DOSSIER GIUDIZI E PREGIUDZITu pensi e io penso. Ma chi ci crede?

Dunque il 24 ottobre 1998 la rivista
«Missioni Consolata» ha compiuto 100 anni.
L’anniversario è stato celebrato a Torino con il Convegno«Il Sud del mondo fra giudizi e pregiudizi».

I relatori:un economista di Torino,
una pedagoga del Brasile,un esponente
della Comunità sant’Egidio (Roma),
un opinionista de «La Stampa»,
un rettore di università (Mozambico).
Offriamo una sintesi dei loro interventie del dibattito
con il pubblico.

Daniele Ciravegna,
preside di «Economia e commercio» (Torino)

I CIRCOLI del VIZIO

È necessaria una rivoluzione culturale.

C’ è una frattura fra Nord e Sud del mondo, perché il primo è sviluppato e il secondo sottosviluppato. Esiste una soluzione del problema? Si stenta a trovarla, perché nei paesi sottosviluppati «la povertà si autornalimenta».
Siamo di fronte ad una situazione in cui le nazioni povere sono incapaci di produrre beni sufficienti per avere un buon tenore di vita. Quando la bassa produzione pro-capite non permette di ottenere nemmeno il minimo per sopravvivere, è evidente che scarseggino le risorse per gli investimenti.
E, se non si investe o si investe poco, si ottiene pure poco e lo si consuma tutto. Quindi non resta nulla da investire.
Come uscire dal circolo vizioso? Attraverso accordi inteazionali di cooperazione allo sviluppo o l’entrata di risorse per creare investimenti, senza deprimere i consumi interni già bassi.
E come pagare le risorse estee? Con l’esportazione di propri prodotti. Però, così facendo, non si risolve il problema: infatti, se non si possono comprimere i consumi interni, c’è poco da esportare. Allora l’unico modo per avere risorse è di non pagarle o di non pagarle subito: quindi ottenere trasferimenti di beni e regalie del Nord. Ma anche questo non è facile, perché il Nord non ha acquisito la mentalità di dover contribuire alla sviluppo del Sud, senza chiedere una contropartita. Il Nord si è proposto di destinare lo 0,7% del prodotto interno lordo allo sviluppo del Sud. Ma ciò non avviene.
Stando così le cose, si è imboccata un’altra strada: permettere ai paesi del Sud di acquisire risorse senza pagarle subito, cioè indebitandosi. Qui sorge un ennesimo problema: se il debito non verrà cancellato, fra 5-10 anni bisognerà trovare dei beni per restituirlo.
Se le risorse ottenute vengono investite nel Sud in modo produttivo, fra 5-10 anni esse potranno essere pagate; ma, se il loro impiego è stato improduttivo (si pensi agli sprechi in armamenti), il debito contratto non potrà essere rimborsato al tempo stabilito. Allora si rinvia ancora il pagamento. A questo punto si può intervenire cancellando tout court i debiti: ciò significa regalare i beni, anziché subito, dopo alcuni anni. Qui pure c’è un limite, perché il Nord non è disponibile a investire risorse a fondo perduto.
Come si situa la globalizzazione
economica in questo contesto? Essa ha aspetti positivi e negativi. È positivo che i beni si vendano e si comprino liberamente. Ma questo riguarda soprattutto le economie a un buon livello di sviluppo, che possono cedere beni per acquisie altri. Ne ricavano vantaggi le economie specializzate.
La globalizzazione crea anche difficoltà, perché l’apertura economica internazionale può causare il fallimento delle attività intee non sufficientemente protette. Se globalizzazione vuol dire «liberalizzazione selvaggia», le economie povere ne fanno le spese. Quindi la globalizzazione deve essere controllata.
Questo è evidente nel campo finanziario. Qui gli scambi sono cospicui; ciò di per sé non è negativo, ma lo diventa se si evade ogni controllo delle autorità governative. Gli effetti deleteri si verificano quando ci si avvale dei «paradisi fiscali», che proteggono scambi finanziari illeciti. Esistono «paradisi fiscali» anche nei paesi in via di sviluppo, dove è facile pulire o riciclare i «soldi sporchi» del narcotraffico o del commercio di armi.
Se la circolazione di denaro è senza controlli, è facile corrompere la classe politica. Alcuni narcotrafficanti hanno dichiarato di aver finanziato (furbescamente) sia il partito A sia il partito B: quindi, qualunque partito vinca, per loro va sempre bene.
Senza un controllo super-nazionale (e qui l’Onu è chiamata in causa), si crea una spirale perversa: si ricicla denaro sporco in un paese, si corrompono le persone influenti, per continuare a livelli sempre più alti, complice il sottosviluppo.
Come spezzare la spirale?
Soltanto in un modo: puntare sulla qualificazione morale e culturale della gente. In altre parole: bisogna investire sul capitale umano.
Se consideriamo solo il risultato finale materiale («ho prodotto tanto», «ho prodotto poco»), non abbiamo capito l’essenza della questione: questa non sta nel produrre tanto o poco, ma nel compiere una «rivoluzione culturale». È una rivoluzione fatta di investimenti nella formazione morale, sociale, economica.
Cito il caso della Colombia, con l’azione dei missionari della Consolata contro «la cultura della coca» attraverso le fattorie familiari amazzoniche e il progetto dell’università «Allamano». Il comune denominatore di queste iniziative è: un programma educativo, morale ed economico.
Se non si investe in questo modo, non si pone fine al problema scandaloso del sottosviluppo nel Sud del mondo.

Theí de Almeida Vianna,
rifugiata politica e pedagoga (Brasile)

POVERTÀ o INGIUSTIZIA?

Missionari per i politici.

Io vengo dal Brasile, un paese di 8.511.000 chilometri quadrati e 170 milioni di abitanti. È l’ottava potenza economica del mondo: primo in caffè, frutta e soia; secondo in apparati di aria condizionata; sesto in riso; settimo in oro, ventesimo nel petrolio e gas naturale. Dunque vengo da un paese ricco, dove la gente vive in case con bagni faraonici. E come mai ci sono i bambini di strada? Perché le favelas? Perché la vita vale zero?
Quando il professore Ciravegna parlava del Nord e Sud del mondo, io pensavo al mio paese, dove le zone di ricchezza e povertà sono capovolte: il sud è ricco, mentre nel nord la gente dorme anche per strada e, talora, muore di fame. Allora il Brasile non è sottosviluppato: è un paese ingiusto. Chi ha detto questo è il presidente Enrique Cardoso.
Io, però, devo badare a come parlo, perché sono una rifugiata politica e ho intenzione di ritornare in patria.
Un aneddoto.
Dio, nel creare il mondo, disse ad un angelo: «Fa’ scorrere questo fiume maestoso in Brasile». Poi: «Scarica i terremoti e le gelate in Europa, ma pianta questi alberi maestosi in Amazzonia e riempi la terra di minerali preziosi…». L’angelo interruppe: «Scusa, Signore! Perché al Brasile dai solo cose belle e agli altri cose brutte?». E Dio: «Ma tu non sai che razza di politici io metterò in quel paese!». Ecco perché il problema del Brasile non è la povertà, ma l’ingiustizia.
Giunta in Italia, ho notato tanti pregiudizi, anche perché non si conosce il Brasile. Numerosi italiani dicevano: «Tu sei proprio brasiliana? Non sei mica nera!». Oppure: «Voi mangiate sempre con le mani, senza posate?».
Però perché l’ingiustizia fra nord e sud del Brasile? Perché siamo stati una colonia del Portogallo. Quando il Brasile fu «scoperto», il territorio venne diviso in capitanias, in feudi, assegnati agli amici del re. Ancora oggi esistono baroni, colonnelli e politici discendenti dalle prime famiglie: tutti grandi proprietari terrieri.
La colonizzazione del Brasile è stata diversa da quella dell’America del nord: gli inglesi sono emigrati negli Stati Uniti per restarci; invece i portoghesi sono venuti da noi per arricchirsi e poi ritornare a casa. Qui, sì, che si dovrebbe parlare di restituzione: ridare ai brasiliani ciò che fu preso tanti anni fa.
Dopo la conquista, la schiavitù. I portoghesi obbligavano gli indios a lavorare la terra; ma questi, piuttosto, si lasciavano morire. Così si importarono schiavi dall’Africa.
Il 13 maggio 1888 la regina Isabella abolì la schiavitù, perché non era più economicamente redditizia. Così milioni di persone che, fino a poco tempo prima (pur nella schiavitù), avevano una casa e una porzione sicura di cibo, dal detto al fatto si sono trovati sulla strada. E dove sono finiti? Alcuni hanno iniziato le favelas. Chi le ha viste sa che lì i bianchi sono rari. I residenti in favelas sono i nipoti e i pronipoti degli schiavi buttati sulla strada nel 1888. E dire che, talora, gli schiavi avevano più cultura, erano più civilizzati dei loro padroni!
Il contributo economico che l’Africa ha dato al Brasile è stato alto e se ne vedono ancora i risultati. Ad esempio: chi lavora nelle miniere di Minas Gerais? chi raccoglie il cotone nel nord-est? Sono soprattutto gli afrobrasiliani.

Matteo Zuppi,
esponente della Comunità
di sant’Egidio (Roma)

COOPERAZIONE in PANNE

Investire nella pace.
A proposito dei latifondisti,
ricordate Chico Mendes? Egli era contro la strada transamazzonica, che favoriva Olacyr Ribeiro, il «re della soia». Mendes fu ucciso nel 1988, tre giorni prima di natale. Allora presidente del Brasile era Collor De Mello, discendente ricchissimo dei portoghesi. Il 22 dicembre 1988 la tivù Globo di Roberto Marinho (la cui figlia è stata la prima moglie di Collor) trasmetteva la telenovela Valitudo, tutta centrata sull’uccisione del personaggio Odette Reutman. Il giorno seguente tutti i giornali titolavano: «Chi ha ucciso Odette?». E nessuno si chiese chi avesse amazzato Chico Mendes.
Collor De Mello, Marinho e altri fanno parte dell’élite che continua a sfruttare il nord-est brasiliano, l’Amazzonia… ma nessuno dice niente. Anzi, la moglie di Collor ha preso i soldi dalla «Legione di assistenza» e la cugina è sparita con i soldi delle «merende scolastiche».
Il Brasile ha bisogno di una rivoluzione morale. Per farla, si dovrebbe predicare il vangelo specialmente ai politici. Certo, qualcosa si sta facendo. Ma sono ancora troppi i brasiliani che vivono in «una gabbia dorata»: non vogliono vedere ciò che c’è fuori.
Allora ai missionari della Consolata dico: «Andate pure fra gli indios yanomami. Ma, por favor, andate soprattutto a Brasilia, sede del potere politico!».
Grazie a Missioni Consolata, 100 anni fa c’era un sogno: quello di stabilire un rapporto con il Sud del mondo. Oggi, invece, chi sogna di investire energie umane nel terzo mondo?
L’Europa ha ridotto la cooperazione allo sviluppo ai minimi termini. In Italia la cooperazione, in questi ultimi anni, è passata da 5.000 a 500 miliardi di lire. E buona parte di questo denaro viene gestito da organismi inteazionali, che ne spendono il 50-70% per mantenere il loro «baraccone»!
La crisi della cooperazione allo sviluppo è la spia di un disagio più profondo, dovuto anche alla globalizzazione: il liberismo economico ha schiacciato la cooperazione, specie in Africa. Tuttavia il viaggio di Clinton in questo continente, nel 1998, ha ridestato la speranza. Finalmente l’Africa – si diceva – sta invertendo la tendenza e può risorgere dalle ceneri.
Ci sarebbe un’Africa diversa con nuovi dirigenti; i vecchi dittatori, come Mobutu, sono stati cacciati. Ora si può trattare con le nazioni africane da pari a pari. «Se farete funzionare l’economia, saremo vostri partners»: questo in poche parole il succo del discorso di Clinton in Africa.
Ma si è ricaduti nel pessimismo,
perché i nuovi capi africani fanno la guerra come quelli vecchi: si pensi a Kabila in Congo, all’Etiopia, all’Eritrea…
Questo solleva il problema delle guerre, che in Africa sono tante, interminabili e tragiche: 30 dal 1970 al 1996. Solo nel 1996 erano ben 14 i conflitti aperti su 53 paesi, e da allora ne sono sorti altri, senza chiudee quasi nessuno. C’è però il caso positivo (forse unico) del Mozambico, che ha saputo giungere alla pace.
Di fronte alla guerra, c’è l’incapacità della comunità internazionale di occuparsene. L’azione delle Nazioni Unite in Somalia ha fatto passare la voglia di intervenire nei conflitti africani: sono parole del segretario Kofi Annan in un rapporto al Consiglio di sicurezza nell’aprile 1998. Oggi si tenta di delegare agli stessi africani la soluzione dei conflitti. Ed è giusto, perché gli africani devono essere i primi interlocutori dei loro problemi. Però…
Per l’occidente questo potrebbe essere anche un atteggiamento di comodo, perché consente di lavarsi le mani e di… chiudere «la porta del Mediterraneo». Inoltre tale distacco dai conflitti è ipocrita, laddove ci sono stati condizionamenti economici e militari molto pesanti. Ciò vale per l’Africa, come per tanti paesi del terzo mondo.
Una proposta: per vivere in pace, bisogna investire nella pace anche in termini economici. La pace, come la guerra, è un mercato: bisogna investirci affinché diventi un «affare utile». Le repressioni contro le guerriglie non risolvono i problemi che vi si nascondono.
Una guerriglia, in una situazione di povertà, come può diventare un partito politico legale senza un investimento economico contro il degrado sociale? Missioni Consolata lo sa bene, allorché ha lanciato la Campagna contro il narcotraffico in Colombia.
Investire nella pace
significa rilanciare la cooperazione internazionale allo sviluppo con strumenti efficaci e in una luce nuova, che non sia quella del mero profitto economico! Una cooperazione che investa sulla scuola. Al riguardo la cooperazione italiana è assolutamente latitante. Se non si investe nell’educazione, ci sarà sempre un’Africa incapace di soddisfare le esigenze dei suoi abitanti, molti dei quali fuggono altrove.
Ultima considerazione: un comune destino lega il Nord al Sud, e viceversa. Missioni Consolata, 100 anni fa, ha incominciato a guardare al mondo. Oggi, per non essere un’aquila divenuta pollo, ricorda che la giustizia non è un optional, che la restituzione ai poveri non è buonismo, che il condono del debito estero del Sud non è benigna concessione del Nord. È, invece, una esigenza etica che coinvolge il Nord come il Sud.
Dobbiamo essere grati ai missionari che ce lo ricordano. Essi, inoltre, fanno conoscere il Sud del mondo non con giudizi e pregiudizi, ma nella sua realtà.

Igor Man,
opinionista de «La Stampa»

l’ISLÀM è… LEGGE

Bisogno di «tenerezza».

Teheran, 8 settembre 1978. In Iran regnava ancora lo scià. Ma le manifestazioni contro di lui ammassavano gente a centinaia di migliaia. Quel giorno, in piazza Zhalé, arrivò un colonnello in jeep. Ai giornalisti disse: «Se non ve ne andate, do ordine di sparare. Allora assistei ad una scena incredibile: alcuni iraniani si sedettero davanti alla jeep e dissero: «Fratello, se hai coraggio, spara». Sparò. Seguì una strage di 10 mila persone.
Teheran, 29 gennaio 1979. Incalzato da milioni di persone, lo scià aveva lasciato il paese il 17 gennaio. La rivoluzione, teleguidata da Khomeini, aveva vinto una battaglia, ma non la guerra. La cacciata dello scià aveva incattivito gli ufficiali dell’esercito, perché numerosi soldati se ne tornavano a casa.
Quel 29 gennaio, mentre gli studenti protestavano, passò una colonna di pretoriani ancora fedeli allo scià, sparando alla cieca. Io fui ferito. Qualcuno chiamò un’ambulanza. Intanto gli sgherri continuavano a sparare.
Incuranti dei colpi, umili cittadini crearono attorno a me e a un collega francese una sorta di trincea: ci protessero con i loro corpi. Più tardi, nel lasciare l’ospedale, espressi gratitudine, ma anche stupore, a chi aveva rischiato la vita per uno straniero, un cristiano. Un piccolo borghese rispose: «I credenti sono tutti fratelli». Era una citazione del corano, sura 49, versetto 10.
In pieno materialismo,
quando tutti vogliamo subito la ricchezza facile, esiste ancora gente disposta a rischiare la pelle per uno sconosciuto, solo perché «i credenti sono tutti fratelli».
Mi domando: è possibile il dialogo interreligioso? Esso è voluto da Giovanni Paolo II, specialmente dopo l’incontro di Assisi, nel 1987, di numerosi capi religiosi. Il santo padre insiste molto anche sul dialogo fra islàm e cristianesimo.
Non sono poche le consonanze fra le due religioni. Numerose sure del corano riecheggiano il vangelo: si esalta la verginità feconda della Madonna, si riconosce in Isa (Gesù) un santo profeta. Però qui cade la prima mannaia; eccola nelle parole di Raimondo Lullo: «I saraceni credono che il Signore nostro Gesù Cristo è figlio di Dio, ma non credono che egli sia Dio».
Islàm e cristianesimo hanno in comune il Dio unico, trascendente, creatore, retributore. Ma fra cristianesimo e islàm esistono pure linee nette di separazione. Per il cristiano Dio si è rivelato in Cristo Gesù, redentore dell’umanità, che ha fondato la chiesa come suo prolungamento. Da Cristo proviene ogni grazia.
Per l’islam Dio rivela la sua parola, ma non se stesso. Egli resta inaccessibile. L’unica mediazione tra Dio e l’uomo è il corano, dove l’individuo può accostarsi ad Allah, subie la potenza e godee la misericordia. Muhammad è solo un profeta. Ancora: nell’islam solo i puri, gli ortodossi, hanno la verità. C’è l’imam (capo religioso) e, quindi, l’interpretazione della sharia (legge).
Qui cade la seconda mannaia: la sharia appunto. Se infatti, secondo il corano, i cristiani e musulmani potrebbero trovare un punto d’incontro, la sharia blocca ogni sistema di vasi comunicanti. La sharia è un insieme di regole con le quali i califfi, dopo Muhammad, hanno affermato il loro potere. Gli attuali epigoni dei califfi sono alcuni leaders arabi.
Sulla «sharia»
Hussein Hamed Amr, musulmano egiziano, nel 1987 scrisse: «La maggioranza dei musulmani crede che le disposizioni della sharia siano tali e quali a quanto sancito dal corano e dalla sunna, identiche a come le lasciò il profeta; chi invece studia la storia dell’islam comprende che la sharia è un palazzo, i cui molti piani sono stati costruiti, uno dopo l’altro, lungo i secoli in funzione della società e delle esigenze dei califfi o tiranni».
Di più: in molti paesi islamici, accanto alla giurisdizione ordinaria, se ne è formata un’altra extra ordinem dei sovrani. L’indipendenza del giudice non esiste, limitata dal califfo che incarna il potere giudiziario.
Il difficile dialogo tra islam e cristianesimo ha bisogno di un aiuto, che sta nel creare posti di lavoro e nella comprensione.
Una volta i vu’ cumprà in Europa cercavano di farsi assimilare; oggi, dopo il risveglio islamico, sanno di appartenere ad una grande cultura-religione; chiedono rispetto, la moschea…
E la nostra società non è preparata: da ciò incomprensioni, attriti, razzismi. Ritengo che dobbiamo ripensare il nostro modello di vita e rinunziare a molte presunzioni.
Un grande africano, benché controverso, Ben Bella, mi diceva: «Il Sud del mondo ha anche bisogno di tenerezza». Voleva dire: se non lo comprenderemo, un giorno ci chiederà il conto.

Filipe José Couto,
rettore dell’università cattolica (Mozambico)

RICORDO E DIMENTICO

L’università della ricostruzione

Oltre trent’anni fa su Missioni Consolata è apparso un mio articolo… Io, che sono del terzo mondo, ho avuto la possibilità di scrivere quello che pensavo. Successivamente, durante la guerra civile in Mozambico, ho espresso delle opinioni scomode; ma la rivista le ha riportate, pur con la nota: «Quanto affermato da padre Couto non corrisponde in tutto al pensiero della redazione». Questo fa onore a Missioni Consolata, perché non ha avuto pregiudizi: è stata ed è una rivista dove tutti si esprimono liberamente.
Ora dovrei parlare dei pregiudizi che, come africano, ho incontrato in Portogallo, Italia, Germania e Inghilterra, dove ho studiato e insegnato. Dico subito che molti africani non concordano su quanto sto per affermare. Però lo dico ugualmente, perché è la mia esperienza.
Io non ho subìto grandi pregiudizi. Se dicessi che nei paesi sopra ricordati sono stato trattato male, direi il falso. Se sono arrivato ad avere una laurea in filosofia e teologia, lo devo all’Italia e Germania.
Però c’è stato un fatto: quando io ragionavo «in un certo modo», mi sentivo dire: «Tu non sei africano!». Quando il mio ragionamento filava e capivo san Tommaso o Kant, molti commentavano: «Tu non sei africano!».
Questo è stato ciò che più mi ha fatto male. Perché? Perché gli uomini e le donne, in ogni parte del mondo, sono uguali. Non esiste una razza superiore o inferiore all’altra. Devo, però, precisare che la frase «tu non sei africano» non nascondeva malizia: gli italiani o i tedeschi la dicevano solo perché erano abituati ad africani che ragionavano in un modo diverso.
Per loro io rappresentavo un’eccezione.
Anche noi, africani,
abbiamo qualche pregiudizio. Da alcuni anni, sulla bocca di tutti, circola la parola «inculturazione». Ma io non la uso più, perché l’inculturazione può giustificare i nostri ritardi… Non lo dobbiamo accettare, se vogliamo contribuire alla costruzione o ricostruzione di una società africana diversa. Se siamo uguali a tutti (e lo siamo!), dobbiamo anche «correre», perché questo fa parte della vita.
Secondo un poeta del Tanzania, «kukumbuka ni wajibu, kusahau ni faraja», che significa: ricordarsi del passato (quindi dei pregiudizi e di quanto si è sofferto) è un dovere; tuttavia dimenticare è un conforto. Noi africani dobbiamo dimenticare che siamo stati sfruttati e colonizzati, per essere più propositivi. E smettiamola di giocare il ruolo dei «poverini», facendo i mendicanti!
Detto questo sui pregiudizi,
parlo dei missionari della Consolata. Secondo lo stile del fondatore, il beato Giuseppe Allamano, essi sono stati molto concreti nell’emancipazione dei popoli. Giunti in Mozambico nel 1926, hanno incominciato l’attività nel Nyassa, nel nord del paese. Oggi qui si è verificato un fatto meraviglioso.
Dopo la guerra civile, chi ha mediato tra il Frelimo (Fronte di liberazione del Mozambico) e la Renamo (Resistenza nazionale mozambicana)? È stato Brazão Mazula, ex missionario della Consolata. È stato lui il mediatore del processo di pace: don Matteo Zuppi può dirlo. Al presente Mazula è rettore dell’università statale. Poi c’è Carlos Machili, un altro ex missionario della Consolata, che è preside della facoltà di pedagogia. E ci sono anch’io, rettore dell’università cattolica, con padre Francesco Ponsi, vicerettore, e padre Bruno Pipino, professore. Siamo tutti missionari della Consolata.
Questi sono alcuni frutti dell’opera dei nostri missionari, che hanno lavorato e lavorano per la ricostruzione del Mozambico, sfruttato dal colonialismo e dilaniato dalla guerra civile.
L’Allamano diceva: il bene, anche se è poco, bisogna farlo bene affinché cresca. Ebbene, l’università cattolica, dopo tre anni di vita, ha compiuto passi da gigante: c’è la facoltà di economia e commercio a Beira; c’è la facoltà di diritto e educazione a Nampula; si è aperta la facoltà di agricoltura nel Nyassa, dalla quale troveranno giovamento oltre cinque milioni di contadini. Fra poco avremo anche la facoltà completa di medicina.
In questi tre anni gli studenti sono passati da 90 a circa 577: e tutti pagano 500 dollari. All’inizio è stato duro, perché numerosi studenti dicevano: «Signor rettore, noi non possiamo pagare 500 dollari, perché siamo poveri». Al che io rispondevo: «Se siamo poveri, non dobbiamo diventare anche accattoni». Hanno capito.
Nonostante gli errori del passato, credo che la chiesa e i missionari possano e debbano ancora fare molto per la cooperazione tra i popoli del Nord e Sud del mondo, affinché ci sia una società più giusta e fratea.

aa.vv




Dalla parte del capitalismo

Dopo il fallimento del comunismo,
quasi tutti i paesi si sono adeguati
al sistema economico capitalista.
Sul pianeta permangono pesanti squilibri,
ma le colpe non vanno fatte ricadere sull’Occidente.
Soltanto attraverso una collaborazione
non faziosa si possono trovare soluzioni efficaci.

Oggi le economie delle singole nazioni sono così profondamente interrallacciate che si può parlare di un unico sistema economico di dimensioni planetarie. Il processo è molto recente e lo stato di sviluppo delle singole nazioni è così variabile che non è stato ancora identificato un insieme di regole per il raggiungimento di un sistema equilibrato di generazione e distribuzione della ricchezza.
È un fatto innegabile che, oggi, la distribuzione della ricchezza sul pianeta sia tutt’altro che soddisfacente. È, quindi, necessario operare dei correttivi a vari livelli. Attualmente, fra le soluzioni proposte, ve ne sono alcune che non solo non raggiungono i risultati, ma hanno come obiettivo implicito di indebolire le economie forti e non di rafforzare quelle deboli. Il parlare di ricchezza non deve far dimenticare un certo numero di persone che, particolarmente in Italia, ritiene che la ricchezza costituisca una manifestazione diabolica.
«Dio non vuole la povertà del suo popolo» afferma il documento del Pontificio Consiglio «Cor Unum», intitolato La fame nel mondo. Una sfida per tutti: lo sviluppo solidale. E aggiunge che i cristiani sono ingiustamente accusati di voler perpetuare la povertà fisica delle persone. Pertanto è da considerarsi un messaggio stimolante della chiesa il trovare i mezzi per «arricchire» tutti i popoli della terra, colpendo non la povertà evangelica (che va invece perseguita), ma quella generata dalla indisponibilità di denaro e, soprattutto, dei mezzi per generarlo.
Occorre, infatti, non dimenticare che, per distribuire la ricchezza, è necessario in primis generarla. In questo contesto è significativa la scomparsa del comunismo come sistema economico e sociale. Esso è crollato sotto il peso della propria inefficienza nel generare la ricchezza per i cittadini ad esso sottomessi. Al di là delle storture «demoniache» di voler addirittura distruggere la persona umana, per rifarla come automa alle dipendenze del sistema, il comunismo si è mostrato incapace non solo di far arricchire i propri cittadini, ma li ha mantenuti in stato di perpetua povertà. Infatti, nonostante il tenore di vita bassissimo esistente in tutti i paesi comunisti, la generazione di ricchezza a livello nazionale è stata inferiore al consumo della medesima, contribuendo alla conseguente caduta del sistema. Quindi, parlando di sviluppo, non si può più sostenere il comunismo proprio perché, pur nella gestione dittatoriale del potere e senza alcun impedimento interno, esso ha generato solo miseria e distruzioni ambientali, come nel caso del Mare d’Aral.

A questo punto occorre fare una considerazione che spieghi l’attuale divario economico fra i paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo. È innegabile che il progresso tecnologico è stato finora appannaggio quasi esclusivo dei paesi occidentali.
Lo sviluppo ha avuto una formidabile accelerazione dopo l’ultima guerra mondiale e sta ancora progredendo con significativa velocità. Esso ha interessato tutti i campi: dalla medicina alla meccanica, dall’elettronica all’informatica. Non sempre però viene fatto risaltare il fatto che, nel contempo, sono state sviluppate anche le tecniche economiche che hanno permesso lo sviluppo attraverso la disponibilità di capitali. Anche l’economia è una tecnologia inventata dall’uomo; anzi, essa sottende qualsiasi attività umana.
Occorre ancora precisare che l’uomo «scopre» le cose, le «inventa» secondo il significato etimologico della parola latina «invenire», cioè «trovare». Ciò significa che tutto è stato creato da Dio e che l’uomo realizza via via molte scoperte: «trova» cose inizialmente nascoste, ma esistenti, perché create da Dio. Quindi tutte le scoperte o invenzioni in sé sono buone, compresa l’energia nucleare che è la stessa che tiene accese miliardi di stelle in miliardi di galassie. Pur essendo tutte intrinsecamente buone, le tecnologie debbono essere usate correttamente, comprese quelle economiche, che infatti hanno generato la prosperità dei paesi occidentali che le hanno «inventate».
D’altra parte, anche la bibbia nel libro dei «Proverbi» sostiene:

«se appunto invocherai
l’intelligenza e chiamerai
la saggezza, se la ricercherai come l’argento e per essa scaverai come per i tesori, allora comprenderai
il timore del Signore
e troverai la scienza di Dio,
perché il Signore dà
la sapienza, dalla sua bocca
esce scienza e prudenza» (Pr 2,3).

È quindi sorprendente osservare gli attacchi alle economie occidentali eseguiti da gruppi di individui, che a ben guardare sono dei parassiti delle nostre società, perché ne godono i frutti ma ostentano di disprezzarli.
Grazie alle tecnologie mediche, alimentari ed economiche nel mondo – ricorda il citato documento vaticano -, «dal 1950 al 1980 la produzione complessiva delle derrate alimentari è raddoppiata e nel mondo esiste complessivamente sufficiente cibo per tutti. Dal 1960 al 1987 il tasso di mortalità dei bambini al di sotto dei cinque anni si è ridotto della metà, e due terzi dei lattanti al di sotto dell’anno di età sono vaccinati contro le principali malattie dell’infanzia. Il consumo di calorie per abitante è aumentato del 20% circa fra il 1965 e il 1985».

Nel processo di sviluppo, però, occorre non trascurare la preservazione delle risorse del pianeta. Il clima sul nostro pianeta dipende da cause naturali, che si basano essenzialmente sul rapporto esistente fra il Sole e la Terra. Questo rapporto è attualmente sconosciuto; ma si sa, ad esempio, che 12 mila anni fa si è verificata una glaciazione che ha interessato tutto il pianeta, che è durata parecchie centinaia di anni, e si è poi esaurita. Nessuno è in grado di spiegare che cosa sia successo; ma il fatto che si sia verificata significa che esistono forze ignote che condizionano il nostro clima. D’altra parte gli stessi parametri dell’orbita terrestre, intorno al Sole, non sono fissi nel tempo, ma variabili con periodi lunghissimi che sono stimati anche in decine di migliaia di anni, con conseguenti variazioni sul clima.
Quindi non dobbiamo aspettarci un clima stabile e duraturo, perché tutto l’universo è stato creato in modo da evolversi ed arrivare ad una fine. Ciò non toglie che si debba rispettare l’evoluzione naturale del clima, senza introdurre disturbi come il volume delle emissioni di anidride carbonica o l’abbattimento di intere foreste.
Il problema non è, semplicisticamente, quello di distruggere le fonti di energia attualmente utilizzate, ma consiste nell’individuare i sistemi che mantengano e migliorino l’attuale qualità della vita, che richiede una quantità sufficiente di energia; e questo senza intaccare la naturale variabilità del clima, che dipende da cause estee al sindacato dell’uomo.
A proposito della distribuzione della ricchezza, esistono pubblicazioni che affrontano il problema opponendosi alle economie occidentali, aprioristicamente ritenute responsabili dello stato di povertà delle altre nazioni. Questi libri demonizzano la cultura economica occidentale a favore di… niente, in quanto, come si è visto, il comunismo, il cui fantasma continua ad aleggiare per certi nostalgici, si è dimostrato incapace non solo di distribuire la ricchezza, ma anche di generarla.
È condiviso il fatto che nel mondo esistono problemi di sfruttamento di parti di popolazioni, ma è altrettanto vero che il comunismo si è dimostrato sfruttatore di tutte le popolazioni assoggettate. Quindi il desiderio legittimo e doveroso di contribuire allo sviluppo economico delle nazioni povere deve prescindere dall’applicazione delle «tecniche» fallimentari del comunismo.
A titolo di esempio di faziosità cito un grafico, riportato in uno di questi libelli, sulla spartizione del valore di una banana fra il produttore, i grossisti, la distribuzione e l’utente finale, secondo cui al produttore rimane circa il 6% del prezzo finale. Supposto che siano vere le percentuali riportate, la malizia dell’esposizione cerca di far gridare allo scandalo dello sfruttamento del Nord rispetto al Sud. In realtà ciò è falso nei limiti in cui non si introduce il concetto del potere di acquisto delle monete nei singoli paesi e del rispettivo costo della vita.
Se si osservano obiettivamente i dati e si calcola la quantità di denaro che rimane in mano al produttore, secondo la percentuale indicata, si ottiene che la cifra ammonta a una determinata entità. In sè essa non dice nulla; diventa significativa solo se rapportata al costo della vita locale. In Italia la cifra trovata sarebbe misera e sintomo di sfruttamento ma in loco, cioè in quei paesi tropicali, probabilmente no, in quanto il costo della vita è molto più basso.
Con ciò non intendo dire che la suddivisione del prezzo delle banane, durante il loro spostamento dal produttore al consumatore, sia corretto o no; voglio però sottolineare che il metodo esposto è malizioso e intende solo affermare acriticamente che il Nord sfrutta il Sud.
Da ciò si deduce che non è corretto individuare il reddito pro-capite annuo per i cittadini di ogni nazione come parametro unico con cui stimae lo stato di povertà o meno; occorre anche rapportare il reddito al potere di acquisto locale. Quando si applica questo criterio (ed è stato già fatto) si rileva che, ad esempio, il cittadino cinese medio, anche se ha meno disponibilità, ha attualmente un potere di acquisto superiore a quello dell’italiano medio, per il quale il costo della vita è superiore.

Per aiutare i paesi poveri, occorre innanzitutto non privarli dei loro mezzi. Quindi, prima di iniziare ad esportare, specialmente prodotti alimentari, ogni paese deve soddisfare le esigenze alimentari della propria popolazione. In questo contesto, non si capisce come si possa sottrarre, ad esempio, il miele ai messicani per venderlo a maggior prezzo in Italia, nei «centri di commercio solidale». Questo non è commercio solidale, ma un impoverimento delle popolazioni locali, a cui il miele serve, a favore di un limitatissimo numero di produttori locali che ha trovato vie di esportazione forzose e meglio remunerate. Per il bene delle popolazioni locali, è necessario che il miele rimanga nel paese di origine fino a che una produzione superiore al consumo locale non stimoli l’esportazione.
Occorre seguire l’esempio dell’India, che ha migliorato la propria produzione agricola fino a diventare autosufficiente ed ora può pensare all’esportazione dei beni prodotti.
Quindi uno dei contributi che si possono dare ai paesi poveri è quello di sviluppare innanzitutto le vie intee dei commerci dei propri prodotti, quando non vi sono eccessi di produzione come, ad esempio, per le banane in vari paesi. In questo caso è corretto esportare un bene nei paesi che, per ragioni di clima, non possono ottenee la produzione.
Ed è inoltre sacrosanto che questa esportazione venga fatta in modo tale da distribuire equamente il guadagno fra tutti gli interessati. Il commercio diventa veramente solidale quando si individuano vie alternative nello scambio planetario delle merci, che richiedano anche un minor numero di intermediari.

In conclusione, il mondo occidentale è stato il primo e, in molti casi, l’unico a sviluppare le tecnologie, anche economiche, attualmente esistenti, e ne detiene la conoscenza. Quindi, nella distribuzione della ricchezza fra tutti, non è seminando faziosità e odio di classe che si risolvono i problemi, ma solo con l’utilizzo delle tecnologie disponibili e con sincera collaborazione.
Le soluzioni individuate dovrebbero essere mirate ad aiutare i paesi poveri, ma senza demonizzare l’Occidente, anzi dando inizio a una effettiva collaborazione in cui gli occidentali mettano a disposizione il loro patrimonio tecnico in ogni campo.

Piergiorgio Motta




Dalla parte del sud

Fermato (per ora) l’imbroglio del M.A.I.

La mobilitazione della solidarietà internazionale è riuscita a bloccare
l’«Accordo mondiale sugli investimenti» (M.A.I.), l’apoteosi del dogma
liberale, la massima espressione
del prevalere degli interessi
privati su quelli pubblici.
Nel frattempo, l’ultimo «Rapporto sullo sviluppo umano»…

Si chiama «Accordo mondiale sugli investimenti» (M.A.I.): una nuova sigla nell’intricato panorama dei rapporti inteazionali caratterizzato – ora più che mai – dal dogma liberale, secondo il quale la libera circolazione dei beni e dei servizi legati al commercio mondiale e la libera circolazione dei capitali hanno contribuito a sostenere la crescita economica mondiale.
Nei Paesi in via di sviluppo (PVS) tale crescita economica (sintetizzata spesso dall’evoluzione del Prodotto interno lordo per abitante) è stata principalmente determinata da: aiuti allo sviluppo, investimenti stranieri diretti, investimenti in portafoglio, rimesse degli emigrati in diaspora, prodotti delle esportazioni intra ed extra-regionali.
I flussi netti di risorse finanziarie verso i PVS sono passati dai 10 miliardi di dollari (1970) ai 284,6 miliardi di dollari (1996), dei quali ultimi l’86% proveniente dal settore privato. Bisogna subito dire che la ripartizione non è stata uniforme: l’Africa Sub-sahariana non ha rappresentato che il 5% di tali investimenti mentre l’Asia ed il Pacifico il 44,5% e l’America Latina ed i Caraibi il 30,5%.
Nel frattempo – come ci informa l’ultimo Rapporto sullo sviluppo umano dell’UNDP (Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo) – il numero dei cittadini del pianeta che dispongono di un reddito giornaliero inferiore al dollaro è passato, nel periodo 1987/1993, da 100 milioni a 1,3 miliardi. È sempre l’Africa Sub-sahariana che conosce «la più elevata proporzione ed il più rapido tasso di crescita di povertà umana».

S u richiesta delle società transnazionali e degli stati dei paesi dell’OCSE, è emersa la necessità di attivare – quale corollario al quadro giuridico esistente nell’ambito dell’Organizzazione mondiale del commercio – un sistema multilaterale: questo dovrebbe annullare gli effetti indesiderabili dell’interventismo degli stati in materia di investimenti… L’obiettivo del MAI è, da una parte, di assicurare una protezione agli investimenti e, dall’altra, creare un quadro globale incitativo che favorisca gli investitori.
Un tale accordo dovrebbe favorire l’impiego ottimale del risparmio mondiale circolante sotto forma di investimenti. Non esiste alcun riferimento all’importanza di creare impieghi, né alla distinzione tra investimenti che li generano e quelli che non lo fanno.
Il MAI ha per obiettivo la liberalizzazione dei regimi di investimenti e la protezione degli investitori. Esso è fondato sul postulato secondo il quale la continuità della crescita mondiale si basa sulla liberalizzazione del commercio, la quale è legata al ruolo pionieristico degli investitori.
Il ruolo degli stati sarebbe ridotto a quello di cinghia di trasmissione delle misure di accompagnamento, che debbono garantire il diritto assoluto dell’investitore mediante un sistema di responsabilità senza errore. Gli stati sarebbero infatti costretti a rimborsare perdite e danni subiti dagli investitori…
Stiamo abbandonando la società in cui il consumatore era il re per una società in cui l’investitore sarà il re. Con il MAI le società transnazionali aumenteranno il loro diritto alla capacità di influenza nel mondo.
Questa è la preoccupata analisi pubblicata su Le courrier ACP-UE (maggio-giugno 1998): il suo autore è Yves Ekoué Amaizo, responsabile dei programmi speciali dell’UNIDO (l’Organizzazione delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale, con sede a Vienna).

Nel 1995 a Parigi, nella sede dell’OCSE (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che raggruppa i 29 paesi più ricchi al mondo: Brasile ed Argentina stanno premendo per entrare nel club), prendono l’avvio i negoziati per promuovere il MAI: questo dovrebbe essere «una delle ultime pagine della costituzione di un’economia mondiale unificata» come l’ha salutato il direttore generale dell’OMC (Organizzazione mondiale del commercio), l’italiano Renato Ruggiero.
In realtà, il testo provvisorio del MAI – dopo che alcune Organizzazioni non governative statunitensi lo hanno scoperto e diffuso – è stato talmente criticato che la sua firma ha dovuto essere più volte rinviata.
Nel testo attuale, al capitolo «Diritti degli investitori», è sancito il diritto assoluto di acquistare senza alcuna restrizione terreni, risorse naturali, servizi di telecomunicazioni, valute, ecc. Gli stati dovrebbero: garantire incentivi fiscali, ecc. tanto alle società nazionali quanto a quelle straniere; impegnarsi a non emanare leggi che limitino l’espansione delle imprese o impongano controlli delle stesse su risorse naturali, minerarie, forestali; impegnarsi a non esercitare pressioni sugli investitori per il rispetto dei diritti dei lavoratori e dell’ambiente; non sottoporre a embargo né bloccare investimenti diretti a paesi che violano i diritti umani. Gli stati hanno solo doveri pesanti; chi investe capitali ha solo diritti: anzi, il MAI prevede che le società transnazionali siano autorizzate a citare in giudizio quei governi che – con leggi su tutela ambientale, tutela dei lavoratori, dei consumatori, ecc. – ledano i loro interessi e ne facciano diminuire i profitti… I parlamenti – quand’anche eletti democraticamente – sarebbero esautorati dalle transnazionali.
Le critiche al MAI vengono da ogni parte, USA inclusi.
Molti parlamentari ACP hanno evidenziato come il MAI, proibendo il rafforzamento delle industrie nazionali, di fatto espellerebbe le imprese del PVS dal mercato mondiale. Inoltre, gli stati – specie i più deboli in termini di potere contrattuale – sarebbero impotenti nei confronti delle manovre speculative delle società transnazionali.
Infine, sarebbero vanificati del tutto i difficili processi di democratizzazione in atto in molti PVS.

Dopo 6 mesi di stop, i negoziati sul MAI avrebbero dovuto riprendere il 20 ottobre a Parigi. Ma, a pochi giorni dall’inizio, il governo francese ha fatto sapere che non avrebbe partecipato, in quanto non condivideva la formulazione dell’accordo. Un brutto colpo per i sostenitori del MAI; un successo per tutte le centinaia di associazioni ambientaliste e di solidarietà internazionale che si sono mobilitate per fermare l’imbroglio.

Piergiorgio Gilli




I buoni propositi

Il 4 marzo 1998 Michel Rocard, deputato francese al parlamento dell’Unione Europea (UE) e membro della «Commissione sviluppo e cooperazione», ha presentato delle proposte in materia di cooperazione con i paesi in via di sviluppo (PVS). Il suo rapporto è stato salutato con vivo interesse dai partecipanti all’Assemblea paritaria (parlamento europeo e parlamenti dei paesi ACP: Africa, Caraibi, Pacifico), che si è svolta a Port-Louis (Mauritius) dal 20 al 24 aprile 1998 (*). Prudente – e, per certi versi, disturbata – è risultata la delegazione della Commissione europea (CE) presente al convegno.
È indubbio che l’accelerazione della globalizzazione rappresenta per i partners ACP/UE l’opportunità di realizzare un partenariato equilibrato che essi preparano da 30 anni (Convenzioni di Yaoundé, di Lomé, ecc…).
E, a questo riguardo, il «Rapporto Rocard» fa proposte concrete sui quattro capitoli individuati dalla Commissione europea quali nodi dei futuri negoziati ACP/UE:
1) dare al nuovo partenariato una dimensione politica forte;
2) porre la lotta contro la povertà al centro dell’azione;
3) aprire la cooperazione al partenariato economico;
4) rivedere radicalmente le modalità strategiche di gestione della cooperazione finanziaria e tecnica.

Due visioni-base sono date per acquisite. In primo luogo, il fatto che il gruppo ACP (ad oggi 71, tra cui da poco il Sudafrica) è dall’UE assimilato ad una entità politica, pur prevedendo differenziazioni geografiche (riproducenti diversità regionali) e l’accresciuto ruolo della cooperazione regionale e dell’integrazione in quanto fattori di sviluppo.
In secondo luogo, il fatto che lo sviluppo è anzitutto affare degli interessati (uomini e donne), che debbono deciderlo-organizzarlo-realizzarlo: la popolazione deve appropriarsi della cooperazione e la sua gestione autonoma da parte dei paesi beneficiari favorisce il rafforzamento delle loro stesse capacità.
Dunque, distintamente per ognuno dei citati quattro capisaldi, le proposte concrete del «Rapporto Rocard» sono così sintetizzabili.
1) Una dimensione politica forte del nuovo partenariato ACP/UE deve basarsi sulla promozione dei valori della democrazia e del rispetto dei diritti umani;
– il successo delle politiche di sviluppo e di cooperazione allo sviluppo esige una visione integrata degli aspetti economici, politici, culturali, sociali, ambientali;
– per la prevenzione di conflitti, è richiesta la creazione di osservatori regionali su tensioni etniche, linguistiche, economiche, sociali o religiose. Inoltre, occorre instaurare delle strutture di gestione di risorse comuni, quali l’acqua, le terre arabili, le foreste;
– lo sminamento di paesi africani colpiti da tale calamità umana deve precedere ogni attività di sviluppo, come pure la limitazione e il controllo della vendita di armi. L’UE deve dotarsi di misure legali e amministrative in vista di controlli efficaci sui trasferimenti di armamenti;
– i paesi ACP debbono impegnarsi a limitare i loro bilanci militari, a rispettare i diritti umani (che includono i diritti della donna, della famiglia, dei bambini, degli anziani), a lottare contro l’arricchimento illecito e la corruzione, a consentire la libertà di opinione e di stampa, a gestire bene il governo del paese;
– per rafforzare la democrazia nei paesi ACP, la CE deve finanziare: la formazione di giudici e avvocati; la creazione e la diffusione di media indipendenti e non sovvenzionati dai governi; la formazione ai diritti umani, alla preservazione dello stato di diritto, alle procedure giudiziarie di militari, gendarmi e poliziotti; il sostegno alle forme tradizionali di risoluzione dei conflitti; lo sviluppo delle municipalità e delle organizzazioni indipendenti della società civile.

2) Il ruolo della donna nei PVS dev’essere considerato fondamentale nella lotta per lo sradicamento della povertà e per garantire a tutti il soddisfacimento dei bisogni umani fondamentali, quali: l’acqua pulita, l’instruzione di base, la sanità, la formazione, l’abitazione, l’alimentazione, l’ambiente;
– «l’economia popolare» e artigianale (in quanto: favorisce una crescente partecipazione; dà il senso delle responsabilità; promuove l’appropriazione dell’attività economica) deve essere considerata un fattore-chiave della politica di sviluppo e di cooperazione. Essa pertanto deve avere accesso al credito o micro-credito;
– occorre intervenire nella lotta alla povertà che colpisce i più deboli degli abitanti le periferie urbane (donne, bambini, ecc…);
– rifugiati ed emigrati (particolarmente in Africa) debbono ricevere aiuti non solo in cibo-acqua-tende, ma anche in termini di assistenza sanitaria (preventiva e curativa);
– bisogna diversificare le produzioni agricole di autoconsumo (in luogo delle monocolture da esportazione), valorizzando (anche a scopi farmaceutici) vegetali e alimenti locali.
La stessa CE è sollecitata ad associarsi per la promozione e la certificazione dei prodotti del «commercio equo e solidale» e – nei PVS – a finanziare la pubblicità a prodotti locali e non a prodotti importati.

3) Il «Rapporto Rocard» anzitutto esprime timori che la proposta della Commissione europea di negoziare accordi regionali di libero scambio possa tradursi in una recrudescenza della povertà e in un rafforzamento della tensione sociale negli stati ACP (deterioramento della produzione industriale locale, riduzione delle entrate pubbliche… a danno dei più deboli e vulnerabili). In concreto propone che:
– per un periodo di transizione di 10 anni, dalla scadenza (2000) della 4° Convenzione ACP/UE, sia dall’UE mantenuto l’attuale regime commerciale (preferenze, protocolli prodotti, compensazioni delle perdite di introiti da esportazioni) quale misura di accompagnamento al processo di adattamento e di integrazione dei mercati regionali;
– l’opzione di cooperazione economica deve essere finalizzata allo sradicamento della povertà e allo sviluppo durevole. Pertanto occorre evitare che l’adozione precoce e improvvisa del sistema unilaterale delle preferenze generalizzate costituisca un rafforzamento considerevole del protezionismo UE nei confronti dei PVS;
– considerando che i 71 paesi ACP rappresentano altrettanti voti (su 132) nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, la Commissione Europea è invitata ad assistere gli ACP nel rafforzamento della loro capacità di far valere i loro interessi in ambito OMC;
– si chiede il lancio di un vasto programma di trasferimento di tecnologie su base non commerciale verso i paesi ACP, accompagnato da programmi di formazione idonei, nonché un incremento degli aiuti alla lotta contro l’AIDS nei PVS;
– occorre sviluppare un quadro giuridico internazionale per assicurare la protezione della proprietà intellettuale della biodiversità nel Sud e dei diritti inalienabili delle popolazioni indigene;
– si incoraggia l’elaborazione di un progetto globale riguardante sia la riduzione del debito, specie dei paesi poveri più indebitati, sia le politiche bancarie e i tassi di interesse praticati;
– poiché la pubblicità diffusa nei paesi ACP riguarda essenzialmente prodotti importati, occorre che la CE sostenga campagne di pubblicità per i prodotti locali.

4) Ogni cooperazione dev’essere: responsabile, trasparente, efficace, visibile, con procedure semplificate, coerente con obiettivi tanto dell’UE quanto degli ACP;
– si chiede alla CE di prevedere procedure specifiche per operatori di sviluppo privati e operatori espressi dalla società civile a scopo non lucrativo (associazionismo, università, collettività locali europee, ecc…), al fine di attuare un reale decentramento della cooperazione finanziaria e tecnica;
– in particolare, le Organizzazioni non governative (ONG) debbono dalla CE essere consultate e informate e la loro attività deve essere integrata nella cooperazione europea allo sviluppo. In questo paragrafo il «Rapporto Rocard» evidenzia con dispiacere come la CE non abbia ancora sancito il principio di uno stanziamento finanziario specifico per gli attori non governativi;
– la «cooperazione decentrata» dev’essere considerata dalla CE come un principio cardine dei futuri accordi ACP-UE: adattabile ai differenti tipi di attori dello sviluppo negli ACP (collettività territoriali pubbliche, associazionismo di base, Ong, associazioni di migranti, imprese private, istituti di formazione, ecc…); essa deve inglobare misure e progetti che abbiano incidenza sulla vita quotidiana della gente e favorire iniziative dei rappresentanti locali delle categorie più povere della popolazione.
Gli stessi migranti siano, in Africa specialmente, considerati non tanto un problema quanto attori di sviluppo e come tali sostenuti dalla «cooperazione decentrata»; nel quadro di una politica generale di «co-sviluppo partenariale», i paesi europei che accolgono temporaneamente lavoratori provenienti dai PVS dovrebbero – in accordo con i paesi d’origine e di ritorno – definire e realizzare progetti di formazione ai mestieri direttamente legati allo sviluppo (agricoltura, artigianato, ecc…) e ciò per facilitare il rientro di questi lavoratori aiutandoli a diventare attori di sviluppo.

Il «Rapporto Rocard» non è uno sterile elenco di buoni propositi: è un importante atto politico della «Commissione sviluppo e cooperazione» del parlamento europeo, che indica alla Commissione europea le cose concrete che possono e debbono essere fatte. Questo perché l’Unione non tradisca le aspettative di solidarietà che, non solo le popolazioni dell’Est europeo, ma le sempre più imponenti legioni di depredati e poveri d’Africa in essa hanno riposto.
Un atto politico che ora ha bisogno del sostegno dei singoli parlamenti nazionali e dell’opinione pubblica europea.
Pier Giorgio Gilli (*)

(*) Pier Giorgio Gilli, presidente di «Sviluppo e Pace», ha partecipato – con diritto di parola – al convegno di Port-Louis (Mauritius), in rappresentanza del «Comité de Liaison» delle 900 associazioni europee di solidarietà che operano in collaborazione con la Commissione europea.

Piergiorgio Gilli




DOSSIER IMMIGRAZIONE (4)

DDiciamo, complessivamente, bene… Innanzitutto la quasi totalità delle donne invitate ha dato la propria adesione e chi non ha partecipato l’ha giustificato per ragioni di lavoro, inviando comunque un rappresentante del proprio Ente.
Tutte le partecipanti (sia delle istituzioni, sia del «terzo settore» e associazionismo, sia dell’imprenditoria) hanno seguito con vivo interesse, quasi sempre fino alla conclusione, gli interventi delle donne straniere. E ciascuna di noi, nell’ambito delle sue competenze, si è sforzata di dare risposte alle loro istanze e aspettative, dimostrando di prestare attenzione ed impegno alla realtà delle immigrate.
Non sono emersi dal dibattito pregiudizi o riserve mentali. Più d’una relatrice ha condiviso la valutazione iniziale del direttore dell’Ufficio Pastorale Migranti nel considerare le immigrate una risorsa: «La ricchezza è nelle diversità che si confrontano, che si lasciano trasformare senza rinunciare all’essenziale, ma arricchendosi dallo scambio».
In questa direzione, tra le altre, si è espressa Laura Malanca dell’Acli-Colf: «L’emigrazione è una risorsa. L’emigrante cerca lavoro, però la sua esigenza si incontra con quella delle native di avere una collaborazione per la gestione della propria casa, un’assistenza ai bambini e agli anziani della famiglia».
Nelle donne imprenditrici si è manifestata la disponibilità ad accogliere le donne straniere come risorsa-lavoro, a condizione che siano competenti sul piano della professionalità e conoscano la nostra lingua. Invero tali condizioni non sempre ricorrono, come abbiamo sentito da una cinese, che ha evidenziato la difficoltà per le sue connazionali di arrivare a possedere la lingua italiana.
Altre relatrici hanno espresso valutazioni positive sulle modalità dell’iniziativa: a cominciare dalla rappresentante dell’Assessorato alle politiche sociali della Regione Piemonte e dall’Assessore alla solidarietà sociale e alle politiche di genere del Comune.
La prima, a conclusione del suo intervento, ha evidenziato come «in una società multietnica e multiculturale sia necessario e importante che le istituzioni affrontino le problematiche dell’integrazione in modo cornordinato e con il coinvolgimento di tutte le componenti sociali, al fine di realizzare non solo forme di convivenza pacifica, ma di costruire una società armonica, che offra opportunità di sviluppo e realizzazione ad ognuna». Ha accennato ad un’interessante iniziativa, nata su proposta delle associazioni del volontariato: utilizzare «le risorse e valorizzare le capacità degli immigrati, presenti nel nostro paese da tempo, per fornire un tramite tra la cultura di appartenenza e la nostra società», lanciando la proposta «Contate anche su di noi. Il volontariato degli immigrati».
L’Assessore comunale ha espresso il proprio compiacimento per il clima sereno e costruttivo colto nel confronto-dibattito, molto più proficuo – ha osservato – di quanto, generalmente, ha potuto costatare in occasione delle «consulte degli stranieri, forse per il maggior spirito di collaborazione e socializzazione proprio delle donne». Ha affermato altresì che gran parte delle difficoltà e problemi esposti dalle donne straniere, con riguardo in particolare alle esigenze di servizi per l’infanzia, sono trasversali a tutto il mondo femminile.
Da parte di tutte si sono chiesti più posti negli asili nido; anche se questi ultimi recentemente sono aumentati, restano ancora inadeguati alle domande, perché c’è sempre maggiore richiesta. Si devono trovare soluzioni alternative a quelle attuali; occorre puntare sulla possibilità di creare micronidi, che coinvolgano la collaborazione delle stesse mamme.
Dopo un piacevole intermezzo, a tutti molto gradito (uno spuntino, che ha consentito di conoscere e gustare le leccoie preparate dalle donne africane), l’incontro si è concluso nel pomeriggio inoltrato.
L’auspicio generale è che l’iniziativa abbia un seguito, che il dialogo-confronto avviato non si perda, nell’interesse di tutte le donne, e non solo di esse.
L’Ufficio Pastorale Migranti ha colto tale interesse proponendo agli enti e alle associazioni, partecipanti all’iniziativa del 15 marzo 2003, di costituire un «tavolo permanente» di incontro-confronto, che possa coagulare le risorse emerse in quella occasione.
La risposta, anche questa volta, non è mancata: infatti il «tavolo» si è costituito e sta muovendo i primi passi. Presto si insedierà ufficialmente presso la sede della Commissione regionale per le «pari opportunità» che lo ospita.
Il proposito è che le donne straniere siano adeguatamente rappresentate, che il «tavolo» raccolga le loro istanze, aspettative e risorse, che ci sia una comunicazione circolare tra le donne migranti di diversa nazionalità, tra queste e le native e che queste ultime si facciano portavoce, presso gli enti e le associazioni di appartenenza, di quanto emerge dal confronto.
La sfida da vincere (in un tempo in cui tanto si parla di pari opportunità tra uomini e donne, ma che rappresenta una meta non ancora raggiunta) è che il «tavolo» di confronto diventi il mezzo per la realizzazione di pari opportunità tra donne migranti e donne di origine italiana.
Antonella Pavan

Antonella Pavan




La pulce penetrante di Gesù

L’ Africa non cessa di sorprendere. Nonostante i crescenti problemi, fa di tutto per sopravvivere, anzi per danzare la vita.
Lo scorso anno, in Etiopia, per un corso di aggioamento ai religiosi e al clero, presi lo spunto da un disegno di un artista africano intitolato: «Il Cristo che ride».
Oggi in Tanzania, per sviluppare il tema della salvezza, mi avvalgo come ispirazione del presepio allestito dai missionari della Consolata nella loro casa-procura di Dar es Salaam. Si tratta di una scultura, che si dispiega in uno stupendo groviglio di corpi scolpiti nell’ebano («maconde»), plasticamente culminante in una culla: vi riposa il bambino Gesù, che si massaggia un piede con il particolare atteggiamento che prelude… al sonno. «Dormire è bello – commenta un giovane africano -, dormire e sognare».
Interessante anche l’osservazione di un missionario della Consolata su quel divino infante: «Si sta togliendo una pulce penetrante. Povero Cristo! Ha sperimentato di tutto sulla terra».
I vangeli canonici non ci parlano di pulci penetranti; forse gli apocrifi… San Paolo afferma che, attraverso la sofferenza, il figlio di Dio ha capito che cosa significa essere figlio dell’uomo. E a tutti ha offerto la salvezza.
Anche alla pulce penetrante? Se questa non viene tolta subito, porta a complicanze irreparabili. Presa in tempo, è facilmente eliminabile, come fosse uno scherzo, un gioco da bambini.

«I l sorriso» e «il massaggio del piede»: due immagini che ci parlano dell’arte di ridimensionare ogni cosa, mantenendo un sostanziale ottimismo. Questo atteggiamento, tipico di molti africani, è riscontrabile anche in Tanzania, paese dai mille problemi, sapientemente affrontati con calma uno dopo l’altro, oppure rimandati in attesa di tempi migliori… quando a Dio piacerà.
L’arte di ridimensionare tutto non va confusa con la superficialità né, tanto meno, con il cinismo. Quando il peso della sofferenza è eccessivo e il lavoro per salvare il salvabile cozza contro una serie di fallimenti, è facile scoraggiarsi e sembrare indifferenti al dolore.
Se nell’ospedale di Ikonda, nel sud del Tanzania, durante il fine-settimana muoiono otto pazienti, in prevalenza giovani e tutti a causa dell’Aids, diventa indispensabile radunare gli infermieri e cercare insieme le ragioni per motivare ancora l’impegno al servizio della vita: anziché contare i decessi, si ricordano perciò i successi ottenuti. In ospedale la gente (non abituata agli antibiotici), con poche pastiglie ritrova condizioni di vita accettabili, mentre se fosse rimasta al villaggio, priva di medicinali o con le sole cure del «dottore tradizionale» (stregone), sarebbe morta in tempi brevissimi.
Ridimensionare, in questo caso, significa trasferire tutto in una nuova dimensione: non lasciarsi sopraffare dall’angoscia e dal senso d’impotenza, ma sentirsi orgogliosi delle vite salvate o che si è tentato di salvare.
L’arte del ridimensionare è teorizzata dall’arcivescovo di Dar es Salaam, Polycarp Pengo, ed è vissuta da lui con la spontaneità di un bambino. Dice: «Bisogna ridimensionare ogni cosa, sforzandosi di vedere prevalentemente le cose belle».
Il bambino attualizza il ridimensionamento e lo mette in pratica attraverso un rito che non ho mai visto in altre parti dell’Africa. Dai tre ai sette anni, i piccoli salutano i grandi ponendo la manina sulla testa degli adulti e ripetendo più volte: «Sono ai tuoi piedi». Per lasciarsi toccare la testa, il grande deve abbassarsi al livello del piccolo e, così facendo, si ridimensiona. Forse chi è coinvolto in questo gesto non ne apprezza a sufficienza la portata. Ma, visto dall’esterno, è molto significativo.
I bambini della scuola matea l’hanno ripetuto più volte anche con me e mia nipote Maria Rosa Lorini, coautrice di questo dossier. C’è da augurarsi che non vada perduto con il passare del tempo e il sovrapporsi delle culture.

C’ è pure da sperare che i tanzaniani mantengano inalterati i valori, ribaditi con forza da Julius Nyerere, il «maestro» per antonomasia del Tanzania.
Visitiamo questo paese ad un anno circa dalla sua morte, anche con l’intento di capire quale ricordo abbia conservato la gente di quest’uomo amante della giustizia, cattolico, convinto del valore della fede, vista pure come mezzo per motivare ulteriormente l’impegno politico.
Anche Nyerere è stato un esperto nel coinvolgere i suoi concittadini nell’arte di ridimensionare tutto: per lui si basava sulla familiarità con il pensiero di Dio, la nascita e la morte. Dava per scontata la vita eterna; considerava quella terrena il bene più grande, affidatoci dal Creatore, e aiutava il suo popolo a vedere ogni realtà nella giusta prospettiva.
E, mentre non usava mezzi termini nel denunziare lo sfruttamento dell’occidente nei confronti dell’Africa, invitava i popoli del continente a convivere in pace, senza sognare l’impossibile, ma vivendo una povertà dignitosa, cercando di essere liberi, autosufficienti e capaci di governarsi gestendo con intelligenza le risorse a loro disposizione.

P iù che riportare le mie impressioni o analisi, nel presente dossier preferisco, con Maria Rosa, cedere la parola ai missionari che stanno spendendo la vita al servizio dello sviluppo integrale del Tanzania.
Abbiamo incontrato parecchi preti e suore anche avanzati in età. Ma nessuno di loro sembra preoccuparsene, e continuano a rimanere sulla breccia: annunciano il vangelo, insegnano, guidano la jeep, fanno operazioni chirurgiche, programmano costruzioni di case e ponti come se non dovessero mai morire.
Vivendo in missione, hanno imparato a ridimensionare anche la morte.
Valentino Salvoldi
Padre Giuseppe, hai potuto girare il mondo fin da giovane. Che cos’è stato più consono alle tue aspettative?

Ho studiato teologia per quattro anni a Washington D.C. e ho lavorato per altri nove negli Stati Uniti. So di aver ricevuto molto dall’America e le sono grato delle opportunità che mi ha dato. Ma non ho mai desiderato di diventare cittadino americano. Il mio ha voluto essere un atteggiamento di apertura al mondo, un desiderio vivo di «partire», perché il mio sogno era l’Africa, senza escludere altri continenti.
Ho sempre desiderato la dimensione pastorale della missione; ma solo per due anni e mezzo ho potuto viverla in Kenya e per cinque in Tanzania. Spesso ho avuto incarichi di altro genere, fino ad oggi che ho 62 anni. Però non mi sono mai sentito frustrato. Mi ha sorretto la convinzione che la missione non è né il posto né l’attività, ma il cuore, e che essa è al «plurale»: cioè, compiuta nella diversità e organicità dei servizi.
Nel tuo servizio di superiore generale che cosa hai imparato?

Ho incontrato molte persone significative e profetiche, ad esempio: gli arcivescovi Paulo As e Luciano Mendes in Brasile, madre Teresa di Calcutta, i cardinali Joseph Malula e Edoardo Pironio (rispettivamente in Congo e Argentina), teologi di fama internazionale. E la lista potrebbe allungarsi. Il contatto con queste e altre persone ti consente un’analisi nuova della realtà, ti apre orizzonti sconfinati e ti lascia un’impronta. Sono ricordi indimenticabili.
Ho partecipato a numerosi incontri importanti, inclusi quelli dei superiori generali degli istituti missionari. Uno tra i più emozionanti: l’accordo di pace tra Frelimo e Renamo in Mozambico, presso la comunità di S. Egidio a Roma… Ho conosciuto la complessità delle situazioni dei paesi visitati e del mondo in generale. Ho avvicinato e apprezzato culture e popoli diversi, nonché una chiesa cattolica dalle espressioni più varie.
Ovviamente il mio ministero era rivolto soprattutto ai fratelli missionari, ai quali riservavo il mio tempo. Da loro ho imparato che cosa significa essere evangelizzatori nelle situazioni più disparate, remote e difficili: la guerra civile e i sequestri di padri e suore in Mozambico, lo snervante stato di apartheid in Sudafrica, lo Zaire defraudato da Mobutu, la lotta continua in Brasile per i diritti degli indios yanomami e macuxí, la guerriglia e il dramma della coca in Colombia, ecc.
Ho capito che l’atteggiamento più valido è la vicinanza, la frateità, la comprensione. Non ho mai preteso di essere maestro di missione: mi sono considerato un alunno, con il desiderio di comprendere la realtà e di amare i missionari. Ho colto il mistero della persona nei risvolti belli e meno belli. Ho appreso che il silenzio è spesso più valido della parola. Ho pure imparato a soffrire per decisioni difficili.

Pensando agli ultimi 30 anni, vedi prevalentemente dei progressi o dei regressi nell’Africa in generale?

Il progresso è visibile: africani intelligenti, capaci e sapienti in posizione di responsabilità a livello nazionale e mondiale; nazioni con più scuole e università, ospedali, città cresciute, strade asfaltate, mezzi di comunicazione più diffusi, gente che veste meglio, una dieta più ricca, più automobili, e così via.
Ma c’è anche un regresso. Il sogno che, con l’indipendenza, le nazioni dell’Africa avrebbero avuto un cammino di continua crescita e di autonomia economica si è infranto, lasciando una sensazione di sfiducia. Oggi esiste la consapevolezza che è impossibile per il continente tenere il passo dei paesi sviluppati. Questa è, forse, la più grave povertà.
Il regresso lo si vede nelle nuove guerre etniche e nelle quasi-dittature, nel numero dei rifugiati, nella decadenza generalizzata delle strutture scolastiche e sanitarie. La capacità di acquisto della moneta locale è minore rispetto ad anni fa. La giustizia è difficile da ottenersi, la corruzione è un cancro dilagante, l’Aids è un flagello con risvolti sociali immensi. Manca la pratica di un’amministrazione seria e onesta. Soldi che vengono deviati e rubati…
Problemi immani nei confronti dei quali ti senti impotente. Se fai qualcosa, avverti che è solo una goccia.

Nei paesi africani anglofoni ho notato, da parte degli studenti, un calo nella comprensione della lingua matea. Che ne pensi?

In Kenya l’inglese è parlato molto, perché la percentuale di chi frequenta la scuola secondaria è alta. In Tanzania la percentuale è molto bassa; qui inoltre il kiswahili è stato privilegiato: un fattore che ha avuto e ha grande importanza nell’unire la nazione ancora oggi, perché gli studenti e gli ufficiali governativi vengono spostati da un angolo all’altro del paese.
Il kiswahili è un patrimonio irrinunciabile: con la conseguenza, tuttavia, di staccarsi da un mondo globalizzato, che fa sempre più uso dell’inglese. La questione è dibattuta sui giornali. Sarebbe da miopi non guardare al futuro. Non per nulla parecchi mandano i figli a studiare in paesi anglofoni e molte scuole private danno priorità all’inglese come strumento di istruzione e comunicazione.

Che cosa puoi dire della situazione generale del Tanzania?
Colpisce il dato che questo è forse l’unico paese dell’Africa che non ha avuto guerre: il Tanzania è sereno fin dall’indipendenza. Può essere il frutto sia della politica di Nyerere sia del fatto che non c’è una tribù decisamente superiore e più forte delle altre. Ci sono pace e unità.
I missionari spesso commentano: «È persino una pace troppo… pacifica, senza voci che protestano contro le ingiustizie». La giustificazione data è: nel paese i conflitti non vengono risolti con la denuncia e la violenza, ma con il dialogo, l’intesa e la cooperazione tra stato e chiesa.

Ma ci vorrebbero altri «Nyerere»! Come giudichi quest’uomo a poco più di un anno dalla sua morte?

Nyerere ha avuto un grande significato politico nell’unire la nazione, nell’avere una visione e un programma da proporre. Qualcuno ha detto che era troppo idealista ed evangelico. Infatti l’ujamaa, come sistema economico, non ha funzionato e, come ogni forma di socialismo, sembra avere generato una persistente apatia: ancora oggi non è facile parlare di cooperazione, di lavoro d’insieme. Prevalgono individualismi e interessi personali.

La visione di Nyerere era nitida, ma il Tanzania è povero: non ha ricchezze del sottosuolo, un problema grave per una nazione che nasce. Fin dall’indipendenza è stato aiutato dai paesi nordici dell’Europa e da altri. Allo stesso tempo, però, Nyerere sottolineava il kujitegemea o «autosufficienza» e rifuggiva dal gioco capitalistico. Chi è venuto dopo di lui ha cambiato rotta, con il risultato di creare classi sociali in conflitto, specie nelle città.

Indubbiamente la statura politica e morale di Nyerere è grande. Ha lasciato al paese un’eredità di unità e pace. La sua visione andrebbe rivisitata e applicata ai nuovi tempi.

Dopo il cattolico Nyerere, la presidenza è passata al musulmano Mwinyi. Cosa è successo?

C’è stato un netto favoreggiamento degli appartenenti all’islam, che – si afferma – venivano messi in posti di responsabilità, indipendentemente dalla loro preparazione. È seguita una politica di apertura verso i paesi arabi. Forse la gente se n’è accorta poco; ma, se la situazione fosse continuata, oggi avremmo un Tanzania dal volto musulmano, non consono alla realtà numerica dell’islam.

E l’attuale presidente?

Mkapa è cattolico, ed è dello stesso partito di Nyerere, il «Partito della rivoluzione». Govea una nazione tra le più povere del mondo, priva di risorse e indebitata per circa 7 miliardi di dollari. È chiamato ad intervenire con urgenza su tre fronti: sanità, educazione e pagamento del debito estero; ma anche ad eliminare la corruzione. Lo promise qualche anno fa e stabilì una commissione ad hoc. Ma non si vedono i frutti, anzi!
In seguito al giubileo, il Tanzania ha ottenuto il condono di una parte del debito, purché la somma condonata sia devoluta ai servizi sociali. È un processo difficile, che avrà certamente i suoi vantaggi, ma non così immediati come si vorrebbe.

Perché non decolla l’industria?

Forse perché all’inizio Nyerere ebbe dei dubbi sugli investimenti esteri e la sua scelta prioritaria fu l’agricoltura, che oggi è di sussistenza; forse perché il governo pone condizioni troppo pesanti a chi vuol investire… temendo che i profitti volino all’estero. Anche così, circa 20 anni fa, nacquero delle aziende, ma ora la maggioranza di esse sono chiuse.
Il vuoto industriale genera mancanza di lavoro. È uno dei problemi più gravi del Tanzania. Non ci sono prospettive. Per chi studia e si prepara alla vita, anche all’università, questa è un’amara constatazione.

Da chi è maggiormente aiutato il Tanzania e con quale scopo?

Fin dai tempi di Nyerere – come hai ricordato -, i donatori più generosi di personale e mezzi sono stati i paesi del Nord Europa. Sono presenti in tanti campi: salute, agricoltura, ecologia, forestazione, preparazione e aggioamento del personale. Credo che siano due i motivi di tale disponibilità: l’affinità ideologica socialista e il desiderio di venire incontro alla povertà del paese. Poiché dubito che la seconda motivazione sia del tutto pura, sarebbe interessante sapere il prezzo che il Tanzania deve e dovrà pagare in futuro.

Rispetto ai tempi di Nyerere, oggi il paese è ancora più povero. Come vive la gente?
Di un’economia di pura sussistenza. In alcune regioni la siccità è endemica e la carestia è di casa; per cui l’agricoltura non soddisfa i bisogni della gente ed anche la sussistenza molte volte non c’è. Con questa economia è difficile educare i figli. Teoricamente la scuola è gratis, ma in realtà vengono continuamente sollecitati dei contributi: per i banchi, le costruzioni nuove, i quadei, gli esami, ecc. E la percentuale della popolazione scolastica è scesa.
Anche per quanto riguarda la sanità, il servizio dovrebbe essere gratuito. Però, se vai al dispensario governativo, le medicine non ci sono; e, per andare ai dispensari privati, spesso non hai i soldi. Così si vive alla giornata, senza possibilità di risparmio. I salari sono bassi e il governo ha già più volte dichiarato che non può aumentarli, perché lui stesso è il primo a non poterli pagare. Infatti, spesso, per gli impiegati governativi ci sono lunghi ritardi nel percepire il salario.

Nyerere aveva creato i villaggi «ujamaa». Di tali villaggi cosa rimane oggi?

Il mwalimu Nyerere aveva radunato la gente in villaggi per facilitare i servizi a tutti. Ci furono delle forzature ingiuste, che in alcune località resero odiosa l’operazione e crearono malcontento. Oggi rimane una struttura in virtù della quale ogni villaggio ha un’autorità governativa e di partito, la scuola elementare e il dispensario in molti casi. L’alfabetizzazione per tutti è uno dei grandi meriti di Nyerere.

Come funzionano i mass-media?

I giornali principali sono quattro: due in kiswahili e due in inglese. Vi sono altri organi di cronaca, ma senza indirizzo politico. Due giornali e la radio sono espressione del governo. La televisione è molto povera di programmi. Quasi inesistente internet. Il paese è, quindi, tagliato fuori dalla comunicazione globale.

Che percezione ha il tanzaniano del mondo? Come reagisce, ad esempio, vedendo i turisti?

I turisti non sono molti in Tanzania. Mancano infrastrutture, escluso un po’ il nord a motivo dei parchi nazionali. Non c’è una presenza di massa; per cui non si può parlare di impatto sulla gente. Invece a Zanzibar, negli ultimi cinque anni, sono stati costruiti 70 hotel. Il turismo si limita soprattutto a quest’isola e, meno, a Dar es Salaam. Ci sono voli diretti tra le città europee e Zanzibar. L’anno scorso i turisti furono circa 215 mila.
Quello del turismo è, in ogni caso, un mercato incerto. Prima delle elezioni del novembre scorso, i turisti avevano paura di venire; ora il timore continua, perché la situazione politica in generale è molto critica. Ci sono state bombe e almeno due hotel bruciati. Questo è controproducente, perché i turisti si guardano bene dal venire. Come si sa, poi, i profitti ritornano soprattutto alle compagnie di viaggio e ai paesi da dove provengono i turisti stessi.
Le Organizzazioni non governative aiutano il paese?

Ce ne sono molte e il governo cerca di controllarle e cornordinarle. Però si sente dire che tante nascono più per interessi privati che per aiutare la popolazione. Recentemente sono state soppresse una cinquantina di Ong.

Si può dire che la gente vive la povertà in modo dignitoso?

Oso dire che tutto è dignitoso nell’africano… Subisce dignitosamente anche la povertà, perché ha una capacità immensa di sopportazione del dolore e delle traversie varie. Ma ciò non toglie che sia un peso.
È un peso quando i genitori non possono educare i loro figli, quando mancano i denari per le medicine… quando vai all’ospedale e non ti curano, quando giunge il tempo della semina e non hai due soldi per il concime, quando vendi i prodotti a prezzi irrisori, quando i mezzi di trasporto sono scarsi, quando la malaria ti aggredisce più volte e ti debilita!
Per me è un mistero come l’africano possa vivere in certe situazioni e… sorriderti come se nulla fosse. Che le necessità siano innumerevoli, a livello personale e comunitario, lo testimonia il numero di richieste di aiuto.

Quali sono le priorità d’intervento dei missionari della Consolata per venire incontro alle necessità del paese?

Da tempo gestiamo un ospedale a Ikonda, nell’Ukinga, una zona remota. Legata alle esigenze dell’ospedale, è nata una scuola per infermiere, riconosciuta dallo stato. Da tanti anni a Mafinga è attiva un’importante scuola secondaria, che è anche una Boarding School, cioè un collegio.
Ancora: nella città di Iringa sono nati la Faraja House (casa della consolazione) e il Consolata Vocational Centre, che è una scuola professionale. La Faraja House accoglie i ragazzi di strada; la scuola professionale è per loro ed altri ragazzi. Queste opere sono a carattere regionale e assorbono molte risorse, anche finanziarie.
Poi ogni missione ha le sue strutture, che riguardano educazione, salute, acqua… Da sempre consideriamo lo sviluppo parte integrante dell’evangelizzazione. La vicinanza alla gente è una nostra caratteristica fin dagli inizi della nostra presenza in Africa (Kenya).

«Ragazzi di strada»? Pensavo che in Africa un ragazzo, orfano di entrambi i genitori, fosse facilmente assorbito dalla famiglia estesa…

Certamente era così nel passato e in alcuni luoghi continua ad esserlo. Ma, in seguito all’Aids, il numero degli orfani è cresciuto in modo tale da rendere impossibile a molte famiglie di assorbirli, avendo già grosse difficoltà a crescere i propri figli. Pertanto molti orfani fanno della strada la loro casa: vivono in bande, si danno al furto e alla droga leggera.

Quali sono gli aspetti positivi della chiesa in Tanzania?

Ricordo i più evidenti.
1) La struttura delle «piccole comunità cristiane». È una realtà capillare, un’autentica benedizione, feconda di frutti. A differenza delle comunità di base dell’America Latina, quelle tanzaniane non hanno un carattere sociale, ma solo di preghiera e riflessione sulla parola di Dio. Si desidererebbe che avessero anche un impatto sociale. Tuttavia sono una fonte di ministeri, una opportunità di aiuto vicendevole e una sorgente di istanze per l’intera parrocchia. Tutto passa attraverso le «piccole comunità».
2) L’impegno dei laici (incominciando dai catechisti) è ammirevole. I consigli parrocchiali sono presenti anche nei villaggi. E sono i laici che portano avanti tutte le varie attività e stimolano la crescita della comunità. C’è sete di formazione. Anche le associazioni sono vive e attive.
3) L’attività della chiesa nel campo sociale. Nessuna area di bisogno esula dal suo interesse. Si prodiga con generosità e successo.
«Batti il tamburo,
non i bambini!»

Q uesto è lo slogan che padre Franco Sordella e i bambini della Faraja House hanno scelto per l’inaugurazione della loro nuova scuola elementare nel settembre scorso. La Faraja House (casa della consolazione) è un centro nella città di Iringa per ragazzi difficili: in maggioranza provenienti dalla strada e parecchi orfani. Ognuno con il suo bagaglio di abbandono, violenza, miseria.
Il progetto (uno dei tanti realizzati dai missionari della Consolata) è iniziato dal nulla tre anni fa. Oggi consta di due settori: il primo, «ragazzi di strada» per la riabilitazione; il secondo, per l’avviamento professionale anche di minori che non vivono nella Faraja House. Il tutto è quasi un villaggio: comprende dormitori, refettori, cucine, laboratori, dispensario e la scuola tecnica, che annovera 60 ragazzi. Con gli altrettanti bambini della Faraja House, si raggiunge un totale di 120.
Ma ci sono anche i frequentatori della domenica: ragazzini che sopravvivono lavorando al mercato e vivendo in «tane» (ad esempio, presso i mucchi di crusca dietro i mulini). Ad essi, «il dì di festa», viene offerto un buon pasto e la possibilità di lavarsi e di non restare analfabeti.
Oggigiorno anche le scuole governative sono a pagamento: perciò pochi sono i bambini che hanno la possibilità di frequentarle. Nel paese scarseggiano strutture e maestri: così non bisogna stupirsi se, entrando in una classe, si trovano anche 100 allievi, che devono solo rimanere seduti e buoni, presente o meno l’insegnante, se non vogliono essere castigati.
Accanto al «problema scolastico», sta aumentando anche il numero di bambini che, come Issa, rimangono orfani a causa dell’Aids. Issa (Gesù) è stato accolto nella Faraja House a natale.
Visto che Gesù bambino fu rifiutato, perché – si sono detti i missionari – non cercare in città il ragazzo più abbandonato e solo? Uno di quelli che dormono nascosti per paura di essere picchiati o abusati dai più grandi… e dargli una famiglia? È saltato fuori Issa, che ha trovato finalmente casa, ma anche chiesa, scuola e lavoro.
Già, lavoro. Non bisogna stupirsi se, nella Faraja House, la prima cosa che si compra all’inizio della scuola non sono i libri, ma la zappa. L’importante è che il lavoro non diventi l’unico riferimento a scapito dell’istruzione e, soprattutto, che gli insegnanti non costringano i ragazzi a lavorare nei loro campi tutto il giorno sotto la minaccia del bastone.

M entre la Faraja House ospita bambini di strada, per i ragazzi che cercano un lavoro (in particolare le ragazze) è stato creato il Centro «Stella del mattino», anch’esso nel territorio di Iringa. Costruito e gestito dai missionari della Consolata, «Stella del mattino» ospita 60 adolescenti provenienti da villaggi dove non esistono le strutture necessarie per l’istruzione.
Il sistema educativo del Centro è «studio e lavoro»: lo stesso che vige nelle scuole statali fin dai tempi dell’ujamaa. La filosofia pedagogica di base enfatizza «l’importanza di trasmettere ai ragazzi le conoscenze che possano situarli in una buona posizione sociale e renderli cittadini capaci di autoguidarsi e portare il loro popolo fuori dalla povertà e dall’ignoranza» (J.T.K. Ulimwengu, capo editore Rai/Mtanzania).
Nel Centro si punta all’autosostentamento: sia per non dover dipendere da aiuti estei, sia per rendere più consapevoli i giovani. Qui essi possono mantenersi allevando animali, coltivando i campi e, nello stesso tempo, formandosi culturalmente per far fiorire domani tutte le potenzialità che la nazione possiede. In Tanzania nel 1996, durante il seminario organizzato dal «Centro per l’energia, lo sviluppo, la sicurezza e la tecnologia», si discusse sul deterioramento del livello qualitativo dell’educazione. Se nelle scuole primarie il problema maggiore è legato al sovrannumero, alle secondarie (dove il numero degli studenti è contenuto a causa della selezione per merito) la violenza sessuale costituisce il principale fattore di ingiustizia e continua ad essere al centro di dibattiti e della cronaca locale.
Il Ministro dell’educazione ha rivelato che, tra il 1995 e il 1998, 12.721 ragazze furono espulse dalla scuola poiché incinte. Anche da parte degli insegnanti.
«ho visto la bontÀ
liberatrice»

«A bbiamo visto i miracoli dell’amore» potremmo intitolare un libro, se volessimo narrare ciò che uomini e donne di Dio, preti e suore locali, missionari e laici, stanno realizzando a favore dei più poveri nei più remoti angoli della terra, là dove manca tutto: acqua, cibo, strade, ospedali, scuole.
La jeep s’inerpica sui monti a sud della Tanzania, oltre i 2 mila metri: antichi tratturi trasformati in «strade», che si possono affrontare durante la stagione secca, ma che si convertono in rovinosi torrenti durante i sei mesi delle piogge. Nonostante si creda che quattro ruote motrici possano fare miracoli, sovente ci s’impantana al punto da non potersi più muovere.
E quelle zone che sembravano deserte, d’un tratto si animano di persone che sbucano da ogni angolo, si organizzano in breve tempo e rimettono la macchina in condizione di riprendere il viaggio. È uno dei volti della solidarietà africana, una dimostrazione che l’antica massima vale ancora: «Io sono, perché noi siamo». Non si contano i saluti, i complimenti e i ringraziamenti, anche se qualcuno afferma che non è conveniente ringraziare perché, come dicono soprattutto i musulmani, «chi ha una ricompensa in terra non l’avrà in paradiso».
Da Njombe – dove finisce la strada asfaltata – a Ikonda, per percorrere 70 chilometri impieghiamo più di tre ore. Fortunatamente da alcuni giorni non piove. Intoo a noi spazi immensi e verde… verde dappertutto: siamo nella stagione delle piogge. Le poche abitazioni che si scorgono sono in terra rossa e hanno il tetto di paglia, dal quale fuoriesce fumo. Il cibo è cotto in pentole appoggiate su tre pietre, che costituiscono il focolare, per terra, in mezzo all’abitazione «multiuso». E il cibo è tutti i giorni uguale: polenta e fagioli.
Lo stesso cibo ci viene offerto dai parenti degli ammalati nell’ospedale di Ikonda. Quando la struttura venne ultimata, fu chiesto ai capi dei wakinga e wabena (etnie locali) come dovesse essere l’ambiente affinché i degenti si sentissero più a loro agio. Risposta: una grande stanza aerata, dove ognuno posa le sue tre pietre, simbolo dell’unità familiare, sulle quali cuoce la solita farina di mais. È meglio non cambiare troppo le abitudini delle persone. Poi toeranno al loro villaggio…
Ogni tanto suor Magda porta ai bambini un uovo oppure, alle mamme, un po’ d’olio per condire le patate bollite quando ci sono. La malnutrizione non aiuta certamente la guarigione.
L’ospedale è gestito dai missionari della Consolata. Può ospitare 200 ammalati e vi lavorano tre medici africani e tre spagnoli. Attualmente è il governo spagnolo a fornire i fondi per il funzionamento della scuola-infermiere e per la formazione degli assistenti medici; ma il personale competente è insufficiente. L’organizzazione Medicus Mundi cerca costantemente volontari, e si può contare sulla presenza di persone disposte a spendere qualche anno della loro vita per gli altri.

F ra le malattie (che richiedono il ricovero in ospedale) nel 1995 al primo posto c’era la malaria, passata poi al secondo. Oggi è l’Aids che detiene il triste primato: lo è anche nella classifica dei decessi. Nell’ospedale abbiamo sfogliato il voluminoso registro dei pazienti che fanno il test dell’Hiv.
Il fatto che tante persone vi si sottopongono significa che hanno comportamenti a rischio, o che vivono in ambienti dove il contagio può essere frequente, oppure che manifestano già alcuni sintomi. Orbene: ogni pagina del registro reca 18 nomi; quelli scritti in rosso sono «sieropositivi»; solo due (a volte tre) i nomi in nero, cioè i «negativi».
Nella regione di Iringa-Njombe la trasmissione dell’Aids è particolarmente accentuata anche a causa del lavoro «offerto» dalla Brooke Bond, multinazionale del tè. Il lavoro si protrae per 11-12 ore al giorno, anche sotto la pioggia, per una paga mensile che varia da 90.000 a 150.000 lire, a seconda della quantità di foglie raccolte.
I lavoratori, immigrati stagionali per la raccolta, vivono nelle casette degli accampamenti costruiti dalla compagnia, isolati. Ovunque ci sono contadini che non lavorano «in proprio», costretti anche a comprare il cibo (per lo più proveniente dal campo del manager). Non essendoci alcun diversivo, sono facile preda dell’alcornol e della promiscuità.
All’ospedale di Kibao (della Brooke Bond) risulta che 9 operai su 10 sono affetti da Hiv positivo. Quando la malattia comincia a manifestarsi, viene loro corrisposta una piccola liquidazione e sono licenziati. Con l’aggravante che, non essendo stati informati della natura e della pericolosità del male, tornando al villaggio, contagiano chi vi è rimasto. La compagnia del tè ha pensato di risolvere il problema così: un’ora settimanale di istruzione sull’uso di profilattici e sull’importanza di anticoncezionali e abortivi. Nessun accenno viene fatto agli effetti collaterali che, usando i farmaci Depoprovera e Norplan, comportano rischi elevati. Non a caso, nel Nord del mondo, tali farmaci sono stati banditi. E non solo perché, con il passare del tempo, causano sterilità nelle donne.
Se nei centri sanitari governativi non fossero praticate regolarmente «certe» iniezioni, il paese non riceverebbe più gli aiuti dall’estero. E questo sistema sta distruggendo l’«orgoglio delle tanzaniane». Una donna, infatti, diventa tale solo dopo aver partorito il primo figlio: da quel momento sarà «la mamma di…». Col tempo, il ricorso sommario a contraccettivi distruggerà la fertilità di un’intera popolazione.
Inoltre negli ospedali governativi, al momento del parto, soprattutto se c’è stato un cesareo o in seguito a complicazioni, spesso sono i medici a decidere indiscriminatamente, senza chiedere il consenso di alcuno, di chiudere le tube delle giovani madri. Queste vengono a scoprirlo soltanto in seguito quando, vedendo che non arrivano altri figli, effettuano visite di controllo, magari negli ospedali dei missionari.
Una tanzaniana, confidandosi con una missionaria della Consolata, ha commentato: «Noi abbiamo molta più fiducia nei vostri ospedali, perché qui c’è il timore di Dio, mentre in quelli del governo c’è solo il timore della nazione».
Maria Rosa Lorini

Valentino Savoldi e Maria Rosa Lorini