CAMBOGIA – Se mine e aids scomparissero

Un futuro già compromesso?
Si muore di diarrea o di Aids. O per lo scoppio
di una mina. Ma la Cambogia non è solo questo:
è anche natura esuberante, frutti succosi,
fiori profumati, sorrisi disarmanti.
Ricordo di un paese dove violenza e dolcezza
convivono fianco a fianco.

M olte sono le immagini che hanno rappresentato la Cambogia in articoli, saggi, libri. Immagini quasi sempre drammatiche: campi disseminati di ossa e teschi, bande di guerriglieri con lanciagranate in spalla, terreni minati, vittime delle mine per le vie di Phnom Penh o nei villaggi di campagna. Tutte cose assolutamente vere e realistiche, ma non sufficienti a raccontare la Cambogia.

I n questo strano paese gli estremi si mescolano in un solo ricordo. E così, accanto ai drammi di una popolazione violata, si aggiungono immagini di volti dolcemente sorridenti e, accanto a immagini di corpi in fin di vita per l’Aids, quelle delle danze aggraziate apsara. Ricordo molto di più la dignità che la disperazione, negli animi delle persone con le quali ho lavorato e vissuto per oltre un anno.
È incredibile come qui convivano due anime: quella della violenza e quella della disarmante dolcezza. Ad esempio, per le vie di Phnom Penh, trasudanti caldo e polvere, durante il giorno era evidente l’aspetto sofferente della città: cupe abitazioni, giungla di fili elettrici abusivi, amputati e poveri medicanti a popolare i bordi di strade inesistenti, la povertà evidente dei piccoli mercati. Ma la sera, lungo il Tonle Sap o intorno al Wat Phnom, centinaia di famigliole, sedute su stuoie nei prati e sul lungofiume, gustavano uova sode o pesce affumicato, in un quadro di bei colori ed armonia. E nelle province, nei remoti villaggi, dove miseria e malattie dettano le regole di una stentata sopravvivenza, non mancano i fiori davanti alle case in legno e bambù, né vengono risparmiati sorrisi al visitatore.
Né posso dimenticare lo splendore di una natura esuberante, di frutti succosi (non ricordo di aver conosciuto altri posti con tale varietà di frutti), fiori profumati (il frangipane la sera, o dopo la pioggia, diffonde a tutta la città il suo profumo) e fiori colorati (i flamboyantes che adoano i viali della capitale come i sentirneri dei villaggi). In questo splendore tutto a volte assume un aspetto solenne e celebrativo, soprattutto quando i mille colori del tramonto tingono meravigliosamente fiume e risaie.

D ella Cambogia ricordo lo splendore dei tetti oro e smeraldo del palazzo reale, i luminosi viali di Phnom Penh, i mille tetti delle innumerevoli pagode che appaiono ovunque, le colorate cerimonie con i solenni bonzi dal cranio rasato e le tuniche arancio, il delizioso pesce-elefante pescato nel Mekong e servito con profumate salse al mango verde.
E come non collegare il ricordo della Cambogia al mistero e al fascino di Angkor Wat, il cuore del paese, che merita da solo un viaggio in Indocina. Cammini per ore nella giungla soffocante, tra templi ricamati, imponenti colonnati, i quattro volti di Bayon, fino a raggiungere un’immagine che toglie il respiro: l’enorme complesso di Angkor, memoria storica e intima del popolo khmer.
Nonostante questo, chi è stato in Cambogia non da turista non può evitare di sentirsi come in un immenso sacrario, dove le sofferenze inaudite di un popolo hanno innaffiato di sangue gran parte della attuale vegetazione. Per fortuna, questo pesantissimo ricordo è vissuto dai khmer con discrezione, quasi come una vergogna da coprire.

P er me e la mia famiglia è stato come conoscere i sopravvissuti di Auschwitz, vittime dell’ennesimo olocausto.
Avrei avuto voglia di interrogarli, ascoltare i loro racconti, le loro vite difficili da immaginare. Ma loro discreti scivolavano sul passato, fino a quando, magari passeggiando alla sera, ti raccontavano come una storia qualsiasi di quando videro massacrare a bastonate i loro cari, in quel delirio che erano i «campi di rieducazione» o, con minor eufemismo, i «killing fields», i campi dell’uccisione.
Ancora oggi i cambogiani sono un popolo costretto a subire violenze quotidiane: una corruzione senza vergogna, l’arroganza illimitata di chi detiene il potere (magari conferito dai proventi di traffici illeciti), fino al drammatico disboscamento che sta minacciando l’equilibrio ecologico del paese. Come se ciò non bastasse, c’è la piaga dell’Aids, che trova nella capillare rete di prostituzione e bordelli l’ideale terreno di coltura per una crescita esponenziale, proprio lì dove i farmaci per curare l’infezione e le complicanze sono introvabili.
Si muore di Aids; si muore di diarrea nei lontani villaggi delle province di Ratanakiri o Stung Treng; si muore ancora su una mina a Anlong Veng o vicino Battambang. E la fabbrica delle protesi è forse l’unica industria dal roseo avvenire nel paese.
In Cambogia centinaia di Ong e agenzie di cooperazione si sono date appuntamento, forse con un esubero eccessivo e con finalità non sempre compatibili con un reale sviluppo del paese.

Oggi, nella mia mente, rivedo le persone che ci sorrisero, per rincuorarci nei momenti difficili, quando tutti avevamo paura, o per esprimere la loro fiducia nel nostro lavoro. Ecco, i mille sorrisi di quella gente costituiscono, per me e la mia famiglia, ricordi indelebili di un anno indimenticabile.

Carlo Urbani




La moschea nel convento

La diffusione dell’islam in Italia

I corsi di corano e di lingua araba vengono ormai proposti anche da associazioni cattoliche. Molti giornali diocesani danno ampio spazio all’islam. I matrimoni tra cattolici e musulmani sono in aumento. Però sono sempre i primi ad abiurare la loro fede. Perché? Perché l’«ecumenismo» è un atteggiamento esclusivamente cristiano? Queste ed altre domande in un articolo molto critico verso le aperture di una parte del mondo cattolico nei confronti dell’islam.

Suor Consolata Tonetti è la direttrice dell’Istituto San Giuseppe di Aosta. È molto occupata: «Siamo in poche, qui c’è tanto da fare…». All’ingresso si nota un grande manifesto: «Sabato 18 marzo 2000 verranno celebrati i 350 anni della fondazione della congregazione».
Suor Consolata mi offre un opuscolo: «Se il tuo cuore ti chiama al coraggio del dono della vita di Cristo per la felicità dei fratelli, puoi rivolgerti alla Comunità delle suore di San Giuseppe…».
Madre Consolata, dicono che nel suo istituto si insegna il corano, si tengono lezioni di lingua araba, qui si celebrano le festività musulmane…
«Questo è un grande complesso. Abbiamo affittato diversi locali alla Cooperativa “La sorgente”. Sono loro che organizzano tutto questo.
La grande festa musulmana dell’Aid El Kebir quest’anno la celebreranno al Centro Anita, nei locali del comune di Aosta».
Madre, vi sono molti missionari che danno anche la loro vita per la diffusione del vangelo. Come mai voi, nel vostro istituto fate opera di diffusione dell’islamismo?
«Noi non siamo missionarie… Ad Aosta c’è una moschea in via Trottechien. C’è un centro islamico sovvenzionato dal comune… Vi sono diversi matrimoni misti».

Nella stessa costruzione, ai piani superiori, vi sono gli uffici ed alcune sale della Cooperativa «La sorgente». Il direttore Riccardo Jacquemod: «La nostra attività consiste anche nel tenere corsi di corano e di lingua araba. Abbiamo personale algerino e marocchino. Ultimamente abbiamo ottenuto dal comune la sovvenzione per insegnare la lingua araba a diversi bambini, figli di immigrati o di valdostani convertiti all’islam…».
Ci troviamo in un grande salone. Noto dei fogli murali con scritte in lingua araba. «Il corso ha lo scopo di favorire l’inserimento dei bambini nella nostra comunità… ha lo scopo di mantenere e rafforzare l’utilizzo della lingua araba nei giovani che sono venuti in Italia o che sono nati qui da matrimoni misti…». «Il mantenimento della lingua, cultura e religione araba costituisce uno degli obiettivi previsti anche dalle normative sull’immigrazione…».
«Il corso, gratuito (pagato dal comune, ndr), è affidato alla tirocinante, di madrelingua libica, Samira Abodaber e alla marocchina Maijida Khanouri».
Dirigente della cornoperativa è anche una donna algerina, Samia Soltane, sposata con un valdostano. Sono di religione musulmana, compreso il loro bambino che porta, come la gran parte dei figli dei matrimoni misti, un nome arabo.
Un familiare del presidente della cornoperativa scrive anche sul locale giornale diocesano Il Corriere della Valle d’Aosta, diffuso in tutta la regione in alcune migliaia di copie. Questo periodico pubblica regolarmente notizie sul mondo islamico e anche lezioni di corano. È però un corano «addomesticato», anzi si potrebbe dire «cristianizzato», bonario, propagandistico, che fa vedere quanto «quella cultura» non sia corrotta come lo è invece il mondo occidentale. In questo modo sono in molti a comprendere che le conversioni all’islam sono un’azione voluta anche dalla chiesa cattolica perché «dobbiamo tutti volerci bene…».
Il direttore del Corriere della Valle d’Aosta è Fabrizio Favre. Intervistato, dichiara: «Noi, per par condicio, non possiamo fare come gli integralisti in Sudan, Afghanistan o altrove. Noi vediamo l’aspetto islamico nell’ambito del rispetto… Se i musulmani sono in continuo aumento, è colpa della nostra poca fede».

Il giornale valdostano diocesano pubblica settimanalmente una rubrica dal titolo «Conoscere per dialogare», curata da Carla Jacquemod della Cooperativa «La sorgente». Nel numero del 3 giugno 1999 si parla di Gesù e Maria nell’islam: «Gesù occupa il 4° posto per ordine di importanza dopo Mohammad, Mosè e Abramo; è un uomo, un ottimo musulmano; non è vero che morì in croce: qualcun altro fu messo al suo posto (Giuda? L’apostolo Pietro? Un soldato romano?). Gesù fu elevato al cielo donde ritoerà, come segno dell’ora e nel giorno del giudizio finale testimonierà contro i giudei e i cristiani (!). Ha ricevuto una rivelazione come Mosè e Maometto, cioè il Vangelo, non ha senso parlare di 4 vangeli… Gesù non è Dio, né il terzo di una triade di dèi (con il Padre e Maria). Gesù è soltanto servo di Dio».
Prima della fine del mondo toerà, combatterà con l’aiuto di Dio insieme con i musulmani contro Gog e Magog e sterminerà tutti i suini del mondo (animali proibiti). Gesù prenderà moglie, avrà figli, farà la preghiera musulmana e il pellegrinaggio (alla Mecca). Morirà e sarà sepolto a Medina, nella grande moschea, vicino a Maometto e a Alì Bakr (il 1° califfo). Nel giorno del giudizio risorgerà e, con sua madre Maria, farà capire a tutti di essere un vero musulmano (sic). Gesù è annunciatore della successiva venuta di Maometto…
A questa affermazione si potrebbe obiettare: come è possibile che Gesù sia stato un buon musulmano se Maometto e questa religione sono nati sei secoli dopo?
Il commento dell’autrice, scritto sul giornale diocesano cattolico di Aosta: «Nei nostri approcci con i musulmani dobbiamo fare attenzione al linguaggio (evitando di parlare del peccato originale). Non nominare il Salvatore, la redenzione, la morte in croce; dobbiamo far capire ai musulmani che non vogliamo divinizzare l’uomo Gesù… Maria è la sorella di Aronne, credono che sia venerata dai cristiani come membro della Trinità… La vogliono figlia di Imran e affidata a Zaccaria, suo parente, che l’accoglie nel tempio. Per i musulmani è particolarmente urtante chiamarla madre di Dio, è meglio chiamarla madre di Gesù».
Come commentare queste «istruzioni» apparse su un giornale cattolico?

di Michel Barin C.

Michel Barin C.




Un mese tra dentiere ed estrazioni

L’esperienza e le riflessioni di una giovane coppia
di odontotecnici, marito e moglie.

Finalmente ci appare la missione su una collinetta. Notiamo subito il piccolo ospedale e la chiesa, la cui facciata guarda a valle una immensa savana. È il 14 agosto. Qui è inverno, ma il sole si fa sentire.
Siamo in 10 sulla Land Rover di padre Giuseppe, che rimorchia la nostra jeep con il radiatore rotto. Fortunatamente, trainati prima da un camion e poi dal missionario, giungiamo a questo Fort Apache della cristianità: Laisamis Mission!

Era buio pesto
quando abbiamo lasciato Timau, la missione dove abbiamo lavorato un mese come odontotecnici-dentisti, assistenti del dottor Romolo Grandi di Torino. Questi è un veterano del volontariato in Africa.
Le fertili terre dei kikuyu, che circondano il Monte Kenya (5.200 metri e nevi perenni sotto l’equatore), sono state trasformate in poche e vaste fattorie, gestite da ricchi stranieri. Le farms offrono vitali posti di lavoro, però sottopagati. Tuttavia chi ha uno stipendio può ritenersi fortunato.
Lasciata Timau, siamo entrati nella savana sempre più arida. A Isiolo termina la strada «asfaltata». È una città di frontiera per il Kenya nordorientale: vi si fanno i rifoimenti, se si prosegue per il nord. È anche l’ultimo posto di polizia. Chi vuole raggiungere Marsabit (300 chilometri di pista) deve viaggiare in convoglio, per ridurre il pericolo di attacchi degli shifta. Qui finisce il Kenya e comincia l’«Africa».
La pista è relativamente facile fino al bivio per il Samburu Park; poi diventa più faticosa. Ci è venuto da ridere pensando ai super-fuoristrada nelle città italiane.
Siamo entrati nella terra dei samburu, turkana, rendille e ol molo, popoli affascinanti come i masai, con pochi contatti con il mondo moderno. Appena sfiorate dal XXI secolo, queste popolazioni vivono secondo le loro antiche tradizioni. Qualcosa sta lentamente cambiando in meglio, grazie al lavoro nei parchi e all’intensa azione missionaria.
Superato Archer’s Post (dove nel 1998 fu ucciso padre Luigi Andeni, missionario della Consolata), abbiamo incrociato zebre e giraffe, gli onnipresenti dik dik e i velocissimi facoceri. È facile incontrare pure il leopardo che caccia.
Una buca… e il radiatore è saltato. Siamo rimasti in panne nel cuore della savana. Panico! Questo però ci ha dato l’opportunità d’incontrare i samburu con le loro file d’asini. Tanti ragazzi sono pastori, armati di lance, ma anche di fucili: indossano i loro caratteristici costumi rossi, sono quasi tutti scalzi e oati di collane e braccialetti colorati.
Poi… è arrivato padre Giuseppe.

Nella missione di Laisamis,
insieme a padre Giuseppe Satriano, c’è pure padre Fabio Zecca, entrambi missionari fidei donum di Benevento. Ci hanno ospitato nella loro casa ordinata e pulita.
A Laisamis mancano acqua, elettricità e telefono; si sopperisce con boniane, che con orgoglio ci hanno fatto da guida. Ci hanno raccontato la lotta con gli «stregoni», che per curare «avvelenano» i malati; quando i pazienti arrivano alla missione, non c’è più nulla da fare. In un letto giaceva una ragazzina agonizzante, già trattata da uno stregone.
Le missionarie ci hanno descritto la battaglia contro il colera, sconfitto grazie all’intervento di «Medici senza frontiere», premio Nobel per la pace, che hanno inviato i medicinali (1.200 curati, di cui solo 7 morti)… Quanto siamo lontani dai circuiti turistici e dai safari con i pulmini!
Il giorno seguente, festa dell’Assunta, abbiamo partecipato ad una messa indimenticabile. Con le suore e padre Giuseppe, eravamo gli unici bianchi; ma non ci sentivamo a disagio, anzi! Era così grande la cordialità che ci siamo persino scordati di scattare foto alle donne: alcune bellissime, dai lineamenti somali. Incuriosiscono le collane di perline colorate, i lobi delle orecchie con piattelli e legnetti appuntiti.
A cena abbiamo descritto la nostra modesta esperienza di volontari e la difficoltà in poco tempo di assistere tanti pazienti (in attesa da un anno) e insegnare alle suore i rudimenti del mestiere. Alla nostra partenza, dovrebbero sostituirci. Non è semplice.

Il dottor Romolo Grandi
ha impiegato anni ad impiantare a Timau uno studio dentistico e un laboratorio odontotecnico funzionali. Le suore di santa Teresa del bambino Gesù, guidate dall’instancabile suor Rita Alba, hanno fatto miracoli per riunire il tutto. Però si lavora solo un mese l’anno!
Ciò nonostante, il dispensario medico di Timau, l’ospedale di Kiirua e l’orfanotrofio di Kibirichia sono punte di diamante nell’assistenza sanitaria: tutte iniziative dei missionari della Consolata (il centro sanitario di Timau, opera di padre Attilio Ravasi, è da pionieri). Avviata l’opera, i missionari consegnano tutto ad altri, per ripartire da zero altrove.
In Italia, prima di giungere a Timau, abbiamo pensato ad una missione di preti e, invece, ci siamo trovati con 13 suore, di cui 11 africane. La loro accoglienza è stata calorosa. Abbiamo apprezzato il loro lavoro «con» e «per» la gente, soprattutto la più povera. Sono capaci di tutto: coltivano l’orto per sfamare i loro 100 bambini dell’asilo; dopo cena fanno maglioncini fino a tarda ora (noi eravamo cotti!) e, soprattutto, offrono assistenza sanitaria. Io, Nino, ho aiutato suor Mary il giorno delle vaccinazioni: ho perso il conto, tanto erano numerosi i bambini.
Timau è un villaggio dove, con il lavoro nelle farms, è arrivato un minimo di benessere. Le costruzioni di legno lungo la strada sono negozi caotici e strapieni. Un mercato occupa permanentemente un crocevia. Non ci sono molte case, ma i villaggi vicini, densamente popolati, sono tanti: si pensi che il sacerdote di Timau celebra la messa in ben 15 chiesette.
La strada asfaltata è affiancata da sentirneri, dove pedoni e biciclette sono abbastanza al sicuro dalle auto e dagli spericolati matatu (scassati Peugeot pick-up, che fungono da minibus, stracolmi di gente e mercanzie). Abbiamo viaggiato da Nanyuki a Timau su un matatu: è un’esperienza indimenticabile. Siamo partiti solo quando l’autista, dopo avere «incastrato» adulti e bambini all’inverosimile, è apparso soddisfatto del pienone (25 persone); ci siamo avviati con l’andatura di un rally.
Tra dentiere ed estrazioni, il mese è volato. L’ultima sera, passata con le sisters davanti al caminetto acceso (siamo a 2.200 metri), gustando l’ennesima torta squisita di suor Helen, ci ha preso la malinconia. Ci rimarranno nel cuore le loro preghiere e i canti tradizionali e nella mente i loro sorrisi.
Andando a dormire abbiamo alzato lo sguardo verso il cielo: sarà l’altitudine o latitudine… ma è incredibile come il tappeto di stelle sembri vicinissimo.

Il mattino seguente
ci siamo recati al minuscolo aeroporto di Nanyuki: due case di legno fungono da torre di controllo e sala d’attesa. Sulla veranda di quest’ultima alcune sedie di vimini e, su un tavolo, caraffe di tè e caffè. Si respirava aria «coloniale», dovuta anche alla presenza di alcuni snob inglesi, che non si degnavano neanche di rispondere al saluto.
Ci siamo congedati da suor Rita Alba, per raggiungere la costa per quattro giorni di vacanza nell’isoletta di Lamu, popolata quasi esclusivamente da musulmani. Lamu è la più antica città del Kenya. Risale alla fine del XIV secolo e, fino all’inizio del XX, la sua economia era basata sulla tratta degli schiavi. Negli anni ’70 era considerata «la Katmandu dell’Africa» per la difficoltà di arrivarci e il fascino medioevale.
In quei giorni di relaxe abbiamo pensato ai luoghi visitati e alle persone conosciute. Abbiamo letto numerosi libri sull’Africa e alla televisione sono di moda i documentari su questo continente. Ma lavorare qui e condurre una vita non da turista è tutt’altra cosa.
Ci siamo stupiti di quante persone vengano in questo paese per lavorare: dai medici (con cui abbiamo parlato dei nostri problemi di protesi) al laureando di filosofia e al papà geometra, che ha ideato e costruito una stalla.
Abbiamo incontrato pure quattro ragazzi di Collegno (TO), che hanno lavorato da imbianchini e baby sitter all’orfanotrofio di Machaka, e un volontario di Forlì, che ha aiutato il veterano padre Emilio Canova, missionario della Consolata, a costruire una missione nella foresta del Meru.
Tante persone. Un piccolo esercito che si muove per aiutare i missionari. Questi «soldati di Dio» a cui non bisogna far mancare le munizioni.

Nino e Gabry Peynetti




Una vicina di casa tutta da scoprire

Superare i pregiudizi.
Ciò che i mass media no dicono.

uando si pensa alla missione, si immaginano sempre luoghi lontani: le foreste dell’America Latina, le savane dell’Africa, i popoli dell’Asia, le isole dell’Oceania. Raramente si pensa alle terre vicine, alla nostra stessa terra.
L’Albania, dove abbiamo vissuto un’esperienza missionaria, dista da casa nostra solo due ore di aereo; è al di là del piccolo Mare Adriatico. La gente ha lo stesso nostro colore della pelle. Sono come noi.
Per essere missionari, non è necessario partire per un angolo dimenticato del mondo; basta sapere incontrare l’uomo dove vive, con le sue giornie e i suoi dolori, e annunciare il motivo della propria presenza.
L’enciclica Redemptoris missio ricorda che la nuova evangelizzazione è un fronte anche in Europa.

Eravamo partiti per l’Albania
senza sapere che cosa ci sarebbe aspettato. Eravamo informati solo su quanto la televisione italiana ci mostra.
Ma ben presto abbiamo scoperto un altro volto dell’Albania: un volto giovane, carico di speranza. Questo deve essere conosciuto, per incoraggiare la gente locale a cambiare, ricostruire. Di questa faccia diversa vogliamo parlare.
Eravamo ospitati nel villaggio di Gijader, presso le Maestre Pie Venerini. Le suore ci avevano invitato ad un’esperienza di condivisione con alcuni giovani albanesi, che stanno costruendo un oratorio soprattutto come «struttura educativa». Impresa non facile, data la situazione viaria dell’Albania.
In tanta parte del paese esistono solo strade sterrate, in pessime condizioni, che non permettono una comunicazione agevole fra i villaggi e allungano notevolmente i tempi degli spostamenti; scarseggiano le linee telefoniche; specialmente manca nella gente la fiducia in quel poco che ha e in quello che è.
La nostra attività si svolgeva nel villaggio di Grash, vicino a Gijader. Era la prima volta che delle persone si dedicavano all’animazione dei bambini e all’incontro sistematico delle famiglie. Di regola è assicurata solo la messa domenicale e qualche sporadico incontro di catechesi.
Ogni pomeriggio, mentre in jeep raggiungevamo il villaggio, già da lontano una folla di bambini ci correva incontro a piedi scalzi: saltavano sul paraurti dell’auto, ci stringevano la mano dal finestrino, volevano una carezza. Poi al lavoro con due grossi gruppi: uno per i bambini e uno per gli adolescenti e giovani. Bastava poco: in cerchio sulla strada (non esistono ambienti dove ritrovarsi) per cantare e giocare; oppure nella chiesa cadente per raccontare la storia di Gesù e fare il catechismo con le sue parabole.
Era la prima volta che i ragazzi avevano a disposizione qualcuno che li aiutasse crescere dove già vivono, senza evadere nel mito dell’«Italia ricca». Si tratta di un atteggiamento mentale che investe il terzo mondo, ma anche l’Europa, dove l’egoismo politico di qualcuno ha distrutto la dignità di intere popolazioni.
A differenza dei sospettosi albanesi emigrati in Italia, qui abbiamo sperimentato accoglienza e apertura. Nei giovani è vivo il desiderio del confronto, per capire come possono cambiare; non hanno modelli a cui ispirarsi, ma desiderano trovarli. Abbiamo incontrato una generazione con la volontà di costruire un’Albania diversa; ma si scontrano con la chiusura degli adulti. Però gli occhi sorridenti di tanti ci hanno dato una grande carica che vogliamo comunicare, anche per sfatare lo stereotipo dell’albanese pigro e cattivo.
La nostra televisione non racconterà mai che dei giovani albanesi, dopo avere ospitato nel proprio villaggio alcuni profughi kosovari assicurando loro il cibo, li hanno riaccompagnati a casa e hanno iniziato insieme a ricostruire i villaggi distrutti. La tivù non si soffermerà su altri giovani che vogliono capire chi manovra il rapimento delle ragazze per destinarle alla prostituzione; né si saprà che, al ritorno delle sventurate a casa, i giovani le difenderanno dalle cattiverie nel villaggio.
I mass media non diranno che alcuni giovani lottano con il capovillaggio per acquistare, con i soldi di una lotteria, un campo da destinarsi a cimitero per una degna sepoltura dei loro parenti. La tivù non farà sapere che le suore hanno aperto una scuola professionale per dare a tanti la possibilità di ritrovare dignità e cultura, annientate negli anni passati dal regime comunista.

Necessario e decisivo
è l’aiuto dei missionari: la catechesi ai giovani è un incoraggiamento per scoprire i propri talenti e sfruttarli.
La chiesa albanese sta rinascendo dopo la morte imposta dal comunismo e incomincia a camminare con le sue gambe. Non è facile, perché è stato tutto cancellato: scomparsi i registri, non si sa chi sia battezzato e chi no. Lo stesso dicasi per gli altri sacramenti. Oggi si insiste sulla preparazione ai sacramenti, che non devono essere dispensati con superficialità.
Durante la nostra presenza abbiamo conosciuto alcuni seminaristi di Scutari. Uno ci ha detto che presto saranno ordinati i «primi» sei diaconi albanesi dalla fine del regime. Era fiero e orgoglioso. E noi pensavamo con tristezza alle diocesi italiane che contano, invece, gli «ultimi» ordinati al sacerdozio.
Per noi «nuova evangelizzazione» significa pure «caricarsi» dall’esempio delle chiese giovani per ritrovare entusiasmo, nonostante le difficoltà; significa condividere con esse le nostre forze, perché insieme è più facile testimoniare l’unità, superando le divisioni che l’egoismo ha creato, e far capire al mondo che cosa significhi «pace».
Nel partire per l’Italia, abbiamo detto ai giovani che avremmo raccontato il bello dell’Albania. Eccoci qui ad adempiere alla promessa, invitando chi legge ad abbandonare i pregiudizi.
Non sottovalutiamo i grandi problemi dell’Albania. Ma… millennio nuovo, speranze nuove anche per la «nostra vicina di casa».

Roberto ferranti e Sergio Lussignoli




Un acquedotto al politecnico

Un missionario geniale e la collaborazione degli africani per soddisfare il bisogno d’acqua.

O ggi una delle sfide più importanti è quella di creare rapporti diversi tra i popoli, per vivere in pace e nello sviluppo. Se il mezzo per raggiungere tale scopo è l’acqua, l’impegno necessita anche dello stupore del bimbo di un villaggio africano. «Oggi finalmente è piovuto! Erano 140 giorni che non vedevo una goccia d’acqua» ha scritto sul quadeetto di scuola la piccola Noaga.

L’acqua è un fattore
di unione e, nello stesso tempo, di divisione tra i popoli. È urgente portarla alla sua funzione primaria: quella della gratuità, dell’incontro, dell’igiene personale e morale. Base della vita, l’acqua è anche strumento di comunicazione: alimenta scambi nella materia e tra le persone.
Esistono popolazioni che pagano la loro emarginazione, la povertà, la mancanza di riconoscimento… per le scarse risorse idriche. La situazione è drammatica: lo confermano le siccità sofferte dalle genti del Sahel, le carestie (causate dalla scomparsa delle piogge stagionali) che decimano le mandrie in Etiopia. I pozzi vuoti, i bacini asciutti, l’assenza prolungata di piogge e la loro limitata o disordinata caduta causano crisi agricole e alimentari, tali da rievocare le carestie bibliche.
Esperti sostengono che nel XXI secolo sarà l’acqua a mobilitare le strategie geopolitiche dei governi, e non più il petrolio. Oggi intanto c’è chi paga con la vita: nel mondo ogni otto secondi un bambino muore per malattie legate all’acqua!
Di fronte a queste provocazioni, è nato in me il desiderio di orientare gli studi al Politecnico di Torino verso una possibile soluzione del problema «acqua». Ho scritto la tesi di laurea in ingegneria dal titolo: «Progetto di cooperazione Tuuru water scheme: studio della diga in terra sul torrente Ura».
La tesi riguarda un acquedotto che prende il nome dalla missione di Tuuru, nella regione del Meru (Kenya), intrapreso dai missionari della Consolata nel 1965. È uno studio tecnico sulle opere di presa dell’acquedotto, con la proposta di un progetto per la costruzione di una diga in terra su un torrente. Prima di scrivere la tesi, ho trascorso due mesi sul posto.

Oltre a rispondere
ai problemi tecnici per la progettazione di un invaso artificiale, la mia tesi testimonia il lavoro che si sta già svolgendo, in particolare nel Meru, contro la povertà e per lo sviluppo. «Kenya, il missionario dell’acqua. Un’impresa colossale»: intitolava il Corriere della Sera, 11 gennaio 1998, presentando i 250 chilometri di acquedotto, realizzati da un missionario della Consolata, fratel Giuseppe Argese, e dalla gente del luogo.
L’opera fu iniziata 35 anni fa, per fronteggiare una prolungata siccità che colpì anche il Centro per bambini poliomielitici di Tuuru. Oggi c’è acqua potabile per centinaia di migliaia di persone della zona, dove mancano torrenti perenni, le falde acquifere sono molto profonde e le attività dipendono dal regime delle piogge. L’approvvigionamento d’acqua è assicurato da «prese» nella circostante foresta equatoriale, a circa 2.000 metri di altitudine, circondata dalla pianura semidesertica.
Però l’intercettazione d’acqua non è sufficiente a soddisfare i crescenti fabbisogni della popolazione. Una soluzione a tale emergenza sarebbe la costruzione di una diga nella valle del torrente Ura. Il relativo invaso artificiale permetterebbe di immagazzinare la notevole quantità di acqua piovana e, quindi, distribuirla nell’arco dell’anno.

L’acquedotto,
dai sopralluoghi effettuati in loco e dai risultati, costituisce un esempio-modello tra i molti progetti di sviluppo. Tre fattori contribuiscono al funzionamento dell’opera e rappresentano le prerogative per l’efficace attuazione della diga sull’Ura:
– la collaborazione tra locali e tecnici stranieri, alcuni dei quali operanti stabilmente sul territorio;
– l’utilizzo di tecnologie semplici e appropriate, nonché il rispetto massimo della natura;
– la presenza di un comitato (costituito da persone del luogo), che assicurerà l’autogestione dell’opera.
L’acquedotto ricorda un dato da non scordare: l’acqua è una risorsa limitata; quindi è da conservare, riciclare e prevenire da contaminazioni dovute a sfruttamenti incontrollati delle falde.
La scelta di non sfruttare le acque sotterranee in zone aride (dati i costi e i problemi di manutenzione dei macchinari), bensì di utilizzare le risorse idriche della foresta, si realizza nel rispetto massimo degli aspetti ecologici anche a lungo termine.
Tra i materiali, si impiega il terreno argilloso locale: quindi l’ambiente, che potrebbe essere alterato con metodi indiscriminati di costruzione, è salvaguardato. Per conservare le risorse idriche e difendere flora e fauna, c’è la sorveglianza da parte del personale dell’acquedotto.

La mia tesi si inserisce
fra gli studi tecnico-progettuali di soluzioni ingegneristiche, con la caratteristica di riguardare una realtà già operante. Ma per il progetto esecutivo della diga sull’Ura e per la natura stessa dell’acquedotto altre indagini sono possibili.
Per una corretta valutazione della diga, all’interno dell’«acquedotto», occorre riferirsi alla nozione di sviluppo, che prevede un livello più alto di benessere. Altri obiettivi significativi sono: la riduzione di fatica per l’approvvigionamento d’acqua, una migliore nutrizione, l’aumento dell’igiene. Sono traguardi che favoriscono qualità di vita, libertà personale, identità culturale, educazione.
Prima dei 250 chilometri di tubazione dell’acquedotto e delle tante fontane nei villaggi, molte donne e bambine camminavano persino una giornata per raggiungere le poche sorgenti d’acqua. Oggi, grazie all’acquedotto, il tragitto dura 10 minuti: il tempo risparmiato consente alle donne di dedicarsi meglio alle faccende domestiche e, soprattutto, permette alle bambine di frequentare la scuola.

Oggigiorno,
con il radicale mutamento dei rapporti tra i popoli, occuparsi del sud del mondo è una scelta quasi obbligata: basti pensare che il sud rappresenta i 2 terzi dell’umanità, indipendentemente dal fatto che siano ricchi o poveri.
Ma il sud non può più essere considerato una realtà a cui «dare» aiuto, bensì un soggetto con il quale «cornoperare». Calati in tale prospettiva, trovare soluzioni per i 2 terzi dell’umanità conduce al miglioramento di vita anche del restante 1 terzo, ossia di tutti noi.
L’acquedotto di fratel Giuseppe e della sua gente nasce da senso di responsabilità collettiva, oltre che da solidarietà evangelica: la diga sull’Ura l’accresce. Questo lavoro missionario è una strada percorribile per eliminare la piaga della povertà e, come è stato affermato al vertice ECOSOC (1999), è anche una via per servire la pace tra i popoli: pace che è «l’altro nome dello sviluppo».
Quando lo studio riguarda un bisogno basilare come l’acqua, la ricerca scientifica diventa anche un «riappropriarsi» dei valori che «sorella acqua» esprime, cioè semplicità, trasparenza, purezza senza infingimenti. Valori incarnati da tanti bimbi, come Noaga, che tuttavia soffrono la mancanza d’acqua.
Acqua che invece c’è, e per tutti.

Daniele Giolitti




I bambini della pace

Con alcuni studenti veneti e all’Assemblea dei popoli di Perugia, per rivendicare vita e serenità.

M onica Godoit, 17 anni, vive a Bogotá e con altri coetanei anima il Movimiento de los niños por la paz: un’organizzazione che si sforza di estirpare le radici culturali della violenza che sconvolge la Colombia. Sorto nel 1996, in quattro anni il Movimiento ha mobilitato qualche milione di minori, dai 6 ai 18 anni.
Insieme a Nydia Quiroz, responsabile in Colombia del Programma dell’Unicef «pace e diritti dei bambini», Monica è stata ospite del comune di Nervesa della Battaglia (TV). Ha poi partecipato alla III Assemblea dell’Onu dei popoli, svoltasi a Perugia il 23-25 settembre 1999, e alla marcia per la pace e giustizia «Perugia-Assisi» del 26 settembre.
Nydia e Monica sono state ospiti del nostro comune, anche perché a Nervesa opera padre Angelo Casadei. Questi ha studiato teologia a Bogotá, è stato animatore della campagna «Non di sola coca» e cornordina i «Laici Missioni Consolata» (Milaico).
Negli scorsi anni Milaico ha organizzato alcune esperienze missionarie in Colombia, ponendo i presupposti per un incontro con los niños por la paz.

Monica, dolcissima
nel suo spagnolo, ha incontrato gli studenti delle scuole medie di Nervesa e Giavera, mettendoli bruscamente a confronto con la tragedia quotidiana dei loro coetanei colombiani. Ragazzi che non possono giocare all’aperto per paura di sparatorie e sequestri, arruolati con forza nelle formazioni guerrigliere, straziati da mine, sfollati con le loro famiglie per non creare ostacoli al lucroso traffico della cocaina e degli smeraldi.
I bambini, fino al 1996, non hanno avuto l’opportunità di far sentire la loro voce; oggi, grazie al Movimiento, sono diventati interlocutori del presidente Andrés Pastrana, del segretario dell’Onu Kofi Annan, dei premi Nobel per la pace Rigoberta Menchú e José Ramos Horta. Bambini che, a loro volta, sono candidati al Nobel.
L’arma vincente del Movimiento è la fantasia. Nel 1996 i bambini si sono imposti all’opinione pubblica inventandosi una autentica consultazione elettorale, con la quale oltre 2.700.000 minori hanno impegnato il governo colombiano nell’attuare i diritti sanciti dalla Dichiarazione universale del fanciullo. Mette i brividi pensare che i diritti più invocati (perché più calpestati) sono quelli alla vita e alla pace.
L’esempio è stato contagioso. Alle elezioni del presidente del 1997 ben 10 milioni di adulti hanno accettato di inserire nell’ua, insieme alla scheda ufficiale, un foglio verde che invocava la pace e lo stop all’uso dei minori nei conflitti. Nel clima di intimidazione che si respira in Colombia, l’opinione pubblica non aveva mai così massicciamente detto no alla violenza.
Negli incontri a scuola e in quello pubblico a Treviso, Monica ha ripetuto che i mali del suo paese sono la paura e l’indifferenza. La paura è dei colombiani, nella stragrande maggioranza stanchi della situazione, eppure incapaci di contrastare chi della violenza ha fatto un business; l’indifferenza è del nord del mondo, che fa troppo poco per aiutarli ad uscire dal vicolo cieco.
L’innocenza dei bambini costringe al confronto con verità scomode. Monica ha paragonato la Colombia ad un dedito machucado, un ditino del piede calpestato. La sofferenza dovrebbe ripercuotersi sul corpo intero, ossia sulla comunità internazionale. Invece, inspiegabilmente, il ditino soffre da solo!

Con Gianni De Lorenzi,
ho accompagnato Monica a Perugia per la III Assemblea dell’Onu dei popoli, incentrata su «Il ruolo della società globale e delle comunità locali per la pace, l’economia di giustizia e la democrazia internazionale».
L’Assemblea ha offerto spunti preziosi di riflessione sul ruolo che anche un piccolo comune può assumere nella cooperazione decentrata. Dall’Afghanistan al Tibet, dal Sahara spagnolo al Nicaragua, dalla Cecenia all’Algeria, oltre 140 rappresentanti (insegnanti, sindacalisti, attivisti per i diritti umani, amministratori, ecc.) hanno presentato uno spaccato desolante del fardello di ingiustizie che il mondo porta con sé. Partecipando al gruppo di lavoro sulla pace, abbiamo trovato conferma alle nostre perplessità sull’intervento della Nato in Kosovo.
Oggi le guerre sono prevalentemente intee agli stati. Guatemala e Rwanda (per citare due casi) insegnano che imporre il «cessate il fuoco» con la forza non basta.
Indispensabile è il processo di pacificazione nazionale, stabilendo la verità su quanto è successo e individuando le responsabilità. È un processo lungo e difficile (che nemmeno il Sudafrica di Mandela ha del tutto completato), che non ha nulla a che fare con i bombardamenti indiscriminati descrittici dal sindaco di Panchevo (Serbia).
Non sono mancati segnali di speranza: ad esempio, vedere il rappresentante di Timor Est e quello dell’Indonesia condividere ogni momento della manifestazione.
Monica ha seguito i lavori dell’Assemblea con grande responsabilità. Con l’orgoglio di un padre, l’ho sentita affermare le sue ragioni davanti al presidente della Camera Luciano Violante e ai delegati inteazionali. Ha ottenuto emendamenti al documento finale, da presentarsi all’Assemblea generale dell’Onu, affinché sia chiaro che i bambini non rappresentano solo il futuro, ma anche il presente. Pertanto rivendicano subito un’esistenza dignitosa.

Nydia Quiroz ha vigilato
su Monica come una mamma, verificando la destinazione delle interviste che la ragazza ha rilasciato, perché «in Colombia chi lavora per la pace diventa un obiettivo militare».
Nydia, psicologa, in passato si è occupata dei bambini coinvolti nei conflitti del Mozambico e Salvador. Passeggiando fra i viottoli di Assisi abbiamo parlato, in stridente contrasto con la pace circostante, dei bambini sconvolti per avere assistito al massacro della propria famiglia, utilizzati come cavie per scoprire i campi minati o costretti ad uccidere per dimostrarsi utili alla guerriglia, e non essere a loro volta uccisi.
Nydia ha illustrato le tecniche di riabilitazione: si impiegano giocattoli e disegni per dar sfogo all’angoscia nelle coscienze dei ragazzi. Ma esistono coetanei che, in mancanza di strutture e personale specializzato, si improvvisano essi stessi terapeuti per confortare i traumatizzati.
Abbiamo scelto per il commiato la sacralità di san Damiano, con la speranza che la pace di «Francesco» possa giungere anche in Colombia.
Monica ha ripetuto la richiesta fatta ai ragazzi di Nervesa e Giavera: «Non lasciate che la Colombia sia dipinta solo in termini di violenza e narcotraffico. Aiutateci a testimoniare che c’è anche tanta gente meravigliosa che vuol vivere in pace».
Buena suerte niña.

Francesco Tartini




L’Africa di Mariana e Upendo

A che serve il mercato?
Perché la bimba se n’è andata? La fiala…

In Tanzania ho trascorso poco più di un mese: due settimane con i missionari della Consolata a Makambako, a nordest del Lago Malawi, e tre settimane a Mtwango, a 15 chilometri da Makambako.

Makambako, 13 settembre 1999
«A padre Giuseppe Inverardi, che partiva definitivamente da Makambako per Iringa, ho affidato mie notizie da comunicare in Italia via fax. Il missionario ci mancherà: è avvenuto tutto troppo in fretta. Buono, gentile, disponibile, colto, lungimirante, soprattutto umile. La sua partenza ha lasciato esterrefatto anche il vicario del vescovo di Njombe che, informato del nuovo incarico di superiore dei missionari in Tanzania, ha scosso la testa. Come dire: non ci voleva proprio per la diocesi.
I missionari sono così: seminano per lasciare il raccolto ad altri. Di loro c’è veramente bisogno in Africa.

17 settembre 1999
Questa mattina sono andato in un villaggio, per visitare la madre malata di un benestante. Non c’era. Incongruenze: fuori ce ne stavano mille altri!
Alla missione ho sgranato un po’ di mais; quindi un giro al mercato fra la gente che non può permettersi di comprare. Allora che ci sta a fare il mercato? Forse è solo per pochi. I tanzaniani mangiano una volta al giorno. Un po’ di ugali, la polenta bianca locale, con qualche erba. Spesso per indigenza si salta anche questo unico povero pasto.

Mtwango, 21 settembre 1999
Alle 10 viene a prendermi padre Tarcisio, missionario fidei donum di Brescia, da 23 anni in Africa. Ha 52 anni e sprizza energia da tutti i pori. Dopo 25 minuti di macchina, arriviamo alla missione. Non ho il tempo di riporre le valigie. Già mi attendono al dispensario.
Qui opera un «medico», con studi di praticandato in medicina lunghi (si fa per dire) due anni. Dei vari casi che via via succedono mi chiede gentilmente in inglese cosa io ne pensi, o meglio quale sia il mio parere. Incomincia così a prendere appunti e a prescrivere come io suggerisco; non essendoci però energia elettrica (cosa molto frequente da queste parti), non è possibile guardare al microscopio e le diagnosi di malaria vengono interpretate clinicamente.
Padre Tarcisio insiste perché io veda quanto prima Mariana, una bimba di quattro anni accompagnata da una sorellina maggiore. Vengono a piedi scalzi da un villaggio distante circa 20 chilometri… Mariana è in pessime condizioni: grave denutrizione, disidratazione, febbre, tosse. Dimostra un anno di vita. Probabilmente malaria e TBC insieme.
Il problema da risolvere subito è la reidratazione. Nelle esili braccia di Mariana prendo una vena, che si rompe subito. Riprovo, con lo stesso deludente risultato, mentre sister Fausta provvede zelantemente a rasare le regioni temporali per evidenziare altre vene. Anche qui fallimento.
La reidratazione sarà tentata per bocca domani. Però la sorellina riporta Mariana alla capanna del villaggio. È un caso davvero urgente. Ma ora chi la trova?
Alle 14 finisco con i malati del dispensario. Un boccone, e visito quelli che attendono in missione. Saranno una cinquantina di bambini tra i 10-15 anni.
Non mi sono mai sentito così bene. Difficile da spiegare: occorre solo provare. Per carenza di medicinali, arrivo a sottodosare i farmaci, ma qualcosa mi dice che tutto andrà bene.

27 settembre 1999
Upendo (in lingua swahili significa amore) sta morendo. È una donna di 34 anni, madre di cinque figli; il marito è deceduto quattro anni fa per Aids. L’ho vista ieri nel mio giro fra gli ammalati più poveri dei villaggi limitrofi. Non esiste macchina o altro mezzo che non siano i piedi a portarti da loro. Ti inoltri per strade e sentirneri sterrati, che sanno veramente di primitivo.
Questa mattina sono riusciti a portarla al dispensario: è cachettica, ha dolori addominali con vomito, diarrea, febbre, candidiasi orofaringea, disidratazione. È un Aids terminale. Sul suo volto si interpretano ancora lineamenti gentili, ma in quel letto (uno dei quattro disponibili) è un povero cristo in croce. Fleboclisi glucosata, antidiarroici, antiemetici, antimicotici, antidolorifici: è tutto quello che riesco fare con i pochi farmaci disponibili.
Dalle 8.30 alle 15.30 ho visitato ininterrottamente, mentre in serata vengo a sapere da padre Tarcisio che il piccolo dispensario di Mtwango non è mai stato così affollato come in questi giorni di mia presenza… Mangio qualcosa di scotto, un po’ di erbe africane e too da Upendo. Sono scomparsi il dolore e la diarrea, ma il vomito persiste.
Quanto vorrei avere almeno una fiala di plasil da mettere in flebo!

Andrea Valieri




Emozioni a valanga

Dalle ragazze cieche di Meru ai bambini orfani di Matiri, con una preghiera a Morijo. Tutto in Kenya.

LA SCALATA DELLE CIECHE

D esideriamo parlare del coraggio con cui alcune ragazze del Kenya si conquistano ogni giorno il proprio futuro. Nella loro «scalata» devono vincere sia l’handicap fisico sia la risposta che ad esso dà una società poco tollerante. In questo sforzo le giovani sono appoggiate da una struttura fondata dalle missionarie della Consolata e poi ceduta ad un ordine locale.
Le ragazze provengono per lo più da contesti agricoli, dove la donna è il motore della famiglia, responsabile del lavoro nei campi e della casa, e dove più radicato è l’attaccamento a questi schemi. L’handicap è la cecità, a volte parziale a volte occorsa dopo la nascita.
La struttura che accoglie le ragazze è l’Irene Centre for the Blind nel Meru, regione con una forte diffusione della cecità e dell’albinismo. Il Centro provvede alle giovani una professione artigianale con lavoro al telaio: è la partenza per una attività sartoriale in proprio, che permette loro di guadagnarsi indipendenza.
Le ragazze lottano contro la scarsa accettazione della loro «diversità» da parte della società locale e si impegnano a costruire una loro identità attraverso strumenti che la cultura tradizionale non offre, di cui è promotore l’Irene Centre. Considerate inadatte ad assolvere compiti femminili (anche se il loro avvicendamento nelle faccende domestiche del Centro conferma il contrario) e, quindi, private di un ruolo all’interno della famiglia, le cieche rappresentano un peso per quest’ultima, che, quando le accetta, stenta però a trovar loro stimoli ed occupazioni. La comunità locale le allontana e non le aiuta a guadagnarsi uno spazio che non sia la strada.
Scarsamente integrate nelle occupazioni familiari e con poche possibilità di partecipare alla vita della comunità che le rifiuta, le ragazze rischiano di rimanere prive di compiti e responsabilità. È come se lo stato tradizionalista, di cui fanno parte, negasse loro la cittadinanza con diritti e doveri.
È necessario che un’altra entità, più progressista, «riconosca» le giovani, attribuendo loro una nuova identità. È la sfida costante che si gioca all’Irene Centre con lo sforzo delle ragazze. Se così non fosse, non si riuscirebbe a creare una sinergia tra formazione e costruzione di professionalità, una nuova identità e indipendenza. Ma lo sforzo delle ragazze è tutt’altro che scontato:
– sono contagiate da dubbi sulla validità del percorso formativo intrapreso e le reali possibilità di successo, quando ancora soffrono per la cecità;
– vivono nell’apprensione di non disporre di sufficienti risorse finanziarie per avviare una attività in proprio, mentre manca l’appoggio familiare;
– temono di non guadagnarsi autonomia, essendo il futuro carico di ostacoli.
In altre parole: sono colte da sconforto. Costruire e immaginare un futuro diverso è per loro veramente difficile, essendo così poco protette, riconosciute e ascoltate in un mondo arcaico!
V orremmo sperare che la nostra presenza all’Irene Centre abbia rincuorato un po’ le ragazze circa l’importanza della loro scelta. Abbiamo partecipato alla vita della comunità (dal laboratorio alla cucina, dal tempo libero alla preghiera, al canto) e condiviso felicità, tristezze, desideri. Chissà che qualcuna non si sia detta: «Se costoro sono giunti fin qui da molto lontano… ci sarà pure un motivo!».
Ci auguriamo che il nostro messaggio si riverberi su queste amiche. Riteniamo importante l’investimento che stanno facendo su se stesse. Ed è indispensabile incoraggiarle e credere, anche da parte nostra, nel «loro progetto per il loro futuro». In cambio abbiamo ricevuto affetto e gioia; ci hanno coinvolto nella loro vita; con il canto ci hanno rigenerati…
Siamo tornati dal Kenya con delle grosse valigie. Al check in di Nairobi nessun addetto aeroportuale le ha viste. Ci siamo stupiti. Eppure non erano mica nascoste. Solo che erano zeppe solo di… emozioni e progetti.
Chiara e Sabrina, Paolo e Luigi

È SCONVOLGENTE CHE…

P er anni ho sognato l’Africa. Quest’anno i miei piedi hanno toccato il suolo del Kenya. Toata in Italia, ho ascoltato alcuni ragazzi che parlavano dell’Africa un po’ romanticamente: «Tutto è bello, i missionari non ti hanno fatto mancare nulla, la gente è meravigliosa e sembra che persino i coccodrilli siano buoni».
Per me non è stato così. In Africa c’è fame e i coccodrilli… Per raggiungere un qualsiasi luogo, si deve camminare ore a piedi sotto il sole; e non solo una volta, come è stato per me, ma per tutta la vita. Eppure si sa ridere e ballare.
È sconvolgente che qualcuno rischi di morire per una ferita, perché l’ospedale più vicino è a due ore di buche. È sconvolgente trovarsi davanti una «mami» all’undicesimo figlio in grembo. È sconvolgente la fierezza della gente, nel suo modo di camminare o guardarti, soprattutto se non ti conosce. A volte è anche un po’ timorosa.
Non ho incontrato folle di persone che ti corrono incontro a braccia aperte dicendo: «Fa’ come se fossi a casa tua» (esclusi i missionari: padre Orazio Mazzucchi e Rita Drago, a Materi, sono stati accoglientissimi). Ho incontrato persone difficili da conquistare, ma anche oneste da diventare amiche quando si è condiviso qualcosa, e non prima. Ho visto individui gentili, nella speranza che dall’Italia mandassi loro dei soldi per aiutarli a studiare. Se potessi lo farei, ma lavoro per studiare anch’io.
P erò, quando me ne sono andata, avevo voglia di piangere salutando Peter, che non smetteva di abbracciarmi. Peter è un infermiere del dispensario, che ho aiutato durante gli screening dei bambini; parla un inglese tanto osceno che ho impiegato una settimana per capire foreign body (corpo estraneo).
Porto nel cuore gli infermieri con i quali si andava a «fare le cliniche»: cioè visitare i villaggi dove le mamme portano i bambini perché siano pesati e vaccinati. Ho in cuore Murugi e Kariungi, orfani di mamma alla missione… Ho imparato a cambiare i pannolini e addormentare (impresa non facile) un pupo stanco. Nel cuore c’è pure Beard, il cuoco, che la mattina insegnava a me e a Francesca, mia cara compagna, delle frasi in kimeru, la lingua degli ameru. Vivono anche nel Tharaka: una zona povera, perché manca la possibilità di utilizzare l’acqua dei fiumi.
Non aver acqua a qualsiasi ora, lavarsi con quella fredda in bacinelle… forse non è molto faticoso se ci si adatta. Ma se questo dura una vita?
È duro per la prima volta nella vita sentirsi «il diverso», che i bambini guardano incuriositi, e non solo essi. La nostra pelle è ruvida; stupiscono le vene visibili e bluastre dei polsi e i nei. Incredibile è la curiosità della gente: se potesse, ti si infila in tasca per vedere cosa c’è.
È sconvolgente osservare la gente che non fa nulla e, soprattutto, capire che fare qualcosa o non far nulla cambia poco le cose; sconvolge vederla seduta ad aspettare e aspettare, senza lamentarsi. Sconvolgono le donne che partoriscono senza urlare. Sconvolgente è la colazione all’Hilton Hotel: costa un quinto dello stipendio di un infermiere.
Ma è importante adattarsi alle abitudini locali, perché hanno valore anche le cose che sembrano un gioco: contrattare quando si fa la spesa, per esempio, vuol dire rispettare la persona (pagare una cosa tre volte il suo valore significa, più che farsi beffare, ostentazione).
Alcuni dicono di avere sentito in Africa la presenza di Dio in modo più forte. Però Dio è presente in Kenya come in Italia: lo trova chi vuole incontrarlo, non importa il dove. Forse in Africa è un po’ più facile fare silenzio, quel silenzio indispensabile per ascoltare e tanto facile da smarrire tra tivù e discoteche.
L’Africa mi ha insegnato l’apertura. È l’unico modo per capire e accettare gli altri e forse anche se stessi e Dio.
L’Africa è colore: il rosso mattone della terra polverosa che ti rimane ovunque; l’azzurro del cielo che sembra di giorno più grande e di notte disordinato per le stelle irriconoscibili; il bianco delle nuvole; il rosso e giallo dei frutti e fiori. È sapore: mille gusti diversi, prima strani e poi squisiti (mango, papaia, passion fruits, margarina, chai, cioè il tè col latte). È suono: processioni nottue di circoncisori, canti, tamburi, passi di ballo, parlare sussurrato e veloce, voci di bambini.
L’Africa è odore: così forte all’inizio che dà fastidio. È nell’aria, sulle persone, sui vestiti, su di te. L’odore intenso diventa poi un compagno, un amico di cui senti la mancanza… A casa mia c’è una stuoia su cui ho riposto gli oggetti portati dal Kenya. Di tanto in tanto afferro una borsa: infilo il naso per risentirne l’odore.
Erika Cravero

FAME E SETE

N el mese trascorso a Morijo abbiamo avuto fame e sete: non di lasagne al foo o di un bicchiere di pinot, ma di amore, silenzio, gioia, solidarietà, fratellanza.
Ora i nostri sensi sono diventati più acuti. Il cuore ricerca purezza. La mente si prefigge solidarietà. E la nostra persona ne esce cresciuta, ma anche perplessa su «chi» siamo e il «perché» della vita. Siamo un granellino di polvere, ma anche un fiore dall’infinita fragranza.
A Morijo abbiamo visto, ascoltato, parlato e compreso di più il Signore.
Colui dove il niente è tutto,
la semplicità è ricchezza,
il silenzio è parola;
Colui che risiede la nostra anima.

AA.VV




DOSSIER GIUDIZI E PREGIUDZISotto tutte le latitudini

PAGINE BIANCHE
Bellaria (RN), 13 settembre 1998. Al termine del Convegno missionario nazionale, il vescovo Renato Corti esortava a leggere «il libro delle missioni», per conoscere ciò che molti fratelli compiono per il vangelo, a servizio dell’uomo.
«Il libro delle missioni» è gli Atti degli apostoli. Un libro speciale, perché incompiuto, con tante pagine bianche messe a disposizione di chi voglia raccontare la sua fede in Colui che si è fatto uomo, ha patito, è morto e ora resta con noi sino alla fine dei tempi. Molte di queste pagine sono state riempite dai missionari e missionarie della Consolata: costituiscono la rivista Missioni Consolata, giunta alla bella età di 100 anni.

o C’era una volta
L’intuizione (100 anni fa davvero anticipatrice) fu del beato Giuseppe Allamano e del suo geniale collaboratore Giacomo Camisassa. Nel gennaio 1899 fondarono a Torino il mensile La Consolata, organo dell’omonimo santuario, di cui erano rispettivamente rettore e vicerettore.
L’Istituto Missioni Consolata (il capolavoro dei due preti torinesi) era ancora in gestazione, ma già se ne intravvedevano le premesse. Il periodico, infatti, si proponeva di informare sulla devozione alla Vergine Consolata: in Piemonte, specialmente, dove esistevano chiese e cappelle che portavano il suo nome. «Daremo notizie (anche) – scriveva il mensile – sulla devozione alla Consolata nel resto d’Italia, in Francia, Inghilterra e nelle Americhe dove i nostri emigrati portano questo tesoro di pietà e di speranza» (La Consolata, numero 1, 1899).
Questa apertura al mondo si ampliò grandemente con la fondazione dell’istituto missionario. La rivista seguirà il cammino dei missionari della Consolata, fino a occupare la maggior parte delle pagine d’ogni numero. Attraverso testimonianze e reportages, i lettori saranno coinvolti nell’opera missionaria: attratti dall’Africa, dai suoi popoli, dai loro usi e costumi, dalla cultura e religione.

o IL PONTE SPECIALE
Dopo la morte del beato Allamano (1926), data la crescita dell’istituto, si giunse ad una opportuna distinzione. La Consolata si trasformò in due pubblicazioni:
Il santuario della Consolata
e Missioni Consolata.
Ognuna si rivolgeva al proprio campo d’azione. Tuttavia la comune origine contagerà sempre ambedue i giornali e manifesterà il valore del legame tra la Consolata e la missione.
I missionari saranno un «ponte»: porteranno nel mondo la Consolata e, con lei, la fede ricevuta nei paesi di origine, e a questi faranno conoscere i popoli presso i quali operano.
L’Allamano comprese l’importanza dell’informazione che crea scambio, stima e solidarietà: e, fatto significativo per quei tempi, presentò l’abbonamento alla rivista come un mezzo per «aiutare le missioni». Foì i missionari di penna e macchina fotografica, per riprendere e comunicare ciò che incontravano. A ognuno chiedeva notizie sulla salute, le impressioni di viaggio, le difficoltà, l’andamento della missione. E ancora: informazioni sui costumi locali, la geografia, l’etnografia, la storia naturale, nonché conversazioni, detti e proverbi della gente.
L’Allamano aggiungeva: «Mi è impossibile enumerare ciò che dovete dire: vi basti ricordare ciò che fanno le cronache dei giornali e le minute descrizioni che danno dei fatti che succedono».

o UN OCCHIO BENEVOLO
Missioni Consolata, «il libro delle missioni», ha fatto conoscere le genti. Questo non tanto per soddisfare la curiosità dei lettori, ma per farli crescere nell’apprezzamento dei popoli. Non era poco in un tempo di colonialismo, con il senso di superiorità dell’occidente (italiani non esclusi) sul resto del mondo.
E non è poco oggi. C’è bisogno di uscire dai pregiudizi che impediscono la convivenza tra persone e gruppi di cultura diversa.
Fin dall’inizio la rivista ha presentato in modo positivo i popoli presso i quali i missionari lavoravano. I galla (oromo) dell’Etiopia, ad esempio, sono descritti: «gente di carattere schietto, portamento dignitoso e ospitale con lo straniero, facile alla compassione, energicamente fiera, di mente pronta e sveglia». Così i kikuyu, definiti «bella razza, valenti fabbri; sotto la pelle nera hanno un cuore buono e sentire delicato».
I missionari hanno proseguito nella linea tracciata dal fondatore e, nell’arco di 100 anni, la loro rivista ha passato in rassegna i popoli: la loro storia, il sofferto cammino per l’indipendenza, lo sviluppo e la cultura.
Nello stesso tempo i missionari hanno narrato il cammino del vangelo: la nascita e crescita di nuove chiese, frutto della loro evangelizzazione, fino alla maturazione. Anche in questo le indicazioni dell’Allamano erano precise: «Riferire in qual modo accolgono le vostre parole, quali impressioni fanno su di essi; le interrogazioni e obiezioni che vi fanno sulle verità della fede, come accolgono gli insegnamenti religiosi che avete loro fatto».

o FELICI ANCHE IN TERRA
L’Allamano mirava all’«elevazione» dei popoli, per renderli artefici del loro benessere. Il principio ispiratore era: lavorare alla conversione al vangelo, promuovendo lo sviluppo sociale. «Fateli felici anche in terra» ripeteva ai missionari. Una felicità frutto di fede, maturità, responsabilità, lavoro.
Il vangelo è promozione, soprattutto dei poveri e degli indifesi, di coloro ai quali vengano negati i diritti fondamentali.
L’Allamano mandò i missionari a portare «consolazione», che si traduce in presenza, solidarietà, impegno per la giustizia e la pace, sviluppo e liberazione. Questo avviene anzitutto con l’annuncio del vangelo, che suscita il senso di dignità in ogni figlio di Dio, aiuta a «essere di più» anche se «si ha di meno». Ogni popolo ha la capacità di assumere le proprie responsabilità.
L’attenzione all’umano era una caratteristica dell’Allamano, manifestata in ogni ambiente in cui operava. Aveva un atteggiamento che il biografo, Domenico Agasso, ha espresso con «immersione». A Torino era ricercato per l’acutezza delle analisi e la sicurezza dei consigli, perché sapeva immedesimarsi nelle situazioni e farle sue.
Lo stesso fece con l’Africa lontana e a lui sconosciuta. Imparò a conoscerla dai missionari: e pervenne a una comprensione dei problemi con la sicurezza di chi si è preparato con anni di ricerca specifica, proprio perché vi si «immergeva».
L’Allamano è l’uomo della missione modea, con una straordinaria capacità di vivere le situazioni lontane, senza tuttavia muoversi dalla sua terra… «sempre ruminando i problemi di casa sua e dell’Africa» (Agasso).

o IN FESTA
In questo stile è stato celebrato il centenario di Missioni Consolata, che il 24 ottobre 1998 ha riunito a Torino personalità di spicco per discutere un tema di attualità:
Il sud del mondo fra giudizi e pregiudizi.
Ne è scaturito un convegno di alto livello culturale, secondo l’indirizzo che la rivista ha sempre cercato di avere.
La festa è stata pure un’occasione per ricordare chi ha profuso con professionalità le migliori energie nella redazione della rivista: Giacomo Camisassa, Filippo Perlo, ecc. Senza scordare gli ultimi direttori e redattori: sono missionari che lavorano al computer e navigano in internet, affiancati da laici competenti e appassionati.
Anche la loro è «missione», perché diffonde l’amore ai popoli, sollecita solidarietà, crea amicizia. Sotto tutte le latitudini.
p. Gottardo Pasqualetti
superiore dei missionari della Consolata
in Italia

Francesco Beardi




DOSSIER GIUDIZI E PREGIUDZIUn grazie da…

Cari amici, il saluto del sindaco
Valentino Castellani, che non ha potuto partecipare a questo Convegno. Oggi celebrate i 100 anni della rivista Missioni Consolata. Torino guarda con grande ammirazione all’opera che i missionari della Consolata hanno compiuto e compiono in tanti angoli della terra. Guardiamo alla vostra attività con quell’orgoglio che fa di Torino un luogo di santi, di esperienze significative, di esempi di carità che, in forma rinnovata e feconda, realizziamo in Italia e, soprattutto, nel mondo.
In particolare, è importante la vostra attività per la testimonianza che offrite anche alla nostra città. Le parole del canto «Un’altra umanità» sono emblematiche di uno stile di vita, di un modo di essere cittadini prima ancora che missionari. Cittadini sobri, responsabili, consapevoli che il destino di ciascuno di noi è un destino comune.

Stefano Lepri,
assessore ai servizi
sociali di Torino

Io sono a Torino
solo da un mese, anche se conosco la città per precedenti esperienze di lavoro a La Stampa. In questo mese ho avuto incontri che mi hanno fatto capire come il tema del vostro Convegno, «Il sud del mondo fra giudizi e pregiudizi», abbia a Torino una sua specificità e articolazione. È anche un problema che divide la città. Da questo punto di vista ritengo che il giornalismo, un buon giornalismo, possa fare molto per contribuire a capire, a sviscerare «giudizi e pregiudizi», affinché tutto sia affrontato in modo più disteso.
Ne ho parlato anche con le autorità cittadine: il sindaco, il prefetto, il procuratore. Ebbene, se La Stampa può fare qualcosa, assicuro la mia disponibilità.

Marcello Sorgi,
direttore de La Stampa

Pochi giorni fa a Roma
ho partecipato ad un dibattito sul narcotraffico, in occasione dell’apertura della mostra «Coca e maloca». Alessandro Calvani, delle Nazioni Unite, diceva che siamo arrivati ad un punto in cui deve essere stabilita un’etica delle relazioni inteazionali; non per un generico buonismo, ma perché l’etica è l’unico strumento per un riequilibrare le sorti di un mondo socialmente distorto.
Qualcuno si interroga su che cosa il Nord del mondo possa fare per il Sud. Io mi domando: che cosa il Nord deve restituire al Sud? Il colonialismo e il neocolonialismo impongono delle restituzioni. È da queste realtà che prende corpo una «nuova etica» nelle relazioni inteazionali. S’impone un dovere di restituzione.

Monica Maggioni,
giornalista Rai

Ha stupito molti la notizia,
de La Voce del Popolo, che oggi in Italia operano oltre mille sacerdoti stranieri. Io quest’anno ho firmato quattro nomine di vicari, cornoperatori di nostri parroci: sono preti che arrivano dall’Africa o dal Sudamerica. Poco fa si parlava di «restituzioni». Noi, invece, continuiamo a ricevere dal Sud del mondo. Questo è molto significativo.
Nel Concilio ecumenico vaticano II si è parlato di chiesa apostolica, cattolica… e l’aggettivo «romana» è stato tolto. Credo che sia giusto. La chiesa è apostolica, perché voluta da Cristo; ma non deve essere necessariamente romano-italiana per insegnare la nostra cultura a tutti gli altri.
Quando, 100 anni fa, nasceva il bollettino La Consolata c’era un creatore, il beato Giuseppe Allamano, che fin dai primi numeri prospettava una missionarietà tipica del tempo, forse non molto profetica. Oggi i nipoti e pronipoti dell’Allamano, che hanno preso dalla Consolata tutta la forza per essere missionari, stanno dimostrando che nella chiesa c’è profezia. Guai a noi se ci riteniamo gli ultimi maestri della storia e guai a noi se, come italiani, cadiamo nel «pregiudizio» di dover andare ad insegnare agli altri. Un grazie a Missioni Consolata che ce lo ricorda continuamente.
Ma la Vergine Consolata resta la maestra di tutti.

Franco Peradotto,
provicario di Torino

aa.vv