CAMBOGIA – Sotto il peso della storia – Introduzione –

Dopo i fasti della civiltà khmer, il piccolo paese
asiatico ha conosciuto soltanto tragedie.
Dalla folle dittatura di Pol Pot all’occupazione
vietnamita fino all’attuale situazione,
caratterizzata da instabilità politica, corruzione
e una diffusa miseria.

Claudia Caramanti, Giorgio Motta, Carlo Urbani




CAMBOGIA – I sopravissuti di Phnom Pehn

Un paese in lenta convalescenza

Vessati e massacrati dai «khmer» rossi
dal 1975 al 1979, i cambogiani stanno ancora rimarginando le profonde ferite.
Bisogna ricostruire il paese sotto ogni profilo.
La gloriosa civiltà di Angkor è una buona risorsa
per attirare visitatori stranieri, ma certo non basta…
Diario di un turista tra mendicanti e mutilati.

L a prima sensazione che si prova arrivando a Phnom Penh, capitale della Cambogia, è di vivere al rallentatore.
Il traffico automobilistico non è certo intenso e procede a bassa velocità. Analogamente il viavai, molto più sostenuto di moto e bici, si muove in una specie di ipnosi. Però non si tratta di pacatezza, ma di vera lentezza.
Il fatto è indice, forse, della «convalescenza» del paese, dopo qualche lustro di guerra civile culminata con il regime, durato quattro anni, dei khmer rossi… Oggi la nazione sta cercando di riprendersi, dopo la distruzione totale di ogni risorsa economica che non fosse la vanga e la zappa.
LA grande follia OMICIDA
I khmer rossi, dopo aver preso il potere il 17 aprile 1975, costrinsero i cambogiani a vivere in campi di lavoro, dove faticavano anche 14-18 ore al giorno con una scodella di riso e acqua.
I crudeli padroni uccisero e torturarono sistematicamente gente innocente, cercarono di distruggere il passato, compresa la religione buddista, trucidando ogni persona che avesse un titolo di studio o anche solo una competenza professionale, per rifondare una società basata sull’oblio della tradizione e su attività puramente agricole esercitate in modo arcaico.
Non si può, oggi, parlare della Cambogia senza iniziare da questa allucinata esperienza, che causò circa 1 milione e 700 mila cittadini uccisi da malattie e fame, oppure trucidati per lo più a randellate. Fu un incubo, in cui i bambini dovevano lavorare come adulti, e gli adulti erano mortificati come bambini.
I figli giovani, selezionati e sottoposti al lavaggio del cervello in campi di rieducazione, venivano poi inseriti nella «milizia nazionale» per spiare gli adulti, compresi i genitori; erano impiegati come soldati anche per eseguire omicidi. Tutti, comunque, venivano trattati da bestie, che però erano meglio nutrite.
Il nucleo familiare fu oggetto di distruzione da parte dei khmer rossi. Sotto il loro governo, diretto da Pol Pot, la stessa parola «famiglia» ha perso il suo significato autentico e originale, assumendo quello riduttivo di «sposa».
I khmer combinavano pure i matrimoni, soddisfacendo (fra l’altro) le brame dei dirigenti del partito verso le ragazze più belle. Però i figli venivano sottratti immediatamente alla cura delle madri e affidati a enti dello stato.
Il regime si concluse nel 1979.
FRA MUTILATI E MENDICANTI
Il dolce panorama delle campagne nell’area centrale del paese e la sorprendente ricchezza dei monumenti storici dell’antica civiltà khmer passano in secondo piano, osservando la miseria della popolazione e il numero impressionante di mendicanti spesso mutilati. Non si può distogliere lo sguardo da centinaia e centinaia di bambini che si industriano a raggranellare qualche soldo durante la giornata.
In ogni angolo si è circondati da schiere di adulti, che vendono bibite fresche, prodotti artigianali, raccolte di fotografie dei monumenti o rotoli di film per macchina fotografica. Però non c’è insistenza; basta dire «no, grazie», perché il venditore si ritiri e tenti la sorte presso un altro passante.
Il caldo è elevato e la traspirazione è tale da inzuppare anche i leggeri abiti estivi. Questo, oltre a favorire un’imponente vendita di bibite (tutt’altro che a buon prezzo), genera anche gesti simpatici da parte specialmente di bambine: ti si avvicinano con lo sguardo di chi teme una possibile reazione di fastidio e provano a farti vento con il classico ventaglio di fibra vegetale, a forma di cuore, comune anche in Thailandia. Lo fanno per avere una mancia, ma generano un problema nell’utente del servizio, che non dovrebbe fare preferenze di fronte a tantissime offerte. Problema penoso, la cui soluzione finisce sempre per deludere le molte offerenti.
Una bambina, di circa sei anni, mi si è avvicinata per vendere qualcosa. Ma io le ho chiesto di fotografarla, in cambio di una mancia: ha accettato con una riverenza, come fanno le piccole in questi casi; con un rapido tocco della mano si è rassettata i fluenti capelli neri e, con un sospiro di rassegnazione, si è messa in posa senza un sorriso sottoponendosi a qualcosa che proprio non le piaceva.
Ci si trova sempre a disagio a fotografare una persona sconosciuta. Ma, nel caso descritto, il disagio è stato maggiore, trattandosi di una creatura a cui è stata rubata l’infanzia e l’adolescenza non presenta rosee prospettive.
In un’altra occasione, scendendo lungo un sentirnero ripido e sconnesso, un bambinetto si è affiancato a mia moglie Adelaide, senza dire una parola, il visino serissimo, indicandole con la mano dove porre il piede per rendere più agevole la discesa. Anch’egli si ingegnava di fare qualcosa per ricavare un piccolo gruzzolo.
tra luci e ombre
Oggi in Cambogia si impone un difficile lavoro di ricostruzione, anche del morale della popolazione. Il governo locale è sotto esame delle Nazioni Unite, che gestiscono i programmi di aiuti.
Finalmente, nel 1979, si è fermato lo sterminio da parte dei khmer rossi con l’intervento dell’esercito del Vietnam, che però era responsabile dell’armamento e addestramento militare dei khmer stessi. In seguito, invasa la Cambogia, il Vietnam non è stato pronto a ritirarsi. Né si deve dimenticare che l’attuale capo del governo cambogiano, Hun Sen, si era fortemente compromesso con il regime di Pol Pot, il famigerato capo dei khmer rossi.
Per ricostruire la Cambogia, occorrono imponenti investimenti di capitali, che probabilmente si stanno muovendo, anche perché la politica economica ha abbandonato le regole comuniste e si è allineata agli schemi occidentali. Però la debolezza dell’attuale governo è tale da rendere possibili abusi e corruzioni.
Un residente europeo a Phnom Penh ha raccontato che, in tempi recenti, il governo non aveva soldi per pagare gli stipendi dei dipendenti statali. Allora è intervenuto un uomo d’affari cinese, che ha erogato il denaro per qualche mese (si dice per sei mesi) e non ne ha richiesto la restituzione, ma «solamente» alcuni privilegi!
A dispetto della diffusa miseria che si osserva in Cambogia, sulla riva del fiume Tonle Sap è ormeggiata un’imponente nave, di proprietà cinese, che incorpora anche un casinò. E le quantità di denaro che vi si spendono non provengono certo da tasche cambogiane.
Segni di speranza
Non manca qualche buona realizzazione.
Ad esempio: un medico svizzero, col denaro di una fondazione elvetica di solidarietà, ha costruito, partendo da zero, un ospedale per curare gli occhi dei bambini. Il trattamento è gratuito: quindi il numero dei pazienti è elevato. L’anziano medico è circondato non solo da stima, ma anche da venerazione. L’opera è talmente positiva che ora è in corso la costruzione di un analogo ospedale in un’altra area. Esiste pure un ospedale costruito gratuitamente dai giapponesi; ma la degenza è a pagamento.
Alcuni quartieri di Phnom Penh (pochissimi invero) sono stati rifatti (spesso con l’aiuto del governo francese, che è molto attivo per ragioni storiche): si presentano impeccabili, in stile coloniale, nel fulgore della vegetazione tropicale dei curatissimi giardini.
Il governo ha ristrutturato completamente nella capitale un albergo di lusso, con tariffe da capogiro persino a Manhattan. Però questo ha pure un aspetto positivo: infatti la presenza di uomini d’affari o turisti facoltosi comporta un introito di denaro per le casse dello stato.
Invece intatto rimane il sinistro edificio dell’ex scuola superiore Tuol Sleng, trasformata in carcere di sicurezza (S-21) dai khmer rossi: un luogo di tortura, dove sono transitate 17 mila persone, trucidate sul posto o in un campo di sterminio alla periferia della capitale.
A Siem Reap, dove sono visibili gli straordinari monumenti antichi di Angkor, sono stati costruiti alberghi di varie categorie, che rappresentano dei motori per l’economia locale.
Gli splendori di Angkor
Un viaggio in Cambogia non può prescindere dalla visita alle rovine di Angkor.
Su un’area vastissima si trovano vestigia di raffinati insediamenti urbani, spesso cintati da mura e con stagni artificiali, che rimandano ad alcune capitali fondate dai sovrani khmer dal X al XII secolo, nel periodo del loro massimo splendore (ndr: il popolo khmer, insieme a quello mon, risiede in Cambogia fin dal I secolo d. C.). Si tratta generalmente di templi. Il tutto è patrimonio dell’umanità, protetto dall’Unesco.
Lo splendore dei luoghi e i lavori di preservazione degli edifici stanno tramutandosi, grazie al turismo, in una buona fonte di denaro. Le rovine sono immerse in una vegetazione lussureggiante: talora viene un po’ sfoltita, pur mantenendo l’aspetto fascinoso della giungla che inghiotte e nasconde antiche costruzioni.
Gli edifici sono anche circondati da vasche, che si riempiono d’acqua specialmente nella stagione delle piogge. Succede di sentirsi attratti dal rumore di un tonfo nell’acqua… e di scorgere poi un serpente, caduto nello stagno, che nuota velocemente, raggiunge i muri coperti di erbe e vi si nasconde con movenze rapidissime.
Queste aree culturali sono oggi protette da organi di sicurezza, anche contro i ladri di reperti archeologici. Le misure sono così drastiche che le zone aperte al pubblico, alla chiusura serale, vengono minate e liberate il giorno dopo, prima dell’inizio delle visite dei turisti.
I templi testimoniano l’evoluzione della religione nella società khmer, che ha subìto nei secoli una frote influenza della cultura indiana. Infatti la prima religione è stata l’induismo, con una successiva evoluzione verso il buddismo «mahayana». Il buddismo, però, si è sovrapposto all’induismo senza cancellarlo: per cui si possono vedere statue di Budda, ritratto in posizioni classiche, accanto a statue di Shiva.
Il buddismo «mahayana» verso il X secolo è stato sostituito da quello «hinayana» della corrente «theravada».
TRE RACCOLTI DI RISO
L’ANNO
Tra giugno e luglio inizia la stagione delle piogge, che si presenta con mattinate terse, nuvole vaganti nel pomeriggio e un immancabile temporale notturno. Spettacolari i cieli azzurri, trapunti di bianchi cumuli di nubi, che generano un incanto in contrasto con quanto si avviene sulla terra.
Le campagne (sminate) sono oggi regolarmente coltivate, consentendo persino tre raccolti di riso all’anno, grazie anche alla rete idrica.
I khmer fin dal X secolo avevano perfezionato un sistema di canali e bacini artificiali, che assicuravano l’acqua durante l’intero anno immagazzinando le piene del fiume Mekong. Inoltre la rete idrica presenta una peculiarità.
Infatti, durante la stagione delle piogge, il Mekong raccoglie dal suo vasto bacino un’ingente quantità d’acqua. L’affluente Tonle Sap, prima di confluire nel Mekong, forma un lago. Ma la portata d’acqua del Tonle Sap, specie nella stagione delle piogge, è così scarsa rispetto a quella del Mekong che questo si riversa sull’affluente. Il Tonle Sap, allora, inverte il percorso e incomincia a riempire il lago: quindi allarga il suo letto anche otto volte rispetto a quello dei periodi di secca.
Questa particolarità è stata sfruttata dalla civiltà di Angkor che, con il contributo di canali e bacini artificiali, era in grado di incamerare l’acqua delle piene del Mekong riuscendo a farla durare un anno, fino alla piena successiva.
Oggi questo permette di avere anche tre raccolti di riso l’anno. Inoltre i fiumi e il lago Tonle Sap sono molto pescosi. Senza scordare che la natura tropicale è generosa di frutta e verdure.
È comprensibile, pertanto, l’interesse dimostrato sempre dalla Cina sulla Cambogia. I cinesi hanno cercato di estendere il loro controllo nel sud dell’Asia fin dai tempi dell’invasione mongola. L’interesse esiste tuttora, come dimostra la sanguinosa storia degli ultimi decenni che ha coinvolto pure il Vietnam.

Nonostante la tragica eredità lasciata dal regime di Pol Pot, si può essere moderatamente fiduciosi sul futuro della Cambogia. Ma è necessario controllare e a vanificare le mire degli khmer rossi, non ancora completamente messi a tacere, e le possibili deviazioni di masse di denaro controllate da persone senza scrupoli.

Giorgio Motta




CAMBOGIA – Finito l’incubo rimane la miseria

Una vita di pura sopravvivenza
Corruzione diffusa, prostituzione,
sfruttamento minorile, soldi di provenienza ambigua.
Nel paese asiatico il disordine sociale
ed economico regna sovrano.
Favorendo una esigua minoranza di cambogiani
e di compagnie straniere.

Il nonno di Tung era monaco buddista. A 25 anni lasciò il convento, si sposò ed ebbe 14 figli da 3 mogli. Il padre di Tung si chiama Vech Savey, (Vech vuol dire monaco). Nel 1974, durante il regime di Pol Pot, mentre serviva nell’aviazione cambogiana come paracadutista, venne a sapere delle purghe e delle deportazioni. Fu così che riuscì a portare in salvo la famiglia.
Lasciarono la casa di Siem Reap su di un carro trainato da buoi, carico di bambini, vecchi, riso e masserizie. Dovevano raggiungere le aree più remote del nord est, per mettersi in salvo. Durante il viaggio, che durò più di tre mesi, si nutrirono di quello che potevano cacciare con trappole, arco e frecce. Cinghiali, orsi, cervi, ma anche topi, lucertole, rane e serpenti. Tung allora era bambino, ora è un giovane fortunato, che ha potuto studiare un poco d’inglese a Phnom Phen, anche se per pochi mesi. La vita è cara, nella capitale, per un ragazzo di campagna.

La Cambogia ha molte ricchezze, che non sono solo minerali, pietre preziose, petrolio. Uno splendido passato ha lasciato templi affascinanti. Il complesso di Angkor, al centro di una zona fertile e ricca d’acqua, rappresentava il centro spirituale e temporale del regno khmer dal IX al XIV secolo. Dalla foresta tropicale emergono i grandiosi edifici sacri, costruiti idealmente intorno al mitico monte Meru, dimora degli dei nell’olimpo hindu. Avvolti da una densa vegetazione, sono circondati da bacini d’acqua che simboleggiano l’oceano. Rampicanti e liane filtrano la luce del giorno, creando effetti fantastici nei corridoi e nei cortili ingombri di pietre e fregi spezzati .
In questo contesto che affascina i visitatori (i quali oggi arrivano più numerosi di un tempo) si è organizzata una «corte dei miracoli», che fa urlare di sdegno. Hanno raccolto le mostruosità della guerra e dei campi minati per sfruttarle. Vittime di terribili amputazioni, storpi e ciechi con le orbite vuote e trafitte, vengono sistemati la mattina davanti ai sontuosi portici di pietra grigia, lungo i camminamenti che attraversano le vasche sacre, accanto agli splendidi, lugubri templi khmer. Uno spettacolo atroce, fatto per commuovere.
Fuori, seminascosti dai cespugli di bambù e dalle palme, ci sono loro, i banditi con le grosse moto. Controllano costantemente la raccolta di offerte e denaro, foendo di bibite, cartoline e sciarpe uno stuolo di bambini, che hanno il compito di avvicinare, circondare e intenerire i visitatori. Aspettano fino a sera, poi se li portano via, i loro schiavi, chi sa dove, fino al giorno dopo.
Poi ci sono i bambini in vendita. Li ho incontrati nei templi più remoti, quelli che sembrano lottare contro una natura troppo forte, che li abbraccia e li stritola. Ci aspettavano. Ci guardavano e ci seguivano, con occhi già vecchi, tra le pietre coperte di muschio. Sono i bambini che non vendono sciarpine colorate. Vendono se stessi. Li hanno anche intervistati, e chi ha visto alla televisione quel filmato e ha udito i racconti ingenui e precisi di cosa fanno con gli stranieri di passaggio, ne è rimasto sconvolto.

Piove molto in Cambogia, tutto l’anno. A volte sono scrosci fortissimi, che lasciano pozze d’acqua e di fango. A volte è una pioggia fine, leggera. L’umidità è forte. La terra è satura d’acqua, specialmente in autunno, quando il grande lago riceve le acque lontane del Mekong in piena e si allarga invadendo le campagne. Nella stagione secca si ritirerà, a un quinto della sua grandezza. Quello che era forse il bacino interno più ricco di pesce al mondo, che alimentava l’esportazione e dava cibo e proteine alla gente, ora sta morendo. In questi lunghi anni di guerra sono state gettate nelle acque del lago Tonle Sap armi chimiche e sostanze velenose. L’hanno fatto per annientare la popolazione?
Qui vivono anche molti vietnamiti. Sono stranieri, odiati, perché nemici da sempre. Non hanno diritto alla terra: quindi vivono sulle loro misere barche, dove coltivano ortaggi e cercano di allevare pesci in rudimentali gabbie di legno. La Cambogia è fertile e poco abitata, e loro sono rimasti dopo l’invasione.
Qui arrivano anche le ragazze, quelle più carine, reclutate nei villaggi vietnamiti. Sono loro le prostitute disponibili in tutti gli alberghi.
Alcuni dei progetti miliardari di alberghi si sono ridimensionati. I flussi turistici non sono ancora adeguatamente forti: restano le strutture di cemento vuote, nelle vie fangose. Una misera tendopoli, fatta di teli di plastica azzurra tirati da corde, è sorta accanto a un cantiere, unico riparo per decine di profughi. I pullman di turisti indifferenti e ciechi vi passano accanto, per poi fermarsi nel negozio di pietre preziose poco lontano. A causa delle condizioni disumane in cui vivono, i profughi sono vittime di Tbc, lebbra, Aids e altro. Vengono dal confine con la Tailandia, dove dicono che i ribelli khmer siano ancora attivi, dove in realtà si cerca di far sgombrare tutta la popolazione. Quelli sono i territori più ricchi di risorse, che devono venire sfruttate senza lasciare nulla al popolo.

Sono passati quasi 5 anni dalla mia prima visita. Sorita, una bella signora in costume tradizionale, era stata la mia guida. Ricordo che non aveva voluto entrare a Tuol Sleng, l’ex liceo trasformato dai khmer rossi nel centro di torture S-21 e oggi museo dove sono conservate le testimonianze delle torture e dei massacri perpetrati dal 1975 al ’79: il ricordo e il dolore erano troppo recenti.
Durante il regime di Pol Pot, Sorita perse 38 dei suoi familiari, intellettuali imparentati con la famiglia reale. Quando i khmer rossi ordinarono a tutta la popolazione della capitale di evacuare la città, la famiglia di Sorita fu deportata nelle campagne per i lavori forzati. A quei tempi, Phnom Penh era passata da 500 mila a quasi 2 milioni di abitanti, a causa dei profughi fuggiti dal Vietnam.
Centinaia di migliaia di persone furono buttate sulla strada, tutte insieme, con poche cose prelevate da casa all’ultimo momento. Fu un esodo lento e terribile, a piedi, nel fango, vecchi, donne e bambini. Chi si ribellava veniva ucciso. Chi non poteva dimostrare di avere origini umili veniva eliminato.
Sorita dovette lavorare giorno e notte nei campi sorvegliati dai khmer. Lei così miope senza gli occhiali, distrutti perché pericoloso segno di cultura. Poi venne il giorno delle «nozze» di gruppo. I giovani in età di matrimonio furono convocati e a ciascuno fu abbinato una compagna. Naturalmente ci fu anche il controllo, affinché l’unione fosse effettivamente consumata.
Sorita fu fortunata. Il giovane con cui fu accoppiata era un medico che aveva finto di essere meccanico di biciclette. Nacquero 3 figli che cementarono quell’unione con l’amore. Non tutti ebbero la stessa fortuna.

Già 5 anni fa mi avevano colpito i bambini. Ci guardavano silenziosi, assorti, senza un sorriso. Anche nella miseria, in tutto il mondo i bambini giocano, ridono e ti sorridono. Sono loro il futuro di un paese. Oggi i piccoli cambogiani sanno sorridere, ma in modo ambiguo. Tendono la mano, chiedono, sono già «corrotti». E tanto più poveri e disperati.
Allora la capitale Phnom Phen era percorsa da un frenetico attivismo commerciale e di ricostruzione, segno evidente della voglia di risorgere dalle macerie della guerra. Oggi per la maggior parte degli abitanti, arrivati dalle campagne in cerca di una vita migliore, la situazione è sempre la stessa: case fatiscenti, alveari di cemento che danno su vicoli fangosi. Allora si sperava, c’era da ricostruire un paese. Sapevo che anche i salesiani erano stati chiamati a dare una mano, per le scuole.
Ora il paese si presenta in uno stato di disordine morale, economico, sociale. Ci sono molti traffici, operatori stranieri che cercano di fare affari in un paese allo sbando, con un re vecchio e balordo, e un primo ministro (Hun Sen) coinvolto in scandali e corruzione. Una corruzione che impedisce lo sviluppo e il miglioramento delle condizioni di vita della gente.
L’albergo che ci ospita nella capitale, di proprietà straniera, è nuovissimo, di un lusso incredibile, ma vuoto. Si può contrattare il prezzo di una stanza, che risulta poi ben inferiore a quello di listino. Sono investimenti fatti con denaro di provenienza ambigua. Si parla dei signori della droga o di militari, che in questi paesi hanno le redini del potere.
La guerra è finita? Non credo. Ci sono altre battaglie che andrebbero combattute, ma qui chi comanda sono i banditi e la gente rimane sola, povera e ignorante. Da anni si dice che la Cambogia soccomberà un giorno, stretta tra due potenze aggressive: la forte Thailandia e il Vietnam, affamato di terra per i suoi 75 milioni di cittadini.

Claudia Caramanti




CAMBOGIA – Se mine e aids scomparissero

Un futuro già compromesso?
Si muore di diarrea o di Aids. O per lo scoppio
di una mina. Ma la Cambogia non è solo questo:
è anche natura esuberante, frutti succosi,
fiori profumati, sorrisi disarmanti.
Ricordo di un paese dove violenza e dolcezza
convivono fianco a fianco.

M olte sono le immagini che hanno rappresentato la Cambogia in articoli, saggi, libri. Immagini quasi sempre drammatiche: campi disseminati di ossa e teschi, bande di guerriglieri con lanciagranate in spalla, terreni minati, vittime delle mine per le vie di Phnom Penh o nei villaggi di campagna. Tutte cose assolutamente vere e realistiche, ma non sufficienti a raccontare la Cambogia.

I n questo strano paese gli estremi si mescolano in un solo ricordo. E così, accanto ai drammi di una popolazione violata, si aggiungono immagini di volti dolcemente sorridenti e, accanto a immagini di corpi in fin di vita per l’Aids, quelle delle danze aggraziate apsara. Ricordo molto di più la dignità che la disperazione, negli animi delle persone con le quali ho lavorato e vissuto per oltre un anno.
È incredibile come qui convivano due anime: quella della violenza e quella della disarmante dolcezza. Ad esempio, per le vie di Phnom Penh, trasudanti caldo e polvere, durante il giorno era evidente l’aspetto sofferente della città: cupe abitazioni, giungla di fili elettrici abusivi, amputati e poveri medicanti a popolare i bordi di strade inesistenti, la povertà evidente dei piccoli mercati. Ma la sera, lungo il Tonle Sap o intorno al Wat Phnom, centinaia di famigliole, sedute su stuoie nei prati e sul lungofiume, gustavano uova sode o pesce affumicato, in un quadro di bei colori ed armonia. E nelle province, nei remoti villaggi, dove miseria e malattie dettano le regole di una stentata sopravvivenza, non mancano i fiori davanti alle case in legno e bambù, né vengono risparmiati sorrisi al visitatore.
Né posso dimenticare lo splendore di una natura esuberante, di frutti succosi (non ricordo di aver conosciuto altri posti con tale varietà di frutti), fiori profumati (il frangipane la sera, o dopo la pioggia, diffonde a tutta la città il suo profumo) e fiori colorati (i flamboyantes che adoano i viali della capitale come i sentirneri dei villaggi). In questo splendore tutto a volte assume un aspetto solenne e celebrativo, soprattutto quando i mille colori del tramonto tingono meravigliosamente fiume e risaie.

D ella Cambogia ricordo lo splendore dei tetti oro e smeraldo del palazzo reale, i luminosi viali di Phnom Penh, i mille tetti delle innumerevoli pagode che appaiono ovunque, le colorate cerimonie con i solenni bonzi dal cranio rasato e le tuniche arancio, il delizioso pesce-elefante pescato nel Mekong e servito con profumate salse al mango verde.
E come non collegare il ricordo della Cambogia al mistero e al fascino di Angkor Wat, il cuore del paese, che merita da solo un viaggio in Indocina. Cammini per ore nella giungla soffocante, tra templi ricamati, imponenti colonnati, i quattro volti di Bayon, fino a raggiungere un’immagine che toglie il respiro: l’enorme complesso di Angkor, memoria storica e intima del popolo khmer.
Nonostante questo, chi è stato in Cambogia non da turista non può evitare di sentirsi come in un immenso sacrario, dove le sofferenze inaudite di un popolo hanno innaffiato di sangue gran parte della attuale vegetazione. Per fortuna, questo pesantissimo ricordo è vissuto dai khmer con discrezione, quasi come una vergogna da coprire.

P er me e la mia famiglia è stato come conoscere i sopravvissuti di Auschwitz, vittime dell’ennesimo olocausto.
Avrei avuto voglia di interrogarli, ascoltare i loro racconti, le loro vite difficili da immaginare. Ma loro discreti scivolavano sul passato, fino a quando, magari passeggiando alla sera, ti raccontavano come una storia qualsiasi di quando videro massacrare a bastonate i loro cari, in quel delirio che erano i «campi di rieducazione» o, con minor eufemismo, i «killing fields», i campi dell’uccisione.
Ancora oggi i cambogiani sono un popolo costretto a subire violenze quotidiane: una corruzione senza vergogna, l’arroganza illimitata di chi detiene il potere (magari conferito dai proventi di traffici illeciti), fino al drammatico disboscamento che sta minacciando l’equilibrio ecologico del paese. Come se ciò non bastasse, c’è la piaga dell’Aids, che trova nella capillare rete di prostituzione e bordelli l’ideale terreno di coltura per una crescita esponenziale, proprio lì dove i farmaci per curare l’infezione e le complicanze sono introvabili.
Si muore di Aids; si muore di diarrea nei lontani villaggi delle province di Ratanakiri o Stung Treng; si muore ancora su una mina a Anlong Veng o vicino Battambang. E la fabbrica delle protesi è forse l’unica industria dal roseo avvenire nel paese.
In Cambogia centinaia di Ong e agenzie di cooperazione si sono date appuntamento, forse con un esubero eccessivo e con finalità non sempre compatibili con un reale sviluppo del paese.

Oggi, nella mia mente, rivedo le persone che ci sorrisero, per rincuorarci nei momenti difficili, quando tutti avevamo paura, o per esprimere la loro fiducia nel nostro lavoro. Ecco, i mille sorrisi di quella gente costituiscono, per me e la mia famiglia, ricordi indelebili di un anno indimenticabile.

Carlo Urbani




Un mese tra dentiere ed estrazioni

L’esperienza e le riflessioni di una giovane coppia
di odontotecnici, marito e moglie.

Finalmente ci appare la missione su una collinetta. Notiamo subito il piccolo ospedale e la chiesa, la cui facciata guarda a valle una immensa savana. È il 14 agosto. Qui è inverno, ma il sole si fa sentire.
Siamo in 10 sulla Land Rover di padre Giuseppe, che rimorchia la nostra jeep con il radiatore rotto. Fortunatamente, trainati prima da un camion e poi dal missionario, giungiamo a questo Fort Apache della cristianità: Laisamis Mission!

Era buio pesto
quando abbiamo lasciato Timau, la missione dove abbiamo lavorato un mese come odontotecnici-dentisti, assistenti del dottor Romolo Grandi di Torino. Questi è un veterano del volontariato in Africa.
Le fertili terre dei kikuyu, che circondano il Monte Kenya (5.200 metri e nevi perenni sotto l’equatore), sono state trasformate in poche e vaste fattorie, gestite da ricchi stranieri. Le farms offrono vitali posti di lavoro, però sottopagati. Tuttavia chi ha uno stipendio può ritenersi fortunato.
Lasciata Timau, siamo entrati nella savana sempre più arida. A Isiolo termina la strada «asfaltata». È una città di frontiera per il Kenya nordorientale: vi si fanno i rifoimenti, se si prosegue per il nord. È anche l’ultimo posto di polizia. Chi vuole raggiungere Marsabit (300 chilometri di pista) deve viaggiare in convoglio, per ridurre il pericolo di attacchi degli shifta. Qui finisce il Kenya e comincia l’«Africa».
La pista è relativamente facile fino al bivio per il Samburu Park; poi diventa più faticosa. Ci è venuto da ridere pensando ai super-fuoristrada nelle città italiane.
Siamo entrati nella terra dei samburu, turkana, rendille e ol molo, popoli affascinanti come i masai, con pochi contatti con il mondo moderno. Appena sfiorate dal XXI secolo, queste popolazioni vivono secondo le loro antiche tradizioni. Qualcosa sta lentamente cambiando in meglio, grazie al lavoro nei parchi e all’intensa azione missionaria.
Superato Archer’s Post (dove nel 1998 fu ucciso padre Luigi Andeni, missionario della Consolata), abbiamo incrociato zebre e giraffe, gli onnipresenti dik dik e i velocissimi facoceri. È facile incontrare pure il leopardo che caccia.
Una buca… e il radiatore è saltato. Siamo rimasti in panne nel cuore della savana. Panico! Questo però ci ha dato l’opportunità d’incontrare i samburu con le loro file d’asini. Tanti ragazzi sono pastori, armati di lance, ma anche di fucili: indossano i loro caratteristici costumi rossi, sono quasi tutti scalzi e oati di collane e braccialetti colorati.
Poi… è arrivato padre Giuseppe.

Nella missione di Laisamis,
insieme a padre Giuseppe Satriano, c’è pure padre Fabio Zecca, entrambi missionari fidei donum di Benevento. Ci hanno ospitato nella loro casa ordinata e pulita.
A Laisamis mancano acqua, elettricità e telefono; si sopperisce con boniane, che con orgoglio ci hanno fatto da guida. Ci hanno raccontato la lotta con gli «stregoni», che per curare «avvelenano» i malati; quando i pazienti arrivano alla missione, non c’è più nulla da fare. In un letto giaceva una ragazzina agonizzante, già trattata da uno stregone.
Le missionarie ci hanno descritto la battaglia contro il colera, sconfitto grazie all’intervento di «Medici senza frontiere», premio Nobel per la pace, che hanno inviato i medicinali (1.200 curati, di cui solo 7 morti)… Quanto siamo lontani dai circuiti turistici e dai safari con i pulmini!
Il giorno seguente, festa dell’Assunta, abbiamo partecipato ad una messa indimenticabile. Con le suore e padre Giuseppe, eravamo gli unici bianchi; ma non ci sentivamo a disagio, anzi! Era così grande la cordialità che ci siamo persino scordati di scattare foto alle donne: alcune bellissime, dai lineamenti somali. Incuriosiscono le collane di perline colorate, i lobi delle orecchie con piattelli e legnetti appuntiti.
A cena abbiamo descritto la nostra modesta esperienza di volontari e la difficoltà in poco tempo di assistere tanti pazienti (in attesa da un anno) e insegnare alle suore i rudimenti del mestiere. Alla nostra partenza, dovrebbero sostituirci. Non è semplice.

Il dottor Romolo Grandi
ha impiegato anni ad impiantare a Timau uno studio dentistico e un laboratorio odontotecnico funzionali. Le suore di santa Teresa del bambino Gesù, guidate dall’instancabile suor Rita Alba, hanno fatto miracoli per riunire il tutto. Però si lavora solo un mese l’anno!
Ciò nonostante, il dispensario medico di Timau, l’ospedale di Kiirua e l’orfanotrofio di Kibirichia sono punte di diamante nell’assistenza sanitaria: tutte iniziative dei missionari della Consolata (il centro sanitario di Timau, opera di padre Attilio Ravasi, è da pionieri). Avviata l’opera, i missionari consegnano tutto ad altri, per ripartire da zero altrove.
In Italia, prima di giungere a Timau, abbiamo pensato ad una missione di preti e, invece, ci siamo trovati con 13 suore, di cui 11 africane. La loro accoglienza è stata calorosa. Abbiamo apprezzato il loro lavoro «con» e «per» la gente, soprattutto la più povera. Sono capaci di tutto: coltivano l’orto per sfamare i loro 100 bambini dell’asilo; dopo cena fanno maglioncini fino a tarda ora (noi eravamo cotti!) e, soprattutto, offrono assistenza sanitaria. Io, Nino, ho aiutato suor Mary il giorno delle vaccinazioni: ho perso il conto, tanto erano numerosi i bambini.
Timau è un villaggio dove, con il lavoro nelle farms, è arrivato un minimo di benessere. Le costruzioni di legno lungo la strada sono negozi caotici e strapieni. Un mercato occupa permanentemente un crocevia. Non ci sono molte case, ma i villaggi vicini, densamente popolati, sono tanti: si pensi che il sacerdote di Timau celebra la messa in ben 15 chiesette.
La strada asfaltata è affiancata da sentirneri, dove pedoni e biciclette sono abbastanza al sicuro dalle auto e dagli spericolati matatu (scassati Peugeot pick-up, che fungono da minibus, stracolmi di gente e mercanzie). Abbiamo viaggiato da Nanyuki a Timau su un matatu: è un’esperienza indimenticabile. Siamo partiti solo quando l’autista, dopo avere «incastrato» adulti e bambini all’inverosimile, è apparso soddisfatto del pienone (25 persone); ci siamo avviati con l’andatura di un rally.
Tra dentiere ed estrazioni, il mese è volato. L’ultima sera, passata con le sisters davanti al caminetto acceso (siamo a 2.200 metri), gustando l’ennesima torta squisita di suor Helen, ci ha preso la malinconia. Ci rimarranno nel cuore le loro preghiere e i canti tradizionali e nella mente i loro sorrisi.
Andando a dormire abbiamo alzato lo sguardo verso il cielo: sarà l’altitudine o latitudine… ma è incredibile come il tappeto di stelle sembri vicinissimo.

Il mattino seguente
ci siamo recati al minuscolo aeroporto di Nanyuki: due case di legno fungono da torre di controllo e sala d’attesa. Sulla veranda di quest’ultima alcune sedie di vimini e, su un tavolo, caraffe di tè e caffè. Si respirava aria «coloniale», dovuta anche alla presenza di alcuni snob inglesi, che non si degnavano neanche di rispondere al saluto.
Ci siamo congedati da suor Rita Alba, per raggiungere la costa per quattro giorni di vacanza nell’isoletta di Lamu, popolata quasi esclusivamente da musulmani. Lamu è la più antica città del Kenya. Risale alla fine del XIV secolo e, fino all’inizio del XX, la sua economia era basata sulla tratta degli schiavi. Negli anni ’70 era considerata «la Katmandu dell’Africa» per la difficoltà di arrivarci e il fascino medioevale.
In quei giorni di relaxe abbiamo pensato ai luoghi visitati e alle persone conosciute. Abbiamo letto numerosi libri sull’Africa e alla televisione sono di moda i documentari su questo continente. Ma lavorare qui e condurre una vita non da turista è tutt’altra cosa.
Ci siamo stupiti di quante persone vengano in questo paese per lavorare: dai medici (con cui abbiamo parlato dei nostri problemi di protesi) al laureando di filosofia e al papà geometra, che ha ideato e costruito una stalla.
Abbiamo incontrato pure quattro ragazzi di Collegno (TO), che hanno lavorato da imbianchini e baby sitter all’orfanotrofio di Machaka, e un volontario di Forlì, che ha aiutato il veterano padre Emilio Canova, missionario della Consolata, a costruire una missione nella foresta del Meru.
Tante persone. Un piccolo esercito che si muove per aiutare i missionari. Questi «soldati di Dio» a cui non bisogna far mancare le munizioni.

Nino e Gabry Peynetti




Una vicina di casa tutta da scoprire

Superare i pregiudizi.
Ciò che i mass media no dicono.

uando si pensa alla missione, si immaginano sempre luoghi lontani: le foreste dell’America Latina, le savane dell’Africa, i popoli dell’Asia, le isole dell’Oceania. Raramente si pensa alle terre vicine, alla nostra stessa terra.
L’Albania, dove abbiamo vissuto un’esperienza missionaria, dista da casa nostra solo due ore di aereo; è al di là del piccolo Mare Adriatico. La gente ha lo stesso nostro colore della pelle. Sono come noi.
Per essere missionari, non è necessario partire per un angolo dimenticato del mondo; basta sapere incontrare l’uomo dove vive, con le sue giornie e i suoi dolori, e annunciare il motivo della propria presenza.
L’enciclica Redemptoris missio ricorda che la nuova evangelizzazione è un fronte anche in Europa.

Eravamo partiti per l’Albania
senza sapere che cosa ci sarebbe aspettato. Eravamo informati solo su quanto la televisione italiana ci mostra.
Ma ben presto abbiamo scoperto un altro volto dell’Albania: un volto giovane, carico di speranza. Questo deve essere conosciuto, per incoraggiare la gente locale a cambiare, ricostruire. Di questa faccia diversa vogliamo parlare.
Eravamo ospitati nel villaggio di Gijader, presso le Maestre Pie Venerini. Le suore ci avevano invitato ad un’esperienza di condivisione con alcuni giovani albanesi, che stanno costruendo un oratorio soprattutto come «struttura educativa». Impresa non facile, data la situazione viaria dell’Albania.
In tanta parte del paese esistono solo strade sterrate, in pessime condizioni, che non permettono una comunicazione agevole fra i villaggi e allungano notevolmente i tempi degli spostamenti; scarseggiano le linee telefoniche; specialmente manca nella gente la fiducia in quel poco che ha e in quello che è.
La nostra attività si svolgeva nel villaggio di Grash, vicino a Gijader. Era la prima volta che delle persone si dedicavano all’animazione dei bambini e all’incontro sistematico delle famiglie. Di regola è assicurata solo la messa domenicale e qualche sporadico incontro di catechesi.
Ogni pomeriggio, mentre in jeep raggiungevamo il villaggio, già da lontano una folla di bambini ci correva incontro a piedi scalzi: saltavano sul paraurti dell’auto, ci stringevano la mano dal finestrino, volevano una carezza. Poi al lavoro con due grossi gruppi: uno per i bambini e uno per gli adolescenti e giovani. Bastava poco: in cerchio sulla strada (non esistono ambienti dove ritrovarsi) per cantare e giocare; oppure nella chiesa cadente per raccontare la storia di Gesù e fare il catechismo con le sue parabole.
Era la prima volta che i ragazzi avevano a disposizione qualcuno che li aiutasse crescere dove già vivono, senza evadere nel mito dell’«Italia ricca». Si tratta di un atteggiamento mentale che investe il terzo mondo, ma anche l’Europa, dove l’egoismo politico di qualcuno ha distrutto la dignità di intere popolazioni.
A differenza dei sospettosi albanesi emigrati in Italia, qui abbiamo sperimentato accoglienza e apertura. Nei giovani è vivo il desiderio del confronto, per capire come possono cambiare; non hanno modelli a cui ispirarsi, ma desiderano trovarli. Abbiamo incontrato una generazione con la volontà di costruire un’Albania diversa; ma si scontrano con la chiusura degli adulti. Però gli occhi sorridenti di tanti ci hanno dato una grande carica che vogliamo comunicare, anche per sfatare lo stereotipo dell’albanese pigro e cattivo.
La nostra televisione non racconterà mai che dei giovani albanesi, dopo avere ospitato nel proprio villaggio alcuni profughi kosovari assicurando loro il cibo, li hanno riaccompagnati a casa e hanno iniziato insieme a ricostruire i villaggi distrutti. La tivù non si soffermerà su altri giovani che vogliono capire chi manovra il rapimento delle ragazze per destinarle alla prostituzione; né si saprà che, al ritorno delle sventurate a casa, i giovani le difenderanno dalle cattiverie nel villaggio.
I mass media non diranno che alcuni giovani lottano con il capovillaggio per acquistare, con i soldi di una lotteria, un campo da destinarsi a cimitero per una degna sepoltura dei loro parenti. La tivù non farà sapere che le suore hanno aperto una scuola professionale per dare a tanti la possibilità di ritrovare dignità e cultura, annientate negli anni passati dal regime comunista.

Necessario e decisivo
è l’aiuto dei missionari: la catechesi ai giovani è un incoraggiamento per scoprire i propri talenti e sfruttarli.
La chiesa albanese sta rinascendo dopo la morte imposta dal comunismo e incomincia a camminare con le sue gambe. Non è facile, perché è stato tutto cancellato: scomparsi i registri, non si sa chi sia battezzato e chi no. Lo stesso dicasi per gli altri sacramenti. Oggi si insiste sulla preparazione ai sacramenti, che non devono essere dispensati con superficialità.
Durante la nostra presenza abbiamo conosciuto alcuni seminaristi di Scutari. Uno ci ha detto che presto saranno ordinati i «primi» sei diaconi albanesi dalla fine del regime. Era fiero e orgoglioso. E noi pensavamo con tristezza alle diocesi italiane che contano, invece, gli «ultimi» ordinati al sacerdozio.
Per noi «nuova evangelizzazione» significa pure «caricarsi» dall’esempio delle chiese giovani per ritrovare entusiasmo, nonostante le difficoltà; significa condividere con esse le nostre forze, perché insieme è più facile testimoniare l’unità, superando le divisioni che l’egoismo ha creato, e far capire al mondo che cosa significhi «pace».
Nel partire per l’Italia, abbiamo detto ai giovani che avremmo raccontato il bello dell’Albania. Eccoci qui ad adempiere alla promessa, invitando chi legge ad abbandonare i pregiudizi.
Non sottovalutiamo i grandi problemi dell’Albania. Ma… millennio nuovo, speranze nuove anche per la «nostra vicina di casa».

Roberto ferranti e Sergio Lussignoli




Un acquedotto al politecnico

Un missionario geniale e la collaborazione degli africani per soddisfare il bisogno d’acqua.

O ggi una delle sfide più importanti è quella di creare rapporti diversi tra i popoli, per vivere in pace e nello sviluppo. Se il mezzo per raggiungere tale scopo è l’acqua, l’impegno necessita anche dello stupore del bimbo di un villaggio africano. «Oggi finalmente è piovuto! Erano 140 giorni che non vedevo una goccia d’acqua» ha scritto sul quadeetto di scuola la piccola Noaga.

L’acqua è un fattore
di unione e, nello stesso tempo, di divisione tra i popoli. È urgente portarla alla sua funzione primaria: quella della gratuità, dell’incontro, dell’igiene personale e morale. Base della vita, l’acqua è anche strumento di comunicazione: alimenta scambi nella materia e tra le persone.
Esistono popolazioni che pagano la loro emarginazione, la povertà, la mancanza di riconoscimento… per le scarse risorse idriche. La situazione è drammatica: lo confermano le siccità sofferte dalle genti del Sahel, le carestie (causate dalla scomparsa delle piogge stagionali) che decimano le mandrie in Etiopia. I pozzi vuoti, i bacini asciutti, l’assenza prolungata di piogge e la loro limitata o disordinata caduta causano crisi agricole e alimentari, tali da rievocare le carestie bibliche.
Esperti sostengono che nel XXI secolo sarà l’acqua a mobilitare le strategie geopolitiche dei governi, e non più il petrolio. Oggi intanto c’è chi paga con la vita: nel mondo ogni otto secondi un bambino muore per malattie legate all’acqua!
Di fronte a queste provocazioni, è nato in me il desiderio di orientare gli studi al Politecnico di Torino verso una possibile soluzione del problema «acqua». Ho scritto la tesi di laurea in ingegneria dal titolo: «Progetto di cooperazione Tuuru water scheme: studio della diga in terra sul torrente Ura».
La tesi riguarda un acquedotto che prende il nome dalla missione di Tuuru, nella regione del Meru (Kenya), intrapreso dai missionari della Consolata nel 1965. È uno studio tecnico sulle opere di presa dell’acquedotto, con la proposta di un progetto per la costruzione di una diga in terra su un torrente. Prima di scrivere la tesi, ho trascorso due mesi sul posto.

Oltre a rispondere
ai problemi tecnici per la progettazione di un invaso artificiale, la mia tesi testimonia il lavoro che si sta già svolgendo, in particolare nel Meru, contro la povertà e per lo sviluppo. «Kenya, il missionario dell’acqua. Un’impresa colossale»: intitolava il Corriere della Sera, 11 gennaio 1998, presentando i 250 chilometri di acquedotto, realizzati da un missionario della Consolata, fratel Giuseppe Argese, e dalla gente del luogo.
L’opera fu iniziata 35 anni fa, per fronteggiare una prolungata siccità che colpì anche il Centro per bambini poliomielitici di Tuuru. Oggi c’è acqua potabile per centinaia di migliaia di persone della zona, dove mancano torrenti perenni, le falde acquifere sono molto profonde e le attività dipendono dal regime delle piogge. L’approvvigionamento d’acqua è assicurato da «prese» nella circostante foresta equatoriale, a circa 2.000 metri di altitudine, circondata dalla pianura semidesertica.
Però l’intercettazione d’acqua non è sufficiente a soddisfare i crescenti fabbisogni della popolazione. Una soluzione a tale emergenza sarebbe la costruzione di una diga nella valle del torrente Ura. Il relativo invaso artificiale permetterebbe di immagazzinare la notevole quantità di acqua piovana e, quindi, distribuirla nell’arco dell’anno.

L’acquedotto,
dai sopralluoghi effettuati in loco e dai risultati, costituisce un esempio-modello tra i molti progetti di sviluppo. Tre fattori contribuiscono al funzionamento dell’opera e rappresentano le prerogative per l’efficace attuazione della diga sull’Ura:
– la collaborazione tra locali e tecnici stranieri, alcuni dei quali operanti stabilmente sul territorio;
– l’utilizzo di tecnologie semplici e appropriate, nonché il rispetto massimo della natura;
– la presenza di un comitato (costituito da persone del luogo), che assicurerà l’autogestione dell’opera.
L’acquedotto ricorda un dato da non scordare: l’acqua è una risorsa limitata; quindi è da conservare, riciclare e prevenire da contaminazioni dovute a sfruttamenti incontrollati delle falde.
La scelta di non sfruttare le acque sotterranee in zone aride (dati i costi e i problemi di manutenzione dei macchinari), bensì di utilizzare le risorse idriche della foresta, si realizza nel rispetto massimo degli aspetti ecologici anche a lungo termine.
Tra i materiali, si impiega il terreno argilloso locale: quindi l’ambiente, che potrebbe essere alterato con metodi indiscriminati di costruzione, è salvaguardato. Per conservare le risorse idriche e difendere flora e fauna, c’è la sorveglianza da parte del personale dell’acquedotto.

La mia tesi si inserisce
fra gli studi tecnico-progettuali di soluzioni ingegneristiche, con la caratteristica di riguardare una realtà già operante. Ma per il progetto esecutivo della diga sull’Ura e per la natura stessa dell’acquedotto altre indagini sono possibili.
Per una corretta valutazione della diga, all’interno dell’«acquedotto», occorre riferirsi alla nozione di sviluppo, che prevede un livello più alto di benessere. Altri obiettivi significativi sono: la riduzione di fatica per l’approvvigionamento d’acqua, una migliore nutrizione, l’aumento dell’igiene. Sono traguardi che favoriscono qualità di vita, libertà personale, identità culturale, educazione.
Prima dei 250 chilometri di tubazione dell’acquedotto e delle tante fontane nei villaggi, molte donne e bambine camminavano persino una giornata per raggiungere le poche sorgenti d’acqua. Oggi, grazie all’acquedotto, il tragitto dura 10 minuti: il tempo risparmiato consente alle donne di dedicarsi meglio alle faccende domestiche e, soprattutto, permette alle bambine di frequentare la scuola.

Oggigiorno,
con il radicale mutamento dei rapporti tra i popoli, occuparsi del sud del mondo è una scelta quasi obbligata: basti pensare che il sud rappresenta i 2 terzi dell’umanità, indipendentemente dal fatto che siano ricchi o poveri.
Ma il sud non può più essere considerato una realtà a cui «dare» aiuto, bensì un soggetto con il quale «cornoperare». Calati in tale prospettiva, trovare soluzioni per i 2 terzi dell’umanità conduce al miglioramento di vita anche del restante 1 terzo, ossia di tutti noi.
L’acquedotto di fratel Giuseppe e della sua gente nasce da senso di responsabilità collettiva, oltre che da solidarietà evangelica: la diga sull’Ura l’accresce. Questo lavoro missionario è una strada percorribile per eliminare la piaga della povertà e, come è stato affermato al vertice ECOSOC (1999), è anche una via per servire la pace tra i popoli: pace che è «l’altro nome dello sviluppo».
Quando lo studio riguarda un bisogno basilare come l’acqua, la ricerca scientifica diventa anche un «riappropriarsi» dei valori che «sorella acqua» esprime, cioè semplicità, trasparenza, purezza senza infingimenti. Valori incarnati da tanti bimbi, come Noaga, che tuttavia soffrono la mancanza d’acqua.
Acqua che invece c’è, e per tutti.

Daniele Giolitti




I bambini della pace

Con alcuni studenti veneti e all’Assemblea dei popoli di Perugia, per rivendicare vita e serenità.

M onica Godoit, 17 anni, vive a Bogotá e con altri coetanei anima il Movimiento de los niños por la paz: un’organizzazione che si sforza di estirpare le radici culturali della violenza che sconvolge la Colombia. Sorto nel 1996, in quattro anni il Movimiento ha mobilitato qualche milione di minori, dai 6 ai 18 anni.
Insieme a Nydia Quiroz, responsabile in Colombia del Programma dell’Unicef «pace e diritti dei bambini», Monica è stata ospite del comune di Nervesa della Battaglia (TV). Ha poi partecipato alla III Assemblea dell’Onu dei popoli, svoltasi a Perugia il 23-25 settembre 1999, e alla marcia per la pace e giustizia «Perugia-Assisi» del 26 settembre.
Nydia e Monica sono state ospiti del nostro comune, anche perché a Nervesa opera padre Angelo Casadei. Questi ha studiato teologia a Bogotá, è stato animatore della campagna «Non di sola coca» e cornordina i «Laici Missioni Consolata» (Milaico).
Negli scorsi anni Milaico ha organizzato alcune esperienze missionarie in Colombia, ponendo i presupposti per un incontro con los niños por la paz.

Monica, dolcissima
nel suo spagnolo, ha incontrato gli studenti delle scuole medie di Nervesa e Giavera, mettendoli bruscamente a confronto con la tragedia quotidiana dei loro coetanei colombiani. Ragazzi che non possono giocare all’aperto per paura di sparatorie e sequestri, arruolati con forza nelle formazioni guerrigliere, straziati da mine, sfollati con le loro famiglie per non creare ostacoli al lucroso traffico della cocaina e degli smeraldi.
I bambini, fino al 1996, non hanno avuto l’opportunità di far sentire la loro voce; oggi, grazie al Movimiento, sono diventati interlocutori del presidente Andrés Pastrana, del segretario dell’Onu Kofi Annan, dei premi Nobel per la pace Rigoberta Menchú e José Ramos Horta. Bambini che, a loro volta, sono candidati al Nobel.
L’arma vincente del Movimiento è la fantasia. Nel 1996 i bambini si sono imposti all’opinione pubblica inventandosi una autentica consultazione elettorale, con la quale oltre 2.700.000 minori hanno impegnato il governo colombiano nell’attuare i diritti sanciti dalla Dichiarazione universale del fanciullo. Mette i brividi pensare che i diritti più invocati (perché più calpestati) sono quelli alla vita e alla pace.
L’esempio è stato contagioso. Alle elezioni del presidente del 1997 ben 10 milioni di adulti hanno accettato di inserire nell’ua, insieme alla scheda ufficiale, un foglio verde che invocava la pace e lo stop all’uso dei minori nei conflitti. Nel clima di intimidazione che si respira in Colombia, l’opinione pubblica non aveva mai così massicciamente detto no alla violenza.
Negli incontri a scuola e in quello pubblico a Treviso, Monica ha ripetuto che i mali del suo paese sono la paura e l’indifferenza. La paura è dei colombiani, nella stragrande maggioranza stanchi della situazione, eppure incapaci di contrastare chi della violenza ha fatto un business; l’indifferenza è del nord del mondo, che fa troppo poco per aiutarli ad uscire dal vicolo cieco.
L’innocenza dei bambini costringe al confronto con verità scomode. Monica ha paragonato la Colombia ad un dedito machucado, un ditino del piede calpestato. La sofferenza dovrebbe ripercuotersi sul corpo intero, ossia sulla comunità internazionale. Invece, inspiegabilmente, il ditino soffre da solo!

Con Gianni De Lorenzi,
ho accompagnato Monica a Perugia per la III Assemblea dell’Onu dei popoli, incentrata su «Il ruolo della società globale e delle comunità locali per la pace, l’economia di giustizia e la democrazia internazionale».
L’Assemblea ha offerto spunti preziosi di riflessione sul ruolo che anche un piccolo comune può assumere nella cooperazione decentrata. Dall’Afghanistan al Tibet, dal Sahara spagnolo al Nicaragua, dalla Cecenia all’Algeria, oltre 140 rappresentanti (insegnanti, sindacalisti, attivisti per i diritti umani, amministratori, ecc.) hanno presentato uno spaccato desolante del fardello di ingiustizie che il mondo porta con sé. Partecipando al gruppo di lavoro sulla pace, abbiamo trovato conferma alle nostre perplessità sull’intervento della Nato in Kosovo.
Oggi le guerre sono prevalentemente intee agli stati. Guatemala e Rwanda (per citare due casi) insegnano che imporre il «cessate il fuoco» con la forza non basta.
Indispensabile è il processo di pacificazione nazionale, stabilendo la verità su quanto è successo e individuando le responsabilità. È un processo lungo e difficile (che nemmeno il Sudafrica di Mandela ha del tutto completato), che non ha nulla a che fare con i bombardamenti indiscriminati descrittici dal sindaco di Panchevo (Serbia).
Non sono mancati segnali di speranza: ad esempio, vedere il rappresentante di Timor Est e quello dell’Indonesia condividere ogni momento della manifestazione.
Monica ha seguito i lavori dell’Assemblea con grande responsabilità. Con l’orgoglio di un padre, l’ho sentita affermare le sue ragioni davanti al presidente della Camera Luciano Violante e ai delegati inteazionali. Ha ottenuto emendamenti al documento finale, da presentarsi all’Assemblea generale dell’Onu, affinché sia chiaro che i bambini non rappresentano solo il futuro, ma anche il presente. Pertanto rivendicano subito un’esistenza dignitosa.

Nydia Quiroz ha vigilato
su Monica come una mamma, verificando la destinazione delle interviste che la ragazza ha rilasciato, perché «in Colombia chi lavora per la pace diventa un obiettivo militare».
Nydia, psicologa, in passato si è occupata dei bambini coinvolti nei conflitti del Mozambico e Salvador. Passeggiando fra i viottoli di Assisi abbiamo parlato, in stridente contrasto con la pace circostante, dei bambini sconvolti per avere assistito al massacro della propria famiglia, utilizzati come cavie per scoprire i campi minati o costretti ad uccidere per dimostrarsi utili alla guerriglia, e non essere a loro volta uccisi.
Nydia ha illustrato le tecniche di riabilitazione: si impiegano giocattoli e disegni per dar sfogo all’angoscia nelle coscienze dei ragazzi. Ma esistono coetanei che, in mancanza di strutture e personale specializzato, si improvvisano essi stessi terapeuti per confortare i traumatizzati.
Abbiamo scelto per il commiato la sacralità di san Damiano, con la speranza che la pace di «Francesco» possa giungere anche in Colombia.
Monica ha ripetuto la richiesta fatta ai ragazzi di Nervesa e Giavera: «Non lasciate che la Colombia sia dipinta solo in termini di violenza e narcotraffico. Aiutateci a testimoniare che c’è anche tanta gente meravigliosa che vuol vivere in pace».
Buena suerte niña.

Francesco Tartini




L’Africa di Mariana e Upendo

A che serve il mercato?
Perché la bimba se n’è andata? La fiala…

In Tanzania ho trascorso poco più di un mese: due settimane con i missionari della Consolata a Makambako, a nordest del Lago Malawi, e tre settimane a Mtwango, a 15 chilometri da Makambako.

Makambako, 13 settembre 1999
«A padre Giuseppe Inverardi, che partiva definitivamente da Makambako per Iringa, ho affidato mie notizie da comunicare in Italia via fax. Il missionario ci mancherà: è avvenuto tutto troppo in fretta. Buono, gentile, disponibile, colto, lungimirante, soprattutto umile. La sua partenza ha lasciato esterrefatto anche il vicario del vescovo di Njombe che, informato del nuovo incarico di superiore dei missionari in Tanzania, ha scosso la testa. Come dire: non ci voleva proprio per la diocesi.
I missionari sono così: seminano per lasciare il raccolto ad altri. Di loro c’è veramente bisogno in Africa.

17 settembre 1999
Questa mattina sono andato in un villaggio, per visitare la madre malata di un benestante. Non c’era. Incongruenze: fuori ce ne stavano mille altri!
Alla missione ho sgranato un po’ di mais; quindi un giro al mercato fra la gente che non può permettersi di comprare. Allora che ci sta a fare il mercato? Forse è solo per pochi. I tanzaniani mangiano una volta al giorno. Un po’ di ugali, la polenta bianca locale, con qualche erba. Spesso per indigenza si salta anche questo unico povero pasto.

Mtwango, 21 settembre 1999
Alle 10 viene a prendermi padre Tarcisio, missionario fidei donum di Brescia, da 23 anni in Africa. Ha 52 anni e sprizza energia da tutti i pori. Dopo 25 minuti di macchina, arriviamo alla missione. Non ho il tempo di riporre le valigie. Già mi attendono al dispensario.
Qui opera un «medico», con studi di praticandato in medicina lunghi (si fa per dire) due anni. Dei vari casi che via via succedono mi chiede gentilmente in inglese cosa io ne pensi, o meglio quale sia il mio parere. Incomincia così a prendere appunti e a prescrivere come io suggerisco; non essendoci però energia elettrica (cosa molto frequente da queste parti), non è possibile guardare al microscopio e le diagnosi di malaria vengono interpretate clinicamente.
Padre Tarcisio insiste perché io veda quanto prima Mariana, una bimba di quattro anni accompagnata da una sorellina maggiore. Vengono a piedi scalzi da un villaggio distante circa 20 chilometri… Mariana è in pessime condizioni: grave denutrizione, disidratazione, febbre, tosse. Dimostra un anno di vita. Probabilmente malaria e TBC insieme.
Il problema da risolvere subito è la reidratazione. Nelle esili braccia di Mariana prendo una vena, che si rompe subito. Riprovo, con lo stesso deludente risultato, mentre sister Fausta provvede zelantemente a rasare le regioni temporali per evidenziare altre vene. Anche qui fallimento.
La reidratazione sarà tentata per bocca domani. Però la sorellina riporta Mariana alla capanna del villaggio. È un caso davvero urgente. Ma ora chi la trova?
Alle 14 finisco con i malati del dispensario. Un boccone, e visito quelli che attendono in missione. Saranno una cinquantina di bambini tra i 10-15 anni.
Non mi sono mai sentito così bene. Difficile da spiegare: occorre solo provare. Per carenza di medicinali, arrivo a sottodosare i farmaci, ma qualcosa mi dice che tutto andrà bene.

27 settembre 1999
Upendo (in lingua swahili significa amore) sta morendo. È una donna di 34 anni, madre di cinque figli; il marito è deceduto quattro anni fa per Aids. L’ho vista ieri nel mio giro fra gli ammalati più poveri dei villaggi limitrofi. Non esiste macchina o altro mezzo che non siano i piedi a portarti da loro. Ti inoltri per strade e sentirneri sterrati, che sanno veramente di primitivo.
Questa mattina sono riusciti a portarla al dispensario: è cachettica, ha dolori addominali con vomito, diarrea, febbre, candidiasi orofaringea, disidratazione. È un Aids terminale. Sul suo volto si interpretano ancora lineamenti gentili, ma in quel letto (uno dei quattro disponibili) è un povero cristo in croce. Fleboclisi glucosata, antidiarroici, antiemetici, antimicotici, antidolorifici: è tutto quello che riesco fare con i pochi farmaci disponibili.
Dalle 8.30 alle 15.30 ho visitato ininterrottamente, mentre in serata vengo a sapere da padre Tarcisio che il piccolo dispensario di Mtwango non è mai stato così affollato come in questi giorni di mia presenza… Mangio qualcosa di scotto, un po’ di erbe africane e too da Upendo. Sono scomparsi il dolore e la diarrea, ma il vomito persiste.
Quanto vorrei avere almeno una fiala di plasil da mettere in flebo!

Andrea Valieri




Emozioni a valanga

Dalle ragazze cieche di Meru ai bambini orfani di Matiri, con una preghiera a Morijo. Tutto in Kenya.

LA SCALATA DELLE CIECHE

D esideriamo parlare del coraggio con cui alcune ragazze del Kenya si conquistano ogni giorno il proprio futuro. Nella loro «scalata» devono vincere sia l’handicap fisico sia la risposta che ad esso dà una società poco tollerante. In questo sforzo le giovani sono appoggiate da una struttura fondata dalle missionarie della Consolata e poi ceduta ad un ordine locale.
Le ragazze provengono per lo più da contesti agricoli, dove la donna è il motore della famiglia, responsabile del lavoro nei campi e della casa, e dove più radicato è l’attaccamento a questi schemi. L’handicap è la cecità, a volte parziale a volte occorsa dopo la nascita.
La struttura che accoglie le ragazze è l’Irene Centre for the Blind nel Meru, regione con una forte diffusione della cecità e dell’albinismo. Il Centro provvede alle giovani una professione artigianale con lavoro al telaio: è la partenza per una attività sartoriale in proprio, che permette loro di guadagnarsi indipendenza.
Le ragazze lottano contro la scarsa accettazione della loro «diversità» da parte della società locale e si impegnano a costruire una loro identità attraverso strumenti che la cultura tradizionale non offre, di cui è promotore l’Irene Centre. Considerate inadatte ad assolvere compiti femminili (anche se il loro avvicendamento nelle faccende domestiche del Centro conferma il contrario) e, quindi, private di un ruolo all’interno della famiglia, le cieche rappresentano un peso per quest’ultima, che, quando le accetta, stenta però a trovar loro stimoli ed occupazioni. La comunità locale le allontana e non le aiuta a guadagnarsi uno spazio che non sia la strada.
Scarsamente integrate nelle occupazioni familiari e con poche possibilità di partecipare alla vita della comunità che le rifiuta, le ragazze rischiano di rimanere prive di compiti e responsabilità. È come se lo stato tradizionalista, di cui fanno parte, negasse loro la cittadinanza con diritti e doveri.
È necessario che un’altra entità, più progressista, «riconosca» le giovani, attribuendo loro una nuova identità. È la sfida costante che si gioca all’Irene Centre con lo sforzo delle ragazze. Se così non fosse, non si riuscirebbe a creare una sinergia tra formazione e costruzione di professionalità, una nuova identità e indipendenza. Ma lo sforzo delle ragazze è tutt’altro che scontato:
– sono contagiate da dubbi sulla validità del percorso formativo intrapreso e le reali possibilità di successo, quando ancora soffrono per la cecità;
– vivono nell’apprensione di non disporre di sufficienti risorse finanziarie per avviare una attività in proprio, mentre manca l’appoggio familiare;
– temono di non guadagnarsi autonomia, essendo il futuro carico di ostacoli.
In altre parole: sono colte da sconforto. Costruire e immaginare un futuro diverso è per loro veramente difficile, essendo così poco protette, riconosciute e ascoltate in un mondo arcaico!
V orremmo sperare che la nostra presenza all’Irene Centre abbia rincuorato un po’ le ragazze circa l’importanza della loro scelta. Abbiamo partecipato alla vita della comunità (dal laboratorio alla cucina, dal tempo libero alla preghiera, al canto) e condiviso felicità, tristezze, desideri. Chissà che qualcuna non si sia detta: «Se costoro sono giunti fin qui da molto lontano… ci sarà pure un motivo!».
Ci auguriamo che il nostro messaggio si riverberi su queste amiche. Riteniamo importante l’investimento che stanno facendo su se stesse. Ed è indispensabile incoraggiarle e credere, anche da parte nostra, nel «loro progetto per il loro futuro». In cambio abbiamo ricevuto affetto e gioia; ci hanno coinvolto nella loro vita; con il canto ci hanno rigenerati…
Siamo tornati dal Kenya con delle grosse valigie. Al check in di Nairobi nessun addetto aeroportuale le ha viste. Ci siamo stupiti. Eppure non erano mica nascoste. Solo che erano zeppe solo di… emozioni e progetti.
Chiara e Sabrina, Paolo e Luigi

È SCONVOLGENTE CHE…

P er anni ho sognato l’Africa. Quest’anno i miei piedi hanno toccato il suolo del Kenya. Toata in Italia, ho ascoltato alcuni ragazzi che parlavano dell’Africa un po’ romanticamente: «Tutto è bello, i missionari non ti hanno fatto mancare nulla, la gente è meravigliosa e sembra che persino i coccodrilli siano buoni».
Per me non è stato così. In Africa c’è fame e i coccodrilli… Per raggiungere un qualsiasi luogo, si deve camminare ore a piedi sotto il sole; e non solo una volta, come è stato per me, ma per tutta la vita. Eppure si sa ridere e ballare.
È sconvolgente che qualcuno rischi di morire per una ferita, perché l’ospedale più vicino è a due ore di buche. È sconvolgente trovarsi davanti una «mami» all’undicesimo figlio in grembo. È sconvolgente la fierezza della gente, nel suo modo di camminare o guardarti, soprattutto se non ti conosce. A volte è anche un po’ timorosa.
Non ho incontrato folle di persone che ti corrono incontro a braccia aperte dicendo: «Fa’ come se fossi a casa tua» (esclusi i missionari: padre Orazio Mazzucchi e Rita Drago, a Materi, sono stati accoglientissimi). Ho incontrato persone difficili da conquistare, ma anche oneste da diventare amiche quando si è condiviso qualcosa, e non prima. Ho visto individui gentili, nella speranza che dall’Italia mandassi loro dei soldi per aiutarli a studiare. Se potessi lo farei, ma lavoro per studiare anch’io.
P erò, quando me ne sono andata, avevo voglia di piangere salutando Peter, che non smetteva di abbracciarmi. Peter è un infermiere del dispensario, che ho aiutato durante gli screening dei bambini; parla un inglese tanto osceno che ho impiegato una settimana per capire foreign body (corpo estraneo).
Porto nel cuore gli infermieri con i quali si andava a «fare le cliniche»: cioè visitare i villaggi dove le mamme portano i bambini perché siano pesati e vaccinati. Ho in cuore Murugi e Kariungi, orfani di mamma alla missione… Ho imparato a cambiare i pannolini e addormentare (impresa non facile) un pupo stanco. Nel cuore c’è pure Beard, il cuoco, che la mattina insegnava a me e a Francesca, mia cara compagna, delle frasi in kimeru, la lingua degli ameru. Vivono anche nel Tharaka: una zona povera, perché manca la possibilità di utilizzare l’acqua dei fiumi.
Non aver acqua a qualsiasi ora, lavarsi con quella fredda in bacinelle… forse non è molto faticoso se ci si adatta. Ma se questo dura una vita?
È duro per la prima volta nella vita sentirsi «il diverso», che i bambini guardano incuriositi, e non solo essi. La nostra pelle è ruvida; stupiscono le vene visibili e bluastre dei polsi e i nei. Incredibile è la curiosità della gente: se potesse, ti si infila in tasca per vedere cosa c’è.
È sconvolgente osservare la gente che non fa nulla e, soprattutto, capire che fare qualcosa o non far nulla cambia poco le cose; sconvolge vederla seduta ad aspettare e aspettare, senza lamentarsi. Sconvolgono le donne che partoriscono senza urlare. Sconvolgente è la colazione all’Hilton Hotel: costa un quinto dello stipendio di un infermiere.
Ma è importante adattarsi alle abitudini locali, perché hanno valore anche le cose che sembrano un gioco: contrattare quando si fa la spesa, per esempio, vuol dire rispettare la persona (pagare una cosa tre volte il suo valore significa, più che farsi beffare, ostentazione).
Alcuni dicono di avere sentito in Africa la presenza di Dio in modo più forte. Però Dio è presente in Kenya come in Italia: lo trova chi vuole incontrarlo, non importa il dove. Forse in Africa è un po’ più facile fare silenzio, quel silenzio indispensabile per ascoltare e tanto facile da smarrire tra tivù e discoteche.
L’Africa mi ha insegnato l’apertura. È l’unico modo per capire e accettare gli altri e forse anche se stessi e Dio.
L’Africa è colore: il rosso mattone della terra polverosa che ti rimane ovunque; l’azzurro del cielo che sembra di giorno più grande e di notte disordinato per le stelle irriconoscibili; il bianco delle nuvole; il rosso e giallo dei frutti e fiori. È sapore: mille gusti diversi, prima strani e poi squisiti (mango, papaia, passion fruits, margarina, chai, cioè il tè col latte). È suono: processioni nottue di circoncisori, canti, tamburi, passi di ballo, parlare sussurrato e veloce, voci di bambini.
L’Africa è odore: così forte all’inizio che dà fastidio. È nell’aria, sulle persone, sui vestiti, su di te. L’odore intenso diventa poi un compagno, un amico di cui senti la mancanza… A casa mia c’è una stuoia su cui ho riposto gli oggetti portati dal Kenya. Di tanto in tanto afferro una borsa: infilo il naso per risentirne l’odore.
Erika Cravero

FAME E SETE

N el mese trascorso a Morijo abbiamo avuto fame e sete: non di lasagne al foo o di un bicchiere di pinot, ma di amore, silenzio, gioia, solidarietà, fratellanza.
Ora i nostri sensi sono diventati più acuti. Il cuore ricerca purezza. La mente si prefigge solidarietà. E la nostra persona ne esce cresciuta, ma anche perplessa su «chi» siamo e il «perché» della vita. Siamo un granellino di polvere, ma anche un fiore dall’infinita fragranza.
A Morijo abbiamo visto, ascoltato, parlato e compreso di più il Signore.
Colui dove il niente è tutto,
la semplicità è ricchezza,
il silenzio è parola;
Colui che risiede la nostra anima.

AA.VV