La gamba moderata è troppo corta

In politica è meglio essere «moderati» o «coraggiosi»? Il cattolicesimo sociale
coincide con il «berlusconismo»? Da Lilliput, dal profeta Geremia e dal cardinal
Martini possono venire insegnamenti importanti. La realtà è difficile, complessa,
travolgente, ma va affrontata. È come l’atteggiamento di Davide con Golia:
Davide osò sfidare Golia, non c’erano i presupposti, l’esito sembrava fatale
e scontato e invece… L’alternativa può essere trovata: ricerca contro pensiero unico, cooperazione contro competitività, sobrietà contro spreco…

Che cosa significa «osare il futuro»? Qual è la traduzione di un verbo così ambizioso? Quali possibili strategie oggi possiamo utilizzare per raggiungere lo scopo? Ci sono tre strategie, a cui occorre richiamarsi: la strategia lillipuziana, la strategia di Geremia (dal libro del profeta omonimo) e la strategia portata avanti dal cardinal Martini.
Noi abbiamo bisogno di «un fare alternativo» e di «un pensare alternativo», perché l’approccio integrale è sempre teorico e pratico insieme. Che serve una persona che non capisce quello che sta facendo? Allora ci vuole un nuovo pensiero. E per un nuovo pensiero c’è bisogno di svellere e distruggere per edificare e piantare. Perché, se tu non attraversi il momento della «pax destruens», tu non crei niente.
DECOLONIZZARE E DELEGITTIMARE
Il professor Latouche parla sempre di «decolonizzare l’immaginario».
Che vuol dire? Significa questo: noi che vogliamo cambiare il mondo, che diamo vita alla «scuola per l’alternativa», noi siamo colonizzati nel nostro sistema cognitivo, nel nostro cervello. Il nostro modo di ragionare, che crediamo spontaneo, in realtà non ci appartiene. È quello che l’opinione dominante, la narrazione economica dominante (oggi neo-liberista) ci fa pensare. Poiché occorre fare i conti con questo pensiero, dobbiamo svellere e distruggere, se vogliamo edificare e piantare.
Non possiamo correre subito a creare il nuovo. Perché, se prima non ci liberiamo del vecchio, il nuovo non sarà altro che un prolungamento del presente. Questo significa «decolonizzare l’immaginario».
Si prendano i libri di Riccardo Petrella. Qual è il ritornello continuamente ripetuto? «Delegittimare». Delegittimare la narrazione economica dominante, perché se non si mostrano i suoi principi antropologici (inaccettabili e pseudo-scientifici!), allora quelle affermazioni e quelle dottrine avranno la meglio nell’opinione pubblica.
Noi dobbiamo fare questo lavoro critico di pensiero. Dobbiamo tornare a pensare. L’azione è fondamentale, ma se non la si accompagna con una produzione originaria e critica di pensiero, non si va molto lontano. Prima o poi si viene risucchiati. Noi non dobbiamo avere paura di realizzare forme di «violenza ermeneutica», cioè dobbiamo dire: «Su questo non ci stiamo e vi combattiamo fino in fondo. Certo vi rispettiamo, perché siamo non violenti. Ma noi stiamo cercando con il nostro impegno di costruire una società che è diversa da quella che volete voi, e ve lo diciamo in faccia. Ce la mettiamo tutta per svelare la carica di ideologie che intravvediamo nelle cose che voi affermate».
Però, neanche questo basta più.
IL CARDINAL MARTINI E IL «BERLUSCONISMO»
Molti di noi fanno riferimento al cristianesimo, al vangelo, alla dottrina sociale della chiesa, al cattolicesimo sociale. Qui occorre introdurre la «strategia ambrosiana».
Con tale termine io intendo la pastorale sociale che il cardinale Martini, nei suoi discorsi di S. Ambrogio agli inizi di dicembre di ogni anno, ormai ha maturato.
Basta con il moderatismo dei cattolici in politica, basta con l’accidia politica e l’ignavia dei conservatori. Questo è un passaggio importante: noi abbiamo persone che fanno banca etica, commercio solidale, adozioni a distanza, frequentano ambienti missionari ecc. e poi magari non riescono a distinguere il cattolicesimo sociale dal «berlusconismo».
Qui il problema è: io non ti dico chi devi votare, fai quello che ti pare; però ti metto in guardia su cosa c’è dietro una possibilità e dietro un’altra. E ti spiego perché il cardinal Martini dice basta al moderatismo dei cattolici.
Chi sono i cattolici nell’uno o nell’altro schieramento politico? «La gamba moderata della politica» viene risposto. «Io la gamba moderata?» dovrebbe domandarsi un cattolico che fa riferimento al magistero sociale, che vuole vivere il giubileo.
Oggi il magistero sociale della chiesa (soprattutto quello della Sollicitudo rei socialis e della Centesimus annus) e i discorsi del papa sono il serbatornio di un discorso alternativo, sono una cisterna di acqua sorgiva. Solo che se non ci sono cristiani e cattolici che in politica si comportano coerentemente con questi principi…
In politica bisogna essere coraggiosi, perché, come dice il cardinal Martini, il pensiero sociale della chiesa è portatore di iniziative e proposte d’avanguardia per la società di oggi. E comunque il vangelo nella storia ha sempre una eccedenza di senso e noi non possiamo sterilizzarlo facendoci considerare dei moderati. Se noi accetteremo il discorso del moderatismo, allora saremo neutralizzati, non daremo più fastidio a nessuno. A tutto ciò occorre ribellarsi.
È un discorso politico, ma la politica serve. Altrimenti il cambiamento è solo un cambiamento simbolico.
«OSARE IL FUTURO»
Il verbo «osare» ha almeno tre significati.
Nella liturgia si usa una bella espressione: «Osiamo dire: Padre nostro…». Il primo significato di «osare» è questo che la liturgia ci regala. Significa prendersi una libertà, essere impertinenti: «non siamo degni, ma osiamo dire». È una impertinenza esigente.
Il secondo significato di «osare il futuro» è operare una forzatura, affrettare il parto della storia, anticipare. La storia porta in grembo qualcosa, prima o poi lo darà alla luce. Osare il futuro significa: facciamo presto. Questa cosa nuova (che deve nascere) nasca ora. C’è un atteggiamento messianico in chi osa il futuro: egli vuole che quanto appare come salvifico anticipi i tempi, spingendo per una accelerazione della storia.
Un terzo significato è accettare la sfida. Osare il futuro vuol dire: la realtà è difficile, complessa, sembra che voglia anche travolgerci, ma noi accettiamo la prova. È l’atteggiamento di Davide con Golia: Davide osò sfidare Golia. Non c’erano i presupposti, l’esito sembrava fatale e scontato, e invece…
Quindi, «osare il futuro» significa buttarsi, rischiare, sperimentare cose nuove. Significa contemporaneamente resistere, reagire, misurarsi con le nuove sfide che ci interpellano.
Un ultimo significato di osare il futuro è quello di sfondare il presente. Cioè aprire dei varchi, innovare, essere generativi. Mentre prima l’innovazione veniva da fuori, adesso siamo noi a produrla. Pertanto creare alternative, essere capaci di futuro, essere portatori di idee, valori, modelli di sviluppo, di «altro» insomma (purché sostenibile, compatibile, dolce).
LA STRATEGIA LILLIPUZIANA
Non basta, ovviamente, questo pensare in grande. Innanzitutto è importante fare. Ecco perché una delle prime strategie d’azione è la «strategia lillipuziana».
In Italia chi ci ha informati su questa strategia sono stati Alex Zanotelli e Francesco Gesualdi. Entrambi fanno riferimento a un testo di due studiosi americani, Jeremy Brecher e Tim Costello (Contro il capitale globale, Feltrinelli 1996).
Partendo appunto da I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, i due economisti ci fanno capire che ciascuno di noi può diventare protagonista di un cambiamento, perché non è vero che non abbiamo più poteri.
Noi avremo ancora dei piccoli poteri, se sapremo metterli insieme, riusciremo a resistere alla minaccia del «Gulliver globale», che in questo momento sta appiattendo, sta schiacciando tutto e tutti.
La globalizzazione, la new economy ci hanno portato internet. Di chi è internet? Chi può usare internet? È uno strumento ambiguo. Ci possono andare i pedofili, come pure i cittadini o i «lillipuziani». L’ambiguità di internet è l’ambiguità del «Gulliver globale».
I LIVELLI DELL’AZIONE
La strategia lillipuziana va articolata in almeno tre livelli: personale, associativo e politico-istituzionale.
Partiamo dal concetto di «economia leggera». Che c’è dentro all’economia leggera? Ci sono comportamenti economici alternativi. Se io voglio, già oggi ho a disposizione tante scelte alternative: dipende da me. Io come cittadino che risparmia, consuma, viaggia, produce rifiuti, dispone di tempo libero, ho a disposizione delle alternative.
Ma questo è soltanto il primo livello della strategia lillipuziana. Guai se tutto finisse qui, guai se noi curassimo unicamente la diffusione orizzontale dei comportamenti alternativi! Guai ad accontentarsi di 300 botteghe nel mondo. Perché, se avee 300, a livello di risultati effettivi finali, è come avee 100, che cosa è cambiato? Bisogna dare efficacia al potere dirompente che hanno questi comportamenti.
Ognuno di noi, se ci crede fino in fondo, deve passare dal primo livello della strategia lillipuziana (il livello della cittadinanza attiva personale) al secondo livello (il livello della cittadinanza attiva associativa). È la democrazia associativa, nella quale ci sono gruppi, parrocchie, movimenti, comunità, soggetti collettivi. Lì noi possiamo compiere gesti molto più forti, molto più efficaci di quelli che possiamo fare da soli o con la famiglia.
Facciamo qualche esempio. Il movimento dei focolari ha dato vita a esperienze di economia di comunione: è partito da un concetto spirituale (la comunione trinitaria) per fare delle proposte alle piccole aziende, diffuse in tutto il mondo, di questo movimento.
Che cosa accade in una azienda che pratica l’economia di comunione? Che l’utile viene tripartito: un terzo viene utilizzato nell’azienda, un terzo per fare formazione, un terzo viene donato. Donato gratuitamente ad altri, perché si crede nella dinamica del dono.
Scelte spirituali tradotte in comportamenti economici: così sono nate la Banca etica, il marchio Transfer, la Global March, l’associazione Chiama l’Africa, la campagna Sdebitarsi o quella della riduzione del debito estero della Cei e così via. Quando le associazioni si mettono insieme danno vita a realtà molto più incisive di quelle che si possono fare singolarmente.
C’è, infine, il terzo livello della strategia lillipuziana. Dobbiamo raggiungerlo, perché senza di esso i cambiamenti precedenti non saranno strutturali e politici, ma solamente simbolici.
Se il cittadino lillipuziano ha fatto tanto per contrastare la Nike (che produce le sue scarpe attraverso lo sfruttamento del lavoro minorile), egli deve fare tutto questo non per lavarsi la coscienza e sentirsi più buono, ma per modificare leggi e costumi.
Questo passaggio richiede il coinvolgimento di altri soggetti: un sindacato internazionale, un organismo internazionale, forze politiche. Altrimenti il cittadino lillipuziano non può farcela. Soltanto così si arriva alle clausole sociali, alla Tobin Tax, al superamento dei paradisi fiscali o a qualche altro cambiamento sostanziale.
Noi dobbiamo curare tutti e tre i livelli della strategia lillipuziana: dobbiamo agire con i nostri comportamenti personali e famigliari; dobbiamo portare la strategia lillipuziana nelle associazioni, parrocchie, collettivi, nel sociale dove operiamo (diffusione orizzontale); dobbiamo poi puntare all’impatto politico verticale.
Per questo dobbiamo tornare ad agire con tutta la società civile e con i suoi organismi. Ai sindacati, per esempio, dobbiamo far capire che hanno commesso tanti errori, ma che essi sono una risorsa preziosa per la democrazia e per questi cambiamenti. Perché, finché percepiremo i sindacati come nostri primi nemici, non faremo tanta strada.
Bisogna cambiare gli attuali meccanismi istituzionali, cristallizzati nelle loro concezioni sociali e politiche. Occorre mandare a casa i sostenitori di Bretton Wood. Bisogna dar vita ad una nuova generazione di istituzioni che oggi non esistono. In sostanza, è una agenda di lavoro per tutto il ventunesimo secolo e, quindi, ci vorrà del tempo. Anche per questo occorre far crescere la sensibilità politica rispetto a queste problematiche. Lo sottolineo per coloro che credono di poter fare le rivoluzioni senza i livelli intermedi del cambiamento. E, alla fine, queste persone rimangono astratte o troppo pretenziose.
STILI DI VITA, SOBRIETÀ, LETIZIA
Nella strategia lillipuziana, ci siamo dentro noi, con i nostri stili di vita. Con questo termine mi riferisco a qualcosa di molto profondo, perché uno stile di vita non s’improvvisa. Lo stile di vita è il risultato di una opzione fondamentale, che si rende visibile nella quotidianità; lo stile di vita di una persona è ciò che la caratterizza in modo permanente e profondo. Lo stile di vita quando è vero, quando è coerente, rende visibile la nostra etica.
Come altri fanno scelte improntate al profitto, alla dinamica del mercato, alla competitività, così il cittadino lillipuziano fa scelte improntate al bene comune e alla cultura della sobrietà. Questa è la nuova virtù sociale alla quale formarci, che è l’antica virtù cardinale della temperanza. Ma che è la temperanza? È scomparsa dal vocabolario.
Oggi la sobrietà può tornare. Essa deve essere, come oggi si dice, una sobrietà felice; non deve essere una cosa sofferente. Perché il barbone non è l’esempio di un uomo sobrio? Perché gli mancano troppe cose per essere un uomo sobrio.
Gli manca, in primis, la scelta; quasi sempre una persona non sceglie di fare il barbone. Al barbone manca la letizia. Se lui avesse fatto una scelta personale, trasmetterebbe la letizia. Ma al barbone mancherebbe ancora qualcosa. Che cosa? Il buon gusto, l’eleganza della semplicità, l’estetica della sobrietà. Una persona sobria non deve essere trasandata, arruffata, dimessa. L’obiettivo da perseguire è diverso. La sobrietà deve essere caratterizzata bene dalla leggerezza della vita, che sa fare a meno di zavorre, sprechi, cose ridondanti, inutili. Liberiamoci da tutto ciò: cerchiamo l’essenzialità.
La sobrietà deve anche essere un modo di giudicare e guardare il mondo con lo sguardo dei poveri. Perché è da essi che possiamo imparare qualcosa che ha a che fare con questa virtù. Insomma, secondo me è importante la dimensione francescana della sobrietà.
La sobrietà non deve essere equivocata con la casistica di quante cose dobbiamo avere o non avere: numero di paia di scarpe, televisore, motorino, milioni da spendere per le vacanze, e così via. È importante la qualità della sobrietà che uno vive e ciò è suggerito dalla coscienza del cittadino lillipuziano.
La sobrietà deve anche liberarsi dalla deriva pauperistica: non è la rinuncia a quello che riteniamo essenziale per uno stile di vita dignitoso. Possiamo avere delle cose, basta condividerle con altri, perché chi non ha abbia di più. La sobrietà è un vivere meglio, consumando meglio.
Detto questo, passiamo alla seconda strategia, quella che è centrata sul pensare alternativo. Abbiamo bisogno di un pensiero alternativo nel tempo del pensiero unico. Noi abbiamo bisogno di un altro logos, rispetto al logos trionfante in questo momento nella società. Perché noi dobbiamo svellerare, distruggere per edificare, piantare mentalità nuove.
Che vuol dire un pensare alternativo? È un «pensare alla Geremia». Significa introdurre antidoti cognitivi all’interno dell’organismo sociale e dell’opinione pubblica in cui viviamo. Antidoti cognitivi. Ossia là, dove vediamo pensatori, esperienze, opere, che risultano essere veramente alternative, noi dobbiamo dare informazione e fare formazione. Personalmente non mi stanco mai di fare riferimento alla cultura del dono e della gratuità, portata avanti da un gruppo di economisti a livello internazionale riuniti nel Maus, «movimento degli antiutilitaristi nelle scienze sociali».
I loro studi sul dono sono fondamentali in tempi di idolatria del mercato. Sono antidoti che tu lanci, che tu semini, perché le persone (che sentono parlare solo di certe logiche e dinamiche) abbiano la possibilità di sapere che non c’è solo mercato.
Occorre parlare di cooperazione come antidoto alla competitività: è questo che fa Riccardo Petrella. Se si va a svelare quale immagine di uomo e di società c’è sotto la competitività, cosa si scopre?
Dietro il concetto di competitività c’è un pensiero che suona così: homo homini lupus; ed anche mors tua, vita mea. È l’antropologia dello sbranamento, perché cresce e si fa strada quello che ruba fette di mercato all’altro. Ma un mondo con questi fondamenti non ha futuro. Quindi, dobbiamo temperare la competitività con il principio di cooperazione, condivisione, sussidiarietà, solidarietà, responsabilità.
DAL PENSIERO UNICO AL PENSIERO PLURALE
La responsabilità è anche avere l’etica del limite. Mi autolimito, non perché qualcuno me lo impone, ma perché ho capito che autolimitarmi significa aiutare l’altro a crescere.
Ci sono dei pensatori che aiutano ad avere questi pensieri. Ad esempio, Simon Veil che dice: quando Dio ha creato il mondo ha decreato se stesso, si è fatto piccolo, si è limitato, perché il mondo fosse, perché noi fossimo. Non è vero che il limite equivale sempre al fallimento o all’impotenza. Nel limite c’è una capacità generativa: fa crescere la nostra società.
E ancora va ricordato il principio di responsabilità e il «pensiero plurale». Se noi vogliamo combattere il pensiero unico, abbiamo bisogno di declinare tante parole, tante categorie di pensiero al plurale, per rompere il processo di omologazione e uniformità.
Oggi chi aiuta a pensare al plurale? Demoren, ad esempio, e tutti i morenisti. Demoren dice: basta con l’universo, occorre il pluriverso, perché c’è una pluralità dentro l’universo. Non «uni» ma «pluri» perché siamo dentro le culture delle differenze e lo scontro delle civiltà. Un pluriverso, appunto.
Questi sono titoli cognitivi, che serviranno quando, un domani, al cittadino lillipuziano si proporrà l’universo come la cosa più grande, quella che abbraccia tutto. In quell’occasione, egli potrà tirare fuori il proprio antidoto che suggerisce un concetto diverso: attento, dice, che forse l’universo non è un universo. Noi abbiamo bisogno di prendere alcuni concetti e di rivederli al plurale; l’«epistemologia della complessità», dicono quelli che parlano difficile.
Abbiamo bisogno di riscoprire un nuovo modo di pensare, altrimenti rimaniamo tutti prigionieri delle opinioni dominanti. Soprattutto, dobbiamo riscoprire alcune parole: la communitas, per esempio, è irrinunciabile. Ma con quale significato? Nella parola c’è il cum dell’insieme e il munus, ha un duplice significato: munus come compito, ufficio, responsabilità, mansione e munus come dono. Pertanto, far parte di una comunità, avere il senso di appartenenza ad una comunità, dovrebbe comportare due cose: chi ne fa parte ha un compito da svolgere ed è dentro una ragnatela di reciprocità, di scambi, di doni. Allora è bello appartenere ad una comunità! Ma chi sente l’appartenenza comunitaria in questi termini?
Oggi altre parole importanti vanno reinterpretate. Il libro La cittadinanza multiculturale (Il Mulino, Bologna 1999) ha introdotto il concetto di cittadinanza multiculturale. Come facciamo, ci si chiede nel volume, ad usare ancora i vecchi criteri per definire una persona cittadino, in un mondo con 184 stati nazionali, 5 mila gruppi etnici e 600 gruppi linguistici? Per non parlare della altissima mobilità umana: gente che si sposta da un paese all’altro tutti i giorni. In questo mondo stiamo lavorando con un concetto anacronistico di cittadinanza, ancora basato sullo jus soli e lo jus sanguinis. Che possono servire nella mutata realtà di oggi?
Abbiamo bisogno di una nuova civiltà giuridica, altrimenti ci troveremo con 200 mila bambini nati in Italia, figli di coppie miste o multietniche, ma che non sono cittadini italiani, perché bisogna aspettare 8-10 anni prima di diventarlo. Intanto vanno nelle scuole italiane, ma non hanno la qualifica di cittadini. È colpa loro? No, siamo noi che dobbiamo rinnovare le nostre istituzioni, le nostre culture.
CATTOLICI, SUPERATE IL MODERATISMO
Strategia lillipuziana, strategia di Geremia; svellere e distruggere per edificare e piantare; delegittimare, decolonizzare; inventare, creare un nuovo pensiero. Ma per la realtà cattolica, c’è un altro lavoro da fare: occorre ripensare la via dell’impegno politico nel nostro tempo per arrivare al superamento del moderatismo.
I cattolici non possono più accettare di essere la gamba moderata o neutrale o super partes rispetto agli schieramenti. Bisogna fare riferimento ad un tesoro: è il tesoro della tradizione del cattolicesimo sociale, che è intriso di solidarietà. Non ci sono dubbi: un cristiano che s’impegni, in politica non sta da tutte le parti. Sta soprattutto dalla parte che lavora per aumentare solidarietà, sussidiarietà, responsabilità, giustizia, equità, nella nostra società.
Dobbiamo osare il futuro, perché c’è una eccedenza di senso del vangelo nella storia. Noi dobbiamo lasciarla trasparire questa eccedenza di senso, che è la porta più scomoda e più profetica che abbiamo a disposizione.
Guardiamo a ciò che sta accadendo in questo anno santo. La società non ce la fa a recepire le proposte del giubileo: lasciate riposare la terra, le macchine della produzione, i lavoratori. Pensiamo al debito, alla campagna sul debito o al solenne mea culpa del papa. Questa società non ce la fa proprio a capire. Ci sono dei valori veramente profetici che sono propri del pensiero sociale cristiano.
Noi, cristiani, dobbiamo capire che per molto tempo siamo rimasti dentro la «trappola dell’illuminismo». Che cos’è? È credere quello che ci lasciano credere. Cioè: la ragione pensa, la fede crede. Bella fregatura! Perché, se la ragione pensa e pensa all’organizzazione della società e della politica e se la fede crede, crede soltanto, al credente rimane unicamente il privato. Se prevale il bisogno di intimizzare la fede, cioè se la fede non è più capace di rendersi visibile, di incidere, allora siamo spacciati. Diventiamo dei moderati e gli altri neanche se ne accorgono che esistiamo.
I cattolici potevano essere anche moderati fino a quando erano una maggioranza nella società naturale intercristiana e avevano un partito politico di maggioranza relativa. Ma, se sei in minoranza nella società e nella politica, dire pure che sei un moderato è proprio un autogol. Per cui o i cattolici si svestono di questo involucro che li sterilizza, oppure politicamente sono destinati a divenire irrilevanti e insignificanti.
L’IMMAGINE E LA MISERIA DELLE PAROLE
Questo è il tentativo che stiamo facendo: conciliare etica ed economia, non in astratto, ma concretamente. Il mercato fa schifo? Le banche anche? Il consumo è ingiusto? Proviamo allora un altro mercato, un’altra banca, un altro consumo. Ma come fare nella società dell’immagine e dello spettacolo?
L’immagine può essere un problema, perché viviamo in una società iconizzata e in una politica mediatizzata. Si pensi allo spot di Emma Bonino, confezionato da Oliviero Toscani. Sono 4 minuti in cui la Bonino non dice una parola. Solo mimica facciale, smorfie, apertura e chiusura delle palpebre degli occhi e così via. Ma non dice niente. È efficacissimo in questa società dell’immagine e dello spettacolo.
È facile rendersi conto della miseria delle parole nella nostra società. Da tempo noi viviamo nella società della chiacchiera, di un blob continuo. Le parole si sono logorate; le parole per avere un significato hanno bisogno di essere ri-autenticate dalla forza del gesto.
Se vogliamo che le cose che pensiamo raggiungano le persone, dobbiamo saper usare il linguaggio (nuovo e pericoloso) delle immagini e della pubblicità, senza per altro trascurare la possibilità di sperimentare linguaggi alternativi.

Antonio Nanni




Una merce strategica

Nell’era della globalizzazione è mutato il rapporto tra informazione e realtà.
Il giornalista rischia di divenire strumento di propaganda per progetti altrui.
Il lettore-spettatore rischia di farsi travolgere, perché «la verità è semplice, ma esige un minimo di riflessione elementare». Si tratta di comunicazione o informazione?
Come difendersi dai censori post-modei che agiscono secondo l’assioma
«molta informazione, nessuna informazione»?

La formula «villaggio globale» rese celebre Macluhan. Ebbene, quel villaggio può oggi dirsi sostanzialmente realizzato. Almeno per quanto concee l’economia, la finanza, le problematiche ambientali ed ecologiche, l’informazione. Ma, oltre a creare il villaggio globale, l’informazione nel mercato planetario è diventata una merce strategica: chi la controlla (e ne controlla il processo di produzione e distribuzione) controlla il mondo. Anzi, costruisce il mondo.
Nietzsche sosteneva che «i fatti non esistono: esistono solo interpretazioni». Lo stesso può ormai dirsi del mondo, della realtà, sostituiti dalla realtà virtuale costruita dall’informazione.
In un recente saggio Jean Baudrillard sostiene che la cosa in sé – il mondo, la realtà – è stata cancellata dal fenomeno, cioè dall’apparenza (in greco fenomeno significa appunto ciò che appare). Il mondo della tecnica della comunicazione (tivù, computer, telematica, realtà virtuale) non ha ridotto l’uomo a cosa, a ingranaggio del Grande Apparato (vedere Heidegger, Jonas, ecc.), quanto piuttosto ha eliminato le cose sostituendole con le loro simulazioni.
Il Grande Fratello, secondo Baudrillard, è così l’immagine e tutto si riduce a immateriale, scambiabile. E se tutto è informazione, niente informa più davvero.
Scrive Baudrillard: «All’apice delle performances tecnologiche rimane l’impressione irresistibile che qualcosa ci sfugga. Non perché l’avremmo perso (il reale?), ma per il fatto che non siamo più in grado di vederlo: non siamo più noi a prevalere sul mondo, ma è il mondo a prevalere su di noi. Non siamo più noi a pensare l’oggetto, è l’oggetto che ci pensa. Vivevamo sotto il segno dell’oggetto perduto, ormai è l’oggetto che ci perde».

I MECCANISMI DI MASCHERAMENTO
Un saggio di Paolo Rumiz (Maschere per un massacro, Editori Riuniti 1996) e la rilettura che ne ha offerto Roberto Cavalieri in chiave africana (Balcani d’Africa, Edizioni Gruppo Abele 1997) testimoniano il mutato rapporto tra informazione e realtà nel tempo della globalizzazione e del delitto perfetto.
Il caso della guerra nell’ex-Jugoslavia è lì a confermare il tutto. Un immenso imbroglio costruito dal male (che, come scrive Rumiz, «è sempre più razionale, più guardingo, addirittura più coerente del bene») non ha accecato solo le sue vittime ma anche i testimoni più estei. Testimoni caduti nella trappola dell’effetto cloroformio della televisione, che ha portato schiere di giornalisti a rincorrere barbari stereotipi «astutamente coniati dagli stessi belligeranti».
La stessa logica si è ripetuta in Burundi, in Rwanda e nell’ex Zaire, come dimostra l’ultimo lavoro di Roberto Cavalieri.
Secondo Rumiz, i media si sono ridotti quasi sempre a svolgere non il ruolo di «informatori» quanto piuttosto quello di «comunicatori» al soldo dei belligeranti e delle loro logiche. Ma, se muta la relazione tra «fatti-eventi» ed informazione, deve cambiare anche il mestiere del giornalista chiamato a non farsi irretire, a non divenire megafono o strumento inconsapevole di propaganda per progetti altrui. Ma come è possibile tutto ciò? La risposta più convincente la fornisce Claudio Magris: «Trascrivere l’invisibilità del mondo e i suoi giganteschi meccanismi di mascheramento ed illusionismo».
E il lettore? Anche lui è sfidato: l’informazione deve essere trattata con enorme attenzione.
Ancora Magris: «Per difenderci occorre commuoverci davanti alle vittime tragicamente reali senza lasciarci trascinare da quelle emozioni, progettate da qualcuno a tavolino per farci travolgere dalla loro onda. Occorrono insieme pietà e freddezza e anzitutto l’umile fatica di andare a conoscere le cose, di studiare la realtà. La verità è semplice, ma esige un minimo di riflessione elementare».
TROPPE NOTIZIE, NESSUNA NOTIZIA
Quali dovrebbero essere le doti del lettore post-moderno? Pietà e freddezza, l’umile fatica di andare a conoscere le cose, la fatica dello studio, la capacità di trascrivere l’invisibilità del mondo e i giganteschi meccanismi di mascheramento e illusionismo.
Ciò che manca oggi non sono le notizie (comunicazioni e/o informazioni), ma il loro «smascheramento», la loro ricostruzione in quadri interpretativi critici.
«Molta informazione, nessuna informazione»: è un assioma fondamentale della sociologia della comunicazione. L’imperativo principe di ogni buon «censore» post-moderno, che si traduce nel non nascondere mai alcuna notizia (ma nel foirla in un cocktail di verità e falsità), oltre che ad annacquarla con miriadi di altre notizie.
In altre parole, assistiamo oggi ad un eccesso di informazione cui corrisponde un deficit di interpretazione: a fronte della presenza massiccia di informazione (anche in tempo reale), assistiamo ad una assenza di griglie interpretative capaci di connettere i dati informativi (che sempre più non solo parlano della realtà ma la costruiscono). I dati foiscono visioni del mondo capaci di collegarsi a concrete azioni di mutamento della realtà.
Si può anche asserire che oggi ci troviamo di fronte ad un tragico scollamento tra realtà e gruppi «eco/solidal/pacifisti»: questi utilizzano slogan, pianificano campagne, progettano interventi, in modo spesso vecchio, incapace di incidere sulla realtà, perché la realtà è cambiata e loro non se ne sono accorti. Costoro, come scrive il filosofo Galimberti, «conducono una lotta non contro la mancanza di senso di chi è costretto a vivere in quell’universo di mezzi senza scopo, che è tipica dell’età della tecnica, ma contro il sentimento di chi avverte tale mancanza di senso. Costoro sono colpevoli di non inventarselo, quasi che il problema del nostro tempo non sia il vuoto di senso, ma il sentimento che lo avverte».
Come dire, autoreferenziali. E per di più in ritardo di qualche decennio, se non secolo.
L’INFORMAZIONE NELLE CRISI INTERNAZIONALI
Le cose non cambiano se proviamo a mutare angolo visuale. Prendiamo il caso, sempre più frequente, di emergenze umanitarie (Somalia, Bosnia, Rwanda, Zaire, Albania).
Queste crisi «esistono-per-noi» solo perché passano attraverso il tubo catodico della tivù (che detta i tempi e gli argomenti dei quotidiani del giorno dopo).
È il caso, terribile, del Rwanda nell’estate 1994. Tutto iniziò il 6 aprile, ma il circo dell’informazione si mise in moto più tardi, tra il 4 ed il 20 luglio. Prima si ebbe un «genocidio senza immagini» (la definizione è di Le Monde Diplomatique). Poi ci fu la ressa, facilitata dal fatto che ai giornalisti si offriva in un solo luogo e in un solo punto il massimo concentrato possibile di stereotipi sull’Africa e sugli africani.
La tivù «costruì» il caso Rwanda. Mosse le cancellerie, costrinse i politici a far finta di far qualcosa. Questi, non sapendo bene cosa fare (o sapendolo benissimo? propendo per questa seconda ipotesi), delegarono il tutto alle agenzie umanitarie (medici senza frontiere, croce rossa, agenzie inteazionali, ong di ogni genere e natura) provvedendo a rifoirle di alcuni denari.
Queste agenzie, esperte di emergenze umanitarie, da un lato furono soddisfatte del loro nuovo ruolo, dall’altro ben presto si accorsero di dover supplire l’assenza della politica senza avee i mezzi (riducendosi a mettere cerotti su persone comunque destinate a morire). Infine, riflettendo sulla prima parola della propria autodefinizione (emergenze), esse presero atto della necessità di tener desta l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale, pena il prosciugarsi dei fondi destinati dai politici mondiali all’emergenza. Da qui la necessità di premere l’acceleratore sul settore comunicazione (non informazione).
Le più importanti organizzazioni umanitarie si sono così dotate di schiere di registi, cameramen, giornalisti, esperti in comunicazione (oltre che bandiere, stendardi, stemmi e quant’altro possa aiutare il riconoscimento durante una trasmissione). Ed è giusto che sia così: la loro possibilità di continuare l’opera umanitaria dipende non tanto dalle capacità di medici, infermieri, logisti e volontari vari, quanto piuttosto dalla capacità dei propri comunicatori di tener desta l’attenzione su un dramma internazionale. Se tale tensione (anche emotiva) viene meno, il dramma-per-noi (non il dramma-in-sé, ovviamente) viene meno.
E gli agenti dell’umanitario tolgono le tende correndo in fretta e furia verso altri drammi, altri dolori, altre morti (drammi anch’essi resi rilevanti-per-noi dalla tivù).
L’ALIBI PER LE NOSTRE COSCIENZE
Tuttavia è necessario andare ancora più a fondo. Se è vero che l’umanitario ha sostituito la cooperazione internazionale allo sviluppo (obiettivo ormai dato per perso dalle cancellerie di tutto il mondo), non è altrettanto vero che l’umanitario ha sostituito la politica.
È vero piuttosto che la politica usa l’umanitario a proprio scopo.
La politica spesso si riduce a pura finzione dietro cui si nasconde, almeno a livello internazionale, la potente mano dell’economia. La quale ha già dato, per dirla con l’Unicef, «il prezzo alla vita degli zairesi», secondo lo slogan «Nello Zaire la vita vale zero. Dagli tu un prezzo». Conta lo Zaire utile (e sono diamanti, oro, uranio, ecc.): tutto il resto – sono uomini, donne, bambini – non ha valore. Vale zero.
Ma, se è così, l’umanitario serve solo a fornire un alibi alle nostre coscienze. E l’informazione è utile perché, dopo aver attirato l’attenzione e costretto all’intervento, diffonde l’alibi tranquillizzando tutti. Permette ad ognuno di addormentarsi in pace la sera: ognuno ha fatto qualcosa nei confronti del dramma «X»: chi ha comunicato, chi ha pianto e firmato appelli, chi ha spedito cartoline, chi ha scritto articoli, chi ha mosso il politico che ha mosso l’umanitario, chi ha sganciato offerte, chi le ha utilizzate sul campo, chi ha diffuso immagini del «sereno che torna», chi ha ricevuto gli aiuti, chi ha trafficato in armi, chi ha aperto nuove piste per la droga o la prostituzione o lo sfruttamento delle miniere, chi ha scritto risoluzioni e persino chi ha organizzato spedizioni militari di peace-keeping o ponti aerei…
Insomma tutta l’umanità si trova accomunata da una generale sensazione di buonismo che nasconde e non sa rivelare la realtà dei fatti.
E la realtà è questa: è avvenuto il passaggio di proprietà di un territorio o di una società (sia esso lo Zaire utile o l’Albania utile) da una mano all’altra, da una economia all’altra (spesso entrambe sporche, sostanzialmente mafiose).
QUALE MALE, QUALE BENE
Come definire tutto ciò? Connivenza o stupidità. O imbecillità: «Il cosiddetto bene è ingenuo e cieco fino all’imbecillità». Forse ha ragione Rumiz: il male non acceca solo le vittime ma anche i testimoni estei. E poi, il male è più razionale, più guardingo, più coerente del bene.
Scrive Baudrillard: «Tutte le forme di discriminazione maschilista, razzistica, etnica o culturale derivano dalla stessa disaffezione profonda e da un lutto collettivo, quello di un’alterità defunta su uno sfondo di indifferenza generale… La stessa indifferenza può portare a comportamenti esattamente opposti. Il razzismo cerca disperatamente l’altro sotto forma di male da combattere. L’aiuto umanitario lo cerca altrettanto disperatamente sotto forma di vittime da soccorrere. L’idealizzazione entra in gioco nel bene o nel male. Il capro espiatorio non è più colui su cui ci si accanisce, è colui sul quale si piange. Ma si tratta comunque di un capro espiatorio. Ed è sempre lo stesso».

Aluisi Tosolini




“Ero forestiero e mi avete ospitato”

I «mediatori interculturali» del Trentino

Albania, Croazia, Serbia, Macedonia, Tunisia, Marocco, Egitto, Siria, Iran, Cina, Brasile, Colombia, Libano, Polonia. Per un intero anno, in una scuola del piccolo Trentino si sono ritrovate persone provenienti da tutti questi paesi. L’obiettivo era concreto e meritorio: formare dei «mediatori interculturali» che sappiano affrontare i problemi della società multietnica e multiculturale. Un tipo di società che in Italia, come già nel resto del mondo occidentale, è divenuta realtà quotidiana.
Ecco come descrive l’esperienza la nostra collaboratrice serba.

Finalmente possiamo dare una buona notizia in tema di immigrazione: la provincia di Trento ha costruito un «ponte» nuovo. Un bellissimo ponte, ma non di pietra o di ferro: un ponte fatto di persone. Persone molto diverse fra di loro: diverso colore della pelle, diversa nazionalità, diversa religione, diversa mentalità e abitudini, diverso carattere. Ognuno con la propria storia. Queste persone, come elementi di una nuova costruzione, si sono ritrovate per uno scopo comune: mettere la propria esperienza di «forestiero» al servizio degli altri.
Gli stranieri in Italia sono una realtà dei nostri tempi. Ora abbiamo due possibilità: che la loro presenza sia fonte di arricchimento (materiale, culturale e spirituale) per il nostro paese, oppure fonte di conflitti, soprattutto futuri.
Tutto dipende dalle nostre scelte. Dai semi che gettiamo oggi cresceranno frutti per i nostri figli. La provincia di Trento ha gettato seme buono. Ha introdotto nella nostra società la figura del «mediatore interculturale», una figura nuova che personifica la speranza in un futuro migliore.
A dispetto del pessimismo sempre più diffuso, la presenza del «mediatore interculturale» nella nostra società ci dà una possibilità in più: quella di sfruttare le nostre diversità per incrementare la qualità del nostro paese.

Chi è il «mediatore interculturale»? È una persona con un livello culturale superiore o universitario proveniente da un paese di forte emigrazione. È una persona che vive da molti anni in Italia e parla bene l’idioma. Conosce la cultura italiana, la mentalità della gente ed ha legami affettivi solidi con il paese che l’ha accolto.
Dall’altra parte, il mediatore porta con se molte conoscenze sul paese dal quale proviene. Queste conoscenze possono rendersi utili per risolvere in modo positivo e costruttivo i problemi che si presenteranno in una società multinazionale e multiculturale come anche l’Italia è diventata.
La provincia di Trento ha organizzato un corso per «mediatori interculturali» allo scopo di inserirli nel mondo della scuola. Il loro lavoro dovrà rivolgersi indistintamente ai bambini italiani e a quelli stranieri al fine di facilitare la classe nel passaggio dal gruppo multiculturale al gruppo interculturale. Tratto fondamentale del suo lavoro è la collaborazione con gli insegnanti.
Gli obiettivi del lavoro del mediatore dovrebbero essere plurimi. In primo luogo, facilitare l’interazione del gruppo classe, prestando particolare attenzione allo studente straniero per incoraggiarlo e sostenerlo nell’intrecciare relazioni con coetanei e insegnanti e per favorire l’inserimento nel nuovo sistema scolastico.
Il mediatore agevolerà la comunicazione tra scuola e famiglia. Collaborerà inoltre con gli insegnanti per creare condizioni e occasioni di scambio interculturale all’interno del gruppo classe e della scuola, facilitando la comunicazione, il gioco comune e le forme di aiuto reciproco nell’apprendimento dei contenuti.
Uno dei punti qualificanti del loro intervento dovrebbe consistere nel valorizzare tutte le culture presenti in classe, stimolando il gruppo a cogliere diversità e affinità.

Quando ci siamo incontrati per la prima volta (era l’8 dicembre del 1999), ci guardavamo incuriositi. Credo che nessuno di noi si era mai trovato prima in un gruppo così variopinto.
Ricordo che i nostri «tutors», Leila e Gabriel, ci hanno insegnato un gioco di presentazione molto interessante, che ha subito stuzzicato la curiosità della classe.
Metà di noi ha posto in un contenitore un bigliettino con il proprio nome. Ognuno degli altri ha poi pescato uno di questi biglietti. Si sono così formate una quindicina di coppie che, in disparte, si sono conosciute. Alla fine, ogni persona ha presentato al gruppo il proprio compagno o compagna. Con contentezza abbiamo imparato i nomi gli uni degli altri e la provenienza di ognuno. Quel primo incontro per me è forse stato il più bello e interessante.
Da dicembre a maggio ci siamo incontrati il sabato e la domenica, nonché in alcuni pomeriggi durante la settimana. È stato molto impegnativo, ma anche estremamente interessante!
Durante il corso abbiamo studiato come funziona la scuola italiana; ci hanno dato nozioni generali di storia contemporanea e dei fenomeni migratori; abbiamo conosciuto alcuni programmi e progetti di tipo interculturale.
In altre occasioni, abbiamo fatto lezione noi studenti. Ognuno ha cercato di presentare la propria cultura e i sistemi scolastici dei paesi d’origine. Una particolare importanza è stata data all’ascolto, cercando di sviluppare tale capacità in ognuno di noi. Abbiamo cercato di approfondire i rapporti con persone di altre culture d’immigrazione presenti in questo paese e di sviluppare la capacità di relativizzare il punto di vista.
Il prossimo anno scolastico noi tutti saremo sparsi nelle scuole trentine per svolgere i nostri compiti di mediatori. Saremo noi a facilitare l’inserimento dei bambini stranieri nelle scuole trentine e a insegnare ai ragazzi una disciplina nuova, l’intercultura, indispensabile per la formazione corretta dei nostri figli che vivranno in una società fortemente multietnica e multiculturale.

Snezana Petrovic




Tra angeli e diavoli

«Tesi e antitesi»

La legge Turco-Napolitano, la proposta Berlusconi-Bossi, la delinquenza, i Centri di permanenza, il lavoro,
la religione, la passata emigrazione italiana.
Gli immigrati rappresentano un terreno di scontro
tra le forze politiche e gli stessi cittadini. Comunque la si pensi, di immigrazione si continuerà a parlare.
Perché è un fenomeno di portata storica.
In questo articolo tentiamo di dare una risposta alle «tesi» più diffuse.

TESI: «La legge Turco-Napolitano è troppo permissiva. Gli irregolari effettivamente scoperti ed espulsi sono pochissimi. Gli scafisti poi la fanno sempre franca».

ANTITESI:
I dati del ministero dell’Inteo indicano in circa 90.000 unità le espulsioni comminate dal 27 marzo 1998, data di entrata in vigore della legge Turco-Napolitano (n. 40/98).
Il numero delle espulsioni è, quindi, notevolmente aumentato rispetto alla situazione precedente, quando vigeva la legge Martelli.
I dati smentiscono l’assunto secondo cui la legge in questione sarebbe troppo permissiva.
Inoltre, va aggiunto che solo gli strumenti repressivi previsti dalla legge hanno fino ad ora trovato attuazione. Non altrettanto può dirsi per quelli, pure esistenti, volti a favorire l’integrazione degli immigrati, quali – ad esempio – la carta di soggiorno.

TESI: «La proposta di legge di Berlusconi e Bossi è giusta perché tutela gli italiani dai pericoli dell’immigrazione incontrollata».

ANTITESI:
La proposta di legge in questione ha tutti i caratteri propri della c.d. «legge manifesto», ovverosia di un provvedimento che annuncia dei principi che appaiono forti e risolutori, senza tuttavia preoccuparsi di come possano essere realizzati. È pertanto una proposta demagogica.
Basti un esempio. Non è sufficiente parlare di «espulsione immediata» se non si spiega come si provvede all’identificazione della persona da espellere.
Invero, tutti coloro i quali ritengono che l’immigrazione sia un pericolo, non potranno che giornire all’idea, sbandierata, dell’espulsione immediata del clandestino. Ma costoro non sanno, perché viene loro dolosamente taciuto, che l’espulsione con accompagnamento immediato tramite la forza pubblica è già prevista dalla legge attuale. E nemmeno sanno che le difficoltà si incontrano nella fase di esecuzione dell’espulsione con il paese verso il quale l’espellendo è inviato. Infatti, se costui non è identificato con certezza o tramite passaporto (che spesso non ha) o tramite rappresentanza consolare straniera in Italia, il paese di destinazione non lo accetta e la polizia italiana è costretta a riportarselo indietro.
Con l’ulteriore danno di un viaggio aereo di andata-ritorno inutile, il cui costo grava esclusivamente sul contribuente italiano.
Ecco, allora, che le strade da percorrere per dare effettività alle espulsioni sono altre da quelle indicate nella proposta del Polo e passano attraverso la stipula di accordi diplomatici di riammissione con i paesi da cui provengono i maggiori flussi migratori.

TESI: «Gli extracomunitari hanno fatto incrementare la delinquenza. Non solo nel campo della prostituzione e della droga, ma anche in quello delle rapine. L’alto numero di extracomunitari detenuti nelle carceri italiane è una conferma di questa affermazione».

ANTITESI:
L’alto numero di detenuti extracomunitari non è indice esclusivo di aumento della criminalità. Il dato può infatti essere letto come indice della efficacia dell’apparato repressivo nonché della oggettiva difficoltà, per i detenuti extracomunitari, di accedere alle misure alternative alla detenzione.
Il che significa che al delinquente straniero è riservato un trattamento sanzionatorio e penitenziario peggiore di quello riservato agli italiani.

TESI: «Gli extracomunitari tolgono lavoro agli italiani. Non è vero che fanno soltanto i lavori che noi non vogliamo più. Il loro contributo alla ricchezza nazionale è inferiore al costo che lo stato deve accollarsi».

ANTITESI:
La tesi è contraddetta dalle affermazioni delle organizzazioni confindustriali che indicavano in almeno 100.000 unità il fabbisogno di manodopera straniera per il 2000.
Tali organizzazioni hanno pertanto accolto con parziale favore il recente decreto di programmazione dei flussi di ingresso dei lavoratori extracomunitari nel territorio dello Stato per l’anno 2000 che indica in 63.000 unità la quota per l’anno in corso.
Richieste di lavoratori stranieri per ricoprire posti di lavoro a tempo indeterminato sono state avanzate dai settori siderurgico e meccanico, mentre altri settori produttivi nazionali, quali turistico-alberghiero, agricolo ed edilizio hanno avanzato richiesta di manodopera straniera per lo svolgimento di lavori a tempo determinato e stagionale.
La legge della domanda e dell’offerta che regola il mercato del lavoro, contraddice pertanto la tesi in oggetto.

TESI: «La metà degli extracomunitari sono musulmani. L’islam è una religione antagonista e intollerante verso i fedeli delle altre religioni. Perché l’Italia cattolica dovrebbe aprirsi a persone provenienti da Stati che non hanno rispetto per i non-islamici?».

ANTITESI:
Alle soglie del nuovo millennio, sia pur faticosamente, anche l’Italia si è laicizzata: parlare di «Italia cattolica» pare pertanto fuori luogo. Ciò premesso, non è che l’Italia debba aprirsi ai musulmani: costoro, per ragioni economiche, sociali, storiche e geografiche, arrivano nel nostro paese senza che all’ «Italia cattolica» sia data la possibilità di aprirsi o di chiudersi. Di fronte ai fenomeni storici di grande portata, e tra questi vi è quello migratorio, non è data possibilità di scelta. Potrà piacere o meno, ma è così.
E allora il problema diventa capire se si vuol fare della diversità – anche religiosa – un’occasione positiva di confronto, di dialogo e di crescita, ovvero se si ritiene più intelligente e «cristiano» erigere improbabili steccati con l’unica conseguenza di aumentare la xenofobia, la conflittualità ed il disagio.

TESI: «I “Centri di permanenza temporanea” sono uno strumento indispensabile per poter fronteggiare gli illegali».

ANTITESI:
Secondo i dati ufficiali del ministero dell’Inteo, gli stranieri transitati nei «Centri di permanenza temporanea» nel periodo 1.1.1999-31.12.1999 sono stati 8.847. Di questi ne sono stati effettivamente rimpatriati solo 3.893, per una percentuale pari al 44%. Orbene, se si considera che di questo 44% molti sono successivamente rientrati clandestinamente, ne consegue che detti Centri non sono così utili come si vuol fare intendere, posto che servono ad allontanare meno della metà dei reclusi.
È importante tener presente, inoltre, che 3.379 trattenuti – pari al 38,19% degli ospiti – sono stati dimessi perché non si è riusciti ad identificarli.
Il che conferma che il vero scoglio per l’esecuzione delle espulsioni è la difficoltà di identificazione degli espellendi, rispetto alla quale l’istituzione dei Centri di permanenza è poco influente.
Infine, poiché buona parte dei 3.893 trattenuti effettivamente e-spulsi erano persone appartenenti a paesi con i quali l’Italia ha sottoscritto accordi di riammissione (Tunisia, Albania e Marocco) è evidente che questa è la via da seguire.

TESI: «I sostenitori (centri sociali e gruppi di estrema sinistra) di una “immigrazione libera” sono oltranzisti, che non hanno a cuore i problemi del Terzo Mondo, ma mirano soltanto alla destabilizzazione dello Stato».

ANTITESI:
In linea di principio non può non far riflettere il fatto che, nell’era della globalizzazione, circolino liberamente merci e capitali ma non le persone.
In concreto, se da un lato l’immigrazione incontrollata non è oggi realisticamente proponibile, è altrettanto vero che a fronte della dimensione strutturale e non meramente congiunturale del fenomeno migratorio, nonché della posizione e della conformazione geografica dell’Italia che rende praticamente incontrollabili le nostre coste (a meno di una costosissima ed altrettanto improponibile militarizzazione del territorio costiero) è difficilissimo frenare l’immigrazione clandestina con strumenti “militari”. Ed infatti non ci si riesce.
Prova ne sia che tra il 1986 ed il 1998 vi sono state quattro sanatorie: in media una ogni tre anni. Il che significa, al di là delle ipocrisie e della propaganda politica, che la sanatoria è stato l’unico vero strumento di controllo e governo dell’immigrazione utilizzato dai vari governi che si sono succeduti in Italia dal 1986 ad oggi.
Tant’è vero che la stragrande maggioranza degli stranieri regolari ed inseriti nel tessuto sociale e produttivo del nostro paese si sono “regolarizzati” tramite le periodiche sanatorie.
Prendere atto di questo dato oggettivo, significa rendersi conto che una politica razionale dell’immigrazione non può che essere quella di rendere competitivo l’ingresso legale a discapito di quello illegale. E ciò è possibile solo attraverso una corretta politica dei flussi migratori nel senso di determinare le quote annuali di ingresso in misura rilevante.
Solo rendendo più appetibile l’ingresso legale si potrà sperare di arrivare ad una tendenziale diminuzione dei flussi migratori clandestini e, conseguentemente, dei lauti guadagni degli scafisti.
La realizzazione di una politica antiproibizionista in materia migratoria comporterebbe dunque un maggior controllo del territorio da parte dello Stato, il che non è affatto un obiettivo destabilizzante.
TESI: «Comparare l’emigrazione italiana di inizio ‘900 con l’immigrazione extracomunitaria attuale è un falso storico. Gli italiani emigravano in paesi che avevano un “sentire comune” al nostro».

ANTITESI:
La storia ci racconta i grandi movimenti migratori che si sono succeduti nei secoli. La loro comparazione è obiettivamente ardua, in ragione della diversità dei contesti socio-economici di riferimento.
Certo è che, oggi, l’Europa occidentale appare, ai popoli del Sud e dell’Est del mondo, quella che, agli occhi dei nostri nonni di inizio ’900, era la «America».

di Guido Savio

Guido Savio




E voi che ne pensate?

GLI ISCRITTI STRANIERI

Fatos Nanushi, dall’Albania: «Questo corso mi piace molto per l’insegnamento alla convivenza di culture diverse e per l’amicizia che sta nascendo fra di noi».

Rashid Saafi, dalla Tunisia: «Questo corso è un’occasione non solo per imparare ad integrarsi nella società in cui viviamo, ma anche per integrarsi fra di noi, capirci e conoscere altre culture».

Ali Bacha, dalla Tunisia: «Questo corso ci ha dato la possibilità di migliorare le nostre capacità comunicative ed arricchire il nostro bagaglio culturale, affrontando varie problematiche che riguardano soprattutto la convivenza, e la presenza dei bambini immigrati nelle scuole italiane. La cosa più importante secondo me è la possibilità di conoscerci meglio, rispettando le nostre diversità».

Danuta Wrona, dalla Polonia: «È da sottolineare l’atmosfera del corso: tante culture, tante religioni, tanti modi di pensare diversi, però siamo un gruppo molto integrato, molto unito. Ci ritroviamo ogni volta con piacere e curiosità di conoscerci. La diversità ci unisce, è questo che poi dovremo trasmettere ai bambini fin da piccoli.
L’interculturalità (che già esiste) dobbiamo viverla in modo sempre più positivo. Il nostro gruppo è esempio e conferma che questo è possibile. Sono contenta di fae parte».

Moktar Chioua, dal Marocco: «Il corso ci ha fornito una vasta preparazione di base per quanto riguarda l’ordinamento scolastico italiano. Questo è un arricchimento per la scuola e per noi è un confronto tra esperienze e persone di varie parti del mondo».

Mohamed Abdel Kader, dall’Egitto: «Quello che mi è piaciuto di più di questo corso è il contatto diretto con altre culture, con le persone di paesi di cui avevo sentivo soltanto parlare. È stato molto positivo conoscere le realtà degli altri paesi dai protagonisti».

Cecilia Lotero Chaux, dalla Colombia: «Sono felice di aver potuto conoscere tutte queste persone e condividere con loro esperienze diverse dalle mie».

Olabi Rawaa, dalla Siria: «L’interculturalità è l’aspetto sano della multietnicità. Perciò è giusto che sia presente nella scuola dell’obbligo la mediazione interculturale».

Shkelqim Ibrahimi, dall’Albania: «Mi dispiace molto per quelli che non sono riusciti a partecipare a questo corso. In buona amicizia, sto imparando tante cose che mi serviranno per il futuro».

Vida Bardiyaz, dall’Iran: «Mi piacciono i corsisti e la relazione creata fra di noi. Sono interessanti gli argomenti trattati e spero che mi piacerà anche il progetto del tirocinio».

Djurdjica Macura, dalla Croazia: «Frequentando questo corso ho imparato molto delle altre nazioni, soprattutto i loro modi di vita. Sono molto contenta perché ho avuto l’opportunità di conoscere mentalità diverse. Spero che questa nostra esperienza sarà utile non solo per noi, ma anche per gli italiani. Vorrei ringraziare i nostri “tutors” e tutti i relatori per la disponibilità, ma soprattutto gli organizzatori di questo corso».

Lu Xuemei, dalla Cina: «Mi è piaciuta soprattutto l’amicizia che abbiamo creato, e poi la metodologia adottata per apprendimento dei contenuti. È molto stimolante la conoscenza delle altre culture».

Ana Lucia Dos Santos Wilson, dal Brasile: «Mi è piaciuto moltissimo ascoltare le esperienze di tutte queste persone provenienti da culture diverse. Ho ricevuto molto da questa esperienza. È ammirevole la disponibilità e modo di lavorare dei nostri “professori”».

Husni Darwiche, dal Libano: «Il corso di mediatore interculturale è una iniziativa unica che sarà perfezionata con gli anni. Permette di migliorare ognuno di noi. Quest’esperienza ci arricchisce lo spirito, la fantasia e la cultura. Perciò siamo molto contenti di aver seguito questo corso».

Ana Maria Avila, dall’Argentina: «Le aspettative che avevo di questo corso sono state addirittura superate. Corsi come questo sono molto importanti per creare una società cosmopolita».

Naima El Moutaquakil, dal Marocco: «Per me questo corso è stato molto importante perché ho stretto nuove amicizie. E perché mi ha arricchito con nuove conoscenze di culture e storie diverse».

Nedzmi Mati, dalla Macedonia: «Quello che mi è piaciuto di più di questo corso è che il nostro gruppo è un piccolo mondo dove ho conosciuto persone di diversi paesi. Ho imparato tante cose nuove della scuola italiana. L’iniziativa di organizzare un corso per mediatori interculturali è un’ottima idea per migliorare l’inserimento degli stranieri nella società italiana».
Aurela Aliraj, dall’Albania: «Io sono in Italia da 5 mesi. Non essendo mai stata fuori dall’Albania, per me questo corso è stata una bellissima esperienza. Ho conosciuto persone provenienti da tutto il mondo e ho scoperto che, anche se veniamo da diversi paesi, abbiamo tante cose in comune».

Maja e Piro Adami, dall’Albania: «Siamo una coppia non più giovane, con un figlio di 25 anni. Siamo arrivati in Italia 8 anni fa. Siamo molto contenti di aver partecipato a questo corso, per la presenza di tante culture diverse e per la possibilità di conoscerle direttamente».

GLI ISCRITTI ITALIANI…

Elena Lapina: «Questo corso mi ha dato la possibilità di conoscere da vicino gente di diverse culture».

Iva Rigo-Righi, maestra di Trento: «È la prima volta che mi trovo ad operare in un gruppo multietnico così numeroso e ciò mi ha permesso di conoscere direttamente, in una visione globale, spaccati di vite di altre culture. Gli incentivi, che mi hanno portato ad accettare quest’esperienza, sono stati la curiosità e l’interesse che poi si sono trasformati in stimoli, in voglia di approfondimenti, in desideri di aumentare le mie conoscenze, al fine di, grazie ad un mutuo scambio, “crescere” sia come persona che come insegnante.

Antonella Tomasi, maestra di Trento: «L’opportunità di condividere alcuni momenti con i partecipanti al corso per mediatori interculturali è stata molto positiva. L’aspetto più forte è stato quello emotivo. Il trovarmi assieme a persone provenienti da varie parti del mondo mi ha fatto sentire una profonda gioia dentro. È stato come assaporare piccoli scorci di vita diversi dai miei e per questo accattivanti, interessanti ed arricchenti. Il risuonare di lingue ed accenti diversi, ognuno con una propria musicalità, ha creato il sottofondo ideale e significativo alle tematiche affrontate. Lo stare tutti insieme nello spazio di un’aula a condividere e scambiarci esperienze ed idee mi ha confermato una volta di più il valore dell’incontro».

E I COORDINATORI…

Leila Ziglio: «Essere “tutor” di un gruppo di circa 30 adulti stranieri dalle provenienze più disparate e con percorsi di vita spesso difficili e dolorosi è un’esperienza umana molto ricca e stimolante.
Si ha la sensazione di far parte di un laboratorio interculturale, con i suoi entusiasmi, conflitti ed esigenze di continue “mediazioni”, dovute proprio alle differenti provenienze ed esperienze di vita. È necessaria molta attenzione per rispettare le sensibilità individuali e far sì che tutte le capacità insite nel gruppo si possano esprimere».

Gabriel Mokoi: «Un delicato ruolo quello del mediatore interculturale, un vero protagonista delle conciliazioni fra famiglie, scuole e alunni che “vengono da lontano”. Che ci sia oggi, nella configurazione di questa figura, un apposito corso di formazione organizzato dalla sovrintendenza scolastica con il patrocinio della provincia di Trento non può che rallegrarci e farci sperare in una società interculturale in cammino». S.Pe.

Snezana Petrovic




La memoria corta degli italiani

«Balie italiane, colf immigrate»: questo è il titolo di un’interessante mostra fotografica itinerante allestita dal Centro interculturale del comune di Torino. Da alcuni anni esso ha avviato, attraverso il Centro di documentazione permanente sull’emigrazione «Emigrare e immigrare», una meritoria riflessione su tutte le tematiche legate ai fenomeni emigratori e immigratori.
La mostra rappresenta una sorta di «finestra» sui recenti flussi migratori verso l’Europa, ma anche sull’emigrazione italiana all’estero (Stati Uniti, Belgio e Uruguay), realizzata attraverso l’esposizione di pannelli con foto e didascalie che, a specchio, ritraggono immagini di nostri connazionali ai primi decenni del Novecento e degli attuali immigrati provenienti da ogni parte del mondo. Volti che portano dipinta la stessa fatica, la stessa speranza e voglia di costruire, ma che rappresentano momenti tra loro lontani decine e decine d’anni. Colf immigrate, quelle che entrano nelle nostre case benestanti, e balie italiane, quelle che, ancora bambine, lasciavano i nostri villaggi di campagna, al nord come al sud, per recarsi all’estero a guadagnare quei pochi soldi con cui mantenere se stesse e la famiglia. E ancora, navi affollate di nostri bisnonni che, malnutriti e malvestiti, lasciavano l’Italia nella speranza d’un avvenire migliore; migranti nostrani che popolavano fatiscenti abitazioni negli Stati Uniti; oppure bambini dai volti sporchi e tristi; lavoratori in biote malsane.
Immagini dimenticate, memoria di un passato di duro lavoro, nonché di sofferenze e umiliazioni, che ognuno di noi dovrebbe rispolverare quando, tentato dall’intolleranza e dal pregiudizio, s’appresta a inveire contro l’immigrato della porta accanto.

Tra gli altri laboratori, allestiti in alcune sale del Centro, ricordiamo: «Porta aperta sul Maghreb», un’ambientazione araba-beduina accoglie percorsi di conoscenza sul Maghreb nei suoi aspetti geopolitici, culturali, religiosi e antropologici, utili anche a fornire chiavi di lettura delle comunità islamiche immigrate; «I diritti umani», un percorso di educazione alla legalità, alla cittadinanza, alla lotta contro le discriminazioni; «Economia e globalizzazione», gli squilibri nord-sud del mondo, la globalizzazione e la possibilità di sviluppo sostenibile; «Le minoranze storiche a Torino», la storia, le tradizioni e la cultura di comunità vicine, ma spesso sconosciute: ebrei, rom e valdesi; «Viaggio nelle letterature del mondo», un percorso tra le parole degli scrittori per scoprire paesi e culture.
Attivo dal 1996 quale luogo di confronto e scambio culturale, il Centro si pone l’obiettivo di valorizzare le realtà di gruppi e associazioni presenti a Torino, attraverso la disponibilità di spazi per incontri, l’accesso gratuito ai corsi di formazione, l’informazione sulle iniziative, la rivista trimestrale «Identità/Differenza», e mediante progetti tra vari soggetti istituzionali e non.
Inoltre, in collaborazione con altre realtà locali, organizza, ogni anno, in autunno, la manifestazione «Identità e differenza» che, per una quindicina di giorni, offre alla città la possibilità di confrontarsi su tematiche interculturali.

Dal sito web del Comune di Torino si può accedere a uno spazio dedicato all’intercultura, dove, oltre a una bibliografia e a un glossario appositamente redatti, saranno disponibili approfondimenti su temi legati alle problematiche sociali, al mondo della scuola, ai diritti umani, all’economia, alle religioni, all’immigrazione, alla storia delle minoranze, links con siti inteazionali e un forum interattivo per condividere osservazioni e domande.

A.L.

Per ulteriori informazioni:
Centro Interculturale del Comune di Torino
via Frattini, 11
Torino
Coordinatrice: dott.ssa Paola Giani
tel. 011.4429700
www.comune.torino.it/infocultura/intercultura
E-mail: centroic@comune.torino.it

Angela Lano




“Voglia di sicurezza”

Malika è sola e disperata. Risiede in Italia da 10 anni, con regolare permesso di soggiorno, assunta con i libretti di lavoro presso una cornoperativa che si occupa di assistenza agli handicappati. Sposata con un giovane tunisino, Malika ha una figlia di due anni e un altro appena nato, è sola e disperata. Questa donna, energica, con un fluente italiano, con nessuna voglia di tornare in Marocco, da alcuni mesi si era ritrovata a far i conti con il parto che incombeva, con la figlia piccola e con nessuno a cui lasciarla. Suo marito, che aveva richiesto la regolarizzazione, è stato rispedito per direttissima in Tunisia, perché nel ’92 aveva commesso un reato minore e risultava, agli atti, «persona pericolosa» e non gradita. Tuttavia, al di là delle motivazioni legali all’origine di tale espulsione, resta valido il fatto che una famiglia di immigrati, con figli piccoli, sia stata divisa. L’ultima legge sull’immigrazione, la Turco-Napolitano, voluta dalle sinistre, per accontentare le destre e la «voglia di sicurezza» degli italiani, non prevede concessioni, o attenuanti, nel caso di nuclei familiari composti da soli stranieri.
Nella categoria degli «inespellibili» risultano infatti solo le donne incinte, con figli fino al sesto mese di età, le persone coniugate e conviventi con cittadini italiani; per gli altri non sono previste agevolazioni, e il decreto di espulsione può essere comminato non solo in caso di reato, ma anche in numerose altre situazioni di irregolarità ‘amministrativa’ e non penale, mancanza temporanea di lavoro, mancata presentazione entro gli otto giorni lavorativi della domanda di soggiorno, ecc.

Trasformarsi in clandestini, irregolari, è dunque molto facile, più di quanto si pensi. E il dramma è che lo possono diventare padri di famiglia che, al momento del rinnovo del permesso di soggiorno, risultino senza lavoro (perché, magari, lo hanno appena perso).
Si tratta dei nuovi disperati – persone che hanno situazioni di miseria o di guerra alle spalle – e qui finiscono con divenire vittime di una legge che, seppur vuole essere strumento di «ordine» verso i criminali, riesce spesso a colpire i più deboli. A ciò si aggiunge che, da qualche anno, alcuni avvocati italiani (con pochi scrupoli) hanno scoperto in tanti immigrati sprovveduti, confusi o semplicemente «persi» tra le pastornie burocratiche italiane, l’Eldorado dei soldi facili. Molti fra gli stranieri ancora irregolari che l’anno scorso hanno presentato domanda di regolarizzazione, si sono appoggiati ad avvocati per presentare le pratiche di soggiorno, di ricorso in caso di rigetto, di ricongiungimento, o per eventuali carichi penali passati. Taluni di questi legali chiedono fior di milioni promettendo loro tutele che poi non arrivano.
Ancora una volta, dunque, capita che, in un’Italia che ha quasi paura degli immigrati, o che li usa come capri espiatori per rimuovere altri problemi, ad essere vittima dei raggiri siano spesso proprio loro, gli extracomunitari che vogliono diventare cittadini regolari.
A.L.

Angela Lano




Musulmani in Italia

Questo è il titolo dell’interessante video curato e prodotto dal Centro diocesano torinese di studi arabi e dalla Nova-T. Il lavoro è stato presentato l’8 aprile scorso dallo scrittore e giornalista Furio Colombo.
La presenza di cittadini provenienti da paesi musulmani è sempre più visibile, in tutta la penisola italiana, sia attraverso moschee, negozi e ristoranti etnici, centri culturali, ecc., sia negli ospedali, scuole, mense pubbliche, fabbriche, mezzi di informazione, che devono ormai fare i conti con festività religiose e altri aspetti della cultura islamica.
In che misura è dunque possibile convivere – si chiedono gli autori del video – con l’islam e con i valori di cui è portatore? E ancora: islam e Occidente potranno mai trovare una via di comunicazione non conflittuale?
«L’Italia, a differenza degli Stati Uniti, è poco preparata ad accogliere cittadini di altre culture – ha affermato Furio Colombo –. Noi non possediamo la coscienza dell’appartenenza politica e culturale alla nazione di cui siamo cittadini. Il rispetto dei principi costituzionali non è così sentito come negli Usa, dove, proprio a causa di questa forte identità nazionale, è stato possibile formare, con tutti i pregi e i difetti, una società veramente multietnica. In Italia si fa fatica ad accettare la diversità, proprio perché manca questo senso di identità. D’altronde, negli Stati Uniti, nessun Bouriqui Bouchta (il responsabile della Moschea di Porta Palazzo, ndr) potrebbe azzardarsi ad affermare, come ha invece fatto durante l’intervista registrata nel video, che la scuola italiana, laica, dovrebbe insegnare ai suoi figli il corano e che il musulmano, che vive in Italia, non possa accettare un ambiente anti-islamico».
Il video, curato da Tino Negri (del Centro Peirone) e da Sante Altizio (della Nova-T), si compone di due parti: la prima, di contenuto generale, introduce alla religione e alla cultura islamica; la seconda, attraversa alcune città italiane alla scoperta delle numerose comunità islamiche presenti.
Nel corso dell’opera, gli autori si interrogano su questioni di estrema importanza per gli attuali rapporti tra le varie comunità islamiche e lo Stato: «Perché molti cittadini di fede islamica residenti in occidente, rifiutano l’integrazione? Perché in alcuni paesi islamici sono vietati i culti di altre religioni? Perché non è possibile trovare un interlocutore riconosciuto da tutte le comunità musulmane italiane?».
Angela Lano

Per ulteriori informazioni:
«Nova-T»
Produzioni televisive dei Frati Cappuccini
via F. Bocca, 15 – Torino
tel. 011-8987098;
«Centro di studi arabi “Federico Peirone”»
via Barbaroux, 30 – Torino
tel. 011-5612261

Angela Lano




Furio Combo e la scuola materna

Scrive su «la Repubblica» del 13 aprile scorso l’on. Furio Colombo, deputato al parlamento, giornalista e scrittore di successo: «Di là dalla chiesa e dal fiume Dora c’è la scuola matea. Un avviso comunica che cominceranno le lezioni di arabo. Pensi che la civiltà cammina in fretta, e che i bambini faranno da tramite fra comunità che non si conoscono. Ma c’è una seconda parte dell’annuncio. Dice: “Solo per bambini arabi”. In due righe, la costituzione italiana viene prima affermata (il diritto all’educazione anche per i nuovi venuti) e poi negata (quel diritto non è per tutti)».
La scuola matea torinese di cui parla Furio Colombo è quella di via Cecchi, in un quartiere a ridosso di Porta Palazzo, popolato da immigrati (in modo particolare, d’origine africana e araba). Conoscendo personalmente il circolo didattico, di cui la struttura per l’infanzia in questione fa parte, come altamente motivato e coinvolto a livello professionale nei confronti delle famiglie immigrate, ritengo azzardata e ingiustificata l’accusa di «anticostituzionalità» mossa dal noto giornalista e politico. Il corso di arabo era sì offerto a un’utenza proveniente da paesi islamici, ma come semplice alternativa all’ora di religione cattolica (proposta ai bambini italiani) e come risposta ad una precisa richiesta di alcuni genitori musulmani, che volevano dare ai propri figli la possibilità di recuperare la lingua araba senza dover ricorrere alle scuole coraniche, di cui non condividono strategie e finalità educative.
La scuola aveva dunque accettato di intraprendere questo esperimento coraggioso e pionieristico, magari con un tocco di superficialità – garantire l’accesso alle lezioni ai soli bambini arabi e non a tutti -, dettata più dall’inesperienza e dalla scarsezza dei mezzi a disposizione (una sola insegnante per tanti bimbi), che dalla volontà di trasgredire alle norme costituzionali.
Ecco, dunque, che diviene necessario aprire due parentesi: da una parte siamo di fronte alla buona volontà e all’entusiasmo di insegnanti ed operatori del settore scolastico, che, pur desiderando accogliere al meglio i nuovi scolari (in numero sempre più crescente), spesso non hanno la formazione necessaria a raggiungere senza incidenti di percorso tale obiettivo; dall’altra, ci troviamo davanti a giornalisti e mezzi d’informazione che, in materia di immigrazione, agiscono sull’onda delle emozioni, della disinformazione, dell’ignoranza e della superficialità. E tutto l’articolo dell’on. Colombo, apparso in prima e quattordicesima pagina dell’importante quotidiano nazionale, ne è una dimostrazione lampante.
Angela Lano

Angela Lano




“Uno starniero non è mai felice”

Un architetto e una prostituta, entrambi «stranieri», ma con risultati apparentemente opposti: il primo inserito nella società, la seconda ai margini. Sono i protagonisti del romanzo di Younis Tawfik, uno scrittore iracheno che da anni vive a Torino, città multietnica con molti problemi.

Straniero come estraneo, diverso, sradicato: come immigrato. Una persona dotata di un corpo dai tratti che talvolta differiscono da quelli a cui siamo abituati, ma anche di un’anima, a volte piena di rabbia o di malinconia. Straniero come portatore di una cultura «altra», non sempre e necessariamente stridente con la nostra. Immigrato, ma non sempre criminale, indesiderato occupante del territorio italiano, bensì lavoratore disposto a svolgere quelle mansioni pesanti, pericolose e spesso malpagate, che noi scartiamo ormai da qualche decennio.
Straniero, come il titolo del bellissimo libro dello scrittore iracheno, ma naturalizzato torinese, Younis Tawfik (La straniera, Bompiani Editore, lire 20.000), che in circa 200 pagine racconta, con disarmante drammaticità, due spaccati di vita: quella del protagonista, un architetto mediorientale, dalla carriera ben riuscita e inserito nella società torinese, e quella di Amina, una sfortunata ragazza marocchina piena di sogni e speranze, finita sul marciapiede. I due personaggi si incontrano una notte, ed iniziano a narrare, in prima persona e in alternanza, la propria storia, soffermandosi sui ricordi dell’infanzia, della famiglia e della patria lontana.
L’amore presto s’insinua tra i due, tormentato e conflittuale come le loro stesse esistenze, e li porta verso un tragico destino.

Younis Tawfik, come è nata in te l’idea di questo romanzo?
«Dal mio incontro casuale, in una birreria di Torino, con una prostituta marocchina. Mi trovavo in compagnia di amici, così l’ho invitata al nostro tavolo e lei, spontaneamente, mi ha raccontato la sua storia, che è in parte simile a quella da me narrata nel libro. Sentendola parlare, infatti, decisi di mettermi a scrivere. Passarono tre anni, e un amico mi parlò di una ragazza marocchina che lavorava in una macelleria, morta di tumore al cervello. Volevano raccogliere dei soldi per mandare il corpo in patria. Ecco, allora, che decisi di inserire e fondere con la storia di Amina, la prostituta, quella di Mina, la macellaia, che, con la sua tragica fine, sarebbe divenuta strumento di riscatto e redenzione per l’altra».
Il protagonista, l’architetto, rispecchia il prototipo dell’immigrato colto, di successo, che ad un certo punto entra in crisi. Ce ne puoi parlare?
«Lui rappresenta l’immigrato che vive in Italia da tanti anni e che si sente completamente inserito nella società, o almeno così crede: è colto, educato, sposato e separato, con un buon lavoro. Ha fatto di tutto per farsi accettare da una società benestante e borghese come quella torinese. Ad un certo punto, però, incontra Amina, la prostituta, una ragazza ai margini: improvvisamente, la sua memoria sopita, il suo senso d’identità perduto si risvegliano.
Ora riesce a provare nuovamente sensazioni, emozioni, che aveva rimosso. Capisce che non era poi così “integrato”, e che l’integrazione stessa non significa annullare, dimenticare le proprie radici. Con e grazie ad Amina inizia il percorso a ritroso del recupero della memoria: lei rappresenta la Shahrazade delle Mille e una notte, quel raccontare storie l’una nell’altra, che l’aiutano a mantenersi in vita e a far vivere. Attraverso di lei il protagonista riscopre colori, profumi, desideri, ambienti che gli appartenevano, ma che aveva dimenticato. Questa donna, tuttavia, diviene anche la terra traditrice, la prostituta (la madre terra che lo ha costretto ad andarsene via). Quando la perde, scopre il vuoto, capisce di essere un immigrato, quello straniero che aveva dimenticato di essere».
Il romanzo si inserisce bene all’interno dello stile narrativo arabo: prosa e poesia mescolate insieme, trama ad incastro (per intenderci, il racconto nel racconto), uso abbondante della memoria. Tuttavia, è un’opera italiana, scritta nella nostra lingua, che contiene descrizioni e situazioni a noi familiari. Insomma, gli stranieri che tu descrivi li abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni.
Possiamo dunque parlare già di letteratura araba in lingua italiana, come avviene, ad esempio, per quella araba in lingua francese o inglese?
«Direi di sì. Ho usato la lingua italiana come strumento di espressione: strumento che, più volte, mi è stato stretto, e che mi rendeva prigioniero di un vocabolo in cui non riuscivo pienamente a comunicare ciò che desideravo. Tuttavia volevo dimostrare che, in Italia, gli intellettuali arabi possono considerarsi allo stesso livello di quelli anglofoni o francofoni, anche perché ritengo che, quella italiana, sia una bellissima lingua, che ben s’adatta a raccontare storie nello stile narrativo arabo».
Perché hai deciso di raccontare agli italiani una storia di immigrazione?
«Il mio obiettivo era quello di fornire uno strumento per capire la psicologia degli immigrati, gente dotata di un corpo, una mente e un cuore, che ride, soffre, piange o si dispera. Per me è una grande soddisfazione sentir dire da un italiano: “Finalmente sono riuscito a guardare uno straniero per quello che è: una persona come tutte le altre, con il proprio bagaglio di sogni e speranze, di tragedie quotidiane, ecc. Prima li consideravo poco più di ombre, senza identità, senza peso, senza emozioni”. Già, essi sono anime in “trasferta”, spesso loro malgrado, costrette dalla miseria, dalle guerre, dalle persecuzioni a lasciare la propria famiglia, la propria terra, e a vivere all’estero una vita difficile, a volte drammatica e densa di solitudine e malinconia».
Quale messaggio vorresti comunicare agli italiani?
«Vorrei poter dire loro che non tutti gli immigrati sono criminali o gente che ruba il lavoro, perché, nella maggior parte dei casi, svolgono quelle mansioni che nessuno vuole più fare. Gli immigrati costituiscono una ricchezza per l’Italia. Se viene data loro la possibilità, sono in grado di contribuire alla nascita di una società multietnica: si tratta di un processo mondiale che, in era di globalizzazione, è divenuto ormai irreversibile.
Fino alla fine degli anni ’60 erano gli italiani ad emigrare nel nord Europa o in America, ora sono loro ad accogliere gli stranieri. Tuttavia, le leggi sull’immigrazione non giocano a favore degli immigrati, e, nello stesso tempo, non aiutano lo stato a combattere la criminalità. Quest’ultima sanatoria è servita solo per schedarli, e i permessi di soggiorno tardano ad arrivare, creando grossi problemi a chi un lavoro l’aveva trovato o potrebbe trovarlo.
Hanno espulso ingiustamente onesti padri di famiglia, che mantenevano figli e genitori al loro paese, oppure hanno diviso famiglie rimpatriando i genitori e mandando in affidamento i figli presso famiglie italiane; da un altro canto, però, non riescono a liberarsi dei grandi spacciatori, dei delinquenti o di chi si arricchisce con il racket della prostituzione.
Paradossalmente, spacciatori, ladri e prostitute hanno i soldi necessari per ottenere il permesso di soggiorno, altri onesti lavoratori no. Quante prostitute sono state regolarizzate perché hanno pagato ditte italiane o famiglie che hanno dichiarato fittiziamente di averle assunte come operaie o come colf?».
Perché hai scelto la parola «straniera» come titolo del tuo romanzo?
«Perché l’altra, “extracomunitaria”, comunemente usata, è spregiativa e discriminatoria. “Straniero” indica l’estraneità, il disagio provocato dal vivere in un certo ambiente. Ed è quello che io ho descritto: il disagio di esistere, l’essere un po’ estranei in patria e stranieri in Italia».

Angela Lano