Centrafrica: «so molengue ti mo», questo è tuo figlio


Dalla lettera di Natale di Padre Federico Trinchero da Bangui

Cari amici,

sono quasi certo d’indovinare la vostra prima domanda: “Quanti sono adesso i profughi al Carmel?”. Prima di rispondere a questa legittima domanda, vi dirò invece quanti sono i frati.  Quest’ultimi, per fortuna, sono infatti aumentati più dei primi.

Da settembre la nostra comunità ha raggiunto quota 21: 4 padri, 11 frati studenti, 1 postulante e 5 prenovizi. Non eravamo mai stati così tanti. C’è innanzitutto un padre in più. Si tratta di padre Arland che, dopo aver terminato gli studi in Italia, è venuto in aiuto alla nostra comunità. Gli studenti sono invece quasi raddoppiati con l’arrivo di ben 6 giovani frati che, dopo aver terminato il noviziato a Bouar, ci hanno raggiunto al Carmel per iniziare gli studi. L’età media è di 26 anni e siamo probabilmente una della comunità più giovani dell’Ordine. Per fortuna che ogni tanto viene a trovarci padre Anastasio, il fondatore del Carmel, la sua missione più amata. Con i suoi quasi 80 anni alza un po’ la media dell’età… ma quanto ad entusiasmo, iniziative e amore per l’Africa nessuno riesce ancora a batterlo!

Questo improvviso aumento della famiglia, e la prospettiva che in futuro il numero potrebbe aumentare ancora, ci ha costretto a fare qualche lavoro e alcuni acquisti per accogliere i nuovi arrivati: 6 stanze nuove, letti, armadi, tavoli in refettorio, sedie per la sala del capitolo e per la ricreazione. Un grande grazie a chi ci ha aiutato a sostenere queste spese. Siamo consapevoli – e la cosa ci fa ovviamente soffrire – che in Europa conventi e seminari hanno problemi ben diversi. Qui, invece, capita che siamo costretti a mettere due frati per stanza. È, per il Carmelo centrafricano, un momento fortunato e di particolare benedizione del Signore. Oserei dire che essere qui, in questo momento, è un grande privilegio. Ma anche e soprattutto una grande responsabilità. La formazione di questi giovani è e resta la nostra prima missione in questo giovane cuore dell’Africa e della Chiesa; una missione che ci occupa ogni giorno e che richiede pazienza… ma che ci diverte anche!

La situazione del paese è ancora precaria, soprattutto in alcune città. Tuttavia in capitale, almeno negli ultimi due mesi, non ci sono stati scontri particolari. Non è stato così nei mesi precedenti, quando quella tregua, miracolosamente iniziata dopo la visita di Papa Francesco, è stata fortemente minacciata con ancora morti, troppi morti, per quello che ci era sembrato l’inizio della pace.

Il quartiere del Km 5 di Bangui resta ancora un’enclave da cui i musulmani escono molto raramente e per la quale i cristiani passano solo frettolosamente, quasi chiedendo scusa del disturbo. Attoo a questa enclave si estende un grande anello disabitato, una sorta di terra di nessuno, dove i segni della guerra sono ben visibili. Qui, poco più di tre anni fa, cristiani e musulmani vivevano in pace. Ora, invece, ognuno sembra ostaggio dell’altro. Ci sono soltanto case sventrate o bruciate, tetti diroccati, erba alta, carcasse di macchine. Della parrocchia di Saint Michel restano più soltanto le mura. Al Km 5, un tempo, ogni centrafricano si sentiva come a casa sua: ora, invece, sembra quasi necessario chiedere il permesso prima di potervi entrare e la gente si saluta con un sorriso di reciproca diffidenza. Anche un campo di calcio, quasi un termometro inequivocabile di quanto sia ancora alta la febbre delle guerra, resta ancora deserto senza giocatori e spettatori.

Nel frattempo si è conclusa l’operazione Sangaris, dei militari francesi, con il grande merito di aver evitato una carneficina – a dicembre 2013 il rischio di un genocidio era più che reale – e di aver portato il paese ad elezioni quasi perfette. Di fatto nessuno ha contestato il risultato o ha messo in discussione la legittimità del nuovo presidente. Non è una cosa da poco, considerando la situazione difficile nella quale il paese era precipitato e facendo un confronto con altre realtà africane.

Ora il testimone è passato nelle mani dei 12.000 soldati dell’ONU, provenienti da diversi paesi del mondo e dislocati con grandi mezzi – e ingenti spese – su tutto il territorio. Purtroppo i caschi blu sovente sono criticati di inerzia, se non addirittura di complicità con i ribelli ancora attivi al nord.  E quindi non sono mancate le manifestazioni di protesta per chiedere la loro partenza e la costituzione di un vero esercito centrafricano (praticamente inesistente da ormai tre anni). Personalmente, pur non essendo particolarmente competente in materia, ritengo che, se l’ONU non ci fosse, la situazione sarebbe peggiore e che un esercito nazionale efficiente e affidabile non si crea in tempi brevi. Ci vorrà quindi del tempo perché la situazione del Centrafrica si stabilizzi in modo duraturo: basta poco per iniziare una guerra, ma per conquistare la pace ci vuole tempo, pazienza e coraggio. E anche personalità capaci di convogliare le forze e le ambizioni migliori del paese. Purtroppo il nuovo presidente Touadera non è riuscito ancora ad operare quella svolta che si sperava. Ma è ancora presto per un bilancio e nessuno può onestamente ritenere che l’impresa sia facile. Sono tuttavia visibili, almeno nella città di Bangui, due importanti segnali di pace: la regolarità delle lezioni nelle scuole e l’apertura di diversi cantieri per la costruzione o la riparazione di edifici, strade e ponti. Decine di giovani, prima disoccupati, sono fortunatamente impegnati a studiare o a lavorare (percependo per la prima volta nella loro vita un vero salario). Scuole e cantieri sottraggono masse di giovani che, prima e durante la guerra, erano il bacino di malcontento da cui le ribellioni reclutavano facilmente del personale per destabilizzare il paese. Detto in modo più semplice: pare che se uno studia o lavora abbia meno voglia e tempo di fare la guerra. Lo stesso arcivescovo di Bangui lo ha detto in modo alquanto chiaro: “ Un giovane che non va a scuola è un futuro ribelle”.       

E i profughi rimasti al Carmel quanti sono? Nell’ultimo censimento che abbiamo effettuato abbiamo registrato circa 3.000 persone. Decisamente di meno rispetto alle 10.000 del 2014… ma ancora tante, ormai un vero e proprio villaggio attorno al convento. Un giornalista di passaggio al Carmel ha definito il nostro campo profughi un  ‘microcosmo emblematico della drammatica crisi ancora in corso nella Repubblica Centrafricana’.

Molti profughi sono riusciti  a rientrare nelle loro case oppure ad acquistae o ricostruie una altrove. Questo significa che per i quartieri di Bangui ci sono circa 7.000 persone – forse anche di più – che hanno trascorso al Carmel qualche settimana, qualche mese o anche uno, due o tre anni. Spesso, quando percorro le strade in centro oppure al Km 5, mi capita di essere interpellato da qualcuno che, vedendo il mio volto, mi riconosce e grida: ” Bwa Federico, mbi lango na Carmel! Zone ti mbi 7. Padre Federico, ho dormito al Carmel! La mia zona era la numero 7 “. È anche capitato che qualcuno, in un impeto di eccessiva riconoscenza, abbia orgogliosamente sollevato un bambino, dicendo: ” So molengue ti mo! E questo è tuo figlio!”. Per fortuna, grazie al colore scuro della pelle del bambino, riesco sempre a scagionarmi da interpretazioni maliziose… Ma, inevitabilmente, il pensiero corre, con un po’ di nostalgia, ai quei fantastici giorni in cui un’efficiente sala parto aveva preso dimora nel nostro refettorio e tanti bambini dormivano in chiesa o giocavano nella sala del capitolo.

Ovviamente i bambini sono sempre la maggioranza degli abitanti del nostro campo profughi. Tenete conto che tutti quelli che hanno meno di tre anni sono nati qui, mentre quelli che ne hanno solo qualcuno in più – e sono arrivati ben legati sul dorso della loro mamma in fuga –  qui al Carmel hanno imparato a camminare e a parlare. Per tutti questi bambini – che forse non hanno ancora visto la città – il mondo, di fatto, coincide con il Carmel: un villaggio di tendoni di plastica e legno, palme e terra rossa, attorno ad un Convento in mattoni dove abitano degli uomini che non hanno né mogli e né figli, ma ai quali ci si rivolge quando c’è qualche problema per trovae la soluzione.

Sempre a proposito di bambini vi annuncio – ma, mi raccomando, acqua in bocca, altrimenti ci rovinate la sorpresa – che domani pomeriggio scatterà, sempre dalla Francia (ma con la collaborazione della Svizzera) l’operazione Toblerone. L’operazione Sangaris era per calmare i grandi, questa invece è per fare contenti i bambini. Alcuni giorni fa 150 kg di barrette di cioccolato (sani e salvi, nonostante la temperature decisamente non svizzere!) sono sbarcati al Carmel e saranno il dono di Natale di quest’anno per tutti i nostri bambini. Questo è infatti il quarto Natale che festeggiamo in compagnia dei nostri amici. Ho sempre manifestato il sogno di poter regalare, almeno una volta, qualcosa di buono e di mai visto e gustato a tutti i bambini del Carmel… che hanno perso una casa e molte altre cose, ma non il loro appetito. Un grande grazie a chi mi ha permesso di togliermi questa grande e dolce soddisfazione.

Concludo con un altro sogno che è anche il mio augurio per voi e soprattutto per il Centrafrica.

Ketenguere, che significa ‘piccolo prezzo’, è uno degli incroci più frequentati di Bangui per la vendita degli alimentari e per trovare una moto-taxi. Si trova molto vicino al Km 5 e a soltanto 3 km dal Carmel. Qui, nelle fasi più drammatiche della guerra, venivano immancabilmente bruciati dei pneumatici e innalzate barricate. Ketenguere è diventato più volte una sorta di confine invalicabile: da una parte la guerra, dall’altra la paura. A pochi metri da questo incrocio è stato abbandonato, e ormai quasi incagliato nella terra, un pulmino di colore verde (che potete ben vedere nella foto in allegato). Non ha più le ruote ed è in pessimo stato. Ma – come spesso capita sui mezzi di trasporto pubblico a Bangui – porta una scritta davvero impegnativa: “Savoir pardonner. Saper perdonare”. Da quando è incominciata la guerra il motore si è spento, nessuno ha mai più provato ad accenderlo, nessuno ha mai più avuto il coraggio di salirci sopra… e, inevitabilmente, pochi hanno raccolto la sfida di ‘saper perdonare’. La stato in cui si trova questo mezzo di trasporto mi sembra molto simile alla situazione in cui si trova il Centrafrica.

Allora, ecco il sogno.

Ho sognato che questo pulmino, rimasto senza gasolio, senza ruote, ma sopratutto senza autista e passeggeri, all’improvviso venga rimesso in moto. Ho sognato che al volante si sieda il nostro coraggioso arcivescovo, il neo Cardinale Dieudonné Nzapalainga, sicuramente la persona che, più di ogni altra, non si è mai stancata di chiedere ai centrafricani di ‘saper perdonare’ supplicandoli di uscire dal vortice della vendetta. A bordo ho sognato che possano sedersi i bambini di Bangui. E dietro, siccome le batterie saranno sicuramente scariche, dopo così tanto tempo, e ci sarà bisogno di una buona spinta per far partire il motore, ho sognato che si mettano a spingere, con tutta la loro forza ed energia, i giovani di Bangui. E, una volta acceso il motore, ho sognato che questa simpatica carovana possa attraversare il Km 5… per poi proseguire fino a Bambari, Bocaranga, Bria… e poi, se ne avete bisogno, anche fino a voi.

Questo è il mio biglietto di auguri da Bangui: che ognuno di noi abbia l’audacia di salire su questo pulmino e chiedere come destinazione di condurci là dove sappiamo qualcuno sta aspettando il nostro perdono. C’è gasolio abbastanza per arrivare fin dove non abbiamo ancora avuto, almeno per ora, la forza e il coraggio di andare. Con l’umile consapevolezza che Qualcuno, pur di saperci irrimediabilmente perdonati, non ha temuto di vestirsi della nostra carne e di salire per primo su questo pulmino del perdono e della pace.

Buon Natale!

Padre Federico Trinchero

Qui sotto il link della puntata del 22 Dicembre del programma Today (TV 2000) dedicata al Centrafrica e al Carmel:

http://www.tv2000.it/today/2016/12/23/today-centrafica-risalire-dallabbisso-puntata-22-dicembre-2016/




Kharkhorin e Torino: un patto per il dialogo


Il giorno 9 novembre, presso la Sala del Consiglio del Comune di Torino, comunemente conosciuta come “Sala Rossa”, è stato firmato il Patto di Collaborazione fra il capoluogo piemontese e la città di Kharkhorin (Mongolia). Con questo atto pubblico, La Sindaca di Torino, Chiara Appendino, e il Sindaco della cittadina mongola, Enkhbat Lamzav, si sono impegnati, a nome delle due cittadinanze, a permettere un interscambio maggiore fra i due paesi, soprattutto nei campi della cultura e del turismo.

Negli antichi scranni in cui, in pieno Risorgimento, si sedette Cavour, è stata ospitata una piccola delegazione di amici, parenti e invitati vari, tra cui anche i Missionari e le Missionarie della Consolata.

Entrambi gli Istituti sono presenti in Mongolia dal 2003, nella capitale Ulaanbaatar e nella cittadina di Arvaikheer, capitale della Provincia di Uvurkhangai, ubicata nel centro del paese, a poche decine di chilometri dall’inizio dell’immenso deserto del Gobi.

Della stessa provincia fa parte anche Kharkhorin, l’antica Karakorum, prima capitale dell’impero mongolo per volere dello stesso Genghis Kahn. La città conserva oggi un’impareggiabile importanza culturale, religiosa (e di conseguenza, turistica) per chi vuole capire la storia di questo paese e, più in generale, dell’Asia centrale. Un interessante museo storico-archeologico guida il visitatore alla riscoperta di questo luogo che varie squadre di archeologi stanno cercando di riportare alla luce, con difficoltà, ma anche con interessanti risultati. Una delle principali fonti di riferimento è il diario scritto da un frate francescano italiano, Giovanni di Pian del Carpine che visitò la zona come legato papale in missione presso la corte del Khan mongolo. Il racconto dettagliato di questa impresa, che risale al XIII secolo, parla della compresenza pacifica e tollerante in Kharkhorin di un grande tempio buddhista, di una moschea islamica e di una chiesa cristiana nestoriana. Questo mirabile esempio del passato ha molto da dire anche al tempo presente, in cui le religioni sono usate sovente per dividere anziché unire i popoli nella ricerca della pace.

Sin dall’inizio della loro presenza in Asia, i Missionari e le Missionarie della Consolata hanno ritenuto che il dialogo, alimentato dalla conoscenza delle tradizioni religiose presenti sul territorio, sia fondamentale per l’evangelizzazione, ma anche per una vera collaborazione nel quotidiano, in vista del bene comune. A questo scopo, studio e ricerca a tavolino sono molto importanti; ciò che tuttavia conta maggiormente sono le relazioni fratee di rispetto e amicizia, che nascono da una frequentazione reciproca protratta nel tempo. In Mongolia è quanto essi cercano di fare, sia con gli amici buddhisti (monaci e semplici fedeli) sia con chi segue altre forme religiose, come lo Sciamanesimo (che appartiene all’identità’ più ancestrale della Mongolia) e l’Islam (praticato soprattutto nell’ovest del Paese), sia con chi non aderisce a nessun credo religioso.

Il tentativo di assecondare il profondo desiderio di armonia e dialogo ha spinto Missionari e Missionarie a rivolgere verso Kharkhorin il loro sguardo, muovendo i primi passi verso la costituzione di un centro di dialogo interreligioso e di ricerca storico-culturale.

La Firma del Patto di Collaborazione è frutto dei contatti capillari che Padre Giorgio Marengo, Missionario della Consolata torinese, ha mantenuto vivi su entrambi i fronti, mongolo e piemontese. L’incontro del 9 novembre, infatti, porta a compimento i propositi messi sul tavolo soltanto l’anno scorso, durante una visita a Torino del Sindaco della Città di Kharkhorin, accompagnato dall’allora Vice Goveatore della provincia di Uvurkhangai, in occasione del Forum mondiale dello sviluppo economico locale.

Se l’aspetto turistico e commerciale di questo accordo è certamente molto importante, occorre sottolineare la forte componente culturale che sottostà a questa firma, come la stessa Sindaca di Torino ha sottolineato nel suo discorso di benvenuto. Non è un caso che, oltre al Sindaco di Kharkhorin, per la delegazione mongola erano presenti l’Ambasciatore della Repubblica di Mongolia a Roma, dott. Tserendorj Jambaldorj, il direttore del Museo di Erdene Zuu, Naigal Tumurbaatar e la direttrice del Museo di Kharkhorin, Narangerel Giina.

I due studiosi hanno avuto modo di parlare del patrimonio culturale che gestiscono durante l’inaugurazione della mostra fotografica “Un tesoro nella steppa. Il monastero di Erdene Zuu in Mongolia”, in esibizione al MAO, il Museo di Arte Orientale di Torino, fino a domenica 11 dicembre 2016. La splendida coice del MAO ha esaltato i colori delle immagini che raccontano la storia centenaria del più importante ed antico centro di spiritualità buddhista del paese.

La mostra, realizzata grazie alle fotografie messe a disposizione dall’archivio della Regione di Uvurkhangai, presenta l’importante monastero buddhista costruito nel 1586 da Avtai Khan, principe dei Khalkha, l’odiea Repubblica di Mongolia. Delimitata da una cinta muraria di 400 metri per lato, scandita da 108 stupa, l’area sacra di Erdene Zuu era caratterizzata da numerosi edifici religiosi, costruiti nell’arco di tre secoli con differenti stili architettonici. Oggi, grazie anche ai Missionari della Consolata, questo tesoro viene condiviso in Occidente.

Firma del patto di collaborazione tra la città di Torino rappresentata dalal sindaca Chiara Appendino e la città di Kharkhorin in Mongolia rappresentata dal sindaco l. Enkhbat.
Firma del patto di collaborazione tra la città di Torino rappresentata dalla sindaca Chiara Appendino e la città di Kharkhorin in Mongolia rappresentata dal sindaco Lamzav  Enkhbat. Padre Giorgio Marengo, imc, che ha il dialogo non solo come traduttore. (foto Marco Bello)

Firma del patto di collaborazione tra la città di Torino rappresentata dalal sindaca Chiara Appendino e la città di Kharkhorin in Mongolia rappresentata dal sindaco l. Enkhbat.

Firma del patto di collaborazione tra la città di Torino rappresentata dalal sindaca Chiara Appendino e la città di Kharkhorin in Mongolia rappresentata dal sindaco l. Enkhbat.

Firma del patto di collaborazione tra la città di Torino rappresentata dalal sindaca Chiara Appendino e la città di Kharkhorin in Mongolia rappresentata dal sindaco l. Enkhbat.

Firma del patto di collaborazione tra la città di Torino rappresentata dalal sindaca Chiara Appendino e la città di Kharkhorin in Mongolia rappresentata dal sindaco l. Enkhbat.

Firma del patto di collaborazione tra la città di Torino rappresentata dalal sindaca Chiara Appendino e la città di Kharkhorin in Mongolia rappresentata dal sindaco l. Enkhbat.


Inaugurazione al Mao di Torino della mostra fotografica sugli scaviu archeologici a Kharkhoin alla presenza di Giorgio Marengo, imc, e il sindaco di Kharkhorin, Enkhbat Lamzav. Per la delegazione mongola erano presenti l’Ambasciatore della Repubblica di Mongolia a Roma, dott. Tserendorj Jambaldorj, il direttore del Museo di Erdene Zuu, Naigal Tumurbaatar e la direttrice del Museo di Kharkhorin, Narangerel Giina
Inaugurazione al Mao di Torino della mostra fotografica sugli scavi archeologici a Kharkhoin alla presenza di Giorgio Marengo, imc, e il sindaco di Kharkhorin, Enkhbat Lamzav. Per la delegazione mongola erano presenti l’Ambasciatore della Repubblica di Mongolia a Roma, dott. Tserendorj Jambaldorj, il direttore del Museo di Erdene Zuu, Naigal Tumurbaatar e la direttrice del Museo di Kharkhorin, Narangerel Giina (foto Paolo Moiola)

Inaugurazione al Mao di Torino della mostra fotografica sugli scaviu archeologici a Kharkhoin alla presenza di Giorgio Marengo, imc, e il sindaco di Kharkhorin, Enkhbat Lamzav. Per la delegazione mongola erano presenti l’Ambasciatore della Repubblica di Mongolia a Roma, dott. Tserendorj Jambaldorj, il direttore del Museo di Erdene Zuu, Naigal Tumurbaatar e la direttrice del Museo di Kharkhorin, Narangerel Giina

Inaugurazione al Mao di Torino della mostra fotografica sugli scaviu archeologici a Kharkhoin alla presenza di Giorgio Marengo, imc, e il sindaco di Kharkhorin, Enkhbat Lamzav. Per la delegazione mongola erano presenti l’Ambasciatore della Repubblica di Mongolia a Roma, dott. Tserendorj Jambaldorj, il direttore del Museo di Erdene Zuu, Naigal Tumurbaatar e la direttrice del Museo di Kharkhorin, Narangerel Giina

Inaugurazione al Mao di Torino della mostra fotografica sugli scaviu archeologici a Kharkhoin alla presenza di Giorgio Marengo, imc, e il sindaco di Kharkhorin, Enkhbat Lamzav. Per la delegazione mongola erano presenti l’Ambasciatore della Repubblica di Mongolia a Roma, dott. Tserendorj Jambaldorj, il direttore del Museo di Erdene Zuu, Naigal Tumurbaatar e la direttrice del Museo di Kharkhorin, Narangerel Giina

Inaugurazione al Mao di Torino della mostra fotografica sugli scaviu archeologici a Kharkhoin alla presenza di Giorgio Marengo, imc, e il sindaco di Kharkhorin, Enkhbat Lamzav. Per la delegazione mongola erano presenti l’Ambasciatore della Repubblica di Mongolia a Roma, dott. Tserendorj Jambaldorj, il direttore del Museo di Erdene Zuu, Naigal Tumurbaatar e la direttrice del Museo di Kharkhorin, Narangerel Giina

Inaugurazione al Mao di Torino della mostra fotografica sugli scaviu archeologici a Kharkhoin alla presenza di Giorgio Marengo, imc, e il sindaco di Kharkhorin, Enkhbat Lamzav. Per la delegazione mongola erano presenti l’Ambasciatore della Repubblica di Mongolia a Roma, dott. Tserendorj Jambaldorj, il direttore del Museo di Erdene Zuu, Naigal Tumurbaatar e la direttrice del Museo di Kharkhorin, Narangerel Giina




Sussurrare il Vangelo al cuore dell’Asia


“Sussurrare il Vangelo al cuore dell’Asia: uno studio missiologico sull’evangelizzazione in Mongolia” è il titolo della tesi di dottorato difesa giovedì 24 novembre da padre Giorgio Marengo presso l’Università Urbaniana di Roma.

Il lavoro è la conclusione di una ricerca condotta sul campo, in quanto frutto dell’attività missionaria di padre Giorgio, da ormai quasi quattordici anni in Mongolia. Rubando il tempo al sonno e integrando lo studio con il lavoro pastorale e missionario, padre Giorgio ha dato corpo alla riflessione che lo ha accompagnato durante questa decade abbondante di ministero.

Gli obiettivi della ricerca erano: sondare nel fitto tessuto dell’animo mongolo quali siano le porte più accessibili perché l’annuncio cristiano raggiunga quella profondità dove solo può fiorire la fede e radicarsi nel tempo. A segnare i passi di questo percorso è stata la fortunata espressione di Thomas Menamparampil, arcivescovo emerito di Guwahati – India, che dà il titolo alla tesi di p. Giorgio, suggerendo due momenti d’indagine: il primo, più descrittivo, dedicato alla comprensione della Mongolia e della visione del mondo dei suoi abitanti; e il secondo, volto a rintracciare una modalità di missione che sia il più possibile adeguata a questo mondo e che il verbo “sussurrare” vorrebbe appunto indicare.

Padre Giorgio ha ripercorso con la commissione e le tante persone intervenute  a questo evento il suo cammino di ricerca, aprendo una finestra di pensiero sulla storia e la cultura di un popolo nomade che fu immensamente grande nel passato, ma che rimane pressoché sconosciuto alla maggior parte delle persone. Usi, tradizioni, costumi, religiosità sono elementi che il missionario ha imparato a conoscere bene grazie a una continua immersione nella realtà del posto, alle relazioni intessute con fatica nel tempo. “Sussurrare – infatti –  è verbo che dice vicinanza, frateità, empatia. Verbo che sta tra la proclamazione e il silenzio, molto caro all’Asia. Questa espressione allude anche all’idea di segreto, molto tipica delle culture asiatiche e di quella mongola in particolare: la Parola comunicata esige di essere pronunciata con la stessa profondità da cui si origina e mirando a suscitare in chi l’ascolta la stessa densità di silenzio e di stupore in cui nasce. Ne consegue uno stile che si potrebbe riassumere accennando alla radice sanscrita del verbo “sussurrare”: svar, suono/suonare. La missione come una melodia che fa vibrare il cuore. Esigenza di bellezza, armonia, equilibrio, proporzione, discrezione”.

Sono queste parole dello stesso Giorgio, tratte dal testo con cui ha difeso il suo elaborato. Da esse è facile capire come lo stile del sussurro apra al missionario e gli permetta di approfondire il discorso sulla contemplazione e la preghiera come autentiche vie di evangelizzazione, sia per la dinamica stessa della missione, sia per la particolare sintonia con un contesto fortemente segnato dalla dimensione spirituale.

Il dibattito che è seguito alla presentazione del candidato ha permesso al Direttore della tesi e controrelatori (il Prof. Benedict Kanakapally e i professori Luciano Meddi e Donatella Scaiola rispettivamente ) di chiarire ulteriormente alcuni punti del missionario presentato da padre Giorgio. Il successo è stato garantito da un giudizio estremamente positivo sia sul lavoro scritto che sulla presentazione che di essa è stata dato.

Al termine, prima dei ringraziamenti da parte del candidato, un ospite mongolo, il prof. Selenge, studioso cattolico della cultura del suo paese, amico personale di Giorgio e suo sostegno in questo lavoro di ricerca, ha presentato un segno tradizionale di onore e rispetto, offrendo al neo dottore  dell’Arul (latte essicato) e un drappo azzurro, insieme ad auguri di ogni bene.

Padre Giorgio ripartirà fra pochi giorni per preparare la celebrazione del Natale con la sua piccola comunità cristiana di Arveiheer, continuando con essa a “sussurrare” il Vangelo in Mongolia e al grande continente asiatico.

Padre Giorgio Marengo difende la sua tesi all'università urbaniana. - Articolo su Dottorato Giorgio Marengo “Sussurrare il Vangelo al cuore dell’Asia: uno studio missiologico sull’evangelizzazione in Mongolia” è il titolo della tesi di dottorato difesa giovedì 24 novembre da padre Giorgio Marengo presso l’Università Urbaniana di Roma. Il lavoro è la conclusione di una ricerca condotta sul campo, in quanto frutto dell’attività missionaria di padre Giorgio, da ormai quasi quattordici anni in Mongolia. Rubando il tempo al sonno e integrando lo studio con il lavoro pastorale e missionario, padre Giorgio ha dato corpo alla riflessione che lo ha accompagnato durante questa decade abbondante di ministero. Gli obiettivi della ricerca erano: sondare nel fitto tessuto dell’animo mongolo quali siano le porte più accessibili perché l’annuncio cristiano raggiunga quella profondità dove solo può fiorire la fede e radicarsi nel tempo. A segnare i passi di questo percorso è stata la fortunata espressione di Thomas Menamparampil, arcivescovo emerito di Guwahati – India, che dà il titolo alla tesi di p. Giorgio, suggerendo due momenti d’indagine: il primo, più descrittivo, dedicato alla comprensione della Mongolia e della visione del mondo dei suoi abitanti; e il secondo, volto a rintracciare una modalità di missione che sia il più possibile adeguata a questo mondo e che il verbo “sussurrare” vorrebbe appunto indicare. Padre Giorgio ha ripercorso con la commissione e le tante persone intervenute a questo evento il suo cammino di ricerca, aprendo una finestra di pensiero sulla storia e la cultura di un popolo nomade che fu immensamente grande nel passato, ma che rimane pressoché sconosciuto alla maggior parte delle persone. Usi, tradizioni, costumi, religiosità sono elementi che il missionario ha imparato a conoscere bene grazie a una continua immersione nella realtà del posto, alle relazioni intessute con fatica nel tempo. “Sussurrare

Padre Giorgio Marengo difende la sua tesi all'università urbaniana. - Articolo su Dottorato Giorgio Marengo “Sussurrare il Vangelo al cuore dell’Asia: uno studio missiologico sull’evangelizzazione in Mongolia” è il titolo della tesi di dottorato difesa giovedì 24 novembre da padre Giorgio Marengo presso l’Università Urbaniana di Roma. Il lavoro è la conclusione di una ricerca condotta sul campo, in quanto frutto dell’attività missionaria di padre Giorgio, da ormai quasi quattordici anni in Mongolia. Rubando il tempo al sonno e integrando lo studio con il lavoro pastorale e missionario, padre Giorgio ha dato corpo alla riflessione che lo ha accompagnato durante questa decade abbondante di ministero. Gli obiettivi della ricerca erano: sondare nel fitto tessuto dell’animo mongolo quali siano le porte più accessibili perché l’annuncio cristiano raggiunga quella profondità dove solo può fiorire la fede e radicarsi nel tempo. A segnare i passi di questo percorso è stata la fortunata espressione di Thomas Menamparampil, arcivescovo emerito di Guwahati – India, che dà il titolo alla tesi di p. Giorgio, suggerendo due momenti d’indagine: il primo, più descrittivo, dedicato alla comprensione della Mongolia e della visione del mondo dei suoi abitanti; e il secondo, volto a rintracciare una modalità di missione che sia il più possibile adeguata a questo mondo e che il verbo “sussurrare” vorrebbe appunto indicare. Padre Giorgio ha ripercorso con la commissione e le tante persone intervenute a questo evento il suo cammino di ricerca, aprendo una finestra di pensiero sulla storia e la cultura di un popolo nomade che fu immensamente grande nel passato, ma che rimane pressoché sconosciuto alla maggior parte delle persone. Usi, tradizioni, costumi, religiosità sono elementi che il missionario ha imparato a conoscere bene grazie a una continua immersione nella realtà del posto, alle relazioni intessute con fatica nel tempo. “Sussurrare




Premio Elsa Morante


La giuria presieduta da Dacia Maraini inizia ad annunciare i vincitori di alcune sezioni dell’edizione 2016, anno del trentennale della celebre kermesse culturale

 La giuria del Premio Elsa Morante, presieduta da Dacia Maraini, e composta da Silvia CalandrelliFrancesco Cevasco , Enzo Colimoro, Maurizio CostanzoRoberto FaenzaDavid MoranteTjuna Notarbartolo (direttore della manifestazione), Paolo Ruffini , Emanuele Trevi,  Teresa Triscari, consegnerà il Premio Elsa Morante 2016 per la saggistica ad Aldo Cazzullo che vince con  il suo “Le donne erediteranno la terra” (Mondadori).

Questo saggio, vivace ed approfondito, fotografa, con sagacia e delicatezza, il mutamento di ruoli e percezioni dell’universo femminile, tracciandone la storia passata, attraverso figure esemplari e di ogni settore, e prevedendo un definitivo avanzamento della donna di cui il nostro secolo sarebbe testimone.  Sono moltissime le figure femminili che, inteazionalmente, ricoprono ruoli di prestigio o di potere. L’Italia resta un Paese maschilista; eppure sono donne importanti amministratrici, o scienziate. “Le donne erediteranno la terra perché sono più dotate per affrontare l’epoca grandiosa e terribile che ci è data in sorte. Perché sanno sacrificarsi, guardare lontano, prendersi cura.”

aldo-cazzulloAldo Cazzullo, giornalista, inviato ed editorialista del Corriere della Sera. Romanziere, saggista, ha dedicato oltre dieci libri alla storia e all’identità italiana.

suor-rosemary-nyirumbe-webE una donna che “erediterà la terra” è sicuramente Suor Rosemary Niyrumbe, già eroe dell’anno per la CNN e inserita tra le cento personalità più influenti del mondo secondo Time Magazine, a cui sarà conferito il Premio Elsa Morante per l’Impegno Civile. Coraggiosa, generosa, illuminata, da anni conduce in Uganda una pacifica battaglia fatta di istruzione, lavoro e riscatto, salvando le baby-soldato barbaramente impiegate nelle guerre che da anni brutalizzano l’Africa. La sua storia è raccontata nel recente libro “Suor Rosmary Niyrumbe. Cucire la speranza” pubblicato dalla Emi.

Suor Rosmary, religiosa ugandese sessantaduenne, appartiene alla congregazione delle suore del Sacro Cuore di Gesù, ostetrica, laureata e con Master in Etica dello sviluppo, è diventata suora a soli 15 anni, «per amore dei bambini». Ha fondato la scuola di Santa Monica dove hanno trovato rifugio migliaia di donne e bambini.

I due vincitori, insieme agli altri che saranno annunciati nei prossimi giorni, ritireranno il prestigioso riconoscimento nel corso della cerimonia di premiazione del Morante 2016 che si terrà il prossimo 12 dicembre, al teatro Mercadante di Napoli, alle ore 18,00.

Il Premio Elsa Morante, è organizzato dall’Associazione Culturale Premio Elsa Morante -onlus, in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura del Comune di Napoli, la Città Metropolitana di Napoli ed il Teatro Mercadante. Il cornordinamento è affidato alla giornalista Iki Notarbartolo e la comunicazione alla giornalista Gilda Notarbartolo. Media partner Rai Cultura.

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Kwaluseni nuova missione della consolata Swaziland


Con l’insediamento del nuovo vescovo di Manzini (Swaziland), 26 gennaio 2014, José Luis Ponce de Leon, argentino missionario della Consolata, si è auspicato cominciare la presenza dell’Istituto (IMC), in codesta nazione. Il primo ad arrivare è stato p. Giorgio Massa, inviato dalla Direzione Generale, per richiesta del vescovo, lo stesso anno 2014. Gli altri sono poi arrivati a piccoli passi..

Il primo passo lo si è fatto con l’invio del neo diacono Muriithi Peterson Mwangi, dicembre 2015 perché svolgesse il suo ministero diaconale con un sacerdote diocesano, p. Ncamiso Vilakati nella parrocchia di St. Mary’s, Lobamba; nello stesso tempo è stato introdotto alla lingua e cultura locale.

Il secondo passo è avvenuto ad aprile 2016, quando i pp. Samuel Francis Awuor Onyango e Rocco Marra consegnando alla diocesi di Dundee le parrocchie di Madadeni (KZN in Sudafrica) erano disponibili per la nuova presenza in Swaziland. Anche per loro l’introduzione alla lingua e cultura, non solo in una parrocchia, ma in diversi centri pastorali, per avere una visione generale della diocesi. P. Rocco è stato particolarmente a Florence Mission, mentre p. Francis a Hlathikhulu “Christ The King” Parish.

Il terzo passo, è stato fatto dopo l’ordinazione sacerdotale di Peterson, avvenuta in Kenya, suo paese d’origine, il 27 agosto 2016. P. Peterson di ritorno dal Kenya, il 12 ottobre, dà il via a cominciare la prima comunità missionaria della Consolata in Swaziland. I pp. Rocco, Person e Francis si son trovati a celebrare l’Eucarestia, il 17 ottobre, memoria di San Ignazio di Antiochia, nella cappella dell’episcopio insieme al vescovo José Luis. In questo modo la comunità dei missionari della Consolata ha avuto il suo inizio ufficiale in Swaziland.

Cappella di Kwasuleni
Cappella di Kwaluseni

Kwaluseni, la nuova missione

Ma il momento principale è avvenuto durante la celebrazione della domenica missionaria, il 23 ottobre 2016,  quando il Vescovo José Luis Ponce de Leon ha celebrato la messa nella chiesa di santi Pietro e Paolo, Kwaluseni (Matsapha) e ha presentato i missionari della Consolata Francis Onyango, Peterson Mwangi e Rocco Marra, come i nuovi sacerdoti incaricati di quella che per ora è ancora una cappella della cattedrale di Manzini; ma da gennaio 2017 sarà creata parrocchia a tutti gli effetti.

L’amministratore della Cattedrale, don Sandile Mswane, che ha concelebrato, ha incoraggiato i fedeli a continuare con responsabilità il cammino di fede comunitario, auspicando anche le altre cappelle un giorno divengano parrocchie. Chiaramente il nostro vescovo ha incoraggiato a maturare come comunità ministeriale e missionaria. Il neo parroco p. Francis Onyango ha sottolineato il fatto che ognuno è importante, amato e parte della famiglia parrocchiale; ha poi promesso che come missionari cercheremo di fare sempre del nostro meglio, facendo “il bene bene e senza rumore”, secondo l’insegnamento del beato fondatore Giuseppe Allamano.

Siamo sicuri che questa nuova apertura porterà frutti nella nostra vita di evangelizzatori, nei cuori di tante persone di buona volontà, nella società e continuiamo a pregare il Signore che ci dia la gioia di vedere partire qualche giovane swazi come missionario della Consolata al servizio della chiesa e del mondo intero.

 

bishop-jose-e-i-missionari-della-Consolata (Rocco Marra)
Bishop-José-e-i-missionari-della-Consolata (Rocco Marra)

Breve introduzione allo Swaziland

Lo Swaziland è un piccolo stato confinante col Sud Africa e Mozambico. La sua superficie copre 17364 Km. Quadrati, nonostante le sue altitudini il clima di solito è mite, eccetto in alcune località`, dove durante la notte, d’inverno, può scendere a 0 gradi centigradi.

La popolazione è chiamata Emaswati, o popolo del Ngwane. Questo nome ha origine dal re Mswati, che ha regnato all’inizio del XIX secolo, nipote del re Ngwane. La nazione raggiunge un milione e cento mila abitanti, la lingua è siswati, del gruppo linguistico degli Nguni. L’inglese è anche parlato da molti nel paese. Nel lungo regno di Sobhuza II, si è celebrata l’indipendenza dagli inglesi nel 1968, però è da notare che dal 13 aprile 1973 il Swaziland è sotto una monarchia assoluta, che praticamente è tuttora vigente. L’anno è costellato di celebrazioni culturali tradizionali: forse la più conosciuta è “reed dance” (danza delle canne), che è la festa di primavera, fine agosto e settembre. Si può denominare come la celebrazione delle vergini della nazione. Vengono donate le canne alla regina madre e di solito il re sceglie una ragazza da aggiungere al gruppo delle sue mogli.

Una celebrazione importante è “the incwala”: durante il periodo di dicembre-gennaio, in questa ricorrenza i ragazzi del regno hanno un ruolo di rilievo. Il re assapora i primi frutti, prodotti nei campi, la virilità e fecondità del re è anche fecondità dell’intera nazione. Il cristianesimo ha raggiunto il Swaziland nel 1844 con la Chiesa Metodista… La Chiesa Cattolica è arrivata solo a gennaio 1914 con due sacerdoti dell’Ordine dei Servi di Maria. Uno dei quali era p. Francis Mayer, che è stato ucciso da un “lunatico” dopo tre mesi dell’arrivo dei missionari. L’assassino poi dovendo subire il patibolo per quello che aveva commesso, prima dell’esecuzione ha chiesto di essere battezzato. Così il primo battezzato della storia della chiesa in Swaziland è l’assassino del primo missionario arrivato nel paese. La chiesa ha educato alla fede molte generazioni e ha preparato giovani a essere sani cittadini. Molte sono le istituzioni fondate e guidate dai cattolici nel campo educativo, sanitario, caritativo e persino agonistico; tanti altri sono i progetti di promozione umana, incoraggiati cammin facendo.

La nazione è anche Diocesi di Manzini, dal 2014 guidata dal suo quinto Vescovo José Luis Ponce de Leon; vi è un gruppo di sacerdoti locali, così pure di religiosi e religiose missionari. Quest’anno la diocesi è stata benedetta da due nuove forze missionarie: i Missionari di San Francesco di Sales e i Missionari della Consolata. Certamente è un momento di grazia per l’evangelizzazione oggi. Si desidera avere nuovi metodi e strumenti perché il Vangelo arrivi a tutti e si faccia vita quotidiana, come il vescovo profeta Mandlenkhosi Zwane (1976-1980) ha auspicato durante il suo episcopato. Per raggiungere l’obiettivo c’è bisogno di evangelizzatori che fanno cammino con le persone, testimoniando Gesù presente in ogni situazione e circostanza. Un operare insieme come comunità`, dove laici, clero e consacrati condividono, con responsabilità diversificate e partecipazione, per raggiungere tappe che accelerano la presenza del Regno di Dio nella nostra società`.

Rocco Marra
da Da Casa Madre, 11/2016 e dal blog di padre Rocco




Una vita per dono


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Carissimi Missionari e Missionarie,

Il prossimo 17 settembre celebriamo il X anniversario del martirio della nostra sorella, la Serva di Dio Suor Leonella Sgorbati, uccisa nel 2006 a Mogadiscio – Somalia. Le ultime sue parole furono:

«Perdono, perdono, perdono…». Il martirio di Suor Leonella è espressione della radicalità dell’offerta della propria vita e profezia della sua donazione. Il suo martirio è profezia che rende visibile l’amore e testimonia il dono e la responsabilità che abbiamo nella nostra vocazione di consacrati per la missione. Mettiamoci all’ascolto di Suor Leonella per riscoprire la bellezza della nostra vocazione e per amare senza riserve e con grande generosità nella nostra missione. Leonella c’insegna il perdono, il perdono come regalo per rompere il circolo vizioso di rispondere al male con il male, il perdono che ci rende liberi per immaginare il nostro futuro, il perdono come dono e questo ci basta!

  1. La Causa di Beatificazione e Canonizzazione

leonella-office-face1.1 La richiesta del X Capitolo generale MC

Il 20 giugno 2006 la Direzione Generale MC, in un incontro con le Superiore di Circoscrizione, aveva indetto un tempo di preparazione al primo centenario dell’Istituto che si sarebbe celebrato nel 2010.

La domanda che accompagnava questa indizione era la seguente: «Che cosa chiede lo Spirito di Dio all’Istituto MC, oggi, per essere fedeli all’intuizione carismatica del Fondatore, il Beato Giuseppe Allamano, che ci volle donne consacrate, votate alla Missione anche a costo della vita?».

La risposta a questa domanda fondamentale ci venne appena qualche mese dopo con il martirio di Suor Leonella Sgorbati che, come Gesù, si è offerta nel perdono e nell’amore totale.

L’Istituto lesse, nel dono di vita di Suor Leonella, un richiamo forte del Signore alla fedeltà alla Missione. Per questo, il X Capitolo generale MC del 2011 chiese alla Direzione generale di dare inizio al procedimento per riconoscee il martirio:

«Suor Leonella Sgorbati ha vissuto l’amore incondizionato a Cristo e ha realizzato il desiderio del Fondatore: “servire la missione anche a costo della vita” (cf. Conf. S., 24 settembre 1916). Alla luce delle parole del S. Padre Benedetto XVI, della testimonianza di tante Sorelle e di tanta gente, il X Capitolo Generale chiede alla Direzione generale di dar inizio alla procedura per il riconoscimento del martirio di suor Leonella Sgorbati avvenuto a Mogadiscio il 17 settembre 2006 perché diventi per tutte noi esempio di come vivere la missione, anche nel contesto dell’oggi».

Dopo aver valutato la richiesta del X Capitolo generale 2011, l’attuale Direzione generale MC, considerando importante dare avvio all’Inchiesta Diocesana per il riconoscimento del martirio di Suor Leonella, ha nominato la Postulatrice della Causa nella persona di Suor Renata Conti, MC. Verificata e raccolta in un Dossier la “Fama di Martirio e di Segni”, la Direzione generale ha quindi domandato – attraverso la Postulazione – al Vescovo competente, Sua Eccellenza Mons. Giorgio Bertin, Vescovo di Djibouti e Amministratore Apostolico di Mogadiscio, di volere accogliere questa richiesta perché Suor Leonella, con la sua vita e soprattutto con la sua morte per la fede, potesse essere un esempio e incoraggiamento per le sorelle dell’Istituto nel loro impegno missionario, sostenere i Cristiani del Medio Oriente3 nel loro cammino di fedeltà a Cristo e alla Chiesa e dire alla società che la santità della Chiesa è visibile nei suoi membri, anche oggi.

1.2. L’iter dell’Inchiesta diocesana

Il primo passo realizzato dalla Postulatrice fu di raccogliere e sistematizzare la documentazione che riguardava la “Fama di Martirio e di Segni” di cui godeva Suor Leonella.4

Il Dossier elaborato riunisce, per temi, i numerosi documenti pervenuti all’Istituto in occasione della sua morte.

Il giorno 25 settembre 2012, a Nepi (VT – Italia), in Casa Generalizia MC, S.E.R. Mons. Giorgio Bertin diede inizio ufficiale al percorso dell’Inchiesta Diocesana con la S. Messa. Parteciparono numerosi Missionarie e Missionari della Consolata e tanta altra gente.

A nome dell’Istituto e accompagnata dalla Postulatrice, Madre Simona lesse il Supplex libellum, ossia la richiesta formale di dare inizio alla Causa. Successivamente, Suor Renata presentò al Vescovo il Dossier contenente i documenti sopra citati.

Mons. Bertin rispose con il seguente messaggio:

«Con immensa gioia e gratitudine verso Dio, accolgo la vostra domanda di dare inizio all’Inchiesta Diocesana per il riconoscimento del Martirio di Suor Leonella Sgorbati, uccisa nella mia Giurisdizione Ecclesiastica, in Somalia, il 17 di settembre del 2006. La sua vita e il suo martirio nel segno del perdono ci sono di esempio e di motivo per dare inizio al cammino di verifica e di ricerca attraverso le testimonianze e lo studio dei documenti allegati al dossier. Possa lo Spirito di Dio illuminare e sostenere quanti saranno impegnati nel portare avanti l’Inchiesta Diocesana».5

Da settembre 2012 a settembre 2013 Mons. Giorgio Bertin, in collaborazione con la Postulatrice, prepararono ciò che conceeva l’organizzazione del tribunale:

  • Nomina delle commissioni storica e teologica  per lo studio degli scritti non editi: Lettere circolari alle sorelle del Kenya, due diari personali e la corrispondenza

La commissione storica fu conformata da: P. Antonio Magnante IMC, Mons. Luigi Paiaro, Vescovo emerito della Diocesi di Nyahururu (Kenya) e Suor Chiara Piana MC; la commissione teologica da: Mons. Carlo Ghidelli, Vescovo emerito della Diocesi di Lanciano (Italia) e P. German Arana SJ, Rettore del Seminario Pontificio Comillas (Spagna).

  • Nomina dei membri del Tribunale per l’iter diocesano.

Essi furono: P. Francesco Giuliani IMC, giudice delegato; P. Giovanni Tortalla, promotore di giustizia; Suor Kathy Meier MC, notaio attuario; Signor Vincenzo Marini e signora Marilena Credidio, notai aggiunti.

L’Inchiesta Diocesana ebbe inizio in Djibouti il 16 di ottobre 2013 alle ore 09:00 e si concluse il 15 gennaio 2014 alle 12:30 con una S. Messa di ringraziamento per i lavori portati a termine. L’inchiesta si sviluppò in quattro tappe: prima tappa a Djibouti, seconda tappa a Nairobi con la partecipazione anche dei testimoni della Somalia, terza tappa nel Meru e quarta tappa a Torino con la partecipazione anche dei familiari. I testimoni furono 46: 2 vescovi, 1 sacerdote diocesano, 4 Missionari della Consolata, 2 Religiose di altre Congregazioni, 19 Missionarie della Consolata e 18 laici.

Alla conclusione dell’Inchiesta Diocesana e dopo aver ottenuto il “nulla osta” della Congregazione per le Cause dei Santi, la Postulatrice elaborò la Positio che venne consegnata alla stessa il 7 aprile 2016.

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  1. Importanza della testimonianza martiriale di Suor Leonella

 Il 17 settembre 2006 Suor Leonella Sgorbati veniva colpita a morte da una raffica di colpi di arma da fuoco. Con lei moriva la guardia del corpo, Mohamed Mahamud, che aveva cercato di difenderla. L’assassinio della nostra sorella la unisce di fatto alla scia di sangue che ha segnato indelebilmente la storia recente della Somalia: Mons. Salvatore Colombo (Mogadiscio, 1989), p. Pietro Turati (Gelib, 1991), Graziella Fumagalli (Merca, 1995) e Annalena Tonelli (Borama, 2003).

Il telegramma inviato da Benedetto XVI tramite il Segretario di Stato all’Istituto MC pare rivolto a tutta la Chiesa:

«[…] Nel riaffermare ferma deplorazione per ogni forma di violenza Sua Santità auspica che sangue versato da così fedele Discepola del Vangelo diventi seme di speranza per costruire autentica frateità tra i popoli nel rispetto reciproco convinzioni religiose di ciascuno […]».

Poche righe, senza articoli né punteggiatura, com’è lo stile del telegramma. Ma dove si stigmatizza con chiarezza tutta la semplicità e la grandezza della fede di chi muore per una causa in cui crede e in cui investe la vita, tutta. In queste poche righe è espressa una convinzione forte: Suor Leonella non è morta, ha versato il sangue. E nel linguaggio della Chiesa, «l’azione del “versare il sangue per…” è l’azione dei martiri».6

Possiamo desumere l’importanza della testimonianza martiriale della Serva di Dio per la Chiesa perseguitata del Medio Oriente anche da alcune espressioni di una lettera che il Patriarca Latino di Gerusalemme, Fuad Twal, indirizzò al Cardinale Angelo Amato, Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, in data 4 aprile 2013 con copia a Mons. Giorgio Bertin ofm.

Nella lettera sopra citata il Patriarca rilevava come i Vescovi Latini per le Regioni Arabe si auguravano che il sangue versato da Suor Leonella Sgorbati fosse come l’acqua che fa fiorire il deserto. Essi erano convinti che l’amore fino a versare il sangue e le ultime parole pronunciate da Suor Leonella sarebbero state, per tutti gli abitanti del Coo d’Africa, l’esempio di una riconciliazione e di un perdono sempre possibili.7

Ricordare il martire è un inno alla vita e non alla morte. Giovanni Paolo II, durante la giornata dei Martiri celebrata al Colosseo nell’anno giubilare del 2000, ricordava che la memoria dei martiri non doveva andare perduta, anzi doveva essere ricuperata in maniera documentata perché la storia del martirio è quella di una lotta tremenda e tragica, che va scritta, capita e non dimenticata.

Anche Papa Francesco rileva come la Chiesa è chiamata a ricordare i martiri perché essi ci insegnano che dobbiamo mettere Cristo al centro della nostra vita ed il loro esempio ha molto da dire a ciascuno di noi e alla Chiesa tutta.9 Nella sua visita apostolica in Corea il Santo Padre rilevava come l’esempio dei martiri mostra l’importanza della carità nella vita di fede e la loro eredità dove ispirare tutti gli uomini e le donne di buona volontà ad operare in armonia per una società più giusta, libera e riconciliata ed aggiungeva che essere martiri voleva dire soprattutto essere testimoni di Gesù.

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  1. Dimensione Eucaristica e martiriale della vocazione missionaria in Suor Leonella

Suor Leonella operò nella sua vita la scelta radicale di eliminare tutto quanto lei definiva il «fascino della nullità»11, per impegnarsi con passione e determinazione affinché lei e Gesù non fossero solo

«buoni vicini di casa»,12 ma si stabilisse tra loro una unione sponsale.13 Ella cercò la completezza umana e spirituale con Gesù, con accenti di squisita delicatezza. In tutte le espressioni che Suor Leonella usò rivolgendosi a Gesù,14 si percepisce come una interiore nostalgia mistica:

«Che nostalgia – ella annotava quando andava a salutare le Suore Sacramentine appena arrivate in missione – […] nostalgia di una vita che ha solo il Signore per ragione e motivo».

Il martirio di Suor Leonella è stato preparato da un’intensa relazione con Gesù nel mistero Eucaristico nel corso di tutta la vita. Nei suoi diari si percepisce però che durante il mese allamaniano, vissuto a Castelnuovo nel febbraio del 2006, essa fu particolarmente e gradualmente attratta da questo mistero e Gesù Eucaristia le concesse grazie particolari d’intima unione, fino al punto di sentirsi una cosa sola con Lui, secondo le parole stesse di Gesù:

«Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me» (Gv 6, 56-57).

Diceva: «Se il Suo corpo e il mio sono una cosa sola, se il Suo sangue e il mio sono una cosa sola, allora è possibile essere sempre in Lui, dono d’amore, dono di Lui, per tutti. Sempre, in ogni momento! Allora è possibile testimoniare sempre che Lui c’è e ci ama».

Le parole di Gesù erano per lei esperienza e le ripeteva continuamente. Questa esperienza l’aveva segnata come un marchio di fuoco.16 Fu proprio all’interno di questa esperienza che Suor Leonella percepì chiaramente la chiamata di Gesù a vivere il mistero eucaristico fino alla fine, fino al dono della vita, fino allo spargimento del sangue, come Lui e a questo invito rispose con il suo Sì d’amore. Non sapeva come questa chiamata si sarebbe concretata; era sicura però che si trattasse del dono della sua stessa vita, in maniera radicale e in un tempo breve. Lei disse il suo Sì, con tutto l’amore del suo cuore, con gratitudine e umiltà per tanta grazia, con tanta consapevolezza della sua fragilità e sofferenza e del fatto che l’amore fedele per Gesù era più forte.17 Da quel giorno quante volte Suor Leonella ha ripetuto il suo Sì, quante volte ha supplicato di pregare per lei perché fosse fedele!

Quando fu colpita a morte, le sue ultime parole non potevano essere se non quelle di Gesù: “Perdono”!

Suor Leonella scriveva nel suo diario n. 2 il 27 febbraio 2006:

«Il mio andare in Somalia è la risposta a una chiamata: tu Padre hai tanto amato la Somalia da donare il tuo Figlio… e io dico con lui “questo è il mio corpo, questo è il mio sangue donato per la salvezza di tutti”. Ho solo questo momento presente per… »

La sua penna si ferma qui. Forse non ha osato andare oltre.

  1. Missione come dialogo di vita

 Suor Leonella dona la sua vita, fino all’effusione del sangue, nella missione tra i non cristiani, da lei vissuta come un andare a cercare i più poveri, coloro che non hanno mai conosciuto il messaggio dell’Amore di Dio, la mitezza e la mansuetudine del Figlio. Scriveva alle sorelle del Kenya nella circolare dell’11 novembre 1994:

«Sorelle carissime, rivediamo insieme le nostre posizioni; Siamo disposte a schierarci dalla parte dei più poveri? Siamo disposte a scelte che ci renderanno forse meno efficienti, più povere, più spoglie e più abbandonate alla Provvidenza? Siamo disposte ad andare a cercare coloro che il messaggio dell’Amore di Dio non l’hanno mai conosciuto, anche se questo implica distacco e sacrificio fino a dare la vita? Siamo disposte a dare la vita, a dare il sangue se occorre testimoniando la mitezza e la mansuetudine del Figlio? Si, io credo di si. Credo che nel cuore di ciascuna di noi è viva e vibrante la freschezza della nostra prima chiamata…».

Per Suor Leonella la missione era dialogo di vita e dono senza riserve. Il 28 febbraio 2006 scriveva nel suo diario 2, rivolgendosi a Gesù:

«Forse anche a te sarà costato “lasciare” il Padre e partire per la tua Missione, ma il tuo amore per il Padre e per noi ha vinto, magari anche tu hai pianto … ma hai teso le braccia alla volontà d’amore … e la tua missione ci ha salvato, mi ha salvata… Tu per primo hai amato e hai, per amore, dato la vita… Il Tuo Sì è nostra vita. Non c’è amore più grande. Tu sei con me… Buon Pastore. La missione Somalia è ciò che Tu mi chiedi ora. Ti dono la mia vita in tutto e per tutto come Tu desideri… Mi chiami ad amare Te, ad amare le sorelle, ad amare la gente, i Fratelli dell’Islam… Possiedimi Signore e ama in me… che io sia una cosa sola in te e Tu possa donare loro la gioia di sentirsi amati da te».

Qui il dialogo della vita tocca le radici più profonde del nostro carisma!

«Insieme a Suor Leonella, un Somalo, un uomo musulmano, ha versato il suo sangue nel tentativo di salvarla, dopo che il primo sparo l’aveva raggiunta. Si tratta di Mohamed Mahamud, sposo e padre di quattro figli. […].

Suor Leonella e Mohamed Mahamud uniti per sempre nel dono della vita. Lei offrendola per i suoi Figli e Figlie Somali, Lui in un gesto estremo per tentare di salvarla …

Lei, donna cristiana, fedele al Suo Signore e alla Missione, lui, uomo musulmano, certamente fedele ad Allah ed al Profeta; uniti nel servizio al loro Popolo, sognando la Pace, la fratellanza … Mohamed per i suoi figli, Suor Leonella per ogni Somalo e per tutti i popoli …

C’è un dialogo di vita, stupendamente in atto in questo gesto; c’è il superamento di barriere, il dono di sé, per sempre… mistero dell’Amore, mistero di Pasqua, di Risurrezione… speranza e consolazione».18

È importante continuare ad ascoltare, approfondire e cogliere il messaggio di “Vita” di Suor Leonella, per tutti noi, consapevoli che il suo esempio ci stimola a vivere la Missione cercando strade di comprensione, riconciliazione e dialogo, nella certezza che solo quando sapremo unire cuore e forze, vita e sangue, potremo costruire il Regno a cui tutti, musulmani e cristiani, uomini e donne di ogni religione e cultura, che credono nella Vita, sono chiamati a dare il proprio apporto.

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  1. Suor Leonella e la Consolata

Un altro aspetto molto presente nella vita di Suor Leonella è il rapporto con la Consolata. Un rapporto filiale molto sentito. Nel periodo in cui Suor Leonella fu Superiora regionale in Kenya, quasi tutte le sue circolari alle sorelle della Regione parlano di Maria. Suor Leonella percepisce Maria come Colei che, nel suo Figlio, dona la Consolazione. Suor Leonella non stacca mai Maria da Gesù e dalla missione. Diceva alle sorelle:

«[…] siamo chiamate ad essere presenza umile e rispettosa, come Maria, che condivide la vita ed il cammino di fede delle persone e dei popoli… . Presenza di consolazione, rimanendo con il popolo afflitto o in festa, fidandosi più di Dio che dell’umana prudenza con il coraggio dello Spirito per portare il Vangelo nelle situazioni concrete della vita, specialmente nei momenti di rischio, di insicurezza, di scomodo, fino a dare la vita».19

Suor Leonella si chiede: «Che cosa vuole dire “donare la Consolazione” oggi? Cosa vuol dire entrare nel mistero dell’Incaazione, e diventare il Figlio oggi? Perché è proprio nel rapporto filiale che conosceremo per esperienza che cosa è la Consolazione e che cosa significa essere Consolate per Consolare.» E risponde lei stessa:

«Significa accogliere che il Figlio sia libero in ciascuna di noi, in me, libero di perdonare attraverso la mia persona a chi mi reca offesa, libero di spezzare il pane della bontà, della comprensione e della compassione nella mia comunità, libero di fare in me il cammino che il Padre ha fatto fare a Lui con le scelte che il Padre indica. Libero di farmi percorrere il cammino della pazienza, della mansuetudine, dell’umiltà che passa attraverso l’umiliazione…

Libero di amare attraverso di me con l’Amore più grande, l’Amore che va fino alla fine… che è più forte dell’odio e dell’inferno… nella verità, nella pratica di ogni giorno e di ogni momento… e per diventare così abbiamo bisogno che la Consolata generi in noi questo Figlio Consolazione affinché lo possiamo riconoscere anche nel volto degli umiliati ed oppressi».

Nella festa della Consolata del 1996 scriveva:

«Contempliamo la Madre che accoglie nel suo Grembo e genera per noi la Consolazione stessa – il Figlio – e generando Lui genera anche noi in Lui “figlie nel Figlio” Missionarie dell’Amore del Padre oggi, perché portiamo la Sua Tenerezza in questo nostro tempo dove l’umanità ed il creato tutto sembra gemere e grondare sangue!

Contempliamo la Consolata nell’attitudine di donarci il Figlio! Questa Madre che diventa “Tabeacolo e Calice” affinché nutrendoci di questo Figlio che lei ci porge diventiamo davvero figlie nel Figlio!

Il Fondatore passava ore a contemplare la Madre, passava ore ad adorare il figlio reso pane spezzato per noi! E così, anche noi, diventiamo consapevoli e capaci, per l’energia stessa del nostro carisma, di dare risposte d’amore coraggiose alle sfide dell’oggi perché l’umanità riscopra la sorgente della sua identità e felicità».

  1. Conclusione

Carissimi Missionari e Missionarie, il prossimo 17 settembre sia per noi tutti una giornata di viva memoria del dono di Suor Leonella! Celebriamo con intensa gratitudine questo anniversario, nelle nostre comunità tra i diversi popoli a cui siamo inviate, possibilmente assieme: Missionari, Missionarie e Laici Missionari della Consolata.

Carissime e carissimi, mostriamo con la nostra vita sull’esempio di Leonella, che l’amore è più forte della morte. L’amore ispira la fiducia, scaccia la paura e porta la pace. Un amore disposto anche a morire, come Gesù, come Leonella e tanti altri che lo hanno capito. Senza amore, nessun gruppo di persone può diventare comunità. È l’amore più forte della morte a rendere i membri della comunità capaci di restare insieme nonostante i propri difetti e fallimenti. È l’amore a costruire relazioni di fiducia che danno pace a una comunità. È l’amore a trasformare le persone in testimoni premurosi e disposti a sacrificarsi gli uni per gli altri. È l’amore del Signore risorto che prende forma in una persona e in una comunità. Ciò di cui il mondo ha bisogno ora è l’amore. È la sola cosa di cui vi è sempre troppo poco. Suor Leonella c’insegna questo amore, c’insegna che una comunità può essere veramente missionaria solo quando vive l’amore, il perdono e la misericordia. È di questo che il mondo, noi missionarie e missionari, tutti abbiamo bisogno adesso! Buona missione!

Sr. Simona Brambilla MC, Superiora generale della Missionarie della Consolata
P. Stefano Camerlengo IMC, Superiore generale dei Missionari della Consolata   

 




Nel Brasile olimpico inedita vittoria per gli indigeni


Vale quanto una medaglia d’oro. Anzi di più, perché è una vittoria clamorosa e inaspettata degli “ultimi”, (o meglio ritenuti tali): gli indigeni dell’Amazzonia brasiliana. Sostenuti da Greenpeace, che ha raccolto in poche settimane più di un milione di firme a loro sostegno in venti paesi, gli indios Munduruku sono riusciti a bloccare una mega-diga sul fiume Sao Luis de Tapajòs, che avrebbe distrutto la foresta in cui abitano da millenni e il loro modo di vivere. A sorpresa, infatti, l’Ibama (Istituto brasiliano delle risorse rinnovabili e ambientali) ha accolto le proteste di questo popolo (non più di 12000 anime) e degli ambientalisti, rigettando il devastante mega-progetto (8000 megawatt, la sesta diga più grande del mondo che avrebbe “annegato” ben 376 kmq di selva tropicale).

Si tratta in realtà di una mezza vittoria, perché il governo brasiliano non ha ancora proceduto alla demarcazione ufficiale dei territori ancestrali dei Munduruku: destino che questi ultimi condividono con quasi tutte le 240 etnie sopravvissute in Brasile ed America Latina a un genocidio lungo cinque secoli. Alla faccia di Costituzioni “progressiste”, che garantiscono sulla carta i diritti dei popoli indigeni ma che in realtà li lasciano preda della brutalità di multinazionali e poteri forti, ansiosi di impossessarsi delle loro terre, ricche di risorse (petrolio, pietre preziose, acqua, metalli rari).

Ma in gioco non è soltanto la difesa della foresta e della Pacha Mama (la Madre Terra, ritenuta sacra nella cosmo-visione indigena). Il “rinascimento indigeno” degli ultimi decenni punta anche alla strenua tutela dell’identità storica e culturale dei popoli scampati non solo ai devastanti effetti della conquista, ma a quelli ancor più desolanti dell’assimilazione forzata alla “way of life” dominante.

Non a caso, la “Giornata Internazionale dei Popoli Autoctoni”, celebrata dall’Onu il 9 agosto, nel pieno dei Giochi di Rio,ha messo al centro “la questione dell’accesso all’educazione culturalmente e linguisticamente adattata e non come mezzo di assimilazione”. Nonostante i buoni propositi (e una Dichiarazione dei Diritti dei Popoli Indigeni,approvata dalle Nazioni Unite il 13 settembre 2007), le richieste di poter educare i piccoli indigeni nella loro lingua ancestrale raramente vengono accettate e la tanto conclamata autodeterminazione rimane un miraggio. Tanto che, oltre alle esortazioni di rito dell’Onu ai governi, anche Papa Francesco ha sentito il bisogno di sostenere la disperata lotta degli indios, con un tweet diffuso proprio il 9 agosto :
“Chiediamo che vengano rispettati i popoli indigeni minacciati nella loro identità e nella loro esistenza”.

Proprio in concomitanza con i Giochi Olimpici, con l’intento di “sfruttare” l’attenzione mondiale sul Brasile, Survival Inteational, una delle ong più attive sul fronte della difesa degli indigeni in tutto il mondo, ha lanciato una grande campagna, “fermiamo il genocidio in Brasile”, centrata sul caso esemplare dell’etnia Kawahiva,nel cuore dell’Amazzonia brasiliana, le cui terre sono state prese di mira da grossi commercianti di legname e allevatori, supportati da potenti politici corrotti. Nell’aprile scorso il ministro della giustizia aveva ceduto alle pressioni dei Kawahiva e dei loro supporters,firmando un decreto per la protezione e la demarcazione dei territori concupiti, ma la norma non è stata resa esecutiva, secondo un copione ormai stantio che si ripete in tanti paesi latino-americani (e non solo).

Morale della favola: i Kawahiva, che prima dell’incontro/scontro con la cosiddetta civiltà occidentale non avevano praticamente contatti con i bianchi,vivono da anni in fuga, o in accampamenti di fortuna lungo le strade, piagati da malnutrizione, malattie e violenze dei sicari al soldo dei loro persecutori, mentre le loro foreste vengono via via abbattute e/o trasformate in pascoli, piantagioni di canna da zucchero e soya transgenica.

“In Brasile- spiegano a Survival Inteational- ci sono ancora più etnie “incontattate”, isolate nella selva, che in qualunque altro paese. Sono questi i popoli più vulnerabili del pianeta, che rischiano la catastrofe se le loro terre non saranno protette”.

In attesa che il governo brasiliano, (distratto oggi dagli ori di Rio e domani da problemi considerati ben più gravi, come l’impeachment della Presidente Dilma Rousseff e la sempre più severa crisi socio-economica) si decida a non fare orecchio da mercante, gli indigeni continuano a contare sulle proprie forze e sul sostegno di coalizioni inteazionali di ambientalisti e difensori dei diritti umani. Riuscendo, non di rado, a trasformare anche sconfitte e tragedie in possenti motivazioni per non gettare la spugna.

Un caso simbolico: l’onda di rivolta innescata dall’assassinio della leader ambientalista Berta Càceres, uccisa da due sicari il 3 marzo scorso nella sua casa di La Esperanza, in Honduras, nel territorio della comunità Lenca, uno dei principali gruppi indigeni del paese, eredi della cultura maya.

Berta, in lotta contro il progetto di una centrale sul rio Gualcarque (ma anche intenta a costruire le alternative, perchè come cornordinatrice del Ccopinh, il consiglio dei popoli indigeni honduregni, stava organizzando workshop sulle energie rinnovabili) era molto nota in tutto il mondo perché nel 2015 aveva ricevuto il premio Godlman, l’Oscar ambientale. La sua morte, dunque, ha suscitato indignazione e solidarietà in tutto il pianeta, dando il via ad una mobilitazione a molti livelli, dal parlamento europeo alle reti sociali, nonché a una vera e propria “missione internazionale”, denominata “Justicia per Berta Càcares Flores” che ha ripreso la battaglia contro il progetto, al punto che la Fmo, la banca finanziatrice olandese, ha ritirato i fondi, seguita a ruota da altri investitori.

Ma non basta: la figlia Berta (stesso nome della madre) sta girando il mondo con una delegazione del Copinh, trovando ascolto presso istituzioni e governi. Convinti che la lotta sia soprattutto sul piano della critica all’insostenibile modello di sviluppo attuale, Berta e i suoi sostenitori hanno puntato sulla “parola”: “Loro hanno i proiettili, noi la parola. Il proiettile finisce con la detonazione, la parola torna a vivere ogni volta che la pronunci. Berta Càceres si è moltiplicata”.

La tragedia di Berta diventa così combustibile per il “rinascimento indigeno” in corso,pur tra mille difficoltà.
“Ora capiamo che tutto quello che facciamo, dalle iniziative per la salute comunitaria, alle piccole energie rinnovabili per le nostre case, all’educazione secondo i valori Lenca, è una forma di resilienza alla cultura imposta da uno stato estrattivista e capitalista, oligarchico e patriarcale “conclude la figlia. “Mia madre no muriò, se multiplicò”.




xxiii premio del volonariato internazionale focsiv 2016


Il 25 agosto è la data ultima per le candidature delle 3 categorie del Premio.

La Chiesa Cattolica riconosce il valore del volontariato internazionale cristiano e promuove il Premio del Volontariato Internazionale FOCSIV 2016 con un sostegno di 20.000 Euro all’intervento seguito dal Volontario Internazionale premiato, come ulteriore sostegno alla realizzazione delle finalità previste dal progetto stesso.

Dato questa importante cambiamento si è prorogata al 25 agosto la data ultima per presentare tutte le candidature nelle tre diverse categorie: Volontario Internazionale, Giovane Volontario Europeo e Volontario del Sud, un riconoscimento che vuole premiare gli immigrati che si sono distinti per le attività di co-sviluppo nel proprio Paese d’origine. I premi saranno consegnati in occasione della Giornata Mondiale del Volontariato indetta dalle Nazioni Unite il 5 dicembre.

“Il volontariato è uno dei motori che rende concrete quelle opere di Misericordia che tanti italiani, firmando 8×1000 alla Chiesa Cattolica, ci affidano. Senza questi uomini e donne impegnati nelle tante periferie del mondo che credonoprofondamente che si possa cambiare radicalmente la vita di tante persone ecomunità vulnerabili, queste ultime non potrebbero ricevere l’effetto benefico di tanto impegno. – ha sottolineato Matteo Calabresi, responsabile Servizio per la promozione del sostegno economico alla Chiesa Cattolica – CEI – È con il loro calore, la loro presenza, la loro amicizia e frateità che si spezza la barriera dell’indifferenza, così come evidenziato da Papa Francesco nella Bolla di indizione del Giubileo Straordinario. Il nostro contributo è solo un modo per incentivare i volontari ad alimentare questo flusso del Bene”.

A fianco alla categoria del Volontario Internazionale e, in occasione della ricorrenza del Ventennale del Servizio Volontario Europeo, sarà valorizzata ulteriormente quella, presentata lo scorso anno, del Giovane Volontario Europeo aperta ai giovani volontari impegnati in programmi europei e oggi anche al Servizio Civile Nazionale all’estero. Volontario del Sud è la nuova categoria più significativa del Premio che si propone di mettere in evidenza l’impegno di tante persone, anche immigrati, che si adoperano attivamente per la crescita delle proprie comunità e del Paese diorigine.

Per tutte le categorie sarà considerato, come criterio preferenziale di selezione, l’impegno verso gli interventi tesi a promuovere lo sviluppo sostenibile, alla luce di quanto indicato dall’Enciclica di Papa Francesco “Laudato Si” sulla cura del Creato e dell’Accordo della XXI Conferenza del Clima COP 21 di Parigi, con un forte richiamo alla necessità di agire urgentemente per l’ecologia integrale e gli stili di vita sostenibili.

“Il volontariato è un modello di impegno personale e civile rispetto al proprio Paese, alla propria comunità che da ventitré anni, con il Premio, valorizziamo.  – ha sottolineato Gianfranco Cattai, Presidente FOCSIVFare volontariato è di per sé un esercizio di responsabilità verso se  stessi, poiché ci si è messi in gioco a servizio degli altri, e verso chi è marginalizzato, ferito non in grado di trovare accoglienza e solidarietà altrove. Il servizio del volontariato è, di fatto, rivolto alla custodia della Casa comune, della quale se ne valorizza l’unicità e la ricchezza con un processo di vera e propria ecologia integrale. L’aver previsto da parte della CEI di finanziare con 20.000 Euro, dei fondi del 8×1000 della Chiesa Cattolica, l’intervento per il quale opera il Volontario Internazionale premiato in questa edizione ha per noi un duplice significato: da un lato si sottolinea come il lavoro svolto dai volontari sia fondamentale per lo sviluppo sostenibile ed il cambiamento delle condizioni di vita in tante aree del mondo, ma soprattutto si riconosce il valore reale del tipo di intervento che da 45 anni i Soci FOCSIV e i loro 20.000 volontari  realizzano a fianco delle popolazioni più vulnerabili”.

Per candidare in una delle categorie si potrà scaricare il Regolamento dal sito ed inviare la domanda entro il 25 agosto, allegando brevi video di presentazione, realizzati con la propria organizzazione di appartenenza. Nella seconda fase del concorso questi video saranno caricati sul sito www.premiodelvolontariato.it dove potranno essere votati.



Partner del Premio
del Volontariato Internazionale 2016 sono: Fondazione Missio, Forum Nazionale Terzo Settore, Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) – Ufficio di Coordinamento per il Mediterraneo , Coldiretti e 8×1000 Chiesa cattolica. Media partner: Avvenire, Famiglia Cristiana, TV2000, Radio Vaticana e Redattore Sociale, Corriere.it Sezione sociale. Patrocini: Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Agenzia Nazionale Giovani e Rai Segretariato Sociale.

Amici del Premio
L’edizione di quest’anno, può sempre contare sulla presenza degli “Amici del Premio” che danno spazio ed eco all’iniziativa:  Mondo e Missione, Missioni Consolata, Unimondo, Rete Sicomoro, EMI, Repubblica Mondo Solidale, Volontari per lo Sviluppo, Festival Ottobre Africano. Con il contributo dello sponsor tecnico Raptim Humanitarian travel.

 

Ufficio Stampa FOCSIV 

Giulia Pigliucci 335.6157253 ufficio.stampa@focsiv.it

Marta Francescangeli tel. 06.6877796 comunicazione@focsiv.it




Vaticano museo etnologico: l’anima mundi dei musei vaticani


È “riconnessione” la parola d’ordine che orienta il lavoro del Museo Etnologico dei Musei Vaticani: gli oggetti non sono solo opere d’arte da ammirare per la loro bellezza ma sono soprattutto ambasciatori culturali delle comunità da cui provengono. A sottolineare questo aspetto relazionale dell’etnologia è padre Nicola Mapelli, missionario del PIME e responsabile del Museo, durante la presentazione in sala Raffaello della Pinacoteca dei musei vaticani il 24 maggio del catalogo Le Americhe, che raccoglie e racconta circa duecento opere fra i diecimila manufatti americani in possesso del museo. «A noi piace chiamare il museo “anima mundi” e fae un luogo che dà valore alla memoria di queste culture, e non solo alla memoria del passato ma anche a quella del presente».

La lunga ricerca che ha portato alla stesura del catalogo e anche al nuovo allestimento museale non è si è svolta soltanto negli archivi e nei depositi, ma ha visto il missionario impegnato, in collaborazione con la studiosa australiana Katherine Aigner, in una serie di viaggi dall’Alaska alla Terra del Fuoco: «si è trattato soprattutto di incontrare delle persone, di sentire la loro anima e portarla nel museo». Lo studio ha consistito spesso nel mostrare le foto dei manufatti alle comunità e cercare insieme a queste di ricostruie la provenienza, l’origine, il significato.

(padre mapelli e Katherine Aigner Chiara Giovetti x MC)
Padre Mapelli e Katherine Aigner (by Chiara Giovetti x MC)

Un esempio concreto citato da padre Mapelli di questo dare anima al museo è il suo incontro con l’ottuagenaria cilena figlia di Juan CalderAnche a causa dell’incontro con l’Occidente, ha ricordato padre Nicola, i popoli nativi americani hanno perso molte delle loro tradizioni; per molte di quelle comunità è importante sapere che ora i Musei vaticani custodiscono con cura gli oggetti che di quelle tradizioni sono le testimonianze tangibili. A volte le popolazioni indigene chiedono di poter usufruire dei manufatti per impegnarsi loro stessi direttamente in un’opera di ricostruzione e recupero della loro identità.

Il Museo Etnologico nacque per iniziativa di papa Pio XI nel 1925 in seguito all’Esposizione Vaticana, occasione il cui arrivarono migliaia di opere da tutto il mondo andando ad arricchire la già esistente collezione, che conta oggi centomila pezzi da tutto il pianeta; la raccolta sistematica delle opere è fatta risalire dalla maggior parte degli studiosi al 1692, anno dell’invio a papa Innocenzo XII di cinque sculture precolombiane in legno realizzate dai Tairona della Colombia.

La componente missionaria della Museo è sempre stata e rimane forte: molti oggetti sono il dono delle comunità americane ai pontefici per mezzo dei missionari in segno di pace e di amicizia fra i popoli indigeni e il cristianesimo. Questo far da tramite dei missionari, poi, è il frutto del loro impegno nel comprendere, valorizzare e difendere le culture native.

L’incontro fra popoli americani e religione cristiana si esprime anche nella composizione di alcuni manufatti, che mettono insieme simboli cristiani con elementi nativi: ad esempio la croce donata dagli Inuit dell’Alaska ha un orso al posto del Cristo, poiché l’animale rappresenta per questo popolo l’onnipotenza.

Quetzalcoatl e il Codice Borgia alle sue spalle (Chiara Giovetti x MC)
Quetzalcoatl e il Codice Borgia alle sue spalle (Chiara Giovetti x MC)

Maschera yahgan donata da Juan Calderon e cestino della signora Calderon (Chiara Giovetti x MC)
Maschera yahgan donata da Juan Calderon e cestino della signora Calderon (Chiara Giovetti x MC)

Non è un caso, hanno sottolineato i relatori e, in particolare l’arcivescovo di Merida Mons. Baltazar Enrique Porras Cardoso, che questo catalogo e il nuovo allestimento museale arrivino durante il pontificato di Francesco, che ha fra i suoi temi centrali l’ecologia e la valorizzazione della religiosità popolare. Insieme al patrimonio naturale, ha ribadito Monsignor Cardoso, vi è un patrimonio storico, artistico e culturale ugualmente minacciato. L’ecologia quindi richiede anche la cura delle ricchezze culturali dell’umanità; il grande merito del lavoro di Mapelli e Aigner è quello di «dare voce alla cultura e all’arte di popoli solitamente ai margini dell’attenzione».

Quanto alla religiosità popolare l’arcivescovo ricorda le numerose riflessioni di cui essa è stata l’oggetto, prima fra tutte quella contenuta nel documento di Aparecida, prodotto dalla Conferenza Generale dei Vescovi Latinoamericani e dei Caraibi del 2007. Questa religiosità popolare ha concluso Monsignor Cardoso è «un modo legittimo di vivere la fede e di sentirsi parte della chiesa, non una manifestazione secondaria».

Chiara Giovetti

Intervento di mons. Cardoso (Chiara Giovetti x MC)
Intervento di mons. Cardoso (Chiara Giovetti x MC)


 Leggi anche di padre Giorgio Licini:
http://www.mondoemissione.it/chiesa/riapre-il-museo-etnologico-vaticano-passando-per-le-americhe/#.V0WqNDB2Pk0.facebook




Rd Congo massacri nel Beni


I territori di Beni, Butembo e Lubero nella provincia del Nord-Kivu all’est della Repubblica democratica del Congo sono da decenni vittimi di massacri di civili. Una lettera aperta del 14 maggio 2016 mandata dai cornordinatori locali dei gruppi della società civile di Beni, Lubero e Butembo al presidente della Repubblica, Kabila, riporta che solo negli ultimi due anni sono stati registrati più di 1116 persone ammazzate e altre 1470 rapite; più di 1750 case incendiate (molto spesso con dentro i loro abitanti), 13 centri di salute incendiati (anche in questo caso con malati e personale sanitario all’interno); 27 scuole distrutte, altre abbandonate, altre ancora occupate o da rifugiati, o da “dipendenti” militari, o dagli stessi gruppi armati; ci sono villaggi interi completamente assediati e occupati da gruppi ribelli, e si tratta di Kyoto, Katundula, Ivombo, Mwekwe, Mukeberwa, Fungulamacho, ecc. (http://www.rfi.fr/afrique/20160517-rdc-kabila-adf-massacres-beni-lettre-ouverte-gilbert-kambale , http://www.radiookapi.net/2016/05/09/actualite/securite/massacre-de-beni-le-commandement-de-loperation-sokola-i-delocalise )

In queste zone la popolazione spesso si ritrova abbandonata a sé stessa, la polizia o le forze armate nazionali essendo quasi inesistenti. L’insicurezza è totale, e la situazione profondamente drammatica.

I gruppi armati all’est della RDC sono numerosi. I principali registrati negli ultimi 20 anni sono: M23, Fdlr, Fdlr-Soki, Fdlr-Rud, Fdlr-Soka, Fdlr Mandevu, Raia Mutomboki, Mai Mai Sheka, Mai Mai Kifuafua, Fdl, Fdc, Upcp/Fpc, Mac, Mpa, Mai Mai Morgan, Mai Mai Simba, Adf-Nalu, Lra, Fnl, Mai Mai Yakutumba, Mai Mai Nyatura, Fdipc, Apcls, Cogai/ Mrpc, Frpi, Kata Katanga, Fdn, M18, M26. (http://www.irinnews.org/fr/report/99057/briefing-les-groupes-armés-dans-l’est-de-la-rdc)

Ben una trentina di gruppi armati che l’esercito regolare e le truppe dell’Onu non riescono a controllare e contrastare, e continuano a seminare terrore in mezzo alla popolazione di questa parte del paese.

Gli ultimi orrori riportati sono stati le uccisioni del martedì 3 maggio nelle località di Minibo e di Mutsonge attribuiti ai ribelli islamici ugandesi appartenenti al gruppo ADF-NALU. Decine di persone sono state freddamente uccise con macete, coltelli e asce. Minimbo e Mutsonge sono due quartieri situati a Nord-Est della citta di Beni nel Nord-Kivu, poco lontano da dove l’esercito nazionale (Fardc) e le truppe dell’Onu (Monusco) hanno le loro basi. L’Adf-Nalu è un gruppo ribelle di origine ugandese che opera a ovest della catena del Ruvenzori nel Beni. È stato fondato nel 1995 e ha come scopo l’instaurazione di uno stato islamico in Uganda. È legato al gruppo somalo di Al-Shabab.

(per un tristissimi catalogo di immagini basta digitare “massacres de Beni RDC”)