Droghe e tossicodipendenza


Foto di: Chiara Grimoldi – Dossier a cura di: Paolo Moiola |


Sommario |

Un problema insolubile? |

Il crack, effimera euforia |

Donne e crack |

La drammatica caduta della speranza |

Pochi vincitori, milioni di vinti |

Glossario e bibliografia

In this picture taken on September 24, 2016, medics check the dead body of an alleged drug dealer gunned down by unidentified men in Manila. Philippine President Rodrigo Duterte defended his threat to kill criminals as "perfect" and vowed no let-up in his war on crime, as the death toll surged past 3,700. / AFP PHOTO / NOEL CELIS
Corpo di pusher ucciso nelle Filippine. / AFP PHOTO / NOEL CELIS


Un problema insolubile?

Droghe, fallimento globale

In Portogallo, dall’aprile del 2001, il consumo, il possesso e l’acquisizione di ogni tipo di droga per uso personale non rappresenta più un crimine (www.sicad.pt). La misura ha avuto successo. Lo dicono i numeri (riduzione dei morti per overdose, dei contagi da Hiv, ecc.) e i giudizi di organizzazioni inteazionali. Nelle Filippine, avviene esattamente il contrario: il presidente Rodrigo Duterte, eletto nel maggio 2016, ha dato l’ordine di uccidere spacciatori e consumatori di droga senza inutili arresti e processi. Una giustizia sommaria che, a metà settembre, aveva già fatto 3.426 vittime, 1.491 uccise dalla polizia e le restanti da civili. In Italia, nel 2015 si sono registrati 45.823 ingressi totali negli istituti carcerari, di questi 12.284, pari al 26,8 per cento (un detenuto su 4), in violazione dell’articolo 73 della legge antidroga (detenzione di sostanze illecite). «Come ogni anno e come ogni altro paese occidentale impegnato nella war on drugs – si legge nel 7° Libro bianco sulla legge sulle droghe del giugno 2016 -, la cannabis e i suoi derivati sono le sostanze più prese di mira dal sistema proibizionista. Quasi il 50% delle segnalazioni e delle operazioni antidroga hanno avuto come oggetto i cannabinoidi, nonostante questi siano le sostanze meno dannose per i consumatori, e il loro mercato sia quello in cui i consorzi criminali sono meno coinvolti».

Che la cosiddetta «guerra alla droga» sia fallita ormai lo dicono in molti e da tempo. La dichiarazione più clamorosa, risalente al giugno 2011, è stata quella della «Commissione globale per le politiche sulle droghe», organismo prestigioso anche se quasi sempre inascoltato. «Le immense risorse – si legge nel suo circostanziato rapporto – dirette alla criminalizzazione e alle misure repressive su produttori, trafficanti e consumatori di droghe illegali hanno chiaramente fallito nella riduzione dell’offerta e del consumo». Ancora più duro il comunicato della Commissione uscito ad aprile 2016, subito dopo la chiusura della sessione delle Nazioni Unite dedicata alle droghe (Ungass on drugs): «La Commissione è profondamente delusa […]. Il documento (della sessione speciale, ndr) sostiene un inaccettabile e datato status quo legale. […] Non chiede la fine della criminalizzazione e incarcerazione degli utilizzatori di droga».

Paolo Moiola

Questo dossier parte dal crack, un sottoprodotto della cocaina diffusosi a partire dal Brasile (su MC – l’elenco degli articoli è a pag. 49 – ne abbiamo già parlato). La dottoressa Luana Oddi, medico al Sert di Reggio Emilia, ci spiega perché questa droga ha preso piede anche da noi, perché è considerata molto pericolosa e come la sanità pubblica cerca di aiutare i suoi consumatori. Nel dossier, oltre alle foto, abbiamo usato alcuni grafici, tratti da rapporti inteazionali, con l’obiettivo di far meglio comprendere la problematica al pubblico più giovane, normalmente più esposto. A chiudere, un’intervista a un terapeuta, don Domenico Cravero, che a Torino segue varie comunità di recupero fondate soprattutto sul lavoro nell’agricoltura biologica, e un commento di Sandro Calvani, che ha seguito la problematica delle droghe nella veste di direttore di alcune agenzie delle Nazioni Unite. Pur nella diversità dell’analisi e delle possibili soluzioni, entrambi arrivano a un punto: al di là delle responsabilità e delle debolezze dei singoli consumatori, le droghe sono una manifestazione di società malate. (pa.mo.)

Drug bag


L’esperienza del Sert di Reggio Emilia

Il crack, effimera euforia

 

Spesso la diffusione di una droga è determinata dalla sua disponibilità in uno specifico territorio geografico, in relazione a fattori climatici, economici, politici e storici. L’uso di sostanze ha origini antiche: da sempre l’uomo ricorre a derivati di piante o animali con effetti psicotropi per fini trattamentali/sciamanici o spiritualistici/ritualistici. Oggi le vie di comunicazione, avvicinando i continenti e le culture, hanno reso le droghe sempre più disponibili e soprattutto le hanno «sradicate» ai loro abituali e tradizionali contesti di uso (Guede da Silva, 2012; Santorini, 2013). La scoperta, poi, delle sostanze psicotrope come mezzo di scambio commerciale e di proficuo guadagno, ne ha implementato la diffusione e il cosiddetto consumo edonistico (Guede da Silva, 2012).

Sud e Nord

Si possono così evidenziare differenti fenomeni e stili di consumo a seconda dell’area del mondo presa in considerazione. In particolare grandi sono le differenze tra i paesi del Sud del mondo (spesso produttori e detentori del consumo tradizionale e culturale di sostanze psicotrope) e i paesi occidentali, che si configurano, in genere, come i principali fruitori dei derivati delle droghe naturali (derivanti cioè da prodotti vegetali, minerali o animali) e che riconoscono nel loro consumo finalità spesso edonistiche o di automedicazione (lenire un’angoscia esistenziale, una depressione dell’umore, un dolore cronico non rispondente ai farmaci, ecc.).

Accade così che l’acquisizione di nuove modalità di consumo, separate da specifici contesti (setting) e finalità (ritualistiche, religiose, curative), favorisca il nascere e la propagazione dell’uso tossicomanico delle droghe.

Nel mondo le più diffuse sono l’eroina, la cocaina e la cannabis (grafici alla pagina 42, ndr). Tra queste, come evidenziato da uno studio di David J. Nutt del 2010 (in The Lancet), la cocaina, dopo l’eroina, è la sostanza più dannosa, in termini di danni sociali, sanitari e individuali. In particolare le conseguenze più spiccate sono associate al consumo della cocaina per via endovenosa e al crack. La comparsa del crack è fatta risalire già agli anni ‘70 in Brasile, paese simbolo di questa sostanza, sollievo e dannazione allo stesso tempo soprattutto per le esistenze disperate delle favelas. È da qui che il crack ha iniziato a diffondersi. Negli anni ‘80 ci fu la sua diffusione epidemica nelle strade degli Usa.

Dalla cocaina al crack

Che cosa sono la cocaina e il crack? Il crack è un derivato della prima, sostanza di antichissima storia e classificata, in relazione ai suoi effetti, tra gli psicostimolanti, definiti come la classe di sostanze che eccitano il sistema nervoso centrale, aumentano l’attenzione e riducono l’affaticamento. La cocaina è estratta dalle foglie della coca, pianta appartenente alla famiglia delle Erythroxylaceae ed originaria delle regioni tropicali centro e Nord occidentali dell’America del Sud (il 60% è prodotta in Perù, il 20% in Bolivia, il 15% in Colombia). Più notoriamente l’uso voluttuario della cocaina (idrocloridrato) consiste nell’assunzione in forma di polvere cristallina chiamata con una serie di espressioni gergali diverse: «coca», «neve», «Charlie».

La cocaina idrocloridrato viene consumata tramite aspirazione con le narici o, meno frequentemente, iniettata in vena dopo essere stata disciolta in acqua (Emcdda, 2001).

L’espressione gergale «crack» designa la cocaina trattata per essere fumata o, più precisamente, per inalae i vapori che danno effetti immediati e intensi. Per poter inalare la cocaina è necessario trasformare il prodotto in polvere nella forma di base, che ha infatti, un punto di fusione più basso di quello della prima, rendendola più idonea ad essere scaldata e trasformata in vapore. Il crack ha l’aspetto di cristalli, e ha ormai sostituito quasi completamente la cosiddetta freebase (vedi Glossario sul sito), rispetto alla quale si ottiene con un processo più semplice: il cloridrato di cocaina diluito in acqua, viene mescolato con bicarbonato di sodio e scaldato. Da tale reazione si ottengono piccoli agglomerati solidi detti «rocks» (rocce, sassi, pietre). Questi cristalli sono bruciati, per essere inalati, in una pipa d’acqua e quando esposti al calore provocano un singolare rumore (scricchiolante), da cui – probabilmente – il caratteristico nome di crack.

I vapori del crack

Una dose di crack contiene mediamente 100-200 mg di cocaina. Il crack è di aspetto simile a pietre, a pezzetti di stucco o scaglie di sapone (foto a pagina 37). Sul mercato si può trovare preconfezionato in piccoli sacchetti o contenitori di plastica, pronto per essere utilizzato.

Per fumare il crack, si ricorre generalmente a pipe speciali, il cui fornello è coperto da una maglia metallica (o stagnola traforata). Su tale fornello è posta la sostanza che, scaldata con la fiamma, produce il vapore da aspirare. Un altro strumento molto diffuso e di ampio utilizzo a causa della sua economicità è la bottiglia di plastica.

L’assunzione del crack avviene tramite l’aspirazione dei vapori (e non dei prodotti della combustione come avviene, ad esempio, con le sigarette). Ciò è importante, in quanto i vapori sono assorbiti molto più velocemente del fumo. Questo attribuisce al crack proprietà farmacocinetiche molto simili a quelle della cocaina assunta per via endovenosa: come questa, infatti, permette la rapida entrata in circolo e quindi nel sistema nervoso centrale della sostanza, foendo euforia in modo quasi istantaneo. Il fumatore di crack inala profondamente i vapori trattenendoli nei polmoni per il tempo più lungo possibile, in modo da aumentae al massimo l’assorbimento.

Gli effetti sull’esistenza: vivere per il crack

La via inalatoria, così come quella endovenosa, garantisce la maggiore rapidità d’effetto grazie alla vastità del letto venoso polmonare che permette un subitaneo assorbimento. Questa è sicuramente la caratteristica farmacocinetica più rilevante dal punto di vista clinico: le concentrazioni ematiche e cerebrali si elevano rapidamente, fornendo un intenso stato di benessere e una intensa euforia (rush). A tale rapida insorgenza degli effetti corrisponde una durata altrettanto breve degli stessi (dai due ai cinque minuti). Passato l’effetto, l’umore si abbassa e l’abusatore abituale di crack si ritrova in uno stato di profondo malessere (crash, crollo) la cui intensità è proporzionale all’intensità dell’euforia. Gli effetti del crack sono così intensi che il consumatore si concentra esclusivamente nella ricerca e al consumo della sostanza. Dopo essere stato invaso dagli effetti di potente euforia, il crackomane sviluppa un’incontrollabile compulsione e un irrefrenabile desiderio di ripetere il consumo della sostanza. È tale desiderio invasivo e urgente, in inglese craving, il sintomo nucleare della dipendenza patologica. Esso può portare il crackomane alla perdita di interesse per quelli che fino ad allora erano stati elementi prioritari della sua vita, financo quei bisogni primari connessi con la sopravvivenza, quali dormire, mangiare, ecc. (Galera, 2013): ecco allora che inizia il processo di declino e perdita di affetti, lavoro, relazioni, salute. La necessità di procurarsi la sostanza spinge la persona a furti, spaccio, prostituzione e ciò particolarmente vero per il crack, essendo il consumo di tale sostanza frequentemente associato ai contesti più marginali e poveri. La compulsività dell’uso associata alla caduta delle inibizioni e alla riduzione della percezione dei rischi, tipici effetti delle sostanze ad azione psicostimolante, espone, inoltre, a rischi sanitari rilevanti, ad iniziare da quello infettivologico, con scambio di materiale di consumo e con la pratica di relazioni sessuali promiscue e senza ricorso al condom, aumentando la probabilità di trasmissione di malattie sessuali (e nel caso delle donne, di rimanere incinte) (Gessa, 2008).

Il consumatore di crack – più frequentemente ed in quantità mediamente superiori di 10 volte rispetto a quello di cocaina per via intranasale – può assumere la sostanza in modalità binge (letteralmente abbuffata), cioè continuativamente, ininterrottamente per ore o giorni e fino ad esaurimento delle scorte (run, ad indicare per l’appunto, una maratona di assunzione) (Gessa, 2008).

Vivere gli effetti euforizzanti e psicotropi del crack può significare, quindi, l’inizio di una spirale in cui il consumatore quotidianamente vede come sua unica priorità il crack e i mezzi per procurarselo, a dispetto delle conseguenze dannose a esso associate (Guede da Silva, 2012).

Lo sviluppo della dipendenza

I consumatori di crack possono diventare rapidamente dipendenti. In particolare, rispetto ai cocainomani per via intranasale, gli assuntori di crack hanno un più alto rischio (circa il doppio) di sviluppare dipendenza perché usano la sostanza con più frequenza, in più larghe quantità e sono più sensibili agli effetti della sostanza (Rosselli, 2011). La modalità inalatoria causa un rush quasi istantaneo, la «botta« (high) del crack, ma anche un «calo» (crash) più intensi rispetto a quelli sperimentati con la cocaina per via nasale. Cosa succede dopo aver consumato crack? Tale fase – di durata variabile tra i 15 e i 30 minuti – è caratterizzata da euforia, accresciuta performance cognitiva e motoria, ipervigilanza, labilità affettiva. L’intensa euforia è descritta come un’irrefrenabile eccitazione sessuale (full body orgasm). Si percepisce un aumentato senso di onnipotenza e sicurezza e una ridotta percezione della fatica (oltre che dei propri limiti).

Con il mantenimento dell’uso gli effetti positivi e piacevoli diminuiscono per dare spazio a sintomi indesiderati, di tipo prevalentemente psichico: accentuazione dell’ansia, dell’irritabilità e della paranoia, fino a sviluppare un vero e proprio quadro psicotico caratterizzato da anedonia (incapacità di provare piacere), allucinazioni, idee di persecuzione, delirio.

La crisi d’astinenza e le sue fasi

L’interruzione del consumo di crack nei soggetti da esso dipendenti si accompagna all’insorgenza di un quadro di malessere dovuto proprio alla mancanza della sostanza: è la crisi di astinenza. Questa può comparire, in alcuni casi, anche dopo un breve periodo di consumo, specie quando esso sia stato caratterizzato da forte compulsività o qualora siano presenti fragilità psicologiche e sociali, fattori predisponenti allo sviluppo di un disturbo da uso. Quando il consumo diventa continuativo o la persona sviluppa una vera e propria astinenza, si va incontro a un quadro che possiamo suddividere in tre fasi.

  • Fase I – Crash: si verifica quando le scorte di dopamina si esauriscono e compare il senso di fatica. È questa la fase iniziale dell’astinenza da cocaina: drastico abbassamento del tono dell’umore (depressione) e della energia fisica, che compare già 15-30 minuti dopo la cessazione dell’uso e che persiste per almeno 8 ore e può durare fino a 4 giorni. In questa fase il consumatore sperimenta depressione, che diventa presto disforia (alterazione dell’umore in senso depressivo), ansia, paranoia, malinconia, apatia, difficoltà di attenzione e di concentrazione, anoressia, insonnia e craving. Quindi nelle 8-24 ore successive, il soggetto presenta ipersonnia e astenia fisica. Seguiranno alcune settimane di profonda anedonia e – da una a dieci – di craving feroce.
  • Fase II – Sindrome disforica tardiva: inizia 12-96 ore dopo l’uso della sostanza e può durare dalle 2 alle 12 settimane. I primi 4 giorni il consumatore presenta sonnolenza, craving, anedonia, irritabilità, problemi di memoria e idee di morte. In tale fase alto è il rischio di suicidio e di ricaduta, vista come un mezzo per interrompere il quadro di malessere psico-fisico.
  • Fase III – Estinzione: i sintomi disforici e di malessere della precedente fase iniziano a diminuire o si risolvono completamente e il craving diventa ridotto in intensità e frequenza di presentazione.

La velocità di progressione tra i diversi stadi, dipenderà dalla frequenza, intensità, tempo di assunzione, ma anche dallo stato psicologico, fisico e socio-sanitario della persona.

L’intervento medico

Dal punto di vista medico tra i principali sintomi da monitorare e trattare vi sono quelli psichici, che possono caratterizzare tanto la fase di intossicazione acuta che quella di astinenza e che spesso sono anche il motivo primario di ricorso alle cure mediche e farmacologiche. L’attenzione medica al riconoscimento e al trattamento di tali quadri deve essere prioritaria in quanto essi peggiorano la prognosi, pongono a rischio non solo di ricaduta, ma anche di autolesione (fino al suicidio), aumentano il rischio di abbandono delle cure (Roselli Marques, 2011).

L’alta percentuale di disturbi psichici a volte è l’esito finale della continuativa azione della cocaina sui circuiti neuronali (depressione, psicosi, discontrollo degli impulsi e della rabbia), altre volte è preesistente al consumo di crack, che appare pertanto sintomo di un disturbo di personalità o del tentativo di autocura della persona.

Sebbene una quota di nostri consumatori di crack siano accomunati da un passato di consumo iniettivo di altre droghe, frequentemente il crack si inserisce all’interno di una gamma di policonsumo (alcol, cannabis, benzodiazepine). Ad esempio, al fine di ridurre l’angoscioso stato emotivo tipico del crash o per attenuare l’ansia e la paranoia conseguente al ripetuto consumo, i consumatori cronici di crack sono soliti ricorrere all’uso di sostanze ad azione sedativa quali alcol, benzodiazepine (nel territorio reggiano è diffusissimo il Rivotril) o ancora l’eroina.

È bene specificare che l’uso di alcol combinato con la cocaina sniffata ha un significato farmacologico e clinico diverso dall’associazione con il crack. Nel primo caso, infatti, l’alcol serve principalmente a rinforzare gli effetti positivi della cocaina (prolungando ed attenuando l’intensità dell’azione euforizzante, impedendo che questa viri verso sentimenti di ansia ed eccessiva agitazione psico-fisica) ed è assunta prima o in contemporanea alla cocaina. Nel secondo caso, invece, ha soprattutto la finalità di auto-trattamento e prevenzione della disforia e dell’agitazione e degli altri effetti indesiderati del crack, oltre a ridurre la secchezza della bocca (Dias, 2011).

Da non dimenticare poi, l’impatto sulla salute fisica, con aumentato rischio di contrarre malattie infettive specie sessualmente trasmissibili o conseguente a scambio di paraphealia (oggetti connessi all’uso di droghe, ndr) (Cruz, 2013). La compulsività e la frequenza d’abuso sono fattori in grado di influire su tale rischio: i consumatori giornalieri hanno un rischio di contrarre l’Hiv superiore di 4 volte rispetto ai consumatori non abituali (De Beck, 2011).

Il condizionamento dell’ambiente

La velocità con cui si instaurano il declino socio-sanitario, oltre alle complicanze cliniche correlate, nel caso del crack è particolarmente spiccata. Ciò è in parte da relazionarsi alle caratteristiche farmacologiche della sostanza, ma in parte anche alla estrema fragilità sociale dei contesti in cui il crack è maggiormente diffuso. Il crack è stato largamente commercializzato in quartieri poveri di risorse e caratterizzati da disordine sociale e le cui popolazioni, spesso appartenenti a minoranze razziali ed etniche, godevano di scarse possibilità economiche o di miglioramento del loro stato. La popolazione consumatrice di crack in Brasile è concentrata principalmente nella popolazione urbana, giovane e marginalizzata: è la droga delle favelas.

Ma anche in altre aree geografiche i crackomani vivono condizioni di precarietà economica, socio-lavorativa e abitativa (sono spesso senza fissa dimora), sovente coinvolti in atti di criminalità. Hanno una esistenza molto disagiata, ma soprattutto di grave solitudine primariamente dal punto di vista relazionale, provenendo frequentemente i consumatori da famiglie assenti o pluri-problematiche, tra i principali fattori di rischio associati alle condotte di consumo.

Più di ogni altra malattia, la dipendenza è la prova che la nostra salute e quindi il nostro malessere sono fortemente influenzati dall’ambiente in cui si vive. L’individuo e l’entità psico-mente di cui è costituto sono influenzati continuamente dall’interazione con l’ambiente esterno, sia nella sua componente comportamentale, che psicologica e organica (ricordiamo l’epigenetica e la neuro-psico-endocrino immunologia).

Gli studi generalmente concludono che un contesto di vita svantaggioso, l’esclusione sociale, la carenza di risorse economiche e lavorative, aumentano il rischio di sviluppare i disturbi di uso. Basti pensare alla crisi economica, considerata da tutti i più importanti studi epidemiologici, un fattore di aggravamento dei consumi di sostanze.

Nella specificità di Reggio Emilia tale sostanza ha incontrato un altro tipo di fragilità: la popolazione migrante che vive in stato di irregolarità. La mancanza di una dimora, di un lavoro, di una rete sociale, la lontananza dai legami familiari, il fallimento di un progetto migratorio su cui era fondata la speranza di riscatto personale ma anche di tutta la famiglia, porta la persona a rifugiarsi in un oblio chimico che annulla temporaneamente le preoccupazioni, i pensieri, la sofferenza e che rende meno duro vivere in strada o all’interno di case abbandonate.

Cocainomani e crackomani

Da quanto detto si comprende che essenziale è la distinzione tra cocainomane e crackomane. Tra queste due tipologie di consumatori – colui che aspira per via nasale la cocaina a scopo per lo più ricreativo e colui che inala crack – esistono confini molto rigidi. Citando la relazione dell’Osservatorio europeo: «Chi consuma cocaina ad uso ricreativo è altra cosa rispetto ai gruppi emarginati come i giovani senza fissa dimora, chi è dedito alla prostituzione e i consumatori problematici di eroina che fumano cocaina “base/crack”, oppure si iniettano cocaina mescolata con eroina, in aree a macchia di leopardo all’interno di determinate città» (Emcdda, 2001).

Quello che si sta osservando, però, negli ultimi anni e anche nella nostra città è la crescente sfumatura del confine tra cocaina e crack sia per la diffusione di tale tipologia di sostanza tra i «consumatori della notte», sia per le «tendenze» del mercato delle droghe, che evidentemente offre di più questo tipo di sostanza. Sempre l’Osservatorio europeo inoltre, segnala in vari paesi dell’Unione, compresa l’Italia, la pratica di mescolare la cocaina «base/crack» con il tabacco in un mix da fumare. In più, la presenza sul mercato di crack già pronto rende questo prodotto più appetibile.

Strategie di riduzione del danno

Crescenti sono le evidenze orientate a supportare o incoraggiare l’introduzione di programmi di riduzione del danno che prevedano la distribuzione di materiali sterili e sicuri necessari per fumare (Ti, 2012) o almeno una serie di precauzioni da adottare in caso in cui lo scambio della pipa diventi inevitabile (ad esempio usare dei boccagli). Ciò al fine di ridurre il rischio di diffusione delle malattie infettive così come di lesioni locali della bocca legate allo scambio e al riuso della pipa (bruciature, tagli, ulcere) (Duff, 2013).

Molti paesi hanno avviato l’apertura di Supervised Smoking Facility (sulla falsariga delle cosiddette «stanze del buco»), luoghi in cui poter inalare il crack, permettendo un aumento dell’accesso a pipe pulite, una riduzione dello scambio e foendo un ambiente più sicuro dove consumare, alternativo alle cosiddette «crack houses» (locali improvvisati senza la minima tutela sanitaria). Inoltre, strutture di questo tipo portano beneficio anche alla comunità circostante in termini di riduzione delle scene aperte di consumo (Duff, 2013).

Oltre ad approfondire gli studi tesi a individuare interventi di riduzione del danno più orientati all’uso di crack, si stanno raccogliendo esperienze di autocontrollo del consumo, cioè modalità di uso del crack che si accompagnino a strategie o attività in grado di alleviare il craving a esso associato (Krawczyk, 2015; Zuffa, 2010).

I servizi che offrono la vasta gamma di interventi, in cui le strategie della riduzione del danno si integrino con quelle terapeutiche di tipo farmacologico e psicologico, ciascuna rispondente a fasi motivazionali diverse della persona, sono quelli con il migliore esito (outcome) (Krawczyk, 2015).

Consumatori e servizi di cura: le barriere

Per la cocaina non esiste un farmaco efficace  come, ad esempio, per l’eroina (buprenorfina e metadone) o l’alcol (baclofene, disulfiram-antabuse, alcover-Ghb e naltrexone). E forse anche per l’impossibilità a rispondere con una pillola su misura a tale disturbo, i dati relativi agli accessi ai servizi sanitari segnalano che solo una piccola parte dei consumatori necessitanti di cura o interventi sociosanitari arrivano a fae domanda (Ti, 2011).

Ciò è legato però anche all’esistenza di barriere e fattori che ostacolano l’arrivo ai servizi: tempi, liste di attesa, stigma, servizi strutturati sulle esigenze del personale e non su quelle del consumatore. Ad iniziare, ad esempio, dal limitato orario di apertura dei Sert: il crackomane consuma di notte per tutta la notte, «crolla» al mattino, quando gli ambulatori aprono e si risveglia solo in tarda mattinata, quando gli ambulatori chiudono. A ciò si aggiungono caratteristiche del consumatore che possono ritardare l’arrivo ai servizi di cura: scarsa motivazione al cambiamento, non consapevolezza della problematicità del disturbo di uso, autostigmatizzazione e motivi culturali che non «permettono» di considerare il carattere socio-sanitario delle dipendenze e degli abusi da sostanze. La difficoltà di accesso appare ancora più grande per alcune categorie, ad esempio le donne, tra le più interessate dal problema del crack: per loro è la paura dello stigma o delle ripercussioni sulla custodia dei propri figli a fare la differenza.

Per un nuovo approccio

Servizi a bassa soglia riducono le difficoltà di accesso favorendo l’emersione del sommerso, specie della frangia più marginalizzata dei consumatori. La caratteristica di questi servizi è un approccio non giudicante e attento alle ragioni e alle fragilità sociali. Ciò li rende più appetibili, in quanto in grado di rispondere ai bisogni primari e come tali più sentiti dall’utenza confermando la teoria della piramide di Maslow (pasti, servizi igienici e docce, bagagliaio, un letto dove riposare, lavatrice). Dall’accoglimento e soddisfazione di tali bisogni e dal legame cosiddetto «lento» instaurato con le persone può nascere una relazione terapeutica di fiducia attraverso cui la persona può essere orientata ai servizi di cura sanitari oltreché ad un processo motivazionale di cambiamento delle proprie condotte di consumo.

Luana Oddi

TO GO WITH AFP STORY BY ANELLA RETA A pregnant drug addicts walks along a street at "Crackolandia," a place where drug users addicted to crack cocaine have been gathering for the past seven years to smoke their freebase in downtown Sao Paulo, Brazil, on December 9, 2009. In rags and bare feet, they walk through Sao Paulo's dilapidated city center like ghosts. Some beg for change that goes straight to purchasing the drug that has wasted away their bodies as surely as it has their personalities, their futures and their sense of self-worth. AFP PHOTO/Mauricio LIMA / AFP PHOTO / MAURICIO LIMA
Donna incinta per la strade di “Crackolandia,” a Sao Paulo, Brasile. AFP PHOTO/Mauricio LIMA / AFP PHOTO / MAURICIO LIMA


Donne e crack

I problemi più seri sono per le donne incinte e i loro figli.

La dipendenza da cocaina denota una particolarità di genere, risultando il rapporto femmine/maschi, in termini di frequenza di consumo, più alto rispetto a quanto osservabile con altre tipologie di droghe (con prevalenza tendenzialmente maggiore nel genere maschile). Con il crack, ciò è ancor più vero, arrivando a riscontrare in specifici contesti caratterizzati da disagio sociale grave, addirittura una maggiore prevalenza del consumo di crack tra le donne che non tra gli uomini (Pope, 2011). E questo, nonostante la maggior parte delle donne dichiari di aver iniziato a usare crack insieme o indotta dal proprio partner, anch’egli consumatore.

Le donne consumatrici di cocaina e crack tendono, a parità di entità di consumo, a sviluppare più rapidamente dell’uomo dipendenza patologica e conseguenze sanitarie correlate (Pope, 2011). Le donne tendono a soffrire maggiormente di disturbi psichici e in particolare di depressione che è uno dei fattori associati all’induzione e alle recidive dei disturbi di uso, e che – nello specifico del crack -, trova una forma di autocura nelle proprietà psicostimolanti di questo. Gli stati umorali negativi aumentano il craving e il rinforzo positivo dell’azione euforizzante della cocaina e una più grave sindrome d’astinenza. Tutto ciò comporta che a dispetto di una più alta motivazione ad aderire ai trattamenti, le donne consumatrici di crack abbiano esiti dei trattamenti peggiori (Johnson, 2011).

Le donne adottano più frequentemente modalità tipo binge di consumo e ricorrono più frequentemente a comportamenti sessuali a rischio (sesso non protetto con aumentata trasmissione di malattie veneree e infettive, promiscuità sessuale) o alla prostituzione in cambio di soldi o droga (gli uomini sono invece più di frequente coinvolti in attività criminali o di spaccio) (Sherman, 2011; Bertoni, 2014).

Le donne sono più spesso vittime di violenza agita nei contesti più marginali di consumo di crack e più frequentemente subiscono violenza sessuale e fisica da parte dei loro partner. In tale situazione il crack è visto come mezzo per dimenticare, non sentire, lenire il dolore dei traumi fisici ed emotivi subiti. Insomma, un mezzo per sopravvivere (Krawczyk, 2015).

Di particolare importanza tra le conseguenze dell’uso di crack sono gli effetti nella donna in gravidanza, fase in cui il metabolismo della cocaina è ridotto, il che implica una maggiore tossicità sia sulla madre che sul concepito. Oltre all’aumentato rischio di aborto e nascita prematura, il crack può essere responsabile di una serie di alterazioni fisiche e comportamentali che hanno permesso di riconoscere questi bambini esposti al crack come «crack babies».

I neonati nati da donne che abbiano consumato ripetutamente la sostanza possono manifestare una sindrome di astinenza la cui frequenza e il cui grado di intensità sono influenzati dal riscontro o meno di positività urinaria del neonato (il che dipende dall’interruzione o meno dell’uso di sostanza, in prossimità del parto, da parte della madre). Essa è caratterizzata da irritabilità, sudorazione profusa, ipertonia e disturbi del sonno, tremori, pianto continuo e inconsolabile, suzione eccessivamente energica, ma non più efficace, instabilità del sistema nervoso autonomo (tachicardia, sudorazione, ipertermia), peso e altezza più bassi alla nascita, ridotta circonferenza cranica. Con la crescita si possono strutturare difficoltà comportamentali e neurologiche (anomalo tono muscolare, disturbi della postura), disturbi dell’apprendimento e deterioramento cognitivo (QI più basso, disturbi del linguaggio, disturbi dell’attenzione), che tendono a comparire con frequenza più alta rispetto ai loro coetanei non esposti a cocaina.

Nei bambini delle madri consumatrici di crack, a causa del più alto rischio di contrarre infezioni, si è riscontrata una associazione più alta con infezioni da Hiv ed epatite C che possono trasmettersi per via transplacentare più frequentemente e più facilmente anche perché il crack inficia il regolare sviluppo ed attività del sistema immunitario del neonato.

Gli effetti dannosi del crack, così come accade per ogni altra sostanza che sia assunta in gravidanza, sono amplificati, indotti e/o associati alle conseguenze sul benessere psico-fisico dell’unità madre-bambino, dei fattori socio-economici e psicologici vissuti dalla madre, che agiscono la loro azione aldilà o insieme al consumo della cocaina.

Luana Oddi

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Torino / La?testimonianza

La?drammatica?caduta della?speranza

Domenico Cravero è un parroco della provincia torinese (prima a Settimo, poi a Poirino). È soprattutto un sacerdote che, oramai da una vita, lavora come psicoterapeuta a fianco delle persone con problemi di droga. «Ho iniziato – racconta – a interessarmi concretamente dei ragazzi consumatori di sostanze stupefacenti nel novembre del 1975. Abitavo a Venaria e nell’oratorio della parrocchia m’imbattei con quella realtà. In città c’era già una piccola comunità di accoglienza. La mia prima messa – era il 1977 – la celebrai tra loro. Da allora non ho mai smesso di occuparmi di questa emergenza. Che continua oggi in forme molto diverse e più nascoste».

Nel 1984 padre Cravero fonda una comunità e un’associazione di volontariato (Associazione solidarietà giovanile, Asg) e poi a una cooperativa sociale (Terra Mia). Attualmente coordina il progetto terapeutico ed educativo in otto comunità, curando in particolare la formazione degli operatori. Ogni comunità si specializza su un particolare servizio terapeutico o educativo nell’area minori, adulti e mamma bambino. Viene trattata non solo la condizione della tossicomania, ma anche il disagio mentale nella molteplicità delle sue forme. Una casa è adibita per l’accoglienza e l’accompagnamento al lavoro di profughi. È attivo anche un dormitorio per persone senza fissa dimora alla stazione ferroviaria di Torino Porta Nuova. Oltre alle comunità ci sono anche due case-famiglia per l’accoglienza di minori (a Scalenghe e a Carmagnola).

Le comunità – distribuite nel territorio torinese (Torino, Moncalieri, Marentino, Grugliasco, Carmagnola) e a S. Benedetto Belbo (Cuneo) – si sostengono attraverso l’agricoltura biologica. I prodotti agricoli sono venduti in un negozio della cooperativa, La bottega dei Mestieri, a Torino  (via Foà 59) e nei mercati rionali. Sono attivi anche laboratori di trasformazione di alimenti e un servizio di vendita e distribuzione di panieri alimentari.

Padre Cravero, come descriverebbe l’universo delle droghe nel 2016?

«Oggi le droghe non fanno più paura, a livello sociale, e non sono considerate un’emergenza. Effettivamente è cambiato molto: ci sono farmaci sostitutivi e molta più tolleranza.

Il problema però rimane. Sono numerosi gli assuntori, anche se ormai non si considerano più droghe quelle chiamate leggere. Questo è un inganno. Il pericolo delle droghe, infatti, non sono tanto i danni arrecati alla salute. Non si tratta quindi di un’emergenza sanitaria. Anche per la cura dell’Hiv ci sono per fortuna farmaci efficaci. Il problema delle droghe è etico. Le droghe leggere o pesanti limitano fino ad azzerare la creatività e il protagonismo delle nuove generazioni. Sono una risposta passiva (in gergo il consumo si dice “farsi”) e alienante in un arco dell’età evolutiva dove massimo può essere l’apporto dell’innovazione e della creatività in tutti gli ambiti. Il danno più grave delle droghe consiste quindi nel bloccare il rinnovamento della società che avviene, da sempre, attraverso il contributo delle giovani generazioni che sono il presente e il futuro della collettività».

Come lei ha ricordato, pare che un tempo si parlasse molto di più di tossicodipendenza. Sono diminuiti coloro che fanno uso di droghe o è cambiata la società?

«Non sono diminuiti gli assuntori. Sono se mai cresciute le condizioni di sicurezza verso i danni immediati alla salute e questo è un gran bene. Quella che è cambiata di più è la società che sta vivendo da un po’ di anni una drammatica caduta della speranza. Si crede sempre meno nel progetto di cambiarla. Anziché modificare le ingiustizie e le condizioni che ci rendono inumani si preferisce modificare il modo con cui ci percepiamo. Siamo al più grave stadio del narcisismo: la modificazione artificiale dello stato mentale al posto del sano piacere di trasformare il mondo».

In base alla sua esperienza, quali sono le droghe più pericolose? In questi anni c’è stata una loro moltiplicazione?

«Le droghe sono tanto più nocive quanto più bloccano la creatività e rendono passivi e abulici i giovani. Il danno quindi è soggettivo e non misurabile chimicamente, essendo il vero problema un impoverimento umano (quindi etico) e non solo un rischio sanitario. C’è stata, a mio modo di vedere, una moltiplicazione e, insieme, una buona capacità di “gestirne” il rischio per la salute. Apparentemente quindi va tutto bene: si muore molto meno per overdose».

La domanda di droga è trasversale alle classi sociali. C’è un substrato psicologico comune, secondo lei?

«Nelle tossicomanie c’è sempre un problema di salute mentale o di pesanti condizionamenti psicologici. I tossicomani dovrebbero quindi sempre essere curati e mai abbandonati. Con i tagli sanitari e la perdita della speranza oggi invece è forte la tentazione dell’abbandono. Le tossicomanie riguardano però, fortunatamente, solo una parte assolutamente minoritaria della popolazione. Il grosso del consumo riguarda l’abuso e la tossicodipendenza. Qui i numeri sono alti, anche tra gli adolescenti. Qui si colloca il vero danno umano e sociale».

I piccoli spacciatori sono reclutati soprattutto tra gli immigrati. Come si può affrontare questo problema?

«Certamente non solo tra gli immigrati. Secondo la mia osservazione molti dei consumatori (italiani) sono a loro volta piccoli spacciatori… Nella mia cooperativa stiamo facendo un’esperienza davvero entusiasmante nell’accoglienza degli immigrati e dei profughi giovani (e anche minori). Questi ragazzi hanno tantissimo da insegnarci e da darci. Siamo riusciti a recuperare molte terre abbandonate (in pianura e in collina) e a costruire un’unità produttiva agricola che con i soli italiani mai avremmo potuto fare. È un esempio molto concreto che l’abuso si batte con la creatività e il lavoro. Non basta certo l’informazione e neppure la terapia. Ci vuole il protagonismo attraverso il lavoro».

Ci parli del percorso di recupero dei tossicodipendenti ospitati nella sua Comunità.

«Da due anni sto sviluppando un sistema di cura attraverso l’agricoltura sociale. Ho chiamato questo percorso terapeutico “agricura”».

I «costi» della tossicodipendenza vengono pagati non soltanto dai consumatori, ma anche dalle loro famiglie e dallo Stato (in termini di spesa sanitaria, di sicurezza, eccetera). Che fare?

«Tocca alle istituzioni e alle famiglie organizzate (per esempio attraverso le “scuole dei genitori” un’attività di educazione degli adulti nelle scuole pubbliche) invertire esattamente il processo. I giovani devono accorgersi che gli adulti li stanno aspettando e credono nelle loro possibilità. Il problema drammatico di oggi è l’inazione dei giovani, la perdita del loro contributo. Le droghe sono solo una falsa soluzione, umiliante perché illusoria. I giovani hanno diritto di trovare ben altro nelle piazze, nelle strade, nelle discoteche… delle loro città».

Il mercato della droga costituisce un business globale ad altissima redditività anche a causa del proibizionismo. Da tempo,  in Italia, si litiga  attorno alla legalizzazione della cannabis. Che pensa al riguardo?

«Non voglio negare valore a questo dibattito che ha le sue ragioni. Io stesso ho partecipato in più occasioni a questa ricerca. Personalmente però percorro un’altra strada: incidere non sull’offerta ma sulla domanda di sostituti artificiali del desiderio e del piacere di vivere. Nessun piacere artificiale potrà mai competere con la soddisfazione di avere un posto e una missione nella società, con la felicità di avere degli amici e delle persone affidabili attorno a sé».

Paolo Moiola

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Bangkok / L’analisi

Pochi vincitori, milioni di vinti

Secondo statistiche ufficiali, nel mondo almeno 246 milioni di persone consumano droghe illecite. Le (costosissime) misure repressive non funzionano. Occorrerebbe investire su informazione ed educazione, ma la questione, pur globale, da sempre divide stati, governi e istituzioni.

Nelle questioni che appassionano gli esperti di affari internazionali è difficile trovare un dibattito più annoso e profondamente divisivo che la questione delle droghe. Da quando i Sumeri cominciarono a usare oppio 5.000 anni fa, le coltivazioni, i traffici e il consumo di sostanze narcotiche e psicotropiche sono stati sempre in testa alla classifica delle preoccupazioni e dei guai nelle relazioni internazionali. E visto dalla parte della gente, ben oltre dunque gli aspetti istituzionali, scientifici, legali ed economici, non c’è questione globale che ha fatto soffrire popoli e famiglie più delle droghe.

Non per caso la Convenzione mondiale sull’oppio nel 1912 fu il primo trattato internazionale di carattere multilaterale e globale, cioè il primo documento del diritto internazionale ratificato da molti paesi, dopo il trattato della Croce Rossa sottoscritto nel secolo precedente. Tutti gli altri temi sottoposti a consultazioni, ad accordi e a leggi inteazionali sono venuti dopo, a partire dalla Società delle Nazioni nel 1919 e poi con le Nazioni Unite a partire dal 1945. Nei secoli precedenti al 1912 la produzione e il traffico di droghe ha prodotto guerre in diverse parti del mondo, gli effetti di alcune delle quali non si possono dire spenti nemmeno oggi, come testimonia per esempio la questione di Hong Kong, che fu generata dalla prima guerra dell’oppio conclusasi nel 1842. E da allora non c’è mai stata nel mondo una coltivazione di droghe che sia stata pacifica, cioè che non abbia generato o acuito conflitti gravi e sanguinosi che sono durati per decenni. Negli anni più recenti, nel Triangolo d’Oro e in Colombia a partire dagli anni ’60, in Afghanistan a partire dagli anni ’80, droghe considerate illecite dai trattati inteazionali, accompagnate sempre da colossali traffici di armi, violenza illimitata, corruzione ed enormi flussi di denaro sono state ovunque gli ingredienti essenziali di conflitti disumani e duraturi.

Si può dire dunque che per oltre un secolo la questione delle droghe, perfino quando ha ottenuto qualche forma di consenso teorico, come espresso per esempio nella Convenzione unica globale sugli stupefacenti nel 1961, non ha mai davvero consolidato un vero consenso pratico, né sulle questioni generali, né sulle questioni particolari. Nessun accordo di politiche sulle droghe, raggiunto e firmato da quasi tutti i governi del mondo, sembra avere la forza di ridurre significativamente le percentuali importanti di contrari, come invece è successo per quasi tutte le altre grandi questioni globali, come ad esempio la questione di parità di diritti della donna, la questione della discriminazione razziale, la cooperazione per lo sviluppo sostenibile, la questione del cambio climatico, etc. Sono abbondanti le prove della mancanza di consenso sulle buone pratiche di risposta alle tre aree principali del problema droga: la produzione, il commercio e il consumo. La Global Commission on Drug Policy, in prima linea nel criticare le attuali politiche proibizioniste, repressive e spesso violente di lotta alla produzione, commercio e uso di droghe, è formata da diversi ex capi di stato e di governo, soprattutto dei paesi che più hanno sofferto gli effetti della secolare guerra alla droga, e ne è membro anche Kofi Annan ex segretario generale delle Nazioni Unite. A livello nazionale, in grandi paesi federali come gli Stati Uniti, Germania, Brasile, sono numerosi i governi locali che hanno scelto e applicano politiche di tolleranza per l’uso di droghe considerate illecite in opposizione evidente alle leggi federali. In altre aree, come nell’Unione europea, si applicano politiche molto diverse, che potremmo definire una casistica a 360 gradi, cioè lo stesso commercio e consumo di una droga specifica viene considerato un crimine perseguibile in alcuni paesi e del tutto normale e legale in altri, con decine di sfumature diverse in ogni paese. Non c’è metodo più efficace per creare confusione e demolire la credibilità dell’informazione ufficiale su un rischio di salute che quello di divulgare e legiferare di tutto ed il contrario di tutto tra paesi vicini.

Conseguenza di società malate

Tra le cause di tanta confusione c’è certo la mancanza comune di coerenza tra la realtà e ciò che i governi promettono di fare nei trattati internazionali, ma gli elefanti nella stanza (che nessuno vuol vedere) sono altre due questioni. La prima è il fatto che le misure – violente o minacciose – di repressione che dovrebbero scoraggiare la produzione, fermare i traffici e punire il consumo, oltre che non rispettare i diritti umani, semplicemente non funzionano. La seconda è il fatto che sia l’opinione pubblica che i governi e perfino la maggioranza dei consumatori non vogliono ammettere che, dietro alle tossicodipendenze, ci sono sempre società civili malate, famiglie disfunzionali e soprattutto persone con malattie mentali non riconosciute e non curate. E anche la produzione e il commercio di droghe illecite in qualche modo sono sintomi di un sistema socio-economico fallito, insano per tutta la nazione in cui si verifica.

Finché ci sarà domanda

In tutte le mie esperienze sul campo, nel Triangolo d’oro, come in Bolivia e in Colombia, la politica più efficace di cooperazione con le comunità impoverite e marginalizzate dove venivano prodotte cocaina o eroina è sempre stata il trasferimento di potere sulle scelte di sviluppo sostenibile alla gente vittima della situazione. Quando la gente ha accesso alle decisioni che cambiano la realtà socio-economica sceglie sempre attitudini e attività legali con accesso e successo sul mercato. A livello locale nei paesi produttori di droghe, lo sviluppo alternativo – che sostituisce le coltivazioni illecite con altre produzioni lecite – è economicamente fattibile e sostenibile, ma richiede anche uno stato di diritto capace di difendere i diritti di tutti. A lunga scadenza e su scala mondiale però i soldi spesi in modo più efficace sono quelli che riducono la domanda di droghe illecite, che – legalizzate, decriminalizzate o no – saranno comunque sempre prodotte da qualche parte e trafficate fino a che ci sarà domanda. L’esperienza di forti riduzioni di consumi di tabacco e di alcool, due droghe lecite in quasi tutto il mondo, ha dimostrato che campagne di informazione ed educazione ben fatte possono ridurre i consumi fino al 90%.

In un mondo dove, ormai da decenni, almeno 246 milioni di persone usano droghe illecite e ci sono 207.000 morti l’anno relazionati con il consumo di droghe (United Nations World Drug Report 2016), una nota di speranza andrebbe cercata nel costruire pace nella mente di tutti coloro che hanno a che fare con questa realtà.

Sandro Calvani




Colombia: un paese alla ricerca della pace


Sommario

  • Meglio una pace imperfetta di una guerra
  • Gli indigeni Nasa e il «sexto frente»
  • L’attesa si prolunga
  • Non chiudiamo le finestre alla pace
  • Sitografia
  • Video e archivio MC

Meglio una pace imperfetta di una guerra

si_colombia_2016La maggioranza dei colombiani (votanti) ha deciso di dire «no» agli accordi di pace siglati il 24 agosto tra il governo Santos e la guerriglia delle Farc-Ep. La guerra civile, iniziata nel 1964, ha causato almeno 220mila morti e prodotto danni immensi. Ora inizia una nuova e terribile sfida: tornare al conflitto o continuare sulla strada della pace. In un paese ingiusto e ancora più diviso.

Nel referendum del 2 ottobre il quesito era semplice e chiaro: «Lei approva l’accordo finale per la fine del conflitto e la costruzione di una pace stabile e duratura?». A questa domanda, la maggioranza dei votanti – pochi, appena il 37,4% degli aventi diritto – ha risposto con un «no»: 6.431.376 contro 6.377.482, una differenza di soli 53 mila voti. L’accordo del 24 agosto tra il governo Santos e la guerriglia delle Farc-Ep («Forze armate rivoluzionarie della Colombia – Esercito del popolo») adesso è in bilico, anche se i protagonisti si sono affrettati a ribadire che il dialogo e la pace sono le sole opzioni.

Il risultato ha premiato lo schieramento del «no», capeggiato dall’ex presidente Álvaro Uribe Vélez, politico tuttora con molto seguito nel paese, anche all’interno della Chiesa. Va ricordato che, durante il suo mandato, Uribe aveva firmato un accordo con i paramilitari delle Auc, ma si era ben guardato dall’indire una consultazione popolare che lo confermasse.

Un conflitto di 52 anni, con 220 mila morti, 6,7 milioni di desplazados, immensi danni morali e materiali, non si cancella con alcune firme su un accordo. Tuttavia, una vittoria del «sì» sarebbe stato un viatico per la speranza.

no_plebiscito_logo2016Se non ci fosse la guerra

La guerra è la peggiore delle situazioni create dall’uomo. È altresì vero che l’assenza di guerra non significa automaticamente – lo vediamo tutti i giorni – un’esistenza pacifica e men che meno felice. Lo scrive chiaramente l’organizzazione colombiana Somos defensores, che pure si è battuta senza tentennamenti per il «sì» al referendum del 2 ottobre.

Nell’introduzione al suo rapporto Este es el fin?, uscito a giugno, la Ong scriveva: le autorità colombiane sostengono che senza guerra «termineranno molti problemi che affliggono il paese poiché esse attribuiscono al conflitto armato gran parte di queste problematiche. Niente di più lontano dalla verità, dato che fenomeni come la corruzione, il clientelismo, la diseguaglianza, il saccheggio delle risorse naturali, la morte quotidiana per mancanza di attenzione medica, l’esclusione, la povertà, tanto per citare alcuni dei molti problemi, non sono effetti del conflitto armato, ma al contrario ne sono la causa, allora perché tutto questo dovrebbe sparire?».

Per dipingere meglio la situazione generale vale la pena ricordare qualche dato, desunto non da organi di sinistra o antigovernativi ma da strutture istituzionali. Secondo cifre della Banca mondiale (anno 2015), la Colombia è il settimo paese più diseguale del mondo e il secondo dell’America Latina: viene dopo l’Honduras, ma prima del Brasile e del Guatemala. Secondo il terzo Censimento agrario (Dipartimento nazionale di statistica, Dane, 2015), lo 0,4% dei proprietari terrieri detengono quasi la metà della terra coltivabile in Colombia e il 44,7% dei contadini vive nella miseria. Sempre secondo statistiche ufficiali riferite al 2015, la povertà riguarda il 27,8% dei colombiani, ma nel Caquetá e del Cauca, dipartimenti caratterizzati da guerra e narcotraffico, arriva al 41,3% e al 51,6%.

Questi pochi dati bastano per due deduzioni, banali ma difficilmente smentibili: la guerra civile non è nata per caso e le coltivazioni di coca non si sono diffuse tra i campesinos per sete di denaro ma per pura sopravvivenza.

L’accordo per «una pace stabile e duratura»

È vero che le quasi 300 pagine dell’accordo de L’Avana sembrano un libro dei sogni, un’utopia di difficile realizzazione, soprattutto dopo il risultato del referendum. Tuttavia, il fatto che le parti, alla fine di 4 anni di dibattito, abbiano raggiunto un’intesa su tante questioni delicate è già di per sé un grande successo.

Il paese aveva già avuto esperienze simili con il disarmo delle Autodefensas unidas de Colombia (Auc), avvenuto a partire dal 2005. Nel caso dei paramilitari furono approvate due leggi: la Ley de justicia y paz (legge 975 del 2005) e la Ley de victimas y restitución de tierras (legge 1448 del 2011). Lo smantellamento dei gruppi paramilitari è stato però relativamente più semplice, in quanto essi erano nati con il supporto delle stesse forze al potere e dello stato colombiano. Tra l’altro, una parte importante di essi sono rapidamente confluiti in svariate bande criminali (Bacrim, acronimo di bandas criminales).

L’accordo del 24 agosto comprende vari punti e relative intese, tutto al fine di «porre le basi di una pace stabile e duratura». Pur nell’incertezza causata dal «no» del 2 ottobre, vediamo rapidamente i suoi punti salienti.

Come abbiamo già sottolineato, la terra e il suo possesso costituiscono una delle cause fondanti del conflitto. Non per nulla il primo punto dell’accordo riguarda la «riforma rurale integrale» che si prefigge la distribuzione di terra ai contadini senza terra o con terra insufficiente, investimenti pubblici per infrastrutture e sviluppo sociale e, come obiettivo finale, lo sradicamento della povertà tra la popolazione delle campagne.

Il secondo punto riguarda la «partecipazione politica», che significa aprire lo scenario colombiano all’entrata di nuove rappresentanze, portatrici di differenti visioni e interessi. Alla ex guerriglia dovrebbero essere garantiti 10 seggi al Congresso.

Il terzo punto riguarda «il cessate il fuoco bilaterale e definitivo e l’abbandono delle armi». I membri delle Farc sarebbero anche distribuiti in 23 zone e 8 accampamenti. Questo dovrebbe essere anche il punto di partenza per la reincorporazione dei combattenti nei diversi ambiti – economico, sociale e politico – della vita civile del paese.

Il quarto punto è dedicato alla «soluzione del problema delle droghe illecite». Esso prevede un programma di abbandono delle colture illegali e una sostituzione volontaria con colture alternative che garantiscano sostenibilità economica, sociale e ambientale e un’esistenza degna alle famiglie.

Il punto 5 è dedicato alle vittime del conflitto e crea il cosiddetto «Sistema integrale per la verità, la giustizia, la riparazione e non ripetizione». Esso prevede organismi e misure per scoprire la verità e soddisfare il diritto delle vittime alla giustizia. Vengono esclusi amnistia e indulto per i delitti di lesa umanità. Sono inoltre comprese misure per la ricerca delle persone e per la riparazione dei danni.

Il sesto e ultimo punto contiene le intese sui «meccanismi di applicazione e verifica» dell’accordo, inclusa una commissione formata da rappresentanti del governo nazionale e delle Farc.

Artigiani della pace e artigiani della guerra

Da tempo monsignor Luis Augusto Castro, missionario della Consolata, arcivescovo di Tunja e attuale presidente della Conferenza episcopale colombiana (Cec), lavora per porre fine alla guerra civile, tanto da essersi meritato l’appellativo di «artesano de la paz» (artigiano della pace).

Per anni missionario prima e vescovo poi nei dipartimenti del Caquetá e Putumayo ad alta presenza guerrigliera, mons. Castro è noto per la sua azione di mediatore con le Farc, anche in favore delle persone da esse sequestrate. Il fatto più noto è la liberazione, nel giugno del 1997, dei soldati catturati dalla guerriglia nella base militare di Las Delicias (Puerto Leguízamo, Putumayo).

Fondamentale ancorché lontano dai riflettori è stato il suo apporto ai colloqui di pace tra il governo Santos e le Farc, con grande disappunto dell’ex presidente Álvaro Uribe, con il quale il prelato ha sempre avuto rapporti piuttosto freddi. A giugno, dopo la firma del cessate il fuoco, Uribe ha rilasciato un duro comunicato in cui parlava di «pace ferita». Ad esso ha risposto, per via indiretta, mons. Castro parlando di «pace rafforzata».

Peccato che anche in seno alla Conferenza episcopale non tutti siano dalla parte dell’arcivescovo di Tunja. Fuor di metafora, la decisione della Cec di non suggerire il «sì» per il quesito referendario del 2 ottobre è stata una evidente presa di distanza dall’azione del suo presidente. D’altra parte, è risaputo, anche se spesso detto sottovoce, che molti vescovi sono schierati con Álvaro Uribe. Sul dibattito intorno alla tematica dell’accordo è molto istruttiva la lettura di un sito – www.votocatolico.co -, che ha fatto una campagna durissima per il «no».

Tra gli interventi pubblicati, c’è quello di padre Mario García Isaza, formatore del seminario arcidiocesano di Ibagué. Padre Isaza parte dalla bocciatura linguistica del testo per passare a quella della riforma agraria che, a suo dire, metterebbe a rischio la proprietà privata, per finire con la condanna dell’aberrazione (testuale) di includere nell’accordo anche le persone omosessuali. Sullo stesso sito, mons. Libardo Ramírez vede negli accordi un futuro con ancora più guerre. Opinione però non condivisa dalla diocesi di Quibdó (Chocó), pubblicamente espressasi per il «sì».

Dietro la guerra c’è…

Il referendum del 2 ottobre ha abbattuto il muro dell’ipocrisia. Come ci ha confessato più di un colombiano, la realtà può essere letta anche in questo modo: «La guerra significa soldi, la pace significa incertezza e può significare anche miseria». L’affermazione contiene elementi di verità, ma è altrettanto vero che chi ci guadagna dal mantenimento dello status quo sono principalmente i ricchi o comunque i potenti.

Vale la pena di concludere con le parole di mons. Castro, parole di speranza ma anche di sano realismo, pronunciate prima del referendum del 2 ottobre: «Quello che è decisivo è ciò che verrà dopo, nel post conflitto. Questo significa costruire una Colombia nuova che corregga gli errori che diedero inizio al conflitto».

Errori che adesso, dopo la vittoria del «no», sarà ancora più difficile correggere.

Paolo Moiola

Colombia's President Juan Manuel Santos (L) and Timoleon Jimenez, aka "Timochenko" (R), head of the FARC leftist guerrilla, shake hands accompanied by Cuban President Raul Castro (C) during the signing of the peace agreement in Havana on June 23, 2016. Colombia's govement and the FARC guerrilla force signed a definitive ceasefire Thursday, taking one of the last crucial steps toward ending Latin America's longest civil war. / AFP PHOTO / ADALBERTO ROQUE
Il presidente della Colombia, Juan Manuel Santos (L), e Timoleon Jimenez, aka “Timochenko” (R), capo delle FARC, si stringono la mano alla presenza del presidente cubano Raul Castro (C) durante la firma dell’accordo di pace all’Avana il 23 giugno 2016.
  AFP PHOTO / ADALBERTO ROQUE


L’esperienza /1

Gli indigeni Nasa e il «sexto frente»

Il Cauca è stato un teatro di guerra importante. Qui si sono fronteggiati gruppi guerriglieri (non soltanto delle Farc-Ep), esercito nazionale e indigeni. Per vent’anni padre Antonio Bonanomi ha convissuto (e dialogato) con tutti gli attori. Ecco il suo racconto, le sue critiche, le sue speranze.

Padre Antonio Bonanomi è stato per 19 anni, dal gennaio 1988 a giugno 2007, a Toribío, nel Nord del Cauca, Colombia Sud occidentale, sulla cordigliera centrale delle Ande. Il Nord del Cauca è un luogo strategico per la comunicazione fra il Sud e il Nord del paese e per la sua vicinanza alla città di Cali. Fin dall’inizio del conflitto armato, nel 1964, le Farc-Ep si sono stabilite in questo territorio, formando il «sexto Frente» (sesto Fronte). Sono poi arrivati altri gruppi armati, come l’M-19 (Movimiento 19 de abril, sciolto nel 1990), il Quintin Lame (discioltosi nel 1991), il Prt (Partido revolucionario de trabajadores, sciolto nel 1991). In risposta, oltre alla polizia nazionale, è arrivato l’esercito. E così il territorio si è progressivamente convertito in uno dei principali teatri di guerra con gravissime conseguenze per la popolazione civile, formata al 95% da persone appartenenti al popolo Nasa. A Toribío padre Antonio Bonanomi ha lavorato come cornordinatore della équipe missionaria, formata da sacerdote, suore e laici. Legatissimo a quella terra, con lui abbiamo parlato del passato e del possibile futuro dopo le firme dell’Accordo del 24 agosto e l’inatteso «no» del 2 ottobre.

padreantonio_img_7612La nuova Colombia deve attendere

Padre Bonanomi, con il voto al plebiscito un’esigua maggioranza dei colombiani (poco più di 6 milioni sui 13 che hanno partecipato) hanno detto «no» agli accordi tra governo Santos e Farc-Ep. Perché questo risultato e cosa succederà ora?

«Il voto mostra un paese fortemente diviso, con una maggioranza (il 66%) che non ha votato. Ha vinto l’ex presidente Álvaro Uribe Vélez contro l’attuale presidente Juan Manuel Santos. Dopo l’esito del referendum tutti, vincitori e vinti, dicono di volere la pace. Con una sostanziale differenza: i vincitori affermano di volerla senza l’intesa che era stata firmata.

Per quello che si può capire diversi sono i motivi del “no” all’accordo: alcuni hanno detto “no” per ragioni economiche, perché si sentono toccati nei loro interessi; altri per ragioni politiche, perché temono di perdere un po’ di potere; altri ancora hanno detto “no” per ragioni “religiose”, perché pensano che l’accordo apra le porte a un gruppo comunista, ateo e favorevole ai diritti civili dei “diversi”.

La vittoria del “no” è la vittoria di un progetto di paese, culturalmente neo-conservatore, economicamente e politicamente neo-liberale.

Non è facile dire cosa può succedere ora. Con il voto del 2 ottobre un momento “storico”, che poteva significare la nascita di una nuova Colombia, si è convertito in un momento “drammatico” con uno scontro fra due progetti di paese differenti.

Ad ogni modo è importante accettare la sfida e continuare a lavorare senza stancarsi e senza perdersi d’animo per una nuova idea di paese: un paese più umano, più giusto, più aperto alle minoranze e quindi più inclusivo».

Le Farc e il narcotraffico

Se si leggono i rapporti inteazionali e i reportage dei grandi media, già dagli anni Novanta le Farc si sarebbero trasformate da organizzazione guerrigliera (o terroristica, a seconda delle diverse interpretazioni) in un cartello di narcotrafficanti che incassa milioni di dollari. Questa rappresentazione è vicina alla realtà o è esagerata per motivi politici?

«Più volte ho avuto occasione di parlare di questo  tema con alcuni responsabili del “sexto Frente” e mi hanno spiegato che a metà degli anni Ottanta del secolo scorso i principali gruppi guerriglieri (Farc-Ep e Eln) pensavano che fosse giunto il momento della lotta finale per la  vittoria della rivoluzione… e per questo avevano bisogno di altri uomini armati. Si prese pertanto la decisione di aprire le porte a tutti coloro che si presentavano e di arruolare il maggior numero possibile di combattenti. Questa decisione ebbe come conseguenza l’aumento delle spese economiche per armare e finanziare i nuovi arruolati. Per questo ricorsero al sequestro e al narcotraffico».

Pertanto, padre, la guerriglia è diventata anch’essa un attore del narcotraffico?

remolino_c2_556_38«Mi spiego meglio. Normalmente le Farc-Ep si limitavano a mettere una tassa sulla produzione e la commercializzazione delle droghe, approfittando del fatto che esse erano coltivate principalmente nelle zone dominate da loro. Quindi normalmente le Farc-Ep non  erano produttori e commercializzatori di droghe (coca, marihuana, amapola). Anzi, dove avevano potere, obbligavano i contadini a destinare parte del loro terreno alla produzione di alimenti. Sembra che, in qualche caso, ci siano anche stati gruppi delle Farc-Ep che si siano dedicati al commercio delle droghe creando così di fatto un “cartel” del narcotraffico.

Per quello che mi hanno spiegato persone del  “sexto Frente” la decisione di arruolare tutti coloro che si presentavano e la conseguente decisione di entrare nel mondo del narcotraffico è stata motivo di contrasti all’interno del movimento, perché queste due decisioni avevano creato un clima di sfiducia reciproca e la tentazione della corruzione.

Va infine notato che, nella Colombia degli ultimi 30/40 anni, tutti gli uomini del potere (politico, economico, militare, giudiziario, e in  alcuni casi anche religioso) hanno goduto dei benefici del narcotraffico. Pochi insomma possono lanciare la prima pietra».

Mons. Castro e la Chiesa colombiana

Da molti anni mons. Castro lavora per il dialogo tra le parti in conflitto. Tuttavia, il suo operato non trova consenso unanime all’interno della Chiesa colombiana. Questo è un fatto evidenziato anche dal mancato appoggio al «sì» nel referendum del 2 ottobre. Come stanno le cose?

«Non è facile parlare della Chiesa cattolica colombiana perché è una realtà molto amplia e complessa. Non sono mai mancate voci e gesti profetici, però nella sua maggioranza la gerarchia e il popolo cattolico hanno assunto posizioni conservatrici e si sono opposti al cambiamento. Molto significative sono state, in questo senso, le figure dei cardinali Alfonso López Trujillo, Dario Castrillón e dell’attuale arcivescovo di Bogotá, card. Rubén Salazar Gómez. In generale si tratta di andare d’accordo con chi detiene il potere e di respingere ogni progetto di modificazione. Al punto che molti pongono anche la Chiesa fra i responsabili della violenza in Colombia.

Questo ha spinto molti cattolici ad appoggiare il “no”, non perché siano contrari all’intesa, ma perché sono contrari alle proposte di cambiamento, soprattutto  quello culturale, conseguenti all’accordo.

Credo che questo abbia portato mons. Luis Augusto Castro, come presidente della Conferenza episcopale, a non pronunciarsi apertamente a favore del “sì”, ma piuttosto a promuovere un processo educativo, o meglio una pedagogia che porti la gente alla conversione del cuore, al perdono e alla riconciliazione».

L’attualità delle cause del conflitto

Dopo 52 anni di conflitto interno, si cerca finalmente di parlare di pace. Tuttavia, le cause economiche e sociali che hanno portato alla guerra sono ancora tutte in piedi: concentrazione della terra, diseguaglianze, carenza di sanità e istruzione, tanto per citare le principali. Non pensa che, senza una soluzione concreta di queste problematiche, la pace, qualsiasi pace, non potrà diventare effettiva?

«È verissimo che le cause del conflitto armato che ha accompagnato tutta la storia della Colombia, non solamente gli ultimi 52 anni, sono tutte ancora in piedi, però è anche vero che i rappresentanti del governo nazionale e delle Farc-Ep, che hanno lavorato a Cuba per la definizione dell’accordo, hanno preso in seria considerazione le cause del conflitto e hanno cercato di proporre delle soluzioni. Si sarebbe dovuto aprire un lungo e difficile periodo di lavoro per mettere in pratica le riforme contenute nell’accordo. Oggi, in una Colombia resa più polarizzata dal voto, il cammino verso una pace giusta si è trasformato in una sfida se possibile ancora più grande».

I guerriglieri e le vittime

Come si fa a reinserire nella società, nella vita civile e nella politica migliaia di persone che, per anni, hanno vissuto da guerriglieri? La storia colombiana parla già di due fallimenti, quello dell’Unione patriottica (i cui esponenti furono tutti eliminati in pochi anni) e quello delle milizie Auc (i cui membri sono andati a ingrossare le fila della criminalità organizzata).

«Il problema è reale: negli anni vissuti a Toribío ho visto la difficoltà di coloro che decidevano di lasciare la guerriglia a reinserirsi nel cammino della loro famiglia e della loro comunità, e allo stesso tempo la difficoltà delle famiglie e delle comunità a riceverli di nuovo. Era evidente un clima di estraneità da entrambi le parti. Già con la vittoria del “sì” non sarebbe stato facile il reinserimento (anche perché il conflitto ha lasciato strascichi di odio, di risentimento e di voglia di vendetta), con la vittoria del “no” sarà ancora più difficile. È necessario percorrere un duplice cammino: un paziente lavoro psicologico e spirituale per la conversione della mente e del cuore; un processo di formazione e di preparazione a un lavoro concreto».

I numeri delle vittime sono impressionanti. Che cosa si può dire a una persona che ha perduto un familiare o a uno sfollato?

«Se consideriamo chiuso il conflitto armato, rimangono però le sue conseguenze: migliaia di morti e feriti, di scomparsi e di sfollati. È una piaga aperta nella memoria nazionale e un mare di dolore nel cuore di molti. Nel quinto punto dell’accordo si prevedevano misure per dare una risposta a questa situazione. Sarà necessaria una azione psicologica e spirituale per la cura delle ferite. Oltre che di parole di consolazione, c’è bisogno di gesti concreti che aiutino le persone a guardare e a costruire il futuro con speranza».

Lei parla di un lavoro a livello psicologico e spirituale. Ha qualche esempio concreto in mente?

«L’esempio più famoso è quello delle “Scuole di perdono e riconciliazione” (Escuelas de perdón y reconciliación, Es.Pe.Re.), fondate da padre Leonel Narváez Gómez, un missionario della Consolata colombiano specializzatosi in Inghilterra e Stati Uniti. A livello locale ricordo anche il consultorio psicologico che un altro missionario della Consolata, padre Renzo Marcolongo, aprì a San Vicente del Caguán».

Toiamo alla dura realtà. La narcoeconomia ha radici profonde nella società colombiana. Come fare per ridurre i danni che provoca?

«La narcoeconomia è una realtà globale, non solo colombiana. È parte della cultura mafiosa che ha invaso tutto il mondo. Per questo sono necessarie risposte globali, specialmente da parte dei paesi più ricchi, dove più alta è la commercializzazione e il consumo di droghe. Una delle proposte è la liberizzazione del  commercio e del consumo di queste sostanze. Per tornare alla Colombia, l’accordo fra il governo nazionale e le Farc-Ep, al quarto punto, prendeva in considerazione il tema del narcotraffico e proponeva la creazione di alternative concrete, come progetti produttivi, piani alimentari, possibilità di accedere a servizi speciali di educazione e di salute, affinché i coltivatori possano abbandonare le coltivazioni illecite, senza ricadere nella povertà».

I popoli indigeni e le Farc-Ep

Lei ha vissuto per quasi 20 anni tra i Nasa. Questi 52 anni di conflitto cosa hanno significato per i popoli indigeni della Colombia?

«Fin  dall’inizio le Farc-Ep si sono ubicate  nei territori dei popoli indigeni, sulla cordigliera o nella selva. Normalmente le relazioni fra le due realtà sono state ambigue. Da una parte vi era una certa sintonia perché i popoli indigeni, come le Farc-Ep, lottavano per la terra e contro lo stato e il governo nazionale. Dall’altra parte vi era un certo antagonismo perché  i popoli indigeni si consideravano gli unici legittimi proprietari del loro territorio ed esigevano il rispetto della loro cultura.

I popoli indigeni in generale hanno accettato la guerriglia come alleata però non come padrona. Proprio per questo negli anni Ottanta, nel Nord del Cauca, il popolo Nasa aprì le porte al M19 e creò un gruppo guerrigliero proprio, il Quintín Lame, contro le Farc-Ep, perché queste volevano essere padrone del territorio e non rispettavano la cultura indigena».

Ecco il punto, padre Bonanomi: cultura indigena e cultura della guerriglia sembrano molto distanti.

«È vero. C’è sempre stata una forte opposizione fra la cultura marxista e materialista delle Farc-Ep e la cultura spiritualista dei popoli indigeni, fra la lotta per il potere delle Farc-Ep e la lotta per l’autonomia dei popoli indigeni.

Quando nel 2012 iniziarono le trattative in Cuba, molti leaders indigeni espressero dubbi e perplessità sull’accordo e chiesero di essere ascoltati. Fortunatamente il testo definitivo dell’accordo riconosce i diritti e le esigenze delle minoranze etniche, e quindi anche dei popoli indigeni, e questo ha spinto le loro organizzazioni e autorità a promuovere il voto per il “sì” al referendum del 2 ottobre.

Io credo che l’accordo, ove attuato, sarebbe un’opportunità per i popoli indigeni della Colombia nella loro lunga lotta per l’autonomia territoriale, socioeconomica, politica e culturale».

Paolo Moiola

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L’esperienza / 2

L’attesa si prolunga

Nella valle del fiume Caguán, in Caquetá, la guerra e la coca sono di casa. Giacinto Franzoiricorda i suoi anni trascorsi in quei luoghi sperduti e pericolosi. E non tace la sua delusione per un «no» che, come minimo, prolungherà un insostenibile «status quo». Trent’anni di vita missionaria lungo il fiume Caguán, prima a Cartagena del Chairá e poi a Remolino, a contatto diretto con il conflitto colombiano, mi inducono a fare alcune considerazioni, in una lettura retrospettiva di cause ed effetti. Quella guerra ha prodotto milioni di desplazados in terra propria. E altrettanti sono quelli scappati in tutto il mondo, per fuggire dalla paura e dalle minacce, alla ricerca di un lavoro per sostenere la propria famiglia, per sentirsi liberi in casa altrui.

franzoi-negozio2-002Le Farc (la guerriglia più antica del mondo), le Auc, i narcotrafficanti: sono stati cinquanta anni di parole e di massacri. Nella mia casa di missione, a Remolino, ho avuto l’opportunità di ospitare sia alti miliari che i comandanti delle Farc, oggi tutti seduti attorno al tavolo de L’Avana. Quando li ascoltavo, notavo la mutua incapacità di fermarsi, come per dire che non c’era uscita dal conflitto se non per via armata.

Tagliati fuori dalle sedie del potere, ogni forza sociale veniva zittita e dissuasa dalla partecipazione politica (come successe per l’Unión patriótica, Up, a metà degli anni Ottanta, ndr) e dal proporre uscite dignitose da una guerra senza fine. Eppure, chi aveva più diritto di parlare era la popolazione, quella che riempiva le fosse comuni, che soffriva le angherie dei protagonisti del conflitto, il condizionamento di ogni scelta. La guerra è proseguita tra contraddizioni infinite, doppia morale, tentativi di qualche presidente della repubblica  (Andrés Pastrana, ndr) di sperimentare forme di dialogo.

Con il Plan Colombia (iniziato nel 1999, ndr) e l’alleanza con gli Stati Uniti sono arrivati migliaia e migliaia di soldati, che hanno iniziato una nuova modalità di fare la guerra. Armi sofisticate e aeronautica militare hanno avuto un ruolo determinante nel dare un colpo mortale agli alti comandi delle Farc. La loro influenza sui territori è diminuita sempre di più. Centinaia di guerriglieri sono stati abbandonati al loro destino. Prima che fosse troppo tardi le Farc hanno deciso di mandare un messaggio alla società colombiana: era arrivato il momento di sedersi attorno ad un tavolo. La chiesa colombiana ha accompagnato la linea del dialogo soprattutto con mons. Castro, missionario della Consolata.

A l’Avana c’era bisogno di conquistare la fiducia dell’altro e la maniera più efficace era quella di non lasciare il tavolo, anche se le incomprensioni sono state molteplici e sempre più intricate. I temi erano di somma importanza e nessuno voleva perdere terreno. Il governo non poteva dimostrarsi troppo debole e la guerriglia doveva assicurarsi le garanzie dopo una eventuale firma di accordo di pace.

Dopo 52 anni di guerra costerà molto a questi combattenti tentare la convivenza, ma bisogna crederci. La strada da percorrere è molto lunga per dare alle milizie guerrigliere quanto concordato.

Complimenti a quanti hanno creduto in questa uscita dal problema e ai portatori della cultura della convivenza, attraverso il dialogo, il confronto e il riconoscimento reciproco. Complimenti anche a quei campesinos di Remolino che hanno seminato un albero diverso dalla «mala yerba» (la coca). Un’impresa (Chocaguan) ideata dalla parrocchia e amministrata dal comitato dei coltivatori di cacao. Una piccola pietra nel difficile mosaico della pace.

Quando tutta l’opinione pubblica nazionale e internazionale dava per scontata la vittoria del «sì», allo spoglio delle schede la sorpresa è stata enorme. Per 60 mila voti in più ha prevalso il «no». Se la democrazia sembra aver vinto, gli sforzi fatti negli oltre 4 anni di dialoghi sembrano ora scritti sulla sabbia. Ha prevalso il vento della vendetta, l’azione di forze occulte (politiche ed economiche), l’incapacità di perdonare e riconciliarsi per un progetto comune, la emotività di un popolo che si entusiasma per nulla e celebra il lutto al suono dei mariachi.

Rimane lo status quo e l’incertezza sul futuro. Vince un vecchio presidente della repubblica, il signor Uribe, con nell’armadio un passato sospetto di delitti, di connivenze con i gruppi paramilitari, di difesa del latifondismo e di altri interessi di potere.

Anch’io ci sono rimasto male. Come tutte quelle mamme che dovranno attendere ancora per poter riconoscere e piangere i propri figli.

Giacinto Franzoi

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L’esperienza / 3

Non chiudiamo le finestre alla pace

Per valutare la portata e la complessità dell’Accordo di pace occorre leggee le 297 pagine. Anche i numeri sono importanti. Come quelli delle zone (23) e accampamenti (8) dove i membri delle Farc hanno accettato di deporre le armi. O quelli dei seggi parlamentari (10) che saranno garantiti ai rappresentanti della guerriglia. Se il «no» del 2 ottobre non bloccherà tutto.

L’accordo di pace aveva un obiettivo chiaro: la fine del conflitto armato con le Farc e la costruzione di una pace stabile e duratura. In questo senso, occorre riconoscere che dal giorno della firma sul cessate il fuoco e sulla fine bilaterale delle ostilità, il 23 di giugno, il patto è stato rispettato dalle parti e i fatti lo dimostrano in maniera evidente: zero attentati, zero scontri e zero vittime. Vale la pena di ricordare che durante tutto il processo di negoziazione (iniziato nel 2012, ndr) uno dei maggiori timori di fallimento era quello di proseguire il dialogo nel mezzo della guerra. Fortunatamente e nonostante gli eventi dolorosi che si sono verificati, le parti hanno mantenuto la volontà politica di arrivare fino alla fine (ribadendo le loro intenzioni anche dopo l’inatteso «no» del 2 ottobre).

Del conflitto armato colombiano si parla come di uno dei più complessi del mondo, sia per la sua durata, 52 anni, che per la trama di attori legali e illegali e per le sue relazioni e dinamiche legate alle regioni in cui esso si è sviluppato.

Se guardiamo alle cause che hanno generato il conflitto, esse continuano a sussistere: la concentrazione delle terre produttive in poche mani, la scandalosa diseguaglianza sociale, l’accumulazione di ricchezza a fronte di una pungente povertà, la sistematica esclusione di vasti settori della società come i contadini, gli indigeni e gli afroamericani, la profonda corruzione della classe politica e dirigente che accumula fortune rubando all’erario statale attraverso i contratti pubblici, la precarietà e assenza dello?stato nella Colombia rurale.

Come se tutto questo fosse poco, si è sommato il mostro del narcotraffico che, a partire dagli anni Ottanta, è servito da combustibile per la guerra e che ha corrotto tutti i settori dello stato, provocando inoltre perverse alleanze tra narcotrafficanti, paramilitari e politici, nonché legami della guerriglia con il businness della droga.

Anche se l’accordo bocciato il 2 ottobre non garantiva che le grandi e storiche diseguaglianze ed esclusioni si sarebbero risolte, esso avrebbe permesso di aprire finestre di speranza attorno a tematiche cruciali come: la fine del conflitto armato e delle Farc come organizzazione armata illegale, la riforma rurale integrale, l’ampliamento della partecipazione politica, la sostituzione delle coltivazioni illecite con altre lecite, un sistema di verità, giustizia, riparazione e non ripetizione per le vittime.

cop_dossier_colombiaLa base di partenza: conoscere l’Accordo

A favore del «sì» si erano schierati: il governo e la coalizione Unidad nacional (di cui fanno parte partiti tradizionali e nuovi che godono di un’ampia maggioranza nel Congresso), i partiti di sinistra e altri partiti alternativi, nonché alcune organizzazioni sociali di base di varia natura. Dalla parte del «no» si erano invece schierati i settori che rappresentano la frangia più conservatrice del paese e la destra. Nel dibattito politico, i rappresentanti che capeggiavano i due schieramenti hanno assunto posizioni drasticamente polarizzate, generando confusione e disinformazione nella popolazione.

Nel mezzo di uno scenario di attacchi e contrattacchi era difficile mantenere la calma senza lasciarsi prendere dalla febbre del momento. Esistono uomini e gruppi moderati e conciliatori – tra essi la Chiesa cattolica – che hanno promosso il dibattito e la discussione civile a partire dalla conoscenza delle 297 pagine dell’Accordo. Un compito questo né piacevole né facile: occorreva (e occorre) avere pazienza e umilità per indagare, domandare e partecipare. Gli aiuti pedagogici elaborati da soggetti distinti – organizzazioni popolari, della Chiesa, delle istituzioni nazionali e inteazionali, dello stesso governo – hanno permesso a una parte della popolazione con un basso livello di scolarità di fare propria una certa prospettiva storica alla luce del passato, del presente e del futuro.

Lo smisurato sforzo dei negoziatori

Partendo dalla mia esperienza missionaria tra le comunità che più hanno sofferto il conflitto armato e le sue conseguenze, con i lettori della rivista vorrei condividere alcune riflessioni personali.

Al di là del risultato referendario, è evidente che il processo di negoziazione e il fatto di aver raggiunto un accordo che ha sancito la fine del conflitto e ha fissato i paletti per una pace stabile e duratura hanno rappresento una crescita umana, sociale e culturale. Voler terminare un conflitto armato della vastità – 8 milioni di vittime, tra cui 224 mila morti e 7 milioni di sfollati – di quello colombiano attraverso il dialogo ha richiesto un alto grado di volontà e di razionalità politica in favore del valore più prezioso che è il rispetto della vita e il diritto fondamentale a vivere in pace. Va pertanto elogiato l’immane sforzo dei negoziatori del governo e della guerriglia durante questi quattro anni.

La guerriglia delle Farc si è impegnata a lasciare le armi per la politica. Mai prima, in più di 52 anni di lotta armata, dopo vari tentativi di negoziazione (soprattutto sotto la presidenza Pastrana, ndr)  e nonostante avesse subito dure sconfitte, la guerriglia aveva accettato di sottomettersi alla Costituzione e alla legge. Questo è stato un risultato fondamentale ottenuto dal negoziato e, ancora prima di questo, dai successi delle forze armate colombiane, capaci di infliggere perdite considerevoli alla guerriglia (culminate nel novembre 2011 con l’uccisione di Alfonso Cano, comandante in capo delle Farc, ndr). Detto questo, le Farc, in quanto organizzazione politico-militare, mai hanno perso la loro capacità di destabilizzare lo stato, così come di controllare e influenzare una parte consistente del territorio nazionale. Per questi motivi e alla luce di non essere state sconfitte, al fine di contribuire alla pace esse hanno convenuto «l’abbandono volontario delle armi».

Dalle armi alla partecipazione politica?

Tralasciando gli imprevedibili effetti del «no» del 2 ottobre, secondo l’Accordo tutti i membri delle Farc dovrebbero essere raggruppati in 23 cosiddette «zone transitorie di normalizzazione», disseminate in vari municipi del paese, e in 8 accampamenti per i comandanti. In questi luoghi si dovrebbe realizzare il processo di abbandono delle armi, che rimarranno nelle mani dell’Onu. Dopo 6 mesi, una volta formalizzata la situazione dei guerriglieri, si dovrebbe dare inizio al processo giudiziario dei suoi membri attraverso la «Giurisdizione speciale per la pace».

In materia di partecipazione politica, le Farc dovrebbero avere fino al 2018 tre rappresentanti alla Camera e tre al Senato con diritto di parola ma non di voto. Successivamente, esse potrebbero partecipare alle elezioni per il Congresso, avendo assicurati in ogni caso 10 seggi parlamentari.

Anche se questa eleggibilità politica è stato uno dei cavalli di battaglia del «no» all’Accordo, va ricordato che anche i governi anteriori lo avevano promesso al fine di arrivare alla pace.

Finalmente un’opportunità per contadini, afroamericani e indigeni

Per decenni, governi distinti hanno giustificato in parte i loro insufficienti interventi e investimenti sociali con la presenza delle Farc nelle zone di più difficile accesso. Se gli accordi venissero comunque applicati, si aprirebbero finestre di opportunità affinché le comunità di campesinos, afro e indigene rafforzino i propri piani di sviluppo integrale, di distribuzione delle terre e loro formalizzazione legale, di miglioramento delle vie di comunicazione per la commercializzazione dei prodotti. Oltre a ciò, il progetto di restituzione delle terre già attivo (Ley 1448 o Ley de Víctimas y Restitución de Tierras, 2011, ndr) potrebbe trovare un ambiente più adatto per il proprio sviluppo a tutto beneficio delle vittime (si calcola che gli sfollati abbiano abbandonato 4-6 milioni di ettari, ndr).

Per il caso colombiano ritengo che sia stato di vitale importanza l’appoggio della comunità internazionale, rappresentata sia dai paesi garanti e facilitarori (Cuba, Norvegia, Venezuela e Cile) che dall’Onu e dalla Corte penale internazionale. Se nonostante tutto ancora ci sarà un processo di applicazione degli accordi – il cosiddetto postconflitto -, la comunità internazionale dovrebbe offrire una blindatura di sicurezza giuridica e di chiusura dei processi che si dovrebbero tenere tanto per i guerriglieri quanto per tutti coloro che, durante il conflitto, hanno commesso delitti, inclusi i membri delle Forze armate. La Corte penale internazionale dovrebbe evitare che ci sia impunità, in linea con gli standard inteazionali soprattutto con riferimento ai crimini di lesa umanità commessi nel corso del conflitto (il Trattato di Roma del 1998 elenca 11 tipi di delitti classificabili come crimini contro l’umanità, ndr). Dovrebbe garantire inoltre che vengano rispettati i tempi e i processi di quanto pattuito in materia di verità e di giustizia.

Continuerà la terribile notte?

La guerra è la sconfitta dell’umanità. La Colombia che oggi abbiamo è stata in parte partorita dalla guerra e dalla violenza. È per questo che sognare di poter chiudere queste dolorosissime pagine della nostra storia significa aprirsi a nuove opportunità di cui soltanto le nostre future generazioni potranno godere appieno. Senza le assurde dispute e meschinità della politica attuale, lontani da insane gelosie e falsità che vogliono soltanto condannarci a ripetere la storia di «100 anni di solitudine» (riferimento al famoso romanzo di Gabriel García Márquez, ndr).

Poco a poco supereremo la orribile notte. Sarebbe bello se i colombiani del futuro potessero dire che sebbene «qui è sempre successo il peggio, sempre qui è successo il meglio». A significare che siamo stati capaci di aprire le finestre alla speranza, alla giustizia, alla riconciliazione e alla pace.

Benjamín Martínez Solano

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Sitografia

In rete si possono trovare buoni siti d’informazione sull’Accordo del 24 agosto 2016:

 Video e archivio MC

Questo dossier è stato firmato da:

  • Antonio Bonanomi Missionario della Consolata brianzolo, è arrivato in Colombia nel gennaio del 1979. Dopo 5 anni a Tocaima, dal 1983 al 1987 ha insegnato a Bogotá. Da gennaio 1988 e per quasi 20 anni ha lavorato a Toribío, nel Cauca, tra le popolazioni?Nasa, contribuendo alla loro causa e promuovendo la realizzazione del centro di formazione Cecidic (1994). Dal 2014 è tornato in Italia.
  • Giacinto Franzoi Missionario della Consolata trentino, padre Giacinto Franzoi ha operato in Colombia dal 1979 al 2008 nel Caguán, nella regione amazzonica del Caquetá. Ha raccontato quel periodo in alcuni libri di memorie: Rio Caguán. Memorias y leyendas de una colonización, Bogotà; Dio e coca, Fatti e misfatti di una missione, Ancora Editrice, 2003; I prigionieri del Caguán, Ancora Editrice, 2010. Oggi presta servizio a Rovereto. Per richiesta libri o conferenze: jacintofranzoi@libero.it.
  • Benjamín Martínez Solano – Nato a Bucaramanga, in Colombia, dopo l’ordinazione sacerdotale come missionario della Consolata è stato per 8 anni in Corea del Sud. Dal 2002 è tornato nel suo paese natale. Ha lavorato con le comunità afro a Marialabaja (Bolivar), con i contadini a San Vicente del Caguán (Caquetá), con le comunità indigene a Toribio (Cauca). Oggi lavora a Cartagena del Chiara (Caquetá). Teologo, è laureato in scienze politiche.
  • Ringraziamo per la collaborazione padre Angelo Casadei, superiore dei missionari della Consolata in Colombia. Attualmente a Bogotá, ha lavorato a Remolino (Caquetá).
  • A cura di: Paolo Moiola, giornalista, redazione MC.

 




Mussulmani seconda generazione Italia


Introduzione

Seconda generazione

Terrorismo e fondamentalismo islamico rischiano di riaccendere uno «scontro di civiltà» nei paesi europei. In questa situazione, che ruolo possono giocare le seconde generazioni?

Negli ultimi mesi terrorismo e fondamentalismo islamico sono tornati prepotentemente sulle prime pagine dei giornali, portando con sé un’isteria collettiva che richiama le paure dello «scontro di civiltà». Il terrorismo e i suoi effetti collaterali hanno, infatti, ricadute importanti sulle stesse comunità islamiche in Europa e sul faticoso processo di integrazione nelle comunità in cui si trovano. Ai musulmani che vivono nei paesi europei viene chiesto con forza di prendere posizione: condannando, dissociandosi dagli estremisti, cercando spiegazioni ai gesti folli, per «tranquillizzare» le società in cui vivono. Gioalisti e accademici si sforzano allora di inquadrare nuove figure con cui poter dialogare, da poter «integrare» o già «integrate»: il «musulmano moderato», il «musulmano europeo». Cercando di dare etichette, però, talvolta, si viene a generare ancora più confusione, rendendo sempre più difficile trovare interlocutori adeguati perché, al di là delle prese di posizione pubbliche e ufficiali, molti sono i punti critici che rimangono aperti: l’esistenza o meno di un Islam europeo o italiano, l’influenza dell’Islam politico, il rapporto tra sfera politica e sfera religiosa, il ruolo della secolarizzazione.

A questi elementi va aggiunta la crescita di una nuova generazione di musulmani di origine straniera in Italia che, nell’ultimo decennio, ha raggiunto l’età adulta, e il confronto (talvolta lo scontro) tra padri e figli sulla diversa visione della religione e del ruolo di questa nella società d’adozione, sulle nuove forme di riappropriazione di rituali, tradizioni e usanze, sulla rivisitazione e rinegoziazione di pratiche e credenze, che riflette una crescente autonomia soggettiva dei più giovani dalla cultura ereditata. La partecipazione a un contesto democratico, l’uso di una lingua differente da quella della propria comunità d’origine, l’immersione totale in luoghi di socializzazione italiana condizionano, infatti, le scelte dei giovani musulmani, contribuendo significativamente a una messa in discussione e, spesso, a una reinterpretazione critica dell’appartenenza religiosa. Come ha scritto la ricercatrice Anna Granata, i giovani spesso scelgono «una loro via, cercando compromessi e nuove sintesi, ponendosi domande sulle tradizioni che hanno ereditato, vivendo la fede in un modo personale e autentico e non sull’onda di un’adesione acritica».

Si riscontra, insomma, un progressivo distacco da un Islam «etnico» e l’affermazione di una relazione personale con la dimensione religiosa. I giovani musulmani non vedono più l’Islam come una mera riproduzione di pratiche religiose del paese di origine dei genitori in un nuovo contesto. L’appartenenza religiosa delle seconde generazioni si configura piuttosto come uno stile di vita legato a una scelta: scelta che aiuta a comprendere sé stessi e sentirsi parte attiva della società.

Viviana Premazzi

SAYMA ILYAS, 29 ANNI, PAKISTAN
SAYMA ILYAS, 29 ANNI, PAKISTAN

Musulmani d’Italia

In Italia, l’appartenenza religiosa, in quanto dato sensibile, non viene rilevata dalle analisi Istat. Per questo le stime, foite dai diversi enti e istituti di ricerca, possono variare significativamente: il Cesnur (Centro studi sulle nuove religioni) nel 2012 parlava di 115mila musulmani italiani, tra immigrati e convertiti, Camillo Regalia di Ismu (Iniziative e studi sulla multietnicità) alla conferenza Metropolis del 2014 li stimava in 258mila. Più alti sono invece i numeri foiti dal Pew Forum on Religion and Public Life: nel 2010, secondo l’istituto, i musulmani in Italia erano già 1.583.000, dato che si avvicina a quello dichiarato dal presidente dell’Ucoii (Unione delle comunità islamiche italiane) 1 milione e 700mila, e stimato nel Dossier Immigrazione 2015 curato da Idos (Centro studi e ricerche): più di 1 milione e 600mila. Tra i musulmani, oltre agli immigrati di prima generazione, troviamo ora anche una consistente presenza di «musulmani di seconda generazione», ossia giovani di fede musulmana e di origine immigrata, ma nati in Italia. (Vi.P.)

 

REGGIO EMILIA. MANIFESTAZIONE DI SOLIDARIETA' CON LA FRANCIA E CONTRO IL TERRORISMO, JE SUIS CHARLIE. NELLA FOTO I RAPPRESENTANTI DELLA COMUNITA' MUSULMANA DI REGGIO
REGGIO EMILIA. MANIFESTAZIONE DI SOLIDARIETA’ CON LA FRANCIA E CONTRO IL TERRORISMO, JE SUIS CHARLIE. NELLA FOTO I RAPPRESENTANTI DELLA COMUNITA’ MUSULMANA DI REGGIO


L’analisi

Stessa fede, modalità diverse

La prima generazione di immigrati musulmani ha visto l’Islam come un elemento di
riconoscimento e rafforzamento identitario e come un antidoto alla solitudine e all’isolamento. La seconda generazione (ovvero i figli) non rifiuta la religione, ma ha avviato un (lento) processo di revisione critica e di adattamento al contesto di vita del paese d’adozione. Nel contempo, l’affermazione delle nuove tecnologie ha anche facilitato la diffusione di visioni radicali.

Ragionare di religione in emigrazione spesso significa tracciare una linea di confine netta fra la religiosità della prima generazione e quella della seconda, ritenuta spesso più secolarizzata. Tuttavia, risultati di indagini empiriche recenti come quella realizzata da Abis Analisi e Strategia nel 2011, G2: una generazione orgogliosa1, hanno mostrato, invece, che la religione può giocare un ruolo significativo anche nelle vite dei giovani di seconda generazione, contrariamente a quanto l’esperienza degli immigrati europei dei secoli scorsi aveva evidenziato2.

L’esperienza migratoria, infatti, è certamente esposta a pressioni assimilazioniste, ma, per contro, è anche un’esperienza in cui, in presenza di un grado sufficiente di tolleranza e di possibilità d’espressione, i migranti tendono a riscoprire e riproporre le loro tradizioni e identità religiose3. Questo è particolarmente vero quando entrano in campo i figli e quindi la trasmissione dell’identità culturale.

Spesso per la prima generazione il fatto di trovarsi in una realtà nuova, senza riferimenti linguistico-culturali familiari, ha favorito il ricorso alla religione come elemento di riconoscimento e rafforzamento identitario, ma anche come antidoto alla solitudine e all’isolamento. Questo soprattutto perché la frequentazione delle moschee e dei luoghi di culto permetteva l’incontro con connazionali con cui condividere esperienze e bisogni. È però con il passaggio da una migrazione temporanea (o percepita come tale) a una di radicamento e stabilizzazione che si sono concretizzate nuove forme associative per la trasmissione della propria religione ai figli e nuove richieste nei confronti della società italiana, ad esempio riferite alla libertà di culto.

La pratica religiosa in un nuovo contesto

La socializzazione dei giovani in Italia dà vita a percorsi autonomi di relazione con il sacro: nascono nuove riflessioni sulla propria identità personale e sull’appartenenza religiosa personale e collettiva. La fede non viene abbandonata, ma rivista e adattata al contesto di vita quotidiano, traducendosi in un pluralismo valoriale che rivendica un proprio riconoscimento4. I giovani infatti spesso scelgono «una loro via, cercando compromessi e nuove sintesi, ponendosi domande sulle tradizioni che hanno ereditato, vivendo la fede in un modo personale e autentico e non sull’onda di un’adesione acritica»5. Studiando l’idea che i figli hanno del contesto religioso familiare, si riscontra l’avvio di un processo di revisione e reinvenzione delle pratiche religiose. Se per le prime generazioni vivere la propria fede in emigrazione significa spesso mantenere anche le tradizioni religiose-culturali del paese di origine, per i figli non è più così. Le strategie di adattamento sono molteplici e in alcuni casi si riscontra un certo interesse per l’approfondimento dei contenuti fondamentali della propria fede, per reagire a un contesto di vita in cui coesistono secolarizzazione e pluralismo religioso, fenomeni che mettono in discussione valori e principi tradizionali6.

Come evidenzia la professoressa Jocelyne Cesari (University of Birmingham) a proposito dei musulmani in Francia, anche la secolarizzazione in atto nel paese ha influenzato i giovani musulmani spingendoli, in molti casi, a individualizzare e privatizzare la loro religione. Questi processi, secondo Oliver Roy (Istituto universitario europeo), mettono anche in discussione l’idea stessa di una comunità musulmana «unica» in Europa: «Non esiste un Islam occidentale, esistono musulmani occidentali». L’individualizzazione può significare maggiore libertà di adattare alcune regole a determinati contesti o di sviluppare forme inedite di mescolanze e sincretismo, ma può anche portare a orientamenti fondamentalisti e radicali, tendenza ulteriormente complicate dalla diffusione delle nuove tecnologie che ha aggiunto nuove opportunità ma, parallelamente, nuovi rischi. L’uso di internet e dei canali satellitari può infatti portare allo sviluppo di interpretazioni «bottom up» dell’Islam (interpretazioni fai da te della religione), un Islam «cut and paste» (un Islam taglia e incolla che ognuno si costruisce prendendo quello che più gli piace o gli fa comodo), eclettico, dal quale le persone possono prendere ispirazione a seconda delle proprie preferenze. L’incontro online con particolari messaggi o predicatori può anche legare i giovani nati in Italia a pratiche religiose lontane dalle loro esperienze familiari e favorire la diffusione di visioni radicali e inconciliabili con il contesto di vita, producendo situazioni d’isolamento e straniamento che portano a rifugiarsi sempre più in ambienti «protetti», nella rete o nella vita reale.

Mirandola (Mo). Ziamri Imane una ragazza di famiglia di origine magrebina ha aderito al bando del Servizio Civile Straordinario nel periodo successivo al terremoto che ha colpito l'Emilia prestando la sua opera presso un Centro Diuo per anziani
Mirandola (Mo). Ziamri Imane una ragazza di famiglia di origine magrebina ha aderito al bando del Servizio Civile Straordinario nel periodo successivo al terremoto che ha colpito l’Emilia prestando la sua opera presso un Centro Diuo per anziani

Oltre le moschee e i centri islamici

Il crescente individualismo dei giovani musulmani con riferimento alla fede islamica può essere collegato alla perdita d’autorità delle organizzazioni religiose, che non sono più in grado di trasmettere i loro valori e di rispondere alle domande e ai bisogni delle nuove generazioni. Per gli adulti immigrati e quindi per le istituzioni da loro create (moschee e centri islamici) è infatti difficile comprendere fino in fondo il contesto in cui i giovani crescono e socializzano. Alle difficoltà e alle paure dei genitori che i figli seguano l’esempio dei coetanei italiani e quindi perdano i propri valori tradizionali, fa da contraltare, però, la cosiddetta «forza della numerosità», che sta diventando un aspetto importante nel rapporto fra giovani e religioni. Per i figli dell’immigrazione, infatti, la sensazione di essere «come un pesce fuor d’acqua» si manifesta quando essi assumono comportamenti che li distinguono dalla maggioranza dei coetanei. Tuttavia, l’aumento della visibilità delle famiglie musulmane, del numero degli studenti che a scuola si dichiarano musulmani, delle ragazze che indossano il velo e di un protagonismo associativo legato alla religione può diventare un terreno favorevole all’emersione di identità religiose latenti, inibite dal timore della discriminazione. La religione e le associazioni religiose create dalle seconde generazioni, in questi casi, sembrano soddisfare il desiderio di trovare un punto di riferimento morale e il proprio posto nel mondo, evidenziando la propria originalità, all’interno di una precisa appartenenza. L’Islam praticato insieme ai propri coetanei offre stabilità, un quadro in cui si può vivere da musulmani nella società italiana, continuando però a interrogarsi sia rispetto all’identità religiosa dei propri genitori in Italia, sia rispetto all’identità religiosa percepita nei paesi d’origine, in cui essere musulmano va per così dire da sé e determinati comportamenti non richiedono continue giustificazioni, come invece avviene in Italia.

Le associazioni musulmane dal «chi siamo» al «cosa possiamo fare»

La nascita di associazioni musulmane di seconda generazione, come ad esempio quella dei «Giovani Musulmani d’Italia», ha attirato l’attenzione degli studiosi sociali per la sintesi che tali realtà sembrerebbero esprimere tra religiosità dei padri e religiosità dei figli e per la capacità di porsi come musulmani in Italia, protagonisti nella costruzione della società italiana. Le associazioni sembrano infatti esprimere la richiesta di uguaglianza di questi nuovi italiani che non si limitano a chiedere di essere riconosciuti come cittadini liberi di professare le proprie convinzioni religiose, ma domandano anche di partecipare attivamente alla società, al pari dei loro coetanei non musulmani. Oltre quindi a offrire formazione e aggregazione per i propri membri, le associazioni superano l’atteggiamento rivendicativo di diritti tipico delle prime generazioni e, forse considerando ormai acquisito il loro riconoscimento in quanto associazioni di italiani musulmani, guardano al di là dei confini della propria religione e della propria cultura di origine per proporre e realizzare insieme ad altre associazioni e singoli italiani progetti e attività in ambiti diversi. Ci troviamo quindi in presenza di una nuova generazione che non si accontenta più solo di esserci, ma che vuole partecipare attivamente alla costruzione di significati, che cerca quotidianamente di conquistare i propri spazi di azione e rivendicazione, sia rispetto alle prime generazioni sia rispetto all’intera società italiana. Superato il passo del «chi siamo», ora le associazioni sembrano cercare di rispondere alla domanda del «che cosa possiamo fare» in relazione al contesto sociale in cui sono inserite. Per le seconde generazioni, il riferimento all’immigrazione e alla diversità deve essere abbandonato: la relazione è sullo stesso piano, tra (quasi) cittadini7, ovvero tra residenti che si impegnano per il bene comune della comunità e della città in cui vivono.

Il cambiamento è significativo: da immigrati considerati destinatari di interventi, i giovani musulmani vogliono diventare coprotagonisti nei processi di costruzione delle politiche pubbliche. La seconda generazione perciò non confina più l’Islam a una questione personale, «da immigrati», ma cerca di far entrare il discorso religioso nel più ampio dibattito pubblico sul pluralismo, liberandolo dai suoi legami con l’immigrazione, di cui spesso i nuovi attori non hanno alcuna esperienza.

L’obiettivo di partecipazione si è tradotto, nei fatti, in un’idea di cittadinanza «praticata». La seconda generazione aspira a essere riconosciuta come partner, ad avere un ruolo attivo negli eventi culturali delle città, a intervenire laddove possibile nei processi decisionali sostenendo l’idea che l’Islam è compatibile con forme di cittadinanza attiva.

Reggiolo (Re). Aulakh Sahar Shahzadi, di famiglia di origine pakistana ha aderito al bando del Servizio Civile Straordinario nel periodo successivo al terremoto che ha colpito l'Emilia prestando la sua opera presso un Centro Diuo per anziani
Reggiolo (Re). Aulakh Sahar Shahzadi, di famiglia di origine pakistana ha aderito al bando del Servizio Civile Straordinario nel periodo successivo al terremoto che ha colpito l’Emilia prestando la sua opera presso un Centro Diuo per anziani

Le associazioni: i punti critici

Le aspirazioni però spesso si scontrano con la realtà, che vede le associazioni di seconda generazione, pur apprezzate da gran parte dei gruppi politici locali, non ancora completamente in grado di rappresentare l’Islam davanti alle istituzioni, anche per tensioni intee alla comunità islamica soprattutto riguardo ai processi di selezione delle leadership.

Un altro aspetto importante da mettere in luce è la relazione di queste associazioni con i propri membri. Essa infatti pone anche dei rischi, come ad esempio, quello di porsi come l’«unica vera via», quasi che l’appartenenza associativa risulti più importante dell’appartenenza religiosa, al punto che solo l’associazione possa pretendere di porsi come rappresentante dell’Islam. Il rischio è anche che, per i membri, le associazioni possano trasformarsi in un ghetto che chiede alla società italiana spazi di partecipazione e di riconoscimento, ma esclude anime e visioni diverse al proprio interno. Se le associazioni possono infatti configurarsi come un ponte tra la cultura islamica e occidentale, come pure tra i padri e i figli della nuova presenza musulmana in Italia, il rischio è che si trasformino in realtà che aderiscono incondizionatamente al pensiero dei padri o che cercano di riproporre modi di vita e pratiche proprie dei contesti di origine. Si tratta di un rischio concreto soprattutto in relazione alle modalità con cui si strutturerà nei prossimi anni l’egemonia religiosa e culturale nel confronto tra le generazioni. La sfida è rappresentata dalle relazioni che si sviluppano con la generazione dei genitori e dal modo in cui interagiscono con le esigenze della fedeltà e il conformismo. Questioni come l’autorità e la rappresentanza hanno, infatti, strettamente a che vedere con le dinamiche intergenerazionali, anche in relazione al modo in cui le prime generazioni considereranno l’Islam dei figli: se confinato in associazioni giovanili di «eternamente giovani», se cornoptato per influenzae gli orientamenti o se riconosciuto come una «terza via» in grado di esprimere autorità e rappresentanza (viste le competenze relative al contesto italiano e a quello di origine). La sfida ancora tutta da giocare riguarderà proprio la capacità dell’associazionismo islamico di sviluppare processi trasparenti di formazione delle leadership, in grado di garantire indipendenza e pluralismo. Al momento la creazione di una propria leadership è una delle questioni più importanti con cui si sta confrontando l’Islam in Italia. Il processo di selezione, in particolare rispetto ad alcune realtà associative giovanili, rischia di essere connotato da derive nepotiste, soprattutto per quanto riguarda la formazione teologica e culturale dei quadri, restando ancora troppo orientata verso (e influenzata da) i paesi di origine.

Viviana Premazzi

Note

(1) Abis Analisi e Strategia, G2: una generazione orgogliosa, Rapporto di ricerca, Milano 2011.
(2) Joceyline Cesari, Sean McLoughlin, European Muslims and the Secular State, Ashgate, London 2005.
(3) Viviana Premazzi, Religioni in migrazione. Intervista a Maurizio Ambrosini (Milano, 27 novembre 2014), in Giovanni?Salmeri (a cura di), Troppa religione o troppo poca. Cristiani e musulmani alla prova della secolarizzazione, Marsilio, Padova 2016, pp. 75-77.
(4) Joceyline Cesari, Andrea Pacini, Giovani Musulmani in Europa. Tipologie di appartenenza religiosa e dinamiche socio-culturali, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 2005.
(5) Anna Granata, Di padre in figlio, di figlio in padre. Il ruolo innovativo delle seconde generazioni nelle comunità religiose di minoranza, «Mondi migranti» 3 (2010), pp. 86-100.
(6) Cfr. Luisa Deponti, Migrazione e religione: la prospettiva dei giovani della seconda generazione, «Corriere degli Italiani», 3 ottobre 2012.
(7) Diciamo «quasi» perché molti musulmani, pur nati in Italia, non hanno ancora la cittadinanza, dato che la legge attuale non è basata sullo «ius soli».

Gavello (Mo). Un bambino di origine magrebina giocano a pallone presso la Casa Famiglia gestita dall' associazione Papa Giovanni XXIII
Gavello (Mo). Un bambino di origine magrebina giocano a pallone presso la Casa Famiglia gestita dall’ associazione Papa Giovanni XXIII


L’esperienza

Oratori, un passo avanti

Nato come luogo di rafforzamento della religione cattolica tra i più giovani, da qualche anno l’oratorio ha attenuato questa caratteristica originaria. Oggi, soprattutto nelle regioni del Centro Nord, l’istituzione accoglie molti ragazzi stranieri – i numeri parlano del 20-25% -, indipendentemente dal loro credo religioso. Per gli stranieri la motivazione è quasi sempre strumentale e la grande maggioranza dei genitori dei ragazzi non partecipano alle attività. Tuttavia, il ruolo che giocano gli oratori nel superamento delle differenze è rilevante.

Nel contesto italiano, in particolare nel Centro Nord, l’oratorio è rimasto nel tempo un luogo importante di socializzazione e punto di riferimento sotto diversi aspetti per molti bambini e adolescenti, oltre che per le loro famiglie.

Anche se la dimensione religiosa è la base e il cardine di tutte le attività che l’oratorio propone, non sembra rappresentare un elemento discriminante per chi non professa la religione cristiano cattolica. Oggi si assiste infatti a una diminuzione della partecipazione da parte dei giovani di origine italiana e un aumento nell’uso di strutture e servizi offerti dall’oratorio da parte dei giovani di origine straniera e delle loro famiglie, anche se, come vedremo più avanti, questo uso è nella maggior parte dei casi strumentale.

L’oratorio nasce come una struttura aperta a tutti e pronta ad accogliere anche coloro che esprimono bisogni peculiari: esso è, per sua natura, in dialogo con il contesto locale nel quale è inserito ed è attivo protagonista nei cambiamenti che coinvolgono la comunità alla quale appartiene e coinvolto nelle problematiche che emergono1.

Cosa dicono le ricerche

Nel 2015, secondo la ricerca Ipsos L’oratorio oggi, commissionata dalla Fom (Federazione oratori milanesi) e da Odielle (Oratori diocesi lombarde), gli oratori in Lombardia erano 2.307. Nel 15% di questi si svolgono attività specifiche per gli stranieri. In media, infatti, almeno un bambino su dieci che frequenta l’oratorio è straniero e di questi un terzo è musulmano. Anche in Piemonte, negli oratori salesiani, già nel 2008, il 21% dei ragazzi che li frequentavano erano stranieri2 e provenivano soprattutto da Maghreb, Perù, Ecuador e Brasile. In alcuni oratori delle diocesi lombarde – come, ad esempio, Cremona, Lodi e Milano – la presenza di minori stranieri raggiunge percentuali vicine al 40- 50% di tutti i frequentanti3. Nei diversi oratori si trovano racconti e pratiche diverse dovute anche alle diverse caratteristiche delle zone e della tipologia di immigrazione.

Secondo la ricerca Educare generando futuro. I minori di origine straniera in oratorio: dall’integrazione alla condivisione a cura di Ismu, Fom, Caritas Ambrosiana e Ufficio Pastorale Migranti Diocesi di Milano, l’oratorio viene scoperto per la prima volta dai ragazzi stranieri soprattutto grazie al doposcuola4 o ai corsi di lingua italiana, organizzati in genere per gli adulti, i genitori, che spesso devono portare con sé i figli piccoli, o grazie ad amici e compagni di scuola che invitano a giocare negli spazi all’aperto o nelle squadre sportive. Nel primo caso sono per lo più gli insegnanti della scuola a parlare ai ragazzi della possibilità di frequentare un doposcuola e dell’aiuto che potrebbe dare loro sia per l’apprendimento della lingua sia per un sostegno scolastico più generale.

Più rare sono le situazioni per cui la prima conoscenza avviene grazie all’iscrizione, da parte della famiglia, all’oratorio estivo, oppure attraverso la partecipazione alla messa e al catechismo5.

Secondo la ricerca condotta dalla Caritas Ambrosiana6 sui doposcuola nella diocesi di Milano, più del 40% dei ragazzi e delle ragazze che li frequentano è di origine immigrata con punte del 90% nei quartieri popolari di Milano. Questo dato supera il 50% nella città di Milano e nella zona di Lecco mentre nelle altre aree della diocesi tale valore si attesta intorno al 30- 35%. Nella sola diocesi ambrosiana sono presenti quasi 200 doposcuola, nella maggior parte di essi sono coinvolti prevalentemente volontari: universitari, insegnanti e pensionati.

In fila per l’oratorio estivo

L’oratorio estivo è uno dei momenti più importanti nella vita della struttura ed è, sempre più, un’occasione fondamentale di condivisione di esperienza tra italiani e stranieri e di educazione ai valori che sono comuni a tutte le nazionalità e le religioni: l’amicizia, il rispetto dell’altro, l’onestà7.

L’indagine Educare generando futuro mette in luce come l’oratorio estivo risulti essere tra le attività maggiormente frequentate dai ragazzi di origine straniera: la percentuale di minori stranieri si attesta, infatti, al 27% circa, sia per i maschi sia per le femmine. Sempre secondo i dati della ricerca, sul totale dei ragazzi stranieri presenti negli oratori estivi, la percentuale di cattolici si attesta al 60,2%; i musulmani tra i minori immigrati sono invece il 26,9% e coloro che appartengono ad altre confessioni cristiane rappresentano circa il 10%.

È possibile anche che alcuni ragazzi di origine straniera, i più grandi, dopo i primi anni da «utenti/usufruitori di servizi», prendano degli impegni e delle responsabilità in oratorio, come il compito di allenare una squadra sportiva, di fare l’animatore all’oratorio estivo o, più raramente, di partecipare agli incontri di catechismo o di confronto e riflessione settimanale del gruppo adolescenti. In quest’ultimo caso, può avvenire che i momenti di preghiera non siano vincolanti per loro (possano cioè non pregare) qualora siano di religione non cattolica. Come spiega il sociologo Maurizio Ambrosini (Università di Milano), infatti, «l’oratorio non viene percepito come un luogo di indottrinamento cattolico. Alcuni lo frequentano solo per le attività sportive, per altri invece è anche un’occasione di impegno»8. È quella che la professoressa Paola Bonizzoni (Università Milano Bicocca) chiama «inclusione non partecipante»: «I ragazzi hanno la possibilità di fare comunque un’esperienza di spiritualità e di riflessione che trascende (in quanto universale e connaturata alla natura umana) la specificità (e la padronanza) del linguaggio cattolico»9.

Don Andrea Plumari, della parrocchia di Precotto, indica (un suo commento anche a pagina 44, ndr) diversi atteggiamenti adottati da chi non è di religione cattolica rispetto alla preghiera: dalla partecipando alla preghiera, senza però pregare, per sentirsi comunque parte del gruppo a chi preferisce invece stae totalmente al di fuori per evitare problemi, probabilmente anche con la famiglia.

In poco più della metà degli oratori che compongono il campione della ricerca Educare generando futuro ci sono animatori di origine immigrata (52%) e il 44,4% delle parrocchie ha responsabili stranieri negli ambiti relativi alla pulizia e manutenzione, anche se in questo caso si tratta di adulti. Più scarsa è invece la partecipazione nei consigli pastorali di persone immigrate o tra i catechisti: 23,5% e 19%. Anche la quota di educatori (13,4%) e di allenatori sportivi (12,9%) risulta essere relativamente modesta.

L’oratorio e le famiglie: in cerca di cura ed educazione

Le famiglie intervistate, italiane e straniere, anche di religione non cattolica, considerano l’oratorio un luogo di educazione ed accudimento, un posto sicuro, controllato dagli adulti che lo gestiscono con un’attenzione educativa ai ragazzi, in cui viene chiesto il rispetto delle regole e vengono foiti stimoli positivi e non credono che la connotazione religiosa sia un problema per il proprio figlio. Esistono comunque casi, anche se più rari, di genitori che temono un luogo connotato dal punto di vista religioso. A Torino, ad esempio, un genitore, marocchino musulmano, voleva vietare al figlio di giocare nella squadra di calcio dell’oratorio perché temeva lo volessero convertire10.

L’approccio dominante nei confronti delle attività e dei gruppi presenti in parrocchia e in oratorio è, però, di carattere strumentale: per tutti – italiani e non, cattolici e musulmani e di altri credi – l’oratorio sopperisce al bisogno di cura e di educazione.

Sarebbe interessante capire se, nel caso ci fossero strutture simili, organizzate dalle proprie comunità religiose, la partecipazione si orienterebbe verso queste piuttosto che verso gli oratori che hanno il valore aggiunto di offrire ai ragazzi la possibilità di stare anche con ragazzi italiani. Il caso della comunità filippina, da questo punto di vista, è emblematico: i filippini, infatti, tendono a fare gruppo a sé e si concentrano soprattutto nelle cappellanie dove celebrano la messa nella propria lingua.

CAMPOSANTO (MO). ALCUNE ADOLESCENTI DI FAMIGLIE DI ORIGINE TURCA E MAGREBINA FREQUENTANO IL DOPOSCUOLA ORGANIZZATO DALL' ARCI IN COLLABORAZIONE CON IL COMUNE
CAMPOSANTO (MO). ALCUNE ADOLESCENTI DI FAMIGLIE DI ORIGINE TURCA E MAGREBINA FREQUENTANO IL DOPOSCUOLA ORGANIZZATO DALL’ ARCI IN COLLABORAZIONE CON IL COMUNE

Genitori stranieri: un coinvolgimento ancora limitato

Nonostante all’oratorio ci siano possibilità di incontro non solo tra i ragazzi, ma anche tra le famiglie, i genitori dei ragazzi stranieri sembrano relazionarsi maggiormente con i connazionali o con altri stranieri e meno con i genitori italiani, partecipando poco alle occasioni di festa e agli incontri dedicati ai genitori, mentre sembra cerchino occasioni di incontro e di confronto con chi si occupa del doposcuola e chi ha ruoli di responsabilità all’interno dell’oratorio11.

Le famiglie hanno un ruolo attivo nella fase del «contatto» poiché sono loro che devono iscrivere il figlio al doposcuola o all’oratorio estivo, ma sono meno coinvolti nelle fasi successive: i livelli di partecipazione, infatti, sono molto bassi. Sempre secondo la ricerca Educare generando futuro, nessuna attività/iniziativa vede il coinvolgimento di più del 7% di famiglie immigrate. Mentre, laddove presenti, sono impegnate in attività caritative/missionarie (6,3%), nel gruppo famiglie (6,2%) e nelle attività ricreative/culturali (5,2%). Ugualmente basso è il coinvolgimento in ruoli di responsabilità, come già segnalato in precedenza nella partecipazione ai consigli pastorali o tra i catechisti.

L’oratorio è un luogo dove si costruiscono e si sviluppano importanti relazioni tra pari e con adulti significativi: sacerdoti, suore, educatori ed educatrici e in cui la provenienza e l’origine dei genitori spesso passano in secondo piano rispetto alle dinamiche e ai processi classici di socializzazione dei ragazzi e degli adolescenti. I ragazzi vivono, infatti, nelle relazioni tra pari una dimensione di normalità e le differenze – che si vedono di più nella generazione dei genitori – sono spesso superate da un radicato senso di appartenenza al territorio in cui si abita e si vive e ai luoghi che si frequentano, come l’oratorio, appunto, più che alle proprie origini.

Per il dialogo serve la conoscenza

Dal punto di vista dell’offerta e della proposta valoriale ed educativa dell’oratorio gli intervistati per la ricerca Educare generando futuro concordano su due questioni: la presenza di ragazzi stranieri negli oratori e nelle parrocchie stimola l’innovazione nell’organizzazione delle attività e richiede, in particolare con riferimento alla presenza di minori stranieri di fede non cattolica, che vengano organizzate occasioni di mutua conoscenza e, allo stesso tempo, fa sorgere un bisogno di formazione specifica per gli educatori, i catechisti e gli animatori.

Quello della formazione e delle occasioni di incontro, non solo per catechisti ed educatori, ma anche per i ragazzi e le loro famiglie, è un tema ricorrente rispetto alle questioni poste dall’incontro e dal dialogo interculturale ed interreligioso: prima di dialogare è necessario conoscersi.

Sempre più urgente appare il bisogno di formazione e accompagnamento attraverso l’organizzazione di incontri, anche su temi molto specifici come quello della legislazione e regolazione dell’immigrazione e, soprattutto, dal punto di vista religioso, sull’Islam e le sue diverse correnti.

Già il cardinal Martini nel documento Noi e l’Islam del 1990 metteva in guardia contro il conflitto e il relativismo disinformato. Il fenomeno, infatti, va conosciuto, precisava, per evitare «uno zelo disinformato che può esprimersi sia attraverso atteggiamenti di chiusura pregiudiziale sia – più sovente – attraverso atteggiamenti superficiali che, in nome di un generico ottimismo, non colgono la complessità delle questioni e i problemi. La posizione corretta è un serio sforzo di conoscenza, un supplemento di cultura»12.

Come sottolinea don Andrea Pacini, rispetto all’Islam, l’obiettivo di questi percorsi di formazione dovrebbe essere quello di «fornire una conoscenza in grado di impedire il cristallizzarsi di pregiudizi e atteggiamenti conflittuali o irenici (in entrambi i casi espressione di zelo disinformato) sia per dare quel minimo di conoscenza che permetta di entrare in rapporto con l’altro in modo efficace (conoscendo l’essenziale che riguarda la religione e la cultura altrui e le questioni problematiche in rapporto alla propria cultura e fede religiosa)»13.

Anche il documento Musulmani all’oratorio dell’Ufficio Cei per l’Ecumenismo e il dialogo interreligioso considera l’opportunità di invitare imam locali per fornire agli educatori strumenti utili a una migliore conoscenza e comprensione dei ragazzi: «Il dialogo interreligioso e interculturale, infatti, esigono la conoscenza della propria e dell’altrui religione»14.

Aumentare la formazione e la sensibilità

È importante, però, proporre anche momenti di formazione al cristianesimo per le famiglie straniere non con l’obiettivo di convertirle, ovviamente, ma per far loro conoscere i valori che stanno alla base del «servizio di cui usufruiscono». In alcune realtà questo avviene già, come ha raccontato all’Inteational Joualism Festival di Perugia 2015 mons. Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo: «Molte famiglie di immigrati, ad esempio, si avvalgono dell’insegnamento della religione cattolica per una finalità di tipo culturale, per conoscere la cultura del paese in cui si trovano»15.

Nonostante venga posto il problema della formazione e della conoscenza reciproca, quello che si riscontra nei fatti è, però, una bassa partecipazione ai momenti di formazione organizzati. Dall’indagine Educare generando futuro emerge, infatti, che la maggior parte dei catechisti, degli animatori e degli educatori non partecipano ad attività di formazione sul tema dell’immigrazione e della multiculturalità. Questo sembra causato, per lo meno nelle risposte raccolte dall’indagine, principalmente dalla scarsa sensibilità sul tema che prevale negli oratori e nelle parrocchie  e dalla mancanza di competenze necessarie per l’organizzazione di queste attività.

Viviana Premazzi

Note

(1)  Ismu, Fom, Caritas ambrosiana e Ufficio pastorale migranti Diocesi di Milano, Educare generando futuro. I minori di origine straniera in oratorio: dall’integrazione alla condivisione, Milano 2014.
2)  Rosita Deluigi, La progettualità ricercata. Minori immigrati e intrecci educativi nel territorio, Edizioni Università di Macerata 2008.
(3)  Ismu, Progetto Oratorinsieme, Milano 2014.
(4)  Il doposcuola è un servizio di accompagnamento educativo, con particolare attenzione al sostegno allo studio. In alcune realtà i ragazzi stranieri costituiscono la maggior parte degli iscritti.
(5)  Anche perché per lo più i ragazzi stranieri non sono di religione cattolica, bensì musulmana, oppure cristiano ortodossa o cristiano copta.
(6)  Caritas Ambrosiana, I doposcuola parrocchiali nella diocesi di Milano, Milano 2010.
(7)  Laura Badaracchi e Claudio Urbano, Se in oratorio arriva lo straniero, «Popoli» aprile 2011.
(8)  Ibidem.
(9)  Paola Bonizzoni, Incroci. Traiettorie di socialità di adolescenti italiani e stranieri in un oratorio milanese in Ambrosini M., Bonizzoni P., Caneva E., Incontrarsi e riconoscersi. Socialità, identificazione, integrazione sociale tra i giovani di origine immigrata, Fondazione Ismu, Milano, p. 120.
(10)  Nell’ottobre 2015, sempre a Torino, un’altra polemica ha riguardato il ritiro da parte di alcune famiglie musulmane dei propri figli da un corso di musica organizzato dalla scuola. Di fronte a questo genere di incomprensioni che possono anche generare scontri è importante offrire occasioni di confronto aperto, coinvolgendo anche i responsabili religiosi di entrambe le comunità e cercando di trovare un accordo nel rispetto delle diverse sensibilità, quella del bambino, quella del genitore e quella dello spazio-oratorio o della scuola.
(11)  Cfr. Educare generando futuro, opera citata.
(12)  Andrea Pacini, Il dialogo interreligioso e le relazioni islamo-cristiane in Italia, p. 11.
(13)  Ibi, 12.
(14)  Cei – Ufficio nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso, scheda 3a e 3a bis, I musulmani in oratorio, p. 2.
(15)  Laura Lana, Come costruire il dialogo interreligioso. Cristiani, ebrei e musulmani a confronto, in www.perugiaonline.it, 15/04/2015.

REGGIO EMILIA. MANIFESTASZIONE DELLA COMUNITA' MUSULMANA
REGGIO EMILIA. MANIFESTASZIONE DELLA COMUNITA’ MUSULMANA

Il commento

Identità cercasi

Credo sia ormai chiaro a tutti che ci troviamo in un’epoca in cui la Chiesa in Europa si pone come una realtà tra le tante, non più come la realtà predominante tra tante piccole realtà religiose (e non): basta osservare l’attuale composizione delle assemblee nelle nostre parrocchie. È vero che vi è ancora un significativo senso di appartenenza alla Chiesa, almeno in Italia, ma è altrettanto vero che è debole la coscienza di cosa sia realmente la Chiesa; per esempio molti chiedono ancora i sacramenti per i propri figli – e qui si esprime un certo senso di appartenenza – ma questi stessi non hanno più chiaro cosa sia la Chiesa. Ci si potrebbe chiedere: ma è necessario essere coscientemente cristiani per essere in grado di incontrare il diverso? A questa domanda rispondo con un’altra domanda: ma quale altra personalità è riuscita a produrre la cultura non cristiana? Mi pare che l’uomo europeo da una parte rifiuti di riconoscersi cristiano o ne ha una coscienza debole, dall’altra non ha più un volto: non sa più chi è. Questa non coscienza di ciò che si è genera confusione nel rapporto con l’altro: più non sai chi sei, più l’altro ti fa paura.

Solo dove ci sono luoghi, anche con numeri esigui, dove si ha chiara quale sia la ragion d’essere della Chiesa e quindi della propria personale vocazione – quindi i ragazzi scoprono che la vita ha uno scopo – , si sta ricominciando a costruire. Gli oratori nelle nostre città spesso sono dei luoghi dove ciò accade, nel silenzio più totale dei mass media ma tra la gratitudine delle famiglie.

Solo un’identità chiara consente di guardare all’altro non come un problema ma come un’occasione anche per approfondire la propria identità. Da quando nasciamo, anzi già dal grembo materno, noi scopriamo chi siamo in rapporto con qualcuno che è altro da noi: fin dall’inizio della vita l’altro non è un problema ma un’occasione.

Con queste premesse non può fare paura avere tra i ragazzi dell’oratorio alcuni mussulmani: loro sanno di essere accolti dalla Chiesa e nessuno, né noi né loro, deve rinunciare alla propria identità o annacquarla. È un’arricchimento reciproco che costringe ad approfondire la propria identità e fa scoprire che l’altro è una risorsa per ciascuno.

don Andrea Plumari
parrocchia San Michele Arcangelo in Precotto, oratorio San Filippo Neri, Milano

 

REGGIO EMILIA. MANIFESTAZIONE DI SOLIDARIETA' CON LA FRANCIA E CONTRO IL TERRORISMO, JE SUIS CHARLIE. NELLA FOTO ALCUNE DONNE MUSULMANE ALLA MANIFESTAZIONE
REGGIO EMILIA. MANIFESTAZIONE DI SOLIDARIETA’ CON LA FRANCIA E CONTRO IL TERRORISMO, JE SUIS CHARLIE. NELLA FOTO ALCUNE DONNE MUSULMANE ALLA MANIFESTAZIONE


Le criticità

Stato italiano e islam, dialogo complicato

In Italia non esiste un solo Islam, ma una pluralità di soggetti islamici. Anche per questo per lo stato non è facile trovare un’«intesa» come per le altre confessioni religiose. A ciò vanno aggiunte le pesanti intromissioni di alcuni paesi stranieri (Arabia Saudita e Qatar, in primis) e le ambiguità insite nelle figure degli imam. E il piano «Moschee trasparenti» trova molte resistenze.

A titolo di premessa è opportuno ricordare che, al di là di un nucleo condiviso di elementi/principi/pilastri, l’Islam, e in particolare l’Islam sunnita, non può essere considerato un insieme monolitico; profonde sono le differenze che si possono registrare all’interno di un mondo che si estende dal Marocco all’Indonesia sia sul piano interpretativo che dottrinale. Su questo, inoltre, si innestano, si mischiano, talvolta si confondono, tradizioni e pratiche culturali proprie dei diversi paesi o di alcune aree all’interno di questi stessi paesi. A questa condizione intrinseca non sfuggono le diverse comunità islamiche presenti in Europa e in Italia. Questa pluralità si esprime, dunque, in una varietà di sale di preghiera e di centri culturali islamici. Inoltre, negli ultimi anni si sono costituite diverse associazioni di seconda generazione, che cercano di ritagliarsi un ruolo attivo nella società italiana e stanno cercando di proporsi come interlocutori per le istituzioni.

Il punto di partenza dovrebbe dunque essere il seguente: non si può far riferimento a un solo Islam né ancora, almeno per il momento, a un «Islam italiano» (e neanche europeo), esiste invece una comunità islamica composta da musulmani «provenienti da altrove» (dal Marocco al Pakistan, dall’Albania all’Iran), da musulmani nati e cresciuti in Italia e da convertiti. A livello locale, in molti contesti, si sperimentano forme positive di convivenza e integrazione che sembrano, per ora, reggere alla prova dei fondamentalismi, ma molte questioni devono trovare una risposta politica forte a livello nazionale, che poi si possa concretizzare e rendere operativa a ogni livello.

Le ingerenze di Arabia Saudita e Qatar

Tra le questioni che ancora non hanno trovato una soluzione c’è, sicuramente, la mancanza di un’intesa con lo stato italiano e la questione della costruzione dei luoghi di culto.

L’Islam ad oggi, non può contare, infatti, su alcun tipo di intesa con lo stato italiano1, al contrario di altre religioni minoritarie come ebraismo o buddismo. La causa principale di tale situazione risiede nella mancanza di una leadership unitaria, riconosciuta e realmente rappresentativa delle diverse organizzazioni e orientamenti. Questa difficoltà è inoltre aggravata dalla presenza di molteplici gruppi nazionali di immigrati musulmani sul territorio italiano e dagli interessi (ingerenze) e dai conseguenti finanziamenti dei paesi di origine o dei paesi del Golfo (Arabia Saudita e Qatar in primis) a determinate organizzazioni. L’intervento dei paesi del Golfo, in particolare, ha spesso sostenuto un Islam meno spirituale e più politico, promotore di battaglie politico-religiose talvolta molto distanti dal vissuto e dalle esperienze dei musulmani in Italia. La questione dei rapporti con i paesi di origine e con i paesi del Golfo deve trovare una risposta urgente, anche rispetto a punti come la costruzione di nuove moschee e il riconoscimento o la formazione degli imam in Italia.

La questione degli imam e il piano «Moschee trasparenti»

Per quanto riguarda gli imam e la loro formazione, se è vero che molti processi di radicalizzazione sono avvenuti online o in carcere e non in moschea, e a causa dell’incontro con determinati imam e predicatori, le moschee possono comunque giocare un ruolo fondamentale nella formazione e nel contrasto alla radicalizzazione. La mancanza di un’intesa con lo stato pone, però, il rischio che, in assenza di controlli, autoproclamati imam possano improvvisare moschee/centri islamici e fare propaganda per un Islam radicale. Nell’ambito del progetto denominato «Moschee trasparenti», lo scorso 11 luglio il ministro dell’Inteo Alfano ha chiamato a raccolta gli esponenti di varie anime della comunità musulmana italiana. L’obiettivo era di discutere il rapporto «Ruolo pubblico, riconoscimento e formazione degli imam»2. Il rapporto, datato 1 aprile 2016 e redatto da 12 esperti guidati dal professor Paolo Naso (Università La Sapienza), insiste sulla necessità di avere imam formati e certificati per guidare i fedeli verso l’integrazione. La formazione non entrerà nel merito delle questioni religiose, ma sarà un percorso civico di riconoscimento delle regole dell’ordinamento italiano3. Nel documento si legge che l’obiettivo è quello di «costituire un nucleo primario di interlocutori delle istituzioni che, per competenza e autorevolezza riconosciute da parte delle loro comunità, conoscenza della realtà italiana ed esperienza nella partecipazione alla vita pubblica del territorio in cui operano, possano svolgere costruttivamente il ruolo di «mediatori» nelle relazioni tra lo stato e le varie associazioni». Gli imam che sottoscriveranno lo statuto potranno ottenere maggiore libertà di accesso a «luoghi protetti quali ospedali, cimiteri, centri di identificazione e accoglienza dei migranti, «case del silenzio» e, naturalmente, le carceri, luoghi, come già detto, dove più forte è il pericolo della radicalizzazione violenta. Un altro punto della discussione, condiviso tra i partecipanti all’incontro, ma criticato aspramente sui social network, è stato l’uso della lingua italiana nei sermoni. Le accuse, rivolte, contro il ministro e la Consulta ponevano l’attenzione sull’idea che i musulmani siano «sorvegliati sociali» e non considerati al pari dei fedeli di altre religioni. Da ultimo, contro la radicalizzazione, è fondamentale che moschee e imam siano in contatto e collaborino a livello locale sia con la polizia e i servizi di sicurezza per condividere informazioni e contrastare esiti violenti di processi di radicalizzazione, sia con le famiglie, le scuole e le altre agenzie formative presenti sul territorio per prevenirla.

modena. preghiera del venerdi nella moschea cittadina
Modena. preghiera del venerdi nella moschea cittadina

L’elenco delle «giustificazioni» e i rischi

Il rischio di giustificare l’Isis (o altri movimenti violenti) con «le guerre fatte in Medio Oriente dagli occidentali» o di identificarlo come creazione del «complotto americano-sionista» e di giustificare i foreign fighters con la discriminazione e il disagio economico e sociale di cui alcuni immigrati sono vittime può generare gravissime conseguenze. Per quanto riguarda i foreign (o domestic) fighters, infatti, non sempre i soggetti radicalizzati sono scarsamente integrati (ancora meno il discorso vale per i convertiti). Se è vero che le scelte legislative e politiche dell’Italia possono determinare dinamiche di rifiuto, di isolamento sociale, di sentimenti contrari al senso di appartenenza civile e comunitaria, soprattutto di quei (molti) musulmani di origine straniera. La radicalizzazione (e tutti gli attentatori degli ultimi mesi lo confermano) ha molteplici cause e può innestarsi su debolezze, talvolta anche personali, di individui che finiscono per abbracciare la violenza, o persino il jihadismo internazionale, perché in cerca di «significato» per la propria vita e di appartenenza a un gruppo. Rispetto a critiche e autocritiche verso «l’Occidente», poste alcune responsabilità innegabili, sarebbe però importante rendere conto della complessità e delle responsabilità dei diversi attori coinvolti in specifiche situazioni. L’autocritica generalizzata non giova e anzi non fa altro che aumentare la credibilità di chi pone come unica soluzione lo scontro «Noi-Loro» e la giustificazione di atti di violenza come vendetta o ritorsione rispetto a ingiustizie e soprusi subiti, facendoci precipitare in una spirale di violenza senza fine.

Il ruolo dei media: tra buonismo cieco e condanna aprioristica

Un ultimo punto critico riguarda il ruolo dei mass media: da un lato i mezzi più tradizionali (televisioni, giornali) spesso presentano l’Islam attraverso generalizzazioni e semplificazioni, dall’altro internet e i social network veicolano varie immagini di questa religione, ma in uno spazio assolutamente non controllato né controllabile. Ne deriva che il discorso pubblico, specie quello diffuso e alimentato dai canali mediatici, oscilla spesso tra un buonismo, cieco di fronte alle problematiche oggettive di certi fenomeni, e una condanna aprioristica e corredata di stereotipi, che può creare il terreno per le derive più intransigenti o sentimenti di rivalsa. C’è il rischio, in fondo, che vengano mostrati solo gli aspetti politicizzati o mitizzati dell’Islam, lontani dalla realtà vissuta quotidianamente dai musulmani italiani. In questo terreno possono proliferare non solo i pregiudizi, ma anche le strumentalizzazioni politiche e conseguenti scelte basate sull’emozione di tutti quei soggetti che colgono solo in modo parziale la realtà islamica. La sfida deve essere, allora, quella di decostruire i pregiudizi e di dare conto della complessità dell’Islam.

Viviana Premazzi

Note

(1)  Sulle intese tra stato italiano e diverse religioni si vedano le puntate della rubrica «Libertà religiosa» in MC n. 1,3,4,5 del 2015 e n. 6 del 2016. Le puntate sono reperibili e/o scaricabili (in formato Pdf) dal sito della rivista.
(2)  Il documento è scaricabile dal web. Un secondo rapporto su moschee e luoghi di culto è di recente uscita.
(3)  Un’iniziativa simile sul tema è stato il corso per leader religiosi organizzato dal 2010 al 2012 dal Fidr («Forum internazionale democrazia e religioni», www.fidr.it) al quale hanno partecipato diversi rappresentanti di moschee e associazioni musulmane da tutta Italia. L’iniziativa era volta a offrire ai leader religiosi informazioni e approfondimenti necessari allo svolgimento di attività culturali e cultuali sul territorio italiano. Benché patrocinata dal ministero dell’Inteo e da quello per la Cooperazione internazionale e l’Integrazione, l’esperienza non ha avuto seguito, specie nell’elaborazione di politiche ufficiali sul tema della formazione degli imam.

Formigine (Mo). Doposcuola all' oratorio della parrocchia S.Giovanni Bosco
Formigine (Mo). Doposcuola all’ oratorio della parrocchia S.Giovanni Bosco

Bibliografia

  • Joceyline Cesari, Andrea Pacini, Giovani Musulmani in Europa. Tipologie di appartenenza religiosa e dinamiche socio-culturali, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 2005.
  • Pietro Cingolani, Roberta Ricucci (a cura di), Transmediterranei. Generazioni a confronto fra Italia e Nord Africa, Accademia University Press, Torino 2014.
  • Annalisa Frisina, Giovani Musulmani d’Italia, Carocci, Roma 2007.
  • Anna Granata, Di padre in figlio, di figlio in padre. Il ruolo innovativo delle seconde generazioni nelle comunità religiose di minoranza, «Mondi migranti» 3 (2010).
  • Giovanni Salmeri (a cura di), Troppa religione o troppo poca. Cristiani e musulmani alla prova della secolarizzazione, Marsilio, Padova 2016.
  • Stella Coglievina e Viviana Premazzi, L’Islam in Italia di fronte al fondamentalismo violento, in Martino Diez e Andrea Plebani (a cura di), La galassia fondamentalista tra jihad armato e partecipazione politica, Marsilio, Padova 2015, pp. 126-138.
  • Viviana Premazzi, Secolarizzazione e nuove forme di protagonismo nella seconda generazione musulmana in Italia, in Giovanni Salmeri (a cura di), Troppa religione o troppo poca. Cristiani e musulmani alla prova della secolarizzazione, Marsilio, Padova 2016, pp. 106-116.

Bibliografia sugli oratori

  • Caritas Ambrosiana, I doposcuola parrocchiali nella diocesi di Milano, Milano 2010.
  • Paola Bonizzoni, Incroci. Traiettorie di socialità di adolescenti italiani e stranieri in un oratorio milanese, in Ambrosini M., Bonizzoni P., Caneva E. (a cura di), Incontrarsi e riconoscersi. Socialità, identificazione, integrazione sociale tra i giovani di origine immigrata, Fondazione Ismu, Milano 2011.
  • Ismu, Fom, Caritas Ambrosiana e Ufficio pastorale migranti diocesi di Milano, Educare generando futuro. I minori di origine straniera in oratorio: dall’integrazione alla condivisione, Milano 2014.

Sitografia

  • Chiesa cattolica italiana, Ufficio Nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Cei: www.chiesacattolica.it/ecumenismo.
  • Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose: www.olir.it.
  • Fondazione Ismu, Iniziative e studi sulla multietnicità: www.ismu.org.

HALIME YANMAZ, 26 ANNI, TURCHIA
HALIME YANMAZ, 26 ANNI, TURCHIA

Questo dossier è stato firmato da:

  •  Viviana Premazzi Esperta di immigrazione e, in particolare, di seconde generazioni di religione musulmana. Collabora con il Forum internazionale ed europeo di ricerche sull’immigrazione (Fieri) di Torino e la Fondazione Oasis di Milano. È stata consulente per la Banca mondiale e per l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim). Le riflessioni contenute in questo dossier sono state elaborate nell’ambito del progetto «Conoscere il meticciato. Goveare il cambiamento» cornordinato da Fondazione Oasis e finanziato da Fondazione Cariplo.
  • Roberto Brancolini Fotografo indipendente, ha scoperto viaggiando la sua passione per la fotografia. Si occupa prevalentemente di reportage. Il suo lavoro può essere visionato sul sito: www.brancolini.com.
  • A cura di: Paolo Moiola, giornalista, redazione MC.



Aromi e sapori di casa lontana


Per gentile concessione del «Concorso Letterario Nazionale Lingua Madre»


Non solo cibo

Il cibo riveste un ruolo cruciale nelle storie raccontate da molte donne: lo dimostrano i tanti testi che ogni anno giungono al «Concorso letterario nazionale Lingua Madre», assunto come progetto permanente della Regione Piemonte e del Salone Internazionale del Libro di Torino. Il concorso è diretto alle donne straniere (anche di seconda e terza generazione) residenti in Italia e prevede anche una sezione per le donne italiane che vogliano raccontare storie di donne straniere.

Molto più di un semplice premio letterario, il Concorso Lingua Madre negli anni si è trasformato in qualcosa di più grande, grazie anche all’ampia rete di contatti e legami intessuti con associazioni, enti, scuole, carceri, realtà al femminile presenti su tutto il territorio nazionale, ma anche internazionale. Dal 2005 a oggi sono state oltre 4.000 le partecipanti e, tra queste, moltissime hanno dedicato le proprie narrazioni al cibo, sottolineandone il valore identitario, culturale, sociale e simbolico. Da questa constatazione è nata nel 2009 la collaborazione del Concorso con Slow Food che, insieme a Terra Madre, offrono un premio speciale al racconto maggiormente ispirato a piatti e tradizioni culinarie.

E, ancora, proprio grazie a questa forte attinenza tematica, l’anno scorso e in concomitanza con Expo Milano 2015, il Concorso è entrato – con una serie di iniziative e progetti – nel grande network al femminile We Women for Expo, nato per agire sui temi dell’alimentazione, per migliorare il diritto universale al cibo.

Il Concorso è inoltre tra i principali partner di Transnational Appetites: Migrant Women’s Art and Writing on Food and the Environment, un progetto di ricerca – di cui è titolare la prof. Daniela Fargione -, promosso dal Dipartimento di Studi umanistici dell’Università di Torino e finanziato dalla Compagnia di San Paolo, che ha come obiettivo quello di esplorare la relazione tra arte, letteratura, cibo, cambiamenti climatici, ecologia, dalla prospettiva delle donne migranti. A esso è collegato il Festival «Alla tavola delle migranti» (che avrà luogo il 17 settembre 2016 presso l’Aula Magna della Cavallerizza Reale di Torino): una manifestazione pensata per coinvolgere l’intera cittadinanza sui temi delle culture migranti, della biodiversità culturale, del rispetto dell’ambiente e delle sue risorse in un’ottica di condivisione e cambiamento tra dibattiti, concerti musicali, mostre fotografiche, laboratori di disegno, reading, proiezioni di film e documentari, con la partecipazione di ospiti inteazionali.

Ecco a voi dunque i racconti vincitori del Premio Speciale Slow Food/Terra Madre: una raccolta ricca di tutti i sapori, i colori, i profumi del mondo.

Daniela Finocchi
ideatrice e direttrice del concorso


borscht_in_white_wine_recipe_-_russian_cuisine_170574324-cut1. Il profumo della domenica

di Michaela Sebokova (Slovacchia)

Mi attendeva una lunga giornata all’ospedale, tra una visita diagnostica e l’altra. Non era un periodo buono. Superati i quarant’anni, il mio corpo ha iniziato a protestare. Era giunto il momento di scoprie il motivo. Dopo lunghe discussioni ho convinto mio marito che mi lasciasse affrontare gli esami da sola. Avrebbe pensato lui ai ragazzi, alla scuola e al pranzo.

La mattina degli esami mi sono munita di pazienza, ho infilato una bottiglietta d’acqua nella borsa e sono partita per l’ospedale. Le solite stradine tortuose di montagna, l’abituale traffico di fuoristrada rombanti, api singhiozzanti e motorini folli, semafori rotti, gente a piedi, il piccolo parcheggio sempre pieno. Per incoraggiarmi, prendo un buon caffè al bar accanto all’ospedale e mastico un pezzo di crostata. Mmmh, buona. Sembra fatta in casa. Forse la prepara la mamma del barista. Per un attimo non penso ad altro. La magia del cibo funziona sempre.

Salendo al primo piano passo davanti all’edicola. Mentalmente scarto tutte le riviste che costano più di due euro. La scelta si restringe alle riviste tascabili di cucina. Ne prendo una qualsiasi, pago, e mi siedo davanti all’ambulatorio. Chissà come mai, non ho tempo per cominciare ad annoiarmi che già mi chiamano.

Dopo un’ora esco, sfinita. Bevo un sorso d’acqua, la mano trema, anche la bocca trema. «Su, da brava, che non è niente, hai quasi finito!» cerco di convincermi. Mi ritiro in un angolino, accanto alla finestra. Per il secondo esame devo aspettare il primo pomeriggio, non mi conviene tornare a casa.

Così me ne sto seduta lì, su una brutta sedia di plastica, a osservare la pioggia che batte violentemente sul vetro. Il cielo è cupo e le grosse nuvole corrono a Est, inseguite dal vento. Sento che la mia maschera di coraggio si sta di nuovo sgretolando, il brutto tempo mi si rispecchia nell’anima. Come se cercassi l’ancora di salvataggio, apro la borsa e tiro fuori il libricino di cucina. Vediamo. Polpette di agnello. Torta di radicchio. Pubblicità. Zuppa di lenticchie, bene. Crostata di zucca (ecco, siamo sotto Halloween). Pubblicità. Mi tolgo gli occhiali, mi riposo un po’. Per la prima volta guardo in faccia le persone che dividono la sala d’attesa. Non la condividono, ma la dividono, perché ognuna ha creato intorno a sé un piccolo spazio personale impenetrabile per gli altri. E forse nessuno vuole violentare lo spazio di qualcun altro, ognuno chiuso nei propri problemi e pensieri, dolori e preoccupazioni. Non ci sono bambini, gli unici ammessi a penetrare le difese degli adulti.

C’è una signora anziana, elegante nel suo cappotto un po’ fuori moda. Ogni tanto mi rivolge un’occhiata curiosa. Non m’infastidisce, non è per niente invadente. Ricomincio a leggere. Anatra con le mele. Ravioli di pesce. Pubblicità. L’infermiera chiama l’anziana signora. Torta di patate. Cavolfiore gratinato. Pubblicità. La signora esce, si rimette in una paziente attesa. La osservo sopra gli occhiali, mi sembra che stia recitando una preghiera. Distolgo educatamente lo sguardo. «Io sono una donna forte, forte!» mi ripeto come un mantra e continuo a leggere. Pasta all’uovo. E poi, una breve scritta, un’introduzione: «Il profumo di lasagne, di cannelloni, di pasta al foo che si diffonde in casa… A chi questi piatti non farebbero tornare in mente la domenica, la mamma, l’infanzia?».

Rimango pietrificata. Del tutto irragionevolmente ho voglia di gridare a squarciagola «A me! A me non fanno ricordare proprio niente della mia infanzia, le lasagne e la pasta al foo!». All’improvviso mi sento fuori luogo, fuori paese, fuori pianeta. Mi sembra di essere in un posto del tutto sbagliato, perché i miei ricordi sono sbagliati. La domenica di casa mia sapeva di brodo di carne, pollo fritto, purea di patate e pesche sciroppate. Come faccio a vivere qui, se la parola «lasagne» non sveglia in me nessuna emozione?

Pensavo di essere ormai immunizzata. Integrata. Una brava moglie e mamma di figli italiani. Mimetizzata, una straniera che non nasconde di esserlo ma che non le dispiace se la scambiano per un’italiana; in realtà l’immagine di mimetizzarsi è del tutto ridicola, in un paesino di montagna che conta sì e no cinquecento abitanti e dove tutti sanno perfino che numero di scarpe porti. Certo, ho insegnato ai miei bambini la mia lingua madre, ma la nostra lingua di casa è l’italiano. Preparo le calze per la Befana e le bandiere per la Festa della Repubblica. Cucino le lasagne emiliane, il risotto alla milanese, lo stracotto e la cassata. E qualche volta delizio la famiglia con un piatto tipico delle mie zone, un gulasch di cinghiale o un’oca al foo. Pensavo di avere dietro le spalle la nostalgia di sapori, di profumi. Un errore.

Una risatina isterica mi sale sulle labbra. La mia maschera immaginaria si rompe, sento il rumore assordante quando cade per terra, e comincio a piangere in silenzio. Piango tutte le mie preoccupazioni, paure. E anche la mia folle e improvvisa voglia di tornare bambina e trovare a casa la mamma che prepara il pranzo domenicale.

Dopo qualche istante l’anziana signora si alza, si avvicina.

«Cara, si sente bene?», mi dice con quella sua voce tremula, dolce. Scuoto la testa. Potrebbe essere un sì, o un no.

«Suvvia, cara, non deve piangere così. Si risolve tutto, vedrà. Ce l’ha un fazzoletto?».

Certo che ce l’ho un fazzoletto, ne ho un pacchetto intero, ne sono sicura, ma non riesco a trovarlo. La signora mi dà il suo, di tessuto fine. Profuma di lavanda. Dopo un secondo di imbarazzo ci soffio il naso. Non ho mai usato un fazzoletto di stoffa.

Passano cinque minuti, dieci. Ho smesso di piangere. Nel frattempo, senza rendermene conto, la signora mi si è seduta accanto. Non parliamo, ma tra noi si è già creato un legame particolare.

La signora mi chiede quando ho il prossimo esame. Le rispondo tra due ore. «Allora venga, abbiamo tutto il tempo per prendere un buon tè», dice con la voce che non accetta rifiuti.

Scendiamo le scale, la signora apre il suo ombrello e ci para entrambe. Entriamo nel bar, ordiniamo il tè nero, il più forte che ci sia: niente aromi e sapori aggiunti.

Mi faccio avvolgere da quel profumo familiare, lascio che il tempo scorra e che le cose succedano. Poi, la sua domanda-non domanda rivoltami con tatto: «Le auguro che la cosa che l’ha fatta piangere vada per il meglio».

Guardo il suo viso animato, i gentili occhi grigi. La pelle sembra di alabastro, è quasi trasparente. Per la risposta tiro fuori il libricino e mostro alla signora la pagina con l’introduzione «Il profumo di lasagne…».

Lei inforca gli occhiali e si mette a leggere. Dopo inclina la testa e dice: «Ed è questo che l’ha fatta piangere?».

Arrossisco per la vergogna, la mia disperazione di poco fa ora mi appare ben esagerata.

«Forse non le piacciono le lasagne?» mi sorride dolcemente.

Incoraggiata, le rispondo sinceramente: «È solo che all’improvviso mi sono di nuovo sentita talmente straniera! A me il profumo di lasagne non rievoca nessun ricordo d’infanzia, mia mamma la domenica preparava il brodo e il pollo fritto».

La signora annuisce e dice pensierosa: «Io sono nata qui», fa un gesto vago con la mano, «ma ora che ci penso, sa di cosa profumava la mia infanzia? Di borsch!». E si mette a ridere con una risata argentea, contagiosa. «In sessant’anni vissuti in Italia, mia mamma, ex ballerina del teatro Marijinskij, non ha mai imparato a fare le lasagne. Però faceva un borsch eccezionale!».

L’anziana signora beve un sorso del suo tè nero. Poi mi dà una pacca delicata sulla mano e aggiunge: «Non sia triste perché non ha dei ricordi “giusti”, cara. Consideri invece, quanti italiani possono dire, come noi due, di avere dei ricordi del tutto diversi. Siamo speciali, noi straniere e figlie di donne straniere. Abbiamo in memoria i sapori e i profumi di terre lontane che gli italiani non se li sognano neanche!», conclude con gli occhi luccicanti da monella.

Guardo l’anziana signora di cui non so ancora il nome e le dico riconoscente: «Io sono Michaela. E la ringrazio di cuore».

Lei mi fa un occhiolino e risponde: «E io mi chiamo Anoushka. E la ringrazio tanto per avermi fatto venire in mente il mio piatto d’infanzia. Quando si è anziani, a volte ci si scorda le cose più buone».

Ci scambiamo i numeri di telefono e ci promettiamo di non perderci di vista. Magari potremmo prendere un altro tè insieme, un giorno.

Toiamo all’ospedale. Nel frattempo ha smesso di piovere, il vento forte porta l’odore di bosco autunnale. Sa di castagne e di funghi porcini. Sorrido. Affronterò con pacatezza anche il secondo esame. E la prossima domenica cucinerò una bella pentola di borsch.

Michaela Sebokova

Michaela Sebokova teaserbox_40189041Michaela Sebokova nasce in Slovacchia, a Nove Zamky, il 19 agosto 1975. Nel 2001 si trasferisce in Italia e lavora a Padova come impiegata. Nel tempo libero scrive, legge, traduce letteratura per bambini e si cimenta con la cucina ma, come lei stessa sottolinea, al primo posto rimane sempre la sua famiglia. Ha scritto un libro di narrativa e una fiaba. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati in antologie e riviste. Il suo racconto Il profumo della domenica ha vinto il Premio Speciale Slow Food-Terra Madre del VII Concorso letterario nazionale Lingua Madre.

 


Ciambelline intrecciate-cut2. Magie del passato

di Ramona Hanachiuc (Romania)

Avete mai passato una notte in bianco per aspettare il risveglio della nonna? Io sì. Da piccola.
Passavamo le vacanze insieme, io e mia cugina, dai nonni matei. Privilegio raro direi, mio padre imponeva sempre le vacanze dai nonni patei, quindi, i rari giorni passati dalla Nonna per eccellenza erano giorni dorati… Poi… Poi c’era lei: la mia cuginetta, l’unica cugina femmina, ma nata quattro anni dopo di me, considerata troppo piccola per frequentarci. A detta di mio padre che ovviamente sapeva quel che era meglio per me. Non ha mai voluto capire quanto mi facesse male la lontananza che imponeva dai parenti matei. Ma ora lo capisce… Oh se glielo faccio capire! Non perdo nessuna occasione: ogni volta che posso tolgo una spina dal mio cuore per infilarla nel suo…! Vendetta? Non direi, semplicemente vive ciò che mi ha imposto lui di vivere quando ancora non potevo scegliere per me.

Dicevo che passavo qualche giorno di vacanza dai nonni matei in inverno… Certe volte, prima che calasse la sera, nonna usciva di casa con un catino di legno tra le mani. Io intuivo già dove stava andando. Avvolgevo di corsa un vecchio scialle di lana sulle spalle di mia cugina, le facevo infilare gli stivali nei piedi e la trascinavo, a volte nella neve, dietro di me nel cortile.

«Vieni, vieni, ti faccio vedere una magia…», lei mi seguiva con gli occhi blu spalancati quasi strisciando per terra. Ci avvicinavamo in silenzio al granaio e con l’indice davanti alla bocca chiedevo l’assoluto silenzio: nonna non doveva sapere che eravamo lì. Con un cenno le facevo capire di seguire i miei movimenti: appoggiavamo la fronte alle astine fredde di legno che componevano le pareti del vecchio granaio e guardavamo dentro.

La nonna, leggermente chinata sul catino, setacciava la farina con movimenti regolari e ondeggianti.

Gli ultimi spruzzi di luce che il sole infilava timidamente tra le saette e la polvere di farina mossa dai suoi movimenti, la avvolgevano in una nuvola dorata e cangiante. Troppo piccola mia cugina per capire che non era magia. E con le labbra appuntite sussurrava incantata: «Nonna è diventata una fata…».

Guardavo i suoi occhi grandi e azzurri: erano pieni di incanto e curiosità. Sorridevo e la riportavo di corsa in casa per non farci sorprendere. Aspettavamo la nonna sedute tranquille sul divano, solo le gambe dondolavano impazienti e i cuori battevano forte per l’eccitazione. Erano le nostre impronte nella neve, gli sguardi incuriositi e le guance arrossate dal freddo a tradirci.

Nonna sorrideva nascondendo la bocca dietro al suo scialle, appoggiava il catino con la farina su una sedia vicino alla stufa e lo avvolgeva con una tovaglia pulita. Era per scaldarla: la farina prima di diventare pane doveva essere coccolata, areata e riscaldata vicino alla stufa per tutta la notte.

Poi andavamo a dormire: nonna e nonno nella piccola stanza che di giorno serviva da salotto e cucina, noi bambine nella cameretta adiacente, separati solo da una porta con piccole finestre intagliate, che restava quasi sempre aperta.

All’alba, nonna si alzava, e in silenzio accendeva una piccola lampada a petrolio. Rinfrescava il fuoco buttando qualche pezzo di legno sui carboni ancora accesi e toglieva la tovaglia che aveva ricoperto il catino. La luce gialla e la polvere di farina ricreavano un’altra nuvola che avvolgeva la donna minuta e lievemente curva sulla sua magia… Altri colori, altri profumi… Stesso sguardo dolce e sorridente della nonna.

La luce tremolante e i rumori sordi mi svegliavano e cambiavo posizione nel letto strisciando come un gatto in agguato sotto le coperte, in modo da trovare l’angolazione giusta per non perdermi nessun suo movimento. Cercavo invano di svegliare la piccola addormentata di fianco a me. All’inizio mi seguiva ma non appena riuscivamo a trovare la posizione con la visione migliore e la sua testa ritoccava il letto, ritornava nel mondo dei sogni. Io continuavo a seguire i movimenti lenti che la nonna con il suo corpo snello ma stanco compiva come dei piccoli rituali: legava intorno alla vita il grembiule bianco a fiori rosa, si lavava le mani, controllava con le dita che l’acqua riscaldata sul fuoco non fosse troppo calda e iniziava ad impastare. Con le mani creava un «vulcano» di farina, sotto nascondeva il sale e in mezzo iniziava a versare il lievito sciolto nell’acqua calda insieme a qualche cucchiaino di miele. Lentamente l’impasto iniziava a prendere consistenza.

All’inizio rimaneva incollato alle sue mani, e lei, con sapienti movimenti e l’aiuto di altra farina, lo faceva ritornare nel catino, continuando a mescolare, stringere e lavorare con forza tutta quella massa bianca e morbida. Il profumo iniziava a riempire la casa, profumo acido di pasta lievitata, legna che brucia e calore. Mi riaddormentavo poi sfinita appena nonna rimetteva il vecchio catino vicino alla stufa e sedeva su una sedia per lavorare a maglia per qualche ora.

Al nostro risveglio era tutto pronto: un grande asse di legno ricoperto di farina, piccoli pezzi di impasto che ci aspettavano per prendere le più bizzarre e svariate forme e le teglie unte e infarinate per infoare. Facevamo colazione in un soffio, latte, pane e marmellate, con gli occhi luccicanti fissi sui pezzi di pasta che ci aspettava, poi una volta finito di masticare e deglutire quasi intero l’ultimo boccone, ci mettevamo all’opera.

Sollevavo mia cugina e la sedevo inginocchiata su una sedia morbida; io di fianco a lei in piedi: ero più grande. Iniziavamo a modellare con cura i nostri impasti. Guardavo le piccole manine con le dita grassocce affondare nella pasta morbida, stendere, tirare, annodare, e i suoi occhi grandi e blu che si aprivano e chiudevano ripetutamente.

«Vedi…, – le dicevo. – Vedi che nonna è magica? Hai visto cosa ha fatto diventare la farina che ha portato in casa ieri sera?». Sgranava ancora di più gli occhi e, mordendosi le labbra tra i denti, continuava a lavorare l’impasto morbido.

Lei formava sempre delle colombe, io delle ciambelle intrecciate che spennellavamo poi con l’uovo e infoavamo insieme al pane della nonna e aspettavamo con le guance arrossate dal calore davanti al foo accesso. Ognuna mangiava poi la sua creazione, egoisticamente, orgogliosamente, lodandone la bontà. Stessa farina, stesso foo, forme diverse, gusti diversi per ognuna di noi. Diversi come diversi erano i nostri occhi che guardavano le stesse magie.

Ci pensavo giusto l’altra sera, mentre mia cugina impastava nella sua cucina.
– Facciamo le colombe? –, mi ha chiesto.

– Tu ti ricordi come si fanno? Io non ne sono sicura, eri tu l’esperta!

Solleva gli occhiali e sposta una ciocca di capelli, poi si mette al lavoro.

– La mia è più graziosa –, ho detto qualche minuto dopo. Lei ride divertita: – Certo! La mia è incinta… Come me…  –. Aspetta il secondo figlio la mia cuginetta.

E mentre la guardo toccarsi amorevolmente la pancia con la mano aperta, cerco di ricordarmela da piccola, e mi vengono in mente i suoi grandissimi occhi azzurri. Azzurri e curiosi come il mare.

Ramona Hanachiuc

Ramona Hanachiuc cRamona Hanachiuc nasce il 7 luglio del 1976 a Vaslui in Romania, dove riceve un’istruzione scolastica durante gli ultimi anni del periodo Ceausescu. Mette al mondo, all’età di vent’anni, sua figlia Ioana e nel 1999 decide di trasferirsi con lei in Italia, ad Alba, dove ancora oggi vive e lavora. È volontaria del 118 cittadino e nel tempo libero – come lei stessa racconta – ama dedicarsi alla lettura di quei classici che durante la dittatura le erano proibiti. Il suo racconto Magie del passato ha vinto il Premio Speciale Slow Food-Terra Madre del IX Concorso letterario nazionale Lingua Madre.


taboule? libanese unico - cut3. Tabboulé, una nuova ricetta per l’integrazione

di Lydia Keklikian (Libano)

Da Beirut una ricetta che stuzzica non solo l’appetito, ma anche la vita complessa del nostro paese.
Tabboulé e integrazione sono cose diverse, ma simili al tempo stesso.

Diverse perché il primo è un piatto mediterraneo composto di diversi ingredienti che si prepara per un pranzo festoso, favorendo l’incontro tra persone o famiglie, viene presentato nei momenti di festa in occasione di un matrimonio o di semplice convivialità.

Il tabboulé è il primo piatto che si porta a tavola e si offre ai commensali per cominciare il pranzo.

L’integrazione a sua volta è una realtà composita per i vari elementi che la costituiscono. Richiama l’idea di una pluralità di culture diverse, la presenza di persone differenti per etnia, religione e cultura in un determinato contesto sociale. È colorata come il tabboulé, in quanto coinvolge nel processo persone diverse disponibili a percorrere una strada nuova che conduce a vivere insieme.

Nell’integrazione, pertanto le persone non devono sciogliersi le une nelle altre, non devono perdere la propria entità culturale, folkloristica, ma devono fare in modo da comporre una realtà colorata, vivace e appetitosa che stuzzica il desiderio di ognuno a conoscersi a vicenda.

Nel tabboulé gli ingredienti non si fondono tra di loro, ma si amalgamano bene al punto da offrire sia alla vista che al gusto un’armonia tale da rendere piacevole il mangiare suscitando una sensazione di freschezza e un piacere che invade tutti i sensi.

Nell’integrazione, il punto di partenza è l’incontro tra persone diverse. Immaginiamo una persona italiana e una straniera di origine africana. Magari l’italiano di pelle bianca e l’africana di pelle nera. Il colore della pelle può essere, in un primo momento, un motivo per attirare l’attenzione e suscitare curiosità.

Se l’incontro avviene in un bar, possiamo vedere come agiscono queste due persone. Bevono il caffè, chiacchierano e si scambiano sorrisi ed espressioni varie che denotano un’armonia e una complicità. Se poi arrivano a baciarsi, questo gesto può suscitare curiosità, a volte perplessità o disapprovazione e può diventare occasione di giudizio che va dal rispetto fino alla critica totale verso ciò che si è visto. Non possiamo certo ancora parlare di integrazione. Questa non può risultare da un incontro al bar o da un bacio.

Come non si può dire che il tabboulé è buono solo perché siamo abbagliati dai colori che si distinguono in un piatto ben presentato.

È importante avere la ricetta giusta e preparare il piatto seguendo le indicazioni precise. È altrettanto importante che tutti gli ingredienti siano ben visibili quando il piatto è sotto i nostri occhi. Ogni ingrediente deve restare ben distinto, mantenere il suo colore e la sua forma, pur essendo amalgamato agli altri ingredienti. Il sapore poi deve poterli distinguere e offrire al palato un gusto piacevole e di completezza in modo da suscitare in chi lo mangia un benessere e un piacere che lo lascino soddisfatto e appagato.

Anche l’integrazione parte dalla vista e dal palato, ma anche dalla piena consapevolezza dei valori comuni delle persone con culture diverse con le quali ci si impegna ad interagire.

Non può essere raggiunta una volta per tutte! Non è un percorso che si intraprende e si conclude in tempo breve, non può essere neppure definito a priori.

È come se la vita di una coppia di giovani raggiungesse il suo traguardo nel momento della celebrazione delle nozze. Se fosse così non avrebbe più senso continuare a vivere insieme e ad impegnarsi tutti i giorni per un traguardo già raggiunto. Lo sappiamo che non è così; il giorno del matrimonio rappresenta il punto di arrivo, ma anche un punto di partenza; percorso che porta due persone a costruire giorno per giorno il loro progetto di vita insieme con sincerità e responsabilità per il resto dei loro giorni.

Lo stesso vale per l’integrazione, per costituire un cammino positivo per entrambe le parti, deve essere un impegno preso da tutte e due le parti e portato avanti con lucidità e responsabilità, ben coscienti della sacrosanta realtà che le due parti hanno ciascuna il diritto di esistere, di progredire e di essere se stesse.

L’integrazione è il cammino di una vita delle persone e delle comunità. Una delle sue fasi è il momento dell’impegno solenne, come il giorno delle nozze, in cui le due parti si rendono conto che non possono più vivere l’una senza l’altra e dove si è convinti che il bene di entrambi è condizionato dalla volontà di impegnarsi reciprocamente nel rispetto di ciascuno e nella complementarietà.

Nel tabboulé chi decide le dosi è la persona che lo prepara. Chi decide come preparare il piatto è colei/colui che lava e taglia gli ingredienti, li mescola e li predispone nel piatto.

Nell’integrazione una parte non può decidere per l’altra. È vero che politiche diverse e persone con concezioni diverse possono incidere e condizionare la preparazione e l’attuazione di questo percorso, ma alla fine tocca alle persone direttamente coinvolte renderlo effettivo nella vita quotidiana con gradualità e modalità proprie e diverse da un quartiere all’altro. Se sono convinta che nel mio quartiere si trovano persone provenienti da luoghi diversi e incontro alcune di queste che condividono lo stesso interesse per il quartiere, sarà nostra responsabilità renderlo più vivibile. In tal senso, non posso più scaricare su altri il fatto che queste persone si chiudano nelle proprie case o nel proprio gruppo senza avere il coraggio di guardare in faccia i problemi esistenti e di impegnarsi per affrontarli.

Per riuscire a preparare il tabboulé non basta conoscere la ricetta, essere capaci di lavare o tagliare il prezzemolo, spezzettare la cipolla e spremere il limone.

Ci vuole attenzione quando si pulisce il prezzemolo, si lava e si taglia. Il prezzemolo deve essere tritato a mano, né troppo grande altrimenti le persone rischiano di strozzarsi, né troppo piccolo perché si rischia di ridurlo in brodaglia. Dopo, lo si deve lasciare a parte mentre si prepara il resto. La menta fresca deve essere lavata e asciugata, tritata al momento opportuno, altrimenti diventa nera e da buttare via. Il pomodoro deve essere tritato nella dimensione giusta per poter essere mangiato con facilità, facendo attenzione a non schiacciarlo durante la tritatura perché si rischia di ridurlo in succo di pomodoro. Una parte del limone deve essere spremuta e il restante lasciato intero del quale si ricava la scorza grattugiata.

La cipolla tritata deve essere condita, prima di mescolarla con gli altri ingredienti, con sale e pepe per far esaltare il sapore e renderlo meno sgradevole al tempo stesso.

L’integrazione deve seguire la stessa procedura, ma con ingredienti diversi. Ci deve essere la stessa cura e amore. Deve anche risultare come il lavoro congiunto di diverse persone desiderose di presentare a chi la mangia una pietanza appetitosa che soddisfa le aspettative di tutti; deve esaltare il valore di ogni persona umana e saziare coloro che cercano pace, armonia e dialogo. In tal modo si valorizzerebbe il principio della dignità umana e renderebbe tutti capaci di farcela.

L’integrazione non prevede la scomparsa di un gruppo nell’altro, non tollera la disparità, non appoggia le ingiustizie e non si alimenta di pregiudizi e di disprezzo.

L’integrazione giornisce quando ci si completa nell’incontro, quando ognuno mantiene la sua specificità e la sua ricchezza culturale, e gode quando vede tutte queste diversità camminare insieme nelle stesse strade della città.

Per il tabboulé il percorso è analogo. Nella terrina predisposta per mescolare gli ingredienti, si prepara il grano, si aggiunge il prezzemolo tritato, il pomodoro e la cipolla, distribuendo a forma di cerchio ogni ingrediente uno sopra l’altro. Si versa il succo di limone seguendo sempre la forma circolare, l’olio d’oliva e la scorza di limone grattugiata. Si mescola con un cucchiaio grande, con delicatezza e cura come se si stesse accarezzando il viso di un neonato, facendo attenzione a non schiacciare gli ingredienti, rispettando la singolarità di ogni ingrediente.

Nell’integrazione bisogna stare attenti a non sopraffare l’altra persona, a non prevaricare l’anima dell’altro e a non svalutae la ricchezza nel nome di un bene comune.

Ciò vale sia per la parte italiana sia per quella straniera. Nell’integrazione non c’è una parte debole e una forte. Non ci sono persone capaci e persone disabili. Tutte le componenti del progetto sono diversamente abili e diversamente capaci. Bisogna cercare di far emergere le capacità di ognuno e di lavorare sugli aspetti che presentano punti deboli.

Le parole scritte da Gibran nel suo famoso libro «Il Profeta» ci aiutano a comprendere meglio la relazione fra integrazione e matrimonio:

«Voi siete nati insieme
e insieme starete per sempre.
Sarete insieme quando le bianche ali della morte disperderanno i vostri giorni.
E insieme nella silenziosa memoria di dio.
Ma vi sia spazio nella vostra unione,
E tra voi danzino i venti dei cieli.

Amatevi l’un l’altro,
ma non fatene una prigione d’amore:
Piuttosto vi sia un moto di mare
tra le sponde delle vostre anime.
Riempitevi l’un l’altro le coppe,
ma non bevete da un’unica coppa.
Datevi sostentamento reciproco,
ma non mangiate dello stesso pane.

Cantate e danzate insieme e state allegri,
ma ognuno di voi sia solo,
Come sole sono le corde del liuto,
benché vibrino di musica uguale.
Donatevi il cuore,
ma l’uno non sia di rifugio all’altro,
Poiché solo la mano della vita
può contenere i vostri cuori.

E siate uniti, ma non troppo vicini;
Le colonne del tempio si ergono distanti,
E la quercia e il cipresso non crescono l’una
all’ombra dell’altro».

È chiaro che l’integrazione è un cammino di amore che non soffoca, di condivisione che non mescola, di rispetto che non schiaccia, di accettazione che non pretende che una parte si annulli per essere accolta dall’altra. È lo stesso per il tabboulé!

A questo punto non ponetevi altre domande.
Lasciatevi portare dall’armonia dei gusti e dei colori di questo piatto e abbandonatevi nell’oceano dell’umanità racchiusa in ognuno dei suoi ingredienti. Umanità che svela l’origine di ogni ingrediente, di ogni terra lavorata dalle persone, di ogni fatica sudata per preparare il necessario e renderlo disponibile per il piacere dei vostri sensi e palati.

È la stessa umanità che ci circonda ogni giorno, di pelle bianca o nera, di una religione o di un’altra. Questa umanità che si esprime attraverso linguaggi che a noi possono essere sconosciuti e che emette suoni che non riusciamo a decifrare…

E ciò che meraviglia è la verità che dentro e dietro ogni ingrediente che compone il tabboulé si nasconde un territorio che magari conosciamo perché gli ingredienti sono stati coltivati a casa nostra, lavorati e preparati da mani straniere per offrirci un piatto che riteniamo esotico!

Buon appetito e buona integrazione.

Lydia Keklikian

Lydia KeklikianLydia Keklikian: Cittadina italiana, nata in Libano da famiglia armena è laureata in Scienze Sociali a Beirut, diplomata in Scienze Religiose a Brescia, laureata in Lingue Orientali a Venezia. Da anni si occupa di immigrazione, intercultura e mediazione culturale con particolare attenzione ai temi legati alle religioni, alla donna orientale, alla cultura araba armena e turca per quanto riguarda le leggi di famiglia, le tradizioni sociali e culturali attraverso la fiaba la musica e la cucina. Il suo racconto Tabboulé, una nuova ricetta per l’integrazionha vinto il Premio speciale Slow Food-Terra Madre della IV edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre.

 


Kibbeh-c4. A Téta, ricordi congelati

Traslata dall’arabo all’italiano, catapultata telefonicamente da un continente all’altro, che sapore ha la morte?
Toavo da una serata fra amici in zona Ostiense la notte che, a Zouk Mkayel, morì Téta. La notizia arrivò l’indomani via cellulare, Libano-Italia in un secondo: ricordo la spossatezza di quelle ore, il silenzio sospeso, l’estraneità surreale, ma non ricordo dolore. Non subito. Ricordo quelle quattro lettere impresse in pancia come se si trattasse di un nome proprio, senza necessità di tradurle: Téta.

Téta, sei andata via e il freezer conserva ancora memoria dei cibi che hai cucinato e impacchettato per me. Sapevo che sarebbe accaduto, forse ero io a volerlo, ci ho sempre trovato un che di poetico: adesso ho tanti piccoli kebbeh stipati nel ghiaccio, li trovo esageratamente evocativi e so bene che li mangerò con un groppo alla gola e che, celebrando la mia commemorazione laica, penserò fate questo in memoria di me. Ripercorrerò le volte che non mi mandavi via senza una borsa piena di khiara, khobez, kebbeh e, se riuscivi, addirittura qualche mehshi cousa. Ora il freezer è una teca sacra, ostensorio profano di ricordi congelati.

Ricordo congelato è la foto scattata col cellulare di te che prepari il tabboulé sfidando gli anni e le intemperie, coi capelli di fronte agli occhi e lo sguardo basso e concentrato mentre smisti le foglie di prezzemolo e poi tagli fette finissime di cipolla e pomodori e intanto canticchi le tue filastrocche.

Ricordo congelato è il primo cenno di anzianità. Ero piccola quando Téta è caduta nel corridoio e ha perso i sensi. Guardavo la tivù e non me ne sono accorta fino a che la gola non mi ha portato verso la cucina per chiedere un arous jibneh. Il corpo fermo a terra che ho trovato a metà strada, con un rivolo di sangue che sgorgava dal labbro, non mi sembrava reale: forte dei miei undici anni, avevo la certezza che Téta non potesse cadere così. Invece, da quel momento, cominciò a farlo: cadere o scomparire per qualche ora o giorno, per tornare poi un bel mattino a casa, a sorpresa. Ho memorie sfocate della volta in cui papà la salvò dall’arresto cardiaco notturno davanti alla tivù: guardavano i giochi a premi insieme e per un lasso di tempo indefinito nessuno si accorse che Téta non rideva più e che il suo non era il solito afflosciarsi in uno stanco riposo serale. Papà, quando capì che il cuore di Téta aveva smesso di funzionare, corse a farle il massaggio cardiaco, poi arrivò l’ambulanza, la portò via e, non appena papà appurò che Téta si fosse davvero ripresa, le lanciò sette otto accidenti in dialetto libanese. Io quella notte dormivo da ore nella mia stanzetta; credo di aver dormito per giorni o di aver vissuto in una sorta di infantile torpore: al mio risveglio, Téta era sempre lì, punto fisso della mia quotidianità a Zouk.

Ricordo congelato è la frase rituale, ripetuta ogni sera: Qu’est-ce que Vous voulez manger demain? Me l’ha sempre chiesto così, Téta. A me sembrava di stare in un hotel di lusso e lo zio di Boston la prendeva in giro per quella sua ostinazione a dare del voi anche ai familiari. Téta sorrideva con aria furbetta e raccontava per l’ennesima volta di quel francese scolastico imparato fra lezioni di economia domestica e di pittura, in ambienti gerarchici in cui non esisteva che si potesse dare del tu a qualcuno. Per Téta la confidenza in francese non aveva un corrispondente linguistico e per me sentirla darmi del voi è sempre stato come prendere parte ad un banchetto fra ambasciatori. Io, ambasciatrice d’Italia, in visita a lei, rappresentante del Libano. L’autorevolezza e l’eleganza dell’alto ceto sicuramente l’ha sempre avuta Téta, più di me. Bastava un gesto e Hala capiva cosa avrebbe dovuto cucinare l’indomani, sapeva senza bisogno di dirlo che non bisognava comprare i lahmi b’ajin senza fornire al fornaio l’impasto di carne che lei stessa preparava, perché era l’unico di cui si fidasse.

Andare in Libano era quindi per dei versi come gettarsi a capofitto nel set di uno di quei film talmente ben riusciti che sembrano realtà, tanta è la naturalezza: io non mi accorgevo di niente, ventenne distratta, ma lei cornordinava ogni minuscolo evento che prendeva vita fra le mura domestiche. Sapevo che al mio arrivo avrei puntualmente trovato lo shmandour e che a nulla sarebbe servito offendere l’orgoglio di Téta dicendo che con gli anni qualcosa nel mio gusto era cambiato e che lo shmandour non mi piaceva più: sapevo che la cucchiaiata di shmandour, almeno per fare il gesto, dovevo ingoiarla con estremo riconoscimento. Perché il primo latte della vacca incinta, ingrediente principale, è merce rara e Téta diffondeva ai paesi vicini la notizia del mio arrivo già settimane prima, affinché il primissimo latte della vacca partoriente finisse fra le sue mani e potesse avviare i processi di preparazione di quella primizia dolce. Tanto più lo shmandour smetteva di piacermi, quanto più aumentava la gratitudine per il gesto fedele di Téta nei confronti di me, figliola prodiga.

A volte mi è bastato fissare un piatto con gola per trovare Hala affianco a porgermelo: subito era chiaro che il mio sguardo fosse stato intercettato da Téta; un po’ mi sentivo oppressa o presa in giro, poi mi dicevo che in una famiglia di maghi le cose non potevano che andare così. Una famiglia di maghi: così amava descriverla nonno, prima di morire. Il prozio mago era il capostipite, poi, con l’avanzare delle generazioni, quella magia si è ridimensionata e si è fatta semplice filosofia. Ma chissà che poi non sia un po’ la stessa cosa.

Ricordo congelato è lo sguardo triste di Téta mentre guarda la tivù e le si spezza il cuore di fronte alla morte di palestinesi e israeliani – ya kharam, diceva di entrambi. Io penso a quanto quello stesso conflitto è stato strumentalizzato nell’altra parte del mondo, la mia, riducendosi a rigido gioco di fazioni a distanza di sicurezza.

Ricordo congelato è Téta che, mentre vado in piscina, mi ferma per darmi un bacio sulla guancia e dirmi serissima «Attention de tomber dans l’eau». Ogni volta, fino all’ultimo, ho sospettato che l’età le giocasse un brutto scherzo o la facesse allarmare per pericoli inesistenti, ma ogni volta era invece lei a prendersi gioco di me con ironia sottile. Questa frase, questo francese sbagliato e maccheronico, era la frase di complicità ridanciana con cui due generazioni si danno la staffetta – quasi un gioco di ruoli – e a quella più antica non resta altro che dare raccomandazioni assurde alla più giovane, pur con piena coscienza della loro assurdità.

Ora le foto di Téta invadono il web: i suoi figli e nipoti sparsi per il mondo si fanno compagnia come possono, si consolano vicendevolmente, cercano di mantenere vivo il suo ricordo, anche se buona parte ha dimenticato la lingua madre o la utilizza soltanto sporadicamente. Siamo schegge scagliate nei cinque continenti e Facebook è la nostra disillusa preghierina serale, adesso che nessuno più accosta la porta della camera come faceva Téta mentre, con aria bambina, si inginocchiava sul suo letto per fare il segno della croce. Il social network è una chiesa virtuale con le sedie vuote ed è lecito domandarsi in fondo cosa arriva, cosa passa da un cuore all’altro, da una pancia all’altra e da un computer all’altro, salendo oltre i pensieri tradotti in tutte le lingue del mondo, cosa è sempre arrivato negli scambi comunicativi fra tutti noi, la Big Khalil Family, noi che traduciamo goffamente dall’inglese al francese all’italiano all’arabo i nostri pensieri e le nostre emozioni, noi che cerchiamo significanti molteplici per indicare un unico significato e non sappiamo mai quali sfumature si perdono in questo travaso continuo di informazioni.

Ricordi congelati.

Tutto questo e solo questo rimane di te – la mia Téta in un’altra lingua – ed io non so bene con quanta efficacia l’italiano sappia essere fedele a questi ricordi: mi appare come lingua impacciata, incapace, inesperta nell’espressione di queste memorie che hanno sede altrove; lingua dei tentativi e degli errori. Eppure è per errori e traduzioni concatenate che abbiamo mandato avanti la nostra comunicazione intergenerazionale ed intercontinentale: sentimenti perennemente filtrati da successive conversioni mentali. Chissà quante cose abbiamo frainteso, quante ne abbiamo gonfiate, quante rimpicciolite, chissà quali immagini mentali c’erano in te, dietro le tue frasi in un francese imbalsamato, e che modifiche hanno subito nella loro caduta a effetto domino verso il mio orecchio che le percepiva e dava loro un altro senso, il mio.

Apro il freezer, prendo un kebbeh, ne tasto la sfericità. Non ho il coraggio di mangiarlo, basta l’odore a tuffarmi di nuovo in antiche corse sotto il sole ad acchiappare le code dei gatti a Zouk e poi correre in spiaggia. Provo a ricreare l’eco della tua voce – Attention de tomber dans l’eau! – ma non ne sono più davvero capace.

Chissà dove sei, Téta.
Attenzione a non cadere in acqua, Téta, ovunque tu sia.

Sento che l’italiano è giunto al limite: non è più sufficiente a narrare la nostra storia in questa maniera. In italiano il ricordo libanese di te non fa che sbiadirsi più velocemente, gli spaghetti nella scansia non sanno chi tu sia stata, ma questi kebbeh sì, ne hanno chiara memoria, sono figli delle tue mani pazienti ed è mio compito tradurre fino in fondo questi ricordi. Guardo la sfera di grano e carne e all’improvviso so che, finché non racconterò la tua scomparsa in un’unica lingua, la tua figura rimarrà in bilico fra due mondi. Presenza e assenza, occidente e oriente, vita e morte.

Respiro profondamente. Traduco.
Téta in arabo vuol dire nonna.
Lo dico sottovoce, finalmente, e sento il sottilissimo germe della mancanza farsi spazio ed espandersi fino a occupare anche l’altra parte di me, quella che parla italiano. Due metà si ricongiungono, i ricordi riprendono vita, il ghiaccio attorno al kebbeh si è sciolto, ora la tua scomparsa ha una dolorosissima forma.
Mi manchi, nonna.

Leyla Khalil

Leyla Khalil,Leyla Khalil, italo-libanese, nasce a Roma il 30 agosto 1991. È mediatrice culturale e ha pubblicato racconti e poesie in antologie per Edizioni Ensemble, Giulio Perrone, L’Erudita, Ediesse, Guasco, Seb27. Appassionata di narrativa e cucina, tiene due rubriche settimanali su facciunsalto.it: “Cosa borbottano le pentole” e “La Grasse Matinée”. Ideatrice del progetto di scrittura “Fast Writing, scritti di rapida consumazione”, ha curato per Edizioni Ensemble la prima raccolta di racconti incentrati sui fast-food come non luoghi e sta lavorando a nuovi sviluppi sul tema. Il suo racconto, Ricordi congelati, ha vinto il Premio Speciale Slow Food-Terra Madre del X Concorso letterario nazionale Lingua Madre

 



  • Questo dossier narrativo centrato sul cibo, è frutto della collaborazione con «Lingua Madre», il concorso letterario nazionale la cui premiazione avviene ogni anno nel contesto del «Salone Internazionale del Libro di Torino».
    È la terza volta che MC pubblica testi scritti per questo concorso in lingua italiana da donne provenienti da ogni parte del mondo. La prima volta fu il racconto, Cubetti di zucchero, apparso in MC 4/2015, seguito poi dal dossier Sono anch’io Italia, sogni non impossibili, in MC 8-9/2015.
  • A «Lingua Madre», che ha scelto di presentare quattro testi premiati nel contesto del «Premio Slow Food – Terra Madre», va tutta la nostra riconoscenza.
  • I testi sono stati selezionati da Daniela FinocchIi, ideatrice e cornordinatrice del concorso. Il dossier è stato cornordinato da Gigi Anataloni.
  • Il libro: Daniela Finocchi (a cura di), Lingua Madre Duemilasedici, Racconti di donne straniere in Italia, Edizioni SEB27, via Accademia Albertina, 21 – 10123 – Torino; sito: seb27.it, sarà nelle librerie in autunno.

 




Fuga dalle campagne città al colasso


Migrazioni e megalopoli

«Casa-macchina», un sogno che si paga

Con una valigia di sogni (e di illusioni), milioni di persone si spostano verso le città, che crescono a dismisura. Così come aumentano i problemi, in primis quello dell’inquinamento.

Nella Hong Kong degli anni immediatamente precedenti all’handover (restituzione) del 1997, i prezzi degli immobili schizzarono in alto. Favorite dall’ultimo governo coloniale britannico, le immobiliari avevano costituito un vero e proprio cartello del mattone e del cemento che diminuì il parco case disponibile e intascò un boom dei prezzi del 400 per cento tra il 1992 e il 1996.

In quegli anni, alcune comunità urbane autonome riuscivano ancora a ritagliarsi uno spazio tra i grattacieli. Il caso forse più leggendario fu la «Walled City», la Città Murata di Kowloon, il posto più densamente popolato al mondo. Nel 1987 ci vivevano 33mila persone compresse in 2,6 ettari, con appartamenti grandi una sola stanza. La sua unicità nasceva dal fatto che era la sola parte di Hong Kong che non fosse stata ceduta dalla dinastia mancese Qing alla Corona britannica, dopo le sconfitte militari dell’Ottocento. Era però irraggiungibile dall’amministrazione di Pechino e, al contempo, era un’enclave sottratta alla legge coloniale britannica. Nel Novecento, si riempì di cinesi che a ondate fuggivano dal loro paese.

Nel 1994, la Città Murata fu demolita. I britannici, che stavano per restituire Hong Kong alla Cina, non volevano lasciarsi alle spalle luoghi «indecenti» che avrebbero potuto essere utilizzati strumentalmente contro l’immagine della Corona.

Nel nome del decoro, sopravvisse dunque un solo «modello Hong Kong», quello ripulito dalle forme di vita alternative.

Il modello Hong Kong si estese alla Cina e a tutta l’Asia. Si basa su diversi fattori, il primo è la crescita di un nuovo ceto medio che sul binomio «casa-macchina» fonda la propria identità e la propria idea di benessere. Sono i nuovi piccoli borghesi che, in tutto il continente sempre più urbanizzato, comprano immobili per abitarli, ma anche per specularci a loro volta, perché in società dove non esiste ancora un welfare compiuto (sanità, pensioni), il mattone è il modo migliore per garantirsi un tesoretto per i tempi grami, per mandare i figli a studiare all’estero o per comprare nuove case e nuove macchine. In Cina, la leadership ha letteralmente creato il ceto medio sulla proprietà immobiliare, incentivando funzionari e dipendenti pubblici ad acquistare le case che già abitavano. Ma anche i «donju» (signori dei soldi) nord coreani indicano che la rendita immobiliare è ormai il principale mezzo di accumulazione globale a prescindere dai modelli politico-economici.

Il secondo fattore della diffusione del modello Hong Kong è la disponibilità di forza lavoro a basso costo. Si tratta quasi sempre di ex contadini fuggiti o espulsi dalle terre, che si riversano nella metropoli a cercare lavoro. Le campagne così si svuotano creando vari problemi economici, come la necessità di riorganizzare l’agricoltura affinché produca abbastanza cibo per le megalopoli in espansione, a fronte di una riduzione progressiva dei terreni disponibili. Tra i problemi sociali, il più noto è invece quello dei minori e degli anziani abbandonati. In Cina sono circa 61 milioni i «liushou ertong», cioè i «bambini lasciati indietro», che accumulano ritardo sociale e sono a rischio devianza o violenze. Se chi resta in campagna si condanna a vivere una condizione di serie B, anche il lavoro vivo di chi si inurba arricchisce soprattutto gli altri. Qualora però gli inurbati di seconda o terza generazione riescano ad accumulare il necessario, eccoli divenire nuovo ceto medio che ingrossa le megalopoli e il caos che le attraversa.

Si arriva quindi al problema dell’inquinamento, dovuto non solo alle automobili e all’alta concentrazione di attività industriali – è questo per esempio il caso della Cina «fabbrica del mondo» -, ma alla stessa densità demografica. Succede così a Delhi, in India, dove la quantità di umani che usano rifiuti come combustibile domestico rende inutile l’adozione di targhe altee. O a Ulan Bator, capitale di quella Mongolia che è sinonimo di cieli azzurri, che diventa d’inverno una delle città più inquinate del pianeta, perché con temperature sui 30 sotto zero, gli abitanti di Cingeltej, l’enorme slum di ger (yurte) sul lato Nord della città, si scaldano e cucinano usando come combustibile tutto ciò che capita loro a tiro.

È una brutta gatta da pelare: l’urbanizzazione dovrebbe creare il nuovo ceto medio competitivo su scala globale e creare consenso per i governi. Ma espone anche a nuovi, grandi problemi.

Gabriele Battaglia
direttore di China Files


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Urbanizzazione 2: meno acciaio e mattoni più ricerca e sviluppo


Il modello della Cina «fabbrica del mondo» ha emancipato 800 milioni di persone dalla povertà e fatto nascere il ceto medio cinese. Oggi quel sistema non funziona più: inquinamento, sovrapproduzione, bolle speculative, disparità sociali sono emergenze straordinarie. Per risolverle, il presidente Xi Jinping vuole «meno quantità, più qualità». Per questo il paese sta investendo come nessun altro in ricerca e sviluppo.

Il ciclo perverso dell’economia cinese è reso perfettamente da Behemoth, il documentario del regista cinese Zhao Liang (2015) ispirato alla Divina Commedia. Infeo, Purgatorio, Paradiso, in questo caso sono la miniera di carbone, la fornace dell’acciaieria, la città fantasma.

La miniera produce il combustibile fossile in uno scenario davvero dantesco, in cui la natura devastata, rinsecchita, annerita come in un vero e proprio girone infeale, combacia con l’erosione della salute fisica dei minatori. Sono agghiaccianti, per esempio, le immagini del liquido nerastro drenato dai polmoni dei lavoratori – che vanno a fare visite di controllo in ospedale – e raccolto in ampolle. Una fila di camion carichi di carbone prende poi la strada dell’acciaieria, il gigantesco impianto dove uomini perennemente sudati producono, producono, producono milioni di tonnellate di metallo che in qualche modo deve poi essere impiegato. Ed ecco l’uscita «a riveder le stelle», o meglio il cielo azzurro della città di Ordos, Mongolia Intea – cioè quella cinese – l’Empireo finalmente. Peccato che Ordos sia sinonimo di sicheng, termine che traduciamo come «città fantasma», ma che in cinese suona più come «città morta». Tutto quell’acciaio (e quel cemento) che arrivano dalle imprese inquinanti della regione autonoma si traducono in file e file di nuovissimi palazzi alti venti-trenta piani e raccolti in compound perimetrati, ma drammaticamente vuoti, qualcuno con l’intonaco che già si sgretola.

Questa parabola così chiara ci trasmette immediatamente l’idea di come l’inquinamento, in Cina, sia legato indissolubilmente ad almeno altri tre problemi: il lavoro, cioè i minatori, gli operai dell’acciaieria, i muratori della città; l’eccesso di offerta industriale, cioè quegli 800 milioni – un miliardo di tonnellate di acciaio che ogni anno la Cina produce, metà del quantitativo globale; l’urbanizzazione, cioè la città. Detto altrimenti: non si può parlare di ambiente se non si parla anche di economia, lavoro, società e, last but not least, politica.

La crisi di un modello di successo

Il modello economico lanciato da Deng Xiaoping a fine anni Settanta non regge più.

Si basava su un alto tasso di investimenti in Cina – prima stranieri, poi anche cinesi – che hanno permesso di creare fabbriche, delocalizzare impianti, aprire succursali. In definitiva, di trasferire nel paese asiatico la «fabbrica del mondo». L’industrializzazione degli ultimi trent’anni si è concentrata soprattutto sul delta del Fiume delle Perle, cioè a Shenzhen, prima «zona economica speciale», attraente per le agevolazioni fiscali, nonché per il basso costo del lavoro e dei terreni. L’intera provincia del Guangdong è diventata, da allora, un enorme conglomerato industriale, che oltre a Shenzhen ha inglobato Dongguan, poco più a Nord, Guangzhou, la vecchia Canton, Foshan, Zhuhai, Zhongshan. Oggi è la provincia più ricca della Cina.

Il nuovo modello si innestava sulla vecchia industrializzazione, quella di tipo sovietico risalente agli anni Cinquanta-Sessanta, che aveva invece come epicentro la «cintura della ruggine» del Nord della Cina. Erano, queste, le vecchie industrie pesanti di stato che subirono una prima ristrutturazione tra il 1998 e il 2003. Un «bagno di sangue» che portò al licenziamento di 28 milioni di lavoratori, con costi a carico dello stato di circa 73 miliardi di yuan (quasi 10 miliardi di euro al cambio odierno) in fondi di ricollocamento.

Il binomio costituito da piccole industrie private o semiprivate a capitale misto e grandi industrie di stato ha comunque trainato la Cina, emancipato 800 milioni di persone dalla povertà e prodotto il ceto medio cinese, che a sua volta ha preso a spendere per quell’accoppiata «casa-macchina» che connota tutta la piccola borghesia planetaria.

Nel frattempo, i contadini espropriati dai terreni adibiti a uso industriale o residenziale si riversavano nelle maggiori metropoli a caccia di opportunità e di lavoro. Sono stati loro la carne umana divorata dalla macchina del progresso perché un sistema tipicamente cinese che legava diritti e servizi minimi al luogo di residenza – chiamato hukou – li esponeva allo sfruttamento e ne abbatteva il potere contrattuale se lontani da casa.

Oggi è necessaria un’altra ristrutturazione perché le imprese di stato sono sempre tante – circa 150mila – e di solito corrispondono più a criteri politico/affaristici – l’arricchimento delle consorterie che si annidano al loro interno e la stabilità sociale garantita dal fatto che danno lavoro – che di efficienza. Il fenomeno è quello delle «imprese zombie», tenute in vita per ragioni di opportunità, ma irragionevoli da un punto di vista economico. Zombie che continuano a inquinare.

Il mattone e la bolla immobiliare

Allo stesso tempo, Pechino deve fare i conti con un’altra emergenza. La crisi globale del 2008-09 ha ridotto i volumi dell’export cinese verso l’Occidente, mandando in crisi le piccole-medie imprese del «virtuoso» delta del Fiume delle Perle. La filiera tessile, per esempio, ma anche l’elettronica di consumo, i giocattoli.

Infine, per garantirsi una sicurezza sociale in assenza di welfare compiuto – pensioni e sanità universali sono un lavoro in corso – i cinesi di solito investono nel mattone. Questo ha prodotto un fenomeno speculativo che secondo parecchi osservatori è ormai una bolla immobiliare pronta a scoppiare. Costruire corrisponde in realtà a tre esigenze: crea ricchezze immediate per palazzinari e investitori; permette di bruciare risorse in eccesso, come nel caso dell’acciaieria di Behemoth; offre occupazione. Ma sul lungo periodo, porta all’estremo i difetti del modello cinese: inquinamento, investimenti che non restituiscono profitti, bolle speculative.

Verso un nuovo modello: meno quantità, più qualità

La crisi/riconversione di fine anni Novanta fu l’occasione per fare anche esperienza di crisis management. Il potere del Partito comunista si basa sulla promessa di una Xiaokang Shehui, «società del benessere moderato». Oggi, le autorità cinesi si affrettano a precisare che la transizione del paese verso un diverso modello economico non porterà agli stessi licenziamenti di massa che hanno avuto luogo negli anni Novanta, bensì all’esubero di «soli» 5-6 milioni di lavoratori, che verranno debitamente ricollocati.

Insomma, per liberarsi dal circolo vizioso fatto di inquinamento, sovrapproduzione (oversupply, eccesso di offerta), bolla immobiliare e investimenti che non tornano indietro, la leadership cinese cerca di muovere verso un diverso modello economico, ma al tempo stesso vuole farlo in maniera non traumatica, per non destabilizzare il sistema e mantenere la promessa di arricchimento.

La Cina punta quindi a diventare «economia evoluta» rivedendo il proprio ruolo di fabbrica del mondo. Meno quantità, più qualità; meno carabattole, più produzioni ad alto valore aggiunto; meno lavoratori migranti, più giovani istruiti, tecnologizzati, cosmopoliti. Così, le ricchezze accumulate in trent’anni di boom sono spese per incentivare i giovani a creare start up, per costruire parchi tecnologici, per finanziare la ricerca. Tra il 2014 e il 2015, l’investimento delle imprese cinesi in ricerca&sviluppo è aumentato del 46 per cento, contro numeri a cifra singola per l’Europa e gli Stati Uniti. Le esenzioni fiscali e i ponti d’oro non sono più fatti alle industrie straniere tradizionali, bensì sempre più a quelle che trasferiscono tecnologia, know how: biotecnologie, settore farmaceutico, elettronica avanzata, prodotti finanziari. Idem per le acquisizioni all’estero.

Il tredicesimo piano quinquennale 2016-2020 ha proprio annunciato queste trasformazioni, ma le riforme è più facile annunciarle che farle, perché il potere cinese è sempre combattuto tra la necessità di accelerare e quella di rallentare, per non creare terremoti sociali. Nei mesi scorsi si sono moltiplicati i conflitti sul lavoro di comunità operaie del Nord Est cinese di fronte all’annunciata chiusura di miniere e impianti. Nella provincia dell’Heilongjiang, la proprietà della miniera di Shuangyashan ha per esempio annunciato il licenziamento di 100mila lavoratori nei prossimi due o tre anni, sui 224mila totali. Il gruppo Longmay, proprietario del giacimento, è controllato dal governo provinciale ed è in perdita dal 2012, per rimanere a galla chiede nuove linee di credito alle banche.

Tutto il potere a Xi Jinping

Il problema inquinamento si trova dunque al centro del tira e molla tra chi spinge e chi fa resistenza.

L’ultima manifestazione di questa tensione sembrerebbe essere il conflitto latente tra il presidente Xi Jinping e il premier Li Keqiang, il numero uno e il numero due del potere cinese. Recenti studi hanno infatti rivelato che i continui piccoli stimoli economici permessi dalla gestione di Li Keqiang – in sostanza, crediti – avrebbero permesso a parecchie industrie pesanti «zombie» e inquinanti destinate alla chiusura non solo di stare a galla, ma anche di annunciare piani di espansione.

A questo punto, Xi Jinping avrebbe parzialmente esautorato il premier e preso in prima persona il controllo dell’economia. Alcuni recenti articoli dei media di stato sottolineano il ruolo sempre più marcato del presidente nel dettare l’agenda economica, che di solito è invece appannaggio del premier. Xi ha in programma di accelerare le riforme e di imporre chiusure e fusioni di imprese nel settore dell’acciaio, del carbone e del cemento con enorme eccesso di capacità.

Nella Cina dei paradossi, la soluzione al problema dell’inquinamento passerebbe così anche attraverso l’ulteriore accentramento del potere da parte di un presidente già accusato di essere un Mao Zedong redivivo.

Gabriele Battaglia


Mingong e hukou

  • Mingong: è il lavoratore migrante.
  • Hukou: è la registrazione della residenza. Un persona, con tutto il suo nucleo familiare, è registrata nel luogo di nascita e solo lì ha diritto a tutta una serie di diritti e servizi (sanità, istruzione, pensione, etc).

È un sistema che risale alla Cina imperiale (ma non solo Cina, anche Giappone, Corea, etc.) e che è stato riadottato in epoca maoista per controllare i grandi spostamenti di popolazione ed evitare che tutti si concentrino in alcune aree del paese e, al contrario, altre zone siano abbandonate. Con le riforme di Deng Xiaoping, il sistema si è di fatto rotto perché grandi masse di mingong si sono trasferite dalle aree rurali a quelle urbane/industriali. Ma l’assenza di hukou in quelle aree li ha privati dei servizi essenziali, creando di fatto una popolazione di serie B, esposta a ricatto salariale.

Da tempo si parla di abbatterlo o di riformarlo. Alcune piccole riforme sono già avvenute. Per esempio, è ora possibile «comprare» l’hukou urbano, oppure viene concesso a speciali categorie o a gente che lavora da un certo numero di anni in una data città. Non si parla però della sua abolizione tout court, perché le autorità cinesi non vogliono che milioni di persone si spostino nelle megalopoli già intasate. Stanno invece pensando di concedere l’hukou in città più piccole o di nuova costruzione, in modo di distribuire razionalmente la popolazione sul territorio.

Ga.B.


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Urbanizzazione: avanti piano


Un tempo paese prevalentemente rurale, oggi la Cina vede oltre la metà della sua popolazione urbanizzata. Tanto che il sovraffollamento delle megalopoli è diventato un problema prioritario. Complice anche la contrazione delle attività economiche, ora il governo vuole reindirizzare i flussi dei migranti (mingong) verso le province della Cina centrale e occidentale. E pensa di favorire la crescita di città di medie dimensioni, a misura d’uomo, sostenibili e tecnologiche.

Quest’anno per qualcuno le vacanze del Capodanno lunare sono cominciate prima del solito. Il crollo degli ordini e il rallentamento della produzione ha spinto molte fabbriche ad anticipare la chiusura, rispedendo a casa milioni di lavoratori migranti (mingong). Qualcosa di simile era già successo nel 2009, quando il colpo di coda della crisi globale sferzò anche la Cina. Poi era arrivato il salvifico pacchetto di stimoli da 4 trilioni di yuan (circa 400 miliardi di euro di allora), l’economia era ripartita e gli operai erano tornati alle loro linee di produzione concentrate lungo le coste urbanizzate. Uno scenario che difficilmente si ripeterà anche stavolta.

Megalopoli, migranti e «hukou»

Il governo non ha alcuna intenzione di continuare ad alimentare le varie bolle (prima tra tutte quella immobiliare) legate alle politiche monetarie espansive degli scorsi anni. Né, d’altronde, disprezza l’idea di un’inversione del flusso migratorio orientandolo dalle province urbane della Cina orientale verso quelle centrali e occidentali, ancora largamente rurali. Il che permetterebbe di alleviare il sovraffollamento delle megalopoli e colmare gradualmente il divario tra zone ad alto e a basso reddito.

È un restyling a cui la dirigenza cinese lavora da un paio d’anni. Ovvero da quando nel 2013 Pechino ha dichiarato di voler arrivare al 60 per cento di popolazione urbanizzata entro il 2020 rispetto al 52,6 per cento del 2012, quando è avvenuto il primo sorpasso numerico dei «cittadini» in senso proprio: una svolta epocale per un paese tradizionalmente agricolo. Entro il 2011, le «cittadone» e i piccoli centri avevano attratto 690,7 milioni di persone, ovvero più del doppio della popolazione complessiva degli Stati Uniti.

L’operazione che si vuol mettere in atto ora segue criteri più selettivi e consiste nel direzionare i migranti verso le città medio-piccole. In una parola chengzhenhua, ovvero «urbanizzazione sostenibile» votata alla realizzazione di decine di nuovi centri di media grandezza, a misura d’uomo, sostenibili e tecnologici, con lo scopo di decomprimere le megalopoli affette da ipertrofia. Per invogliare i mingong a lasciare le «big cities» – di cui hanno trainato la crescita sobbarcandosi i lavori più sporchi, snobbati dalla borghesia cittadina – il governo ha riformato ad hoc i termini per l’assegnazione del hukou, il controverso sistema che lega welfare e servizi al luogo di residenza lasciando a mani vuote la popolazione mobile.

La riforma in cantiere – che copre comunque meno della metà dei 274 milioni di migranti interni presenti al di qua della Muraglia – prevede un allentamento delle restrizioni nelle megalopoli soltanto per una ristretta cerchia di individui («laureati, lavoratori qualificati e immigrati di ritorno»), mentre per i mingong rurali ci sono le città di seconda e terza fascia, quelle ancora in fase espansiva, in cui i servizi sono così così e i palazzoni – costruiti durante il boom edilizio post stimoli – sono ancora in attesa di essere riempiti.

L’esempio di Shanghai

All’inizio dell’anno la municipalità di Shanghai, la città che, assieme alla metropoli di Chongqing, si contende il primato di città cinese più popolosa, ha annunciato di voler bloccare il numero dei residenti a quota 25 milioni. Ufficialmente per assicurare «una migliore pianificazione urbana, una ragionevole distribuzione delle risorse pubbliche e una gestione efficiente della vita sociale». In realtà, tuttavia, il trend sembra aver già registrato una brusca frenata senza bisogno di alcun tappo.

Secondo dati rilasciati a gennaio dal National Bureau of Statistics, nel 2015 la popolazione «fluttuante» è scesa di 5,68 milioni di unità nel 2015, primo calo in trent’anni. Un’inversione attribuibile da una parte al crollo del settore manifatturiero labor-intensive nelle regioni «ex fabbrica del mondo» costiere e urbane – con progressiva delocalizzazione degli impianti verso le più economiche province intee – dall’altra al crescente sviluppo dell’economia rurale. Ora che il progresso si sta estendendo vicino casa, i mingong non hanno più ragione di percorrere centinaia di chilometri per trovare un impiego soddisfacente. Con il risultato che ormai oltre la metà risulta stabile nella provincia di appartenenza, rivelano stime governative.

Il «ritorno al villaggio» dei giovani

In totale sono già 2 milioni i migranti ad aver lasciato le grandi città per cercare opportunità di lavoro nelle cittadine d’origine. Soltanto nella provincia del Sichuan – che costituisce il principale «vivaio» di mingong – nell’ultimo anno oltre 400mila lavoratori di ritorno si sono lanciati in iniziative imprenditoriali, agevolati da alcuni provvedimenti governativi: programmi di microcredito per rilanciare l’economia rurale; espansione della rete internet sino ad abbracciare gli anfratti più remoti delle regioni occidentali del paese; nuova spinta sulle infrastrutture, che secondo Pechino rappresentano il vero barometro per testare la qualità della vita a livello locale. Fatto sta che, stando alle previsioni ufficiali, quest’anno il reddito rurale pro capite dovrebbe scavalcare per la prima volta i 10mila yuan, confermando per il quinto anno di seguito un tasso di crescita superiore a quello delle aree cittadine. Tutti fattori che concorrono a polverizzare il vecchio stereotipo delle megalopoli come trampolino per fare carriera.

Stando a quanto evidenzia un’inchiesta della rivista Nanfeng Chuang (bisettimanale di ispirazione riformista e liberale, che si distingue per i suoi reportage, ndr), i giovani sono sempre più disillusi verso la possibilità di rimanere in pianta stabile nei grandi centri. Un maturato pragmatismo li distingue dalla vecchia «tribù delle formiche» che fino a qualche tempo fa ambiva ad amalgamarsi alla popolazione di Pechino, Shanghai o Guangzhou. Per «formiche» intendiamo i laureati fra i 22 ed i 30 anni, dotati di un alto grado di istruzione e di un reddito mediocre, che risiedono in comunità nelle periferie delle grandi metropoli cinesi. Un fenomeno balzato agli onori della cronaca intorno al 2009, quando il gigante asiatico era ancora nel pieno della sua espansione edilizia sulla scia dei Giochi Olimpici ospitati dalla capitale cinese l’anno precedente. A distanza di oltre un lustro, i giovani cominciano a preferire l’ipotesi di un rientro a casa. Un fenomeno che in cinese prende il nome di huixiangchao («corrente di ritorno al villaggio») e che ha motivazioni di ordine economico più che affettivo.

Come evidenzia l’indagine del Nanfeng Chuang – che copre 22 contee lungo la linea Aihui – Tengchong tra la regione dello Heilojiang, nel Nord Est della Cina, e quella dello Yunnan, nel Sud Ovest del paese – nonostante il livello economico e il salario medio nelle varie contee sia molto differente, ovunque i giovani migranti percepiscono uno stipendio più alto della media locale una volta tornati nel luogo d’origine. Questo proprio perché tornano temprati dalle megalopoli, con più esperienza e skills da mettere al servizio della comunità di nascita.

«Le grandi città sono come delle pompe per l’acqua: “risucchiano” la manovalanza in arrivo da villaggi e nuclei urbani di piccole dimensioni, per poi “sputare fuori” le giovani élite delle zone rurali. Grazie al flusso di ritorno di questi ragazzi istruiti, le città di seconda e terza fascia avranno maggiori opportunità di sviluppo», conclude l’inchiesta.

Storia di Tian

Tian Wangfu è originario di Huaihua, città-prefettura dello Hunan, di 340mila anime. Nel 2010 si è laureato in Arte e Design ambientale alla Beijing Forestry University, dopodiché ha trovato lavoro in una società di progettazione vicino a Guomao, il quartiere del business di Pechino. Aveva soltanto un giorno di riposo alla settimana: la domenica. Per comodità aveva affittato un appartamento vicino a Dawang Lu. Ogni giorno impiegava mezz’ora di bici per andare e per tornare. Spartiva con sette persone un appartamento formato da tre camere da letto, un salone, una cucina e un bagno. Tian si era aggiudicato la cucina per 950 yuan al mese; ma la cucina non si poteva chiudere a chiave ed era impossibile trovare un po’ di privacy. Soltanto il pensiero del suo lauto stipendio lo aiutava a stringere i denti. Aveva anche cominciato a valutare l’idea di mettere su famiglia con la sua ragazza, ma il costo delle case lo terrorizzava: «I prezzi di Pechino erano talmente alti che non potevamo nemmeno permetterci di prenderli in considerazione. A Pechino non si può più stare», ha raccontato al Nanfeng Chuang.

Nel luglio 2013, Tian ha deciso di ritornare a Huaihua, dove ha lavorato per sei mesi in una società di progettazione. Questo gli ha permesso di comprendere a fondo le esigenze del mercato locale. Poi lo scorso giugno ha inaugurato ufficialmente uno studio di design tutto suo. Al momento fattura 500mila yuan all’anno. Il suo obiettivo è quello di ampliare la propria attività per poter assumere quegli amici ancora sparsi per la Cina.

Alessandra Colarizi


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Urbanizzazione: Nuova Delhi oltre il limite


I 25 milioni di abitanti della capitale indiana respirano un’aria tra le più inquinate del mondo, superando di molto la stessa Pechino. Per la politica ultraliberista del presidente Modi l’importante è la crescita del Pil. L’aria avvelenata è soltanto un inciampo.

Negli anni, purtroppo quasi sempre a sproposito, si è parlato di testa a testa tra i giganti d’Asia: Cina e India protagoniste dell’economia del nuovo millennio, «il secolo asiatico», due stati-continente espressione di due modelli antitetici di gestione della Cosa pubblica in lotta per la supremazia mondiale.

Ma se per quanto riguarda la potenza economica Pechino e New Delhi (Nuova Delhi) hanno sempre gareggiato – e gareggiano tuttora – in campionati separati (le superpotenze mondiali la prima, i paesi dei miracoli economici la seconda, anche a parità di crescita del Pil), nella poco ambita competizione dell’inquinamento atmosferico lo scorso anno la capitale indiana è stata capace, suo malgrado, di salire sui gradini più alti del podio.

New Delhi e Pechino: testa a testa

New Delhi, benvenuti nella capitale mondiale dell’inquinamento. Così recitavano i titoli della stampa internazionale nel dicembre del 2015, quando la pubblicazione di un rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), stilato prendendo in esame 1600 città campione, per la prima volta tributava alla capitale indiana il primato delle polveri sottili nell’aria, scavalcando la tradizionale capolista Pechino.

Un sorpasso netto e terrificante: non solo i livelli di irrespirabilità dell’aria delhese erano 15 volte quelli fissati dall’Oms, ma triplicavano i valori (vedi box) – già molto preoccupanti – della capitale cinese.

Lo scorso mese di novembre New Delhi è stata stabilmente oltre quota 300 (indice di pericolo), toccando picchi di irrespirabilità vicini a quota 500 in giorni invernali dove la coltre giallognola che tradizionalmente ricopre la città si mostrava particolarmente fitta agli occhi degli oltre 25 milioni di residenti. Picco di un annus horribilis che, complice il battage mediatico internazionale, ha portato all’attenzione dell’amministrazione locale la questione – si vorrebbe – non più rimandabile dell’aria che viene respirata in città.

Misure «innovative»: le targhe altee

Sotto i colpi dell’«emergenza inquinamento» e della psicosi diffusa in città – con tanto di ospedali pubblici congestionati e avvisi alla popolazione per non far uscire anziani, malati e bambini durante le ore peggiori – il governo locale di New Delhi, guidato da Arvind Kejriwal (di Aam Aadmi Party, una sorta di movimento della società civile tramutatosi in partito dalle tinte pentastellate nostrane), ha introdotto un primo periodo di prova di quindici giorni (dal primo al 15 gennaio 2016) per la cosiddetta «odd even rule», le nostre targhe altee.

Una misura inedita nel panorama indiano con l’obiettivo, se non altro, di mostrare all’opinione pubblica un governo «del fare» deciso a combattere l’emergenza irrespirabilità.

Le due settimane di test, molto criticate da chi ha lamentato un sovraffollamento dei mezzi pubblici, hanno senz’altro rappresentato una ventata d’aria fresca nel contesto politico nazionale, risultando in una buona performance di sensibilizzazione popolare sui problemi di salute legati all’inquinamento dell’aria. Ma, ragionano i tecnici, due settimane di targhe altee hanno un impatto miserrimo nel computo generale dell’ambiente locale. Le automobili inquinano, è vero, ma i problemi di Delhi – e dell’India in generale – sono ben altri.

Secondo uno studio pubblicato dall’Indian Institute of Technology (Iit) di Kanpur, basato sulle rilevazioni dell’aria nella capitale tra il novembre del 2013 e il giugno 2014, i gas di scarico delle automobili rappresentano solo il 9 per cento dei Pm 10 e il 20 per cento dei Pm 2,5 nell’aria.

Mentre la più vaga categoria di «polvere stradale» contribuisce rispettivamente al 56 e al 38 per cento dei due tipi di polveri sottili. Conseguenza diretta dello stato pietoso in cui versa gran parte del manto stradale cittadino, al quale si aggiungono i detriti e la terra – o sabbia – trasportati dal vento provenienti dalle zone aride delle campagne circostanti (negli stati di Haryana e Uttar Pradesh). Per ridurre del 50 per cento gli effetti dannosi della «polvere stradale» basterebbe – d’obbligo il condizionale, poiché non si sta ancora facendo – bagnare le strade una volta a settimana.

In aggiunta, altre componenti tossiche arrivano dai roghi di rifiuti domestici, pratica comune nel subcontinente, dai foi tandoor utilizzati per cucinare in gran parte dei ristoranti e delle bettole cittadine, dalle betoniere artigianali e dai generatori d’energia elettrica a diesel, la soluzione autoctona alla penuria di potenza elettrica installata nazionale e ai conseguenti – non infrequenti – blackout.

Sempre secondo lo stesso studio, i livelli di concentrazione di Pm 10 e Pm 2,5 per metro cubo d’aria d’estate e d’inverno raggiungono picchi spaventosi. Considerando che la soglia di salubrità dovrebbe essere 2 micron per metro cubo, le tabelle dell’Iit di Kanpur mostrano concentrazioni medie fino a 1200 micron per metro cubo d’inverno, oltre 500 d’estate.

Il problema, insomma, ha dimensioni enormemente più vaste del traffico stradale cittadino, soprattutto in una congiuntura storica e politica che vede il sistema India lanciato verso nuovi sforzi di crescita.

La politica ultraliberista di Modi

L’impulso per una ripresa della rincorsa al colosso cinese, in campo economico, è arrivato dalla vittoria schiacciante alle ultime elezioni nazionali del 2014 della coalizione di destra conservatrice guidata da Narendra Modi, esponente del Bharatiya Janata Party (Bjp). La parola d’ordine, da allora, è stata vikas: quel progresso, in hindi, che NaMo ha promesso di portare in tutta la Repubblica seguendo il modello di sviluppo già applicato nella propria precedente esperienza amministrativa a capo del governo locale del Gujarat. Un miracolo economico (crescita media del Pil all’8 per cento in otto anni di reggenza, due mandati) fatto di infrastrutture, svendita di terreni agricoli a multinazionali, incentivi statali per attirare i tanto agognati Foreign direct investments di cui l’India ha disperato bisogno per crescere. In una parola: ultraliberismo.

In un contesto simile, quando l’India si sta preparando a diventare la nuova «fabbrica del mondo», le questioni di carattere ambientale diventano materia di discussione risibile, se non direttamente affrontata con fastidio. Ne è stato esempio plastico l’approccio indiano alla conferenza sui cambiamenti climatici Cop21 tenutasi a Parigi nel dicembre del 2015.

Mentre le potenze mondiali si riunivano alla ricerca di un accordo che limitasse le emissioni di gas serra in uno sforzo globale a tutela dell’ambiente, la delegazione indiana – esprimendo opinione condivisa da molti paesi in via di sviluppo – dichiarava all’Huffington Post India: «Non abbiamo intenzione di scusarci per il nostro utilizzo di carbone. L’America e il mondo occidentale si sono sviluppati per gli ultimi 150 anni grazie all’energia a basso prezzo derivata dal carbone. E grazie a questa “energia low cost” si sono costruiti le loro autostrade, le loro ferrovie, le loro fabbriche, i loro laboratori e improvvisamente tutta la loro gente ha un lavoro, ha una casa, il loro Pil pro capite supera i 70mila dollari all’anno e la loro crescita è ferma a zero. E adesso hanno lo stomaco di chiedere al resto del mondo “per favore, non crescete. Se crescete tutti alla velocità dell’India, cosa ne rimarrà di noi e dei nostri paesi?”».

A sostegno della posizione indiana, piace citare un dato – vecchiotto in realtà (è del 2012), riportato dal Financial Times qualche giorno prima del Cop21 – relativo alle emissioni pro capite globali: l’India contribuiva a un «misero» 1,6 tonnellate di diossido di carbonio a persona, contro le 7,1 cinesi e le 16,4 statunitensi. Solo che in India ci vivono 1,2 miliardi di persone, e stiamo parlando di una stima al ribasso, proiettata a sfondare la soglia di 1,5 miliardi entro il 2020. E nulla lascia intendere che a un incremento demografico corrisponderà una diminuzione dell’inquinamento.

L’aria non conta nulla

Con proiezioni di crescita del Pil stimate al 7 per cento – primo paese tra le economie emergenti, nonostante l’aritmetica della stima sia fortemente dibattuta agli analisti – questa seconda metà degli anni Dieci per l’India non è proprio il momento adatto per porsi problemi «da primo mondo».

Da un lato si promuovono quindi soluzioni altisonanti e sul lungo termine – dalla catastrofica campagna Swacch Bharat (India Pulita) alla proposta di un’«alleanza globale solare» per il potenziamento dell’energia solare dei paesi situati tra il tropico del Cancro e del Capricorno, che dovrebbe vedere il proprio quartier generale amministrativo proprio a New Delhi – ma dall’altro, inevitabilmente, si continua a far finta di nulla, perseguendo l’obiettivo del progresso ad ogni costo. Anche al costo dell’aria che si respira.

A riprova della dimensione nazionale del fenomeno, lo scorso 12 maggio la stampa indiana ha euforicamente accolto un nuovo rapporto dell’Oms sull’inquinamento dell’aria nelle città del mondo.

Titolo: «New Delhi non è più la capitale dell’inquinamento». Occhiello: «Zabol, in Iran, è la nuova città più inquinata della Terra. Giubilo delle amministrazioni e rivendicazioni di bontà dell’esperimento “odd even rule” da parte del “sindaco” Kejriwal». Ma, come spesso succede, c’è il trucco.

Il nuovo rapporto ha preso in esame altre 1.400 città da 103 paesi, portando la base del sondaggio a un totale di 3.000 centri urbani. New Delhi si attesta in tredicesima posizione. Ma il posizionamento nazionale nella classifica rimane allarmante: nelle prime venti città più inquinate al mondo (riferimento alla concentrazione di Pm 2,5 nell’aria), dieci si trovano in India, il paese più rappresentato assieme alla Cina (quattro città, e non c’è Pechino, in 56esima posizione).

Matteo Miavaldi


Gli indici d’inquinamento

La misurazione dei livelli di insalubrità dell’aria analizza la quantità di polveri sottili, ozono, diossido di azoto e anidride solforosa per metro cubo d’aria, secondo le linee guida dell’Oms (Air Quality Guidelines, Aqg) stilate nel 1987 e aggiornate nel 1997.

Le polveri sottili, in particolare, si dividono in due tipi: Pm 2,5 (particelle grandi fino a 2,5 micron) e Pm 10 (fino a 10 micron). Entrambe le particelle sono responsabili delle complicazioni di carattere medico legate all’esposizione ad ambienti inquinati: tosse, crisi respiratorie, infezioni polmonari o estese, nel caso riescano a trovare le vie sanguigne dai polmoni. Patologie che, secondo l’American Association for the Advancement of Science (AAAS), solo in India uccidono 1,3 milioni di persone all’anno.

Le tabelle di riferimento utilizzate in tutto il mondo per misurare l’inquinamento dell’aria si riferiscono alla concentrazione degli agenti tossici elencati sopra, individuando per convenzione sei categorie distinte: buona (da 0 a 50), moderata (da 51-100), insalubre per categorie sensibili (anziani, bambini, donne incinte, malati, da 101 a 150), insalubre (da 151 a 200), molto insalubre (da 201 a 300), pericolosa (da 301 in su).

Ma.M.


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Urbanizzazione


A maggio, dopo 36 anni di assenza, a Pyongyang è tornato a riunirsi il congresso del Partito dei lavoratori. Il regime ha aperto le porte ai giornalisti stranieri, anche per mostrare lo sviluppo urbanistico della capitale nordcoreana. Una cosa è apparsa a tutti chiara: anche nella Corea comunista di Kim Jong Un i ricchi ci sono. E spendono.

Da un paio di anni su Youtube circola un video che, almeno negli intenti, vuole essere un inno alla bellezza di Pyongyang, la capitale nordcoreana. Accompagnate da una musica struggente, le immagini, per una decina di minuti, guidano lo spettatore, come se fosse in auto, per le strade e le architetture della città illuminata.

Benvenuti a Pyonghattan. Il termine, una crasi con Manhattan, ha fatto capolino nei titoli di quotidiani e riviste. Tanto più in occasione del settimo congresso del Partito dei lavoratori coreano (6-9 maggio 2016), il primo in 36 anni. Per l’occasione il regime ha aperto le porte ai giornalisti stranieri. Tenuti fuori dall’appuntamento che ha ufficializzato l’ascesa al potere del giovane Kim Jong Un (del quale, peraltro, hanno dovuto seguire in differita le oltre tre ore di discorso), i cronisti e gli inviati hanno comunque avuto occasione di girare per la capitale e riportare le ormai consuete «rare» pillole di vita nordcoreana.

Trasformazione urbana

I più assidui frequentatori del paese non hanno mancato di notare i cambiamenti e lo sviluppo nello skyline della città. Crescono i palazzi di 20 e più piani, scrive l’inviato della Reuters, nel confrontare la capitale di maggio con quella vista a ottobre del 2015. Mirae Scientists Street è uno degli esempi della trasformazione urbana in corso: il viale che corre lungo il fiume Taedong è costeggiato da palazzoni in blu e in rosso (che sono anche i colori della bandiera nordcoreana), i cui appartamenti sono stati assegnati a scienziati, ingeneri e insegnanti. La strada è stata inaugurata lo scorso ottobre. Per la stampa di regime è «una struttura di cui andare fieri nella gloriosa era di Kim Jong Un».  Motivo per il quale è diventata anche una delle tappe del tour deciso dal regime per i giornalisti accorsi a Pyongyang per l’assise del Partito, assieme a una fabbrica di cavi elettrici e a un complesso scientifico.

Il prossimo traguardo, annunciato lo scorso 18 maggio dall’agenzia Kcna, sarà la costruzione di Ryomyog Street. Il nome significa «lì dove l’alba incontra la rivoluzione coreana». Secondo quanto riportato, pare che lo stesso Kim ritenga l’area adatta a veder sollevarsi in alto i grattacieli: «Non si tratta semplicemente di costruire un viale» ha detto il Brillante compagno, «è una chiara occasione per mostrare lo spirito della Corea contro ogni sorta di sanzioni e pressioni degli Stati Uniti imperialisti e dei loro alleati».

Il mutamento della città sembra quindi non risentire delle sanzioni inteazionali imposte in risposta ai test atomici e balistici condotti dal regime a gennaio e febbraio, seguiti da mesi di minacce e tensioni che hanno anticipato l’inizio del Congresso.

Il ruolo dei «signori dei soldi»

«Le costruzioni sono l’ennesima evidenza del crescente ruolo dell’economia di mercato», può pertanto commentare la Reuters. E, in un certo senso, non gli si può dare torto. La vivacità del mercato immobiliare di Pyongyang è merito dei donju. Sono i «signori dei soldi» spuntati già da una decina di anni, i cui investimenti stanno favorendo i progetti immobiliari e le costruzioni. A loro modo svolgono anche il compito di broker e agenti immobiliari, animando un mercato privato che scavalca le procedure di assegnazione degli alloggi basato sulla professione.

Chi ha soldi, scrive il coreanista russo Andrey Lankov, può trovare qualcuno disposto a vendergli casa. Ci si trova in una zona grigia, un po’ come per quanto avviene nei mercati semi legali, tollerati ma non normati, germoglio di economia di mercato nella Repubblica democratica popolare in cui trovare pc, telefonini, prodotti sudcoreani, merci d’importazione dalla Cina. È comunque un mondo ancora ristretto alle élite.

Pyonghattan, ha sottolineato Anne Fifield sul Washington Post, è la città dell’1 per cento della popolazione, «un universo parallelo per i ricchi figli della Corea del Nord». I prezzi degli immobili sono in aumento. Secondo uno studio del professore Jung Eun-lee dell’Università Gyungsang, le «proprietà di prestigio» possono arrivare a valutazioni sino a 150mila dollari. In media ci si aggira attorno ai 70mila dollari. I prezzi scendono invece quando ci si sposta dalla capitale. E le transazioni avvengono in valuta pesante, principalmente in dollari statunitensi. Da alcuni anni è anche in funzione un ufficio del governo per la gestione degli immobili, apparentemente un modo per normare gli scambi.

In un’analisi del 2014 il professor Lankov era già entrato nei dettagli di questo «mercato». Teoricamente i nordcoreani hanno la possibilità, se non di vendere e acquistare casa, almeno di scambiarsela, pur con alcune restrizioni territoriali. La scorciatornia per pompare il mercato è ricevere in cambio case con un valore inferiore alla propria, compensando la differenza in soldi (cui poi vanno aggiunte anche possibili stecche ai funzionari che seguono la registrazione dell’accordo).

A sostenere il mercato c’è inoltre l’interesse degli stranieri per il real estate nordcoreano. Per molti è uno dei pochi investimenti sicuri nel paese, portato avanti con contratti di lunga durata, anche oltre i 20 anni, con l’obiettivo di cogliere le opportunità che potrebbero spuntare nell’eventualità di una reale riforma e apertura economica.

Le «aperture» di Kim Jong Un

Dalla sua salita al potere, alla morte del padre Kim Jong Il nel dicembre del 2011, il poco più che trentenne Kim Jong Un pare abbia voluto incoraggiare lo sviluppo del settore immobiliare. Tale interesse rientra nel processo di apertura economica, che pur non nella direzione di una riforma sul modello cinese e vietnamita, sta prendendo piede a piccoli passi, anche se al termine del Congresso nessun vero cambiamento è stato annunciato. Ma è stato lanciato un piano quinquennale che potrebbe presupporre mobilitazioni di massa per sostenere la crescita economica del regime.

Il comparto delle costruzioni è diventato uno dei motori di crescita della Corea del Nord negli ultimi anni. Fermi restando i valori assoluti, che indicano un paese in difficoltà, nel 2014 il prodotto interno lordo nordcoreano, secondo i dati della Bank of Korea, la banca centrale del Sud, è cresciuto dell’1 per cento, in leggera flessione rispetto al +1,1 per cento fatto registrare nel 2013. Dalla contrazione del 2010 si è passati a quattro anni di crescita; modesta, ma pur sempre di crescita. In questo contesto le costruzioni sono cresciute dell’1,4 per cento, in ripresa dal declino dell’anno precedente, sfruttando soprattutto la realizzazione di impianti e strade.

L’importanza data al comparto emerge anche dalla sorprendente copertura data dalla stampa ufficiale al crollo di una palazzina in costruzione a marzo del 2014, nel quale si ritiene siano morte decine di persone. Gli articoli indicavano precise responsabilità per il disastro, evento più unico che raro quando queste rischiano di ricadere sul governo.

All’epoca, gli esperti di Choson Exchange, organizzazione non governativa singaporiana specializzata nella formazione imprenditoriale in Corea del Nord, lessero la reazione della stampa come un tentativo del regime di mostrarsi pronto a prendersi le proprie responsabilità, presentandosi comunque fautore del progresso economico del paese, che nelle intenzioni di Kim deve correre di pari passo con il rafforzamento delle proprie capacità militari e del deterrente nucleare.

Costruire verso l’alto

Lo sviluppo urbano nordcoreano, sottolineano quelli di Choson Exchange in un’analisi più recente, si muove lungo quattro direttrici. La prima è il cambiamento stesso nelle costruzioni: ai blocchi di palazzine basse tra gli anni Sessanta e Ottanta del secolo scorso, si è passati a complessi monumentali che svettano verso l’alto. La seconda considerazione da fare è proprio il ruolo delle entità non statali coinvolte nei progetti di sviluppo residenziale: se dovessero arrivare norme che favoriscono gli investimenti esteri nell’immobiliare, si arriverebbe alla sperimentazione di nuovi modelli di sviluppo e di finanziamento.

Un fattore che va letto assieme all’autonomia di pianificazione concessa ai diversi quartieri, in accordo con le linee guida statali. L’ultima direttrice è la collaborazione e i consorzi che possono mettere assieme esperti di design, ingegneri e costruttori e dar vita a entità capaci diversificare l’ambiente urbano. Prima di tutto nella capitale.

Andrea Pira


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Questo dossier è stato firmato da:

  • Gabriele Battaglia – È milanese e vive a Pechino. Corrisponde per Radio Popolare, collabora con Il Venerdì di Repubblica e con le altre testate a cui China Files, di cui è direttore, fornisce contenuti. Ha scritto per Asia Times e altri media in lingua inglese. È autore dell’e-book «Fucili contro Burma» (2014, con Nicola Longobardi) e del documentario «Inside Beijing» (2012, con Claudia Pozzoli). Per MC ha pubblicato un reportage sul Myanmar nell’agosto-settembre 2014.
  • Alessandra Colarizi – Bazzica l’Estremo Oriente dal 2005, anno in cui decide di chiudere per sempre i tomi di diritto privato e aprire quelli di lingua cinese. Ha una predilezione per il «Far West» cinese, le repubbliche centroasiatiche e la nuova Via della Seta.
  • Matteo Miavaldi – Sinologo emigrato nel subcontinente indiano, è caporedattore di China Files e collaboratore da New Delhi per il Manifesto. Vive in India dal 2011 ed è autore di «I due marò. Tutto quello che non vi hanno detto», edizioni Alegre. Per East online dal 2013 tiene il blog «Elefanti a parte».
  • Andrea Pira – Laureato in Lingue e civiltà orientali alla Sapienza, ha scritto di Asia per l’agenzia Ntnn, il Riformista e per il web magazine l’Interprete internazionale. Ha imparato il mestiere del giornalismo al desk di Lettera 22. Si occupa di Cina per MilanoFinanza. Per MC ha pubblicato un reportage sulla Corea del Nord nel luglio 2013.
  • A cura di: China Files e Paolo Moiola (redazione MC).

 




Misericordia e


I Missionari della Consolata, testimoni di Misericordia e Con•sol•azione. Racconti di esperienze vive da Taiwan, dall’Angola nelle immense periferie della capitale, dalla diocesi di Noto in Sicilia e dal Venezuela a Carapita e Tucupita.


1. Nell’Anno della Misericordia e nel mese della Consolata

Consolatori in azione

Protagonisti di queste pagine non sono i soliti missionari di origine italiana, ma una nuova generazione di giovani africani, latinoamericani e asiatici. Sono loro i nuovi servi della «consolazione» realizzata tramite opere di misericordia concrete e senza confini.

La foto di apertura di questo dossier è stata scattata nel 2015 in Kenya, nella missione di Wamba. Al centro, dietro tutti e più alto di tutti, c’è padre Mathews Owuor Odhiambo; attorno a lui donne samburu e turkana felici di posare con giovani cinesi di Taiwan. Un avvenimento speciale questo, perché non riguarda i soliti turisti dall’Asia, ma un gruppo missionario che si sta formando a Hsinchu, vicino a Taipei, attorno a due missionari della Consolata, un kenyano (padre Mathews appunto) e uno spagnolo, che dal 2014 studiano cinese per iniziare una nuova presenza missionaria a Taiwan.

Non è certo una notizia da prima pagina, ma è significativa di una nuova realtà missionaria che sta crescendo. Una realtà che chiede occhi nuovi per essere vista. Io stesso mi sono reso conto della novità proprio solo alla conclusione del lavoro redazionale su queste pagine. La mano di Dio misericordioso continua a scrivere nella storia degli uomini con penne e matite nuove: i giovani delle Chiese del Sud del mondo.

Quanto vi offriamo è in parte già stato pubblicato in «Da Casa Madre», una rivista intea del nostro Istituto, ed è frutto anche dell’instancabile peregrinare del superiore generale, padre Stefano Camerlengo, che, accompagnato dai superiori locali, in questi anni ha quasi fatto il giro del mondo per visitare tutti i suoi missionari dall’Argentina alla Mongolia, dal Sudafrica all’Inghilterra, dal Canada a Taiwan, su è giù attraverso ventitré nazioni diverse.

Da queste pagine esce un messaggio di speranza e di vitalità senza pari, antidoto allo scoraggiamento che prende un po’ noi cristiani europei che stiamo assistendo alla scristianizzazione del nostro continente. Il titolo Con•sol•azione l’abbiamo rubato ai ragazzi di una nostra scuola secondaria in Colombia dedicata alla Consolata. Per la festa della loro scuola hanno scelto, cantato e ballato lo slogan «Con sol acion» (con sola azione). Un bel modo per dire che la fede non è teoria ma carità in azione nello stile «consolatino».

Gigi Anataloni


2. Taiwan: dire «Consolata» in cinese

Cambiare il nome ma non il cuore

L’apertura di una nuova presenza missionaria a Taiwan ha portato una grossa novità per il nostro Istituto: per la prima volta1, infatti, abbiamo dovuto rinunciare a presentarci ufficialmente come Missionari della Consolata, ovverosia con il nome della nostra patrona così com’è, senza traduzioni. I nostri primi missionari a Taiwan, sul posto dal 2014 e ancora alle prese con il lungo tirocinio dell’apprendimento del cinese, ci spiegano il perché.

Per esistere come congregazione religiosa a Taiwan è necessario assumere un nome che si possa scrivere mediante gli ideogrammi, perché su tutti i documenti ufficiali esso viene riportato in caratteri cinesi. Due opzioni sono possibili:

  • si individua un nome che conservi il suono originale «Consolata»;
  • si esprime «Consolata» con una parola cinese che ne rispetti il significato.

Il vescovo della diocesi di Hsinchu, dove ci troviamo, ci ha presentato sin da subito la necessità di trovare un nome cinese per il nostro Istituto, ma ci ha lasciati liberi di decidere su quale delle due vie seguire.

Siccome il fondatore, il beato Giuseppe Allamano, desiderava che il titolo della nostra Madre venisse conservato inalterato in tutte le lingue (così è stato fatto in tutti i paesi in cui siamo presenti), abbiamo subito pensato che la prima opzione fosse la più adatta e abbiamo chiesto a varie persone come si potesse rendere il suono «Consolata» con i caratteri cinesi. Qui la prima grande sorpresa: siccome la lingua cinese non è fonetica, non è possibile riprodurre fedelmente per iscritto il suono «Consolata», ma soltanto trovare un termine che si pronunci in modo simile: cioè «Cansulata» o «Consoulata».

La ragione principale che ci ha portati a propendere per la seconda opzione è stata però di natura pastorale: ci siamo accorti, parlando con i fedeli che conoscono l’inglese, che quando il nostro Istituto veniva presentato, la gente non sentiva nemmeno il termine «Consolata», che per i cinesi non aveva alcun significato. La scrittura cinese contiene in ogni carattere il senso di ciò che viene espresso, per cui quando le persone leggono un nome, istintivamente vi cercano un significato e, se non lo trovano, passano semplicemente oltre. La lingua cinese, poi, è il grande principio di unità di tutto un popolo, perché si scrive in un unico modo pur venendo pronunciata differentemente a seconda dei vari dialetti locali. Se avessimo scelto un ideogramma che nel cinese classico riproduce il suono «Consolata», quando andassimo nel Sud di Taiwan, dove si parla il Taiwanese, potremmo trovarlo pronunciato in un modo diverso, che magari non ricorderebbe nemmeno da lontano il suono del nome della nostra Madre.

Dopo esserci consultati con il vescovo, con le nostre insegnati di cinese, con preti locali e missionari stranieri, ci siamo seduti attorno a un tavolo per cercare di disceere quale fosse la vera fedeltà al desiderio del fondatore e alla tradizione del nostro Istituto: mantenere un nome privo di significato per la gente e che sarebbe stato soggetto a varie storpiature o trovare un nome che esprimesse in modo comprensibile la consolazione che Maria ha ricevuto da Dio, cioè suo figlio Gesù, e che, tramite i suoi missionari, offre al mondo?

Ci è sembrato che il contesto in cui ci trovavamo ci conducesse verso la seconda opzione. Abbiamo quindi presentato i frutti del nostro discernimento ai superiori a Roma che hanno approvato e dato il via libera affinché assumessimo il nome cinese che meglio esprime chi siamo nella lingua e nella cultura locali.

Siamo contenti di avere un nome cinese, ? ??? Shan Mu Shen Wei, che letteralmente significa «Santa Madre della Consolazione divina» e che rende il nostro Istituto un po’ più vicino a questa gente e a questo mondo.

Eugenio Boatella e Mathews Odhiambo

Note

  1. 1. Già una volta l’Istituto aveva dovuto rinunciare al nome di «Consolata». Lo aveva fatto nel 1971 quando, per rientrare in Etiopia (da cui era stato cacciato nel 1942 con le forze coloniali italiane), aveva dovuto mandare i suoi come «Missionari di Fatima».

Taiwan, perché?

La decisione di aprire la missione di Taiwan è frutto del discernimento congiunto della Direzione Generale Imc e dei missionari della Consolata presenti nel continente asiatico.

Le ragioni che hanno portato a questa scelta sono molteplici. Innanzitutto, il desiderio da tempo coltivato di avvicinarci al mondo cinese, alla sua cultura e al suo profondo universo spirituale. Taiwan è oggi un terreno estremamente fertile per crescere nella dimensione missionaria del dialogo interreligioso. In secondo luogo, ha influito sulla nostra scelta la vicinanza alle altre due nostre presenze, Corea del Sud e Mongolia, che permette ai nostri missionari di lavorare in una prospettiva continentale, riunendosi per incontri formativi o di rinnovamento spirituale e per valutare e pianificare insieme la missione. Infine, alcune altre caratteristiche che ci hanno convinto della bontà di questa opzione: la lingua ufficiale dell’isola, ovvero il cinese mandarino, che è anche l’idioma più parlato nella Cina continentale e nel mondo; l’accoglienza da parte del governo e della chiesa locale, che semplifica le pratiche burocratiche per stabilire una comunità sul posto; il grande bisogno di personale della chiesa stessa dopo l’esaurimento del boom dovuto alla grande immissione di personale religioso che, fuggendo dal continente, trovava rifugio sull’isola negli anni immediatamente successivi alla rivoluzione cinese.

Oggi la chiesa locale non ha personale autoctono sufficiente a garantire l’assistenza pastorale ai pochi cattolici dell’isola (sono meno di trecentomila persone su una popolazione complessiva di circa 23 milioni di abitanti), ma grazie alla presenza di tanti missionari e missionarie provenienti da altre parti del mondo può portare avanti il lavoro di evangelizzazione ad gentes e di promozione sociale di qualità e con autorevolezza.

È il caso della diocesi di Hsinchu, dove i nostri primi missionari sono arrivati nel settembre 2014 e dove sono tutt’oggi totalmente impegnati nello studio della lingua cinese. A poca distanza dalla capitale Taipei, Hsinchu è una cittadina fiorita intorno a grandi industrie dell’informatica e laboratori manifatturieri. Molti dei prodotti «made in Taiwan» passano per questa località, che è anche sede di uno dei più importanti Politecnici del paese. Grande è la presenza di migranti, provenienti in particolare da Filippine, Thailandia e Vietnam. Molti di loro sono cattolici e vengono assistiti spiritualmente e pastoralmente dall’attiva rete ecclesiale organizzata dal vescovo locale, mons. John Baptist Lee, ben contento di aggiungere alla sua squadra anche una piccola comunità missionaria come la nostra. Ai padri Eugenio Boatella e
Mathews Odhiambo, a Hsinchu sin dagli inizi della nostra missione, si aggiungeranno ben presto altri due missionari che stanno completando il loro periodo di preparazione alla missione in Asia.

Ugo Pozzoli


3. Angola: un paese che stenta a ritrovarsi, tuttavia… in cammino

Rinascere dopo 500 anni

Un passato che non cancella le sue tracce; un paese dilaniato dalla guerra che stenta a riconoscersi; un’identità nascosta che si affaccia con timidezza: vi presentiamo l’Angola, il paese dove i missionari della Consolata hanno iniziato una nuova avventura nel 2014.

Nel 1961 l’Angola inizia il suo difficile cammino verso l’indipendenza dal Portogallo con rivendicazioni intee di carattere anti coloniale che provocano l’instaurazione di un regime repressivo su tutto il territorio da parte del governo di Lisbona. Nel 1975 finalmente ottiene l’indipendenza, ma una feroce guerra civile l’attende dietro l’angolo.

Due sono le fazioni contrapposte: l’esercito governativo del Movimento popolare per la liberazione dell’Angola (Mpla) e le forze ribelli dell’Unione nazionale per l’indipendenza totale dell’Angola (Unita). L’Mpla da sempre appartenente al blocco dell’allora Unione sovietica e alleato di Cuba, l’Unita appoggiata dalle maggiori nazioni del mondo industrializzato occidentale (Usa in testa) e dal Sudafrica.

Solo nel 2002 la corsa al controllo delle immense ricchezze del paese ha termine lasciandolo in ginocchio. I giochi di potere fanno il loro corso con una divisione «equa» del governo e della gestione delle risorse: all’Unita il controllo sul mercato dei diamanti, all’Mpla l’egemonia petrolifera.

Luanda, specchio del paese

Petrolio e diamanti continuano a essere ancora oggi l’unica attrattiva economica per l’estero. La stratificazione sociale è solo un vago ricordo: oggi si vive nelle favelas o negli occidentalissimi quartieri residenziali di Luanda. Il colosso Cina sta gettando le sue reti: l’Angola è il primo esportatore di petrolio in quel paese. Le multinazionali fanno da padrone a braccetto con un governo ancora fortemente corrotto. Mentre il flusso di denaro continua a scorrere «dal basso verso l’alto», sfidando ogni legge fisica, circa l’80% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà.

La guerra civile ha prodotto una crescita abnorme delle periferie. Quelle di Luanda sono uno specchio dell’evoluzione del paese negli ultimi anni: più è cresciuta l’economia e più si è accentuato il divario tra le classi sociali. Nelle periferie vive la maggioranza della popolazione, ma le condizioni di vita sono disastrose: servizi sanitari e scuole di tutti i livelli insufficienti, mancanza di acqua potabile, fognature inesistenti, energia elettrica incostante,  trasporti  pubblici  disastrosi,  disoccupazione, assenza di spazi per lo sport e il divertimento, delinquenza, spazzatura accumulata… e la lista potrebbe continuare.

Luanda è la capitale politica dell’Angola e tutte le istituzioni dello stato hanno qui le loro sedi. Il parlamento, il palazzo presidenziale e i vari ministeri sono tutti nel «centro» della città (gli antichi rioni attorno alla baia), dove hanno sede anche le principali imprese e una miriade di uffici amministrativi e commerciali. A Luanda funzionano le uniche industrie del paese. Fino al 2002, anno della fine della guerra civile, queste si limitavano ad attività legate al petrolio, alla trasformazione di prodotti agricoli, bevande, cemento, costruzioni civili, meccanica. In questi ultimi anni si sono moltiplicati gli investitori (esteri, ma anche nazionali) che stanno mutando il volto industriale della città. A fare da padrone è il settore petrolifero, ma anche quello dei diamanti, al secondo posto nelle esportazioni, stimola investimenti e occupazione: esiste una fabbrica di taglio dei diamanti e un’altra è in costruzione.

Luanda è anche la capitale culturale: vi funziona l’Università statale, intitolata ad Agostinho Neto, primo presidente. Negli ultimi anni sono state aperte varie università private, tra cui spicca quella cattolica. I principali assi stradali partono da Luanda, e la collegano alle province del paese. In questi ultimi tempi, grazie a crediti e investimenti stranieri, soprattutto cinesi, è stato fatto un notevole sforzo per rimettere a nuovo la rete stradale. La popolazione di Luanda non ha smesso di crescere e in 30 anni si è moltiplicata di 9-10 volte.

L’arte di arrangiarsi

Chi si dedica al commercio spesso non ha un locale adatto allo scopo, così, spesso sacrifica una parte della propria abitazione per ricavare un esiguo negozio, o utilizza una struttura precaria nella propria via di fronte a casa. Ci lavora il capofamiglia, ma anche i figli danno una mano. Il problema maggiore è il finanziamento necessario per acquisire la merce; il settore informale non ha accesso al credito bancario, e la gestione dei ricavi dell’attività è molto approssimativa.

Nei quartieri poveri si comincia a lavorare già a 11-12 anni, e il luogo di lavoro più frequente è la strada. Sono varie le ragioni che spingono un (o una) adolescente verso un lavoro di strada: necessità di pagarsi le spese per la scuola (libri e quadei) e la relativa retta mensile, quando i genitori non ne hanno i mezzi; comprare i capi di abbigliamento, secondo la moda del momento; comprare telefonino e scheda di ricarica; aiutare un fratello o una sorella più piccoli, o i genitori se per malattia non possono lavorare. Un lavoro tipicamente femminile è la zunga, cioè la vendita ambulante, trasportando sulla testa, in una bacinella o in una scatola i propri prodotti. Le zungueiras percorrono ogni giorno chilometri e chilometri. I ragazzi si stanno adattando a questo lavoro: quando escono da scuola ricevono della merce da un negoziante e percorrono le vie o le fermate dei taxi, e alla sera dividono il guadagno con il fornitore.

Sono migliaia le persone che passano, a piedi o nei taxi collettivi, e c’è possibilità di vendere loro l’acqua fresca, in sacchetti di plastica, o una bibita ghiacciata, o una salviettina agli autisti di taxi o di camion, per asciugarsi il sudore e pulirsi dalla polvere che sovrasta perennemente le strade di Kilamba, una delle periferie di Luanda. Fuori dai magazzini ci sono altri lavoratori: i roboteiros, i conducenti di grosse carriole di legno, con ruota recuperata da una macchina, che trasportano le scatole e i sacchi di prodotti che la gente ha comprato all’ingrosso per poi rivenderli al dettaglio nei loro negozietti.

Ci sono anche giovani che scaricano la merce dai camion e la ripongono nei magazzini. Al mercato s’incontrano molti ragazzi occupati: c’è chi segue i potenziali acquirenti per vendere sacchetti di tutti i tipi in cui riporre le compere; ci sono le ragazzine che aiutano la mamma a preparare piatti a buon mercato e altre che passano tra le bancarelle proponendo uova sode o gelati; ci sono i kinguila, i cambiavalute, perché il dollaro continua a circolare insieme alla moneta locale. Ci sono i matoxeiros, una turbolenta categoria di mediatori tra il cliente e il venditore; ci sono i motoqueiros, che foiscono il servizio di moto-taxi. Nessuno rimane con le mani in mano, e la sera tutti hanno qualcosa in tasca.

Una Chiesa confusa

La Chiesa cattolica, presente in Angola da più di cinquecento anni, è considerata un’istituzione prestigiosa e mantiene rapporti molto stretti con le autorità governative. Troppo stretti, secondo alcuni osservatori. Sembra che alla vigilia delle ultime elezioni, i politici al potere abbiano voluto ingraziarsi i vescovi locali, offrendo loro generosi regali. «Ci hanno donato delle automobili», ammette senza imbarazzo un vescovo che abbiamo incontrato. «Le abbiamo accettate, dopo avee discusso tra noi, precisando a chiare lettere che non avremmo mai rinunciato alla nostra incondizionata libertà di parola». Decisione «inopportuna e rischiosa», mormorano a denti stretti alcuni religiosi.

Gli equilibrismi diplomatici delle alte gerarchie ecclesiali, chiamate necessariamente a confrontarsi e a collaborare con lo stato, non oscurano la straordinaria opera sociale e pastorale svolta dalla Chiesa cattolica in Angola. Dalle sterminate bidonville della capitale fino ai più isolati villaggi dell’interno, centinaia di suore e sacerdoti portano avanti ogni giorno una battaglia silenziosa e risoluta in favore dei poveri.

«Ci sforziamo di spargere semi di speranza in una società sempre più spietata che non concede spazio agli ultimi», spiega un missionario, impegnato da anni accanto ai giovani angolani. «Il 60% della popolazione ha meno di 15 anni», ricorda. «Le nuove generazioni sono però attratte dall’illusione dei soldi facili, dal miraggio del consumismo sfrenato, dalle vetrine lucenti delle boutique alla moda. L’arricchimento materiale dell’Angola si sta accompagnando a un drammatico impoverimento morale. Dobbiamo aiutare i giovani a percorrere una nuova strada».

Oggi i missionari gestiscono innumerevoli scuole, spazi ricreativi, centri di formazione, oratori, rifugi per ragazzi di strada. «Sono fragili scialuppe di salvataggio in un mare tempestoso», avverte un missionario. «La guerra ha distrutto molte famiglie, disperso interi villaggi, gonfiato le periferie di deslocados, gli sfollati delle campagne… La gente fa sempre più fatica a tirare avanti». La criminalità è diffusissima, furti e rapine sono il pane quotidiano delle gang giovanili.

«Terra di Maria»

I grandi navigatori ed esploratori portoghesi, prima di allontanarsi dalla patria, promettevano alla Vergine di diffondere il suo culto tra tutti i popoli con i quali avrebbero stabilito contatti. Così, quando i primi portoghesi, nel sec. XV, misero piede nel territorio del Regno indigeno del Congo-Angola, eressero numerose chiese e cappelle, sia pure molto modeste.

L’Angola venne chiamata «Terra di Maria» fin dai tempi in cui i primi missionari portoghesi, qui arrivati il 29 aprile 1491, costruirono subito una chiesetta intitolata a Nossa Senhora Santa Maria. Oggi in Angola si contano non meno di 100 chiese e cappelle dedicate alla Madre di Dio. Tra le principali ricordiamo: il santuario Nostra Signora di Fatima, inaugurato nella capitale Luanda dai Cappuccini nel dicembre 1964, e Nostra Signora di Nazaré, sempre a Luanda; il santuario Nostra Signora da Muxima e Madonna degli Angeli nella Provincia di Bengo; al centro del paese, a Nova Lisboa, si trova un altro santuario dedicato a Nostra Signora di Fatima; e al Sud, a Sá da Bandeira, il Santuario della Montagna (do Monte). E ben nove delle undici cattedrali del paese sono oggi intitolate alla Madonna: a Luanda, Huambo, Malanje, Luso, Uije, Benguela, Saurino, Novo Redondo e Njiva.

È da notare che tutti questi edifici sacri venivano costruiti per provvedere all’aumento continuo dei cristiani che già verso la fine del sec. XV erano più di 20.000. Oggi i cattolici rappresentano il 55% della popolazione.

I cristiani qui chiamano da sempre affettuosamente la Vergine Mama Nzambi (Madre di Dio) e incontrandosi erano soliti scambiarsi il saluto con le parole: «Siano lodati il SS. Sacramento e la purissima Concezione della SS. Vergine!».

In Angola il Vangelo è arrivato 500 anni fa, anche se non è quasi mai andato oltre la capitale, la linea costiera e alcuni centri lungo il fiume Kwanza, toccando quasi solo portoghesi e i cosiddetti assimilados, mentre la stragrande maggioranza della popolazione non ha mai beneficiato del suo annuncio esplicito. Solo nella seconda metà del XIX secolo, con l’arrivo di alcune congregazioni missionarie (tra cui gli Spiritani), c’è stato uno sforzo serio di evangelizzazione, specialmente nelle zone rurali.

Consolata in Angola: una storia con futuro

Dopo molti anni, i missionari della Consolata hanno realizzato il sogno del loro fondatore, il beato Giuseppe Allamano: creare missioni in Angola. Nel 1920, per mancanza di personale, dovette rifiutare l’invito che al riguardo gli era stato fatto. Finalmente il Capitolo Generale del 2005 ha optato per l’apertura nel secondo paese lusofono in Africa, dopo il Mozambico in cui siamo dalla fine del 1925. In un primo momento si era pensato alla Guinea Bissau, dove le missionarie della Consolata già lavorano, ma poi si è scelta l’Angola.

Gli studi per l’apertura della missione in Angola sono iniziati nel 2009. Si è posta l’attenzione su tre territori differenti: la diocesi di Namibe, nel Sud del paese, regione povera e con pochi missionari; l’antica diocesi di Mbanza-Congo, al Nord, anche questa bisognosa di personale missionario, e la periferia urbana intorno alla capitale Luanda, nelle diocesi appena create di Caxito e Viana, dove si concentrano circa cinque milioni di persone, in condizioni che reclamano una presenza di consolazione. Motivi vari, soprattutto il fatto che circa la metà della popolazione angolana, a causa della lunga guerra civile che ha lacerato il paese, si concentra a Luanda e nella sua immensa periferia, hanno portato alla scelta della diocesi di Viana, con l’apertura della missione il primo agosto 2014 nella zona in cui oggi c’è la parrocchia di sant’Agostino di Kapalanga.

Il primo gruppo è formato da tre giovani missionari: i padri  Silvestre Oluoch, keniano, Fredy Gòmez Pèrez, colombiano e Dani Romero Gonzales, venezuelano.

Un’accoglienza generosa

I padri Fredy, Silvestre e Dani ci raccontano che fin dal loro arrivo, provenienti dal Mozambico, sono stati accolti molto bene. Vivono in una casa affittata come la maggior parte delle famiglie della zona. A piedi o con i mezzi pubblici, i tre missionari percorrono ogni giorno l’immenso quartiere di Kapalanga per l’assistenza religiosa e per conoscere i loro fedeli. Qui accompagnano la comunità cristiana nel cammino di fede e di speranza, con una presenza di consolazione soprattutto tra i più poveri. Poco per volta si sono fatti conoscere dai cattolici del quartiere e prestano assistenza pastorale a sette cappelle sparse nel territorio.

Dopo un anno di lavoro pastorale e, vedendo la maturità della comunità cristiana e il buon lavoro fatto dai nuovi missionari, il vescovo di Viana, ha deciso di creare la nuova parrocchia di sant’Agostino di Kapalanga.

I missionari mettono in evidenza lo sforzo e la collaborazione della comunità cristiana locale: il suo lavoro, la generosità e affetto che ha dimostrato con i missionari. Tutto ciò che si è realizzato, lo si è fatto con contributi locali: la sistemazione del terreno della parrocchia, la legalizzazione del terreno delle cappelle e persino la costruzione del salone-chiesa che ora è terminato. La situazione della nuova parrocchia è buona. La sua maturità e crescita sono possibili perché i fedeli sanno condividere i loro beni. Per il prossimo anno i cristiani si mobiliteranno per raccogliere fondi per la costruzione della casa parrocchiale e l’acquisto di un’auto a servizio dei missionari.

Quanto alle preoccupazioni e sfide da affrontare, i tre confratelli hanno messo in risalto: migliorare la pastorale di insieme con un obiettivo chiaro; aumentare comunione e corresponsabilità tra tutte le forse pastorali e i movimenti della parrocchia.

Nuove aperture

Nel dicembre 2015 con padre Marco Marini, abbiamo fatto la prima visita ufficiale nel paese. Oltre al contatto con i missionari, alla presenza alle celebrazioni liturgiche dell’Avvento, della Novena e di Natale, sempre molto partecipate e animate dai fedeli, abbiamo avuto l’opportunità di visitare altre diocesi ed entrare in contatto con vescovi e missionari. L’obiettivo era quello di identificare i luoghi per iniziare due nuove presenze della Consolata in Angola da aprirsi nel 2016. Si sono scelte due diocesi: quella di Caxito, non molto distante da Luanda, e la diocesi di Luena, nella provincia di Moxico, a più di 1.250 Km dalla capitale. Luena si trova nell’estremo Est dell’Angola, confina con il Congo e lo Zambia. Con una estensione di 223.023 chilometri quadrati, due volte e mezza il territorio del Portogallo, e appena 750.000 abitanti, è la diocesi più grande dell’Angola. Vi sono poco più di una ventina di sacerdoti.

Sono stati giorni di intenso lavoro, tra ascolto, riflessione e condivisione; come frutto di questo lavoro sono state fatte delle scelte e dati orientamenti che potranno illuminare la presenza missionaria della Consolata in questo paese. La nostra breve presenza in Angola è una storia che potrà avere futuro.

Stefano Camerlengo e Diamantino Guapo Antunes
Adattato da «Da Casa Madre», 03 / Marzo 2016


4. Italia: gli istituti missionari a favore dei migranti

Progetto Lampedusa

La misericordia spinge i missionari a cercare nuove strade anche in Italia. Accanto al ben noto padre Alex Zanotelli, impegnato nei quartieri caldi di Napoli, ci sono tanti altri uomini e donne che stanno rispondendo all’invito di Cristo «vai e anche tu fatti prossimo». In Sicilia sta nascendo un’iniziativa di servizio condiviso che vede coinvolti due missionari e due missionarie di quattro Istituti diversi.

Il nome Lampedusa evoca senza dubbio, oltre all’isola italiana più vicina all’Africa che all’Italia stessa, drammi di cui ancora oggi purtroppo siamo testimoni: genti in fuga dai propri paesi in guerra oppure dall’estrema povertà che partono con la speranza di trovare serenità e vita migliore al di là del mare. Spesso questa speranza muore con loro inghiottita dalle acque. Quando riesce invece a mettere un piede all’asciutto, è ancora segnata da un percorso difficile che incontra muri, diffidenze, paure, indifferenza, accoglienza negata.

A partire da questa situazione è nato il «progetto Lampedusa»: la Conferenza degli Istituti missionari in Italia (Cimi), proprio per la fedeltà al carisma missionario ad gentes che la caratterizza, ha desiderato offrire alla Chiesa italiana il proprio contributo a servizio dei migranti costituendo una comunità intercongregazionale, maschile e femminile, in Sicilia. È un progetto che mira, più che ad aprire un centro di prima accoglienza, a offrire percorsi di formazione e sostegno, mettendo assieme, ciascun Istituto, la propria ricchezza ed esperienza nel campo della mondialità e della intercultura.

È così che a novembre 2015, suor Giovanna Minardi, missionaria dell’Immacolata, e io, missionario della Consolata, siamo partiti per la Sicilia, inviati dalla Cimi, per conoscere quanto già si sta facendo a favore dei migranti, per pensare un progetto che possa inserirsi nel contesto e rispondere alle necessità e richieste del territorio, e per trovare una diocesi disponibile a ricevere la nascente comunità. Il primo mese è stato quindi dedicato soprattutto all’incontro e al dialogo con alcune realtà della chiesa siciliana e con organismi preposti al servizio ai migranti, quali Caritas Migrantes e Centri diocesani missionari. Questo ci ha portati a visitare le diocesi di Palermo, Ragusa, Agrigento, Messina, Catania e Noto.

La Sicilia non è solo terra di sbarchi, già di per sé un problema grande e causa di molte sofferenze, ma anche di tanti migranti che si fermano e in qualche modo cercano una sistemazione lavorativa. È il caso del ragusano, nella piana di Vittoria e Acate, dove, sotto un manto di serre che producono la maggior parte degli ortaggi che troviamo sulle nostre tavole italiane, vive una popolazione di oltre 15.000 immigrati dedita al lavoro agricolo. Un lavoro stagionale per lo più sottopagato, che ha il sapore dello sfruttamento; immigrati che vivono in abitazioni fatiscenti e malsane; situazioni di precarietà a cui si affianca spesso, soprattutto verso le donne, uno sfruttamento che ha poco del lavorativo.

In questo percorso di conoscenza della realtà, ci siamo sentiti particolarmente benvenuti nella diocesi di Noto, periferia estrema della Sicilia e dell’Italia, tanto da portarci ad approfondire il dialogo con il vescovo che ha dato piena disponibilità ad accoglierci. Alcuni momenti di quell’incontro sono sembrati molto significativi, quasi una conferma di essere giunti al momento giusto, nel luogo giusto, giudati non solo dal nostro impegno, ma dallo Spirito che soffia dove vuole!

Il nostro primo appuntamento con il direttore della Caritas di Noto, il professor Maurilio Assenza, laico e totalmente volontario in questo servizio, ha scritto al cardinal Montenegro, vescovo di Agrigento: «Sì, continuiamo con segni anche belli, tra cui l’incontro con padre Ganni e suor Giovanna, missionari venuti a Modica nel loro giro siciliano per capire dove e come avviare una comunità missionaria intercongregazionale proprio mentre si apriva la Porta santa della Casa don Puglisi (casa della carità, non chiesa né santuario, ma casa che ospita mamme e figli in situazioni disagiate e tra queste anche alcune famiglie di immigrati, nda). Trovando sintonie e pensando a una collocazione in diocesi per un servizio di animazione che può allargarsi ad altre parti della Sicilia, abbiamo avuto un colloquio con il vescovo che ha accolto la proposta e affidato i passi successivi al vicario generale… Mi viene da pensare all’antica idea di un centro per la mondialità e la pace che potrebbe in qualche modo realizzarsi».

Il giorno in cui abbiamo incontrato il vescovo della diocesi di Noto, mons. Antonio Staglianò, che ha manifestato tutto il suo entusiasmo all’idea che la comunità intercongregazionale potesse mettere radici nella sua diocesi, la Chiesa celebrava la memoria di santa Giovanna Saverio Cabrini, patrona dei migranti.

Il cammino della comunità, dopo la piena approvazione della Cimi, si fa concreto. Innanzitutto con l’arrivo di altri due missionari a completare la comunità: padre Vittorio Bonfanti, dei missionari d’Africa, con venti anni di missione in Mali, terra da cui provengono un buon numero di migranti, e suor Raquel Soria, missionaria della Consolata argentina, che colora di inteazionalità la comunità nascente. In secondo luogo con lo stabilirsi a Modica in un appartamento attiguo al santuario della città, messoci a disposizione dalla diocesi.

Chiamati a portare il nostro contributo di conoscenza dell’altro, delle culture e del mondo per sensibilizzare all’accoglienza, ci siamo ritrovati a testimoniare una straordinaria accoglienza ricevuta. E questo ci fa ben sperare! La nostra comunità si inserisce in un contesto fertile, già capace di concreti gesti di solidarietà, come l’adesione al progetto Caritas della Cei, «Rifugiato a casa mia». A partire da questa realtà incontrata la comunità si inserisce suggerendo cammini di conoscenza dell’altro, diverso per cultura, lingua, nazione e fede, attingendo dall’esperienza maturata in anni di vita vissuti tra i popoli del mondo.

Sta di fatto che tutti gli Istituti missionari presenti in Italia si stanno coinvolgendo in prima persona, rispondendo concretamente a questa periferia esistenziale che ha volti e nomi di tanti fratelli e sorelle migranti che affidano le loro speranze a un viaggio in cui giocano la vita, viaggio per cui le acque del mare non sono che il primo grande ostacolo.

Gianni Treglia


5. Venezuela: Per costruire frateità

Nella «selva» di Caracas e del Delta (dell’Orinoco)

Da quasi dieci anni vagabondo per il mondo missionario. E ogni volta che too da un viaggio mi sembra di sapee meno di prima. Ho meno certezze e più dubbi. Ma è forse per questo
motivo che amo girare: perché il mondo sa ancora sorprendermi e meravigliarmi. Con questo spirito sono andato e tornato dal Venezuela un paese affascinante e contraddittorio.

Il Venezuela, una nazione benedetta da Dio con incalcolabili risorse naturali e umane, vive, oggi, un momento molto difficile della sua storia.

Nel 1999, il popolo venezuelano, stanco della situazione politica, aveva intravisto in Hugo Rafael Chávez la soluzione alla corruzione e al clientelismo, quindi la speranza del cambiamento. Oggi però, morto Chávez, con la politica in stallo tra parlamento e presidente Maduro e la gravissima crisi economica, la reale situazione del Venezuela è complessa, difficile e precaria.

La Conferenza episcopale venezuelana ha denunciato i problemi senza paura. In diverse occasioni ha manifestato la sua opposizione «all’usura, alla corruzione e alla speculazione». I vescovi hanno messo in guardia sullo spreco, sulle spese fatte in modo sfrenato: «Ci preoccupa che molte persone, in un impeto di euforia, ritengono che con l’acquisto di alcuni elettrodomestici abbiano risolto i principali problemi che li affliggono. È anche preoccupante che questo clima di euforia possa degenerare in violenza e scontri tra le persone, cosa che diventa difficile da controllare, e tutti dovremmo rifiutare». Essi ricordano continuamente che «la situazione economica del paese deve essere affrontata in primo luogo dalle autorità pubbliche in dialogo con gli uomini d’affari, commercianti e istituzioni. È necessario creare un clima di fiducia che consenta la riattivazione della produzione e dello sviluppo socio economico a vantaggio della comunità, in particolare dei più poveri e vulnerabili».

La presenza dei missionari della Consolata

La mia visita canonica in Venezuela è stata caratterizzata dalla parola chiave «frateità». Un grande valore da riscoprire e rivalorizzare. Ho incontrato persone felici di ciò che sono, missionari giovani e generosi che, pur nelle innumerevoli difficoltà quotidiane, sanno trovare e vivere la gioia dell’incontro, la forza dello stare assieme costruendo qualche cosa di buono. I sedici missionari (venezuelani, italiani e kenyani) sono disponibili, impegnati, innamorati della loro missione e della gente con cui la realizzano. La gente è aperta e molto disponibile e accogliente, ci sono persone che pur vivendo in città sanno mettersi a disposizione per la missione pagando anche di persona.

A Caracas i nostri missionari insieme ad altri missionari e missionarie di altre congregazioni hanno aperto una casa di accoglienza per persone senza casa, gente della strada che può qui trovare riparo e sostegno e, se disponibile, anche aiuto per rilanciarsi nella vita.

Carapita

A Caracas, capitale del Venezuela, abbiamo una parrocchia situata nella periferia, abitata da almeno 150-200.000 persone che vivono in casette di fortuna incollate sulle colline. È un agglomerato di problemi, violenza, droga e malavita, ma anche di gente per bene che si guadagna il pane con un duro lavoro quotidiano e che poi, alla sera, si mette ancora in coda per arrivare alla sua casetta e vivere un momento di serenità con la propria famiglia. In questa situazione i nostri missionari cercano di costruire speranza ed essere segno di consolazione per un gruppo di cristiani che, certamente, non sono maggioranza, ma sono presenza e frateità.

Inoltre a Caracas, oltre alla parrocchia di Carapita, abbiamo la Casa regionale, con un centro per l’Animazione missionaria vocazionale (Amv). La casa regionale è un pochino originale in quanto non rappresenta lo stile delle solite case regionali, luogo di uffici e di organizzazione, ma è proprio la casa di tutti e dove tutti possono trovare un letto per dormire, un pasto da condividere e qualcuno che ascolta i loro problemi. E quando dico tutti voglio dire tutti, non soltanto i missionari.

L’impegno missionario è attivamente condiviso con i laici della Consolata e con gli amici della Consolata, un’esperienza importante che vale la pena di far conoscere.

Tucupita

Tra tutte queste nostre presenze merita un ricordo particolare quella in mezzo agli indigeni. Abbiamo un’équipe di cinque missionari di diverse nazionalità che lavorano in due comunità distinte a Tucupita: una nella città stessa, dove gli indigeni si trasferiscono in tempi difficili o alla ricerca di qualsiasi tipo di lavoro, e l’altra, la Comunidad Apostólica de Nabasanuka, nella Parroquia Divina Pastora de Araguaimujo, nel Delta Amacuro dove gli indigeni Warao vivono su palafitte piantate in riva al fiume.

Il Delta Amacuro è uno degli stati del Venezuela. È situato nella parte orientale del paese nella valle dell’Orinoco e confina a Nord con l’Oceano Atlantico, a Sud con lo stato di Bolívar, a Est con l’Oceano Atlantico e la Guyana e a Ovest con lo stato di Monagas. Forma, con gli Stati Bolívar e Amazonas, una macroregione nota come Guyana venezuelana. Circa la metà della superficie dello stato (20.000 km² su un totale di 40.200) è occupata dal vasto delta del fiume Orinoco all’interno del quale si trovano numerosissime isole formate da depositi alluvionali e separate fra di loro da diversi canali navigabili.

In queste due comunità i nostri missionari, con l’aiuto di molti volontari, amici, collaboratori e laici della Consolata, cercano di essere punto di riferimento, segno di consolazione, casa di speranza. È impressionante quante persone riescano a coinvolgere e a mettere dentro il progetto, allargando sempre il cerchio, permettendo a tanti d’incontrarsi, di conoscersi, di volersi bene e di formare spazi nuovi d’interculturalità per il bene di tutti.

I laici della Consolata

Per finire questa presentazione della nostra vita e presenza in Venezuela, vorrei dire una parola sui laici della Consolata. Quasi in tutti i paesi dove siamo presenti abbiamo delle persone che si avvicinano a noi e vogliono condividere il nostro carisma, la nostra missione. Chiaramente il carisma non è proprietà di nessuno e ha valore proprio perché condiviso. Ma certamente in Venezuela ci sono giovani, coppie e famiglie, adulti speciali che hanno la volontà grande di camminare con noi fino in fondo e pagando di persona con grandi sacrifici e grande disponibilità, mettendosi al servizio della gente e della missione. Sono persone che dobbiamo ringraziare e incoraggiare in quanto la loro presenza è per noi stimolo e richiamo a essere sempre più autentici testimoni, missionari veri della Consolata. Ci stanno insegnando che il laico è titolare della missione e non eterno supplente del sacerdote, che ha un ruolo fondamentale nella missione attuale e del futuro.

Stefano Camerlengo

 

I Warao

L’etnia Warao è molto probabilmente di origine asiatica, come testimoniano i più recenti studi antropologici. Nel periodo precolombiano abitavano le più fertili terre dell’Ovest. Cacciati da una tribù di guerrieri si rifugiarono nella zona orientale del delta, in quello che oggi è parte dello stato del Delta Amacuro. Durante la fase coloniale riuscirono a mantenere una certa indipendenza dagli spagnoli grazie all’ambiente inospitale della regione.

La vita scorre con le stagioni del fiume: Rio Negro, quando il livello del fiume si alza e allaga tutte le terre emerse; Rio Amarillio, quando nel Nord la terra gialla viene trascinata al fiume dai temporali impetuosi; Rio Blanco, nella stagione di secca, in cui piove poco e la terra sedimenta lungo il corso dell’Orinoco, lasciando il fiume limpido alla fine del suo viaggio. Per ogni stagione il Warao sa cosa, come e quando si deve cacciare e pescare. Le altri fonti di sostentamento sono il platano, l’ocumo, una radice tozza di gusto simile alla manioca, e la palma di Morice, che fornisce oltre ai frutti anche una farina (yukuma) molto apprezzata. La palma di Morice è la pianta più importante per i Warao: le foglie sono usate per il tetto delle abitazioni, da queste si ricavano anche le fibre che intrecciate preparano il chinchorro (l’amaca) e tutti gli oggetti che vengono venduti in città. Dal tronco, oltre alla farina, si ottengono medicamenti contro la febbre e la dissenteria, mentre i frutti racchiudono una polpa sottilissima, schiacciata tra la buccia a dure scaglie rossastre ed il nocciolo legnoso».

Mediamente i genitori Warao hanno dagli 8 ai 10 figli. La mortalità infantile, anche a causa dell’alimentazione scarsa e poco varia, è molto elevata. Le cifre ufficiali parlano di statistiche pienamente nella media venezuelana, ma sono falsate poiché i bambini non sono registrati all’anagrafe fintanto che non raggiungono i 4 anni, quando ormai è stata superata la fase a rischio. Le coppie nella cultura tradizionale si sposano molto presto e molto semplicemente. Quando la ragazza raggiunge la pubertà, il giovane si reca dalla suocera per chiedere la mano della figlia e, ottenuto l’assenso, si stabiliscono nella casa dei genitori della sposa. Il capo clan è il padre della sposa, che tramite le figlie comunica ai generi i compiti, dal preparare il campo per la semina dell’ocumo, all’andare al monte e cercare un albero per costruire una nuova curiara (barca). Le abitazioni sono palafitte, chiuse su due o tre lati quelle modee, aperte su tutti i lati quelle tradizionali per permettere all’aria di mitigare il caldo umido del fiume. Al tetto vengono fissate delle ceste con i vestiti e le amache, e a terra, sopra delle pietre, viene acceso il fuoco per cucinare. Gli spostamenti possono essere unicamente in curiara, una canoa molto nervosa e instabile, ma che nelle mani dei Warao diventa estremamente docile.

 Federico Franzoso,
di Impegnarsi Serve