Frammenti di Luce | Annare perannareque commode: trascorrere piacevolmente tutto l’anno (Ovidio, Fasti, III) |
Riflessioni di padre Giuseppe Ronco, pubblicate su Da Casa Madre 1/2017 pp. 3-7, rivista ad uso interno dei Missionari della Consolata.
La Cattedrale dei Santi Pietro e Maria, a Colonia, è un capolavoro dell’architettura gotica mondiale e patrimonio dell’Umanità. Per i suoi 157 metri di altezza è la terza Cattedrale più alta del mondo. A Colonia però, l’architettura religiosa che predomina è quella romanica, con le sue 12 chiese costruite tra l’inizio del Millennio e la metà del XII secolo. Tra queste c’è la chiesa di San Cuniberto, costruita nel 1247 in onore del novo vescovo di Colonia e per ospitae la tomba. La pala dell’altare, risalente al IX secolo, raffigura il dio Chronos venerato come Annus, l’Anno. Le decorazioni che arricchiscono la sua bellezza sono i simboli del tempo: la rappresentazione del giorno e della notte, il susseguirsi delle stagioni, e i dodici segni zodiacali. Per cristianizzare Chronos, però, sono stati aggiunti i simboli dell’alfa e dell’omega, dell’inizio e della fine, richiamati dall’Apocalisse (cfr Ap 22,13).
L’idea teologica chi vi soggiace è di mostrare come Gesù Cristo abbia potere sul tempo e sulla storia, trasformando l’evolversi cronologico del mondo in tempo salvifico. È un Dio che si incarna nello spazio e nel tempo per farlo lievitare dal di dentro e portare così la storia al suo compimento. Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre! (Ebr 13, 8).
Nel paragrafo conclusivo su “La missione della Chiesa nel mondo contemporaneo”, dal titolo Cristo alfa e omega, il Concilio recita: “Il Verbo di Dio, per mezzo del quale tutto è stato creato, si è fatto egli stesso carne, per operare, lui, l’uomo perfetto, la salvezza di tutti e la ricapitolazione universale. Il Signore è il fine della storia umana, il punto focale dei desideri della storia e della civiltà, il centro del genere umano, la gioia d’ogni cuore, la pienezza delle loro aspirazioni. Egli è colui che il Padre ha risuscitato da morte, ha esaltato e collocato alla sua destra, costituendolo giudice dei vivi e dei morti. Nel suo Spirito vivificati e coadunati, noi andiamo pellegrini incontro alla finale perfezione della storia umana, che corrisponde in pieno col disegno del suo amore: “Ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra” (Ef 1,10). Dice il Signore stesso: “Ecco, io vengo presto, e porto con me il premio, per retribuire ciascuno secondo le opere sue. Io sono l’alfa e l’omega, il primo e l’ultimo, il principio e la fine (Ap 22, 12-13)” (GS 45).
È con questa certezza che diamo in benvenuto all’anno nuovo. Apparentemente sarà un anno come tutti gli altri, con le sue afflizioni e delusioni, ma in realtà sarà un anno di Dio, foriero di speranza e di salvezza, di futuro che vuole diventare eternità. Per i Greci Chronos divorava crudelmente i propri figli, e al suo passare tutto diventava morte. Per noi cristiani il tempo è utero di futuro, di vita eterna, spazio da riempire di contenuti e di opere buone, luogo di responsabilità dove si gioca il bene dell’intera umanità.
Lo accogliamo con il canto del Maranatha, facendo spazio a quel Dio che, solo, ci libererà dalla dittatura mortale di Chronos.
Siamo noi stessi il tempo
Perché il tempo appartenga a Dio, occorre la nostra collaborazione. “Un giorno, Agostino ebbe a dire ai suoi contemporanei, che si lamentavano dei loro brutti tempi: siamo noi stessi i tempi. Infatti, quando parliamo dello stile Biedermeier o del Barocco, oppure della rivoluzione francese, ci riferiamo sempre agli uomini che insieme hanno fatto di quegli anni un’epoca ben determinata. Gli uomini sono il tempo, nella mutevole natura del loro essere.
Per esprimerci in termini più concreti: che sarebbero un mondo e una chiesa senza la fede serena, leale e schietta dei bambini? Che sarebbero un mondo e una chiesa senza l’inquietudine sollecitante, le domande progressiste con cui ci assalgono i giovani? Che sarebbero senza la forza e la decisione di coloro che sono al culmine della loro vita? Che sarebbero senza la maturità dell’esperienza, senza la tranquilla pazienza e la remissiva serenità degli anziani? E che cosa saremmo noi tutti senza la fiducia degli uni verso gli altri, la disponibilità a guardarci e accettarci a vicenda?” (J. Ratzinger, Dogma e predicazione, 1974).
L’atteggiamento vincente per vivere al meglio l’anno nuovo è l’ottimismo, l’agire saggio e cosciente di chi sa confrontarsi con il dolore, la paura, le difficoltà della vita e decide di farvi fronte. E anche dalle esperienze negative potranno scaturire degli insegnamenti positivi, che aumenteranno la fiducia e la speranza.
“In ogni inizio si trova, infatti, un incanto che ci protegge e ci aiuta a vivere”, fa dire Hermann Hesse al protagonista del suo romanzo II giuoco delle perle di vetro. In ogni cuore, anche nel più spento e disilluso, una fiamma nuova riprende vita, quando qualcosa di nuovo incomincia.
“Indovinami, indovino tu che leggi nel destino: l’anno nuovo come sarà? Bello, brutto, o metà e metà? Trovo stampato nei miei libroni che avrà di certo quattro stagioni, dodici mesi, ciascuno al suo posto, un carnevale e un ferragosto, e il giorno dopo del lunedì avrà sempre un martedì. Di più per ora scritto non trovo nel destino dell’anno nuovo: per il resto anche quest’anno sarà come gli uomini lo faranno” (Gianni Rodari, Anno nuovo).
L’anno nuovo incomincia quando vuoi tu
C’è una buona notizia per chi vuole incominciare bene l’anno nuovo: il tuo nuovo anno incomincia nel giorno in cui vuoi incominciare un cammino di cambiamento. Non esiste nessun riferimento scientifico sicuro, nessuna considerazione astrale, che permetta di stabilire in modo preciso quando l’anno inizi e quando finisca.
La scelta di una data precisa è arbitraria ed è mutata più volte con il passare del tempo. Al tempo dei Romani l’inizio del nuovo anno veniva festeggiato il 15 marzo durante le Idi, in occasione dell’equinozio di primavera. In un boschetto sulla Via Flaminia, lungo il fiume Tevere, si celebrava la festa in onore di una delle divinità più antiche e misteriose del pantheon romano: Anna Perenna. L’anno nuovo incominciava, tra gozzoviglie, giochi e orge di sesso, abbandonando ogni rigidità morale. Doveva esserci solo godimento e l’augurio che ci si faceva era Annare perannareque commode: trascorrere piacevolmente tutto l’anno.
Anche nel Tibet sciamanico e pre-buddhistico, al tempo dei Bo Murgel, l’ anno iniziava con una festa chiamata Losar. Era una grande celebrazione in cui si offrivano doni agli spiriti e alle divinità tutelari a scopo propiziatorio, bruciando incensi e profumi e offrendo una bevanda alcornolica ricavata dalla fermentazione dell’orzo. La tradizione vuole che nel 127 a.C., anno in cui ascese al trono il mitico re Nyatri Tsenpo, primo sovrano della dinastia Yarlung, si incominciasse a contare gli anni seguendo le fasi della luna. Il calendario diventò così lunare.
Nella storia dei popoli mancò a lungo una data accettata da tutti. “Soltanto nel 1564 l’allora tredicenne Carlo IX, re di Francia, rese obbligatoria la data del primo gennaio come primo giorno dell’anno. Questa scelta venne via via accettata anche dagli altri Paesi cattolici mentre in quelli protestanti la resistenza fu più lunga perché non si voleva acconsentire a una decisione presa da un sovrano straniero. In Gran Bretagna si continuò quindi a festeggiare l’inizio dell’anno il 25 marzo fino al 1751, anno in cui venne accettato il calendario gregoriano, ordinato da Gregorio XIII nel 1582 per ristabilire la concordanza dell’anno con le stagioni” (Rivista Focus, 28 giugno 2002).
Prendere Gesù come compagno nel cammino della missione
L’anno nuovo inizia, ma il nostro cammino nella missione continua. Un anno che inizia può essere l’occasione per rivedere le nostre posizioni e aprirci a spazi non prima frequentati.
“La missione nella sequela di Gesù è cambiamento, apertura alla novità, ricerca inquieta e di speranza, di impegno a qualsiasi costo. Richiede rotture e rinunce, ma suscita e genera anche molta gioia ed entusiasmo e manifesta tutto il suo fascino. Avviene a noi come a quel tale che trovato un tesoro nel campo, lo nascose e per la gioia vendette tutto quello che aveva per comperarlo. Così è la missione e questa la sua attrattiva: aperta alla novità dello Spirito che è sempre libero, creativo e persino sconcertante, che crea e ricrea, trasforma e fa nuove tutte le cose, appassiona per Cristo e il suo Regno” (Da Casa Madre, 11, 2015).
Se gli elementi fondamentali che compongono la missione rimangono sempre uguali, le modalità e le scelte concrete variano sempre con il mutare dei tempi e delle situazioni. Rimane basilare il principio che la nostra missione sarà solida nella misura in cui avremo Gesù come compagno nella nostra barca. La missione è opera sua e solo in sua compagnia la nostra opera sarà efficace.
Camminando con Gesù, ogni cristiano è portato ad aprire gli occhi sull’altro: sul viaggiatore ferito dai banditi e lasciato ai margini della strada, come su quelli che sono malati, nudi, carcerati, affamati con i quali Gesù identifica sé stesso. Sui bambini che il Maestro vuole vicino a sé e sul cieco mentre le folle tentano di allontanarlo da lui; il pagano, la cui fede è inaspettatamente più grande di quella dei figli d’Israele, come su quella donna che viene ad attingere acqua e che ha dentro di sé una sete che nessuno riesce ad intuire. Il servizio che Dio chiede al suo popolo implica precisi impegni nei confronti di quanti sono esclusi al suo interno: orfani, vedove, poveri, forestieri. Ma, nella sua storia, ben presto prende coscienza che la compassione di Dio abbraccia anche tutti i popoli.
Sali sulla mia barca, Signore!
Tante volte ho avuto l’impressione che la mia vita
sia come una notte trascorsa in una pesca fallita.
Allora mi assale la delusione, mi prende il senso dell’inutilità.
Sali sulla mia barca Signore, per dirmi da che parte devo gettare le reti,
per dare fiducia ai miei gesti,
per capire che non devo lavorare da solo,
per convincermi che il mio lavoro vale niente senza di te, senza la Tua presenza.
Sali sulla mia barca Signore, per donare calma e serenità.
Prendi tu il timone: accetto di essere tuo pescatore.
Insieme pescheremo, Signore, e giungeremo sicuri al porto della vita.
La missione è passione per Gesù Cristo e nello stesso tempo è passione per la gente. Colpisce il carattere inglobante della missione di Gesù. Riguarda i ricchi e i poveri, gli oppressi e gli oppressori, i peccatori e le persone pie. La sua missione mira a sbloccare le separazioni e a far crollare i muri di inimicizia tra le persone e i gruppi. Come Dio gratuitamente ci perdona, anche noi dobbiamo perdonare chi ci ha fatto dei torti, senza limiti. Conviene riprendere in mano la Evangelii Gaudium.
Per portare Gesù e il suo Vangelo al mondo dobbiamo uscire, metterci in cammino. Per incontrare la gente bisogna lasciare le proprie certezze, gli ambienti conosciuti, le dottrine che a volte sono più ideologie che verità e farci prossimi di chi è alla ricerca o nel bisogno.
Annunciare diventa un bisogno. La sollecitudine di Paolo verso i pagani si manifesta nella coscienza acuta dell’obbligo, che sa di avere, di proclamare loro il Vangelo. È una anangke, una necessità ineludibile. “Guai a me se non annuncio il Vangelo” (1Cor 9,16). “Fedele al modello del Maestro, è vitale che oggi la Chiesa esca ad annunciare il Vangelo a tutti, in tutti i luoghi, in tutte le occasioni, senza indugio, senza repulsioni e senza paura. La gioia del Vangelo è per tutto il popolo, non può escludere nessuno” (EG 23).
“Annunciare” però non significa soltanto “enunciare o proclamare”, ma testimoniare con la vita. “Possa il mondo del nostro tempo ricevere la Buona Novella non da evangelizzatori tristi e scoraggiati, ma da ministri del Vangelo la cui vita irradi fervore, che abbiano per primi ricevuto in loro la gioia del Cristo” (EG 10).
Per costruire un mondo nuovo bisogna saper abitare là dove si annuncia e si testimonia. È la dimensione essenziale che l’Incaazione suggerisce: «il Verbo si fece carne e pose la sua dimora in mezzo a noi». L’ambiente nel quali ci si inserisce, casa comune in cui viviamo con gli altri, va coltivato con relazioni umane e cristiane dignitose, va plasmato e formato, sia nel dialogo con la cultura, sia con la purificazione dalle scorie che offuscano la vita vera.
Compito fondamentale è saper far nascere in chi incontriamo la passione per ciò che è vero e bello. È il compito tipico dell’educare, aiutando le persone a vedere il bene presente in ognuno e a coltivarlo per il bene di tutti.
Si diventerà capaci, con il passare del tempo, di saper trasfigurare tutta la realtà che ci circonda, vedendo e interpretando le cose con gli occhi di Dio e andando oltre i limiti umani che appaiono. La via della trasfigurazione è via di bellezza, che rivela l’unità profonda di tutto e ci apre al dono della grazia.
“Per loro io consacro me stesso” (Gv 17,19).
Giunta l’ora di compiere l’ultimo atto della sua vita, Gesù prega. La sua è una preghiera sacerdotale e missionaria nello stesso tempo, atto di consacrazione di sé stesso al Padre e ai suoi discepoli. “Consacrali nella verità. La tua parola è verità. Come tu mi hai mandato nel mondo, anch’io ho mandati nel mondo; per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità” (vv. 17-19).
Buon Anno e buon viaggio!
Giuseppe Ronco, IMC
(Da Casa Madre 1/2017, pp. 3-7)
Immagini simboliche di Gigi Anataloni, Ennio Massignan e Adriano Coletto