Mondo. Clima, meno ventisei

Difficile capire quanto valga l’accordo raggiunto a Dubai (Emirati arabi uniti) lo scorso 13 dicembre. Di sicuro, l’enfasi del sito ufficiale della Cop28 è fuori luogo: «We united. We acted. We delivered» (Ci siamo uniti. Abbiamo agito. Abbiamo raggiunto).

La conferenza mondiale sul clima, svoltasi in casa dei produttori di petrolio, ha deciso che, entro il 2050 (cioè tra 26 anni), i combustibili fossili dovranno essere usciti di scena. La frase centrale – da molti definita «storica» – recita così: «Uscire dai combustibili fossili nei sistemi energetici, in modo giusto, ordinato ed equo, accelerando l’azione in questo decennio critico, in modo da raggiungere lo zero netto entro il 2050 in linea con la scienza» (punto 28, lettera d).

Certamente, davanti a dati sempre più drammatici (il 2023 è stato l’anno più caldo di sempre, la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera è a livelli mai visti, l’Artico è in grandissima sofferenza, eccetera), quella data pare troppo lontana, i fondi del «Loss and damage» (perdite e danni causate dai cambiamenti climatici) per i paesi più poveri sembrano un’inezia ed esagerati i sorrisi compiaciuti di Sultan Al Jaber (presidente della Cop28 e petroliere) e di gran parte dei delegati.

La Commissione delle Conferenze episcopali dell’Unione europea (Comece) ha commentato: «Accogliamo con favore il difficile accordo raggiunto sull’eliminazione dei combustibili fossili, ma siamo preoccupati per il reale impegno delle parti ad attuarlo in modo efficace». Detto questo, una lettura pessimistica degli accordi non conviene a nessuno perché può indurre all’inazione e fare un favore ai tanti negazionisti climatici, palesi od occulti.

La riunione appena conclusa si è tenuta in un paese petrolifero e così sarà anche per la prossima. Nel 2024 la Cop29 si terrà, infatti, in Azerbaijan, cioè in un altro paese produttore di petrolio e gas. La Cop30 sarà invece in Brasile, paese che a gennaio 2024 entrerà come osservatore nell’Opec, l’organizzazione dei paesi esportatori di petrolio.

L’attivista indiana di soli 12 anni sul palco della Cop28 con il suo cartello di protesta.

Nel frattempo, da oggi al 2050, tutti sono tenuti a contenere l’aumento della temperatura della Terra in un grado e mezzo rispetto all’epoca preindustriale. In primis, spetta agli stati con le loro politiche, ma anche ai giornalisti con il racconto della verità scientifica e ai singoli cittadini con le loro scelte quotidiane. Tutto difficile, ma – lo speriamo in tanti – non impossibile.

La speranza si può forse intravvedere tra le righe dell’accordo di Dubai, ma è certamente più visibile nell’esempio e nell’intraprendenza di Licypriya Kangujam, attivista indiana di soli 12 anni che, saltata sul palco della Cop28, ha alzato al cielo il suo cartello scritto a mano: «Basta combustibili fossili. Salviamo il nostro pianeta e il nostro futuro».

Paolo Moiola




Migranti e regole d’accoglienza

 

Il progetto Melting pot ha diffuso semplici schede con domande e risposte sulle regole di accoglienza di Italia ed Europa per orientarsi nell’intrico delle norme sull’immigrazione.

Quanti degli oltre 150mila migranti arrivati in Italia nell’arco del 2023, tra cui 17mila minori non accompagnati, conoscono i loro diritti e le leggi che «regolano» la loro vita nel nostro Paese e in Europa?
Quanti italiani sanno cos’è la protezione internazionale e qual è la procedura che un migrante deve affrontare per richiederla? Quanti sanno cos’è il regolamento di Dublino, o come funziona il sistema di accoglienza italiano?

Quello dell’immigrazione è un tema caldo da decenni (non solo in Italia). Caldo soprattutto per l’uso cinico che ne fa la politica, avendolo trasformato in un ottimo strumento per diffondere paure e raccogliere consensi.

Eppure, pur essendo nell’agenda quotidiana di tutti i media, il tema è spesso sbandierato senza essere approfondito.

Per questo motivo, chi si occupa davvero di immigrazione, anzi, delle persone migranti, lo fa anche tramite la comunicazione, nel tentativo di bucare il muro degli slogan politici, e tramite la divulgazione di informazioni pratiche, per offrire strumenti concreti di comprensione e aiuto.

Una di queste realtà è il progetto Melting Pot Europa che, tra le molte iniziative, ha recentemente prodotto e rese disponibili online quattro schede, sia scritte che audio, in cinque lingue (italiano, inglese, francese, urdu e arabo) per spiegare in modo semplice le questioni citate sopra: come funziona la protezione internazionale (e altre forme di tutela); qual è la procedura di richiesta protezione internazionale; cos’è la «procedura Dublino»; com’è organizzato il sistema di accoglienza in Italia.

Le schede sono proposte nella forma «domanda-risposta»: «Com’è strutturato il sistema di accoglienza in Italia?», si legge in quella relativa al sistema di accoglienza nel nostro Paese. Esso «[…] si articola su più livelli – si legge nella risposta -: dobbiamo, infatti, distinguere tra “prima” e “seconda” accoglienza.
“Prima accoglienza” significa l’accoglienza in centri che si occupano di prima assistenza, di identificare le persone migranti e definire la situazione dei documenti. […] “Seconda accoglienza”, invece, significa l’accoglienza in centri che si occupano non solo di garantire una casa dove vivere, ma anche di accompagnare la persona nel suo percorso di formazione e lavoro in Italia e di aiutarla a costruirsi un futuro in Italia».

Seguono altre domande e relative risposte: «Che cosa sono gli “Hotspot”?»; «Qual è la differenza tra richiedente asilo e titolare di protezione?»; «Che cosa si intende per persone “vulnerabili”?» e così via.

«Realizzate da gruppi di lavoro con diverse professionalità sociali e legali – si legge nella pagina del progetto Informazioni senza barriere, sul sito meltingpot.org -, ogni scheda è stata poi vagliata da studenti e insegnanti volontari delle scuole di italiano Libera la parola. Questa doppia lettura ha aiutato a “semplificare” le schede, consapevoli di quanto sia difficile conciliare complessità della materia, costanti modifiche normative e di prassi, con informazioni che siano accessibili a persone con diversi livelli di scolarizzazione».

Un piccolo strumento per provare a uscire dalla percezione superficiale del fenomeno. Quella che, invece di semplificare le questioni per renderle più comprensibili a tutti, le distorce in parole d’ordine che offuscano la vista.

Luca Lorusso




Cina. Sempre meno fiori d’arancio

 

Il Covid-19, l’invecchiamento della popolazione e il cambio di mentalità tra i giovani. Secondo gli esperti, sono questi i principali fattori che incidono sul continuo calo dei matrimoni in Cina. Stando al China statistical yearbook 2023, pubblicato a novembre dall’Ufficio nazionale di statistica, lo scorso anno solo 10,51 milioni di persone hanno registrato il loro primo matrimonio, 1,06 milioni in meno rispetto al 2021, pari a un calo annuo del 9,16%. È la prima volta che il numero delle persone alla prima esperienza coniugale è sceso sotto gli 11 milioni. Si tratta di un tonfo di ben il 55,9% rispetto al picco massimo del 2013, quando i novelli sposi furono 23,85 milioni.

Complessivamente, 6,83 milioni di coppie si sono sposate nel 2022, un calo del 10,6% rispetto al 2021. Per gli esperti, tuttavia, i dati relativi ai primi matrimoni sono particolarmente importanti in quanto più direttamente collegati al numero delle nascite. Stando alla Commissione sanitaria nazionale, nel 2022 i nuovi nati sono stati appena 9,56 milioni, il livello più basso da quando le autorità hanno cominciato a tenere il conto nel 1949.

Analizzare le cause della diminuzione dei primi matrimoni – ormai al nono anno consecutivo – può quindi servire a definire meglio le politiche demografiche. Innanzitutto, va notata una componente biologica: la popolazione cinese è invecchiata. L’età media dei cinesi continua a salire e così sono sempre meno le persone in età da matrimonio.

Secondo le statistiche ufficiali, nel 2020 i cinesi al primo matrimonio avevano mediamente 28,6 anni, 3,8 anni in più rispetto ai 24,8 anni del 2010. Cambiano, inoltre, le priorità di vita: molti giovani non considerano più il matrimonio e la gravidanza come È una tendenza ormai consolidata. Il triennio pandemico, tuttavia, ha avviato dinamiche inusuali, aprendo spiragli per un possibile miglioramento nel 2023. Complice la tardiva rimozione delle restrizioni anti Covid.

Rimasti in vigore fino al dicembre scorso, i frequenti lockdown hanno indotto molti cinesi a rimandare le nozze di un anno. Che sia così lo confermano le ultime statistiche del ministero degli Affari civili, secondo le quali nei primi nove mesi del 2023, sono stati registrati 5,69 milioni di matrimoni, pari a un aumento annuo di 245mila. Per Peng Peng, presidente della Guangdong society of reform, anche in Cina come altrove la pandemia ha inasprito le disuguaglianze sociali, gettando diversi segmenti della popolazione in una condizione di precarietà. In questo contesto, la vita coniugale può risultare conveniente perché permette alle coppie di mettere in comune le risorse, condividere i costi della quotidianità e ridurre i rischi finanziari.

Se il trend dovesse essere confermato, le coppie a dire di sì alla fine dei dodici mesi del 2023 potrebbero superare il traguardo dei 7 milioni per la prima volta dal 2021. Come diretta conseguenza, i demografi si attendono un breve rimbalzo delle nuove nascite, che dovrebbero tornare ad aumentare nel 2024 per la prima volta in sette anni. Sarà però un’inversione temporanea, a meno che non In risposta al problema della denatalità nell’ultimo anno diverse province e città hanno introdotto politiche ad hoc, da un’estensione del congedo parentale a veri e propri sussidi monetari. Ma il risultato è stato per ora deludente. Un po’ perché le misure non sono sufficienti, un po’ perché il numero di donne in età fertile continua a scendere.

Intervenendo a una conferenza sul tema, a ottobre Ma Liang, docente di public management della Renmin University, ha suggerito che ci sia anche una componente politica. Dopo i tre anni di ferree misure anti Covid, la popolazione più giovane non ha più fiducia nella leadership cinese. Cresciuta nell’era della prosperità, si trova per la prima volta ad affrontare le incertezze di un’economia che cresce a ritmi più contenuti e di un mercato immobiliare perennemente sull’orlo del collasso. Senza grandi prospettive per il futuro, mettere su famiglia, per le nuove generazioni, non sembra più una priorità.

Alessandra Colarizi




Uomini e maiali

Le immagini trasmesse dalle televisioni argentine sono state molto impattanti. In questi giorni, diversi canali hanno mostrato scene riprese in una discarica di rifiuti (basural a cielo abierto) a testimonianza della miseria in cui versano vasti strati della popolazione del Paese. I titoli apparsi in sovra impressione sugli schermi erano sconvolgenti: «Shopping nella discarica»; «In cerca di alimenti nella discarica»; «Così si arrangiano quelli che hanno sempre meno»; «Mangiano e si vestono con ciò che trovano tra i rifiuti»; «Una realtà che fa male».

Esagerazioni? Purtroppo, no. Scene di questo tipo le ho viste personalmente in occasione di un rilevamento ambientale, sociale e umano a Pichanal, una località situata a 25 chilometri da Orán, provincia di Salta. Qui, qualche anno fa, comunità indigene locali (Guarani e Wichi) e l’equipe di Pastorale aborigena della diocesi di Orán cercarono di fermare il progetto per trasformare una discarica illegale in una mega discarica e uno stabilimento di trattamento delle acque reflue previsti a poche centinaia di metri dalla zona abitata.

I dati ufficiali del 2023 indicano che oltre il 40 per cento della popolazione argentina vive in povertà. (Foto José Auletta)

Anche in questo caso le fotografie parlano da sole: basta guardarle. In modo particolare ne ricordo una: all’arrivo del camion dei rifiuti, in pochi secondi si produsse un assemramento di uomini, donne (alcune di esse in gravidanza), bambini e… porci, tutti quanti lì per rovistare tra i rifiuti appena sversati. Identicamente, mi fece rimanere a bocca aperta la scritta di propaganda governativa dipinta sulla fiancata del camion: «Curando l’ambiente! (Cuidando el medio ambiente)».

Come postilla finale, una nota di attualità politica. In una delle sue ultime interviste, il presidente uscente, Alberto Fernández (domenica 10 dicembre è entrato alla Casa Rosada Javier Milei, il nuovo presidente eletto, ndr), ha avuto il coraggio di affermare: «In Argentina, l’indice della povertà (40,1% secondo l’istituto di statistica, ndr) è mal calcolato. Se ci fosse una tale quantità di poveri, l’Argentina sarebbe distrutta».

Probabilmente, l’ex presidente non ha mai avuto modo di frequentare le discariche del paese che fino a ieri governava.

José Auletta da Yuto (Jujuy)




La solidarietà degli immigrati

 

A Palermo, i membri dell’associazione Stra Vox, giovani tra i 16 e i 30 anni provenienti dall’Africa occidentale, dal 2019 sostengono le persone in difficoltà, immigrate e italiane, distribuendo pasti caldi, beni di prima necessità e giocattoli per bambini.
Ogni anno svolgono attività di raccolta fondi tramite il «Ramadan solidale», distribuendo circa 900 pasti caldi nella zona di Ballarò, e tramite il «Natale solidale», acquistando giocattoli da regalare a centri aggregativi, parrocchie e famiglie.

A Jesi, in provincia di Ancona, i volontari del Centro culturale islamico Al Huda (che unisce musulmani di Tunisia, Marocco, Algeria, Bangladesh, Pakistan, Albania e Senegal) nel 2020 hanno donato al Comune 2.500 euro per contribuire ai bisogni emersi durante la pandemia, inoltre si dedicano a periodiche iniziative ambientali, ripulendo le principali zone della città.

A Venezia, negli ultimi anni, i bangladesi della Venice Bangla School, con sede a Mestre, hanno effettuato donazioni in denaro al Comune e alla protezione civile, e hanno regalato 100 tute protettive anti-Covid alla polizia di Stato, 100 alla polizia municipale e 300 all’ospedale locale.

Sono alcuni degli esempi virtuosi presentati nella ricerca Partecipo quindi dono. L’impegno solidale delle persone di origine immigrata oltre la pandemia, realizzata dal Centro Studi Medì – Migrazioni nel Mediterraneo in collaborazione con Csvnet (associazione nazionale dei Centri Servizio Volontariato), per esaminare le pratiche di dono e aiuto messe in atto dalle persone di origine straniera a partire da due emergenze: la pandemia da Covid-19 e l’accoglienza di profughi del conflitto russo-ucraino.

L’indagine, realizzata in diverse regioni italiane attraverso 330 questionari, 64 interviste narrative e l’analisi di sette realtà associative, rovescia lo stereotipo dell’immigrato destinatario passivo degli aiuti descrivendolo come protagonista attivo della solidarietà.

Ma qual è l’identikit dei cittadini stranieri con propensione al dono?
«Al 59% sono donne, che mostrano maggiore sensibilità e dispongono di tempo libero dal lavoro fuori casa», spiega la sociologa Deborah Erminio dell’Università di Genova, una delle curatrici della ricerca.
Si tratta, inoltre, di persone con titoli di studio medio alti (il 52% laureati), con occupazioni dignitose anche se non sempre stabili (42%), residenti in Italia da molti anni (in media più di 20), nelle regioni più sviluppate (quasi il 90% tra Nord e Centro) e che vivono nel nostro Paese con la propria famiglia (64%). «Ciò dimostra che la maggiore stabilità socio-economica e giuridica consente di liberare energie a favore degli altri: l’integrazione mette in circolo la solidarietà».

L’attitudine solidaristica, a favore sia dei propri connazionali sia della società e delle istituzioni italiane, è stata analizzata in tre ambiti: dono di beni materiali (raccolte fondi, collette alimentari, giocattoli), dono di tempo (visite a persone malate, babysitteraggio occasionale, aiuto ad altri stranieri per le pratiche burocratiche), volontariato vero e proprio (nel quale emerge un senso di solidarietà universalmente orientata).

La maggior parte degli intervistati, 8 su 10, dedicano il proprio aiuto alle persone bisognose che vivono in Italia, indipendentemente dalla loro origine, per cui prevale un orientamento universalistico seppure in una dimensione di prossimità fisica. «I cittadini d’origine straniera sentono la responsabilità sociale verso il nostro Paese: spesso, anche quando aiutano gli altri immigrati, lo fanno non con spirito di parte ma perché li vedono come categoria povera e vulnerabile. Il criterio è: si aiuta chi ha bisogno», nota Deborah Erminio.

Circa il 55% del campione considerato è anche impegnato nella solidarietà transnazionale con i territori d’origine, sia nella forma di rimesse inviate regolarmente a familiari o ad associazioni e centri religiosi, sia in occasione di emergenze (terremoti, incendi, conflitti). Accanto all’esigenza di integrarsi nel nostro Paese, rimane dunque il desiderio di mantenere i legami con la propria società di origine.

In tutti i casi, «la solidarietà è contagiosa: tende ad aiutare di più chi a sua volta ha ricevuto aiuto, per cui si crea un circuito virtuoso di responsabilità sociale», spiega Deborah Erminio. Lo confermano le parole di El Anouar El Miloudi, presidente del Centro culturale islamico Al Huda: «Abbiamo deciso di fare qualcosa di bello per aiutare il Comune di Jesi, perché loro sono sempre con noi e quando bussiamo hanno sempre la porta aperta. Durante il Covid, ci hanno dato un terreno dove seppellire i nostri morti. Il Comune ci ha fatto un grande favore, in quel periodo non c’era il cimitero e hanno concesso un terreno per la comunità islamica».

L’indagine evidenzia la capacità degli immigrati – inclusi i neocittadini italiani e le nuove generazioni cresciute nel nostro Paese – di aggregarsi in forme più o meno organizzate (associazioni, comunità religiose, gruppi di connazionali) per attivarsi e prestare aiuto. Emerge così «l’esistenza di una classe media di origine immigrata che durante la pandemia ha fatto da tramite tra le istituzioni italiane e la popolazione straniera, tutelando la salute di tutti. Pensiamo ad esempio ai migranti irregolari, a lungo esclusi dalle vaccinazioni anti-Covid», osserva Maurizio Ambrosini, sociologo dell’Università di Milano, altro curatore di Partecipo quindi dono.

La pratica del dono manifesta anche una dimensione politica, è un modo per sentirsi parte della società italiana a pieno titolo, cittadini a tutti gli effetti. «Accanto all’idea di una restituzione simbolica nei confronti del Paese ospitante, c’è una domanda di riconoscimento sociale. L’altruismo è una forma di cittadinanza dal basso, che rivendica più ascolto e apertura in sede politica», dice Ambrosini. «Del resto, gli immigrati trovano più spazio nell’associazionismo che nel mondo del lavoro o della politica. Come spesso avviene, la sfera del volontariato è un passo avanti».

Stefania Garini




Addio Yacouba Sawadogo, argine al deserto

 

Il 3 dicembre scorso, all’età di 77 anni, è morto Yacouba Sawadogo. Agricoltore burkinabè, Sawadogo è diventato famoso per avere applicato alcuni metodi di lotta contro la desertificazione a partire dagli anni Ottanta.

Nella provincia Yatenga, nel nord del Burkina Faso, gli effetti dell’avanzata del deserto e dell’inaridimento dei suoli costringono, ancora oggi, i contadini a lasciare i campi.

Una grande siccità tra il 1980 e l’83 aveva colpito duro, e fatto migrare molte persone verso sud. Yacouba Sawadogo decise di attaccare il problema. Recuperando tecniche ancestrali, come lo zai e le dighette anti erosive, migliorandole e lavorando duramente, è riuscito, in alcuni decenni, a ricreare una foresta di circa 40 ettari. Quest’area si trova a Gourga, il suo villaggio, non lontano da Ouahigouya, capoluogo della provincia.

Iniziò a intervenire per la preservazione del suolo contro l’erosione, e per produrre cibo (miglio e sorgo sono i cereali coltivati in queste zone). In seguito piantò alberi, e favorì la presenza di uccelli e piccoli animali, creando così un polo di biodiversità del Sahel.

Contadino del Burkina Faso intento a realizzare una coltivazione con la tecnica zai. Foto Marco Bello

Yacouba decise poi di curare le persone, utilizzando essenze ed erbe da lui coltivate, e fu riconosciuto come curatore tradizionale dal ministero della Sanità del Burkina Faso.

Scoperto da una Ong, il suo lavoro è stato presentato negli Usa, e in seguito, nel 2010, Mark Dodd ne ha fatto un documentario: «L’uomo che fermò il deserto».

Yacouba ha vinto il «Right livelihood award», noto come il premio Nobel alternativo, nel 2018, e, poco dopo, l’Onu lo ha insignito del premio «Campioni della terra».

Al di là delle onorificenze , Yacouba si è preoccupato di fare in modo che il suo lavoro non venga perso. Per questo ha formato uno dei suoi figli e ne ha fatto studiare un altro.

Abbiamo avuto la fortuna di incontrare Yacouba Sawadogo nel 2016, e raccontare la sua storia in questo articolo su MC.

Con Yacouba Sawadogo se ne va un grande uomo, che senza proclami altisonanti, ha reso migliore il pianeta.

Marco Bello




Francesco: «Il 2024 segni la svolta»

Per motivi di salute, Francesco – il papa ambientalista, il papa della casa comune – non ha presenziato alla Conferenza delle parti (Cop28) in corso a Dubai fino al 12 dicembre. Tuttavia, non ha fatto mancare il suo messaggio, letto davanti all’assemblea sabato 2 dicembre dal cardinale Pietro Parolin. In esso il pontefice ha usato un tono accorato, ma non ha rinunciato al suo pensiero critico rispetto alla questione climatica.

In primo luogo, ha ribadito le cause del cambiamento climatico: «È acclarato che i cambiamenti climatici in atto derivano dal surriscaldamento del pianeta, causato principalmente dall’aumento dei gas serra nell’atmosfera, provocato a sua volta dall’attività umana, che negli ultimi decenni è diventata insostenibile per l’ecosistema». Poi, ha scagionato i paesi del Sud dall’accusa di essere inquinatori: «Non è colpa dei poveri, perché la quasi metà del mondo, più indigente, è responsabile di appena il 10% delle emissioni inquinanti».

È il concetto di «debito ecologico» confermato anche a livello scientifico (The Lancet, settembre 2020): in quanto responsabili di gran parte dell’inquinamento, le nazioni ricche – Stati Uniti, paesi dell’Unione europea, Cina, Russia e Giappone – dovrebbero risarcire e aiutare quelle povere per una transizione ecologica che non li penalizzi ulteriormente.

Quindi, Francesco ha fatto la sua proposta mettendo insieme i due temi a lui più cari: la cura della casa comune e la pace. «Sono le tematiche più urgenti e sono collegate – ha scritto nel suo messaggio -. Quante energie sta disperdendo l’umanità nelle tante guerre in corso, come in Israele e in Palestina, in Ucraina e in molte regioni del mondo: conflitti che non risolveranno i problemi, ma li aumenteranno! Quante risorse sprecate negli armamenti, che distruggono vite e rovinano la casa comune! Rilancio una proposta: con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari costituiamo un Fondo mondiale per eliminare finalmente la fame […] e realizzare attività che promuovano lo sviluppo sostenibile dei Paesi più poveri, contrastando il cambiamento climatico».

Lo scioglimento dei ghiaccai è una delle conseguenze dell’innalzamento delle temperature. (Foto Noaa – Unsplash)

Il messaggio papale ha poi toccato il tema del multilateralismo: «Perché non iniziare proprio dalla casa comune? I cambiamenti climatici segnalano la necessità di un cambiamento politico. Usciamo dalle strettoie dei particolarismi e dei nazionalismi, sono schemi del passato. Abbracciamo una visione alternativa, comune: essa permetterà una conversione ecologica».

Infine, Francesco ha assicurato l’impegno della Chiesa cattolica «nell’educazione e nel sensibilizzare alla partecipazione comune, così come nella promozione degli stili di vita, perché la responsabilità è di tutti e quella di ciascuno è fondamentale».

«Qui si tratta di non rimandare più, di attuare, non solo di auspicare. […] Il 2024 segni la svolta» ha chiosato Francesco nella parte finale del messaggio. Poche ore dopo la lettura dell’intervento papale, Sultan Al Jaber, presidente della Cop28 e amministratore delegato della compagnia petrolifera Abu Dhabi National Oil Company (Adnoc), ha detto che nessun responso della scienza indica che sia necessaria l’eliminazione graduale dei combustibili fossili per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C. A dimostrazione che la speranza del papa non sarà di facile realizzazione.

Paolo Moiola




AIDS. Un morto al minuto

 

Dagli anni Novanta l’Aids ha smesso di terrorizzare l’Occidente industrializzato, però continua a mietere vittime nel resto del mondo.

Secondo i dati diffusi da Unaids, il Programma delle Nazioni Unite per l’Hiv e l’Aids, sono state, infatti, 630mila le persone morte per malattie legate all’Aids nel 2022, 1,3 milioni quelle recentemente infettate dal virus dell’Hiv e 39 milioni quelle totali che nel mondo hanno vissuto con il virus nel corso dello scorso anno. Di queste ultime, più di nove milioni sono ancora prive di cure, tra cui il 43% dei bambini che hanno contratto l’Hiv.

Malgrado ciò, i finanziamenti globali per il controllo del virus sono in costante calo, arrivando nel 2022 a 20,8 miliardi di dollari, gli stessi livelli del 2013.
Una situazione, denuncia Unaids, in contrasto con gli Obiettivi di sviluppo del Millennio che puntano a debellare l’Aids entro il 2030, insieme ad altre gravi malattie come tubercolosi, epatiti virali, malaria.

Eppure, «la fine dell’Aids è possibile, è alla nostra portata, a patto che siano le comunità a condurre il processo», dichiara Winnie Byanyima, direttrice esecutiva di Unaids.

Let Communities Lead (Lasciamo che siano le comunità a guidare) è appunto il titolo del Rapporto con cui Unaids ha lanciato questo Primo dicembre la Giornata mondiale di lotta all’Aids, istituita nel 1988 dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) per informare e sensibilizzare sui rischi del virus.

La copertina del rapporto di Unaids

Come si legge nel Rapporto, le persone con Hiv o esposte al rischio di contrarlo, le loro famiglie e i loro gruppi sociali possono essere in prima linea nel fronteggiare l’infezione, a patto di non venire boicottate «dalla carenza di finanziamenti, da ostacoli politici e normativi, dalla negazione dei diritti umani di queste stesse comunità».

Nella lotta all’Aids i progressi più significativi si sono raggiunti proprio in quei Paesi e in quei territori – come l’Africa orientale e meridionale – dove si è investito di più, e dove sono state abolite leggi discriminatorie nei confronti di determinate categorie sociali: omosessuali, consumatori di droghe, sex workers, donne.

Esemplari in tal senso alcuni Stati caraibici (Antigua e Barbuda, Barbados, Saint Kitts e Nevis), le Isole Cook in Oceania, e Singapore, dove le relazioni omosessuali sono state depenalizzate.

Male invece per l’Europa orientale e l’Asia centrale, dove le infezioni sono aumentate del 49% in circa dieci anni, e per il Medio Oriente e il Nord Africa, dove si è registrato un più 61% di infezioni dal 2010 al 2022.

Occorre dunque promuovere la leadership delle comunità – sostenute nella lotta all’Aids da associazioni, Ong e realtà missionarie – favorendo la partecipazione della società civile ai processi decisionali, garantendo la tutela dei diritti umani e un apporto finanziario adeguato, perché «non eliminare l’Aids costa di più che sconfiggerlo», afferma il Rapporto Unaid.

Adesso l’attenzione è puntata sul «target 95-95-95», uno degli obiettivi intermedi indicati dall’Onu per il 2025. Si tratta di arrivare ai seguenti risultati: fare in modo che il 95% di sieropositivi siano consapevoli del proprio stato sierologico, che il 95% abbia accesso ai trattamenti antiretrovirali, che il 95% raggiunga lo stato di soppressione virologica, cioè non trasmetta più l’Hiv.

Per quanto riguarda l’Italia, nel 2021 si è quasi arrivati al 95-95-93 (dati dell’Istituto Superiore di Sanità). La nota dolente rimane quella delle diagnosi tardive, circa il 60 per cento del totale, dovute alla scarsa percezione del rischio e al timore dello stigma.

Restano dunque fondamentali la prevenzione e l’accesso tempestivo alle cure, da cui l’importanza delle Giornate indette per diffondere le conoscenze sul virus.
In Italia, per tutto il fine settimana, la Lila – Lega italiana per la lotta contro l’Aids sarà presente nelle piazze, nelle scuole e nelle università per fornire informazioni e mettere a disposizione test rapidi.

Stefania Garini




Cisgiordania, vita e morte nei campi profughi

Tulkarem (Cisgiordania) – Sabato scorso, 25 novembre, nel campo profughi adiacente la città di Tulkarem, sono stati giustiziati due uomini palestinesi. L’accusa era quella di aver collaborato con l’Idf (Israeli defence force).

Mappa della Palestina con Gaza (retta da Hamas) e la West Bank o Cisgiordania (retta dall’Autorità nazionale palestinese). In alto. a sinistra, è segnata la città di Tulkarm (Tulkarem), di cui parla questo nostro servizio. (Immagine di World Atlas)

Il campo di Tulkarem è nato nella periferia dell’omonima città nel 1950. Esso è stato allestito dalle Nazioni Unite subito dopo la «Nakba» (la catastrofe, in arabo) del 1948, quando l’occupazione israeliana costrinse all’esodo circa 750mila arabi palestinesi.

Immagine della «Nakba», l’esodo palestinese del 1948. (Foto Eldan David/Pressebüro der Regierung Israels/picture alliance /dpa)

Oggi qui vivono diecimila persone. Da sempre, ma soprattutto dall’arrivo delle colonie nel 1967, i campi profughi sono i più attaccati dalle forze israeliane. I movimenti di resistenza all’occupazione e le brigate armate nascono quasi sempre in questo contesto.

Quello di Tulkarem in particolare è stato uno dei più colpiti di tutta la Cisgiordania tra la fine del 2022 e l’inizio del 2023. Un gruppo di giovani, a volte giovanissimi, si è armato formando una propria squadra di combattenti che, con il passare dei mesi, è diventato sempre più grande: la brigata Tulkarem.

A differenza di quello che accade in altri campi, per esempio a Jenin, dove i «fighters» sono braccia armate di partiti politici (come le brigate Aqsa per il partito di Al-Fatah), la brigata Tulkarem è indipendente e non segue alcuna ideologia. In questo caso, essa è nata esclusivamente a difesa della città e del campo e per questo non sposta mai il suo raggio d’azione.

I simboli di Al-Fatah e di Hamas, fazioni palestinesi contrapposte.

Qui, soprattutto a partire da marzo 2023, la resistenza ha pian piano respinto le truppe israeliane che hanno smesso di entrare nel centro abitato, limitandosi ad attacchi con droni e artiglieria. Questo almeno fino a settembre, quando, i soldati dell’Idf sono tornati a fare irruzione con più regolarità. I raid, in città, così come in tutta la Cisgiordania, sono poi diventati operazioni quasi giornaliere dopo l’offensiva di Hamas del 7 ottobre.

Hamas-Iran: il leader di Hamas, Ismail Haniyeh (al centro), con l’ayatollah Ali Khamenei, leader supremo della Repubblica islamica dell’Iran, a Teheran, lo scorso 21 giugno 2023.

Almeno secondo le prime notizie trapelate, i due uomini giustiziati sono stati accusati di aver facilitato queste nuove ondate di raid, fornendo ai servizi segreti israeliani preziose informazioni logistiche. Sono stati ritenuti responsabili di tradimento e accusati di aver causato la morte di tredici palestinesi all’interno del campo.

Bandiera d’Israele. (Foto Taylor Brandon-Unsplash)

I network locali si sono divisi sul metodo di esecuzione. I media israeliani hanno parlato di morte tramite impiccagione eseguita da Hamas. Secondo un’altra versione, i due uomini sarebbero stati uccisi e in seguito appesi alle porte della città come monito. Nella mattinata successiva sono arrivate notizie più precise: Hamas non è stato mai coinvolto in questa operazione. Al momento, non ci sono prove e video che mostrano i corpi esposti. L’unica cosa certa è che i due uomini accusati di tradimento sono stati fucilati e, in seguito, portati in giro per la città per mostrarne il volto. Le autorità palestinesi non si sono espresse sull’accaduto.

Con il passare del tempo, i gruppi armati stanno proliferando e reclutando sempre più giovani nelle proprie file. Per molti, vista la totale assenza delle autorità governative, questi gruppi sono l’unica forza di resistenza riconosciuta. Terroristi per Israele, liberatori per il popolo palestinese, i combattenti spesso ingaggiano battaglie anche contro la stessa Autorità nazionale palestinese (Anp), accusata di collaborare più con Israele invece che essere dalla parte del proprio popolo.

Angelo Calianno, da Ramallah

 




Denis Mukwege, l’uomo che vuole curare il Congo

C’è un nome, nella lista dei 26 candidati che il 20 dicembre si sfideranno per la presidenza della Repubblica democratica del Congo (Rdc), che colpisce più di ogni altro: quello di Denis Mukwege, ginecologo, attivista per i diritti umani e vincitore del premio Nobel per la pace nel 2018 (MC ne parla qui).

Originario di Bukavu nel Sud Kivu, Mukwege ha passato buona parte della sua vita a prendersi cura di bambine, ragazze e donne vittime di violenze e abusi sessuali. Atti brutali, diventati un’arma di guerra sempre più diffusa nelle regioni orientali della Rdc, da decenni dilaniate da continui conflitti armati. Soprannominato «il medico che ripara le donne», nel 1999 alla periferia di Bukavu, Mukwege ha fondato il Panzi Hospital, una struttura specializzata nella tutela della salute materna e sessuale, ma soprattutto nella cura fisica e psicologica delle vittime di violenze, abusi e stupri.

Ma Mukwege non è solo un medico, è anche un attivista, capace di far giungere le sue parole di condanna della violenza sulle donne alle Nazioni Unite e di vincere il premio Sakharov per la libertà di pensiero (2014) e il Nobel per la pace (2018). Tracciando un filo rosso tra diverse epoche e conflitti nel mondo, Mukwege ha denunciato l’uso sistematico dello stupro come arma di guerra e si è spinto fino a criticare duramente le istituzioni politiche di Kinshasa. Incapace di porre fine ai conflitti nell’Est e di garantire un adeguato accesso ai servizi di base tra cui quelli sanitari, secondo Mukwege, lo Stato congolese è responsabile, tanto quanto gli attori armati, di violenze, abusi e stupri nei confronti delle donne.

È per questo che la sua discesa in politica è stata accompagnata da un’ondata di entusiasmo, sia nel Paese sia a livello internazionale. Lo dimostra il fatto che, nell’assenza di un partito strutturato alle sue spalle, sia stata la società civile dell’Est – con le donne in prima linea – ad aiutarlo a raccogliere i 100mila dollari necessari per candidarsi. In uno Stato dove corruzione, povertà e sfruttamento di risorse e popolazione sono la norma, Mukwege, per i suoi sostenitori, rappresenta la speranza di un cambiamento.

Le parole con cui inizia il suo progetto sociale, dal titolo «Riparare e curare il Congo», sono emblematiche: «Non mi sono candidato per cominciare una carriera politica. Mi sono candidato per tre obiettivi: la fine della guerra, della fame e dei vizi». Mukwege evidenzia le principali problematiche del Paese e avanza proposte che spaziano dalla governance alle infrastrutture, dal clima all’accesso equo a educazione, sanità e nutrizione.

Prima, però, c’è un’elezione da vincere e gli ostacoli, come gli interrogativi sulla trasparenza del processo elettorale, non mancano. Mentre la presenza di ben 25 candidati di opposizione crea un concreto rischio di dispersione dei voti a vantaggio del presidente uscente, Félix Tshisekedi. Da qui, l’ipotesi di creare una coalizione che riunisca l’opposizione a sostegno di un solo candidato, il ricco uomo d’affari ed ex governatore del Katanga, Moïse Katumbi. Ma, per ora, Mukwege non sembra aver ancora rinunciato al sogno di provare a curare il suo Paese.

Aurora Guainazzi