Iran. Droni e petrolio vendesi

Nonostante le foto diffuse dall’Agenzia di stampa della Repubblica islamica (Irna) sembrino mostrare il contrario, venerdì 1 marzo l’Iran – paese con 88 milioni di abitanti – è andato alle urne senza alcun entusiasmo, segnando la più bassa partecipazione di votanti dalla rivoluzione del 1979: il 41 per cento degli aventi diritto. In gioco c’erano i 290 seggi del Parlamento (Majlis) e gli 88 dell’Assemblea degli esperti. Quest’ultima è l’organo clericale cui spetta la scelta della Guida suprema, attualmente rappresentata dall’ayatollah Ali Khamenei (85 anni).

Come ampiamente previsto, anche senza attendere i risultati del secondo turno (sarà a maggio), hanno vinto i conservatori e gli ultra conservatori, agevolati dall’assenza – per divieto o per boicottaggio – non solo dei candidati progressisti ma anche di gran parte di quelli moderati.

Donne iraniane al voto venerdì 1 marzo 2024 in una foto diffusa dall’Agenzia di stampa statale. (Foto Maryam Almomen – IRNA)

Il popolo iraniano sta vivendo anni bui sotto il giogo della casta sciita al potere. Dopo le manifestazioni di piazza del 2022 (proteste guidate dalle donne), la violazione dei diritti civili e la carcerazione o l’uccisione degli oppositori sono una prassi consolidata.

Per la teocrazia iraniana non mancano, però, le note positive. Nonostante un’inflazione elevata (40 per cento annuo), l’economia resiste (più 4,2 per cento nel 2023), sospinta dai legami sempre più stretti con la Cina di Xi Jinping e la Russia di Vladimir Putin, paesi che lo scorso 1° gennaio hanno accolto l’Iran in seno al gruppo dei Brics. La produzione di petrolio, grande ricchezza del Paese, è in crescita (2,99 milioni di barili di petrolio al giorno nel 2023, secondo l’Agenzia internazionale per l’energia) con la quota d’esportazione quasi interamente acquistata dalla Cina. In questo momento storico il maggiore successo economico (e politico) del Paese è però dato dalla vendita di un micidiale prodotto tecnologico per uso militare: i droni, i veicoli aerei senza pilota (Unmanned aerial vehicles, Uav). I droni iraniani – come lo «Shahed 136» o il «Mohajer-6» – sono venduti soprattutto alla Russia per la sua aggressione all’Ucraina, ma anche in Africa (Etiopia, Sud Sudan e Fronte Polisario del Sahara occidentale) e in America Latina (Venezuela e Bolivia).

Inoltre, essendo il Paese sponsor delle milizie sciite in Libano (Hezbollah), in Yemen (Houti) e in Iraq, i droni di fabbricazione iraniana sono un’arma sempre più utilizzata nell’esplosiva regione mediorientale.

Paolo Moiola




Bielorussia. Lukashenko: ieri, oggi e domani

È al potere dal 1994 e pochi giorni fa ha annunciato che l’anno prossimo si presenterà per ottenere il settimo mandato consecutivo. Insomma, ad Alexander Lukashenko non bastano 30 anni di potere assoluto: ne vuole altri cinque. È il dittatore più longevo d’Europa, precedendo l’alleato e sodale Vladimir Putin, fermo a quota 24.

Dal febbraio 2022 la Bielorussia – paese con 9,5 milioni di abitanti – ospita sul proprio territorio truppe russe impegnate nella guerra d’aggressione contro l’Ucraina. Si parla – inoltre – anche di una sua collaborazione nella deportazione illegale di bambini dalle città ucraine occupate dalla Russia.

Nel frattempo, domenica 25 febbraio si è tenuta una tornata di «elezioni» per i 110 seggi della camera bassa e per i consigli locali. Non c’erano candidati dell’opposizione né sono stati ammessi osservatori dell’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa). Dal suo esilio lituano, Sviatlana Tsikhanouskay (moglie di Sergei, politico e attivista bielorusso condannato a 18 anni di carcere), leader dell’opposizione, aveva chiamato al boicottaggio, memore di quanto avvenuto nell’agosto 2020.

Sviatlana Tsikhanouskay, probabile vincitrice delle elezioni presidenziali del 2020, si è rifugiata in Lituania. (Foto eroparl.europa.eu)

In quell’occasione c’erano state grandi (e inusuali per il Paese) manifestazioni di protesta dopo che i dati ufficiali avevano attribuito la vittoria a Lukashenko con l’80 per cento dei voti. Le opposizioni avevano accusato il governo di aver scippato la vittoria a Svetlana Tikhanovskaja, poi costretta a rifugiarsi nella vicina Lituania.

In questi ultimi anni Lukashenko ha messo di nuovo mano alla Costituzione e varato nuove leggi per consolidare il proprio potere, garantirsi l’immunità da eventuali accuse e limitare la possibilità di candidarsi per gli oppositori. Intanto, è continuata la repressione interna. In carcere è finito anche Ales Bialiatski, premio Nobel per la pace 2022 (assieme all’organizzazione russa Memorial e all’ucraina Ccl), fondatore e presidente del «Centro per i diritti umani Viasna», organizzazione di Minsk che, dal 1996, fornisce aiuto e assistenza ai prigionieri politici e alle loro famiglie.

Con la sua unica avversaria politica in esilio, gli oppositori interni in carcere (sono 1.413 persone, secondo Viasna) e il grande sponsor saldamente al potere a Mosca, Alexander Lukashenko può dormire sonni tranquilli.

Paolo Moiola




Senegal. Le elezioni che sfuggono

 

La nuova data del primo turno delle elezioni presidenziali in Senegal è stata fissata per il 2 giugno, anche se si aspetta la firma del decreto da parte del presidente Macky Sall. Dopo il Ramadan (10 marzo – 8 aprile), e prima della stagione delle piogge. Ma il mandato del presidente scade il 2 aprile, per cui occorrerà un periodo di interim.

Il presidente aveva rimandato sine die le elezioni previste per il 25 febbraio, ma il Consiglio costituzionale aveva invalidato il decreto. Fatto sta che le elezioni non si sono tenute, per ora. La gente, però, è scesa in piazza per reclamarle.
Il Senegal è uno dei pochi paesi saheliani che aveva ancora mantenuto una certa stabilità e un approccio democratico, ma gli ultimi segnali non sono rassicuranti (ne avevamo parlato qui).
Il tentativo di Sall di modificare la Costituzione per potersi candidare per la terza volta consecutiva, è fallito a causa delle proteste di piazza.
Così il presidente ha cercato di escludere dalla competizione gli oppositori più validi, tra tutto Ousmane Sonko, attualmente in prigione con una condanna a due anni, e di mandare avanti il suo candidato Amadou Ba, l’attuale premier.
Intanto la società civile, con il coordinamento Aar sunu élection (Proteggiamo le nostre elezioni), ha indetto una giornata di sciopero generale mercoledì 28 febbraio, per fare pressioni affinché la consultazione elettorale non sia ulteriormente rimandata.
Nel frattempo, il presidente Macky Sall ha realizzato quello che ha chiamato «Dialoghi nazionali», un incontro con le parti, ovvero società civile, partiti politici, leader religiosi, sindacati e patronato (ma molte organizzazioni e candidati già validati non hanno partecipato), per la ridefinizione del processo elettorale. All’apertura dei lavori, il 27 febbraio, Sall ha annunciato un progetto di legge di amnistia per tutti i fatti accaduti durante le manifestazioni a fini politici tra il 2021 e 2024. Questo potrebbe rimettere in campo Sonko e altri candidati esclusi. Anche Karim Wade, figlio dell’ex presidente Abdoulaye Wade (2000-2012), escluso dalle liste, potrebbe essere ripescato.
Inoltre, quindici dei diciannove candidati validi, hanno depositato un ricorso al Consiglio costituzionale chiedendo che le elezioni si tengano prima del 2 aprile.

Marco Bello




Venezuela. Caracas e Mosca, amore interessato

La data delle elezioni presidenziali non è stata ancora ufficialmente annunciata, ma pare sia questione di poco. In quale direzione vada il Venezuela di Nicolás Maduro è, invece, piuttosto chiaro. Lo scorso 22 febbraio la Tass, l’agenzia di stampa del Cremlino, dava spazio all’entusiasmo del presidente venezuelano in occasione della nuova visita del ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov. Mentre si fanno sempre più stretti i rapporti con la Russia, quelli con la comunità internazionale dei paesi democratici rimangono molto tesi.

Il presidente Maduro ha preso misure forti contro due donne che avrebbero potuto causargli problemi: María Corina Machado prima e Rocío San Miguel poi.

Mentre cerca di riconfermarsi al potere, il presidente venezuelano Nicolás Maduro stringe rapporti sempre più stretti con la Russia di Vladimir Putin. (Foto Ciudadccd.info)

La prima è (sarebbe) la candidata scelta dall’opposizione dopo la consultazione popolare dello scorso ottobre (primarie vinte con oltre il 93 per cento delle preferenze), ma è stata inabilitata dal Tribunale supremo (addirittura per quindici anni) per aver appoggiato le sanzioni degli Stati Uniti contro il Venezuela e Juan Guaidó come presidente provvisorio. In base a questa decisione la Machado non potrà partecipare alle prossime elezioni nelle quali, in caso di svolgimento regolare, sarebbero alte le sue possibilità di vittoria. La seconda donna, avvocata e direttrice della Ong «Control ciudadano» (specializzata nel controllo delle azioni delle forze di sicurezza), è stata arrestata con la pesante accusa di essere parte di una cospirazione – nota come «brazalete blanco» – per assassinare il presidente Maduro. A metà febbraio, pochi giorni dopo l’arresto della San Miguel, Caracas ha ordinato la chiusura dell’ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr) e dato 72 ore al personale (tredici persone) per lasciare il paese. L’accusa è quella di essere di essere una centrale di supporto a un’estrema destra di golpisti e terroristi e di avere un’attitudine colonialista.

Questa serie di eventi mette in serio rischio gli accordi di Barbados tra governo e opposizione sulle regole della competizione elettorale, accordi faticosamente raggiunti lo scorso 17 ottobre con la mediazione di Norvegia e Messico.

Evidentemente Caracas preferisce rafforzare i legami con i paesi in cui la prassi democratica non è contemplata o è considerata un’inutile perdita di tempo. La cooperazione tra Venezuela e Russia è forte perché forti sono gli interessi reciproci. Caracas vuole rompere l’isolamento internazionale e risollevare la propria economia in perenne affanno. Per parte sua, Mosca vuole rafforzare la propria presenza – politica, militare ed economica – in America Latina, già solidissima con il Nicaragua della coppia presidenziale Daniel Ortega e Rosario Murillo. In un caso e nell’altro si conferma che i dittatori s’intendono a meraviglia.

Paolo Moiola




Cina. La crisi dell’immobiliare

Il 29 gennaio un tribunale di Hong Kong ha disposto l’ordine di liquidazione di Evergrande, il colosso immobiliare cinese schiacciato sotto il peso di oltre 300 miliardi di dollari di debiti.

Le lunghe trattative con i principali creditori si sono concluse con un nulla di fatto: era dal dicembre 2021, ovvero da quando l’azienda è andata in default su 82,5 milioni di dollari di obbligazioni, che i colloqui procedevano al fine di definire una ristrutturazione del debito offshore accettabile per tutte le parti. Ora le cose per il gruppo cinese si complicano. Il suo esuberante fondatore, Xu Jiayin – un tempo uomo più ricco d’Asia – da settembre pare si trovi ai domiciliari per «attività illegali» e non è escluso che in futuro il caso acquisirà risvolti non solo strettamente economici. D’altronde negli ultimi anni il conglomerato ha espanso le sue attività ben oltre il comparto immobiliare con acquisizioni nel mondo del calcio, dell’automotive, del turismo, e persino dell’intrattenimento. Nel 2022 due dirigenti sono stati rimossi dai loro incarichi con l’accusa di uso improprio di fondi, stanziati originariamente per i progetti immobiliari e finiti altrove.

L’inizio della crisi immobiliare ha una data: agosto 2020. Ovvero il mese e l’anno in cui il rallentamento del mercato interno, colpito dalla pandemia, spinge il governo cinese a introdurre alcune restrizioni sull’emissione di prestiti bancari per contenere la leva finanziaria nel settore. Questo rende improvvisamente difficile ripagare i debiti, non solo per Evergrande. Ma anche per tutti quegli sviluppatori che, come il colosso di Guangzhou (Canton), hanno prosperato per decenni incassando introiti dalla vendita di abitazioni non ancora costruite. E che adesso, forse, non lo saranno mai.

Nell’immediato la sfida per Pechino sta proprio nel trovare un modo per gestire il patrimonio del promotore immobiliare: oltre 1.740 miliardi di yuan di asset, la maggior parte dei quali concentrati nella Cina continentale, che ha un sistema giuridico diverso da quello di derivazione anglosassone in vigore a Hong Kong. Le implicazioni però sono ad ampio raggio. Non solo perché la gestione di Evergrande funge da esempio per tutte le altre aziende in difficoltà. Tanto per citarne una: Country Garden che ha passività per circa 190 miliardi di dollari e più di 3.000 progetti in fase di sviluppo.

La procedura di liquidazione avviata a Hong Kong rappresenta più in generale un banco di prova per la Cina, che solo pochi giorni fa ha annunciato un crollo degli investimenti diretti esteri ai minimi dal 1993. Da come verrà gestito il caso dipende anche l’affidabilità del mercato cinese, già compromesso dal rallentamento dell’economia, dalla crescente enfasi attribuita da Pechino alla sicurezza nazionale, nonché dalle frizioni geopolitiche con l’Occidente.

Sotto esame anche l’ex colonia britannica (Hong Kong), che nell’ultimo decennio ha visto diminuire l’autonomia concessa da Pechino sotto il motto «un paese, due sistemi». Una situazione costata già una diminuzione delle aziende straniere presenti a Hong Kong. Non serve molta immaginazione per intuire che effetto avrebbe nei circoli del business il mancato rispetto dell’ordine di liquidazione. Eppure, stando ai precedenti (per esempio il default di Kaisa), difficilmente la leadership cinese accetterà di dare priorità ai creditori offshore. Almeno non prima di aver risolto la questione abitativa sulla terraferma: sono circa un milione e mezzo gli appartamenti venduti ma ancora incompiuti. Quindi almeno altrettante le persone in attesa di ricevere la propria casa. Senza contare gli stipendi che Evergrande deve ancora versare ai propri dipendenti. Si sommano i conti da saldare ai fornitori. Questioni spinose che in passato hanno già alimentato accese proteste in diverse città. Esattamente quanto Pechino, ossessionato dalla stabilità sociale, vuole evitare. Secondo i dati dell’Ong China labour bulletin, le proteste per i salari non pagati nel periodo precedente al capodanno lunare (10 febbraio) sono raddoppiate rispetto allo scorso anno. Molte hanno coinvolto lavoratori edili, una categoria che in Cina conta circa 52 milioni di persone.

Oggi oltre il 90% delle famiglie cinesi ha almeno una casa di proprietà. Considerato bene rifugio, circa tre quarti del patrimonio familiare in Cina risiede proprio nel mattone. Ma la crescita esplosiva dell’immobiliare ha anche innescato una bolla speculativa ormai difficile da domare. Basti pensare che, secondo diverse stime, oggi in Cina ci sono sufficienti appartamenti per ospitare tre miliardi di persone a fronte di una popolazione di 1,4 miliardi. Con il calo delle nascite la situazione è destinata a peggiorare. L’effetto delle giacenze è visibile nelle preoccupanti oscillazioni dei prezzi delle case che, se da una parte restano inavvicinabili per molti giovani cinesi, dall’altra tendono a perdere facilmente valore. Con buona pace di chi ci ha investito i propri risparmi.

Lo ha detto più volte il presidente Xi Jinping: «Le case sono fatte per abitarci, non per speculare». Dopo quattro anni di pandemia da Covid-19, la leadership cinese percepisce che l’immobiliare rischia di esacerbare ulteriormente le disuguaglianze sociali. Quindi di ostacolare gli obiettivi di lungo periodo prefissati da Xi, che entro il 2035 aspira a raddoppiare il Pil pro capite rispetto ai valori del 2019. L’economia intreccia la politica creando un mix letale per legittimità del Partito-Stato.

Al contempo si temono ripercussioni più ampie non solo per i comparti più esposti al surriscaldamento del mattone, dal settore bancario a quello della gestione patrimoniale. Se il controllo statale sugli istituti di credito fa escludere l’eventualità di una crisi Lehman Brothers «con caratteristiche cinesi», allo stesso tempo la crisi innescata dal tracollo di Evergrande è per certi versi più destabilizzante: a venire messo in discussione è infatti un po’ tutto il paradigma di sviluppo cinese. Trainato fin dagli anni ‘90 da un’urbanizzazione dirompente, quel modello economico è costato alle amministrazioni locali livelli di indebitamento elevatissimi, domati grazie agli introiti dalla vendita dei terreni statali ai promotori immobiliari. Ma ora che i colossi del mattone stringono la cinghia a risentirne sarà, di riflesso, anche il bilancio dei governi provinciali, distrettuali e municipali. Senza misure efficaci, secondo le stime della Banca Mondiale, da qui al 2025 la crescita cinese rallenterà dal 5 al 4,3% proprio a causa dell’instabilità dell’immobiliare.

Da tempo la leadership comunista cerca di ridurre la dipendenza dell’economia dagli investimenti infrastrutturali. Obiettivo diventato necessario da quando tre anni di rigidissime misure contro il Covid-19 hanno prosciugato le casse statali. La soluzione, auspicata da Pechino, prevede un maggiore coinvolgimento dei consumi interni, ancora fermi al 53% del Pil rispetto a una media mondiale del 72%. Più facile a dirsi che a farsi. Nonostante la ripresa del turismo, durante il capodanno lunare la spesa media pro capite ha registrato un calo del 9,5% rispetto al livello pre pandemia. Comprensibile: chi aprirebbe con leggerezza il portafoglio dopo aver investito i propri risparmi in una casa che forse non vedrà mai?

Alessandra Colarizi




Urbanizzazione e sicurezza alimentare

 

Nel mondo soffrono la fame tra i 690 e i 783 milioni di persone. In Africa una persona ogni cinque. In Asia una ogni 12. L’obiettivo della «fame zero» entro il 2030 appare irraggiungibile.

Fame zero entro il 2030. È questo il secondo obiettivo dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite.

Man mano che passano gli anni, però, la speranza di riuscire a raggiungerlo entro i tempi previsti è sempre più risicata e un recente report dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao) lo conferma. Nel 2022, il 9,2% della popolazione mondiale (tra 690 e 783 milioni di persone) era in una condizione di fame, ovvero non consumava la quantità minima di cibo necessaria per disporre dell’energia essenziale per una vita attiva e salutare.

Una percentuale in crescita rispetto al 7,9% registrato nel 2019. Cosa che rende evidente l’impatto negativo sul settore agroalimentare della pandemia da Covid-19 – che ha causato un rallentamento dell’economia mondiale – e del conflitto in Ucraina – che ha reso difficile reperire beni alimentari di prima necessità e ha provocato un’impennata dell’inflazione fino al 9% (2022).
Persistono inoltre altri fattori destabilizzanti come cambiamento climatico, conflitti e diseguaglianze.

Ricerche complementari al report sono scese nel dettaglio, analizzando i livelli di fame nel mondo dal punto di vista geografico e temporale.
Dalla comparazione dei loro risultati emerge come l’Africa registri i valori più elevati del pianeta: nel 2022, il 19,7% degli abitanti del continente (282 milioni di persone) soffriva la fame. Ma non solo. Sempre in Africa si è verificato l’incremento maggiore dell’insicurezza alimentare, cresciuta di più del 4% in soli due anni tra il 2020 e il 2022.

Considerando i valori assoluti, invece, è l’Asia a raccogliere più della metà della popolazione mondiale in condizione di fame: 402 milioni di persone (l’8,5% degli asiatici, in leggero calo rispetto all’8,8% del 2021).

Basandosi sui dati raccolti nelle diverse aree del mondo, la Fao stima che entro il 2030 la fame nel mondo si ridurrà, ma non si azzererà, dato che coinvolgerà ancora 600 milioni di persone. La maggior parte dei progressi dovrebbe avvenire in Asia con un dimezzamento dei valori, mentre al contrario in Africa si prevede un ulteriore incremento dell’insicurezza alimentare che dovrebbe arrivare a coinvolgere 300 milioni di persone.

Significativa è la decisione degli autori del report di studiare la correlazione tra la sicurezza alimentare – e, nello specifico, l’accesso a una dieta sana – e il fenomeno epocale dell’urbanizzazione. Infatti, se nel 1950 viveva nelle città il 30% della popolazione mondiale, nel 2021 la cifra era salita al 57% e le stime per il 2050 prevedono il 70%. In particolare, Africa subsahariana e Asia meridionale sono le due regioni dove le città stanno crescendo più rapidamente, con tassi tre volte superiori alla media mondiale.

Il report evidenzia come l’espansione delle città – combinata a fattori come l’aumento di reddito e di opportunità lavorative fuori casa, oltre al cambiamento degli stili di vita – stia profondamente influenzando il sistema agroalimentare. Da un lato, si assiste a una modificazione della dieta della popolazione mondiale; dall’altro, la catena produttiva diventa sempre più lunga e complessa.

Cresce la domanda di latticini, carne e pesce, ma anche quella di cibi già pronti, altamente processati, ad alto contenuto energetico ma privi di nutrienti. I sistemi agroalimentari devono quindi produrre e distribuire quantità sempre maggiori di beni. La catena produttiva si allunga, creando una profonda interconnessione tra aree rurali, periurbane e urbane: il sistema agricolo non si basa più sul piccolo mercato locale, ma guarda alle città. Ne deriva una catena sempre più complessa, caratterizzata da una produzione maggiore in termini quantitativi e qualitativi – grazie a migliori input e tecnologie provenienti dalle città – e da forme di processazione e trasporto più efficienti e articolate.

Tendenzialmente, secondo gli autori del report, la relazione tra urbanizzazione e sicurezza alimentare è positiva: man mano che la popolazione si sposta nelle città, si riducono gli indici di fame. Tuttavia, persistono ostacoli all’accesso a una dieta sana, come ad esempio l’inflazione – che negli ultimi anni ha eroso il potere d’acquisto della popolazione mondiale, spingendola verso cibi più economici – e i «deserti alimentari» – aree spesso periferiche dove i prodotti alla base di una dieta sana sono difficilmente reperibili.

Dunque, la strada verso l’eliminazione della fame nel mondo resta ancora lunga e tortuosa.

Aurora Guainazzi




Haiti. Contro il governo, contro le gang

 

Haiti vive lo stato di «peyi lòk» (paese bloccato) da metà gennaio, quando le manifestazioni popolari scoppiate in diverse città hanno bloccato tutte le attività. Dalle scuole, alla sanità, ai trasporti e le attività commerciali. La popolazione è scesa in piazza per chiedere che il primo ministro de facto Ariel Henry, faccia un passo indietro.

Henry aveva preso il potere, grazie all’appoggio degli Stati Uniti, il 20 luglio 2021, pochi giorni dopo l’assassinio del presidente Jovenel Moise. Il suo governo – de facto perché non rispetta le procedure costituzionali, in quanto le elezioni non si tengono da diversi anni – non è riuscito a dare risposte dal punto di vista della sicurezza. I gruppi armati (chiamati in creolo gang) hanno preso il controllo gran parte della capitale Port-au-Prince, di diverse città e delle principali vie di comunicazione del Paese. Le guerre tra gang nei quartieri, inoltre, hanno causato centinaia di morti e circa 313.000 sfollati. Si tratta di cittadini costretti a lasciare i propri quartieri, perché diventati insicuri o perché obbligati dai banditi. Durante il solo 2023 circa 8.400 persone son state uccise, ferite o rapite, secondo dati del Binh (Ufficio integrato delle Nazioni Unite ad Haiti). Sempre dati Onu indicano un aumento di assassinii, con circa 5mila persone uccise, mentre i rapimenti sono quasi raddoppiati rispetto all’anno precedente, portandosi a 2.490.

Un accordo del 21 dicembre 2022, chiamato Consenso nazionale per la transizione, firmato da alcune parti in causa (partiti e società civile), prevedeva che Henry lasciasse il potere il 7 febbraio, data simbolo nella storia haitiana (giorno della cacciata di Jean-Claude Duvalier nel 1986). Non essendoci nessun progresso o segnale di dimissioni la gente è scesa in piazza. Ma le agitazioni popolari sono degenerate in violenza. Strade bloccate con pneumatici incendiati e pietre, saccheggi e incendi, in diverse città. La polizia ha represso le manifestazioni con violenza e lacrimogeni, causando alcuni morti e diversi feriti.

L’8 febbraio, il primo ministro Henry ha dichiarato che il suo scopo è portare il paese ad elezioni, che però non si possono organizzare in una situazione come quella attuale. Non ha quindi senso «sostituire una transizione con un un’altra transizione» e per questo motivo è deciso a non lasciare.

Pneumatici incendiati per bloccare le strade a Port-au-Prince. Foto AlterPresse.

In questo contesto, il progetto di Missione multinazionale di appoggio alla sicurezza (Mmas) guidata dal Kenya, approvato dal Consiglio di sicurezza dell’Onu del 2 ottobre 23, avrebbe dovuto portare ad Haiti un migliaio di poliziotti keniani e altrettanti di altri paesi disponibili già il mese scorso. Missione con lo scopo di appoggiare la polizia haitiana a riportare la sicurezza. Ma il 26 gennaio scorso la Corte suprema del Kenya ha dichiarato incostituzionale la decisione di dislocare ufficiali di polizia al di fuori dei confini nazionali. Mentre il presidente del Kenya, William Ruto si dice ottimista, di fatto l’impasse sullo spiegamento della Mmas è totale.

L’8 febbraio l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, Ocha, ha espresso la sua preoccupazione per la chiusura di oltre mille scuole, l’aumento dei prezzi di generi alimentari di base a causa del blocco del commercio, e l’impossibilità del lavoro di assistenza umanitaria agli sfollati. L’organizzazione ha lanciato un allarme sul rischio di una crisi alimentare sempre più ampia.

Nella stessa data, in una nota, la Conferenza episcopale di Haiti ha lanciato un chiaro appello per «mettere fine alla sofferenza del popolo, la cui volontà si è espressa su tutto il territorio, in particolare il 7 febbraio. Il sangue, le lacrime sono colate attraverso assassinii, rapimenti, stupri perpetrati nel corso degli ultimi tre anni. Ne abbiamo abbastanza! […]».

E rivolgendosi direttamente al primo ministro: «Testimoni della miseria e della sofferenza dei nostri concittadini nei dieci dipartimenti del paese, noi vescovi della Ceh lanciamo un appello vigoroso al primo ministro, Ariel Henry, affinché si renda conto della gravità della situazione attuale e prenda una decisione saggia per il bene di tutta la nazione che è seriamente minacciata nelle sue stesse fondamenta». Una richiesta ad Henry di passare la mano.

Marco Bello




Congo Rd. Padre Flavio, i Pigmei e i «verdi fratelli silenziosi»

«Qui davanti alla missione c’è la piccola piantagione di caffè che coltivo con i pigmei. È in piena fioritura, un esercito di api nella gioia e un profumo immenso. Come quello che si fa con il cuore e profuma la nostra vita». Flavio Pante, missionario della Consolata, ci manda le foto degli arbusti nel verde. Considera la natura una preziosa collaboratrice nel lavoro a Bayenga.

Le api ronzanti sui fiori a grappoli sono una benedizione. Per il miele? Quanto al miele, «ancora non ci siamo. I pigmei lo raccolgono in foresta sugli alberi e non pensano agli alveari. Con il tempo, troveremo un apicoltore che ci introduca un po’ alla volta. Ma la funzione di questi insetti è importantissima già di per sé: garantiscono l’impollinazione, delle papaie, degli avocado, di altre piante nutrienti».
Nell’ottica delle produzioni locali, la piantagione di caffè che qui chiameremmo «a chilometro zero» è una buona idea: «La bevanda serve alla missione, ma anche alla gente del posto. La tostatura è artigianale, su griglie con la brace sotto. Per i bantu il caffè mattutino, senza zucchero (non lo hanno), è normale. Anche i pigmei lo bevono, ma meno; forse per loro è un’usanza acquisita».

Alcuni Pigmei alle prese con il lavoro agricolo, a Bayenga, Rdc.

Padre Flavio precisa che le piantagioni commerciali in zona sono sparite: «Con tutte le guerre e invasioni degli ultimi decenni si è verificata una situazione di instabilità e insicurezza. Così gli investitori, soprattutto greci e ciprioti, che tenevano le piantagioni con la collaborazione di congolesi, hanno pensato che questo settore non fosse più sicuro. Aggiungiamo la svalutazione e altri fattori economici. Le piantagioni (di caffè e altro) non più curate, sono state “conquistate” dalla foresta. E le strade, cessato il traffico dei camion, si sono ristrette a piste».

Quale è il rapporto dei pigmei, popolo della foresta, con gli alberi, che padre Flavio chiama «verdi fratelli silenziosi che regalano frutti e ombra»? Ecco: «I pigmei non piantano gli alberi, non è nella loro cultura; è la foresta stessa che si rigenera. E allora, è importante avviarli (con un compenso per quanto piccolo) a queste attività. Per esempio, un vivaio in cui pianti i semi di caffè, poi li trapianti, e quando crescono gli arbusti devi togliere l’erba sottostante – sennò le piante ingialliscono e non producono. Coinvolgiamo le persone in tutte le fasi, nell’ottica della pedagogia del fare».

Fra le attività della missione, con le popolazioni bantu e i pigmei, padre Flavio spiega di aver introdotto un’altra pratica: «Procurare loro piccole piantine o semi, di papaie, di avocado che piantano non lontano dalla loro capanna per avere con il tempo i frutti. Anche solo due o tre alberi per famiglia. Ma è l’inizio di un cammino che magari ci porterà in futuro ad avere un frutteto in comune».
Padre Flavio illustra i numerosi altri servizi dei «grandi e silenziosi fratelli verdi»: «Per noi, almeno nella mia zona, dove non c’è la segnaletica, gli alberi secolari sono un riferimento negli spostamenti. C’è anche un’altra funzione. La nostra zona è molto soggetta a fulmini. Ebbene sono questi grandi alberi a proteggerci, sono loro che pagano e si bruciano sotto i fulmini…» Non solo: «Attenuano la forza del vento – qui la pioggia viene sempre portata dal vento – proteggendo i tetti delle nostre case e capanne. Ci aiutano veramente». Infine, «nella foresta i tronchi caduti possono fare da ponte sui torrenti tumultuosi e fangosi».

Marinella Correggia

Pubblichiamo questo articolo oggi, 16 gennaio, festa del beato Giuseppe Allamano, fondatore dei missionari e delle missionarie della Consolata.

Piante di caffè piantate dai pigmei di Bayenga. In questo periodo sono in piena fioritura.




Argentina. «El maligno es santo»

«Il maligno è santo», «Javier Milei, ai piedi di papa Francesco», «Da maligno a benigno»: sono alcuni dei titoli con cui il sito di «Página|12» apriva i servizi sull’incontro tra il presidente Javier Milei e papa Francesco, avvenuto in Vaticano domenica 11 (durante la canonizzazione di Mama Antula, la prima santa argentina) e lunedì 12 febbraio (in forma privata). L’ironia del quotidiano argentino era giustificata, forse addirittura doverosa.

Nei mesi precedenti la sua elezione, il presidente argentino era stato, infatti, prodigo di insulti verso l’illustre connazionale. Papa Francesco era stato definito da Milei, tra l’altro, «il rappresentante del diavolo sulla Terra», mentre ora è diventato «l’argentino più importante del mondo».

Pur non avendo (ancora) visitato il suo Paese, papa Francesco ha sempre ricevuto i vari presidenti argentini: da Cristina Kirchner a Mauricio Macri fino ad Alberto Fernández. L’incontro di lunedì con Milei – senza la presenza di altri – si è protratto per 70 minuti, ben più del previsto. È stato definito cordiale, ma non è chiaro come le loro (opposte) visioni sull’economia e sul capitalismo abbiano trovato punti in comune.

Javier Milei – libertario e anarcocapitalista come lui ama autodefinirsi – è arrivato a Roma dopo una visita in Israele e proprio nei giorni in cui la sua (ambiziosissima) Ley ómnibus veniva affossata. La legge omnibus era la legge d’esordio del suo governo, un unico progetto di 664 articoli che includeva varie riforme in materia economica, fiscale, amministrativa, con una base ideologica fondata su liberalizzazioni e privatizzazioni. Si prevedeva, per esempio, di togliere le limitazioni attualmente in vigore sull’acquisto delle (preziosissime) terre agricole argentine da parte degli stranieri.

La «legge omnibus» del governo Milei prevedeva (tra l’altro) di eliminare i limiti alla vendita delle (preziosissime) terre argentine a soggetti stranieri. (Foto visiondailleurs1 – Pixabay)

Ospite più che apprezzato a una trasmissione di «Retequattro» (Nicola Porro) e sul quotidiano «Libero» (Mario Sechi), Milei ha rilasciato interviste che dipingono il personaggio. «Milei – ha scritto un entusiasta Sechi – ha l’aria di chi sta tessendo una tela, non solo per dare corpo e sostegno al suo piano per l’Argentina. La sua rivoluzione è quella di un uomo di pensiero che conduce una battaglia delle idee […]». Una di esse riguarda la concezione dello Stato: «Filosoficamente – ha spiegato il presidente – sono un anarcocapitalista e quindi nutro un profondo disprezzo per lo Stato. Credo che il nemico sia lo Stato, un’associazione per delinquere».

Sarebbe bello sapere se Milei abbia fatto le stesse osservazioni al cospetto del papa. Più personale ma comunque sorprendente un’altra affermazione fatta davanti alle telecamere di Retequattro: «Sono cattolico e pratico anche un po’ di ebraismo».

L’Argentina, potenzialmente molto ricca, è abbonata alle crisi economiche, che si ripresentano con la stessa puntualità con cui il paese sforna campioni di calcio, che poi costituisce la vera religione del paese. Peccato che il calcio non basti a risollevare le sorti dei 46 milioni di argentini. Vedremo se ci riuscirà Javier Milei, nuovo pifferaio magico del paese latinoamericano.

Paolo Moiola

 




El Salvador. Bukele, presidente e dittatore

Il nome di Nayib Bukele, appena rieletto presidente a furor di popolo (82 per cento dei suffragi), è molto popolare anche fuori del Salvador. È giovane (42 anni), ma non tanto quanto i suoi omologhi del Cile (Gabriel Boric ha 38 anni) e, ancora più, dell’Ecuador (Daniel Noboa, 36). Si è guadagnato fama e popolarità soprattutto per una cosa: l’aver sconfitto le «maras» (Mara salvatrucha e Barrio 18), le bande criminali che, fino a pochi anni fa, dominavano il piccolo paese centroamericano.

Per ottenere questo risultato Bukele non è andato per il sottile. Nel marzo del 2022 il presidente ha decretato lo stato d’emergenza (régimen de excepción), che consente di sospendere i diritti fondamentali della persona, una condizione che il prossimo mese compirà due anni. I risultati ottenuti sono stati eclatanti, in un verso e nell’altro. Secondo i dati governativi, il 2023 è stato l’anno più sicuro nella storia del paese: se nel 2015 il tasso di omicidi raggiungeva la cifra di 106,3 ogni centomila abitanti, oggi è caduto al 2,4. Un tasso questo che collocherebbe El Salvador al primo posto tra i paesi più sicuri in America Latina e al secondo nelle Americhe (subito dopo il Canada). L’altra faccia della medaglia racconta che, sotto lo stato d’emergenza, il governo ha arrestato circa 75mila persone, ovvero oltre l’uno per cento dell’intera popolazione (6,4 milioni). Le immagini dei detenuti seminudi e in catene hanno fatto il giro del mondo. Come quelle del Cecot (Centro de confinamiento del terrorismo), la mega prigione da 40mila posti, inaugurata dal presidente in persona nel gennaio 2023.

Un’impressionante immagine dei detenuti all’interno del mega carcere Cecot, inaugurato dal presidente Bukele nel gennaio 2023. (Foto Oficina de Prensa – Presidencia de la República de El Salvador)

Se la gestione della sicurezza ha dato risultati, la situazione economica rimane estremamente precaria, a cominciare dalla moneta in circolazione nel paese. Nel 2001 il colón è stato sostituito dal dollaro statunitense e, nel settembre 2021, questo è stato affiancato dal bitcoin, criptovaluta tutt’altro che stabile. Altro dato significativo è l’entità delle rimesse degli emigrati salvadoregni (oltre 1,4 milioni soltanto negli Stati Uniti) che raggiunge il 24,5 per cento (2023) del Prodotto interno lordo del paese, una percentuale tra le più alte del continente. Nel frattempo, si sono fatti sempre più stretti i rapporti con la Cina che sta finanziando molti progetti come l’avvenieristica Biblioteca nazionale, inaugurata nella capitale lo scorso novembre.

Tra le tante possibili domande, una in particolare risulta ostica: Nayib Bukele è un presidente populista o un dittatore populista? L’aggettivo è un dato di fatto, mentre il passaggio da presidente a dittatore è dibattuto. Certamente, la strada intrapresa pare quella. Ne è sicuro «El Faro», fondato nel 1998 a San Salvador, primo giornale su internet dell’America Latina, trasferitosi in Costa Rica nell’aprile 2023 a causa dello «smantellamento della nostra democrazia». D’altra parte, lo stesso Bukele in un post sui propri canali social si è autodefinito «El dictador más cool del mundo mundial» (Il dittatore più figo del mondo): la sua risposta – ironica ma non troppo – alla circostanza che la Costituzione del paese vieterebbe un secondo mandato consecutivo.

Paolo Moiola