Monsignor Aldo Mongiano, una voce a difesa dei popoli indigeni amazzonici

Testo di Luis Miguel Modino del Repam – foto Gigi Anataloni / AfMC


La vita delle persone è spesso profondamente identificata con le cause che difendono. Nella storia della Chiesa del Brasile ci sono stati molti missionari che hanno dato la vita in difesa delle popolazioni indigene. Uno di loro è stato monsignor Aldo Mongiano, vescovo di Roraima dal 1975 al 1996, morto il 15 aprile 2020 a Pontestura, Monferrato, Italia, dove è nato il 1° novembre 1919 e dove risiedeva con la sorella.

Celebrazione della messa per il centenario di mons. Aldo Mongiano che è nato il 1/11/1919

Con 80 anni di professione religiosa, 76 anni di vita sacerdotale e 44 anni come vescovo, monsignor Aldo viene ricordato nella diocesi di Roraima come qualcuno che ha seminato molto. Secondo l’attuale vescovo della diocesi, monsignor Mario Antonio da Silva, che afferma: “Io e tutti gli altri missionari, fratelli e sorelle, e le nostre comunità , con i nostri cristiani laici, abbiamo raccolto (da lui) frutti abbondanti”. L’attuale vescovo definisce i 21 anni dell’episcopato di monsignor Aldo come un tempo “di testimonianza del Vangelo, della vita missionaria profetica a favore dei popoli dell’Amazzonia, in particolare dei popoli indigeni”.

Monsignor Aldo Mongiano si distingueva nel suo lavoro profetico con le popolazioni indigene, ma, secondo Dom Mario Antonio, “ha anche combattuto per i giovani, per il ruolo dei laici, monsignor Aldo era un vescovo che, a Roraima, accoglieva vocazioni locali, e allo stesso tempo missionari provenienti da tanti luoghi del Brasile e del mondo per aiutare nella missione in questa particolare Chiesa di Romarai”. Ecco perché l’attuale vescovo di Roraima dice che “siamo grati a Dio per il dono della vita e la vocazione di monsignor Aldo, e che i frutti continuano ad essere abbondanti nel suo pastore dedicato nella vita della nostra Chiesa”.

Uno di questi missionari è stato padre Alex José Klopenburg della diocesi di Bagé – RS, che ha lavorato a Roraima dal 1988 al 1992. Arrivò nella diocesi al “momento della costituente e dell’invasione dell’area indigena Yanomani da parte dei cercatori d’oro”. Di fronte a questa situazione, il missionario ricorda che “monsignor Aldo era un grande profeta, convinto difensore dei popoli originari, con la campagna Una mucca per gli Indios, nella zona di Raposa Terra do Sol, alla ricerca di un sostentamento per il popolo Macuxi e Wapichana”. Egli definisce questo momento come “tempi difficili, di persecuzione aperti alla Chiesa, ai missionari che hanno fatto l’opzione preferenziale per i più poveri. Tempi di testardaggine profetica e di coraggio evangelico”.

In questo frangente, “Monsignor Aldo era un pastore, profeta, vero padre e fratello dei più piccoli. Animatore comunitario, protettore e sostenitore dei missionari che erano lì. Senza paura, con la certezza che stava facendo ciò che il Signore crocifisso gli ha chiesto di fare”, ricorda il sacerdote della diocesi di Bagé. Nella sua preghiera, chiede “ora con Dio in cielo, di continuare a intervenire per l’Amazzonia, per i popoli indigeni, che ha amato, difeso e aiutato”.

Celebrazione della messa per il centenario di mons. Aldo Mongiano che è nato il 1/11/1919

Monsignor Roque Paloschi, arcivescovo di Porto Velho, ha iniziato la sua missione episcopale a Roraima nel 2005. Arrivò lì il 13 luglio e ricorda che il 15, prima di essere ordinato vescovo il 17 luglio, fece la sua professione di fede nella casa delle suore della Consolata, all’altare, alla presenza di monsignor Servilio Conti e monsignor Aldo, i due vescovi emeriti di Roraima. Monsignor Roque aveva già sentito parlare di monsignor Aldo, ma i tre mesi che ha vissuto con lui dopo la sua ordinazione episcopale, quando due o tre volte alla settimana si sono incontrati per parlare, è stato un tempo in cui “ho imparato a rispettarlo e ad amarlo per la sua storia e per la sua dedizione come missionario”.

Il presidente del Consiglio Missionario Indigenista – CIMI -, parla di monsignor Aldo come de “l’uomo che ha affrontato le accuse e le persecuzioni più assurde, ha dovuto passare molto tempo con la protezione della polizia contro gli attacchi, ma non ha mai perso la sua serenità, mai ripagato il male con il male, al contrario”. Anche monsignor Roque ricorda che monsignor Aldo, in una piccola città, come lo era Boa Vista all’epoca, quando “incontrò i più feroci oppositori e aggressori (lo fece) con la serenità di un uomo di Dio, salutò e chiese alla famiglia, perché come buon pastore conosceva praticamente tutte le famiglie, ed era sempre libero di dire, la pensiamo in modo diverso, ma io ti amo, ti rispetto.”

l’arcivescovo di Porto Velho vede monsignor Aldo come qualcuno che “ha sempre avuto questa gioia e disponibilità a costruire ponti di speranza, di riconciliazione, ma anche di molta chiarezza nella missione”, essendo qualcuno che, insieme ai missionari della Consolata e alla diocesi di Roraima, ha dato un grande contributo al cammino della Chiesa dal punto di vista delle popolazioni indigene, soprattutto per quanto riguarda la difesa dei territori e dei leader. Monsignor Roque ricorda che “l’investimento che ha fatto assumendo avvocati per liberare le gli indigeni che erano stati arrestati senza accuse specifiche, semplicemente per piacere”.

Questo atteggiamento è sempre stato riconosciuto dalle popolazioni indigene di Roraima. Come ricorda monsignor Roque Paloschi, nel 2011, quando monsignor Aldo visitò Roraima, nella terra indigena Raposa Serra do Sol, un’anziana donna del popolo Macuxi, gli diede un piccolo vaso di argilla, dicendo: “Monsignor Aldo, non possiamo ringraziarlo per tutto quello che hai fatto, non solo per noi, ma per la gente di Roraima. Se oggi abbiamo la terra, questo è dovuto alla mano di Dio, ma anche alla sua mano, la mano della missione. Non può portare molte cose sull’aereo, ma vogliamo darle questo come segno di gratitudine, perché questa terra ha molto sangue, molte persone sono morte, ma ha anche la passione dei missionari della Consolata e di altri, e la sua passione per difendere la causa indigena”.

Un altro ricordo che mostra il carattere di monsignor Aldo, secondo monsignor Roque Paloschi, si è verificato il 17 settembre 2005, quando hanno dato fuoco alla prima missione che i monaci benedettini hanno costruito tra le popolazioni indigene, che era un luogo di accoglienza e un centro di formazione per le popolazioni indigene. Monsignor Aldo accompagnò il vescovo lì, e di fronte a questa situazione devastante, disse alle popolazioni indigene che soffrivano, lì umiliate, ferite: “da queste ceneri Dio eleverà nuovi semi per la speranza delle comunità indigene”. Come ha scritto lo stesso monsignor Aldo nel libro “Roraima, tra martirio e speranza”, appassionato della sua esperienza di vescovo, “la missione si fa così, con passione, ma anche con grande sacrificio, con le ginocchia, ma anche con la certezza che è Dio a guidare”.

Celebrazione della messa per il centenario di mons. Aldo Mongiano che è nato il 1/11/1919

Celebrazione della messa per il centenario di mons. Aldo Mongiano che è nato il 1/11/1919

Monsignor Aldo ha celebrato i 100 anni di vita il 1° novembre 2019, pochi giorni dopo la chiusura dell’Assemblea sinodale del Sinodo per l’Amazzonia, che ha ricordato molti dei sogni che aveva nella sua missione in Amazzonia, tra i popoli indigeni. Egli disse nell’omelia: “Ho ricevuto solo favori e ringraziamenti da Dio. Ho un sacco di regali. Mi rattrista il fatto di non essere stato più generoso nel rispondere al Signore. Avrei potuto essere più devoto, più disposto a sacrificarmi, più amorevole. Chiedo perdono per i miei limiti, i miei peccati, e vi ringrazio per tanta gentilezza”. Chi è stato missionario in molti luoghi ha sempre compreso la sua missione come un tempo “in cui devo proclamare il Signore, parlare di un Buon Dio, di un Dio misericordioso, che ha inviato suo Figlio a salvarci, che è venuto a insegnarci come guidare i nostri passi sulla via della vita. Non avrei mai pensato di ricevere tanti onori, tanto grazie, tanta misericordia, tanta gentilezza”.

In quella celebrazione, insieme ai missionari di Consolata, c’erano monsignor Mario Antonio da Silva, presente vescovo di Roraima, e monsignor José Albuquerque, vescovo ausiliario di Manaus. Secondo lui, “parlare di monsignor Aldo Mongiano, significa parlare della Chiesa che è nell’Amazzonia, della Chiesa che affonda le sue radici nel territorio di Roraima. Ricordiamo con grande gratitudine tutto ciò che monsignor Aldo ha rappresentato per la nostra regione, una parola gentile e dolce, con parole sempre incoraggianti, uno sguardo tenero e un sorriso”.

Il vescovo ausiliario di Manaus, afferma che “è impressionante come monsignor Aldo, allo stesso tempo, fosse una persona ferma e convinta, che difendeva i diritti di tutti, ma soprattutto dei popoli indigeni, di diversi gruppi etnici, non solo da Roraima, ma dal Brasile. Era anche un sostenitore della causa dei poveri e un convinto sostenitore dei capi laici e laiche. Con tutta questa fermezza, monsignor Aldo è sempre stata una persona molto fraterna, molto accogliente, la sua presenza è stata impressionante”. Qualcuno che ricorda la celebrazione dei 100 anni di vita di monsignor Aldo come un momento che sarà per sempre inciso nella sua memoria, vive questo momento della sua partenza, come “ringraziamento per quello che è stato monsignor Aldo e rimarrà per noi, un riferimento di una voce profetica che è stata accanto alla più sofferta”.

Luis Miguel Modino

Nostra traduzione da Repam – 16 aprile 2020
https://redamazonica.org/2020/04/fallece-monsenor-aldo-mongiano-una-voz-profetica/

Leggi anche:

Il testamento spirituale di Mons Mongiano su consolata.org

Scarica il pdf della sua autobiografia:

Aldo Mongiano, Roraima tra profezia e martirio, Edizioni Missioni Consolata, Torino 2010




In punta di piedi

di Giorgio Marengo da Arvaiheer, Mongolia


Mi avvicino a voi in punta di piedi.
Quello che state vivendo è al di là dell’immaginabile. Il dolore di questi giorni rimbomba fino alla steppa mongola, per il momento graziata dal flagello che state vivendo lì. Vivere in un Paese grande 5 volte l’Italia con appena 3,5 milioni di abitanti, con immensi spazi vuoti e aridi che separano un villaggio dall’altro, in questo momento ha i suoi vantaggi. Qui la chiusura delle scuole è iniziata a fine gennaio, seguita a ruota dalla sospensione di qualsiasi attività pubblica. Da quasi due mesi celebriamo messa solo noi padri e suore, senza poter accogliere nessuno. Ma qui all’isolamento uno si è già dovuto abituare e per ora non ci sono emergenze sanitarie.

Amici e conoscenti mongoli mi chiamano per manifestare solidarietà al popolo italiano. Le notizie del telegiornale di Ulaanbaatar mostrano un’Italia colpita a morte, che fa di tutto per reagire. Le forze dell’ordine, qui in Mongolia sempre molto pronte a controllare gli stranieri come noi, sono venute a ispezionarci, dopo che è stato registrato il primo caso di contagio, un cittadino francese; prima di andarsene, mi hanno detto: “Lei che è italiano si ritenga fortunato ad essere qui e non nel suo Paese”. Hanno terribilmente ragione e io francamente mi sento in colpa. Ogni giorno il ministero della sanità mongolo manda in media 3 o 4 sms con istruzioni di comportamento: “Mangiate e riposate bene, evitate lo stress che abbassa le difese immunitarie”.

Poi apro la pagina web di un qualsiasi giornale italiano e mi vengono i brividi: potessero i tanti medici e infermieri italiani riposare un po’ e rinfrancarsi, ma gli ospedali sono ormai insufficienti e mi commuovo a vedere questi nuovi martiri spendersi con tutte le forze per dare sollievo e un po’ di speranza. Mi fanno sentire fiero di appartenere a questo popolo, mettono in luce un’Italia che amo ancor di più, malgrado le sue tante contraddizioni. Sono sicuro che il nostro Paese si ritroverà più bello e forte, il sacrificio di questi uomini e donne e non andrà perduto. Ma intanto si piange e si soffre.

In una situazione del genere non mi sento di fare nessuna riflessione speciale, vorrei solo dirvi che sono con voi e che adoro lo stesso Signore che continua a tenderci la mano da tutti i tabernacoli del mondo, incluso quello della nostra ger-cappella di Arvaiheer e quelli delle chiese italiane giustamente chiuse alle celebrazioni comuni per evitare il peggio.

Il Beato Allamano lo ricordava ai suoi missionari e missionarie: ai piedi dell’eucaristia avrebbero ritrovato coraggio. Invochiamo insieme il dono della guarigione e della liberazione da questo male che ci opprime, seguendo l’invito del salmista: “Sta in silenzio davanti al Signore e spera in Lui” (Salmo 36). Quando qualcuno sta male, gli si sta vicino, senza parlare, ma tenendogli la mano e asciugandogli la fronte, come diceva il beato Pierre Claverie, uno dei martiri dell’Algeria; è lo stesso Gesù che sta soffrendo lì con voi. A Lui guardiamo con la fiducia di chi non ha altri in cui sperare.

padre Giorgio Marengo
15 marzo 2020, da Arvaiheer

In unione con i Missionari e Missionarie della Consolata ad Arvaiheer




Quaresima in quarantena con timore e coraggio!

 di padre Stefano Camerlengo, superiore generale dei Missionari della Consolata


Siamo molto vicini ai nostri parenti, amici e benefattori e ogni persona. Assicuriamo la preghiera quotidiana, e condividiamo profondamente le lacrime e il dolore di tutti e ciascuno, mentre attendiamo con Speranza i giorni in cui potremo tornare a cantare e danzare insieme l’inno alla Vita (a nome dei Missionari della Consolata in Italia e nel mondo).


Carissimi Missionari, parenti, amici e benefattori,

da diversi mesi stiamo vivendo il periodo più devastante della nostra storia, attaccati da questo nemico sconosciuto, piccolissimo, nascosto: il coronavirus. E, mentre tutti cerchiamo di obbedire agli  ordini dei  governi che,  consigliati dagli scienziati, cercano di  arginare il  flagello, la preoccupazione aumenta e, a volte, diventa paura. Siamo preoccupati per la nostra comunità, per la nostra famiglia, per la comunità della missione in cui viviamo, per gli amici e certamente anche per noi stessi. Siamo preoccupati ora per l’Italia e l’Europa, ma pensiamo anche a che cosa capiterà fra poco, quando questo micidiale virus dilagherà negli altri paesi, negli altri Continenti. Ci domandiamo tutti, che ne sarà di noi? Che ne sarà della nostra vita? Che futuro ci aspetta? Queste ed altre domande maturano dentro di noi in questi giorni e non abbiamo risposta.

L’emergenza causata dal micidiale virus, che dilaga e infetta ovunque e chiunque nel mondo intero, genera una situazione talmente nuova che neanche in caso di terremoti, o conflitti era stata mai vissuta. In guerra ci si può salvare fuggendo, scendendo nei rifugi, ma con il virus questo non è possibile, non esistono vie di fuga, e l’unica difesa è di impedirgli di diffondersi, attraverso la restrizione dei normali comportamenti, evitando il più possibile ogni contatto tra gli individui. Se durante la guerra le persone trovavano conforto andando a pregare in chiesa, ora con il virus non si può; le chiese restano chiuse perché altrimenti diventano luoghi privilegiati di contagio.

In questo modo il nostro bizzarro isolamento ci mette in rapporto non solo alle persone con le quali lo condividiamo materialmente, ma con altri, altri sconosciuti e fratelli al tempo stesso. La lezione tremendissima del virus ci introduce forzatamente nella porta stretta della fratellanza universale. In questo strano e surreale isolamento noi stabiliamo una inedita connessione con la vita del fratello sconosciuto e con quella più ampia del mondo, ci sentiamo veramente missionari. Indubbiamente ciò che è male rimane male e ciò che è emergenza rimane emergenza. Ma anche un fatto in sé doloroso e molto negativo assume un valore differente per la nostra vita dal modo in cui noi lo viviamo, scegliamo di viverlo e, come credenti, cerchiamo di comprendere come attraversarlo alla luce della Parola di Dio. Allora anche il tempo del Covid-19 può diventare un’occasione per riscoprire alcuni aspetti della nostra fede, mentre la Quaresima che stiamo vivendo può insegnarci ad attraversare il difficile deserto del Coronavirus.

La quarantina della quaresima ha qualche cosa da dire alla quarantena del virus. La Chiesa nella sua storia bimillenaria per questo tempo liturgico ha sempre indicato dei “rimedi”, delle “medicine” per attraversare il deserto quaresimale e giungere, rinnovati e “guariti” dalle nostre ferite, a celebrare la vittoria pasquale: l’ascolto della Parola e la preghiera, il digiuno, la carità. Non potrebbero essere anche queste “medicine” quaresimali ad indicarci come vivere questo tempo così difficile anche per la fede. Invece di protestare per la ragionevole e doverosa sospensione delle celebrazioni pubbliche, per il bene nostro e degli altri, non si potrebbe “rispolverare” alcune pratiche che ci vengono dalla sapiente tradizione cristiana? Forse allora anche la quarantena potrebbe dire qualche cosa alla nostra quarantina e “costringerci”, come spesso accade quando si è necessariamente ridotti all’essenziale, a riscoprire alcuni elementi fondamentali della fede.

Concludendo vorrei ricordare a tutti noi alcuni punti fondamentali e invitare a rispettarli in toto con impegno e amore.

  1. Rispetto e applicazione totale di tutte le norme che vengono dai nostri Governi e dalla Chiesa ufficiale: lavarsi le mani più volte a giorno, non creare assembramenti, non uscire di casa, pregare rispettando la distanza consentita tra le persone…
  2. Usare bene il tempo, non sprecarlo. Approfittare di questo tempo a disposizione per dedicarlo a qualche cosa di utile e importante per noi.
  3. Pregare per tutti, pregare molto, aiutati dalla Parola di Dio che in questo tempo di quaresima è particolarmente significativa.
  4. Essere solidali con gli altri, vicini e lontani. Non potendo incontrarsi concretamente, possiamo essere vicini agli altri con dei messaggi sms, con la preghiera, con la disponibilità a piccoli servizi possibili.
  5. Avere migliore cura di noi, per il nostro bene e per il bene degli altri.
  6. Pensare agli anziani facendo tutto il possibile per proteggerli e per proteggere chi in questo momento è più vulnerabile.
  7. Voler bene all’altro significa tutelarlo, rispettarlo, proteggerlo. L’amore al tempo del coronavirus significa l’attenzione nei confronti di coloro che non hanno nessun titolo e sono più poveri.
  8. Rimettere in ordine la nostra vita, la nostra scala di valori per scoprire quel che veramente è importante.
  9. Ricordarsi di riconnettersi con la Terra e con l’ecosistema: solo rispettandone l’equilibrio ne saremo rispettati e saremo preservati.
  10. Non dimenticare che siamo connessi per davvero e non solo in rete, i confini non esistono e che siamo tutti sulla stessa barca.

Carissimi, per il momento, considerando le informazioni che possediamo, abbiamo una comunità attaccata dal virus e in quarantena (…). Certamente il pensiero e la preghiera vanno per loro e per tutti quelli che appartenenti alla nostra famiglia della Consolata sono stati colpiti dal virus o sono nel timore che arrivi devastante. Il pensiero e la preghiera vanno anche ai nostri missionari e alle nostre comunità che vivono in Continenti e paesi poveri, meno strutturati a livello della sanità. È il momento di stare lontani tra noi fisicamente ma vicini come non mai con il cuore. È il momento di preoccuparci di tutti, è l’ora della consolazione. Che San Giuseppe sia e ci faccia custodi di tutti!

Coraggio e avanti in Domino!

Roma, 19 marzo 2020, festa di San Giuseppe!




Coronavirus. Tessere alleanze contro l’angoscia

di Luca Lorusso su amico.rivistamissioniconsolata.it


La paura nasce da un pericolo che vedo. La paura è utile perché mi avvisa che c’è da fuggire o da combattere.
L’angoscia nasce da un pericolo che non vedo. Non so dove fuggire. Non so come combattere.

La diffusione del Covid-19 provoca angoscia, perché non so da dove arriva, non so come difendermi.
Perché forse ce l’ho anche dentro di me. Mi fa intuire che il «male» può abitare pure in me, io stesso ne posso essere veicolo, oltre che vittima.

Una scorciatoia per neutralizzare l’angoscia (con il suo nemico sfuggente e indeterminato) è trasformarla in paura individuando un nemico contro il quale convogliare le mie energie.
Che il nemico sia reale o del tutto immaginario, o una via di mezzo, non importa.
Il nemico mi serve per non sentirmi perso, per avere l’illusione che l’esistenza, in fondo, è un oggetto abbastanza chiaro, lineare, dominabile, risolvibile.

Così, in questi giorni, sentendo montare l’angoscia dentro di me, sto cercando il nemico: prima era «il cinese», oggi, a seconda dei momenti e dei punti di vista nei quali mi pongo, sono «le frontiere aperte» e «l’assenza di sovranità», oppure «la finanza e le lobby internazionali», «i governi Pd-Pdl che hanno tagliato la sanità», «l’industria bellica degli Usa per distruggere la Cina… o quella cinese per distruggere l’Occidente», «l’Europa» e «l’asse franco tedesco che vuole mettere in ginocchio l’Italia», «gli allarmisti», «gli irresponsabili che non stanno a casa», «le multinazionali del farmaco», e così via.

Provare a gestire l’angoscia mi pare una pratica sana, ma la gestione non è semplice, né scontata, né spontanea.

Il primo passo forse può essere quello di rendermi conto che l’angoscia c’è, poi quello di capire da dove proviene (dall’incertezza, dalla strutturale precarietà dell’esistenza, dall’illusione del controllo…), poi quello di accettare sia l’angoscia che la precarietà dell’esistenza e l’assenza di controllo, infine quello di capire che non sono solo, che posso attraversare il male insieme agli altri, e che tutto sta dentro un quadro più ampio, di cui non vedo i confini, un quadro amato e sostenuto da Qualcuno.

Cedere alla tentazione d’individuare un nemico contro il quale scagliarmi, rischia di distrarmi dalla lotta più importante, che non è quella contro chi m’immagino voglia darmi la morte, nemmeno quella contro la morte, ma quella contro il terrore della morte. Non è la lotta contro la fragilità della condizione umana, ma quella contro il rifiuto della fragilità. E io so che il terrore, il rifiuto, la disperazione possono colpirmi più duramente se mi distraggo. La lotta più importante è quella interiore per accettare e accedere a ciò che sono e a ciò che l’umanità è. È quella per tessere e ritessere alleanze: con tutti e con tutto. È quella per rimanere aperto all’altro, accompagnato dall’Altro.

di Luca Lorusso




Kazakistan: LA GRAZIA DELL’OSPITALITÀ E DELLA BENEDIZIONE

4 marzo 2020


L’inizio della nostra presenza in Kazakistan l’abbiamo vissuta all’insegna della benedizione e dell’ospitalità. Siamo arrivate all’eroporto di Almaty alle 00:50 del 29 di febbraio. Eravamo partite dall’Italia con la convinzione di dover fare la “quarantena” a causa del coronavirus ed eravamo disposte a farla pur di partire per la missione tanto attesa nel cuore. Invece abbiamo superato tutti i controlli! Abbiamo sentito la forza della preghiera delle nostre consorelle e la benedizione ricevuta nella Santa Messa celebrata prima della partenza, alle 3 del mattino da P. Germán Arana, SJ, nella cappella di Nepi, accompagnata dalla Direzione generale, dalla comunità del Kirghizistan e da altre sorelle in Nepi.

All’arrivo ci attendevano due sacerdoti della diocesi di Almaty Don Szymon Grzywinski, polacco, e Don Gregorio Perez, spagnolo, tutti e due abitano nella parrocchia di Kapchagay, che dista circa 70 km da Almaty. I primi giorni vivremo a Kapchagay fino a quando procureremo ciò che è necessario per preparare la nostra casa in Janashar.

Sabato 29 di febbraio, il giorno in cui siamo arrivate, è una data cara per la Chiesa in Kazakistan. Si commemorano i 25 anni della consacrazione dell’Asia Centrale alla Beata Vergine Maria, Regina della Pace e patrona del Kazakistan. Per noi figlie della Consolata è stato un segno di conferma della sua presenza e della chiamata come famiglia religiosa in mezzo a questo caro popolo.

Alla sera ci siamo unite alla comunità cristiana di Kapchagay, una trentina di persone, la maggioranza bambini, per la preghiera del rosario e per la celebrazione eucaristica, la prima in terra kazaka, in un clima fortemente mariano. Alle 20.30 abbiamo pregato ancora con la comunità cristiana, la coroncina della misericordia e ricevuto la benedizione personale con il Santissimo, segno della vicinanza del Signore ad ogni persona. Ci ha toccato profondamente come questa ricorrenza fosse celebrata proprio nel giorno dell’inizio della nostra presenza come Istituto tra il popolo kazako. Veramente il Signore e la Consolata ci hanno preceduto, accolto e benedetto.

Domenica abbiamo raggiunto la nostra comunità cristiana di Janashar, insieme a Don Szymon, il parroco, e al vescovo della Diocesi di Almaty, Mons. Josè Luis Mumbiela Sierra. Ad attenderci c’era una comunità cristiana di una ventina di persone con la quale abbiamo celebrato l’Eucaristia. Lì il vescovo ci ha introdotto alla comunità e ci ha fatto vedere quale sarà la nostra casa, un appartamento al primo piano, sopra ad un ambiente preparato per le attività parrocchiali. Alla Messa è seguito un momento fraterno con dei cibi tipici del posto.

Al pomeriggio con Don Szymon siamo andate a Nura, dove abbiamo celebrato l’Eucarestia nella casa di una famiglia, insieme ad una ventina di persone. Qui ci hanno invitato a cantare e abbiamo intonato un canto in Swahili “E Mama Bikira Maria Consolata”.

Abbiamo incontrato un popolo molto accogliente e generoso. La nonna che ci ha ospitato nella sua casa si preoccupava che avessimo il nostro piatto sempre pieno di ogni bene, che avevano preparato per noi.

Ci chiederete come comunichiamo. Abbiamo studiato un po’ di russo prima della partenza, ma in questo momento sperimentiamo, come tutti i missionari, una bella confusione. Con qualcuno parliamo un po’ di spagnolo, con un altro un po’ d’inglese, con un altro un po’ d’italiano e pratichiamo le nostre piccole frasi in russo. Ci anima però l’ospitalità e l’accoglienza calda del popolo kazako e della piccola presenza della Chiesa, un dono immenso per noi tutte, in questo nuovo inizio.

Grazie di vero cuore per la vicinanza e la preghiera con cui ci accompagnate e i tanti messaggi che ci avete fatto pervenire!!!

Sr Adriana, Sr Claudia, Sr Luisa, Sr Zipporah




Missionari della Consolata da 25 anni in Costa D’Avorio


Il logo del Giubileo è un Vangelo aperto.
Sempre e ovunque il punto di partenza e di arrivo della missione non può che essere il Vangelo – la vita e le parole, i gesti e le scelte di Gesù di Nazareth. La sua vita aperta e offerta è la ragione e il cuore amorevole di ogni annuncio vero, rinnovato e fecondo (cf. Evangelii Gaudium 11).

Dalle pagine stesse del Vangelo emergono visibilmente le parole ad gentes
che esprimono l’identità e la vocazione primaria della Chiesa (cf. Evangelii Nuntiandi 14) e della nostra famiglia religiosa missionaria (cf. Costituzioni IMC 5). Ci ricordano il significato carismatico del primo annuncio che abbiamo portato (cf. EG 164) e la particolare bussola vocazionale della nostra consacrazione per tutta la vita per la missione (cf. Cost. IMC 4).

Slogan.
Per rendere più dinamico questo anno di grazia, il logo è accompagnato da uno slogan. Sono parole piene di significato e di risonanza che provengono dal cuore appassionato di Paolo di Tarso: “Tutto per il Vangelo”. Si ispirano a 1 Cor 9,16-23, dove l’Apostolo delle genti afferma con fervore la centralità del suo impegno di evangelizzazione nella sua vita di discepolo-missionario di Gesù Cristo: “Sono diventato tutto per tutti”. Quanto zelo ci fanno vedere queste parole di fuoco…! Per noi Missionari della Consolata della Costa d’Avorio questo è sinonimo del nostro “ardente desiderio” di far conoscere Gesù (cf. Cost. IMC 18) e di lasciarci invadere e trasformare dal suo amore (cf. EG 178).

La Fiamma
Nel logo, al centro del Vangelo, c’è una grande fiamma, simbolo dello Spirito Santo, vero protagonista della missione della Chiesa (cf. Redemptoris Missio 21). “Ci vuole il fuoco per essere un apostolo”, ripeteva costantemente il nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano, ai missionari. Alludeva al fuoco dello Spirito che si traduce in segni e gesti di gratuità apostolica. È lo stesso fuoco dello Spirito che ci guida e ci accompagna nelle scelte fondamentali della vita e della missione con la sua presenza creativa (cf. EG 259).

Le Stelle
Questa fiamma è coronata da tre stelle che ci ricordano la nostra madre e fondatrice, la Madonna della Consolata (cf. Cost. IMC 2). Sono tre, come quelle della icona della Consolata, che saggiamente evocano la totale e perpetua verginità di Maria di Nazareth: prima, durante e dopo la nascita del nostro Salvatore (cf. Lc 1,34-37; Mt 1,18-25). La Vergine Maria è anche chiamata la stella dell’evangelizzazione e offre alla nostra spiritualità uno stile tipico e un “come” caratteristico (cf. LG 65) in cui sono sempre presenti tenerezza e affetto (cf. EG 288).

Il sole che sorge
Nella parte inferiore del logo, la presenza del sole che sorge (cf. Lc 1,78), mostra i nuovi giorni che ci attendono e verso i quali tutto quest’anno vuole muoverci e orientarci: la nostra primavera missionaria in Costa d’Avorio (cf. RM 86). Questi giorni saranno segnati dalla gratitudine per la nostra storia missionaria e per i confratelli che si sono succeduti fin dal primo giorno nel Bardot. Vediamo sorgere questo nuovo giorno su un orizzonte tanto straordinario quanto inaspettato, costruito sull’unità d’intenti. Inizia un nuovo giorno, un giorno ricevuto da te, Padre (cf. Inno delle Lodi, Liturgia delle Ore), che ci invita ad approfondire le sfide della missione di oggi con una fedeltà attiva e creativa dalla nostra luminosa storia evangelizzatrice.

I luoghi
Per valutare il cammino vissuto in questi primi 25 anni di consacrazione alla missione, abbiamo voluto presentare, in modo particolare, le diocesi ivoriane che ci hanno accolto e accettato. Da sinistra a destra, in ordine cronologico di arrivo nel paese, possiamo vedere una barca e un faro – mare e pesca – simboli della diocesi di San Pedro e punto di partenza della nostra consolante presenza. Segue una piccola casa e un granaio – famiglia e provvidenza – tradizionalmente riconosciuti nella cultura dei Senufo, seconda presenza consolatrice nella diocesi di Odienné. Infine, la cattedrale di Saint Paul si riferisce alla nostra terza presenza missionaria nell’arcidiocesi di Abidjan con la casa di formazione della Beata Irene Stefani – speranza e futuro – per tutto l’Istituto.

I colori
Infine, la tavolozza dei colori utilizzati (arancione, bianco, verde) si riferisce alla bandiera tricolore della Costa d’Avorio.




Dal Sinodo per l’Amazzonia una nuova sfida per la missione

«Non indurite il vostro cuore»

testo della Fesmi, Federazione stampa missionaria italiana |


«Vi vedo un po’ inquieti, forse non capite di che cosa ha bisogno l’Amazzonia… Noi abbiamo una nostra visione, questo ci avvicina a Dio, la natura ci avvicina a poter contemplare di più il volto di Dio, a contemplare l’armonia con tutti gli esseri viventi. Mi sembra che non vi tornino i conti, vi vedo preoccupati, dubbiosi di fronte a questa realtà che noi cerchiamo. Non indurite il vostro cuore».

Tra le tante parole ascoltate in queste settimane intorno all’Amazzonia è l’appello pronunciato da Delio Siticonatzi Camaiteri – indio cattolico peruviano, membro del popolo Ashaninca, una delle 390 etnie indigene della grande foresta che il Papa ha voluto a Roma nel cuore della Chiesa universale – il riassunto più efficace che come riviste missionarie ci portiamo a casa da questo Sinodo: «Non indurite il vostro cuore».

Conferenza stampa del 7/10/2019 (foto Guilherme Cavalli_Cimi)

Fin dal suo cammino di preparazione, il Sinodo ha proposto uno sguardo unitario su una regione del mondo parcellizzata dagli interessi di un’economia assetata di materie prime e ridotta a riserva da sfruttare, senza rispetto per niente e per nessuno.

Questo Sinodo ha avuto il coraggio di mettersi in ascolto di popoli e culture che il mondo globalizzato vorrebbe ridurre a semplici reperti da museo. Persone e comunità che invece hanno un messaggio forte da portare alla società e alla Chiesa del XXI secolo e desiderano, allo stesso tempo, ascoltare la parola di Gesù.

Questo Sinodo chiede alla Chiesa di essere autenticamente missionaria, e a noi riviste missionarie (associate nella Fesmi, Federazione stampa missionaria italiana) lascia in eredità alcuni compiti.

1) Continueremo a parlare dell’Amazzonia. Abbiamo visto in queste settimane quanto anche in certe frange del mondo cattolico i pregiudizi sui suoi popoli siano radicati. Quanta ignoranza, quanta superficialità, quanto disprezzo per coloro che vivono una cultura diversa dalla nostra. ; quanti occhi chiusi sui tanti cristiani che anche in Amazzonia sono perseguitati e muoiono nell’indifferenza di un mondo che non accetta mai di porsi domande sull’unico vero idolo del nostro tempo: il proprio carrello da riempire al supermercato. Per questo moltiplicheremo i nostri racconti. Aiuteremo a scoprire che uno sviluppo amico della biodiversità fisica e culturale dell’Amazzonia è possibile ed è già realtà là dove non regna solo la legge del profitto massimo e immediato. Andremo avanti a ripetere il messaggio che Papa Francesco ha messo al cuore dell’enciclica Laudato Sì: tutto è connesso.

2) Racconteremo il cammino della Chiesa dal volto amazzonico, di comunità che alla luce del Vangelo vogliono rileggere la propria storia, la propria cultura, i propri miti. È quanto la prima evangelizzazione realizzò in Europa, dando vita a sintesi e devozioni straordinarie; perché dovrebbe creare scandalo se a compiere questa stessa inculturazione della fede oggi sono i cristiani di altri continenti?

3) Riveleremo i volti delle comunità cristiane dell’Amazzonia, con ministeri che hanno qualcosa di importante da suggerire alle nostre comunità; i volti delle donne, che in tanti luoghi sono già punto di riferimento e leader di comunità, e i volti dei martiri/testimoni che stanno pagando con la vita per un mondo nuovo.

Ma proveremo anche a far capire a chi si scandalizza che no, in Amazzonia nessun cristiano guarda alla statuetta della Pachamama come a un idolo da adorare. In quelle viscere ritrova un’immagine della misericordia di Dio che troppi cristiani in Occidente oggi fanno fatica a contemplare.

«Non indurite il vostro cuore». Alla fine, il punto è proprio questo. Perché la dove il cuore è duro non c’è posto per la missione.

In Amazzonia come nelle nostre città.

Fesmi

Foto di gruppo del 17/10/2019 – Vatican Media

Firma del Patto delle Catacombe (foto Guilherme Cavalli-Cimi)




I paradossi di una politica escludente

Comunicato dei missionari italiani riuniti nella Fesmi, nella Cimi e nel Suam


In questi giorni abbiamo assistito con tristezza al modo irresponsabile in cui l’odissea di 42 persone salvate nel Mediterraneo è stata nuovamente trasformata in una vicenda che banalizza la questione epocale e globale delle migrazioni, di cui noi missionari e missionarie siamo quotidianamente testimoni oculari nei Paesi dove ci troviamo ad operare.

Piuttosto che cercare soluzioni, in Italia si preferisce giocare alla battaglia navale esasperando toni e situazioni, con l’epilogo che tutti abbiamo visto in queste ore.

Sbaglia chi si scaglia contro la comandante della nave Sea Watch 3, Carola Rackete, accusandola di aver intenzionalmente speronato la motovedetta della Guardia di Finanza che impediva l’attracco della nave. Sarà la magistratura a stabilire come sono andate le cose e chi davvero abbia forzato la mano in tutta questa vicenda.

Come istituti e testate missionarie continuiamo a raccontare i drammi da cui origina l’odissea di chi parte in cerca di un futuro oggi negato in troppe parti del mondo, ed esprimiamo viva preoccupazione per il clima di forte ostilità contro il soccorso in mare di ogni migrante, soprattutto se proveniente dall’Africa.

Ma soprattutto non si può accettare che venga proposto a modello di gestione efficiente della questione migratoria l’indifferenza di fronte alla disperazione di persone soccorse in mare e lasciate per due settimane senza un porto sicuro d’approdo. Persone che avevano già iniziato a commettere atti di autolesionismo. Mettere il loro destino prima del proprio, accettando anche di pagarne le conseguenze, è l’essenza del Vangelo di Gesù di Nazareth, che noi missionari e missionarie cerchiamo di portare a ogni popolo.

Carola ha disobbedito al decreto sicurezza per obbedire alla sua coscienza e alla legge del mare: è la legge internazionale del “soccorso da non omettere” a chi rischia di morire.

Ancora una volta la vicenda della Sea Watch 3 rivela i paradossi di una politica che trasforma le migrazioni in un argomento su cui gridare anziché provare a elaborare risposte realiste. Una politica che sbandiera la ricetta dei porti chiusi, ma li lascia aperti per chi, senza naufragare, li raggiunge grazie a trafficanti di persone che continuano a fare affari con nuovi metodi e nuove rotte.

L’unica risposta seria è una politica che dall’Italia ricominci a guardare il fenomeno nella sua complessità, sapendo che nei prossimi anni diventerà ancora più intenso, anche per gli effetti del cambiamento climatico. E occorre collaborare con il resto del mondo. Il 10 dicembre 2018 ben 192 Paesi hanno firmato un “Patto globale” promosso dall’Onu per gestire le migrazioni in modo sicuro e ordinato, e dissolvere così il traffico di persone. L’Italia non lo ha ancora sottoscritto. Perché?

E quali alternative propone il governo italiano al di là degli slogan sulla “difesa dei confini”?

E chi, in risposta alle migrazioni, tanto aveva a cuore lo slogan “aiutiamoli a casa loro”, cosa sta facendo in questo senso oggi che è al governo di questo Paese?

Di questo l’Italia deve tornare urgentemente a parlare. Se non vogliamo ritrovarci presto a tirare fuori ancora una volta il peggio intorno a una nave bloccata al largo di Lampedusa.

FESMI – CIMI – SUAM & GPIC
(Federazione Stampa Missionaria Italiana;
Conferenza Istituti Missionari Italiani;
Segretariato Unitario Animazione Missionaria e sua commissione Giustizia e pace)

 

1° luglio 2019

 


P.S.  Il 30 giugno 2019 è circolato un messaggio a firma di padre Alex Zanotelli: si riferisce alla notte del 29 giugno e smentisce lo speronamento della motovedetta della Guardia di Finanza nel porto di Lampedusa. Ma in quelle ore padre Alex era a Verona. Chi gli ha attribuito questa notizia falsa?

Hanno pubblicato questo comunicato:

  • ComboniFem, la rivista delle Missionarie Comboniane



ORDINATO VESCOVO DI TETE,

Mons DIAMANTINO ANTUNES Imc


Sarà una data da ricordare il 12 Maggio 2019, soprattutto per la diocesi di Tete, in Mozambico. Il Signore lo ha data loro un nuovo pastore nella persona del padre Diamantino Antunes, missionario della Consolata. È il quinto vescovo da quando la diocesi è stata eretta nel 1962. Con la nomina del mons Ignazio Saure, Imc come arcivescovo di Nampula due anni fa, la diocesi di Tete ha avuto il padre Sandro Giancarlo Faedi Imc come amministratore diocesano. Questa mattina nel giardino della cattedrale di Tete, l’arcivescovo di Nampula (mons. Saure) ha ordinato vescovo mons Diamantino alla presenza di Nunzio apostolico, c’era anche la Conferenza Episcopale mozambicana quasi al completo, numerosi preti e religiosi, e autorità civili guidate dal governatore della provincia e una numerosa folla dei fedeli. “Gaudium et Spes”, è il motto del nuovo vescovo. Ispirato dallo Spirito, possa il Signore aiutarlo ad essere un pastore che ha l’odore delle pecore, portando la consolazione e speranza a tante persone che hanno sete di Dio.
Questa ordinazione ha voluto dire tanto per noi missionari della Consolata. Nel lontano 1926, i figli della Consolata toccavano questa terra, arrivando camminando a piedi nella allora missione Milulu, nel distretto di Zumbo, chi si trova nel confine con Zambia. La missione poi è stata interrotta per anni. Oggi, uno dei figli della Consolata diventa vescovo della diocesi. È un onore e rispetto data a noi.
La diocesi ha 12 preti diocesani, 39 preti missionari/religiosi e 65 suore. Buona missione, “avanti in Domino”.

Baba Godfrey Msumange imc

Vedi anche la notizia su Consolata.org (disponibile in diverse lingue)

 




Torre Maura: calpestare il pane – spezzare il pane

Quei Rom che vivono nei campi, sotto le diverse denominazioni: attrezzati, abusivi, istituzionalizzati, micro insediamenti, villaggi… sono sostanzialmente stigmatizzati da tutti, lo fanno i partiti di ogni tendenza, dalle stesse organizzazioni che vorrebbero tutelarli, dall’opinione pubblica in generale. Il risultato è sempre lo stesso, una disparità pericolosa e dannosa per i Rom che vivono nei campi, chi per scelta, per costrizione o per mancanza di alternativa. I Rom dei campi sono di fatto accusati come fossero dei “parassiti”, dei privilegiati, approfittatori, incapaci di volersi integrare. Cosa poi significhi integrare è ancora tutto da valutare e capire. I fatti di Torre Maura di Roma sono la conseguenza di questo e di altro ancora, soprattutto decenni di esclusioni, di pregiudizi e di un clima di odio che ha portato a gettare per terra e calpestare il pane destinato a quel gruppo di Rom, collocati provvisoriamente in un alloggio, dopo lo sgombero del loro campo.

Spezzare il pane è sempre stato il gesto carico di significato, esprime condivisione, accoglienza, il riconoscimento della dignità umana dell’altro, senza esclusione di ceto, classe, religione ed etnia. Nel dare un pezzo di pane, non solo riconosco la dignità dell’altro, ma valorizzo anche la mia, la nostra.” Un pezzo di pane non lo si nega a nessuno!” Era un dato di fatto indiscutibile fino a qualche anno fa, ora non più!

Questo principio, quello di non negare il pane, piano piano ha cominciato a sgretolarsi, già da diversi anni: vedi le ordinanze di diversi sindaci (di ogni orientamento politico) che vietano di dare una semplice bevanda calda con una brioche ai clochard che gravitano attorno le stazioni, o ai migranti che cercano di attraversare il confine: vietato aiutarli! Tutto per il così detto “decoro cittadino” da salvaguardare! Dare del pane a chi è nel bisogno, da qualche anno a questa parte, è diventato una minaccia al decoro cittadino. Il decoro sembra ormai avere la priorità sul quel sentimento umano, primordiale che ha caratterizzato il genere umano e l’Occidente stesso, quello di garantire e donare il pane a tutti.

Ma spezzare il pane per un cristiano o per chi vive una sua fede religiosa, ha dei significati immediati, chiari: rimandano al Mistero stesso di Dio. La Bibbia, La Torah e il Corano sono ricchi di richiami e di messaggi “teologici” riguardo il pane da spezzare, da condividere soprattutto di fronte all’affamato, al bisognoso, come all’ospite e al viandante di passaggio.

Io sono il pane vivo, disceso dal cielo!” (Gv, 6, 41) Pane come dono di Dio, Gesù pane spezzato per la salvezza di tutti: buoni e cattivi, meritevoli o meno. “Prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo.” Gettare a terra il pane e calpestarlo perché non sia dato ai Rom è come calpestare il volto di Gesù, figlio di Dio che si è identificato con l’affamato, il povero, la vedova, il forestiero… Come tale è un gesto sacrilego che offende Dio e l’Uomo allo stesso tempo, umiliando non solo i Rom, ma l’intera umanità. Per il cristiano Cristo è presente in tutti, ma nei poveri tale presenza acquista una importanza tale, da essere paragonata allo stesso Mistero Eucaristico. Che senso può avere, non solo per coloro che hanno profanato il pane o per i tanti che si definiscono i “difensori della civiltà cristiana”, ma soprattutto per le nostre comunità cristiane, celebrare l’Eucarestia domenicale, se poi nella vita non riusciamo a spezzare il pane dell’amicizia e della giustizia con i privilegiati del Regno che Gesù stesso ci ha annunciato? Che senso può avere rimanere ancora distanti, indifferenti, appollaiati sui nostri balconi, assistendo passivi alla sorte di questi “poveri Cristi”, gettati per terra e calpestati?

“Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc, 18, 8)

don Agostino Rota Martir (campo Rom – Pisa)
p. Luciano Meli (Lucca)
12 Aprile 2019