza la ritiene ingiusta ed è disposto ad accettare la pena del carcere per risvegliare la coscienza della comunità riguardo alla sua ingiustizia, manifesta in realtà il massimo rispetto per la legge!»

Coraggio, inizia ora la Resistenza civile!

Alex Zanotelli

Napoli, 4 dicembre 2018

 




Centocinquant’anni di evangelizzazione in Tanzania


Non reportage da Bagamoyo, ma racconto per ricordare la celebrazione dei 150 anni della evangelizzazione del Tanzania.

Testo di Marianna Micheluzzi – foto padre Francesco Bernardi

Manca circa una mezzora (sono le 9, 30 del mattino) all’inizio della grande celebrazione all’aperto nella enorme spianata di Bagamoyo, che guarda di rimpetto l’oceano. Proprio quello stesso oceano che, nel lontano 1868, consentì a padre Antornine Horner, un tedesco, missionario della Congregazione del Santo Spirito, di raggiungere la terra ferma provenendo da Zanzibar.

E noi siamo fermi, sotto un cielo azzurro e un sole cocente, a pochi metri dalla croce commemorativa che ricorda, appunto, la prima missione, la più antica, di Tanzania, fondata un secolo e mezzo fa.

150 anni dell’evangelizzazione in Tanzania, folla alla celebrazione

Una folla enorme, coloratissima e molto varia, anche per le fogge originali degli abiti, in particolare quelli femminili, comincia ad accalcarsi. Ci sono uomini e donne di tutte le età. Anziani, bambini e giovani. E ci sono pure i giovanissimi. Quelli, adolescenti, amanti dell’hip hop, che le mamme hanno tirato giù dal letto perché ci fossero anche loro alla festa. Si prevede una presenza di pubblico intorno alle circa 250 mila persone. L’evento, importante per il paese, era stato pubblicizzato a sufficienza in anticipo e nelle parrocchie e dai media. In particolare dalla radio, che arriva quasi ovunque, e ne ha dato notizia circa un mese prima.

Così il popolo di Tanzania, il popolo cattolico, che non vuole mancare all’appuntamento, c’è. C’è tutto e si fa sentire. È una festa, una festa grande. Qui si amano i raduni festosi dove, dopo l’ascolto è possibile anche cantare e ballare in segno di gioia condivisa. Non mancherà il rullo dei tamburi e neppure il suono del corno secondo la tradizione (anche biblica).

La gioia del Vangelo di cui si racconterà questa mattina ha cambiato, infatti, con la presenza missionaria, la vita di moltissime persone. È avvenuto nelle città e nelle campagne. Il Vangelo con le sue parabole, con i suoi insegnamenti mirati, ha accompagnato la gente nei momenti felici e pure in quelli un po’ meno felici. Il Vangelo è stato un autentico volano di promozione umana e sociale, e quindi di sviluppo. Nel paese e per il paese. Un paese dove c’è ovviamente ancora tantissimo da fare ma che, per la più parte, dati alla mano, ha iniziato da tempo ormai un buon cammino. E di certo lo continuerà.

150 anni dell’evangelizzazione in Tanzania, il coro

Risultati di grazia

Un percorso, quello della presenza missionaria cattolica, le cui tappe fondamentali traccerà questa mattina agevolmente l’oratore, e cioè padre Faustine Kamugisha, sacerdote cattolico della diocesi di Bukoba, noto negli ambienti cattolici e non solo, incaricato della celebrazione dalla Tec, la Conferenza episcopale del Tanzania. Padre Kamugisha, tra l’altro, ha scritto un libro che ha proprio per titolo: «I 150 anni di Evangelizzazione del Tanzania: la gioia del Vangelo». Un testo che ci dirà molto altro ancora sull’impegno missionario in Tanzania in quanto redatto da un tanzaniano, che ha scelto per la sua vita la strada del sacerdozio.

Logo dei 150 anni dell’evangelizzazione in Tanzania

Ecco alcuni dati per comprendere l’impegno della Chiesa cattolica in Tanzania, che emergono dagli allegati acclusi al programma della celebrazione.

  • La Conferenza episcopale del Tanzania (Tec) comprende attualmente ben 34 Diocesi. Di strada, dagli inizi, possiamo dire che se ne è fatta davvero tanta anche se tanta altra ne resta ancora da fare.
  • 235 Scuole secondarie sono oggi il numero di istituti gestiti direttamente dalla Tec.
  • 75 sono, invece, i centri di formazione professionale, molto utili per la gioventù e perciò molto frequentati.
  • 4 sono le Università cattoliche a pieno titolo.
  • 55 sono gli Ospedali, sempre afferenti alla Tec così come 94 i Centri sanitari e 338 i Dispensari. Degli ospedali del Tanzania merita, per la sua eccellenza, d’essere ricordato in particolare l’ospedale di Ikonda, retto e gestito dai missionari della Consolata di Torino. Con un reparto apposito, unico nel territorio, dove sono ospitati i malati di Aids, purtroppo ancora dolente piaga d’Africa.

Tutto questo, uomini, cifre, risultati, è opera delle Missioni cattoliche, che tanto hanno dato in termini di accompagnamento e crescita alla popolazione locale. Popolazione che, di rimando, ha sempre ricambiato (va detto) e ricambia con riconoscenza e generosità. Il Tanzania, infatti, è uno dei paesi dell’Africa che, con il Kenya, conta tra l’altro un buon numero di vocazioni sacerdotali. Lo stesso dicasi per le vocazioni al femminile. E va anche ricordato l’impulso dato alla nascita di congregazioni locali.

Assieme alla presenza certa del presidente del Tanzania, John Pombe Magufuli, ai ministri locali e agli ambasciatori esteri, compreso quello italiano, nella concelebrazione lo spazio dell’omelia sarà riservato al presidente dell’assemblea. E cioè al cardinale John Njue, arcivescovo di Nairobi, in rappresentanza di Papa Francesco.

Bagamoyo, dalla schiavitù alla libertà

150 anni dell’evangelizzazione in Tanzania, arrivo dei vescovi

Bagamoyo sappiamo che, storicamente, come città fu fondata alla fine del ‘700 (XVIII sec.) ma in precedenza, già nel 1400, era un territorio oggetto dell’occupazione araba (lo ricorda moltissimo infatti, ancora oggi, nelle sue architetture) e, purtroppo, fu porto di transito nei secoli successivi, quando divenne dominio dell’Oman (1750). Un porto idoneo al trasferimento degli schiavi nelle terre d’Arabia e dell’Asia. Schiavi che altro non erano che uomini e donne e bambini, rastrellati in paesi dell’Africa occidentale, nei numerosi villaggi rurali, trasferiti successivamente a Bagamoyo, imprigionati poi in una fortezza e infine venduti. Un Museo in Bagamoyo ne ricorda l’immane tragedia. La parola Bagamoyo significa nella lingua locale: «Uccidi il tuo cuore». Ovvero: «Perdi ogni speranza».

I missionari cattolici, quando arrivarono, costruirono il «Villaggio della libertà», dove poter ospitare appunto quegli schiavi che riuscivano a riscattare. Fu un’iniziativa che, in qualche modo, concorse poi a dare forza, gradualmente negli anni, al movimento abolizionista della schiavitù.

A ricordare i 150 di Missione cattolica, sempre in Bagamoyo, c’è anche un gigantesco baobab cresciuto in centocinquanta anni (1868-2018), che è ancora lì maestoso nel cortile della missione. E che merita d’essere visitato. Come lo merita anche il cimitero locale, che ricorda, con delle lapidi, i 50 missionari morti giovanissimi per malaria o altre malattie tropicali. Cosa che accadeva sovente, specie agli inizi della missione, perché non esisteva conoscenza adeguata di queste malattie, né tanto meno rimedi idonei a guarire chi ne fosse colpito.

Resta il fatto che il seme piantato da tanti missionari e missionarie, che si sono avvicendati negli anni in terra di Tanzania, ha dato senza dubbio i suoi frutti, se oggi il paese può guardare innanzi, agli anni che verranno, con una certa fiducia e un discreto ottimismo.

150 anni dell’evangelizzazione in Tanzania, fedeli da tutto il paese

Non sappiamo se padre Faustine Kamugisha oppure il cardinale Njue citeranno Nyerere, il grande presidente cattolico, il padre dell’Ushamàa, che tanto ha dato al suo Paese e alla sua gente, privilegiando da subito per il suo popolo quali priorità urgenti: il lavoro, l’istruzione, la salute, perché si potesse vivere tutti, ma proprio tutti, un’esistenza dignitosa.

E lo ha fatto, Nyerere, non va dimenticato, giorno dopo giorno, affiancando e condividendo sempre, in tutti gli anni della sua presidenza, il lavoro dei tanti missionari.

Il prossimo appuntamento in Tanzania, dopo quello odierno, sarà quello che celebrerà, tra pochi mesi, il giubileo di 100 anni dell’arrivo dei missionari della Consolata, nel 1919.

Testo di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)

150 anni dell’evangelizzazione in Tanzania, musicista




AIUTIAMOLI A CASA LORO /1


Dal sentito dire al toccare con mano, dai facili slogan alla conoscenza della realtà. “Aiutiamoli a casa loro” è una facile risposta quando non solo non si conosce, ma addirittura si tenta di allontanare un problema. Per noi è una provocazione che porta a impegnarci per una vera conoscenza della realtà.

Iniziamo un percorso di conoscenza delle realtà e dei paesi del mondo affinché possiamo comprendere bene che “casa loro” è già a casa nostra: dai prodotti dell’agroalimentare ai minerali, dal “land grabbing” al turismo… tante, tantissime materie prime che il mondo occidentale usa quotidianamente, che provengono da altrove e che troppo spesso sono frutto di sfruttamento più che di scambio alla pari, generando così anche conflitti che di volta in volta sono tacciati di essere scontri tribali o di religione, ma che, purtroppo, sottostanno a un potere economico delle nazioni ricche e delle loro multinazionali.

In questo primo appuntamento (Modica, Domus S. Petri – mercoledì 7 novembre 2018) desideriamo renderci conto delle tantissime risorse provenienti dai “paesi del terzo mondo” la cui economia però è gestita essenzialmente dai “paesi del primo mondo”, casa nostra appunto!

Padre Gianni Treglia
Comunità Missionaria Intercongregazionale di Modica

Incontro su “Aiutiamoli a Casa loro” /1 nella Domus Sancti Petri di Modica il 7 novembre 2018 con Mohamed Ba, senegalese, organizzato dalla Comunità missionaria intercongregazionale.


Si parla di immigrazione, se ne parla spesso. Purtroppo, ci si concentra solo sulla presenza dello straniero sulle nostre terre, vicino alle nostre case… e l’altro, il diverso, il forestiero, lo straniero di cui non conosciamo nulla, solo e semplicemente perché diverso, ci fa paura, è altro da noi, è altro da me. La nostra “sicurezza” si sente minacciata, il timore di rimanere espropriati del proprio buon vivere diventa ansia e questo genera in noi un istinto di protezione da cominciare a ergere muri, barriere, divisori e divisioni, col solo risultato, però, di non vivere sereni, di morire isolati.

Parlare di numeri, offrire statistiche, dati reali che dovrebbero demolire il pensiero di una “invasione dello straniero”, sembra non bastare ad arginare la percezione dell’uno che diventa cento, del due che sembra ventimila! Non volendo però passare per gente cattiva, men che meno razzisti, ci si rifugia in facili slogan: sarebbe bello che ognuno potesse vivere serenamente nei propri luoghi di origine, dove è nato e cresciuto, quindi “Aiutiamoli a casa loro”.

Se questo slogan nascondesse anche una buona intenzione da parte di chi lo pronuncia (più verosimilmente è un tentativo di allontanare e non volere il problema), cosa effettivamente significa? Basterebbe offrire un contributo economico ai paesi di provenienza degli stranieri per non averli più a casa nostra? Casa loro e casa nostra, qual è la distanza, quale l’interdipendenza? Forse che casa loro non è già presente a casa nostra nelle “cose” che usiamo? Quanto di casa nostra siamo proprietari a casa loro?

Aiutiamoli a casa loro! Il facile modo di dire, nato più dal sentito dire che da una reale volontà di fare qualcosa, diventa per noi, Comunità Missionaria Intercongregazionale di Modica, occasione per dare inizio a Percorsi di formazione all’Accoglienza e all’Integrazione, offrendo spunti di riflessione che conducano a una reale conoscenza dell’altro, dello straniero. Temi che ci facciano scoprire i popoli e le nazioni del mondo, la mobilità umana e le sue ragioni di cui, forse inconsapevoli, ne facciamo pienamente parte.

Il primo appuntamento di tali percorsi ci ha visti presenti in alcune classi di due scuole superiori di Modica, l’Istituto G. Verga e il Liceo Scientifico Galilei-Campailla, e in un incontro pubblico presso la Domus S. Petri, sempre a Modica.

L’Africa, la cui estensione è oltre tre volte superiore all’Europa, è fonte di immense risorse naturali, ricchissimo quindi per natura: petrolio, oro, diamanti, coltan, cotone, caffè, frutta… solo per citare qualcosa. Eppure, nell’immaginario collettivo, l’Africa è vista come il paese della povertà. Perché? In questo primo incontro si è cercato di rispondere proprio a questa domanda, perché? Perché tanta povertà in luoghi così ricchi?

Scoprire che tanta ricchezza è quotidianamente usata a “casa nostra”, dal caffè che mi risveglia al mattino al carburante che mi permette di usare l’auto, dalla maglietta bella che indosso al gioiello che porgo in regalo, forse non è novità. Sapere che tanta ricchezza non solo è usata a “casa nostra”, ma “casa nostra” ne è anche il proprietario “a casa loro”, forse non conviene dirlo ad alta voce. Proprio questo “inconveniente”, invece, dovrebbe stimolare le coscienze a pensare che per aiutarli a casa loro occorre una conversione nel senso della redistribuzione, della restituzione, della giustizia a partire da casa nostra.

La riflessione e testimonianza di Mohamed Ba, attore, scrittore, musicista, educatore, senegalese da vent’anni in Italia, ha aiutato giovani e adulti a ripercorrere secoli di presenza occidentale in Africa, presenza che ha via via generato schiavitù, colonialismo, accaparramento, sfruttamento… in nome di una sfrenata corsa al possedere che ci porta tutt’oggi a pensare che “chi non ha non è”. Senza alcuna vena rivendicativa ha invitato a fare memoria di tutto questo proprio per non ripetere gli errori commessi, piuttosto dare inizio a una nuova generazione che sappia cogliere le diversità come ricchezza, che sappia porre la persona al centro, prima dei beni materiali. Accogliere diventa così arricchimento e non più paura di perdere cose, casa e libertà. Accogliere l’altro ci fa diventare quello che realmente siamo, umani!

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Sinodo dei giovani: Esperienze di giovani in «Missione»


Da ormai parecchi anni molte realtà in Italia propongono ai giovani di trascorrere un periodo in missione per un’esperienza concreta di incontro con il mondo. È una proposta che – anno dopo anno sta crescendo non solo nei numeri ma anche nella qualità: non è semplicemente una «vacanza alternativa», ma una proposta che mira a lasciare il segno nello sguardo con cui un giovane affronta la propria vita, anche qui in Italia.

Proprio per questo, in occasione del Sinodo che si tiene in questo mese di ottobre e ha per tema «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale», le riviste missionarie riunite nella Fesmi, insieme a Missio Giovani e al Segretariato Unitario di Animazione Missionaria (Suam) hanno pensato di promuovere un’indagine nazionale su questo tipo di esperienze e divulgarne i risultati preliminari in occasione del Sinodo.

Giovani a Makambako, in Tanzania, agosto 2018

Per conoscere la realtà dei giovani partiti sono stati predisposti due questionari,

  • uno rivolto alle realtà che promuovono questi percorsi,
  • l’altro proposto direttamente ai giovani partecipanti,

che sono stati inviati a tutti i Centri missionari diocesani, agli istituti missionari e alle associazioni cattoliche di volontariato che in Italia promuovono esperienze, estive e non, in missione.

I primi risultati di questo censimento sono una sintesi delle risposte che 39 realtà – tra centri missionari diocesani, istituti religiosi e associazioni – hanno offerto al questionario loro rivolto.

Viene raccolta anche la voce di 106 giovani partecipanti, che hanno offerto il proprio feed-back su quanto ha lasciato loro in eredità il periodo trascorso in missione.

Va precisato che si tratta di un campione parziale senza alcuna pretesa di esaustività: sappiamo bene essere molti di più i centri missionari e gli istituti che organizzano questo tipo di proposte. Inoltre esperienze del genere sono organizzate anche da singole parrocchie in collaborazione con missionari o missionarie della propria comunità. Quanto presentato di seguito, dunque, vuole essere semplicemente un primo sguardo, nella speranza di riuscire in futuro a offrire una fotografia più completa; e non potrebbe essere anche un frutto del Sinodo su giovani e discernimento vocazionale?


Nota: va ricordato che l’Agesci invia ogni anno circa 450 giovani a fare esperienze di servizio in Africa, America Latina e altri paesi dell’Asia Minore e dell’Europa.

Agorà degli Scout a Villa Buri – Verona


Giovani in Missione: Dati significativi

Con questa premessa, presentiamo alcuni dati significativi emersi dall’indagine:

Quanti giovani in missione?

  • Nelle realtà censite il numero complessivo di ragazzi e ragazze coinvolti nelle esperienze estive promosse in missione nell’estate 2018 si aggira intorno ai 1000 giovani;
  • per molte realtà si tratta di una proposta consolidata: più della metà degli enti che hanno risposto al questionario racconta di offrire questo tipo di esperienza da almeno 10 anni
  • una stima complessiva del numero di giovani coinvolti dall’avvio delle proposte parla ormai di almeno 20.000 giovani italiani inviati in missione da queste 39 realtà.

Chi sono e dove vanno questi giovani?

  • L’età media è molto giovane: il 39% dei ragazzi coinvolti ha meno di 25 anni, solo il 26% ha superato i 30 anni
  • tra i partecipanti vi sono lavoratori (54%), studenti (37%) e giovani in cerca di un’occupazione (9%)
  • Le risposte pervenute direttamente dai giovani sono per il 71% da donne
  • per la metà dei giovani si tratta di un’esperienza unica nell’arco della propria vita. E sono comunque meno del 30% i giovani partecipanti alle esperienze del 2018 che raccontano di essere stati in missione più di due volte
  • le destinazioni abbracciano tutti i continenti con una prevalenza significativa dell’Africa (38%)
  • la durata varia a seconda delle proposte: per molti l’esperienza dura solo tre o quattro settimane, ma c’è anche chi vive in missione per alcuni mesi.

Come arrivano?

  • Pochi partono da soli: a seconda della proposta si arriva in missione in gruppo (58%) oppure insieme a una o altre due persone (34%); la dimensione comunitaria, dunque, è un fattore importante;
  • l’esperienza non arriva all’improvviso ma è solitamente preparata con cura. L’82% dei giovani parte dopo aver frequentato un cammino di preparazione; e almeno la metà dei giovani che partono lo fa al termine di un cammino che è andato avanti durante tutto l’anno precedente all’esperienza in missione
  • nel 40% dei casi, poi, anche al ritorno è previsto un nuovo percorso che continua durante tutto l’anno successivo; per far sì che l’esperienza vissuta in missione non sia qualcosa di estemporaneo, ma un tempo forte della propria vita.

Come incide l’esperienza vissuta in missione sulla loro vita?

  • A molti lascia in eredità un forte senso di responsabilità: il 69% dei giovani racconta – una volta tornato a casa – di aver scelto di assumersi un impegno in parrocchia o nella propria diocesi o in un’associazione di volontariato. Molti di questi impegni sono legati all’ambito dell’animazione missionaria in Italia. Un altro sbocco interessante per alcuni è l’impegno nel campo dell’assistenza ai migranti in Italia, nel segno della continuità nell’apertura al mondo. Più in generale c’è chi racconta di aver cambiato almeno un po’ il proprio stile di vita in Italia, di essere più attento a questioni come il consumo dell’acqua, di aver cambiato il modo di vedere tante cose
  • non mancano difficoltà di ambientamento in missione: il clima, le condizioni di vita, a volte anche lo stesso dover accettare di non essere lì per fare qualcosa ma semplicemente per condividere. Ma anche questa fatica alla fine viene riconosciuta come un dono dell’esperienza vissuta in missione.
  • emerge però chiara un’altra fatica che ha a che fare con il ritorno a casa: una volta tornati in parrocchia si fa fatica a trovare un ambiente aperto ad accogliere davvero la ricchezza vissuta in missione da questi ragazzi e ragazze. L’impressione che emerge è quella che abbiano vissuto un’esperienza che riconoscono essere stata molto ricca da un punto di vista personale, ma che fatica a far crescere intorno a sé la consapevolezza e l’apertura al mondo anche in chi è rimasto a casa. Il che – evidentemente – pone a tutti i livelli una sfida pastorale su come valorizzare meglio queste esperienze ormai così diffuse.

Nicaragua, Achuapa, agosto 1986

I FRUTTI RACCOLTI “IN MISSIONE”

Di seguito alcune frasi scritte di chi ha fatto l’esperienza “missionaria”:

«Ho imparato un modo nuovo di vedere le cose: anche casa mia, da quando sono tornato, mi sembra un mondo nuovo e diverso»

«Ho imparato che cosa vuol dire sentirsi stranieri, cosa vuol dire non essere accettati, ho conosciuto correnti di pensiero completamente diverse dalle nostre. Mi ha arricchito mostrandomi un mondo che non avevo mai visto».

«Ogni incontro, ogni realtà, ogni storia, ogni ferita… tutto è stato un dono prezioso. L’esperienza ha cambiato il mio sguardo, mi ha messa in discussione, mi ha lasciato tanto e ha fatto tanto spazio. Ha cambiato la mia vita in un modo che non mi sarei mai aspettata»

«Mi ha cambiato la percezione del tempo, delle attività da svolgere nella giornata, l’attenzione a me stessa, la preghiera quotidiana per accettare quello che non capisco. Mi ha dato una “direzione”, mi ha fatto capire quanto sia bello vivere servendo».

«Mi ha fatto comprendere l’importanza del ruolo del missionario: non è colui che fa qualcosa per l’altro, ma colui che è qualcosa per l’altro e l’altra. Mi ha aperto gli occhi di fronte al mio bisogno di amare ed essere amata e mi ha permesso di rendermi conto di come, quando non organizziamo tutto e non abbiamo la pretesa che tutto sia sotto il nostro controllo, c’è qualcuno che si sta guidando. Infine mi ha fatto conoscere una realtà molto povera, ma che ha molto da insegnare a noi oggi nel tornare a relazioni più vere e di apertura verso l’altro».

«Poter toccare con mano come si vive in questi luoghi, quali povertà e ricchezze offrono, vedere, sentire e vivere con la gente ogni giorno ti arricchisce, ti cambia, è un’esperienza che entra a far parte di te e che non puoi fare a meno di condividere con gli altri».

Kenya, agosto 2007, giovanie meno giorvani al luogo dove èstato ucciso padre Kaiser, vicino al lago Nakuru

RIFLESSIONI CONCLUSIVE

  • Questi dati indicano una cosa molto chiara: queste esperienze sono una ricchezza non solo per il mondo missionario, ma anche per tutta la Chiesa e la società italiana. In questo momento storico, segnato dalla paura della diversità e dalla tentazione della chiusura, questi ragazzi e ragazze tornano dalla missione con uno sguardo nuovo sul mondo e desiderano spenderlo anche nella forma di un impegno concreto qui in Italia.
  • La Chiesa italiana si è accorta di loro? Ed è disposta a investire su questo patrimonio?
  • Anche al mondo missionario questi dati chiedono però un passo in più: l’indagine, pur con i suoi limiti, rappresenta il primo tentativo di mettere in rete questo tipo di esperienze nate e portate avanti autonomamente da ciascuna realtà. Proprio l’importanza che i giovani danno a questo tipo di esperienze non dovrebbe incoraggiare una maggiore collaborazione tra le realtà che propongono questo tipo di esperienze? Pur senza perdere nulla della specificità di ciascun ente, si potrebbero elaborare percorsi e strumenti condivisi, utili per strutturare meglio i percorsi di preparazione e i momenti proposti al rientro in Italia.
  • Le parrocchie e comunità locali non potrebbero valorizzare meglio la presenza di questi e queste giovani, con il loro vissuto?
  • Possono queste esperienze maturare in un serio processo di discernimento e diventare occasione per donare al mondo non solo qualche settimana ma tutta la propria vita? In quali forme? Sono domande che il Sinodo ci rilancia…

Fesmi, Missio Giovani, Suam
3 ottobre 2018


Questa rivista – Missioni Consolata – è parte della Fesmi, Federazione Stampa Missionaria Italiana

Testo pubblicato anche da ComboniFem

 

 

 




Mongolia: ricordando mons Wenceslao Padilla

Mons Wenceslao Padilla: Seme gettato – il ricordo di un missionario della Consolata

Se n’è andato così, in punta di piedi, in una sera di autunno mongolo, mentre la natura si stava già preparando al grande inverno. Dopo 26 anni di ininterrotto servizio al Vangelo in uno dei Paesi che più aveva resistito all’annuncio cristiano, la Mongolia. La “sua” Mongolia, sarebbe da dire, visto che del grande Stato centro-asiatico Mons. Padilla aveva seguito tutto il travaglio nella delicata fase di transizione dalla Repubblica Popolare alla nazione democratica.

Aprile 2017. Mons. Marco Sprizzi, vice-capo della missione diplomatica della Santa Sede in Corea e Mongolia con il Prefetto Apostolico di Ulaanbaatar, mons. Wenceslao Padilla in visita al museo di Kharkhorin, dove proprio grazie al suo intervento è stata donata una copia autentica della lettera di Papa Innocenzo IV all’imperatore mongolo Guyuk Khan (1245).

Dal suo arrivo nel 1992 insieme a due confratelli della Congregazione del Cuore Immacolato di Maria (Scheut), Ulaanbaatar era diventata casa sua; prima in una stanza d’albergo, poi in un alloggio affittato e finalmente nella palazzina da lui stesso costruita come sede ufficiale della Chiesa. Ritornava spesso su quei primi anni pionieristici, segnati dal bisogno di instaurare rapporti con le autorità locali, che vedevano nella Chiesa Cattolica un partner affidabile, ma che non erano per nulla avvezzi ad avere tra loro dei missionari stranieri. E così Mons. Wenceslao Padilla – che, originario delle Filippine, veniva da un’intensa esperienza missionaria a Taiwan, dove era stato superiore provinciale – si votò completamente a questa causa, riuscendo in pochi anni a guadagnarsi la stima del governo e la simpatia della gente, soprattutto attraverso una fitta rete d’iniziative di promozione umana e sviluppo. Nessun dubbio che dovesse essere proprio lui a diventare il primo vescovo di una Chiesa appena agli inizi. Nel 2003 la consacrazione episcopale, per le mani dell’allora Segretario di Propaganda Fide, il Card. Crescenzio Sepe.

 

Aprile 2017. Mons. Marco Sprizzi, vice-capo della missione diplomatica della Santa Sede in Corea e Mongolia con il Prefetto Apostolico di Ulaanbaatar, mons. Wenceslao Padilla in visita alla comunità di Arvaiheer, dove è stato piantato un albero per ricordare il 25mo anniversario della ri-fondazione della Chiesa Cattolica in Mongolia (1992).

Nel frattempo, la presenza missionaria cresce, con l’arrivo di congregazioni disposte a collaborare nel dissodare il campo; cresce lentamente anche la comunità cattolica locale. Lui accetta la sfida e non si tira indietro, anzi favorisce una maggiore organizzazione interna, fino alla celebrazione dell’assemblea generale dello scorso novembre. Il lavoro non mancava mai; la sua scrivania era sempre sommersa di carte, che lui diligentemente passava una ad una, con la determinazione di non scontentare nessuno.

Tanti anni di lavoro così intenso, spesso segnato da difficoltà e situazioni delicate da districare, hanno consumato le sue forze. Fino a lasciarlo proprio lì, nel suo ufficio, alla sua postazione usuale di lavoro, come a suggellare una vita spesa per la diffusione del Regno di Dio. La figura del vescovo in una giovane porzione di Chiesa che si confronta con altre tradizioni è molto importante; egli è veramente il punto di riferimento di quella piccola minoranza costituita dai Cattolici, in un contesto prevalentemente buddhista e sciamanico, con ancora i postumi dell’ateismo di stato degli anni del comunismo.

Mons Wenceslao Padilla alla missione di Arvaiheer nell’aprile 2011.

Siamo molto grati a Mons. Padilla, che aprì le porte alla Consolata nel 2003, accogliendo con entusiasmo i nostri primi missionari e missionarie e sostenendoli sempre nel loro discernimento comunitario. Di lui si può dire che è riuscito ad evangelizzare anche attraverso la propria morte; è lui infatti il primo missionario a morire in Mongolia e la gente già vede in questo il segno del chicco di grano che muore per portare frutto.

padre Giorgio Marengo, imc

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