Ventimiglia. Refus d’entreé

Ventimiglia. Hamza Alami, 17 anni del Marocco, è seduto nel dehor del bar Anthony di fronte alla stazione di Ventimiglia. È appena arrivato con un treno da Torino insieme a un amico. Scorrono gli orari del treno sul cellulare e ogni tanto danno uno sguardo al grande orologio della stazione. Poi provano ad avvicinarsi all’ingresso presidiato da un’agente della polizia e due militari dell’esercito italiano che controllano i documenti. Con fare preoccupato si allontanano e si siedono su un muretto, in attesa del momento propizio per attraversare il confine in treno, così come decine di altre persone migranti sedute tra i bar e i gradini della stazione. Hamza sa che, per arrivare in Francia, la sua meta definitiva, mancano solamente 17 minuti di treno e 3,50 euro di biglietto. Troppo poco per desistere ora. Soprattutto se alle spalle si ha un viaggio di oltre un mese. Partiti da Fez, in Marocco, il 17 agosto, con il loro passaporto hanno viaggiato in aereo fino in Turchia. Da lì è iniziata la risalita lungo la rotta balcanica, attraverso la Bulgaria, Serbia, Ungheria, Austria per poi arrivare in Friuli da cui hanno preso diversi treni fino a Ventimiglia. Una via inusuale in questo periodo in cui la maggioranza di persone, principalmente di origine sudanese, eritrea, e dell’Africa francofona, arriva nella città ligure dalla rotta del Mediterraneo centrale via Lampedusa.

«Abbiamo camminato notte e giorno per un mese. Siamo esausti e feriti. Passando la frontiera tra Bulgaria e Serbia mi sono squarciato la mano con il filo spinato. Ora siamo determinati a passare e ci proveremo in tutti i modi anche se sappiamo che la gendarmerie è ovunque e proverà a respingerci in Italia», spiega Hamza, prima di tornare verso la stazione e salire sul primo treno per Mentone, dopo averci dato il suo numero di WhatsApp. «Vi farò sapere se arrivo dall’altra parte», dice con sorriso convinto.

Ventimiglia. Ragazzi appena respinti dalla polizia francese, già passati sul lato italiano. Foto Simona Carnino

E la gendarmerie effettivamente c’è, più agguerrita che mai. Durante la sua visita a Mentone del 13 settembre scorso, il primo ministro dell’Interno francese, Gérald Darmanin, aveva annunciato una chiusura pressoché totale della frontiera con Ventimiglia, in seguito all’aumento esponenziale degli arrivi a Lampedusa nei mesi di agosto e settembre.

«Abbiamo visto in queste ore un maggior dispiegamento delle forze francesi sulla linea ferroviaria e sui valichi di frontiera di ponte San Luigi e ponte San Ludovico. Inoltre, sono stati impiegati reparti dell’esercito per intercettare i migranti sui sentieri di montagna sulla parte della frontiera della val Roja verso Sospel e Breil, cosa che non avevamo mai visto» spiega Jacopo Colomba, project manager di We World che, insieme a Diaconia Valdese, fornisce orientamento legale ai migranti a Ventimiglia.

La Francia, che ha sospeso gli accordi di Schengen e ripristinato le frontiere interne dal 2015 dopo l’attentato del Bataclan, ufficialmente per ragioni di sicurezza, ufficiosamente per limitare l’accesso dei migranti, in realtà è da otto anni che prova a respingere tutti, anche i minorenni, che, secondo la Convenzione di Ginevra, hanno il diritto di essere presi in carico in qualsiasi paese di arrivo.

In queste ore però i controlli sono a tappeto, e se fino a giugno si verificavano circa 80 respingimenti quotidiani, secondo il recente report «Vietato passare» di Medici senza Frontiere, ora vengono «rimbalzate» a Ventimiglia tra le 100 e le 150 persone ogni giorno. La gendarmerie ferma qualsiasi auto in arrivo dall’Italia. Controlla gli abitacoli e ne apre i bagagliai. Alla frontiera marina di San Ludovico sono presenti decine di mezzi e verrà costruito un nuovo centro di identificazione, oltre a quello esistente alla frontiera di San Luigi. Il punto più inespugnabile però è la ferrovia. La stazione di Menton Garavan, prima fermata dopo Ventimiglia, è un posto di blocco quasi invalicabile. La gran maggioranza dei treni provenienti dall’Italia vengono setacciati in lungo e in largo da circa sette agenti della gendarmerie. Seduti in stazione, aspettano il treno, si mettono i guanti e il gilet antiproiettile ed entrano. Dopo pochi minuti, ne escono con tutti coloro che non hanno i documenti.

Ventimiglia. Ragazzi minorenni (un 14enne) respinti dalla polizia francese, ma registrati come maggiorenni a Lampedusa. Foto Simona Carnino

Lo sa bene Isaac. Si copre la testa con il cappuccio della felpa e si stringe nelle spalle seduto sul muretto sul lato italiano della frontiera di ponte San Luigi. Guarda il mare e pensa al da farsi insieme ad altri ragazzi che, come lui, sono stati fermati sul treno e respinti dalla Paf, la polizia di frontiera francese.

fine prima puntata, continua)

di Simona Carnino

Ventimiglia, passo della morte, via alternativa al treno per raggiungere Menton, in Francia. Foto Simona Carnino




India. Un turbante sikh è per sempre

Tra Canada e India c’è tensione a causa dell’assassinio di un esponente della comunità sikh, molto numerosa nel paese nordamericano. Proviamo a spiegare i termini della questione.

L’assassinio di connazionali ritenuti «scomodi» da parte dei governi di alcuni paesi non è una pratica nuova. Lo ha fatto (più volte) Vladimir Putin. Ad esempio, con l’agente Alexander Litvinenko nel 2006, a Londra. Lo ha fatto il principe saudita Mohammad bin Salman con il giornalista Jamal Khashoggi, ucciso a Istambul, nella propria ambasciata, nel 2018. Potrebbe averlo fatto anche Narendra Modi – il primo ministro indiano protagonista del recente G20 – con il leader sikh Hardeep Singh Nijjar, ucciso vicino a Vancouver, in Canada, lo scorso giugno da due sicari incappucciati.

Il sikhismo è una religione fondata nel XVI secolo nel Punjab, una regione divisa tra India e Pakistan dopo il 1947, alla fine del dominio britannico. Esso nacque con una nobile ambizione: unire indù (maggioritari in India) e musulmani (maggioritari in Pakistan) nella fede in un Dio unico. Gran parte delle credenze dei sikh (come il karma e la reincarnazione) deriva dall’induismo, ma i sikh sono monoteisti e rifiutano ogni distinzione di casta.

Nella mappa la regione del Panjab indiano, cuore della comunità sikh.

Ci sono circa 25 milioni di sikh in tutto il mondo. La stragrande maggioranza vive in India, dove costituisce circa il 2% degli 1,4 miliardi di abitanti del paese. Ma esistono comunità sikh numericamente consistenti anche in altri paesi. Il Canada ospita la popolazione più numerosa al di fuori dell’India, con circa 780mila sikh – più del 2% della popolazione del paese -, mentre sia gli Stati Uniti che il Regno Unito ne ospitano circa 500mila, l’Australia circa 200mila (come l’Italia). È importante ricordare che la comunità sikh canadese riveste un ruolo importante anche per il governo di Justin Trudeau. Il sikh Jagmeet Singh Dhaliwal, nato in Canada nel 1979 da genitori del Punjab, è parlamentare e leader del Nuovo partito democratico (Ndp), formazione politica di centro sinistra che appoggia l’attuale governo canadese. Nuova Delhi considerava Hardeep Singh Nijjar un «terrorista» in quanto esponente del Khalistan (Khalistan liberation force, Klf), movimento che si batte per la creazione di uno stato sikh indipendente nel Punjab. In India, i separatisti del Klf furono attivi soprattutto negli anni Ottanta. L’azione storicamente più eclatante avvenne il 31 ottobre 1984 quando due guardie del corpo sikh uccisero l’allora prima ministra Indira Gandhi.

Nijjar è il terzo leader sikh scomparso in pochi mesi, una sequenza questa che pare ricalcare quanto avvenuto con vari avversari di Putin.

Jagmeet Singh Dhaliwal, sikh canadese, parlamentare e leader del Nuovo partito democratico. (Immagine tratta da sikhnet.net)

Il governo Trudeau ha accusato l’India di aver ucciso Nijjar, immigrato in Canada nel 1997 e divenuto nel frattempo cittadino canadese, sul proprio territorio violando così la sovranità nazionale. Sono seguiti inevitabili scambi di accuse e proteste. La questione è delicata non soltanto per il fatto in sé, ma anche perché coinvolge l’India, nazione emergente che sta cercando di ritagliarsi un posto di rilievo sulla scena internazionale. L’assassinio del leader sikh può, infatti, compromettere le ambizioni indiane e, soprattutto, la credibilità democratica del governo nazionalista di Narendra Modi.

Paolo Moiola




Confine turco-bulgaro. Violenze e respingimenti

Un report denuncia le violenze sistematiche della polizia di frontiera contro i migranti sul confine bulgaro-turco.

«Hanno camminato per due giorni fino ad arrivare a Drachevo, nei pressi di Sredets (Bulgaria sud orientale a circa 40 km dal confine turco, nda). Poco più avanti […] hanno trovato una macchina della polizia di frontiera bulgara, e sono stati arrestati da due poliziotti in uniforme verde che gli hanno rubato i telefoni e li hanno portati alla centrale di polizia di Sredets.

Alla discesa dall’auto gli hanno tirato pugni in faccia, dopodiché sono stati fatti sdraiare pancia a terra e sono stati presi a calci per un’ora».

Il racconto si riferisce a un episodio avvenuto nel gennaio 2023, raccolto dalla voce di uno dei 24 siriani vittime della violenza e reso pubblico dagli attivisti del Collettivo rotte balcaniche alto vicentino nel report Torchlight. Gettare luce sulla violenta opacità del regime europeo dei confini.

Una volta terminato il pestaggio, prosegue il racconto, la border police ha requisito le scarpe ai migranti e li ha fatti entrare in una gabbia, la stessa ripresa in un video di Lighthouse Report datato 22 dicembre 2022.

«Alla richiesta di un po’ d’acqua da bere, la polizia ha risposto “Zitti! Oppure vi picchiamo!”. Sono stati lasciati dentro a questa gabbia, doloranti, senz’acqua, senza cibo. Ad un certo punto, passate cinque ore, la polizia è arrivata con un altro gruppo di 50 persone. Li ha caricati tutti e 75 su un camion militare per riportarli in Turchia. Prima di arrivare al confine hanno dovuto camminare due ore – ricordiamo che erano scalzi. Arrivati alla rete hanno trovato cinque soldati fermi ad aspettarli, i quali vestivano l’uniforme dell’esercito e i passamontagna neri.

I soldati hanno aperto un varco nella rete e hanno fatto passare le 75 persone una a una, picchiando senza pietà ognuna mentre varcava il confine. Quando sono passati tutti hanno sparato proiettili in aria per spaventarli».

 

Secondo i dati del ministero dell’Interno bulgaro, negli ultimi due anni si è registrato un aumento notevole degli attraversamenti illegali del confine Turchia-Bulgaria: 55mila persone nel 2021 sono diventate 168mila nel 2022 per aumentare ancora nel 2023: quasi 109mila «tentativi di attraversamento illegale fermati» dal 1 gennaio al 7 agosto, di cui 47mila nei soli mesi giugno e luglio.

«Tentativi di attraversamento illegale fermati», si traduce con «respingimenti» e, in particolare, respingimenti violenti, stando a quanto denunciato dal Collettivo rotte balcaniche e da diverse altre organizzazioni, tra cui la nota Human Right watch, e il Bulgarian Helsinki Committee.

La violenza della polizia di frontiera, dice il report, non è una violenza episodica, ma sistematica. Gli attivisti, che promettono la pubblicazione futura di altri rapporti e analisi, hanno infatti avuto modo di condurre ricerche e raccogliere testimonianze sul campo, in particolare tra le città di Harmanli e di Svilengrad, constatando la ripetitività dello schema di respingimento violento raccontato sopra.

Vale la pena scaricare e leggere il report per farsi un’idea più precisa di quello che avviene quotidianamente lungo uno dei confini della fortezza Europa: dopo un primo paragrafo che descrive il contesto bulgaro e un secondo che descrive uno dei centri di detenzione, gli altri due raccontano, anche tramite testimonianze di migranti, i respingimenti sui due confini che separano la Bulgaria dalla Turchia e dalla Serbia.

«Nonostante questo breve scritto si focalizzi sulla situazione bulgara – è scritto nell’introduzione del report -, ci preme sottolineare come le pratiche che qui osserviamo si iscrivano con coerenza e continuità nel disegno europeo “sulla migrazione e l’asilo”: il confine bulgaro-turco rappresenta in questo momento la porta terrestre d’Europa».

I diritti che l’Ue dovrebbe difendere e promuovere vengono violati scientemente e nel silenzio generale dei media. Per questo il Collettivo rotte balcaniche, oltre a «supportare attivamente le persone in transito», raccoglie testimonianze per produrre documentazione sulle violenze della polizia ai confini dell’Europa e per mobilitare la società civile.




Sahel: golpisti contro tutti, ma amici dei russi

Firmato un accordo di alleanza militare tra Mali, Burkina Faso e Niger. Ad alcuni incontri, presenti anche funzionari  del ministero della Difesa della Russia.

Il 16 settembre scorso i militari golpisti a capo delle giunte in Burkina Faso, Mali e Niger, hanno firmato a Bamako (Mali) un documento chiamato «Carta del Liptako-Gourma per una nuova alleanza degli stati del Sahel» (dal nome geografico della regione). Il burkinabè Ibrahim Traoré, il maliano Assimi Goita e il nigerino Abdourahmane Tiani hanno così creato una nuova alleanza regionale (Aes, sigla in francese), con «l’obbiettivo di stabilire un’architettura di difesa collettiva e di mutua assistenza a beneficio delle nostre popolazioni», ha scritto in un tweet il presidente di transizione del Mali, ospite dell’evento.

Il giorno precedente, secondo la Radio televisione del Niger (Rtn), a Bamako, si era tenuta una riunione tra i ministri della Difesa di Mali e Niger, alla quale avrebbero partecipato funzionari del ministro della Difesa della Russia, forse come consulenti. Le delegazioni avrebbero poi incontrato il presidente di transizione Assimi Goita. L’Rtn ha mostrato le immagini della riunione, a cui hanno partecipato anche uomini europei in civile e in divisa militare, e non erano certo francesi.

L’accordo Liptako-Gourma tra i tre paesi saheliani era nell’aria ed era stato anticipato dalla firma, a Niamey, Niger, di un documento tripartito, il 24 agosto scorso.

Sulla carta si parla di mutuo aiuto militare nella lotta ai terroristi, ma anche in caso di ribellioni interne (ad esempio in Mali sta rinascendo la ribellione dei popoli dell’Azawad, nel Nord) e di qualsiasi minaccia all’integrità territoriale di uno dei tre paesi. Si pensi, in questo caso, all’ultimatum della Cedeao, la Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest, nei confronti del Niger, con minaccia di intervento militare se non viene ristabilito l’ordine costituzionale dopo il golpe del 26 luglio.

Di fatto, i golpisti di Mali, Burkina Faso e Niger si uniscono in un’alleanza militare con un patto di ferro.

In Mali è già presente il gruppo Wagner da alcuni anni: ha sostituito i francesi dell’operazione Barkhane, e compiuto massacri di civili. In Burkina Faso sta entrando. In Niger, invece, sono presenti basi militari di Francia (circa 1.500 uomini), Stati Uniti (1.500), Germania e Italia (circa 300 effettivi), ma a questo punto, pare chiaro che anche l’idea della giunta Tiani sia di andare verso la Russia.

Il 19 settembre l’Assemblea legislativa di transizione (71 membri) del Burkina Faso ha ratificato l’invio di un contingente militare in Niger, in appoggio delle forze militari di quel Paese. C’è da chiedersi cosa faranno, visto che in patria non riescono a garantire la sicurezza della popolazione dagli attacchi terroristici.

Si tratta, tuttavia, di un via libera politico, nell’eventualità di un’improbabile attacco di truppe dei paesi vicini sotto l’egida della Cedeao.

Intanto, il 24 settembre, il presidente Emmanuel Macron ha annunciato il ritiro del contingente francese dal Niger da qui a dicembre, viste le pressioni della giunta. Cosa faranno statunitensi, tedeschi e italiani? I primi hanno ripreso le loro attività da giorni, come nulla fosse.




Brasile. La storia non iniziò nel 1988

La notizia – una grande notizia – è arrivata nel tardo pomeriggio di giovedì 21 settembre. Ed è la seguente: il Supremo tribunale federale (Stf) del Brasile, il più alto organo del potere giudiziario, il «guardiano della Costituzione federale» del paese latinoamericano, ha respinto la tesi (discussa dal dicembre del 2016) conosciuta come «marco temporal» e sostenuta dal potente fronte dai rappresentanti dell’agrobusiness e dei latifondisti (e dai parlamentari riuniti attorno alla «bancada ruralista»).

Questa tesi si fonda su un’interpretazione forzata e interessata dell’articolo 231 della Costituzione federale promulgata il 5 ottobre del 1988, articolo che recita: «Agli indigeni sono riconosciuti organizzazione sociale, costumi, lingue, credenze e tradizioni, nonché i diritti originari sulle terre che tradizionalmente occupano, essendo l’Unione responsabile per delimitarle, proteggere e garantire il rispetto di tutti i loro beni». Secondo i sostenitori del marco temporal, sarebbero terre indigene soltanto quelle da loro effettivamente occupate all’atto della promulgazione della Costituzione, il 5 ottobre 1988. Le terre restanti sarebbero disponibili, cioè libere da pretese indigene. Detto in altre parole, il marco temporal mirava a cancellare in toto la storia indigena precedente a quella data, una storia fatta di allontanamenti dalle terre e usurpazione delle stesse.

Si festeggia il voto di uno dei ministri del STF riuniti in sessione plenaria per decidere sul «marco temporal». (Foto CIMI)

Finalmente, dopo anni di dibattito, l’Stf, formato da 11 membri (qualificati con il termine di ministri), ha respinto con 9 voti contro 2 il progetto del marco temporal. Hanno votato a favore di questo i due rappresentanti (Nunes Marques e André Mendonça) legati a Jair Bolsonaro, a dimostrazione di quanto fosse reale l’accusa di essere anti indigeno formulata verso l’ex presidente.

La vittoria del 21 settembre è frutto in primis della grande mobilitazione dei popoli indigeni brasiliani (riuniti soprattutto attorno ad Apib, Articulação dos povos indígenas do Brasil) ma anche del loro sostegno da parte di organizzazioni come il Cimi (Conselho indigenista missionário) guidato da dom Roque Paloschi e l’Isa (Instituto socioambiental). La cancellazione del marco temporal è un passo fondamentale, ma la lotta per l’affermazione e il rispetto dei diritti dei popoli indigeni sarà – questa è una certezza – ancora lunga e difficile. In Brasile, come nel resto del mondo.

Paolo Moiola




Tempo del creato. Contro la guerra al pianeta

Che il clima stia «impazzendo» è sotto gli occhi di tutti.
In Italia, anche quelli che si ostinano a negare le responsabilità umane della crisi ambientale hanno sentito sulla loro pelle il calore straordinario di questa estate 2023.
Nel resto del mondo, di eventi estremi se ne possono contare quotidianamente, benché ne compaia la notizia sui nostri schermi solo raramente. Uno tra questi è la recente alluvione in Libia (già dimenticata dall’informazione) che ha sbriciolato due dighe e travolto migliaia di persone.
Eppure, nonostante le evidenze, sembra che i decisori politici a livello mondiale non riescano ad andare oltre ad alcune vaghe dichiarazioni di intenti su come affrontare un necessario cambio di marcia prima che sia troppo tardi.

Da questa preoccupazione, e anche dal desiderio di approfondire quanto la Terra sia non solo la base necessaria per la vita, ma un dono di cui godere, si celebra annualmente il «Tempo del creato»: un’iniziativa ecumenica che mette insieme le diverse confessioni cristiane e quindi tutti i 2,2 miliardi di credenti che abitano il nostro pianeta. Dal 1 settembre al 4 ottobre, un mese di preghiera, riflessione e azioni concrete dedicate alla cura della casa comune.
In ogni diocesi, diversi gruppi, operatori pastorali, parrocchie, movimenti, si organizzano per la celebrazione, anche grazie agli strumenti messi a disposizione online dal Comitato direttivo, tra cui la «Guida alla celebrazione 2023».

Nel sito ufficiale, consultabile anche in lingua italiana, si possono trovare video e materiali utili. Per chi non è a conoscenza della storia di questa iniziativa, nella sezione «chi siamo» si trova una sintesi dei passi fatti dall’inizio fino a oggi: «Il Patriarca ecumenico Dimitrios I nel 1989 ha proclamato, per gli ortodossi, il 1 settembre giornata di preghiera per il creato. […]. Il Consiglio mondiale delle Chiese ha contribuito a rendere speciale questo tempo, prolungando la celebrazione dal 1 settembre al 4 ottobre».
«Seguendo la guida del Patriarca ecumenico Dimitrios I e del Consiglio mondiale delle Chiese, i cristiani di tutto il mondo hanno abbracciato questo tempo come parte integrante del proprio calendario annuale. Papa Francesco lo ha accolto nella Chiesa cattolica romana e reso ufficiale nel 2015».
Non a caso il 2015 è l’anno nel quale papa Francesco ha firmato la sua lettera enciclica «Laudato si’», documento fondamentale non solo per i cattolici e i cristiani, ma per tutti, fedeli di altre religioni, laici, governanti.

Lo scorso 30 agosto, alla vigilia del suo viaggio in Mongolia, il papa ha annunciato l’uscita di un nuovo documento, un’esortazione apostolica, il 4 ottobre prossimo, festa di san Francesco d’Assisi: «Dopodomani, primo settembre, si celebra la Giornata mondiale di preghiera per la cura del Creato – ha detto durante l’udienza generale del mercoledì -, inaugurando il tempo del Creato, che durerà fino al 4 ottobre. In quella data ho intenzione di pubblicare un’esortazione, una seconda Laudato Sì. […] Uniamoci ai nostri fratelli e sorelle cristiani nell’impegno di custodire il Creato come dono sacro del Creatore. È necessario schierarsi al fianco delle vittime delle ingiustizie ambientali e climatiche, sforzandosi di porre fine alla insensata guerra alla nostra casa comune, che è una guerra mondiale terribile. Esorto tutti voi a lavorare affinché essa abbondi nuovamente di vita».

Luca Lorusso

 




India. A Delhi, promesse e gaffe

Da Narendra Modi a Lula da Silva. Nel 2024, il vertice delle venti maggiori economie del mondo (G20) si terrà nel paese latinoamericano.

Modi è stato abile, abilissimo. Non tanto per aver fatto conoscere al mondo il nome originale del suo paese, Bhārat (al posto del coloniale India), quanto per il suo fantastico equilibrismo. Al pari del turco Erdogan (con il quale condivide anche un’interpretazione piuttosto discutibile della democrazia), il primo ministro indiano è stato capace di barcamenarsi tra Joe Biden e Xi Jinping, quest’ultimo strategicamente assente dal vertice dopo aver partecipato di persona a quello dei Brics, a fine agosto.

«Siamo una sola terra, una sola famiglia e condividiamo un futuro» con queste (belle) parole inizia il preambolo della dichiarazione finale della due giorni (9-10 settembre) di Nuova Delhi. E subito dopo, ai punti 3 e 4, s’introduce la questione ambientale: «Le emissioni globali di gas serra (Ghg) continuano ad aumentare, di pari passo con il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità, l’inquinamento, la siccità, il degrado del territorio e la desertificazione, minacciando vite e mezzi di sussistenza. […] Noi affermiamo che nessun paese dovrebbe scegliere tra la lotta alla povertà e la lotta per il nostro pianeta». Insomma, nel documento finale del G20 le buone intenzioni non mancano, ma – si sa – quelle non costano nulla.

Modi saluta Sergej Lavrov, ministro degli esteri russo. (Foto da www.g20.org)

Poco sotto, nel paragrafo titolato «Per il pianeta, la gente, la pace e la prosperità», al punto 8 si legge della guerra in Ucraina, ma la Russia di Vladimir Putin non viene neppure citata. Come se quel conflitto si fosse autogenerato al pari di una combustione spontanea o, meglio, di una partenogenesi. Sergej Lavrov, l’ineffabile ministro degli esteri russo, ha gradito molto. Una scelta grave quella del G20 perché alla legalità internazionale si è preferito il compromesso ipocrita.

Per il resto, nella lunga dichiarazione (sono 38 pagine) non manca quasi nulla: economia e sviluppo, ambiente e clima, tecnologia, finanza, lotta al terrorismo, alla xenofobia e alla strumentalizzazione delle fedi religiose, migrazioni. Difficile trovare un passaggio su cui non concordare: le parole sono scelte con estrema cura, come consuetudine nei documenti finali. È il successivo passaggio, dalle parole ai fatti, che risulta sempre problematico.

Non manca, tuttavia, qualche elemento positivo. Per esempio, verso la fine del documento (al punto 76), si legge una novità potenzialmente interessante: l’entrata dell’Unione africana – organizzazione similare all’Unione europea – come membro permanente del G20.

Il punto precede le righe che riguardano le migrazioni, la questione mondiale più rilevante di questi anni, al pari dei cambiamenti climatici. Vale la pena di riportarne alcune righe: «Riaffermiamo il nostro impegno – scrivono i leader – a sostenere i migranti, compresi i lavoratori migranti e i rifugiati, nell’ambito dei nostri sforzi verso un mondo più inclusivo, in linea con le politiche nazionali, legislazioni e circostanze, garantendo il pieno rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, indipendentemente dal loro status migratorio. Riconosciamo anche l’importanza di prevenire i flussi migratori irregolari e il traffico di migranti, come parte di un approccio globale per una migrazione sicura, ordinata e regolare rispondendo, nel contempo, ai bisogni umanitari e alle cause profonde degli sfollamenti. Sosteniamo il rafforzamento della cooperazione tra paesi di origine, transito e destinazione».

Come volevasi dimostrare, non c’è una parola fuori posto. Ma di soluzioni concrete e immediatamente attuabili non c’è traccia alcuna.

Interessante anche il punto 78, nel quale si difende la libertà religiosa. «Deploriamo fortemente – scrivono i leader – tutti gli atti di odio religioso contro le persone, nonché quelli di natura simbolica, […], anche contro i simboli religiosi e i libri sacri». Il passaggio è importante, ma dovrebbe stonare un po’ per l’anfitrione indiano. Narendra Modi, infatti, è primo ministro del paese asiatico, ma anche leader del Bharatiya janata party (Bjp), partito induista poco rispettoso delle minoranze religiose. In particolare, sono i musulmani (14,2% pari a quasi 173 milioni di indiani) e i cattolici (1,5%, circa 20 milioni) a essere fatti oggetto di discriminazione e violenza.

Modi con il presidente Lula. Il Brasile ospiterà il G20 del 2024. (Foto da www.G20.org)

A conclusione del vertice, Modi ha passato le consegne a Lula, presidente del Brasile, prossimo paese a ospitare il G20. Come primo gesto, il leader brasiliano ha offerto a Vladimir Putin, ricercato dalla Corte penale internazionale (alla quale anche il paese latinoamericano aderisce), la possibilità di presenziare di persona al summit del 2024 senza correre il rischio di essere arrestato. Il giorno dopo Lula ha ritrattato: «Su Putin deciderà la magistratura», ha precisato. Aggiungendo però un’altra affermazione infelice: «Non sapevo nemmeno che esistesse questo tribunale».

Paolo Moiola




Usa-Vietnam: da nemici a partner strategici

Il 10 e 11 settembre il presidente degli Stati Uniti è stato in visita ufficiale in Vietnam, invitato dal segretario generale del Partito comunista vietnamita. Durante la visita è stato siglato un importante accordo.

Il presidente statunitense, Joe Biden, ha compiuto una visita di due giorni in Vietnam, il 10 e 11 settembre scorso. È stato invitato dal segretario generale del Partito comunista vietnamita (Pcv), Nguyen Pu Trong, di fatto la carica politica più importante nel Paese.

Usa e Vietnam hanno ristabilito relazioni diplomatiche, dopo la guerra, da quasi trent’anni: la normalizzazione è infatti avvenuta nel luglio 1995, quando Bill Clinton era presidente Usa.

I due paesi, negli anni, sono arrivati a un livello di scambio economico elevato, ma il 10 settembre hanno firmato il cosiddetto «partenariato strategico integrale per la pace, la cooperazione e lo sviluppo sostenibile». Si tratta del livello più alto di partenariato previsto dal paese asiatico con altri stati, e, prima di oggi, era stato siglato solo con Russia, Cina, India e Corea del Sud.

Il Vietnam deve mantenere un equilibrio difficile con la Cina, la quale, da un lato è il suo maggiore partner commerciale, dall’altro mostra strapotere e invadenza nelle acque del Mar cinese meridionale (in Vietnam chiamato Mare orientale).

Una buona relazione con gli Usa, a livello geopolitico, può aiutare in questo equilibrismo, pur evitando di schierarsi. Il Vietnam adotta la cosiddetta diplomazia del bambù, definita dallo stesso segretario generale come avente «radici forti, fusto solido, ma rami flessibili».

Gli Usa, invece, cercano alleanze in chiave anticinese nell’area dell’Indo-Pacifico, oggi la più strategica a livello mondiale.

È inoltre fondamentale per entrambi l’aspetto economico della relazione: «Il segretario generale [del Pcv] si è complimentato per la forte promozione della cooperazione economica, commerciale e degli investimenti, oltre che per la crescita economica inclusiva nella direzione dell’innovazione, centrale nelle relazioni tra i due paesi», riporta il Courrier du Vietnam, giornale di Hanoi in lingua francese.

Il partenariato è stato seguito dalla firma di una serie di accordi commerciali.

Secondo Christophe Paget, giornalista di Radio France international, «nel 2022 Il Vietnam è diventato il settimo mercato di esportazione degli Usa, superando il Regno Unito, mentre per il Vietnam gli Usa sono il primo mercato di esportazione».

Inoltre, le difficoltà commerciali degli Usa con la Cina in questa fase, spingono gli americani a cercare altre sponde. In particolare per i semiconduttori, ma anche per le terre rare, di cui il Vietnam è uno dei paesi con le maggiori riserve al mondo.

L’incontro di inizio settembre è solo una tappa del percorso. Lo scorso giugno Biden ha mandato una lettera d’invito a Trong per una visita ufficiale negli Usa.

Per approfondire

https://www.rivistamissioniconsolata.it/2023/06/12/cinquantanni-di-relazioni-italia-vietnam-stabilita-e-crescita/

https://www.rivistamissioniconsolata.it/2023/08/14/nemici-ieri-partner-oggi/




Le migrazioni non sono il problema, ma la soluzione


L’opinione pubblica, alimentata da discorsi d’odio di matrice partitica e suprematista, dipinge le migrazioni più come rischio per la sicurezza del mondo, che come risorsa.
In realtà, coloro che si spostano non sono il problema del mondo. Il problema sono alcune delle cause per cui lo fanno, tra cui – non è inutile ricordarlo spesso – spiccano gli squilibri economici mondiali, i cambiamenti climatici, le guerre, le persecuzioni e le violenze…Proviamo allora a fare un po’ di chiarezza su alcuni aspetti che accompagnano il dibattito attuale sulle migrazioni.

Cominciamo innanzitutto dalle “parole” usate per definire la realtà migratoria.
Il 16 agosto 2023, la Corte di Cassazione italiana ha sancito che i migranti “richiedenti asilo” non devono essere definiti né irregolari, né clandestini, perché il diritto alla libera manifestazione del pensiero, anche come partito politico, non può essere equivalente o addirittura prevalente, sul rispetto della dignità personale degli individui.
Ora, e senza scomodare la magistratura, se il termine “clandestino” affibbiato ai “richiedenti asilo”, esprime un chiaro contenuto spregiativo con valenza fortemente negativa e lesiva della dignità personale degli individui in questione, perché continuare a definire “clandestini” anche tutti quei migranti che fuggono la fame, la siccità, le inondazioni, le carestie dei loro Paesi di origine?

I sempre numerosi partigiani delle “distinzioni stigmatizzanti” replicheranno che questi migranti, che in più di centomila sono sbarcati sulle coste italiane dal primo gennaio fino a metà agosto 2023 (doppiando e triplicando le cifre del biennio precedente, incuranti del colore del governo e delle roboanti dichiarazioni, promesse e inganni elettorali), non hanno seguito le vie legali d’ingresso in Italia e nell’Unione europea. E sono quindi “irregolari perché senza documenti”. Ma perché definirli sempre e solo “clandestini”? Se non per ingenerare e alimentare la paura di chi li vede arrivare e legittimare decreti e misure poco interessate alla dignità umana?
In realtà, non si può non considerare che, dal 22 ottobre 2022 (inizio dell’attuale governo in Italia) ad oggi, tramite i cosiddetti “canali di accesso legale” (reinsediamento, corridoi umanitari, evacuazione umanitarie) solo 1.042 persone sono potute arrivare in Italia, e solo se afghani, siriani, eritrei, sudanesi, etiopi. Dalla Libia, invece, sono potute arrivare solo 101 persone… Numeri chiaramente insufficienti a rappresentare l’alternativa, sicura e legale, alle pericolose traversate del Mediterraneo su imbarcazioni sempre più precarie.

Allo stesso tempo, se nelle traversate della morte c’è una “clandestinità” evidente questa non è dei migranti che, salvati da Guardia costiera o da organizzazioni umanitarie, sono identificabili e identificati nei diversi centri di permanenza, ma è quella dei trafficanti che non sono solamente gli scafisti di turno – scelti spesso tra gli stessi migranti e obbligati a condurre le imbarcazioni per evitare un sicuro naufragio – ma anche e soprattutto i criminali e i loro complici operanti nelle guardie di costiera e di frontiera dei Paesi di partenza o di transito.

Perché allora quando le politiche nazionali e comunitarie parlano di lotta senza quartiere all’immigrazione clandestina non troviamo misure capaci di colpire i veri trafficanti (cui invece si donano motovedette ben armate per contrastare i flussi di migranti o denaro sonante per riportare a terra i migranti e disperderli nei deserti tra Libia e Tunisia) ma solo dispositivi contro gli stessi migranti, chiamati scientificamente “clandestini” per giustificare la crudezza dei mezzi utilizzati?
Perché, con oltre 2.000 morti tra i migranti che da inizio 2023 hanno tentato di raggiungere l’Europa via Mediterraneo, la politica continua ad ostacolare l’opera di soccorso delle navi umanitarie, anche dopo che la teoria del “pull factor” (fattore di attrazione) è stata smascherata come una chiara menzogna ideologica?
Perché continuare a predire espulsioni e rimpatri forzati di quei migranti che non avrebbero diritto a rimanere solo perché fuggono da Paesi incapaci di dare loro vita e arrivano in Europa senza documenti? E tutto questo sapendo che nel 2023 sono stati effettuati solo 2.561 rimpatri, e che per effettuare rimpatri forzati nei Paesi di origine servono difficili e complicati accordi bilaterali, considerando anche che alcuni di essi, come Tunisia e Libia, hanno già dichiarato di non voler in nessun modo caricarsi dei migranti di altri Paesi transitati o partiti dalle loro coste.

Perché, inoltre, invece di eliminare le cause delle migrazioni, tutte forzate per un motivo o l’altro, ci si ostina a voler bloccare (con tutti i mezzi, anche poco leciti) la partenza dei migranti, offrendo ai governanti, in genere poco o per niente democratici dei Paesi di partenza e transito (Libia, Tunisia, Egitto…), denaro e investimenti che hanno poche o nessuna probabilità di servire allo sviluppo socioeconomico di quei Paesi e dei loro abitanti?
In questa prima parte del 2023 sono stati inaugurati “innovativi” accordi di cooperazione tra Unione Europea-Italia e alcuni Paesi di origine e transito dei migranti, fondati su una “vera” cooperazione paritaria tra Paesi del Nord e Paesi africani e non sull’endemico rapporto neocoloniale che da sempre caratterizza le relazioni euro-africane. Tali buone intenzioni sarebbero sicuramente più efficaci se non evidenziassero alcune contraddizioni che ne minano la reale volontà politica. In effetti, l’obiettivo dei Paesi del Nord è chiaramente quello di bloccare “quanto prima” i migranti e non certamente la sviluppo dell’Africa e il benessere degli africani che richiede ingenti investimenti economici e strutturali, in favore delle popolazioni locali (e non dei loro governanti, corrotti e autoritari), tempi lunghi e soprattutto, almeno nelle fasi iniziali del processo di emancipazione economica e sociale, non arresta le migrazioni, ma le incentiva.

Se la paura-ossessione dei migranti continua a dettare la politica italiana e comunitaria verso le migrazioni, diventa sempre più difficile assumere consapevolmente il fatto che la storia dell’uomo è basata sulla migrazione. Non si tratta, certo, di ignorare il modello di Stato nazione, attualmente predominante, ma è arrivato il tempo di ripensare ai criteri con cui decidiamo dove è consentito vivere a qualcuno, considerando che molti dei luoghi relativamente sicuri in cui vivere sul nostro pianeta, cioè le latitudini settentrionali, sono luoghi che soffrono di una crisi demografica elavorativa e sono destinazione di massicce migrazioni che possiamo prevedere, pianificare e gestire oppure rischiare di subire.
In tale prospettiva, solo una cooperazione “disinteressata” (vale a dire più interessata al “bene comune” che agli “interessi di parte”) tra attori locali, regionali e internazionali potrà individuare risposte capaci di superare gli squilibri socioeconomico-ambientali che cambiamenti climatici, fragilità locali e movimenti migratori vivono e vivranno in futuro. E continuare a corteggiare le dittature africane e i Paesi ultranazionalisti europei non è certo la strada più efficace per intraprendere scelte condivise, solidali e rispettose dei diritti umani.

Scalabriniani.net – Congregazione Scalabriniana
Centro Studi Emigrazione Roma | CSER
Roma, 21 agosto 2023




Mongolia. Tutti i video in preparazione del viaggio di papa Francesco


Tutti i video in preparazione del viaggio apostolico di papa Francesco in Mongolia dall’Agenzia Fides

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Video da https://www.youtube.com/@AgenziaFidesMission/videos