Il XVI vertice dei Brics – acronimo dei cinque paesi fondatori (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) – si è tenuto a Kazan, in Russia, dal 22 al 24 ottobre. Al Summit hanno partecipato 41 delegazioni: 6 rappresentavano organizzazioni internazionali e 36 paesi, 24 dei quali erano capi di stato e di governo. Numeri importanti, ma risultati effettivi molto scarsi, come si può facilmente dedurre leggendo i 134 punti della «Dichiarazione di Kazan», spesso (ma non sempre) apprezzabili ma troppo vaghi per trovare una concreta e rapida applicazione.
È positiva la volontà (punto 8) di riformare l’Onu, incluso il Consiglio di sicurezza. Elementi positivi possiamo trovarli nei punti dal 15 al 19 in cui si ribadisce – almeno a parole – la necessità di affrontare il cambiamento climatico e la desertificazione, difendere la biodiversità e l’acqua. Anche la preoccupazione per la grave situazione in Medio Oriente (punti 30-31) è condivisibile, salvo che sui punti in cui si giustificano Siria (34) e Iran (35), paesi alleati della Russia. Per l’Ucraina (36), paese aggredito da Mosca, la vaghezza dei termini utilizzati per descrivere la situazione assume livelli sublimi: «Sottolineiamo che tutti gli stati dovrebbero agire in modo coerente con gli scopi e i principi della Carta delle Nazioni Unite nella loro interezza e interrelazione. Prendiamo atto con apprezzamento delle pertinenti proposte di mediazione e buoni uffici, volte a una risoluzione pacifica del conflitto attraverso il dialogo e la diplomazia».
Altrettanto acrobatica (punto 56) è la dichiarazione sul problema (sempre più grave) delle notizie false e sulla libertà d’espressione: «Esprimiamo – si legge – seria preoccupazione per la diffusione esponenziale e la proliferazione di disinformazione, cattiva informazione, inclusa la propagazione di false narrazioni e fake news, nonché di discorsi d’odio, in particolare sulle piattaforme digitali, che alimentano la radicalizzazione e i conflitti. Mentre riaffermiamo l’impegno per la sovranità degli Stati, sottolineiamo l’importanza dell’integrità delle informazioni e di garantire il libero flusso e l’accesso pubblico a informazioni accurate basate sui fatti, inclusa la libertà di opinione ed espressione». Vale la pena di ricordare che la più grande fabbrica mondiale di trolls (software di hackeraggio) ha sede a Mosca e che né in Russia né in Cina – paesi fondatori dei Brics – esiste libertà d’espressione.
Nel documento, si accenna anche alla questione – molto complicata (anche se non campata in aria) – della riforma dell’architettura finanziaria internazionale e della de-dollarizzazione del sistema.
Dal primo gennaio 2024 si sono uniti ai Brics altri cinque paesi – Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita ed Emirati arabi uniti -, nessuno di loro guidato da un governo democratico. A Kazan, altri tredici si sono uniti in qualità di «partner»: Algeria, Bielorussia, Bolivia, Cuba, Indonesia, Kazakistan, Malaysia, Nigeria, Thailandia, Uganda, Uzbekistan, Vietnam e la Turchia (forse il paese più «pesante», vista la sua appartenenza alla Nato). La commistione di paesi dittatoriali (Russia e Cina, in primis) con altri a conduzione democratica (il Brasile, ad esempio) pare costituire un vulnus per l’organizzazione che si vorrebbe porre come alternativa al cosiddetto Nord del mondo.
Da notare, infine, che l’evento più chiacchierato della XVI riunione dei Brics è avvenuto a latere del convegno: l’incontro tra il padrone di casa Vladimir Putin e il segretario generale dell’OnuAntonio Guterres, un evento molto discusso visto che l’autocrate russo è un criminale di guerra che ha scatenato il conflitto in Ucraina. Vedremo se questo incontro porterà dei frutti, ma pare altamente improbabile.
Paolo Moiola
Giappone. La rivoluzione delle urne
Ci si aspettava qualche cambiamento, ma è stata quasi una rivoluzione. Le elezioni legislative di domenica 27 ottobre in Giappone si sono concluse con un risultato clamoroso. Il Partito liberaldemocratico (Pld), forza conservatrice al potere per 65 degli ultimi 69 anni, ha perso la maggioranza assoluta. Non solo. Per arrivare ai 233 seggi della Camera bassa del parlamento necessari a governare, non basta nemmeno l’aiuto del Komeito, partito di ispirazione buddhista e storico partner di coalizione. Si tratta di una vera e propria batosta, andata al di là delle più nefaste aspettative di Shigeru Ishiba, premier da nemmeno un mese.
È stato lui a decidere di convocare elezioni anticipate, sconfessando la sua stessa parola, con l’obiettivo di consolidare la leadership conquistata a settembre al voto interno al Pld. La scommessa di Ishiba si basava su due convinzioni. Primo: il poco tempo concesso all’opposizione avrebbe evitato l’ascesa del Partito costituzionale democratico (Pcd), appena riunitosi sotto la guida dell’ex premier Yoshihiko Noda. Secondo: la sua lunga carriera di outsider e critico interno al partito gli avrebbe garantito di evitare le conseguenze dello scandalo sui finanziamenti che ha portato alle dimissioni il predecessore, Fumio Kishida. Entrambe le convinzioni si sono rivelate sbagliate.
Da una parte, Noda ha portato il Pcd da 98 a 148 seggi, grazie a un audace programma di riforme sociali mirate a contrastare l’ormai atavico problema dell’aumento del costo della vita. Dall’altra, le varie retromarce di Ishiba su una serie di promesse lo hanno reso agli occhi degli elettori meno in discontinuità rispetto alle precedenti gestioni del suo partito. Durante la campagna elettorale, Ishiba ha infatti sconfessato due promesse in materia di diritti civili, che lo avevano reso popolare tra i più giovani: la legalizzazione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso e la cancellazione della norma che impone ai coniugi di adottare lo stesso cognome. La mazzata finale è arrivata dalle notizie di stampa, secondo cui il Pld avrebbe continuato a pagare per la campagna elettorale di diversi parlamentari allontanati per il coinvolgimento nello scandalo dei finanziamenti.
Ishiba ora deve affrontare un futuro politico incerto. Il suo mandato potrebbe essere il più breve dalla Seconda Guerra Mondiale. I suoi (unici) vantaggi sono che il Pld non ha tempo di cercare immediatamente un nuovo leader, peraltro di non facile individuazione, e che per Noda sarà quasi impossibile unire tutte le forze di opposizione, che vanno dal Partito comunista alla destra radicale.
Entro 30 giorni, il parlamento si riunirà per conferire l’incarico di governo.
Ishiba sta cercando nuovi alleati, ma lo scenario più plausibile è quello di un esecutivo di minoranza, la cui azione potrebbe essere ampiamente limitata e rivolta soprattutto all’approvazione del bilancio suppletivo di fine 2024 e (forse) di quello dell’anno fiscale 2025 il prossimo aprile. L’orizzonte temporale del possibile gabinetto di Ishiba potrebbe non andare molto più in là, mentre l’ala ultranazionalista del Pld chiede già una riorganizzazione attorno alla figura di Sanae Takaichi.
L’impatto del voto potrebbe farsi sentire anche sulla politica estera e sulle relazioni internazionali del Giappone. La contemporaneità tra l’inedita instabilità di Tokyo e le elezioni presidenziali americane è parecchio sfortunata. Il fatto che il Giappone si trovi in uno stato di incertezza non aiuta a prepararsi a un possibile Trump due o anche a un’amministrazione Harris probabilmente più aggressiva sulla Cina. A risentirne anche la proiezione di Tokyo, che negli scorsi anni era diventato un punto di riferimento per il sistema di alleanze americane e per i vicini asiatici. Nella regione appare quindi un nuovo, imprevisto, punto di domanda. Le risposte del Giappone potrebbero non arrivare così presto.
Lorenzo Lamperti
Perù. Gustavo Gutiérrez, un piccolo gigante
È morto a Lima, sua città natale, lo scorso 22 ottobre. Padre Gustavo Gutiérrez Merino, sacerdote, filosofo e teologo peruviano, aveva 96 anni. In gioventù, parroco nel distretto del Rímac, nel 1971 divenne conosciuto a livello mondiale per la sua «Teología de la liberación: perspectivas», un lavoro di enorme portata, non soltanto per la teologia e la Chiesa cattolica. Nel 1974, fondò l’istituto Bartolomé de Las Casas, che in breve tempo si sarebbe affermata come una prestigiosa istituzione di ricerca su teologia e povertà. Nel 2001 entrò nell’ordine dei Domenicani.
Nel corso della sua vita, padre Gutiérrez si è dedicato all’analisi e alla denuncia della povertà e delle disuguaglianze nel continente latinoamericano. La sua proposta centrale è così riassumibile: di fronte all’ingiustizia strutturale creata dall’ordine sociale ed economico prevalente, i cristiani debbono non soltanto denunciare ma anche agire. E proprio da qui, da questo concetto rivoluzionario, sono scaturite tutte le polemiche e le accuse – da parte del potere e dei settori più conservatori della società – di aver trasformato la teologia in teoria politica e, per di più, di sinistra.
Abbiamo avuto modo di constatare di persona quanto le sue idee potessero suscitare reazioni di fastidio all’interno della stessa Chiesa cattolica. Una volta il cardinale Augusto Cipriani (all’epoca, primate del Perù), in risposta a una domanda su padre Gutiérrez, ci disse: «L’ho incontrato. Non è mio compito valutare la sua coscienza, il suo mondo interiore. Credo però che egli abbia un obbligo di giustizia importante: scrivere un libro per spiegare i concetti fraintesi nelle sue prime opere».
Per due volte, nel 1998 e nel 2004, nella capitale peruviana abbiamo incontrato padre Gutiérrez. C’impressionò subito per la forza che sprigionava dalla sua figura minuta. Nel 2004, quando lui era professore alla facoltà di teologia della statunitense University of Notre Dame, nell’Indiana, gli chiedemmo come – a suo parere – stesse la Teologia della liberazione. «Sta bene – rispose -. In questi anni stiamo lavorando su nuove dimensioni e approfondendo un’intuizione originale, che nei nostri primi scritti avevamo chiamato “la complessità della libertà”. Questo significa, in sintesi, prestare attenzione non solo agli aspetti economici della realtà ma anche a quelli etnici, culturali, di genere, ecc. Un’altra dimensione che stiamo sottolineando è la critica al pensiero unico neoliberista. Il nostro punto di partenza è l’opzione preferenziale per i poveri (opción preferencial por los pobres) che, ancora oggi, costituisce il centro della Teologia della liberazione».
Sempre durante quell’intervista, padre Gutiérrez spiegò: «Una volta un giornalista mi chiese se fossi pronto a scrivere di Teologia della liberazione come avevo fatto vent’anni prima. Io gli chiesi se fosse sposato. Lui mi rispose di sì, allora gli chiesi di nuovo: scriveresti a tua moglie una lettera d’amore come hai fatto vent’anni fa? Per me è lo stesso. Per me scrivere teologia è scrivere una lettera d’amore a Dio, alla Chiesa a cui appartengo, al mio popolo, e questo è il mio progetto».
Padre Gutiérrez era consapevole delle difficoltà: «C’è – ci disse nel 1998 – una povertà che persiste, che dura, che continua nel tempo. Credo che la distanza tra i più poveri e i più ricchi si faccia più grande». Nel 2010, in un’intervista per l’Università cattolica di Lima (Pucp), osservò: «Il continente più diseguale del mondo è l’America Latina, eppure la stragrande maggioranza della popolazione latinoamericana è cristiana, cattolica ed evangelica. Il cristiano sa che deve amare il prossimo e preferibilmente il più povero. La realtà non sembra rispondere a questa richiesta».
Cosa rimane oggi della Teologia della liberazione? Rimane l’«opzione preferenziale per i poveri» – la scelta di una società in cui i meno fortunati siano al centro – che ne è un principio fondante. L’espressione, che risale ai documenti ufficiali dei vescovi dell’America Latina (Conferenza di Medellìn del 1968, Conferenza di Puebla del 1979), è stata infatti fatta propria da papa Francesco già al momento del suo insediamento, nel marzo 2013.
Sei mesi dopo quella data, esattamente il 12 settembre, Francesco e padre Gutiérrez si ritrovarono in un incontro privato a Casa Santa Marta, in Vaticano. Un grande atto di stima e affetto del pontefice argentino nei confronti del teologo peruviano.
Paolo Moiola
Italia. Israeliani e palestinesi per la pace
Nonviolenti palestinesi e israeliani in Italia per testimoniare il loro lavoro comune per la pace e chiedere la fine della guerra.
Due attivisti israeliani e due palestinesi, accomunati dall’obiezione alla guerra, dal 16 ottobre stanno girando l’Italia per portare le loro testimonianze e il loro appello alla pace in diverse città dal Nord al Sud, incontrando cittadini, studenti, istituzioni.
Chiedono alle istituzioni, all’Unione europea, al nostro governo, di riconoscere lo status di rifugiati politici a tutti gli obiettori di coscienza, disertori, renitenti alla leva, che fuggono dalle guerre e chiedono asilo e protezione.
«Vengono da Israele e Palestina, dove il diritto internazionale viene calpestato – recita un comunicato del Movimento nonviolento, organizzatore del tour nell’ambito della Campagna di obiezione alla guerra -, per rivendicare il diritto all’obiezione di coscienza! Lavorano insieme e rifiutano la guerra, l’esercito, le armi, l’odio».
Sono gli israeliani Sofia Orr e Daniel Mizrahi e le palestinesi Tarteel Al-Junaidi e Aisha Omar.
Sofia Orr ha rifiutato di arruolarsi per il servizio militare obbligatorio nell’Idf, l’esercito israeliano, nel febbraio 2024, ed è stata condannata al carcere militare. Daniel Mizrahi, figlio di coloni ebrei nei territori occupati, ha fatto anche lui obiezione di coscienza, subendo la stessa sorte. La palestinese Tarteel Al-Junaidi è attivista nonviolenta per i diritti umani. Aisha Omar, cresciuta nella Territori palestinesi occupati, sostiene gli obiettori israeliani e ne fa conoscere ai palestinesi l’attività contro la guerra e l’occupazione.
I quattro rappresentano due importanti movimenti: Mesarvot, una rete di giovani israeliani obiettori di coscienza al servizio militare, e Community peacemaker teams (Cpt), sezione palestinese, che sostiene la resistenza nonviolenta contro l’occupazione israeliana.
Mesarvot è una rete che si oppone al regime di occupazione dei territori palestinesi con manifestazioni congiunte israelo-palestinesi in tutto il Paese, chiedendo un accordo sugli ostaggi, la fine del genocidio a Gaza, del conflitto in Medioriente e il raggiungimento di una soluzione diplomatica.
I suoi attivisti portano l’attenzione sui crimini commessi dall’esercito e incoraggiano i giovani israeliani ad assumersi la responsabilità personale di disobbedire al governo. In più forniscono sostegno, anche legale, a chi decide di rifiutare il servizio militare in un paese nel quale gli obiettori subiscono lunghe detenzioni e le voci dissidenti vengono represse brutalmente.
Il Cpt è uno tra i molti gruppi palestinesi di resistenza nonviolenta. Lavora contro la violenza dell’occupazione israeliana, in particolare in Cisgiordania, ad esempio con il monitoraggio dei posti di blocco israeliani attraversati dai bambini palestinesi per andare a scuola, documentando le continue violazioni dei diritti umani. Il docufilm «Light», proiettato durante il giro italiano dei quattro attivisti, racconta proprio l’impegno del Cpt.
Nelle varie tappe (di cui si può leggere il diario sul sito di «Azione nonviolenta»), i quattro testimoni hanno incontrato la cittadinanza durante incontri pubblici, studenti, giornalisti, sindaci, vescovi.
Ieri, 24 ottobre, hanno fatto un’audizione alla Commissione permanente per i diritti umani della Camera dei deputati seguita da un incontro pubblico, un incontro presso il Dicastero vaticano per lo sviluppo umano e integrale e da una conferenza stampa a Montecitorio.
Come ha scritto Pasquale Pugliese, già presidente del Movimento nonviolento, su Comune.info, «Mentre nessuna organizzazione internazionale sembra essere in grado di fermare la violenza cieca dell’esercito israeliano, che dopo oltre 42.000 vittime palestinesi tra Gaza e Cisgiordania invade il Libano, attacca le basi Unifil, colpisce la Croce Rossa, cerca la guerra con l’Iran; mentre nessun governo occidentale, anche apparentemente dissentendo in pubblico con le sue scelte belliche, si decide in verità a interrompere l’invio di armi al governo di Netanyahu; mentre da oltre un anno grandi manifestazioni in ogni parte del mondo, e nella stessa Israele, non riescono a spezzare la spirale di violenza e di odio; mentre accade tutto questo c’è chi trova il coraggio di resistere dal basso, proprio dentro il cuore di tenebra della guerra, rifiutando la logica della violenza, del nemico e dell’odio: ha il volto di giovanissimi israeliani che rifiutano il servizio militare e di altrettanto giovani palestinesi impegnati nella resistenza nonviolenta».
Luca Lorusso
Il popolo di san Giuseppe Allamano in festa
Roma, 21 ottobre. «Questa mattina, alla sessione del sinodo, sono andato a ringraziare il Santo Padre, che era lì con noi, per il dono della canonizzazione», racconta il cardinale Giorgio Marengo, in chiusura alla sua omelia della messa di ringraziamento. Nella splendida cornice della basilica di san Paolo fuori le mura, si ritrovano i missionari, le missionarie e centinaia di pellegrini che domenica 20 ottobre hanno partecipato alla canonizzazione di Giuseppe Allamano. «Mi ha colpito – continua Marengo -, perché, sedutomi davanti a lui, mi ha preso le mani e mi ha detto “Coraggio, avanti”. Quello che ci diceva sempre san Giuseppe Allamano».
La celebrazione inizia con una danza africana realizzata da suore e novizie, che scalda subito l’atmosfera. Sfilano vestite con colori africani, a dominante azzurra. Dietro alle danzatrici, fanno il loro ingresso centodieci sacerdoti vestiti di bianco, due fratelli missionari, seguiti da ventidue vescovi e, in ultimo, dal cardinale Marengo. È lui che, con la sua solita semplicità, ma al tempo stesso profondità, prende la parola: «Oggi è un giorno di ringraziamento per san Giuseppe Allamano. È il primo giorno nel quale possiamo chiamarlo così». Le sue parole, quasi emozionate, scatenano l’euforia dei presenti.
Sono di tanti Paesi, svariate lingue e culture a ritrovarsi, oggi pomeriggio, nella basilica.
Spicca una folta delegazione di fedeli di Roraima, lo stato del Brasile dove è avvenuto il miracolo della guarigione dell’indigeno yanomami Sorino. Sono riconoscibili per la maglietta che indossano, con il motto dell’Istituto Missioni Consolata scritto in portoghese: «Annunziate la mia gloria alle nazioni» (Is 66,19), e con i loghi della diocesi di Roraima e quello ufficiale della canonizzazione. Poi tante fedeli africane, con vestiti dai tipici colori sgargianti, e moltissime religiose. Ci sono anche i laici missionari della Consolata, e i tanti amici del nuovo santo venuti da quattro continenti. Quasi tutti hanno al collo il foulard realizzato per la canonizzazione.
Iniziano le letture. Poi il salmo viene recitato da uno studente e una studentessa missionari, e il coro risponde cantando in maniera delicata «Popoli tutti, lodate il Signore».
Dopo la seconda lettura, parte di nuovo il coro, diretto dall’accalorato padre Douglas Lukunza del Kenya. I musicisti – tastiera, batteria, due djembé (tamburi africani) e pure un bravo violino – sono altri studenti missionari, tutti africani. Il coro variegato segue i movimenti del direttore, che non si limita a muovere le braccia, ma dirige il canto ballando con tutto il corpo. Una danza che, in pochi secondi, contagia tutti i presenti. È l’espressione dell’entusiasmo della grande festa.
Con la preghiera dei fedeli torna la calma. Alcuni lettori e lettrici si alternano nelle diverse lingue: italiano, inglese, portoghese, spagnolo, coreano, kiswahili e francese. A leggere quest’ultima è una ragazza migrante del Burkina Faso, attualmente a Oujda in Marocco (dove c’è una missione della Consolata). La sua è una supplica toccante, forse perché nasce dall’esperienza personale: chiede di pregare affinché i governi rendano più vivibili i Paesi del mondo, in modo tale che i giovani non siano più costretti a partire.
Anche durante questa celebrazione di ringraziamento, come nei giorni scorsi, il collegamento con l’Amazzonia è forte: all’offertorio, oltre al pane e al vino, viene portato anche un tipico copricapo indigeno, fatto di piume blu e gialle del grande pappagallo ara, mandato da coloro, spiega la voce di commento, «che sono assetati di fede e di giustizia».
Ma oltre alla festa, il ringraziamento è pure un momento di riflessione, stimolata dalle parole, talvolta provocatorie, del cardinale Marengo che nella sua omelia si sofferma sull’importanza della contemporaneità: l’impegno deve essere «una successione continua di oggi e qui», e occorre «attingere la forza per la missione dalla contemplazione».
«Dobbiamo dircelo: la sua santità (di Allamano, ndr) ci deve scuotere, altrimenti non ci gioverà. I nostri istituti attraversano un momento delicato della loro storia, con incertezze nei cammini del mondo. Oggi non è solo un punto di arrivo, deve essere anche un punto di ripartenza».
Considerando il percorso e gli sforzi fatti per arrivare a questa canonizzazione, «tutto sarà ripagato se prenderemo sul serio questo oggi, l’avere gli occhi fissi sul Signore, teneramente amato e servito da san Giuseppe Allamano, e realizzeremo davvero il suo desiderio di vederci famiglia della Consolata che si vuole bene e che arde di zelo apostolico».
La cerimonia si avvia alla conclusione con il canto del Magnificat in versione africana, danzato e cantato da tutti i presenti. Il cardinale incensa lo stendardo con il volto di Giuseppe Allamano, che pare sorridente come non mai. Anche lui, oramai coinvolto nella festa.
La messa di ringraziamento conclude la fase romana delle celebrazioni per la canonizzazione di san Giuseppe Allamano, iniziate con la veglia di preghiera di sabato 19 ottobre.
Nei prossimi giorni seguiranno eventi e celebrazioni a Castelnuovo don Bosco (At), paese natale di Allamano (il 23 ottobre) e a Torino, alla Consolata (il 24) e nella chiesa del santo in corso Ferrucci 18 (il 25).
Marco Bello
HIGHLIGHTS MESSA DI RINGRAZIAMENTO (Fr. Adolphe Mulenguzi)
Oggi, 20 ottobre 2024, Giuseppe Allamano è ufficialmente santo. La messa di proclamazione, in piazza San Pietro, è stata intensissima.
Città del Vaticano. Fin dalle 7 del mattino, a giorno non ancora fatto, lunghe code di pellegrini aspettano ai controlli della polizia, necessari per entrare nella piazza.
Il popolo di Giuseppe Allamano è arrivato dai quattro continenti il giorno prima. Nella coda, tra la gente che si stropiccia gli occhi, si sentono decine di lingue: portoghese, spagnolo, francese, inglese, italiano, kiswahili. Ma anche l’Asia c’è, con la Corea, la Mongolia e Taiwan.
Su alcune bacchette viene issata l’immagine del futuro santo, nella sua versione colorata o «pop art», che resta un riferimento tra la marea di teste.
Oggi saranno, infatti, «canonizzati», termine tecnico, anche Elena Guerra, Marie-Léonie Paradis e gli undici martiri di Damasco (Manuel Ruiz e compagni).
Ci si distingue anche per il foulard, bianco ma colorato con le 35 bandiere dei paesi dove lavorano i missionari e le missionarie della Consolata, e con l’effige di Allamano e della Consolata.
L’organizzazione ha anche previsto per tutti un badge verde con il logo studiato ad hoc per questo giorno.
Entriamo tra i primi, dopo il controllo metal detector.
La platea davanti alla scalinata di San Pietro è ancora da riempire.
I pellegrini sono assonnati, ma si vede la gioia e l’eccitazione. Molti si salutano, si abbracciano. È spesso un rivedersi dopo anni, talvolta un incontrarsi per la prima volta, entrando subito in sintonia.
Intanto si è fatto giorno. È nuvoloso, ma non piove.
È ancora un momento di attesa, e si approfitta per farsi delle foto, dei video, scambiarsi un contatto o un sorriso.
Vediamo una folta delegazione dall’Uganda, poi la bandiera del Kenya (primo paese di missione dei Missionari della Consolata). Il Congo Rdc è presente, così come la Costa d’Avorio.
A un certo punto compare la bandiera del Marocco: è il gruppo di Oujda, del quale fanno parte anche alcune migranti subsahariane.
Vediamo anche il gruppo dei laici della Consolata del Portogallo, con le magliette del loro 25° anno di esistenza. E poi tantissime suore, di svariate età e nazionalità.
Così metà della piazza, quella con i posti a sedere, si è riempita.
Intanto, alla sinistra dell’altare si siedono cardinali, vescovi e sacerdoti. Alla destra, invece, le autorità e i diplomatici.
Dopo il rosario in latino, inizia uno scampanio, poi il coro ufficiale intona alcune canzoni diffuse con i potenti altoparlanti in tutta la piazza.
L’attesa si fa più intensa tra le migliaia di persone da tutto il pianeta, spaccato di umanità.
Alle 10,20, quasi all’improvviso, arriva Papa Francesco sulla sua carrozzina e si siede sulla poltrona papale. Tenue, quasi sotto voce, sul lato destro della platea, un gruppo di pellegrini intona: «Papa Francesco, papa Francesco». Altri iniziano, è come se il coro si spostasse nello spazio antistante alla basilica, e intanto diventa «Papa Francisco», per culminare con un grande applauso.
Nel frattempo è comparso un tenue sole.
Scorgiamo evidente, in prima fila del gruppo di sedie delle autorità, il presidente Sergio Mattarella.
La celebrazione ha inizio. Vengono lette le brevi biografie dei nuovi santi. Quando è nominato Giuseppe Allamano, parte un applauso dalla piazza.
«Vince non chi domina, ma chi serve per amore», dice il Papa nella sua omelia, a commento del Vangelo del giorno.
«Gesù svela pensieri nel nostro cuore smascherando, talvolta, i nostri desideri di vanità e di potere».
E poi ci insegna lo «stile di Dio», ovvero il «servizio». Le parole magiche per il Papa sono: «Vicinanza, compassione e tenerezza, applicate all’azione di servire. […] A questo dobbiamo anelare».
Uno stile che nasce dall’amore e non ha una scadenza o un limite.
«I nuovi santi hanno vissuto questo stile di Gesù: il servizio», continua il Papa.
All’Angelus papa Francesco mette l’accento sui popoli indigeni: «La testimonianza di san Giuseppe Allamano ci ricorda la necessaria attenzione verso le popolazioni più fragili e vulnerabili. Penso in particolare al popolo Yanomami, nella foresta amazzonica brasiliana, tra i cui membri è avvenuto proprio il miracolo legato alla sua canonizzazione. Faccio appello alle autorità politiche e civili affinché assicurino la protezione di questi popoli e dei loro diritti fondamentali e contro ogni forma di sfruttamento della loro dignità e dei loro territori».
Il nome «Yanomami», dunque, echeggia in piazza san Pietro, proprio grazie al nuovo Santo.
Papa Francesco conclude con un giro in carrozzina a salutare i cardinali, per poi salire sulla papamobile, e fare un lungo percorso nella piazza. I pellegrini e i fedeli hanno oramai lasciato le loro sedie e si affollano alle transenne per salutare il Santo Padre.
Una volta passato, inizia il lento deflusso di alcune migliaia di persone, mentre gruppi di svariate nazionalità e lingue si fanno le ultime foto sulla piazza, con lo sfondo della Basilica di San Pietro sulla quale spicca lo stendardo di san Giuseppe Allamano.
Sul rapporto fra l’azione dei missionari/e in Africa e il Piano Mattei urge chiarezza. L’occasione per farla ce le dà la prossima, cosiddetta «Conferenza dei missionari italiani», che si svolgerà il prossimo 23 ottobre su impulso del ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale e nell’ambito della riunione ministeriale G7 sullo sviluppo.
L’incontro, si legge sul sito della Farnesina, «avrà come tema il contributo delle realtà missionarie allo sviluppo sostenibile delle popolazioni presso cui prestano la propria missione, sottolineando l’impatto delle loro opere attraverso la condivisione di storie di successo e buone prassi. L’evento incentrerà i propri lavori sul rafforzamento delle opportunità di istruzione e formazione in Africa sub-sahariana a favore dei giovani, anche in virtù dei collegamenti con il Piano Mattei e con il nesso migrazioni-sviluppo».
Iniziamo col dire che il nome di questa iniziativa è fuorviante: dapprima perché rischia di sovrapporsi alla «Conferenza degli istituti missionari italiani» (Cimi), che è altra cosa e che non prenderà parte alla conferenza abruzzese. Più generale, il titolo di questo incontro lascia pensare che tutto il mondo missionario voglia parteciparvi e condivida la sua prospettiva positiva rispetto al Piano Mattei, quando così non è.
La questione centrale però va oltre i titoli e le parole. Punta dritto al cuore del Piano Mattei e al suo approccio nei confronti dell’Africa, che noi non ci sentiamo di condividere, vista la sua mancanza di prospettive e di ascolto verso le vere necessità del continente.
Saremo sempre pronti a discutere di sviluppo sostenibile in Africa e a fornire il nostro punto di vista, condividendo la nostra lunga esperienza sul campo. Preferiamo farlo però in altre sedi, meno vincolate ai promotori del piano e per questo più inclini a produrre riflessioni libere e costruttive.
Senza consapevolezza non ci sono speranze di cambiamento. Potrebbe essere riassunta così la motivazione che spinge il Centro nuovo modello di sviluppo (Cnms) a predisporre ogni anno (siamo alla 14a edizione) un report sulle 200 multinazionali economicamente più importanti. L’argomento di per sé sarebbe molto complesso, ma il Cnms coordinato da Francesco Gesualdi (da anni collaboratore della rivista Missioni Consolata, ndr) riesce a renderlo comprensibile a tutti, con testi chiari, tabelle e grafici esplicativi.
Il confronto tra la situazione del 2013 e quella del 2023 indica le tendenze in atto. I dipendenti delle 200 più grandi multinazionali sono aumentati in dieci anni da 39 a 42 milioni (+7,8%), il fatturato da 20mila a 27mila miliardi di dollari (+33%) e i profitti da 1.438 a 2.114 miliardi di dollari (+47%). Tra le Top200 soltanto 9 chiudono il 2023 con perdite anziché profitti. La peggiore è la russa Gazprom che nel 2023 con un fatturato di 100 miliardi di dollari, ha registrato un disavanzo di 7,3 miliardi.
Tra le Top200 ce ne sono 60 con sede negli Usa, 55 in Cina, 16 in Giappone, 12 in Francia e 11 in Germania. Le italiane sono 2: Enel al 97° posto (61mila dipendenti, 103 miliardi di fatturato e 3,7 miliardi di profitti) e Eni al 98° (33mila dipendenti, 102 miliardi di ricavi e 5,1 miliardi di utili).
Restringendo il campo di osservazione alle prime 10 multinazionali, si scopre che 6 hanno la sede principale negli Usa, 3 in Cina e 1 in Arabia Saudita. L’Europa è fuori dalla Top10. Al primo posto della classifica troviamo stabilmente Walmart, nel settore del commercio e dei trasposti, con 2,1 milioni di dipendenti, 648 miliardi di dollari di fatturato e 15,5 miliardi di profitti. Al secondo posto si colloca Amazon con 1,5 milioni di lavoratori, 575 miliardi di ricavi e 30,4 miliardi di dollari di guadagni. Sul terzo gradino del podio c’è la cinese State Grid (che fornisce gas, luce e acqua) con 1,3 milioni di dipendenti, un giro d’affari di 545 miliardi e 9,2 miliardi di utili.
Al di là della fotografia della situazione attuale è utile cercare di comprendere l’evoluzione della classifica delle multinazionali. Ad esempio, si può notare come Amazon in un decennio sia passata dal 112° al 2° posto della graduatoria. State Grid dieci anni fa era al 7° posto ed ora è al 3°. Apple raggiunge il 7° posto provenendo dal 15°. La finanziaria americana UnitedHealth Group sale dal 39° all’8° posto. A fare evidenti passi indietro sono invece le principali società multinazionali che si occupano di energia e petrolio: Shell che scende dal 2° al 13° posto, Exxon Mobil dal 5° al 12° e BP dal 6° al 25° posto.
Dai dati presenti nel report si può calcolare il rapporto tra profitti e fatturato, evidenziando i relativi margini di utile. In questa logica al 1° posto troviamo la Taiwan Semiconductor Manufacturing con profitti pari al 39,4% del fatturato, seguita dalla banca svizzera Ubs con il 39%, dalla Johnson & Johnson nel settore della chimica con il 36,9% e dalla Microsoft con il 34,1%.
In alcuni settori si nota una predominanza cinese. Ad esempio, sono cinesi 6 delle 7 multinazionali delle costruzioni inserite in Top200, 6 su 8 della metallurgia e minerali, 6 su 9 della chimica e farmaceutica. Nel settore bancario, assicurativo e della finanza ai primi 14 posti troviamo 8 multinazionali degli Usa e 6 della Cina.
Particolarmente illuminante è il confronto tra i fatturati delle multinazionali e le entrate degli stati. In una classifica unificata ai primi 100 posti troviamo 70 stati nazionali e 30 multinazionali. La Walmart ha ricavi superiori alle entrate dell’Australia e di poco inferiori a quelle della Spagna. La Saudi Aramco ha un fatturato nettamente superiore alle entrate dello stato dell’Arabia Saudita.
Le classifiche sulle multinazionali in realtà rappresentano soltanto la prima parte del report predisposto dal Cnms, che contiene alcuni approfondimenti davvero interessanti. Il primo focus è sulle più importanti società «multifondo», che investono denaro in partecipazioni societarie: in particolare vengono analizzate le multinazionali statunitensi Black Rock, Vanguard, Fidelity e State Street, che complessivamente gestiscono patrimoni per quasi 30mila miliardi di dollari. Si tratta di una cifra enorme che può condizionare fortemente la finanza, l’economia e la politica mondiali.
Un altro approfondimento ricostruisce le vicende e le contraddizioni dell’impero economico e patrimoniale di Elon Mask, oggi considerato l’uomo più ricco del mondo. Molto attuale è anche la pagina dedicata alle azioni di boicottaggio delle multinazionali che conducono affari in Israele, che mostra come in alcuni casi stiano funzionando.
Non mancano i dati sulle multinazionali di origine europea, oltre alla preziosa informazione che l’Unione europea ha recentemente approvato una normativa che impone alle aziende che producono e vendono in tutto il mondo l’obbligo di verificare che lungo tutte le proprie filiere produttive e commerciali siano rispettati i diritti umani e l’ambiente.
Il sottotitolo del report Top200 è inequivocabile: «La crescita del potere delle multinazionali». Dopo averlo letto è più facile capire le pressioni e i condizionamenti che le multinazionali possono esercitare nei confronti del potere pubblico. «Possiamo – ha detto il giudice Louis D. Brandeis (membro della Corte Suprema degli Stati Uniti dal 1916 al 1939) – avere la democrazia o la ricchezza concentrata nelle mani di pochi, ma non possiamo avere entrambe le cose»
Rocco Artifoni
Corea del Sud. Dialogo tra fedi in vista della Gmg 2027
La prossima Giornata mondiale della Gioventù, che si terrà nel 2027 in Corea del Sud, «sarà un’occasione di dialogo tra le fedi – ci dice l’arcivescovo di Seul e amministratore apostolico di Pyongyang (Corea del Nord), monsignor Peter Soon-Taick Chung -. La Corea non è un paese cattolico, ci sono tante diverse religioni e quindi questo grande evento sarà una buona occasione di dialogo e anche per rinsaldare un ponte tra diverse fedi, per comunicare, per fare unità, e per costruire la pace».
Incontriamo monsignor Peter Soon-Taick Chung a Roma, a margine delle iniziative di preparazione, insieme al Dicastero vaticano per i laici, la famiglia e la vita, della prossima Giornata mondiale dei giovani. Il Papa ha fortemente voluto che si celebri in Asia, un continente dove i cattolici sono in crescita e dove la fede si coniuga, lì dove non ci sono situazioni di persecuzione, con le altre fedi.
Sarà la prima volta che la Gmg si celebrerà in un paese nel quale i cattolici sono una minoranza. In Corea del Sud, infatti, dice l’arcivescovo, «la metà della popolazione non professa alcuna religione, più o meno il venti per cento è buddista, un altro venti per cento è protestante e solo il dieci per cento è cattolica».
«I rapporti tra le religioni in Corea sono molto buoni», assicura l’arcivescovo elencando i tratti positivi delle altre religioni. «Nel buddismo, la principale caratteristica è la generosità. I protestanti sono dinamici, pieni di energia, e sono fratelli in Cristo. Con tutti abbiamo una buona relazione nella quotidianità. I nostri giovani sacerdoti hanno stretto amicizia con i monaci buddisti e i giovani pastori protestanti. E quindi immaginiamo la Giornata mondiale della Gioventù come un momento di dialogo e un vento di pace».
Monsingor Peter Soon-Taick Chung, che è anche il presidente del Comitato organizzatore locale di Seul 2027, confida: «Il sogno è che il raduno dei giovani con il Papa possa arrivare in un momento di pace per il mondo. La pace tra le due Coree, sì, ma non solo. In questo tempo in cui assistiamo a così tanti conflitti, io sogno la pace per tutti e la Gmg sarà una buona opportunità per edificarla insieme a tutti i giovani del mondo».
La speranza è di vedere a Seul anche i giovani della Corea del Nord: «Noi abbiamo la volontà di invitarli. Speriamo, e soprattutto preghiamo, perché la loro presenza possa diventare realtà». E prosegue: «Durante i periodi di persecuzione nell’Ottocento, i primi fedeli coreani inviarono lettere accorate al Papa, chiedendo missionari per preservare la loro fede e per unirsi alla Chiesa universale. Questo appello spinse Papa Gregorio XVI (1831-1846, ndr) a istituire nel 1831 il Vicariato apostolico di Chosun, inviando così missionari e permettendo alla fede di prosperare nonostante le persecuzioni. Proprio come ha fatto con la Chiesa coreana primitiva, il Pontefice – dice riferendosi a Papa Francesco – ha accolto ancora una volta la richiesta della nostra Chiesa, invitando i giovani di tutto il mondo a unirsi al pellegrinaggio della Gmg di Seoul 2027».
I giovani che verranno, conclude, saranno «missionari coraggiosi, ispirati a vivere la gioia del Vangelo».
Manuela Tulli
Antartide. Da bianca a verde
C’è muschio in Antartide e non è una buona notizia. Di norma, il continente del Polo sud – esteso 14 milioni di chilometri quadrati (più dell’intera Europa) – dovrebbe ospitare soltanto neve, ghiaccio permanente e roccia.
Oggi non è più così, e anche in questo caso la responsabilità è del cambiamento climatico. Gli scienziati se ne sono accorti monitorando l’Antartide con le immagini satellitari. Per tradurla in numeri, negli ultimi cinque anni la zona coperta da vegetazione è passata da 0,863 chilometri quadrati a 11,947, aumentando di 14 volte. La vegetazione (in gran parte, piante di muschio) ha guadagnato 40 ettari all’anno. Gli studiosi non hanno dubbi sulle cause: il surriscaldamento antropogenico.
Fino a un paio di anni fa, l’Antartide suscitava meno preoccupazioni dell’Artico (dove le temperature stanno aumentando molto più velocemente rispetto alla media globale). In epoca recente, la situazione è peggiorata. Nel 2023, il ghiaccio marino antartico – ovvero quello che si forma quando l’acqua congela nell’oceano – ha registrato la più bassa estensione estiva di sempre, con solo 2,06 milioni di chilometri quadrati di copertura.
«Poiché il ghiaccio è di colore chiaro – si legge sul sito di Copernicus, il programma di osservazione terrestre dell’Unione europea -, riflette la luce solare incidente nell’atmosfera, un processo noto come “effetto albedo“. Questo impedisce alla maggior parte del calore di essere assorbito dall’oceano. Tuttavia, quando la copertura del ghiaccio marino diminuisce a causa del riscaldamento globale, l’acqua superficiale assorbe più calore. Questo porta a un circolo vizioso, un “ciclo di feedback”, in cui il riscaldamento porta allo scioglimento dei ghiacci marini, il quale porta a un ulteriore riscaldamento».
In parole povere, il fenomeno potrebbe aggiungere molto più calore al pianeta, interrompendo il ruolo dell’Antartide come regolatore delle temperature globali. Quasi ciò non bastasse, la diminuzione dei ghiacci marini produce una serie di conseguenze a catena: aumento del livello degli oceani, mutamenti nella crescita del plancton e, quindi, della catena alimentare marina, apertura di nuove rotte di navigazione e, dunque, di nuove invasioni umane.
L’Antartide non è che uno dei tanti esempi del cambiamento climatico e delle sue drammatiche conseguenze. Però, a dispetto di queste evidenze, i sostenitori del negazionismo non rinsaviscono. Anche in Italia.
Un esempio tratto dalle prime pagine di due quotidiani nazionali dello scorso 9 ottobre. Su La Verità si leggeva: «Al Nord mai così freddo da 30 anni. Caldaie accese in anticipo… Il surriscaldamento globale non si è palesato e ha beffato Beppe Sala. Che di fronte al brusco calo termico degli ultimi giorni, che ha mandato in soffitta il refrain sull’autunno “più caldo di sempre”, si è arreso e ha detto ai milanesi di accendere i caloriferi». Sullo stesso tema, il quotidiano Libero scriveva: «Anche quest’anno a Milano patiremo un po’ più di freddo perché il sindaco Sala ha deciso di abbassare di un grado l’asticella dei termostati – 19 gradi invece dei 20 previsti per legge – in nome del solito ambientalismo. Ci saranno due gradi di tolleranza, ma oltre non si andrà per buona pace della litania green».
Il negazionismo usa spesso il «meteo» come sinonimo di «clima», commettendo un grave errore concettuale e scientifico. A quanto pare, però, il metodo è efficace per dare origine alle fake news di cui il negazionismo si nutre.