Sarà una tentazione, ma il cristianesimo è bello

Che significa oggi «fuori della chiesa non c’è salvezza»?
La chiesa di Cristo «è» o «sussiste» in quella cattolica?
Forse non sono questioni di lana caprina…
È significativo che Dio voglia la salvezza di tutti,
a prescindere dalle religioni di appartenenza.
E «non nega la grazia a chi fa quanto può».

A volte basta cambiare
una virgola
Lo storico Eusebio di Cesarea (263-337) scrisse che a Costantino Magno, in occasione della battaglia decisiva contro Massenzio alle porte di Roma, apparve in cielo come presagio di vittoria una croce luminosa e le parole: «In questo segno vincerai». Era il 28 ottobre del 312.
Ma, nel secolo precedente, avvenne qualcosa forse di più importante, di certo storicamente più sicuro. Nel cielo della chiesa apparve una «meternora», che non sarebbe più scomparsa. In altre parole: il vescovo Cipriano (210-258) enunciò il famoso principio: Extra ecclesiam nulla salus (fuori della chiesa non c’è salvezza). «Non è infatti possibile – affermava il vescovo africano – avere Dio come padre se non si ha la chiesa come madre». Era la logica conseguenza di quanto gli apostoli Pietro e Paolo avevano affermato: «C’è salvezza solo in Cristo e in nessun altro» (At 4, 12).
Il motto «fuori della chiesa non c’è salvezza» è rotolato lungo i secoli, irrigidendosi come un ghiacciaio perenne. Al Concilio di Firenze (1442) il principio raggiunse persino la rigidità dell’acciaio: «La chiesa crede e annuncia che nessuno fuori della comunità cattolica (non solo pagani, ma anche ebrei, eretici e scismatici) potrà raggiungere la vita eterna, ma andrà nel fuoco eterno… se prima della morte non sarà ad essa unito». Qui, veramente, la chiesa cattolica appare una madre troppo possessiva.
Dopo il 1492, con la scoperta di nuovi popoli (che non avevano mai avuto contatti con il cristianesimo), e più recentemente, alla constatazione che le altre grandi religioni non solo non risultano assorbite dal cristianesimo, ma sono in continuo aumento, quel «blocco di ghiaccio» incominciò a sgocciolare.
Ora si preferisce enunciare il principio al positivo: nella chiesa c’è salvezza, meglio e più sicuramente che altrove. Come in algebra si insegna che tutto può andare a posto cambiando il «meno» in un «più».
Un’operazione
di microchirurgia
La meternora «fuori della chiesa non c’è salvezza» non abbagliava più gli occhi dei padri del Concilio ecumenico Vaticano II, né campeggiava sulla cattedra di san Pietro o nella gloria del Beini. Tuttavia era presente (almeno come un sassolino nella scarpa) in parecchi dei vescovi conciliari; e gli ortodossi e i protestanti osservavano con interesse come se lo sarebbero tolto. Se lo tolsero infatti.
E, da quel momento, i padri del Concilio camminarono più spediti.
I tempi erano maturi per una piccola ma importante operazione, forse una delle più delicate del Concilio. Un’operazione brillante: stupì i non cattolici dell’intero mondo, perché tutti erano consapevoli che si trattava di danzare su un vulcano in eruzione.
Il modo, poi, in cui l’operazione «chirurgica» venne compiuta fa sorridere per la sua semplicità.

Il cambio
di un verbo latino
Riguarda l’articolo 8 della Costituzione sulla chiesa Lumen gentium, approvata dopo molte discussioni il 21 novembre 1964. Da Cristo emana la chiesa, da Lui costituita nei suoi elementi essenziali. Però i padri si chiesero se la «vera» chiesa di Cristo esista ancora e dove si trovi.
Un primo testo affermava: «L’unica chiesa di Cristo, costituita e organizzata in questo mondo come società, è (est) la chiesa cattolica, ancorché fuori del suo organismo si trovino parecchi elementi di santificazione e verità». In tal modo solo la chiesa cattolica è «la» chiesa.
Poi si giunse alla seguente formulazione: «L’unica chiesa di Cristo sussiste (subsistit) in forma integrale in quella cattolica». È l’«integrale» a fare problema; si dice infatti che solo la chiesa cattolica possiede gli elementi della vera chiesa di Cristo, anche se con il «sussiste» si ammette che essa può esistere, sia pure in modo non «integrale», presso altre comunità ecclesiali.
Il testo definitivo si colloca tra le due redazioni e afferma: «La chiesa (originale di Cristo), in questo mondo costituita e organizzata come società (cioè visibile), sussiste (subsistit) nella chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui, ancorché al di fuori del suo organismo si trovino parecchi elementi di santificazione e verità, che, quali doni propri della chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica».
Il nuovo testo riconosce che nelle altre chiese possano esserci «parecchi elementi» della chiesa originale di Cristo. Perciò anche in queste sussiste, in qualche modo, la chiesa di Cristo. L’articolo 15 della Lumen gentium indica gli «elementi» che costituiscono i legami con la chiesa cattolica; essi sono: il battesimo, altri sacramenti (come l’eucaristia), la sacra scrittura, la devozione a Maria, ecc.
Poiché le varie chiese non insegnano le stesse cose (e non solo su aspetti marginali), qualcuno potrebbe concludere che la chiesa di Cristo non esiste più da alcuna parte; perciò nessuna comunità ecclesiale può considerarsi come l’erede autentica ed integrale della chiesa di Cristo. No. Essa sussiste ancora: in modo (più) perfetto in quella cattolica, ma anche in altre chiese.
Una dichiarazione congiunta di ortodossi e «vecchi cattolici», redatta tra il 1977 e il 1981, recita: «La vera chiesa (una, santa, cattolica e apostolica) sussiste senza alcuna interruzione, dalla fondazione fino ai nostri giorni, là dove viene custodita la vera fede, la liturgia divina e l’ordinamento della chiesa antica e indivisa».
Il Vaticano II, con subsistit al posto di est, ha adottato una terminologia «aperta». Il testo è uno stimolo, non una barriera. Se i padri del Concilio avessero voluto imporre barriere, avrebbero mantenuto est o, meglio ancora, sottolineato il secolare Extra ecclesiam nulla salus.
Un paragone per comprendere meglio. San Francesco d’Assisi fondò l’ordine francescano, che si divise in frati minori, conventuali, cappuccini, fraticelli, ecc. Oggigiorno l’ordine fondato da Francesco esiste ancora? Tutti i frati, a prescindere dalla loro appartenenza, rispondono di sì. Però si potrebbe discutere dove l’ordine di san Francesco «sussiste» nella forma genuina e cosa si è perso per strada.
non nega la grazia
a chi fa ciò che può
Il Concilio affrontò pure il problema della possibilità di salvezza per chi appartiene alle religioni non cristiane. L’articolo 16 della Lumen gentium è chiaro: «Quelli che senza colpa ignorano il vangelo di Cristo e la sua chiesa e, tuttavia, cercano sinceramente Dio e, sotto l’influsso della grazia, si sforzano di compiere con le opere la sua volontà, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire l’eterna salvezza».
Questa soluzione contrasta il «fuori della chiesa non c’è salvezza». Il Concilio non poteva scordare quanto aveva sancito al numero ottavo, soprattutto perché continuava ad essere valido il principio altrettanto secolare: facienti quod est in se Deus non denegat gratiam (a chi fa ciò che può Dio non nega la grazia).
Resta oggi aperto un altro problema: quello degli agnostici e indifferenti, di coloro che appartengono alla società secolarizzata e alla laicità. È accettabile la loro provocazione di un «disarmo religioso», ritenendo le differenze come componenti benefiche della diversità umana?

La melassa
È per gli animali
Dal punto di vista cristiano, Gesù è «sorgente di vita per tutti», perché «la salvezza viene da Cristo», come scrive Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptoris missio (1990). Pertanto la missione ad gentes «ha per destinatari gli uomini che non conoscono Gesu Cristo, né il vangelo, né la chiesa» (55). È ugualmente pacifico che «Dio vuole la salvezza di tutti gli uomini» (1 Tim. 2, 4).
Tuttavia è comprensibile che la chiesa si preoccupi di non svendere il proprio patrimonio in bancherelle di periferia. La chiesa cattolica, in particolare, mette in guardia contro due pericoli, che si propagano come una epidemia: il relativismo e il sincretismo.
Il relativismo religioso è «fare di ogni erba un fascio», ritenere che una religione valga l’altra… come se culture, lingue e manifestazioni artistiche fossero tutte uguali. Ma – si sa – l’argento non è oro, il coccio non è maiolica e il vetro non è cristallo! Come avviene pure nel campo monetario: ci sono monete fortemente inflazionate; dove sono in uso, servono al massimo a non morire di fame.
E ci sono monete forti. La chiesa cattolica ritiene di possedee una, garantita da una riserva in oro procuratagli da Cristo e dalla sua storia: una moneta sicura, anche se soggetta a sbalzi. Monete valide esistono pure in altre chiese e religioni. Ma, al cambio, occorre aprire gli occhi.
La ricchezza della chiesa sta nel saluto che Paolo rivolge ai suoi cristiani: «La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo sia con tutti voi». Come in natura: non tutto ciò che per l’uomo è commestibile, lo è alla stessa maniera; col grano buono cresce anche la zizzania; in una rete non tutti i pesci sono uguali.
Le chiese e le religioni non sono uguali: alcune, anzi, possono manifestarsi repressive, intolleranti, disumane; altre (con i valori positivi) possono celare veleni, come anche tra gli aspetti validi possono esistere differenziazioni rilevanti. Per questo occorre l’uso dei «raggi X», come fanno i medici per vedere sotto la pelle. Occorre dare uno sguardo «dietro le quinte».
Più pericoloso ancora (e banale) è il sincretismo, cioè il tentativo di costruire una super-religione prendendo un po’ da tutte, come sostiene il New Age o si è tentato di fare in passato senza nulla concludere. Giungere ad un «esperanto religioso» non è possibile. Il giornalista Igor Man ha adoperato l’espressione «sincretismo marmellata». Forse sarebbe meglio parlare di «melassa», che è quanto rimane dopo aver spremuto dalle barbabietole lo zucchero: una miscela informe, senza colore e gusto, che in Romagna si dà agli animali.

Dove abita il demonio?
Detto questo, la chiesa cattolica non deve più chiudersi in un atteggiamento di rifiuto o opposizione, considerando le altre chiese, l’ebraismo e le religioni come monete fuori uso, residuati da museo, scorie, reliquie rinsecchite, arti anchilosati. Con le altre chiese e religioni bisogna saper convivere, accettando il pluralismo con simpatia dinamica e calore. È un nuovo stile di convivenza cui nessuno è ancora sufficientemente preparato.
Una signora, alla Settimana ecumenica di La Mendola (Trentino), ha raccontato: «Sono nata in un paesino dell’Abruzzo e, vicino a casa mia, c’era un tempio protestante. Già da bambina tutti mi dicevano che, uscendo di casa, non dovevo guardare da quella parte, perché lì c’era il diavolo. Dopo il Concilio, in occasione della Settimana di preghiera per l’unità della chiesa in gennaio, il parroco e il pastore un giorno pregarono nella parrocchia e, un altro, nel tempio evangelico. Fu uno shock per me entrare nel tempio, quando per tutta la vita mi avevano detto che vi abitava il demonio».
Con gli appartenenti alle altre religioni il dialogo è pure doveroso, ma assai più problematico: si rischia di discutere senza fine. Il dialogo è utile nella misura in cui serve, almeno, ad evitare atti d’intolleranza; o, anche, a far meglio capire le differenze e affrontare qualche problema pratico di solidarietà.
Ugualmente il dialogo è indispensabile con la massa dei contemporanei che fanno professione di ateismo, agnosticismo, indifferentismo.
Una comune aspirazione
di salvezza
L’atteggiamento di apertura e dialogo è necessario, poiché in ogni religione c’è una diffusa aspirazione di salvezza. Perché la chiesa cattolica è «cattolica», non per una universalità materiale di presenza, ma per l’onnipresenza dello Spirito.
Valgono i paragoni, portati da Cristo, dell’albero su cui si posano «tutti» gli uccelli dell’aria (Mt 13, 32), del lievito che fermenta l’«intera» massa (Mt 13, 33) e del banchetto con «ogni tipo» d’invitati (Lc 13, 29). Vale l’immagine delle «12 porte» della «Gerusalemme celeste» (Ap 21, 22), che permettono l’ingresso da ogni lato. Più ancora vale la visione da fantascienza che i salvati sono una moltitudine immensa che «nessuno può contare», proveniente da «ogni nazione, razza, popolo e lingua» (Ap 7, 1-9). La bontà di Dio si leva su tutti, come il sole in cielo, e scende su tutti come la pioggia (Mt 5, 43).
Vale il passo degli Atti degli apostoli (17, 22-28), quando Paolo indica agli ateniesi «un Dio ignoto» (che adorano senza conoscerlo), nascosto in immagini e idoli. Ciò significa che le «religioni pagane» non si caratterizzano solo per il segno «meno».
Agli inizi – dice la Bibbia – il mondo fu avvolto da luce, e quella luce «era vita». E prima della luce «c’era il verbo», cioè la parola di Dio: parola, vita, luce che «illumina ogni uomo» senza eccezione.
Infine c’è lo spirito di Dio che «soffia dove vuole» (Gv 3, 8), anche al largo degli oceani e non solo al riparo dei porti.

E attenti ai cortocircuiti!
Fa riflettere quanto raccontò padre Arrupe, superiore generale dei gesuiti, circa la sua prima esperienza in Giappone.
«Nei miei primi tentativi missionari – affermò il gesuita – ricevetti una lezione dolorosa, ma molto utile. Istruivo quattro catecumeni accennando all’esistenza di Dio, l’anima immortale, la creazione, la divinità di Gesù Cristo. Tutto procedeva bene. Poi arrivò il momento di dimostrare l’unicità della vera religione. Dissi, in conclusione, che la religione cattolica era l’unica vera. Senza rendermi conto di dove stavo andando a parare, affermai che il cattolicesimo è il custode dell’unico e vero credo. Quando ebbi finito, i miei quattro uditori sembravano convinti. Non fecero alcuna obiezione, né mi chiesero spiegazioni. Ci salutammo e ci demmo appuntamento per il giorno seguente…
… L’indomani arrivò solo uno dei quattro. Gli altri tre non vennero più. Cos’era successo? L’unico scampato al naufragio me lo spiegò. La mia ultima lezione (esempio tipico d’inesperienza) aveva spento la speranza che quei tre catecumeni, onesti, avevano riposto nella nostra religione. Le riflessioni che si scambiarono dopo il mio discorso furono: “Non è possibile che Dio abbia potuto lasciare, per tanti secoli, i giapponesi fuori della conoscenza dell’unica vera religione. Se nessuno può essere salvato fuori della religione cattolica, quale sarà dunque la sorte di tutti coloro che ci hanno preceduto?”».
Dobbiamo annunciare Cristo, salvatore di tutti gli uomini, ma nel modo giusto.

L’unica tessera
di riconoscimento
La tessera di riconoscimento per essere ammessi in paradiso – come diciamo noi cattolici – è una sola: «Avevo fame e voi mi avete dato da mangiare», con ciò che segue (Mt 25, 31-46).
Come le beatitudini evangeliche sono un paradosso e una provocazione, così lo è il seguente racconto del giornalista Domenico del Rio.
«Budda vide un giorno i dannati che si aggrovigliavano là in fondo e, tra essi, c’era anche Kandata, il famoso brigante e incendiario di paesi. Ma Budda sapeva che nella sua malaugurata vita era stato capace di una buona azione. Un giorno, sulla strada, aveva incontrato un piccolo ragno: invece di calpestarlo, lo aveva posto a lato della via. Per tale piccolo atto di pietà Budda pensò di togliere Kandata dall’inferno. Su una foglia di loto vide il ragno color giada in paradiso, sospeso ad un filo d’argento. Spostò il loto, prese dolcemente il fragile filo e lo calò all’inferno. Kandata vide il filo d’argento e, senza sapere cosa facesse, vi si aggrappò e cominciò a salire. A metà percorso, si fermò un momento e guardò giù nel profondo dell’inferno. Con spavento vide che anche altri dannati, in una lunga fila, si erano aggrappati al fragile filo e salivano lentamente. “No, no – gridò Kandata -, è mio il filo del ragno. Si romperà. Andate via!”. E scuoteva furiosamente il filo per far cadere gli altri. Alla fine il filo si spezzò tra le mani del bandito, che ripiombò nella notte spaventosa tra il fuoco, a testa in giù».
La medesima lezione ci viene dal mondo musulmano. Ad Abur Bakar, mistico di Baghdad, morto nel 945, apparve in sogno un amico, che gli chiese: «Come ti ha trattato Dio?».
«Dio mi ha posto al suo cospetto e mi ha chiesto: “Abur, sai perché ti ho perdonato?”. Io risposi: “A causa delle mie azioni”. E Lui: “No”. Ed io: “Perché ero sincero nella mia devozione”. Dio rispose ancora “no“. “Allora per i miei pellegrinaggi, i digiuni, le preghiere”. “No, non è per questo che ti ho perdonato”. “Perché allora?”.
Dio disse: “Ricordi quando, camminando per le strade di Baghdad, trovasti un gattino che il freddo aveva reso debolissimo e che si muoveva appena da un muro all’altro in cerca di riparo dalla neve, e come tu, preso da compassione, lo sollevasti e lo tenesti sotto il mantello che indossavi e, così facendo, lo proteggesti dal gelo?”.
– Sì, ricordo.
– Perché avesti pietà di quel piccolo gatto io ho avuto pietà di te…».
Per dire che la bontà è senza limiti e apre tutte le porte, anche quelle del cielo.
Un giorno Nikolaevic Tolstoj raccontò una parabola. Un re si recò ad una battuta di caccia. Dopo aver abbattuto molta selvaggina, ebbe sete e andò in cerca di una fonte. Trovata una sorgente d’acqua chiara e fresca, riempì una coppa e fece per bere; ma il falco che teneva sul braccio si agitò e, con un colpo d’ala, la rovesciò. Di nuovo il re riempì la coppa, ma il falco, svolazzando, rovesciò anche questa. Il re, oramai nervoso, ripetè il gesto e, con maggiore attenzione, cercò di bere. Anche questa volta il falco si gettò sopra la coppa e la rovesciò.
Allora il re uccise il falco. Stava quindi per riempire un’altra volta la coppa, quando giunse ansante uno del suo seguito e gli gridò: «O re, non bere quell’acqua. È una sorgente avvelenata».
E Dio non terrà in nessun conto questi atti di estrema generosità, anche se compiuti da animali?

Goffredo, Isacco, Pavel
e Teresina
Che dire se qualche cattolico si recasse in pellegrinaggio a Torino, non nei luoghi sacri, ma in Piazza Castello, per sostare in preghiera di fronte alla lapide di Goffredo Varaglia? La lapide fu posta dai valdesi, l’11 novembre scorso, proprio sul luogo dove il 29 marzo del 1558 Varaglia fu impiccato e bruciato per eresia. Varaglia era un frate francescano. Inviato alla corte di Francia quale membro di una delegazione pontificia, a Parigi aderì al protestantesimo. Poi fu inviato come pastore nelle valli valdesi del Piemonte. Catturato dagli agenti dell’inquisizione e rifiutando di abiurare, fu condannato a morte.
E perché non recarsi anche, sempre a Torino, alla tomba dell’ebreo cuneese Isacco Levi, che gli ebrei venerano per la sua straordinaria carità?
Ancora: perché non invocare la protezione del prete ortodosso russo, Pavel Florenskij (1882-1937), considerato come scienziato un secondo Leonardo da Vinci e, come cristiano, un grande come Agostino o Rosmini? Venne deportato in Siberia e qui, per farlo tacere definitivamente, fu fucilato l’8 dicembre 1937. È un martire della fede.
Teresa di Lisieux (1873-1897), all’età di 14 anni, era preoccupata della sorte del famigerato Pranzini, accusato di assassinio, condannato a morte e ghigliottinato il 31 agosto 1887. Nonostante il rifiuto del reo di confessarsi, la giovane chiede a Dio un segno della sua salvezza. Sul patibolo, con il capo già sul «lugubre foro» – scrive la santa – Pranzini accettò di baciare il crocifisso che gli veniva presentato. Era il segno che Teresa aveva chiesto nella preghiera… In seguito, già sul letto di morte, l’11 luglio 1897, la santa fece questa dichiarazione: «Ha ragione, reverenda madre: se avessi commesso tutti i delitti possibili, avrei sempre la stessa fiducia, sentirei che quel cumulo di offese sarebbe una goccia d’acqua in un braciere ardente».
Non è meraviglioso un cristianesimo che giunge a tali altezze?

Igino Tubaldo




Cristo in mano ai teologi

Il 5 settembre 2000 è apparso «Dominus Iesus»,
dichiarazione della Congregazione
per la dottrina della fede. Il documento,
firmato dal cardinale Joseph Ratzinger
e dall’arcivescovo Tarcisio Bertone,
gode del benestare di Giovanni Paolo II.
Per chi conosce il magistero della chiesa cattolica
la dichiarazione non presenta novità sostanziali.
Vi sono affermazioni vincolanti, quali «deve essere fermamente creduta la dottrina della chiesa»,
ma anche dei condizionali, come «sarebbe contrario alla fede cattolica»…
Tuttavia «Dominus Iesus» ha suscitato
reazioni vivaci e contrastanti.
Ecco qualche esempio (*).

Anche gli anglicani
sono vera chiesa

N el riaffermare la tradizionale opinione della chiesa cattolica sulla posizione delle altre chiese cristiane, la dichiarazione Dominus Iesus non dice nulla di nuovo, ma non riflette nemmeno pienamente la profonda comprensione raggiunta attraverso il dialogo e la cooperazione ecumenica nel corso degli ultimi 30 anni. Sebbene il documento non costituisca parte di quel processo, l’idea che gli anglicani ed altre chiese non siano «chiese in senso proprio», sembra mettere in discussione i notevoli successi ecumenici che abbiamo conseguito.
È importante che celebriamo il processo ecumenico. È un compito a cui resto impegnato in rappresentanza sia della Chiesa d’Inghilterra sia della Comunione anglicana mondiale. È questo un compito che continuerò a portare avanti sia con i leader cattolici sia con quelli di altre chiese sulla base di un profondo rispetto reciproco.
In occasione di un importante incontro di anglicani e cattolici svoltosi a Toronto (che ho presieduto con il cardinale Cassidy), si sono fatti eccezionali passi avanti, riconoscendo un sostanziale accordo su numerosi temi e proponendo che una nuova commissione mista sull’unità porti avanti questo lavoro.
Certamente la Chiesa d’Inghilterra, con la Comunione anglicana mondiale, non accetta che i propri ministeri e l’eucaristia abbiano difetti di alcun tipo. Essa, pertanto, ritiene di essere parte dell’unica, santa, cattolica e apostolica chiesa di Cristo, nel cui nome serve e reca testimonianza, qui e in tutto il mondo.
George Carey, arcivescovo
anglicano di Canterbury

Conta l’incontro
con Cristo

L a Dominus Iesus solleva nelle chiese evangeliche non poche riserve critiche. Il tema del pluralismo religioso (fenomeno in espansione in occidente), pone i teologi dinanzi a sempre nuove domande: non vanno condannati solo per questo. È vero che l’espressione «fuori della chiesa non c’è salvezza» ci viene dai tempi della chiesa primitiva, dove aveva un suo contesto storico e teologico preciso. Noi protestanti abbiamo sempre obiettato a questa formulazione, ritenendo che non è l’«essere nella chiesa» a garantirci la salvezza, quanto piuttosto l’incontro con Gesù Cristo a donarci la salvezza e metterci in comunione con altri credenti nella chiesa. La mediazione è operata esclusivamente da Cristo, mai dalla chiesa.
Quanto poi all’essere salvati o non salvati, Gesù ci ricorda che questo è un compito riservato esclusivamente a Dio Padre; e noi saremo sorpresi di trovare nei due gruppi persone che non avremmo mai immaginato (Mt 21, 31), e del tutto inconsapevoli (Mt 25, 31-40). A noi spetta il compito dell’annuncio dell’evangelo ad ogni creatura, del dialogo fraterno e attento, nel rispetto delle altrui convinzioni, non quello della condanna definitiva.
Da quando la chiesa ha preteso di essere non solo madre e maestra, ma soprattutto un’istituzione che, a suo insindacabile giudizio, dispensa salvezza e condanne, è diventata altra cosa dal modello prevalente del Nuovo Testamento.
Domenico Tomasetto, presidente delle chiese evangeliche in Italia
È la fine
dell’ecumenismo

È vero: lo stile redazionale di Dominus Iesus non è assolutamente lo stesso di quello dei testi del Concilio ecumenico Vaticano II. Assai spesso si adottano formule del genere: «i fedeli non sono tenuti a professare», «si deve credere fermamente che»… Ma io non sono del tutto convinto che questo potrebbe implicare o annunciare la fine di un impegno cattolico sul piano ecumenico o interreligioso. Tutti conoscono le iniziative di Giovanni Paolo II verso le altre religioni: dopo il memorabile incontro di Assisi, le iniziative si sono moltiplicate.
Quanto all’ecumenismo, non si possono trascurare le attese del recente accordo tra luterani e cattolici sulla giustificazione per la fede (31 ottobre 1999). In questo campo si è riusciti in qualcosa di notevole, precisando il punto fondamentale su cui siamo d’accordo, e perché le differenze che restano fra noi non devono essere considerate separatrici. La nostra speranza è che con il tempo l’intesa, riconosciuta possibile su questo punto centrale, possa divenirlo anche su altro.
Joseph Doré, arcivescovo cattolico
di Strasburgo

Un testo da esorcizzare

L a cosa più triste che emerge da Dominus Iesus è «il volto di Dio». Pare lecito chiedersi: in quale Dio crede l’estensore di questo documento del Vaticano? Avrà mai, qualche volta, sentito parlare di «Abbà», il papà di Gesù di Nazaret? Dove è andata a finire, nel testo romano, la gioia manifestata da Gesù per il fatto che Dio rivela i suoi segreti ai piccoli, che non riescono e non riusciranno mai a star dietro ai meccanismi di potere contenuti nel dogmatismo formulato dalle loro chiese? Perché un testo, proveniente da ministri dai quali ci aspetteremmo la conferma nella fede, è tanto pessimista e chiuso all’azione della grazia e alla libertà dello spirito di Dio?
Grazie a Lui, la fede alla quale ci educa Gesù è esattamente il contrario: «Io posso morire e uscire di scena, perché è il Padre l’ultima parola e troverà sempre la spinta di reiterare il suo sì alla vita dell’umanità». Un fratello mi ha ricordato che nel vangelo si dice che Gesù comanda ai demoni di tacere, anche quando dicono una verità: la professione di fede in lui. Sono spiriti diabolici (cioè divisori).
Mi pare che lo spirito del testo abbia bisogno di un esorcismo. Resto in preghiera per la chiesa, perché si lasci convertire ogni giorno ed accetti di morire se il prezzo è la vita dell’umanità. È necessario che mai più un popolo possa cantare, piangendo, come in questo poema maya:
«Quando gli stranieri giunsero qui
ci insegnarono la paura,
fecero appassire i loro fiori
e inghiottirono i nostri fiori…».
Gesù è venuto ad annunciare la vita per tutti i fiori e colori, le razze, culture e religioni. Solo così le chiese possono dare prova della loro fedeltà all’evangelo, senza correre il rischio di essere confuse con gli scribi di qualche congregazione romana.
Manteniamoci fedeli nella testimonianza dell’amore di Dio e nella fiducia che un giorno ci sia concesso il diritto che i vescovi latinoamericani già chiesero nel 1968, nella II Conferenza generale a Medellìn: «Che si presenti sempre più nitido il volto di una chiesa autenticamente pasquale, missionaria e povera, spogliata di potere e coraggiosamente compromessa con la libertà di tutti gli uomini».
Marcelo Barros,
monaco benedettino brasiliano

Sarebbe tragico se…

L a dichiarazione Dominus Iesus ha sorpreso la cristianità. Rischia di chiudere porte che erano state aperte nei decenni passati dallo sforzo ecumenico. Ha provocato forte irritazione.
La causa ecumenica, cioè la ricerca dell’unità dei cristiani, è mandato inalienabile della chiesa di Gesù Cristo. Lo stesso papa ha enfatizzato che si tratta di un impegno irreversibile. Anche la chiesa cattolica confessa di aver bisogno di riforme. È quello che, tra l’altro, ha motivato Giovanni Paolo II, nell’enciclica Ut unum sint, a proporre il dialogo sulla modalità dell’esercizio del papato.
Come partecipanti al seminario, convocato dalla chiesa cattolica e luterana per riflettere sul tema del «ministero», riaffermiamo:
a) esiste un vincolo di unione fra tutte le persone battezzate che invocano il nome di Gesù Cristo;
b) esiste un vincolo di unione fra tutte le persone create ad immagine di Dio, anche se non si dichiarano cristiane;
c) esiste un vincolo di unione fra tutte le persone chiamate al servizio del regno di Dio, la cui vita porta a compimento la nostra speranza.
C’è poi un’unità anteriore alle divisioni cristiane ed umane, anche se con diverse sfumature e modalità.
Come chiese cristiane, ci impegniamo ad una maggiore fedeltà al vangelo. Confessiamo, insieme a tutti i cristiani, la salvezza che è in Gesù Cristo. Ricordiamo i segni di unità esistenti nelle nostre comunità, come la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, la condivisione di vita, la Campagna di frateità ecumenica 2000, la cooperazione in questioni sociali.
Sarebbe tragico se il cammino ecumenico verso una maggiore unità subisse interruzioni o pregiudizi.
Ivo Lorscheiter, vescovo cattolico,
e Gottfried Brakmeier,
pastore luterano

Gesù è il Signore
(replica del card. Ratzinger)

E sprimo tristezza e delusione, perché le reazioni pubbliche (a parte lodevoli eccezioni) hanno ignorato completamente il tema vero e proprio della dichiarazione. Il documento comincia con le parole «Dominus Iesus»; si tratta della breve formula di fede contenuta nella prima Lettera ai corinzi (12, 3), in cui Paolo ha riassunto l’essenza del cristianesimo: «Gesù è il Signore».
Il papa con questa dichiarazione (la cui redazione ha seguito con attenzione) ha voluto offrire al mondo un solenne riconoscimento a Gesù Cristo Signore, nel momento culminante dell’anno santo, portando con fermezza l’essenziale al centro di questa celebrazione, sempre soggetta a esteriorizzazioni.
All’inizio del presente millennio ci troviamo in una situazione simile a quella descritta da Giovanni alla fine del sesto capitolo del suo vangelo: Gesù ha spiegato chiaramente la sua natura divina nell’istituzione dell’eucaristia. Però nel versetto 66 leggiamo: «Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui».
Oggi, nei discorsi generali, la fede in Cristo rischia di appiattirsi e disperdersi in chiacchiere. Con Dominus Iesus, il santo padre, successore dell’apostolo Pietro, ha inteso dire: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Gv 6, 68). Il documento vuole essere un invito a tutti i cristiani ad aprirsi nuovamente al riconoscimento di Gesù Cristo come Signore.
Mi ha fatto piacere che il presidente delle chiese evangeliche della Germania, Kock, nella sua reazione (peraltro assai composta) abbia riconosciuto questo elemento importante del testo e lo abbia paragonato alla Dichiarazione di Barmen (città), con la quale nel 1934 la Bekennende Kirche, ai suoi inizi, rifiutò la chiesa del reich creata da Hitler.
Ndr: la «Bekennende Kirche», o chiesa confessante (Cristo), era un movimento di opposizione al nazismo, sorto sotto l’influenza di Karl Barth.
Anche il professor Jungel, di Tubinga, ha trovato in questo testo (nonostante le riserve sulla parte ecclesiologica) un respiro apostolico, simile alla dichiarazione di Barmen. Inoltre il primate della chiesa anglicana, l’arcivescovo Carey, ha manifestato il suo sostegno grato e deciso al vero tema della dichiarazione.
Perché la maggior parte dei commentatori invece lo trascura?
Joseph Ratzinger,
prefetto della Congregazione
per la dottrina della fede

Igino Tubaldo




Ippocrate a Macate – Medici nella Sierra andina

Guido e Liborio, medici italiani,
Carlo e Sandro, sacerdoti
(anch’essi italiani), e un’umanità dolente
di contadini peruviani. La storia raccontata risale a qualche anno fa (Fujimori era ancora un illustre sconosciuto), ma è quanto mai attuale.

«Affermo con giuramento, per Apollo medico ed Esculapio, per Igea e Panacea e ne siano testimoni tutti gli dei e le dee, che per quanto me lo consentiranno le forze e il mio pensiero, adempirò questo mio dovere (…) senza mai trasgredirlo (…)». Medico sempre: in ogni posto, in ogni paese, in ogni momento.
Sinceramente non avevo mai compreso il vero significato di questo giuramento che unisce i medici di tutto il mondo e di ogni tempo. Quel viaggio a Macate fu per me un momento di svolta. Medico sempre. Per Apollo, Esculapio, Igea e Panacea…
Avevamo conosciuto Carlos a Nana in uno di quei raduni dove è meglio non andare mai. Quando infatti si riunisce un gruppo di italiani all’estero, anche se delle più diverse provenienze, si passa il tempo a cantare insieme e, se si comincia sempre con «Quel mazzolin di fiori», stai sicuro che si termina con Battisti intorno ad un piatto di spaghetti e venerando un pezzo di Parmigiano che qualcuno ha ricevuto dall’immancabile madre.
In quell’occasione, Carlos, prete napoletano e rivoluzionario, poeta e suonatore di sassofono, ci aveva invitato a visitarlo nel suo paesino dell’Ancash, in quella parte del Perù che poeticamente definiva «la Cordillera Negra que mira hacia el mar (la cordigliera nera che guarda verso il mare)».
FINALMENTE IN VACANZA!
Partii assieme a Liborio, amico e collega, con il maggiolino color sabbia, un paio di borse ed una cartina del Perù. Le istruzioni erano semplici: prendere la Panamericana Norte, seguire l’Oceano Pacifico per 500 chilometri fino a Chimbote, proseguire poi fino a Santa dove padre Sandro ci avrebbe ospitato per la notte. Lasciata quindi la strada asfaltata, proseguire lungo il corso del Rio Santa fino al posto di controllo di Sciacsia; di lì, salire la valle di Macate fino al paese a 3.000 metri di altezza sotto il monte Tres Cruces.
Le ore, correndo lungo l’Oceano Pacifico, passavano rapidamente attraverso deserti rossicci, con striature verdi e, in alcuni punti, dune di sabbia che, spinte dal vento, coprivano in parte la striscia d’asfalto.
«Finalmente in vacanza» disse Liborio.
«Speriamo che Carlos non se ne approfitti» gli ribattei.
«In che senso?».
«Mi preoccupa il fatto che ci abbia raccomandato di portare lo stetoscopio e qualche medicina».
L’odore tremendo di pesce e le prime baracche ci annunciavano l’arrivo a Chimbote: «Liborio, ricordi quella poesia di Carlos. Come faceva?».
«Olìa a pescado podrido, Chimbote, aquél dìa (1)».
«Che puzza!».
«Sono le fabbriche di farina di pesce».
«Fermiamoci direttamente a Santa, sei d’accordo? Qui io certo non resisterei».
A Santa ci aspettava padre Sandro. Lo trovammo con donne e bambini del locale Club de Madres. Parassitosi, bronchiti ed un paio di casi lievi di denutrizione e poi a dormire, pronti per l’avventura sulle Ande del giorno dopo.
Cachangas con huevos fritos (2) e caffè per colazione la mattina e poi di nuovo sul maggiolino per affrontare i temibili 120 chilometri di strada sterrata. Felici della vacanza alla scoperta delle Ande, alzando nuvole di polvere correvamo immaginando di partecipare a chissà quale rally. Le montagne nude e polverose si andavano stringendo intorno alla valle del Santa, campi di mais si susseguivano a zone pietrose.
D’improvviso, un urlo di Liborio: «Attento alla scaffa!».
«Cosa dici? che è la scaffa?».
Una buca nascosta della strada mi fece capire immediatamente il significato di questa parola proveniente direttamente da Agrigento attraverso l’agitazione di Liborio. Il cerchione ammaccato e la gomma bucata ci aiutarono a riflettere sui nostri rispettivi dialetti. Poco dopo cominciammo a trovare un po’ d’acqua sulla strada: «Speriamo bene – dissi -. Dovremmo essere alla fine della stagione delle piogge».
«Porca miseria – esclamò Liborio -, guarda laggiù! La strada è inondata. Fermati, Guido!».
Mi fermai e spensi il motore. Scendemmo per capire meglio l’entità del problema.
«Saranno 50 metri di strada allagata».
«Forse anche di più – ribattei -. Che facciamo?».
Ci sedemmo sconsolati sul margine della strada, accendendo una sigaretta e guardando la campagna deserta, le montagne intorno, il cielo terso. Silenzio. Solitudine.
«È finita la vacanza».
«Tante ore di macchina per fermarci ai piedi delle Ande».
Intrepido, Liborio si alzò in piedi, si tolse scarpe, calze e pantaloni, spense la sigaretta e disse con tono deciso: «Ci penso io!».
«Bah!» commentai scettico e lo lasciai fare.
Entrò nell’acqua e cominciò a camminare su e giù commentando quello che i piedi gli comunicavano: «Qui c’è troppo fango, sul lato sinistro invece va meglio. Il fondo è ghiaioso, ma l’acqua arriva alla coscia. Se ci mettiamo al centro e poi deviamo a destra… sì, in questo modo, ce la dovremmo fare».
Nel frattempo arrivò un vecchio camion, carico di mercanzie e campesinos, che agevolmente guadò la strada allagata. Lo fermai e chiesi all’autista: «Compare, secondo lei ce la facciamo a passare?».
Questi, con la faccia di uno che si chiede «che ci staranno a fare in questo posto sperduto due gringos, uno dei quali anche in mutande?», mi rispose: «Si Dios quiere?! (Se Dio vuole)» e se ne andò.
Liborio, intanto, toò indietro, convinto di potercela fare. Me ne convinsi anch’io. Ma, per maggior sicurezza, legammo un sacchetto di plastica intorno allo spinterogeno affinché non si bagnasse.
«D’accordo Liborio, proviamoci. Però guido io» dissi.
«Va bene, ma devi seguire esattamente il percorso che ho disegnato. Io ti seguo a piedi».
Accesi il motore, mi misi in posizione e lentamente entrai in acqua. Qualche metro e sentii la macchina sempre più leggera. Le ruote cominciarono a girare a vuoto. Feci un gestaccio a Liborio, che rapidamente corse dietro la macchina e cominciò a spingere. Feci forza sull’acceleratore per cercare di afferrare il terreno e andare avanti. Incredibilmente la macchina ubbidiva alle sollecitazioni. Il fondo era divenuto pietroso e così l’auto riuscì a prendere velocità e a uscire dal guado. Mi fermai soddisfatto e scesi dal nostro prezioso maggiolino, urlando la mia gioia alla torva maschera di fango di Liborio, piantata in mezzo alla strada allagata: «Hai visto che grande autista!».
Mi rispose qualche cosa di incomprensibile in stretto dialetto siciliano e si mise a correre verso di me. Scoppiai a ridere vedendolo in quello stato. Quando mi raggiunse, mi abbracciò felice come un bambino, insozzandomi di fango. Ci sentivamo due grandi uomini, orgogliosi di aver superato le difficoltà.
«DOCUMENTI, SIGNORI!»
La strada correva incassata tra le scoscese e nude pareti dei contrafforti della Cordillera Negra, mentre il Rio Santa scendeva impetuoso e torbido. Un’ora di questo impressionante e minaccioso ambiente e, finalmente, vedemmo un gruppo di casupole e la sbarra del posto di controllo di Sciacsia.
Sporchi di polvere e fango ma soprattutto affamati, ci fermammo decisi a mangiare e proseguire subito dopo per Macate.
Un poliziotto, con un’aria annoiata più che marziale (comprensibile in un militare costeño all’ora di pranzo in un posto di blocco del profondo Perù), ci bloccò: «Documentos, señores!» disse, continuando a masticare uno stuzzicadenti.
Tirammo fuori i passaporti e, consegnandoli, chiedemmo: «Dove possiamo mangiare, señor?».
«Ah! Italianos!» esclamò con aria furba e di uomo di mondo.
«Spaghetti, Paolo Rossi, Ferrari! Come sta il papa?» e rise di gusto, mostrando gli incisivi cerchiati d’argento.
«Dove dovete andare?» aggiunse serio.
«A Macate, a visitare el padrecito Carlos. Es nuestro amigo» gli rispondemmo timidamente.
«Siete i medici di Lima allora. Vi stavamo aspettando».
«Potenza della Cia» mi suggerì all’orecchio Liborio.
«Potete mangiare al Serrano, è il miglior ristorante di Sciacsia. Per i passaporti nessun problema, ve li restituisco dopo pranzo».
«Medici, dunque – aggiunse con aria soddisfatta -. Medici amici del padrecito Carlos, bene».
Ci guardammo con aria preoccupata, sentendoci un po’ nudi senza i passaporti. Scendemmo dalla macchina e cercammo El Serrano. Il sole scottava nell’aria tersa. Ormai eravamo all’ingresso del mitico, profondo Perù.
«El Serrano» era un bugigattolo posto proprio all’altezza della sbarra, che chiudeva la strada. Entrammo e ci sedemmo ad un tavolo. La stanza era illuminata dai raggi di sole che penetravano fra le sconnessioni del tetto in eternit.
«Buenos dias señora, que hay para comer? (Buon giorno signora, che c’è da mangiare?)».
«Seco de cabrito con su arroz (3)».
«Ci porti anche due Coca-Cola».
«No hay, senor, tenemos solo Inca Cola (Non ce ne sono, signore. Abbiamo soltanto Inca Cola – 4)».
Ci portò i due piatti di riso con pezzi di carne. Il sapore predominante era quello del culantro, una piantina simile al prezzemolo con un forte aroma che è impossibile descrivere e dimenticare. Per conoscere il vero Perù bisogna imparare ad amare il sapore di questa terribile erba, così come è necessario godere al mangiare un buon piatto di ceviche, apprezzare il rocoto e riuscire a commuoversi pestando i piedi al suono di un huayno. L’unica cosa che mai sono riuscito a fare è quella di sopportare il gusto del culantro. Ma la fame era tanta.
Finito il pranzo, pagammo e uscimmo alla ricerca del nostro agente della Cia, che infatti ci stava aspettando.
«Gracias -, disse Liborio -. Partiamo subito» e allungò fiducioso la mano per raccogliere i passaporti. Ma il poliziotto non lo accontentò: «Dovete seguirmi un attimo. Non preoccupatevi».
Lo seguimmo superando una fila di gente in attesa davanti alla porta del posto di polizia. Nel locale c’erano due sedie, un tavolino e una panca. E, sul muro, la foto del presidente Garcia (il predecessore di Fujimori, ndr) con il suo smagliante sorriso.
«Señores doctores – ci disse con voce ufficiale -, prima di partire dovreste visitare un paio di pazienti. Sono mesi che non viene il medico da Chimbote».
Liborio ed io tirammo un sospiro di sollievo e, osservando i passaporti nella mano del poliziotto, ci dicemmo orgogliosi di partecipare a questa meritoria azione in favore della popolazione di Sciacsia.
Soddisfatto del nostro discorso, il poliziotto fece entrare la prima persona della lunga fila in attesa all’esterno. Il «paio di pazienti» era in realtà l’intera popolazione di questo, per nostra fortuna, piccolo agglomerato di case, sorto intorno al posto di blocco. I tanti pazienti visitati a Villa El Salvador ci permettevano ormai di individuare con facilità le piccole e grandi patologie della vita di tutti i giorni.
Avevamo con noi della piperazina e del mebendazolo per le parassitosi più comuni, un po’ di antibiotici di base, aspirine e per fortuna un grosso barattolo di un complesso vitaminico nordamericano. Lo stetoscopio e lo sfigmomanometro, insieme ad aghi e fili, completavano la nostra riserva di medici in «vacanza».
Seduti fianco a fianco, con il nostro armamentario poggiato sul tavolino, i capelli bianchi di polvere, il viso di Liborio ancora sporco di fango, il sapore del culantro in bocca e il giuramento di Ippocrate in testa… imparammo in questa occasione le basi della medicina comunitaria e preventiva sotto lo sguardo vigile e felice del nostro amico poliziotto. I confetti di vitamine, dono del popolo nordamericano ai paesi del Terzo mondo, più che la nostra scienza, ci permisero poi di recuperare i passaporti e di ripartire per Macate.
Dovevamo a questo punto lasciare la valle del Santa per imboccare quella di Macate. L’avventura continuava.
IL BRACCIO DI JUAN
«Certo che le indicazioni di Carlos sono precise» mi disse Liborio messosi alla guida del portentoso maggiolino.
«Sì – risposi -, ma la distanza doveva darcela in “pazienti” più che in chilometri».
Una serie di ripidi tornanti si snodava davanti a noi. La strada si era ridotta a poco più della larghezza dell’auto, mentre la montagna continuava ad apparire pietrosa e polverosa e la polvere ad alzarsi ed a depositarsi sui nostri capelli. La valle del Santa scompariva alla nostra vista, così come ci abbandonava il frastuono del fiume e delle sue acque torbide per la stagione delle piogge ormai al termine.
La prima terrazza della ripida valle improvvisamente ci comparve davanti. Lasciato ormai come un lontano ricordo il deserto, dopo una serie di grandi cactus posti quasi a guardia della valle, con stupore incominciammo ad attraversare piantagioni di banane, boschivi di avogados e giardini di aranci.
«Questo è il Perù, queste sono le sue contraddizioni; il deserto e l’eden, la povertà e la ricchezza, la violenza e l’allegria. Non esistono le vie di mezzo. Il Tres Cruces coperto di neve davanti a noi, il deserto alle spalle, l’ambiente tropicale nel quale siamo immersi e …».
«Aspetta, un paio di chilometri ancora e usciamo dal tropico!».
Liborio continuava a guidare e a sopportare i miei tentativi di capire il mondo.
«Guarda, Macate!».
«Dove? Vedo solo montagne».
«Segui con lo sguardo la strada; c’è un’altra terrazza in alto da dove spuntano degli eucalipti».
La strada si arrampicava abbarbicata alla parete della montagna. Il burrone sotto di noi si faceva sempre più impressionante e un canale, di origine certamente incaica, trasportava l’acqua da chissà dove seguendo le anfrattuosità della parete di roccia. Anche il tropico si era fatto ricordo.
«Ci siamo, dopo quella curva».
«Campi di mais, il grano ancora verde, prati, mucche, pecore, boschi di eucalipto ed il paese».
«Sembra di essere sulle Alpi!».
Ma un campesino con il suo poncho ci riportò al nostro Perù. Era solo un’altra faccia di questo paese e di questo popolo; forse la più bella e nello stesso tempo la più disperata: la Sierra.
Era l’imbrunire in quel punto della Cordillera Negra «que mira hacia el mar». Era sera a Macate e Carlos ci aspettava in piazza. Andammo subito in canonica.
La luce del Petromax argentino sostituiva egregiamente quella elettrica non ancora arrivata in questa vallata…
«Padre Carlos, apra, presto».
I colpi alla porta parevano sfondarla.
«Padre Carlos, il toro di Juan!».
«Che cosa succede, José!» urlò Carlos aprendo la porta.
«Il toro di Juan Yupanqui lo ha incornato!».
«Andiamo».
La voce imperiosa di Carlos non ci permise di tentennare. Afferrammo la borsa ed il Petromax e lo seguimmo fino all’infermeria del paese.
«Virgencita, San Martincito, Senor de los Milagros. Toro maldito, mi brazo! (Maledetto toro, il mio braccio!)».
«Se urla non è poi così grave» ci consolò Carlos. Entrammo accompagnati da José, infermiere responsabile di tutta la vallata, e trovammo il nostro Juan Yupanqui con il braccio avvolto da stracci insanguinati. Mentre José preparava gli attrezzi del mestiere, noi cominciammo a mettere in luce la ferita, che per fortuna appariva abbastanza superficiale.
Liborio era il nostro chirurgo provetto e sua fu l’opera. L’ago ricurvo ricostruiva rapidamente sotto l’attento sguardo degli altri. Ci trovavamo, un’altra volta (e sempre senza cercarcelo), a compiere quel giuramento di Ippocrate che già tanto tempo ci aveva fatto perdere nei due giorni di viaggio.
La nostra fama nei giorni seguenti si sparse per tutta la vallata. I formaggi freschi, le uova di giornata e perfino una mezza gallina ci riempirono la tavola a testimonianza che il braccio di Juan Yupanqui migliorava e che i nostri pazienti aumentavano. In questo angolo del Perù il primo medico era a 10 ore di camion e José era l’autorità sanitaria della zona.
Per la prima volta incontrammo anche un paio di casi di uta, la lebbra delle Ande.

E PER AMBULATORIO IL MONDO

Che lavoro incredibile quello del medico! Forse è l’unica professione che puoi applicare in qualunque punto del mondo. La gente ha, in fondo, gli stessi bisogni a Macate o a Venezia. Se poi muore di colera, è solo un problema di ingiustizia. E se, qui in Italia, non mi è mai capitato di ricordarmi di Ippocrate è forse perché oramai abita a Macate.
Se volete conoscerlo anche voi, prendete la Panamericana Norte da Lima fino a Chimbote, infilate la valle del Santa, mangiate al Serrano di Sciacsia e poi su fino ai piedi del Tres Cruces. E, mi raccomando, non dimenticate lo stetoscopio.

HO IMPARATO A STIMARE LA GENTE

Cara redazione,
mi è arrivata una copia di Missioni Consolata e, leggendola, mi sono tornati alla mente gli anni passati a Villa El Salvador in Perù. Capire i paesi del Terzo mondo e la loro situazione economica, politica e sanitaria è estremamente complesso, ma ancora più complesso è spiegarla e trasmetterla agli altri.
I miei 5 anni di lavoro come medico in Perù (dal 1984 al 1989) e la costante relazione che tengo con quel paese non mi hanno aiutato molto a capire come poter aiutare i miei amici di laggiù ad uscire da situazioni che da qui non possiamo neanche immaginare.
Ho visto, certo, tanta sofferenza e disperazione, tanti giovani morire di tubercolosi e bambini di denutrizione, gente vendere la propria casa per curarsi, madri piangere per non riuscire ad alimentare i propri figli. Ho visto tutto questo, ma ho anche visto la speranza, la voglia di uscire da un tunnel infinito, la capacità di spendersi per gli altri. Sono stato testimone dell’infinita pazienza e capacità di tanti medici ed infermieri peruviani sottopagati e senza tanti strumenti. Ho visto le «promotoras de salud» lavorare in silenzio per aiutare le famiglie in difficoltà, «parteras» aiutare a far nascere tanti bambini, e poi tanta e tanta solidarietà. Per quanto mi riguarda, ho specialmente imparato a stimare la gente.
Non so se posso essere d’aiuto alla rivista. Provo, però, ad inviarvi un racconto che tempo fa ho scritto e che riporta fatti reali. Rileggendolo mi commuove l’entusiasmo e l’incoscienza di noi giovani medici volontari nel Perù di più di dieci anni fa. Noi in questi anni probabilmente siamo cambiati molto, più del Perù che, come sapete, è in condizioni forse ancora più critiche di quegli anni.
Le persone che nomino sono reali ed in particolare:
– Liborio Ragusa, medico, lavora attualmente a Bergamo,
– Carlo (Carlos) Iadicicco, sacerdote diocesano, è ancora in Perù,
– Sandro, sacerdote, è stato ucciso da Sendero Luminoso a Santa, vicino a Chimbote, nel 1991 se non ricordo male.
Un abbraccio.
Guido Sattin

«AMIGOS DE VILLA»

È una rivista inviata attraverso la posta elettronica. Arriva in 25 paesi. È nata come strumento di collegamento tra tutti coloro che conoscono Villa El Salvador, ma parla di tutto il Perù, soprattutto dei suoi problemi sociali e politici. Ad essa contribuiscono politici ed economisti peruviani, semplici cittadini e chiunque abbia qualcosa da comunicare sul paese andino, ancora schiacciato dalla dittatura fujimorista.
Guido Sattin, che a Villa ha lavorato 5 anni, ne è il responsabile. Chiunque desideri ricevere «Amigos de Villa» può rivolgersi a questo indirizzo di posta elettronica: gusatti@tin.it. Sono ben accetti anche contributi scritti, possibilmente già in lingua spagnola.
Pa.Mo.
Indirizzo della pagina Web:
http://helios.unive.it/~sattin/amigos.htm

Guido Sattin




L’apoteosi del mercato e i naufraghi dello sviluppo

Le logiche dell’accumulazione illimitata e dell’esclusione massiccia colpiscono
soprattutto il continente africano. L’Africa sopravvive grazie ad una società
veacolare (dell’«uomo della strada») e alla solidarietà neoclanica (di nuovi gruppi
legati alla tradizione). Ma che faranno i «naufraghi» degli altri continenti?
Mentre l’economia di mercato autocelebra il proprio trionfo esclusivo, le disfunzioni del sistema mondiale (disoccupazione, esclusione, povertà materiale, miseria morale) sono sempre più insopportabili. Fino alla prevedibile «grande implosione».
A meno che…

Ci sono due Afriche. L’«Africa ufficiale» è quella dell’economia mondializzata, dello stato-nazione, dei massacri, delle guerre civili (cosiddette «tribali»), delle carestie… È l’Africa che ci viene mostrata dalla televisione.
L’Africa ufficiale ha fallito completamente. Il Prodotto interno lordo (Pil) dell’Africa sub-sahariana (cioè l’Africa nera) rappresenta meno del 2 per cento del Pil mondiale, vale a dire meno del Pil del Belgio, meno delle proprietà delle 15 persone più ricche del mondo. Niente insomma. Tuttavia questo niente fa vivere circa 600 milioni di abitanti. E ciò grazie a un espediente, l’espediente di quella che io chiamo «l’altra Africa», quella del mondo dell’informale, della società veacolare che vive grazie alle relazioni.
C’è, dunque, un’altra Africa molto vivace. Certo, con molti problemi, ma anche con una incredibile gioia di vivere, con i sorrisi dei bambini, con la bellezza delle donne, con la dignità dei vecchi. L’Africa degli spiriti, della solidarietà, che si incontra poco nei centri delle metropoli e molto nei villaggi e nei sobborghi.
D’altra parte, alcuni individui, rifiutando in tutto o in parte il mondo nel quale vivono, tentano, raggruppandosi, di mettere in opera qualcos’altro: lavorare, consumare, produrre altrimenti, dentro imprese diverse, riappropriandosi anche della moneta per usarla diversamente, secondo una logica altra rispetto a quella dell’accumulazione illimitata e della esclusione massiccia dei perdenti.
Questa alternativa volontaristica rappresenta l’«altra economia».
LE SCELTE DEI «NAUFRAGHI DELLO SVILUPPO»
L’economia mondiale, nata con l’aiuto delle istituzioni di Bretton Woods (Banca mondiale, Fondo monetario internazionale, ecc.), ha escluso dalle campagne milioni e milioni di persone, distruggendo il loro modo di vita tradizionale e sopprimendo i loro mezzi di sussistenza. Queste persone sono state costrette ad ammucchiarsi nelle baraccopoli delle periferie del Terzo Mondo. Sono i «naufraghi dello sviluppo».
Condannati, nella logica dominante, a scomparire, essi non hanno altra scelta per sopravvivere che organizzarsi secondo un’altra logica. Devono inventare un altro sistema, un’altra vita.
Vedere l’altra Africa come un laboratorio del doposviluppo, significa vedere l’informale in positivo e non commisurato al paradigma dello sviluppo. Si tratta di vedere, con occhio diverso, il modo stupefacente in cui sopravvivono gli esclusi dal mondo ufficiale. Nell’informale che ci interessa, non si è in una economia. Si è in un’altra società.
L’aspetto economico dell’esistenza è dissolto, incorporato nel sociale, in particolare nelle reti complesse che strutturano le città popolari dell’Africa. Per questo il termine di «società veacolare» è più appropriato, per parlare di questa realtà, di quello di economia informale.
Tuttavia la società veacolare non è un paradiso ritrovato. Si tratta di piccole imprese o di artigiani che lavorano per la clientela popolare: fabbri che lavorano con materiale di recupero, falegnami e sarti di quartiere. E ancora: meccanici con garage all’aperto, intrecciatrici che lavorano per strada, trasportatori su camion traballanti e variopinti che vanno per grazia di Dio, procacciatori di clienti per «pullman rapidi», piccoli commercianti ambulanti che vendono alle donne di casa senza frigorifero tre cucchiai di concentrato di pomodoro, due dadi Maggi, olio senza confezione o sacchetti di latte in polvere o di Nescafé.
La società veacolare è, prima di tutto, l’insieme dei modi in cui i naufraghi dello sviluppo producono e riproducono la loro vita, al di fuori del campo ufficiale, mediante strategie relazionali. Queste strategie incorporano ogni sorta di attività economiche, ma tali attività non sono (o sono poco) professionalizzate. Gli espedienti, il bricolage, la capacità di arrangiarsi di ciascuno s’iscrivono nelle reti. I «collegati» (reliés) formano dei «grappoli» (grappes). In fondo, queste strategie, fondate su un gioco sottile di «cassetti» (tiroirs) sociali ed economici, sono paragonabili alle strategie familiari, che sono nella maggior parte dei casi le strategie delle massaie, ma adattate ad una società in cui i membri della famiglia allargata si contano a centinaia.
La società veacolare (l’oikonomia neo-clanica) è a prima vista soprattutto femminile, fondata sulla pluriattività, sul non professionalismo e sulle strategie relazionali. Anche gli artigiani della economia popolare sono forse meno professionali di quanto non pensino o non diano a vedere. Sono spesso anch’essi pluriattivi e molto dipendenti dalla loro rete sociale. Tutti sono nel doposviluppo.
Gli esclusi della grande società realizzano il miracolo della loro sopravvivenza reinventando il legame sociale e facendolo funzionare. Esclusi dalle forme canoniche della modeità, dalla cittadinanza dello stato-nazione e dalla partecipazione al mercato nazionale, essi vivono grazie alle reti di solidarietà neoclaniche.
I tratti più significativi sono la pluriattività e gli espedienti della sopravvivenza, e lo «spirito del dono».
LA PLURIATTIVITÀ
Nelle reti neoclaniche, dove le attività ufficiali sono piuttosto rare, la pluriattività richiama soprattutto la molteplicità degli espedienti e dei lavori messi in opera per cavarsela. Si ha a che fare con un’assenza di professionalità, il che non vuol dire assenza di competenza. Anche quando esiste (per via dell’appartenenza a una casta e dell’acquisizione di un apprendistato specializzato), la professione è più esibita come un alibi e una facciata che rivelatrice dell’esercizio vero e proprio di un mestiere.
A Grand Yoff, in Senegal, i falegnami sono molto poco falegnami o almeno altrettanto avicoltori o mercanti di pomodori. Organizzare i falegnami in associazione per aiutarli ad accedere a migliori condizioni di acquisto o a migliori locali, come ha fatto una Ong, è un errore. Un simile procedimento presuppone che esista un gruppo professionale «falegnami», saldato da interessi comuni. Ora, un tale gruppo non esiste. Accanto a uno o due artigiani che formano una vera piccola impresa, c’è una folla di piccoli falegnami di facciata. Questi ultimi effettuano prestazioni occasionali, ma passano gran parte del loro tempo a fare tutt’altro che il lavoro di falegnameria.
È lo stesso per la maggior parte dei mestieri esercitati in queste zone di grandi precarietà di reddito e d’insediamento. Ciascuno esercita più attività nello stesso tempo, diversifica le proprie competenze e le modifica nel tempo. Hanno inventato la flessibilità ante litteram… All’altro estremo, i non professionisti moltiplicano gli espedienti da cui traggono le loro risorse. A Douala, in Camerun, nelle inchieste sull’occupazione, molti giovani non salariati dichiarano come mestiere: débrouillards (scaltri, che sanno cavarsela…).
LA STORIA DI N’DAYE, DONNA TUTTOFARE
N’daye Sokhna, madre di famiglia a Grand Yoff, è rappresentativa di questa categoria. Migliaia di donne vivono nelle periferie di Dakar e probabilmente quasi tutte in modo simile. N’daye ha un marito ferraiolo per il cemento armato (che non lavora da vari anni) e 7 figli, la maggior parte dei quali vanno a scuola. Essa ha un chiosco, una sorta di garitta in metallo, posta sulla strada di fronte a casa sua, dove vende, tra mattina e sera, da 25 a 35 chilogrammi di pane.
Occasionalmente vende roba usata e incenso che confeziona lei stessa; prepara la zuppa; acquista pesci e fa il tonno alla maionese per la clientela del vicinato. In stagione, N’daye vende i mandarini che le spedisce il cognato o anche l’altra sposa del marito rimasta nel villaggio, della quale dice: «Essa fa come me, anche lei si arrangia…». Ancora, fa merletti che piazza presso le sue «collegate» della rete; alleva pulcini e pensa di contrarre un prestito per impiantare un allevamento di galline sulla terrazza: progetta di avee un centinaio. Di tanto in tanto, sostituisce un’amica per un mese o due come impiegata nel centro ortopedico vicino. Affitta tre camere, ma le entrate sono irregolari e i locatari insolventi si trasformano spesso in oneri supplementari perché mangiano in famiglia.
Essa partecipa a varie «tontine» (circolo di credito rotativo), una a 10 franchi al giorno per comperare giubbotti ai bambini, una a 100 franchi per acquistare tessuti e giornielli. Quella dei tessuti è una tontina organizzata da un’amica ed essa è responsabile di quella dei giornielli. È responsabile, inoltre, di un’altra tontina di venti persone a 1.000 franchi al mese. Dà poi 100 franchi al giorno per un pezzo di tessuto a un venditore ambulante toucouleur. Se un giorno non ha denaro, non dà niente.
Il venditore, dal canto suo, vive dunque della differenza, e passa le sue giornate a fare il giro dei clienti.
Questa vita di espedienti in cui si mescolano produzione di beni e servizi, commercio, scambio di doni di denaro e soprattutto di parole, è quella della maggior parte delle famiglie di Grand Yoff, e, con qualche piccola variante, della maggioranza dei naufraghi dell’Africa.
La mia inchiesta era stata fatta nel 1993, nel ’95 e nel ’96. Alla fine, N’daye Sokhna ha realizzato il suo sogno. È diventata una donna d’affari. Grazie al credito della cornoperativa delle donne e ai consigli della Ong, ha montato con le sue amiche una piccola impresa originale e decentralizzata di produzione e vendita di sciroppo di succo di bissap (hibiscus o acetosella di Guinea o ancora carcadé), succo di tamarindo e succo di zenzero. La marca è depositata per il gruppo, la confezione e l’etichettatura sono normalizzate, è assicurato un controllo tecnico per l’insieme. E… funziona! Quanto al vecchio marito, felice di questa relativa prosperità familiare, egli assicura la vendita in assenza della padrona…
In queste condizioni, i programmi di appoggio al «settore informale», basati sulla professionalizzazione, nonostante le migliori intenzioni, hanno effetti piuttosto negativi. L’essenziale della società veacolare non entra nel quadro dell’intervento. Questo non tocca pertanto i più bisognosi e favorisce invece coloro che, entrati in una logica professionale, sono già ai margini della società informale.
LO SPIRITO DEL DONO
Al di là della plurittività e della non professionalizzazione, quel che colpisce l’osservatore attento ai «grappoli» di «collegati» della società veacolare è l’importanza del tempo, della energia e delle risorse destinate ai rapporti sociali. Se si dispiega una attività intensa, sarebbe abusivo nella maggior parte dei casi parlare di vero lavoro. Gli incontri, le visite, i ricevimenti, le discussioni prendono molto tempo. Dare e prendere in prestito, donare, ricevere, aiutarsi reciprocamente, fare una ordinazione, consegnare, informarsi occupano gran parte della giornata, senza parlare del tempo dedicato alla festa, alla danza, al sogno o al gioco… «La festa, osserva Eric de Rosny, un padre gesuita un po’ stregone (Nganga) che vive a Douala, occupa un posto smisurato in proporzione ai mezzi finanziari della popolazione. Tutti gli economisti lo dicono, ma essa è appropriata ai suoi bisogni affettivi».
I compiti esecutivi sono effettuati, alla lettera, nel tempo perso. Se c’è urgenza per finire una ordinazione, si può sempre lavorare di notte o farsi aiutare da un collega non occupato. Tutte le entrate sono investite immediatamente all’interno della rete, si tratti di derrate o di denaro. Questo sia perché «è dovuto», sia perché così facendo si anticipa la necessità di prendere prestiti e perché si vuole far profittare anche i parenti. Ciascuno è cosciente del fatto che un beneficio non è mai perduto.
L’atteggiamento generale è il senso di dovere molto ai «collegati» piuttosto che quello di essere un creditore che ci rimette sempre. Se il dono funziona bene, come ha finemente osservato Jacques Godbout, ciascuno degli attori ritiene di aver ricevuto più di quel che ha dato, mentre se il sistema funziona male ciascuno pensa di aver ricevuto di meno.
Le persone di Grand Yoff parlano esse stesse di «cassetti» per disegnare questi investimenti relazionali. Questi cassetti detenuti dai «collegati» sono indifferentemente economici e sociali. Simmetricamente, in caso di bisogno (e il bisogno è qui quasi endemico), si mobiliterà il «grappolo», si attingerà a diversi cassetti. Spesso, si attingerà a un cassetto per investire in un altro. Questa situazione di creditore-debitore è comune a tutti.
A Grand Yoff, le donne utilizzano quotidianamente un proverbio locale molto immaginifico e rivelatore: «Noi seppelliamo una iena per disseppellie un’altra». Una conseguenza supplementare di questo funzionamento è che le operazioni d’investimento sono quasi sempre filtrate dal gruppo. Il debitore al quale si richiede il proprio denaro per fare un colpo, rifiuterà di restituirlo se giudica l’affare irragionevole…
«Se si investe il proprio denaro presso una persona – spiega un falegname – un giorno glielo si può richiedere». Ma colui al quale lo avete dato può avere delle ragioni per non restituirvelo, semplicemente perché fa anch’egli degli investimenti sociali. In questo caso, solleciterà i cassetti disponibili. Proprio per questo, devo disporre di più cassetti, per potee utilizzare un secondo nel caso in cui il primo non fosse disponibile. Per questo è importante avvertire i collegati in tempo e disporre di cassetti molteplici e vari. Al contrario, quando lo mettete in banca, è come se lo conservaste voi stesso. Cioè quando andate a chiederlo, non ve lo si rifiuta. Quando invece fate investimenti presso parenti o partners, essi possono dire di «no», se giudicano che quel che ne farete non sarà bene per voi. Sono dei «parenti», mentre la banca è un estraneo. Essa non si preoccupa nemmeno del modo in cui vivete e meno ancora di come spenderete il vostro denaro. Non c’è ostacolo all’uso del denaro della banca, poiché basta chiederlo per ottenerlo. Il denaro non è al sicuro in banca.
Questo «filtro» sociale è addirittura sistematico nel caso di certe tontine.
«Questi franchi che abbiamo raccolto – dichiara solennemente un tontinier nel consegnare la somma al fortunato destinatario -, cioè questi miseri soldi (ma che rappresentano tutto il nostro tesoro), noi te li diamo oggi, non perché tu faccia sparire questo denaro, ma perché noi auspichiamo che ogni franco diventi 10 franchi e che ciò possa esserti utile. E ti rinnoviamo tutti i nostri migliori auguri perché tu riesca nel tuo progetto».
Si sarà riconosciuta facilmente in questo funzionamento della società neoclanica una logica molto diversa dalla logica mercantile, quella del dono e dei rituali oblativi. Qui il legame sociale funziona sulla base dello scambio, ma lo scambio, con o senza moneta, si basa più sul dono che sul mercato. Ci si trova di fronte al triplice obbligo di donare, ricevere e restituire, così come lo analizza Marcel Mauss. La cosa centrale e fondamentale nella logica del dono è che il legame sostituisce il bene.
LE LEZIONI DELL’«ALTRA AFRICA»
La mondializzazione non è altro che l’ultima punta della «mercificazione» del mondo.
Bisogna riconoscerlo: l’economia resta misteriosa per la maggior parte delle persone. Tutti i grandi giornali dedicano a questa materia pagine specializzate, che spesso i lettori giudicano «illeggibili» e s’affrettano a sorvolare. La situazione è tanto più paradossale in quanto non è più possibile nel mondo moderno vivere fuori dell’economia. Ciò implica due cose strettamente connesse: da una parte tutti partecipano alla vita economica e, dall’altra, tutti possiedono un minimo di conoscenza di economia.
Nelle società contemporanee, non è più concepibile partecipare all’economia senza un po’ di conoscenza. Noi tutti siamo degli ingranaggi di un’immensa macchina che definisce la nostra collocazione nella società. Lavoro o disoccupazione, livello dei redditi, modalità di consumo: questi aspetti economici della vita hanno occupato uno spazio dominante e qualche volta totalizzante. La persona la si considera, innanzitutto, in base alla sua professione, al suo reddito, ai suoi consumi. E così la vita è stata ridotta sempre di più a dimensioni economiche, ed è inevitabile che ciascuno sia ossessionato dai problemi economici, prima di tutto dal reddito: stipendio, sussidio di disoccupazione o pensione.
Il capo d’azienda, come pure la casalinga, vive con gli occhi sugli indicatori economici; solamente la loro formulazione è differente: tasso d’inflazione o prezzo del burro, prelievi fiscali e sociali o assegni familiari e previdenza sociale, ecc.
Un antico proverbio francese dice che, quando si ha un martello nella testa, si vedono tutti i problemi sotto forma di chiodi. Gli uomini del nostro tempo si sono ficcati in testa un martello economico. Noi vediamo ogni problema, ogni attività, ogni evento attraverso il prisma dell’economia. Finché avremo in testa il martello economico, il nostro agitarci sarà vano, sterile e anche dannoso.
Per quanto possa essere sorprendente, le preoccupazioni economiche, come tali, avevano poco spazio nella vita degli uomini prima del Rinascimento o al di fuori dell’Occidente. Ciascuno svolgeva i suoi compiti, molto spesso di natura domestica; il cittadino greco si preoccupava di politica, l’uomo medievale di religione e l’indigeno africano di feste e rituali.
Lo sviluppo dell’economia nell’epoca modea non appare tuttavia strano, perché il progetto della modeità riposa sulla pretesa di costruire la vita sociale sulla sola base della ragione, emancipandosi dalla tradizione e dalla religione. Nella visione ereditata dall’illuminismo, l’economia non è altro che la realizzazione della ragione. Non è sorprendente che lo sviluppo dell’attività economica si presenti come l’affermazione di potenza della razionalità. Quest’ultima si manifesta in maniera congiunta nella tecnica e nell’economia; si tratta di accrescere l’efficienza economizzando al massimo i mezzi per ottenere i massimi risultati seguendo la norma del «sempre più».
Questa razionalità calcolatrice si rende assurda, divenendo fine a se stessa. La scienza economica, dal canto suo, non è altro che una ruminazione vaniloqua e ossessiva del principio di razionalità quantitativa. L’apparente diffusione planetaria della modeità (per mezzo dell’imperialismo, prima militare e politico, poi sempre di più culturale) ha fatto trionfare, di fatto, l’economia come pratica e come immaginario mondiali.
IL TRIONFO DELLE «LEGGI DEL MERCATO»
Dopo il crollo dei paesi dell’Europa dell’Est e il fallimento del progetto socialista, l’economia di mercato ha celebrato un trionfo esclusivo. Questo successo appare come la miglior riuscita dell’economia e degli economisti.
Le sacrosante leggi del mercato si impongono verso e contro tutti, rovesciando la burocrazia più totalitaria, distruggendo insieme le sinistre mostruosità del gulag e le speranze riposte dalle masse dei diseredati nell’utopia più generosa della storia. La società aperta sembra stravincere sui suoi nemici per mettere il punto finale alla storia con l’apoteosi del mercato.
Nondimeno, le promesse dell’economia di pace e prosperità per tutti e per ciascuno appaiono oggi più lontane che mai. Più l’immaginario della grande società del mercato mondiale e pacifico diviene planetario, più la discordia, la miseria e l’esclusione sembrano guadagnare terreno.
Le disfunzioni di ogni genere nel sistema mondiale – disoccupazione, esclusione, disastri ecologici, povertà materiale e più ancora miseria morale – sono e saranno sempre più insopportabili. Nell’attesa della prevedibile «grande implosione», esse favoriscono l’emergere di contro-dogmi: integralismi etnici, fondamentalismi religiosi, più o meno intrecciati con gli strascichi ideologici del passato e con la forza del risentimento. Tuttavia, queste reazioni non possono mettere seriamente in pericolo il dominio del «pensiero unico», poiché non attaccano le sue radici, le radici dell’economicismo e dell’utilitarismo. Solo se si rimette in discussione l’impero del razionale si può forse aprire la via ad un pensiero meno intollerante e che potrebbe definirsi pluralista.
DECOLONIZZARE IL NOSTRO IMMAGINARIO
Che fare di fronte alla mondializzazione, all’onnimercificazione del mondo ed al trionfo planetario del mercato unico? La distanza tra l’ampiezza del problema da risolvere e la modestia dei rimedi individuabili a breve termine, dipende soprattutto dalla pregnanza delle convinzioni che consentono al sistema di reggersi sulle basi del suo immaginario collettivo.
Bisogna cominciare a vedere altrimenti le cose, affinché esse possano diventare altre (e si riescano a concepire soluzioni originali e innovative). In altri termini, bisognerebbe decolonizzare il nostro immaginario per trasformare veramente il mondo, prima che il cambiamento del mondo ci condanni nel dolore.
Si tratta di rimuovere il martello economico dalla testa. Si tratta di mettere al centro della vita umana significati diversi dall’espansione della produzione e del consumo. Dovremmo volere una società che non abbia al centro (o come unici) i valori economici, dove l’economia sia rimessa al suo posto, come semplice mezzo e non come fine ultimo, dove si rinunci alla folle corsa verso consumi sempre più alti. Ciò non solo è necessario per evitare la distruzione definitiva dell’ambiente terrestre, ma anche e soprattutto per uscire dalla miseria psichica e morale dei contemporanei.
Quest’altra società (dove si vivrebbe altrimenti) può essere concepita in due modi: può esserci imposta (come nel caso dell’altra Africa), ma può anche essere scelta. In altri termini, si può essere condannati a farla, in modo più o meno inconsapevole, e si può tentare di costruirla consapevolmente.
Questa seconda forma dell’altra società non è completamente separata dalla prima, e questo per due ragioni. In primo luogo, perché l’auto-organizzazione degli esclusi del Sud non è (non è mai) del tutto spontanea. Ci sono anche aspirazioni, progetti, modelli, utopie che informano più o meno le combinazioni della sopravvivenza informale. In secondo luogo, perché gli «alternativi» del Nord non sempre hanno scelta. Si tratta spesso di esclusi, derelitti, disoccupati, cassaintegrati, candidati potenziali alla disoccupazione o, più semplicemente, esclusi per disgusto… Ci sono dunque dei punti di contatto tra le due forme che possono e devono fecondarsi reciprocamente.
RISPOSTE LOCALI ALLA SFIDA GLOBALE
Oggi si contano imprese cornoperative autogestite, comunità neo-rurali, associazioni di commercio equo e solidale, banche etiche, settore non profit, Lets e Sels (sistemi di scambio locali), bilanci di giustizia, autorganizzazione degli esclusi del Sud. Queste esperienze ci interessano soprattutto come forme di resistenza e dissidenza nei confronti del processo di affermazione dell’onnimercantizzazione del mondo.
Il caso dei Sels è particolarmente interessante. I sistemi di scambio locale sono associazioni, i cui membri scambiano beni e servizi di ogni natura fuori dal mercato e in base a una «moneta» appositamente creata e valida all’interno del gruppo. I prodotti scambiati vanno dai lavori di riparazione domestica o di automobili a servizi di babysitting, passando per corsi di lingua, massaggi, foitura di ortaggi, prestito di utensili, ecc. Liste regolarmente aggiornate e gestite da un elaboratore centralizzano le offerte e le domande e permettono di conoscere la posizione dei crediti e dei debiti di ognuno. Così, persone escluse dal lavoro (le cui competenze sono state respinte dal sistema di mercato) possono ritrovare forme di attività e di riconoscimento sociale.
Si tratta di una risposta locale a una sfida globale. Come dicono i fondatori del Sel dell’Ariege: «In qualche modo, noi rispondiamo a problemi mondiali con una soluzione locale». Un Sel stimola la produzione locale e risponde a bisogni locali. Permette di rivitalizzare la società locale senza apporto di capitali estei.
Aiuta a prendere coscienza dei problemi locali, a cercare soluzioni pratiche, concrete e realistiche. Riduce le importazioni, gli sprechi e l’inquinamento conseguente ai trasporti. Soprattutto, i Sels debbono fare i conti col problema fondamentale dell’economia teorica e pratica: il valore, il rapporto di scambio. È riposta la questione del rapporto di scambio giusto. Come nella società veacolare africana, le «chiacchiere» giocano un ruolo insostituibile. Lo affermano tutti i partecipanti: la parola è essenziale. Con una piccola forzatura, si potrebbe dire che i Sels reinventano la democrazia di base e costituiscono un apprendistato alla cittadinanza. Senza chiasso, gli «informali» dell’altra Africa non fanno nulla di diverso.
NON CHIUDERSI IN TRINCEA
L’esperienza africana della società veacolare può servire da lezione anche per tutti coloro che sono impegnati in imprese alternative.
Il pericolo della maggior parte delle iniziative è quello di raccogliersi dentro la trincea che ha loro permesso di nascere, invece di lavorare al proprio rafforzamento.
L’impresa alternativa vive o sopravvive in un ambiente che è (e deve essere) differente dagli ambiti del mercato. È quest’ambiente che bisogna definire, proteggere, mantenere, rafforzare e sviluppare. Piuttosto che battersi disperatamente per conservare la trincea in seno al mercato mondiale, è meglio militare per allargare lo spazio al margine dell’economia globalizzata.
Il confronto violento e il conflitto accanito, così caratteristici della razionalità occidentale, non sono l’universo in cui può o deve muoversi l’organizzazione alternativa. Riuscire a imporre i prodotti del commercio equo e solidale e dell’agricoltura biologica sugli scaffali dei supermercati, a fianco ai prodotti «iniqui» o «anti-biologici» non è un obiettivo in sé e per sé.
È più importante assicurarsi il carattere equo del complesso della filiera, dal trasporto fino alla commercializzazione: il che esclude insieme il supermercato ed allarga il tessuto portatore. L’estensione e l’approfondimento del campo delle complicità è il segreto della riuscita e deve essere la prima preoccupazione di questa impresa. I consumatori (consumatori cittadini) – come dicono le associazioni di consumo critico – non sono se non un elemento d’un insieme che dovrebbe collegare Sels, produttori alternativi, neo-rurali, movimenti associativi impegnati in questo itinerario. È questa coerenza che rappresenta una vera alternativa al sistema.
«In sintesi – scrive Tonino Pea nel suo libro Fair trade. La sfida etica al mercato mondiale – si può dire che la sfida per il fair trade consiste non nel far entrare nel circuito della moda i prodotti del Sud del mondo, stravolgendone il patrimonio culturale, ma nel far diventare un “bisogno” la scelta etica del consumatore (…). Ciò significa che è necessario pensare più in termini d’innovazione sociale che di innovazione di prodotto (…). Il cercare di adeguarsi alle cosiddette leggi del mercato capitalistico, di inseguie i capricci, di usae acriticamente gli strumenti – come la pubblicità e il marketing – può dare qualche risultato in termini quantitativi nel breve periodo, ma alla fine risulta perdente».
Si tratta di cornordinare la protesta sociale con la protesta ecologica, con la solidarietà verso gli esclusi del Nord e del Sud, con tutte le iniziative associative per articolare resistenza e dissidenza e per sboccare, alla fine, in una società autonoma.
È così che, all’inverso di Penelope, si ritesse di notte il tessuto sociale che la mondializzazione disfa durante il giorno…

SOPRAVVIVENZA, RESISTENZA, DISSIDENZA
Siamo al centro di un triangolo i cui tre vertici sono: la sopravvivenza, la resistenza e la dissidenza. Non dobbiamo dimenticare né privilegiare nessuna di queste tre dimensioni.
Prima di tutto, dobbiamo sopravvivere. È ovvio, senza ciò nessuna resistenza né dissidenza sarebbe possibile. Sopravvivere significa adattarsi al mondo nel quale viviamo, ma non significa che dobbiamo approvarlo né aiutarlo a funzionare, al di là della necessità. Possiamo accettare dei compromessi nell’azione concreta e quotidiana, ma dobbiamo respingere le compromissioni nel pensiero. Già questa è una forma di resistenza: la resistenza mentale all’impresa del «lavaggio del cervello» da parte dei media e il dominio devastatore del «pensiero unico».
Dunque, dobbiamo resistere. Se pensiamo che siamo imbarcati in una megamacchina che fila a gran velocità senza pilota e, quindi, condannata a fracassarsi contro un muro, resistere significa, allora, tentare di frenare e provare a cambiare la direzione. Come, in verità, nessuno lo sa. Dobbiamo anche pensare di poter lasciare il bolide e saltare al momento opportuno. È questa la dissidenza.
Se a breve termine la strategia della sopravvivenza è la più importante, a termine medio è la strategia della resistenza che diviene più importante e, a lungo termine, è quella della dissidenza.

Serge Latouche




La gamba moderata è troppo corta

In politica è meglio essere «moderati» o «coraggiosi»? Il cattolicesimo sociale
coincide con il «berlusconismo»? Da Lilliput, dal profeta Geremia e dal cardinal
Martini possono venire insegnamenti importanti. La realtà è difficile, complessa,
travolgente, ma va affrontata. È come l’atteggiamento di Davide con Golia:
Davide osò sfidare Golia, non c’erano i presupposti, l’esito sembrava fatale
e scontato e invece… L’alternativa può essere trovata: ricerca contro pensiero unico, cooperazione contro competitività, sobrietà contro spreco…

Che cosa significa «osare il futuro»? Qual è la traduzione di un verbo così ambizioso? Quali possibili strategie oggi possiamo utilizzare per raggiungere lo scopo? Ci sono tre strategie, a cui occorre richiamarsi: la strategia lillipuziana, la strategia di Geremia (dal libro del profeta omonimo) e la strategia portata avanti dal cardinal Martini.
Noi abbiamo bisogno di «un fare alternativo» e di «un pensare alternativo», perché l’approccio integrale è sempre teorico e pratico insieme. Che serve una persona che non capisce quello che sta facendo? Allora ci vuole un nuovo pensiero. E per un nuovo pensiero c’è bisogno di svellere e distruggere per edificare e piantare. Perché, se tu non attraversi il momento della «pax destruens», tu non crei niente.
DECOLONIZZARE E DELEGITTIMARE
Il professor Latouche parla sempre di «decolonizzare l’immaginario».
Che vuol dire? Significa questo: noi che vogliamo cambiare il mondo, che diamo vita alla «scuola per l’alternativa», noi siamo colonizzati nel nostro sistema cognitivo, nel nostro cervello. Il nostro modo di ragionare, che crediamo spontaneo, in realtà non ci appartiene. È quello che l’opinione dominante, la narrazione economica dominante (oggi neo-liberista) ci fa pensare. Poiché occorre fare i conti con questo pensiero, dobbiamo svellere e distruggere, se vogliamo edificare e piantare.
Non possiamo correre subito a creare il nuovo. Perché, se prima non ci liberiamo del vecchio, il nuovo non sarà altro che un prolungamento del presente. Questo significa «decolonizzare l’immaginario».
Si prendano i libri di Riccardo Petrella. Qual è il ritornello continuamente ripetuto? «Delegittimare». Delegittimare la narrazione economica dominante, perché se non si mostrano i suoi principi antropologici (inaccettabili e pseudo-scientifici!), allora quelle affermazioni e quelle dottrine avranno la meglio nell’opinione pubblica.
Noi dobbiamo fare questo lavoro critico di pensiero. Dobbiamo tornare a pensare. L’azione è fondamentale, ma se non la si accompagna con una produzione originaria e critica di pensiero, non si va molto lontano. Prima o poi si viene risucchiati. Noi non dobbiamo avere paura di realizzare forme di «violenza ermeneutica», cioè dobbiamo dire: «Su questo non ci stiamo e vi combattiamo fino in fondo. Certo vi rispettiamo, perché siamo non violenti. Ma noi stiamo cercando con il nostro impegno di costruire una società che è diversa da quella che volete voi, e ve lo diciamo in faccia. Ce la mettiamo tutta per svelare la carica di ideologie che intravvediamo nelle cose che voi affermate».
Però, neanche questo basta più.
IL CARDINAL MARTINI E IL «BERLUSCONISMO»
Molti di noi fanno riferimento al cristianesimo, al vangelo, alla dottrina sociale della chiesa, al cattolicesimo sociale. Qui occorre introdurre la «strategia ambrosiana».
Con tale termine io intendo la pastorale sociale che il cardinale Martini, nei suoi discorsi di S. Ambrogio agli inizi di dicembre di ogni anno, ormai ha maturato.
Basta con il moderatismo dei cattolici in politica, basta con l’accidia politica e l’ignavia dei conservatori. Questo è un passaggio importante: noi abbiamo persone che fanno banca etica, commercio solidale, adozioni a distanza, frequentano ambienti missionari ecc. e poi magari non riescono a distinguere il cattolicesimo sociale dal «berlusconismo».
Qui il problema è: io non ti dico chi devi votare, fai quello che ti pare; però ti metto in guardia su cosa c’è dietro una possibilità e dietro un’altra. E ti spiego perché il cardinal Martini dice basta al moderatismo dei cattolici.
Chi sono i cattolici nell’uno o nell’altro schieramento politico? «La gamba moderata della politica» viene risposto. «Io la gamba moderata?» dovrebbe domandarsi un cattolico che fa riferimento al magistero sociale, che vuole vivere il giubileo.
Oggi il magistero sociale della chiesa (soprattutto quello della Sollicitudo rei socialis e della Centesimus annus) e i discorsi del papa sono il serbatornio di un discorso alternativo, sono una cisterna di acqua sorgiva. Solo che se non ci sono cristiani e cattolici che in politica si comportano coerentemente con questi principi…
In politica bisogna essere coraggiosi, perché, come dice il cardinal Martini, il pensiero sociale della chiesa è portatore di iniziative e proposte d’avanguardia per la società di oggi. E comunque il vangelo nella storia ha sempre una eccedenza di senso e noi non possiamo sterilizzarlo facendoci considerare dei moderati. Se noi accetteremo il discorso del moderatismo, allora saremo neutralizzati, non daremo più fastidio a nessuno. A tutto ciò occorre ribellarsi.
È un discorso politico, ma la politica serve. Altrimenti il cambiamento è solo un cambiamento simbolico.
«OSARE IL FUTURO»
Il verbo «osare» ha almeno tre significati.
Nella liturgia si usa una bella espressione: «Osiamo dire: Padre nostro…». Il primo significato di «osare» è questo che la liturgia ci regala. Significa prendersi una libertà, essere impertinenti: «non siamo degni, ma osiamo dire». È una impertinenza esigente.
Il secondo significato di «osare il futuro» è operare una forzatura, affrettare il parto della storia, anticipare. La storia porta in grembo qualcosa, prima o poi lo darà alla luce. Osare il futuro significa: facciamo presto. Questa cosa nuova (che deve nascere) nasca ora. C’è un atteggiamento messianico in chi osa il futuro: egli vuole che quanto appare come salvifico anticipi i tempi, spingendo per una accelerazione della storia.
Un terzo significato è accettare la sfida. Osare il futuro vuol dire: la realtà è difficile, complessa, sembra che voglia anche travolgerci, ma noi accettiamo la prova. È l’atteggiamento di Davide con Golia: Davide osò sfidare Golia. Non c’erano i presupposti, l’esito sembrava fatale e scontato, e invece…
Quindi, «osare il futuro» significa buttarsi, rischiare, sperimentare cose nuove. Significa contemporaneamente resistere, reagire, misurarsi con le nuove sfide che ci interpellano.
Un ultimo significato di osare il futuro è quello di sfondare il presente. Cioè aprire dei varchi, innovare, essere generativi. Mentre prima l’innovazione veniva da fuori, adesso siamo noi a produrla. Pertanto creare alternative, essere capaci di futuro, essere portatori di idee, valori, modelli di sviluppo, di «altro» insomma (purché sostenibile, compatibile, dolce).
LA STRATEGIA LILLIPUZIANA
Non basta, ovviamente, questo pensare in grande. Innanzitutto è importante fare. Ecco perché una delle prime strategie d’azione è la «strategia lillipuziana».
In Italia chi ci ha informati su questa strategia sono stati Alex Zanotelli e Francesco Gesualdi. Entrambi fanno riferimento a un testo di due studiosi americani, Jeremy Brecher e Tim Costello (Contro il capitale globale, Feltrinelli 1996).
Partendo appunto da I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, i due economisti ci fanno capire che ciascuno di noi può diventare protagonista di un cambiamento, perché non è vero che non abbiamo più poteri.
Noi avremo ancora dei piccoli poteri, se sapremo metterli insieme, riusciremo a resistere alla minaccia del «Gulliver globale», che in questo momento sta appiattendo, sta schiacciando tutto e tutti.
La globalizzazione, la new economy ci hanno portato internet. Di chi è internet? Chi può usare internet? È uno strumento ambiguo. Ci possono andare i pedofili, come pure i cittadini o i «lillipuziani». L’ambiguità di internet è l’ambiguità del «Gulliver globale».
I LIVELLI DELL’AZIONE
La strategia lillipuziana va articolata in almeno tre livelli: personale, associativo e politico-istituzionale.
Partiamo dal concetto di «economia leggera». Che c’è dentro all’economia leggera? Ci sono comportamenti economici alternativi. Se io voglio, già oggi ho a disposizione tante scelte alternative: dipende da me. Io come cittadino che risparmia, consuma, viaggia, produce rifiuti, dispone di tempo libero, ho a disposizione delle alternative.
Ma questo è soltanto il primo livello della strategia lillipuziana. Guai se tutto finisse qui, guai se noi curassimo unicamente la diffusione orizzontale dei comportamenti alternativi! Guai ad accontentarsi di 300 botteghe nel mondo. Perché, se avee 300, a livello di risultati effettivi finali, è come avee 100, che cosa è cambiato? Bisogna dare efficacia al potere dirompente che hanno questi comportamenti.
Ognuno di noi, se ci crede fino in fondo, deve passare dal primo livello della strategia lillipuziana (il livello della cittadinanza attiva personale) al secondo livello (il livello della cittadinanza attiva associativa). È la democrazia associativa, nella quale ci sono gruppi, parrocchie, movimenti, comunità, soggetti collettivi. Lì noi possiamo compiere gesti molto più forti, molto più efficaci di quelli che possiamo fare da soli o con la famiglia.
Facciamo qualche esempio. Il movimento dei focolari ha dato vita a esperienze di economia di comunione: è partito da un concetto spirituale (la comunione trinitaria) per fare delle proposte alle piccole aziende, diffuse in tutto il mondo, di questo movimento.
Che cosa accade in una azienda che pratica l’economia di comunione? Che l’utile viene tripartito: un terzo viene utilizzato nell’azienda, un terzo per fare formazione, un terzo viene donato. Donato gratuitamente ad altri, perché si crede nella dinamica del dono.
Scelte spirituali tradotte in comportamenti economici: così sono nate la Banca etica, il marchio Transfer, la Global March, l’associazione Chiama l’Africa, la campagna Sdebitarsi o quella della riduzione del debito estero della Cei e così via. Quando le associazioni si mettono insieme danno vita a realtà molto più incisive di quelle che si possono fare singolarmente.
C’è, infine, il terzo livello della strategia lillipuziana. Dobbiamo raggiungerlo, perché senza di esso i cambiamenti precedenti non saranno strutturali e politici, ma solamente simbolici.
Se il cittadino lillipuziano ha fatto tanto per contrastare la Nike (che produce le sue scarpe attraverso lo sfruttamento del lavoro minorile), egli deve fare tutto questo non per lavarsi la coscienza e sentirsi più buono, ma per modificare leggi e costumi.
Questo passaggio richiede il coinvolgimento di altri soggetti: un sindacato internazionale, un organismo internazionale, forze politiche. Altrimenti il cittadino lillipuziano non può farcela. Soltanto così si arriva alle clausole sociali, alla Tobin Tax, al superamento dei paradisi fiscali o a qualche altro cambiamento sostanziale.
Noi dobbiamo curare tutti e tre i livelli della strategia lillipuziana: dobbiamo agire con i nostri comportamenti personali e famigliari; dobbiamo portare la strategia lillipuziana nelle associazioni, parrocchie, collettivi, nel sociale dove operiamo (diffusione orizzontale); dobbiamo poi puntare all’impatto politico verticale.
Per questo dobbiamo tornare ad agire con tutta la società civile e con i suoi organismi. Ai sindacati, per esempio, dobbiamo far capire che hanno commesso tanti errori, ma che essi sono una risorsa preziosa per la democrazia e per questi cambiamenti. Perché, finché percepiremo i sindacati come nostri primi nemici, non faremo tanta strada.
Bisogna cambiare gli attuali meccanismi istituzionali, cristallizzati nelle loro concezioni sociali e politiche. Occorre mandare a casa i sostenitori di Bretton Wood. Bisogna dar vita ad una nuova generazione di istituzioni che oggi non esistono. In sostanza, è una agenda di lavoro per tutto il ventunesimo secolo e, quindi, ci vorrà del tempo. Anche per questo occorre far crescere la sensibilità politica rispetto a queste problematiche. Lo sottolineo per coloro che credono di poter fare le rivoluzioni senza i livelli intermedi del cambiamento. E, alla fine, queste persone rimangono astratte o troppo pretenziose.
STILI DI VITA, SOBRIETÀ, LETIZIA
Nella strategia lillipuziana, ci siamo dentro noi, con i nostri stili di vita. Con questo termine mi riferisco a qualcosa di molto profondo, perché uno stile di vita non s’improvvisa. Lo stile di vita è il risultato di una opzione fondamentale, che si rende visibile nella quotidianità; lo stile di vita di una persona è ciò che la caratterizza in modo permanente e profondo. Lo stile di vita quando è vero, quando è coerente, rende visibile la nostra etica.
Come altri fanno scelte improntate al profitto, alla dinamica del mercato, alla competitività, così il cittadino lillipuziano fa scelte improntate al bene comune e alla cultura della sobrietà. Questa è la nuova virtù sociale alla quale formarci, che è l’antica virtù cardinale della temperanza. Ma che è la temperanza? È scomparsa dal vocabolario.
Oggi la sobrietà può tornare. Essa deve essere, come oggi si dice, una sobrietà felice; non deve essere una cosa sofferente. Perché il barbone non è l’esempio di un uomo sobrio? Perché gli mancano troppe cose per essere un uomo sobrio.
Gli manca, in primis, la scelta; quasi sempre una persona non sceglie di fare il barbone. Al barbone manca la letizia. Se lui avesse fatto una scelta personale, trasmetterebbe la letizia. Ma al barbone mancherebbe ancora qualcosa. Che cosa? Il buon gusto, l’eleganza della semplicità, l’estetica della sobrietà. Una persona sobria non deve essere trasandata, arruffata, dimessa. L’obiettivo da perseguire è diverso. La sobrietà deve essere caratterizzata bene dalla leggerezza della vita, che sa fare a meno di zavorre, sprechi, cose ridondanti, inutili. Liberiamoci da tutto ciò: cerchiamo l’essenzialità.
La sobrietà deve anche essere un modo di giudicare e guardare il mondo con lo sguardo dei poveri. Perché è da essi che possiamo imparare qualcosa che ha a che fare con questa virtù. Insomma, secondo me è importante la dimensione francescana della sobrietà.
La sobrietà non deve essere equivocata con la casistica di quante cose dobbiamo avere o non avere: numero di paia di scarpe, televisore, motorino, milioni da spendere per le vacanze, e così via. È importante la qualità della sobrietà che uno vive e ciò è suggerito dalla coscienza del cittadino lillipuziano.
La sobrietà deve anche liberarsi dalla deriva pauperistica: non è la rinuncia a quello che riteniamo essenziale per uno stile di vita dignitoso. Possiamo avere delle cose, basta condividerle con altri, perché chi non ha abbia di più. La sobrietà è un vivere meglio, consumando meglio.
Detto questo, passiamo alla seconda strategia, quella che è centrata sul pensare alternativo. Abbiamo bisogno di un pensiero alternativo nel tempo del pensiero unico. Noi abbiamo bisogno di un altro logos, rispetto al logos trionfante in questo momento nella società. Perché noi dobbiamo svellerare, distruggere per edificare, piantare mentalità nuove.
Che vuol dire un pensare alternativo? È un «pensare alla Geremia». Significa introdurre antidoti cognitivi all’interno dell’organismo sociale e dell’opinione pubblica in cui viviamo. Antidoti cognitivi. Ossia là, dove vediamo pensatori, esperienze, opere, che risultano essere veramente alternative, noi dobbiamo dare informazione e fare formazione. Personalmente non mi stanco mai di fare riferimento alla cultura del dono e della gratuità, portata avanti da un gruppo di economisti a livello internazionale riuniti nel Maus, «movimento degli antiutilitaristi nelle scienze sociali».
I loro studi sul dono sono fondamentali in tempi di idolatria del mercato. Sono antidoti che tu lanci, che tu semini, perché le persone (che sentono parlare solo di certe logiche e dinamiche) abbiano la possibilità di sapere che non c’è solo mercato.
Occorre parlare di cooperazione come antidoto alla competitività: è questo che fa Riccardo Petrella. Se si va a svelare quale immagine di uomo e di società c’è sotto la competitività, cosa si scopre?
Dietro il concetto di competitività c’è un pensiero che suona così: homo homini lupus; ed anche mors tua, vita mea. È l’antropologia dello sbranamento, perché cresce e si fa strada quello che ruba fette di mercato all’altro. Ma un mondo con questi fondamenti non ha futuro. Quindi, dobbiamo temperare la competitività con il principio di cooperazione, condivisione, sussidiarietà, solidarietà, responsabilità.
DAL PENSIERO UNICO AL PENSIERO PLURALE
La responsabilità è anche avere l’etica del limite. Mi autolimito, non perché qualcuno me lo impone, ma perché ho capito che autolimitarmi significa aiutare l’altro a crescere.
Ci sono dei pensatori che aiutano ad avere questi pensieri. Ad esempio, Simon Veil che dice: quando Dio ha creato il mondo ha decreato se stesso, si è fatto piccolo, si è limitato, perché il mondo fosse, perché noi fossimo. Non è vero che il limite equivale sempre al fallimento o all’impotenza. Nel limite c’è una capacità generativa: fa crescere la nostra società.
E ancora va ricordato il principio di responsabilità e il «pensiero plurale». Se noi vogliamo combattere il pensiero unico, abbiamo bisogno di declinare tante parole, tante categorie di pensiero al plurale, per rompere il processo di omologazione e uniformità.
Oggi chi aiuta a pensare al plurale? Demoren, ad esempio, e tutti i morenisti. Demoren dice: basta con l’universo, occorre il pluriverso, perché c’è una pluralità dentro l’universo. Non «uni» ma «pluri» perché siamo dentro le culture delle differenze e lo scontro delle civiltà. Un pluriverso, appunto.
Questi sono titoli cognitivi, che serviranno quando, un domani, al cittadino lillipuziano si proporrà l’universo come la cosa più grande, quella che abbraccia tutto. In quell’occasione, egli potrà tirare fuori il proprio antidoto che suggerisce un concetto diverso: attento, dice, che forse l’universo non è un universo. Noi abbiamo bisogno di prendere alcuni concetti e di rivederli al plurale; l’«epistemologia della complessità», dicono quelli che parlano difficile.
Abbiamo bisogno di riscoprire un nuovo modo di pensare, altrimenti rimaniamo tutti prigionieri delle opinioni dominanti. Soprattutto, dobbiamo riscoprire alcune parole: la communitas, per esempio, è irrinunciabile. Ma con quale significato? Nella parola c’è il cum dell’insieme e il munus, ha un duplice significato: munus come compito, ufficio, responsabilità, mansione e munus come dono. Pertanto, far parte di una comunità, avere il senso di appartenenza ad una comunità, dovrebbe comportare due cose: chi ne fa parte ha un compito da svolgere ed è dentro una ragnatela di reciprocità, di scambi, di doni. Allora è bello appartenere ad una comunità! Ma chi sente l’appartenenza comunitaria in questi termini?
Oggi altre parole importanti vanno reinterpretate. Il libro La cittadinanza multiculturale (Il Mulino, Bologna 1999) ha introdotto il concetto di cittadinanza multiculturale. Come facciamo, ci si chiede nel volume, ad usare ancora i vecchi criteri per definire una persona cittadino, in un mondo con 184 stati nazionali, 5 mila gruppi etnici e 600 gruppi linguistici? Per non parlare della altissima mobilità umana: gente che si sposta da un paese all’altro tutti i giorni. In questo mondo stiamo lavorando con un concetto anacronistico di cittadinanza, ancora basato sullo jus soli e lo jus sanguinis. Che possono servire nella mutata realtà di oggi?
Abbiamo bisogno di una nuova civiltà giuridica, altrimenti ci troveremo con 200 mila bambini nati in Italia, figli di coppie miste o multietniche, ma che non sono cittadini italiani, perché bisogna aspettare 8-10 anni prima di diventarlo. Intanto vanno nelle scuole italiane, ma non hanno la qualifica di cittadini. È colpa loro? No, siamo noi che dobbiamo rinnovare le nostre istituzioni, le nostre culture.
CATTOLICI, SUPERATE IL MODERATISMO
Strategia lillipuziana, strategia di Geremia; svellere e distruggere per edificare e piantare; delegittimare, decolonizzare; inventare, creare un nuovo pensiero. Ma per la realtà cattolica, c’è un altro lavoro da fare: occorre ripensare la via dell’impegno politico nel nostro tempo per arrivare al superamento del moderatismo.
I cattolici non possono più accettare di essere la gamba moderata o neutrale o super partes rispetto agli schieramenti. Bisogna fare riferimento ad un tesoro: è il tesoro della tradizione del cattolicesimo sociale, che è intriso di solidarietà. Non ci sono dubbi: un cristiano che s’impegni, in politica non sta da tutte le parti. Sta soprattutto dalla parte che lavora per aumentare solidarietà, sussidiarietà, responsabilità, giustizia, equità, nella nostra società.
Dobbiamo osare il futuro, perché c’è una eccedenza di senso del vangelo nella storia. Noi dobbiamo lasciarla trasparire questa eccedenza di senso, che è la porta più scomoda e più profetica che abbiamo a disposizione.
Guardiamo a ciò che sta accadendo in questo anno santo. La società non ce la fa a recepire le proposte del giubileo: lasciate riposare la terra, le macchine della produzione, i lavoratori. Pensiamo al debito, alla campagna sul debito o al solenne mea culpa del papa. Questa società non ce la fa proprio a capire. Ci sono dei valori veramente profetici che sono propri del pensiero sociale cristiano.
Noi, cristiani, dobbiamo capire che per molto tempo siamo rimasti dentro la «trappola dell’illuminismo». Che cos’è? È credere quello che ci lasciano credere. Cioè: la ragione pensa, la fede crede. Bella fregatura! Perché, se la ragione pensa e pensa all’organizzazione della società e della politica e se la fede crede, crede soltanto, al credente rimane unicamente il privato. Se prevale il bisogno di intimizzare la fede, cioè se la fede non è più capace di rendersi visibile, di incidere, allora siamo spacciati. Diventiamo dei moderati e gli altri neanche se ne accorgono che esistiamo.
I cattolici potevano essere anche moderati fino a quando erano una maggioranza nella società naturale intercristiana e avevano un partito politico di maggioranza relativa. Ma, se sei in minoranza nella società e nella politica, dire pure che sei un moderato è proprio un autogol. Per cui o i cattolici si svestono di questo involucro che li sterilizza, oppure politicamente sono destinati a divenire irrilevanti e insignificanti.
L’IMMAGINE E LA MISERIA DELLE PAROLE
Questo è il tentativo che stiamo facendo: conciliare etica ed economia, non in astratto, ma concretamente. Il mercato fa schifo? Le banche anche? Il consumo è ingiusto? Proviamo allora un altro mercato, un’altra banca, un altro consumo. Ma come fare nella società dell’immagine e dello spettacolo?
L’immagine può essere un problema, perché viviamo in una società iconizzata e in una politica mediatizzata. Si pensi allo spot di Emma Bonino, confezionato da Oliviero Toscani. Sono 4 minuti in cui la Bonino non dice una parola. Solo mimica facciale, smorfie, apertura e chiusura delle palpebre degli occhi e così via. Ma non dice niente. È efficacissimo in questa società dell’immagine e dello spettacolo.
È facile rendersi conto della miseria delle parole nella nostra società. Da tempo noi viviamo nella società della chiacchiera, di un blob continuo. Le parole si sono logorate; le parole per avere un significato hanno bisogno di essere ri-autenticate dalla forza del gesto.
Se vogliamo che le cose che pensiamo raggiungano le persone, dobbiamo saper usare il linguaggio (nuovo e pericoloso) delle immagini e della pubblicità, senza per altro trascurare la possibilità di sperimentare linguaggi alternativi.

Antonio Nanni




Una merce strategica

Nell’era della globalizzazione è mutato il rapporto tra informazione e realtà.
Il giornalista rischia di divenire strumento di propaganda per progetti altrui.
Il lettore-spettatore rischia di farsi travolgere, perché «la verità è semplice, ma esige un minimo di riflessione elementare». Si tratta di comunicazione o informazione?
Come difendersi dai censori post-modei che agiscono secondo l’assioma
«molta informazione, nessuna informazione»?

La formula «villaggio globale» rese celebre Macluhan. Ebbene, quel villaggio può oggi dirsi sostanzialmente realizzato. Almeno per quanto concee l’economia, la finanza, le problematiche ambientali ed ecologiche, l’informazione. Ma, oltre a creare il villaggio globale, l’informazione nel mercato planetario è diventata una merce strategica: chi la controlla (e ne controlla il processo di produzione e distribuzione) controlla il mondo. Anzi, costruisce il mondo.
Nietzsche sosteneva che «i fatti non esistono: esistono solo interpretazioni». Lo stesso può ormai dirsi del mondo, della realtà, sostituiti dalla realtà virtuale costruita dall’informazione.
In un recente saggio Jean Baudrillard sostiene che la cosa in sé – il mondo, la realtà – è stata cancellata dal fenomeno, cioè dall’apparenza (in greco fenomeno significa appunto ciò che appare). Il mondo della tecnica della comunicazione (tivù, computer, telematica, realtà virtuale) non ha ridotto l’uomo a cosa, a ingranaggio del Grande Apparato (vedere Heidegger, Jonas, ecc.), quanto piuttosto ha eliminato le cose sostituendole con le loro simulazioni.
Il Grande Fratello, secondo Baudrillard, è così l’immagine e tutto si riduce a immateriale, scambiabile. E se tutto è informazione, niente informa più davvero.
Scrive Baudrillard: «All’apice delle performances tecnologiche rimane l’impressione irresistibile che qualcosa ci sfugga. Non perché l’avremmo perso (il reale?), ma per il fatto che non siamo più in grado di vederlo: non siamo più noi a prevalere sul mondo, ma è il mondo a prevalere su di noi. Non siamo più noi a pensare l’oggetto, è l’oggetto che ci pensa. Vivevamo sotto il segno dell’oggetto perduto, ormai è l’oggetto che ci perde».

I MECCANISMI DI MASCHERAMENTO
Un saggio di Paolo Rumiz (Maschere per un massacro, Editori Riuniti 1996) e la rilettura che ne ha offerto Roberto Cavalieri in chiave africana (Balcani d’Africa, Edizioni Gruppo Abele 1997) testimoniano il mutato rapporto tra informazione e realtà nel tempo della globalizzazione e del delitto perfetto.
Il caso della guerra nell’ex-Jugoslavia è lì a confermare il tutto. Un immenso imbroglio costruito dal male (che, come scrive Rumiz, «è sempre più razionale, più guardingo, addirittura più coerente del bene») non ha accecato solo le sue vittime ma anche i testimoni più estei. Testimoni caduti nella trappola dell’effetto cloroformio della televisione, che ha portato schiere di giornalisti a rincorrere barbari stereotipi «astutamente coniati dagli stessi belligeranti».
La stessa logica si è ripetuta in Burundi, in Rwanda e nell’ex Zaire, come dimostra l’ultimo lavoro di Roberto Cavalieri.
Secondo Rumiz, i media si sono ridotti quasi sempre a svolgere non il ruolo di «informatori» quanto piuttosto quello di «comunicatori» al soldo dei belligeranti e delle loro logiche. Ma, se muta la relazione tra «fatti-eventi» ed informazione, deve cambiare anche il mestiere del giornalista chiamato a non farsi irretire, a non divenire megafono o strumento inconsapevole di propaganda per progetti altrui. Ma come è possibile tutto ciò? La risposta più convincente la fornisce Claudio Magris: «Trascrivere l’invisibilità del mondo e i suoi giganteschi meccanismi di mascheramento ed illusionismo».
E il lettore? Anche lui è sfidato: l’informazione deve essere trattata con enorme attenzione.
Ancora Magris: «Per difenderci occorre commuoverci davanti alle vittime tragicamente reali senza lasciarci trascinare da quelle emozioni, progettate da qualcuno a tavolino per farci travolgere dalla loro onda. Occorrono insieme pietà e freddezza e anzitutto l’umile fatica di andare a conoscere le cose, di studiare la realtà. La verità è semplice, ma esige un minimo di riflessione elementare».
TROPPE NOTIZIE, NESSUNA NOTIZIA
Quali dovrebbero essere le doti del lettore post-moderno? Pietà e freddezza, l’umile fatica di andare a conoscere le cose, la fatica dello studio, la capacità di trascrivere l’invisibilità del mondo e i giganteschi meccanismi di mascheramento e illusionismo.
Ciò che manca oggi non sono le notizie (comunicazioni e/o informazioni), ma il loro «smascheramento», la loro ricostruzione in quadri interpretativi critici.
«Molta informazione, nessuna informazione»: è un assioma fondamentale della sociologia della comunicazione. L’imperativo principe di ogni buon «censore» post-moderno, che si traduce nel non nascondere mai alcuna notizia (ma nel foirla in un cocktail di verità e falsità), oltre che ad annacquarla con miriadi di altre notizie.
In altre parole, assistiamo oggi ad un eccesso di informazione cui corrisponde un deficit di interpretazione: a fronte della presenza massiccia di informazione (anche in tempo reale), assistiamo ad una assenza di griglie interpretative capaci di connettere i dati informativi (che sempre più non solo parlano della realtà ma la costruiscono). I dati foiscono visioni del mondo capaci di collegarsi a concrete azioni di mutamento della realtà.
Si può anche asserire che oggi ci troviamo di fronte ad un tragico scollamento tra realtà e gruppi «eco/solidal/pacifisti»: questi utilizzano slogan, pianificano campagne, progettano interventi, in modo spesso vecchio, incapace di incidere sulla realtà, perché la realtà è cambiata e loro non se ne sono accorti. Costoro, come scrive il filosofo Galimberti, «conducono una lotta non contro la mancanza di senso di chi è costretto a vivere in quell’universo di mezzi senza scopo, che è tipica dell’età della tecnica, ma contro il sentimento di chi avverte tale mancanza di senso. Costoro sono colpevoli di non inventarselo, quasi che il problema del nostro tempo non sia il vuoto di senso, ma il sentimento che lo avverte».
Come dire, autoreferenziali. E per di più in ritardo di qualche decennio, se non secolo.
L’INFORMAZIONE NELLE CRISI INTERNAZIONALI
Le cose non cambiano se proviamo a mutare angolo visuale. Prendiamo il caso, sempre più frequente, di emergenze umanitarie (Somalia, Bosnia, Rwanda, Zaire, Albania).
Queste crisi «esistono-per-noi» solo perché passano attraverso il tubo catodico della tivù (che detta i tempi e gli argomenti dei quotidiani del giorno dopo).
È il caso, terribile, del Rwanda nell’estate 1994. Tutto iniziò il 6 aprile, ma il circo dell’informazione si mise in moto più tardi, tra il 4 ed il 20 luglio. Prima si ebbe un «genocidio senza immagini» (la definizione è di Le Monde Diplomatique). Poi ci fu la ressa, facilitata dal fatto che ai giornalisti si offriva in un solo luogo e in un solo punto il massimo concentrato possibile di stereotipi sull’Africa e sugli africani.
La tivù «costruì» il caso Rwanda. Mosse le cancellerie, costrinse i politici a far finta di far qualcosa. Questi, non sapendo bene cosa fare (o sapendolo benissimo? propendo per questa seconda ipotesi), delegarono il tutto alle agenzie umanitarie (medici senza frontiere, croce rossa, agenzie inteazionali, ong di ogni genere e natura) provvedendo a rifoirle di alcuni denari.
Queste agenzie, esperte di emergenze umanitarie, da un lato furono soddisfatte del loro nuovo ruolo, dall’altro ben presto si accorsero di dover supplire l’assenza della politica senza avee i mezzi (riducendosi a mettere cerotti su persone comunque destinate a morire). Infine, riflettendo sulla prima parola della propria autodefinizione (emergenze), esse presero atto della necessità di tener desta l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale, pena il prosciugarsi dei fondi destinati dai politici mondiali all’emergenza. Da qui la necessità di premere l’acceleratore sul settore comunicazione (non informazione).
Le più importanti organizzazioni umanitarie si sono così dotate di schiere di registi, cameramen, giornalisti, esperti in comunicazione (oltre che bandiere, stendardi, stemmi e quant’altro possa aiutare il riconoscimento durante una trasmissione). Ed è giusto che sia così: la loro possibilità di continuare l’opera umanitaria dipende non tanto dalle capacità di medici, infermieri, logisti e volontari vari, quanto piuttosto dalla capacità dei propri comunicatori di tener desta l’attenzione su un dramma internazionale. Se tale tensione (anche emotiva) viene meno, il dramma-per-noi (non il dramma-in-sé, ovviamente) viene meno.
E gli agenti dell’umanitario tolgono le tende correndo in fretta e furia verso altri drammi, altri dolori, altre morti (drammi anch’essi resi rilevanti-per-noi dalla tivù).
L’ALIBI PER LE NOSTRE COSCIENZE
Tuttavia è necessario andare ancora più a fondo. Se è vero che l’umanitario ha sostituito la cooperazione internazionale allo sviluppo (obiettivo ormai dato per perso dalle cancellerie di tutto il mondo), non è altrettanto vero che l’umanitario ha sostituito la politica.
È vero piuttosto che la politica usa l’umanitario a proprio scopo.
La politica spesso si riduce a pura finzione dietro cui si nasconde, almeno a livello internazionale, la potente mano dell’economia. La quale ha già dato, per dirla con l’Unicef, «il prezzo alla vita degli zairesi», secondo lo slogan «Nello Zaire la vita vale zero. Dagli tu un prezzo». Conta lo Zaire utile (e sono diamanti, oro, uranio, ecc.): tutto il resto – sono uomini, donne, bambini – non ha valore. Vale zero.
Ma, se è così, l’umanitario serve solo a fornire un alibi alle nostre coscienze. E l’informazione è utile perché, dopo aver attirato l’attenzione e costretto all’intervento, diffonde l’alibi tranquillizzando tutti. Permette ad ognuno di addormentarsi in pace la sera: ognuno ha fatto qualcosa nei confronti del dramma «X»: chi ha comunicato, chi ha pianto e firmato appelli, chi ha spedito cartoline, chi ha scritto articoli, chi ha mosso il politico che ha mosso l’umanitario, chi ha sganciato offerte, chi le ha utilizzate sul campo, chi ha diffuso immagini del «sereno che torna», chi ha ricevuto gli aiuti, chi ha trafficato in armi, chi ha aperto nuove piste per la droga o la prostituzione o lo sfruttamento delle miniere, chi ha scritto risoluzioni e persino chi ha organizzato spedizioni militari di peace-keeping o ponti aerei…
Insomma tutta l’umanità si trova accomunata da una generale sensazione di buonismo che nasconde e non sa rivelare la realtà dei fatti.
E la realtà è questa: è avvenuto il passaggio di proprietà di un territorio o di una società (sia esso lo Zaire utile o l’Albania utile) da una mano all’altra, da una economia all’altra (spesso entrambe sporche, sostanzialmente mafiose).
QUALE MALE, QUALE BENE
Come definire tutto ciò? Connivenza o stupidità. O imbecillità: «Il cosiddetto bene è ingenuo e cieco fino all’imbecillità». Forse ha ragione Rumiz: il male non acceca solo le vittime ma anche i testimoni estei. E poi, il male è più razionale, più guardingo, più coerente del bene.
Scrive Baudrillard: «Tutte le forme di discriminazione maschilista, razzistica, etnica o culturale derivano dalla stessa disaffezione profonda e da un lutto collettivo, quello di un’alterità defunta su uno sfondo di indifferenza generale… La stessa indifferenza può portare a comportamenti esattamente opposti. Il razzismo cerca disperatamente l’altro sotto forma di male da combattere. L’aiuto umanitario lo cerca altrettanto disperatamente sotto forma di vittime da soccorrere. L’idealizzazione entra in gioco nel bene o nel male. Il capro espiatorio non è più colui su cui ci si accanisce, è colui sul quale si piange. Ma si tratta comunque di un capro espiatorio. Ed è sempre lo stesso».

Aluisi Tosolini




“Uno starniero non è mai felice”

Un architetto e una prostituta, entrambi «stranieri», ma con risultati apparentemente opposti: il primo inserito nella società, la seconda ai margini. Sono i protagonisti del romanzo di Younis Tawfik, uno scrittore iracheno che da anni vive a Torino, città multietnica con molti problemi.

Straniero come estraneo, diverso, sradicato: come immigrato. Una persona dotata di un corpo dai tratti che talvolta differiscono da quelli a cui siamo abituati, ma anche di un’anima, a volte piena di rabbia o di malinconia. Straniero come portatore di una cultura «altra», non sempre e necessariamente stridente con la nostra. Immigrato, ma non sempre criminale, indesiderato occupante del territorio italiano, bensì lavoratore disposto a svolgere quelle mansioni pesanti, pericolose e spesso malpagate, che noi scartiamo ormai da qualche decennio.
Straniero, come il titolo del bellissimo libro dello scrittore iracheno, ma naturalizzato torinese, Younis Tawfik (La straniera, Bompiani Editore, lire 20.000), che in circa 200 pagine racconta, con disarmante drammaticità, due spaccati di vita: quella del protagonista, un architetto mediorientale, dalla carriera ben riuscita e inserito nella società torinese, e quella di Amina, una sfortunata ragazza marocchina piena di sogni e speranze, finita sul marciapiede. I due personaggi si incontrano una notte, ed iniziano a narrare, in prima persona e in alternanza, la propria storia, soffermandosi sui ricordi dell’infanzia, della famiglia e della patria lontana.
L’amore presto s’insinua tra i due, tormentato e conflittuale come le loro stesse esistenze, e li porta verso un tragico destino.

Younis Tawfik, come è nata in te l’idea di questo romanzo?
«Dal mio incontro casuale, in una birreria di Torino, con una prostituta marocchina. Mi trovavo in compagnia di amici, così l’ho invitata al nostro tavolo e lei, spontaneamente, mi ha raccontato la sua storia, che è in parte simile a quella da me narrata nel libro. Sentendola parlare, infatti, decisi di mettermi a scrivere. Passarono tre anni, e un amico mi parlò di una ragazza marocchina che lavorava in una macelleria, morta di tumore al cervello. Volevano raccogliere dei soldi per mandare il corpo in patria. Ecco, allora, che decisi di inserire e fondere con la storia di Amina, la prostituta, quella di Mina, la macellaia, che, con la sua tragica fine, sarebbe divenuta strumento di riscatto e redenzione per l’altra».
Il protagonista, l’architetto, rispecchia il prototipo dell’immigrato colto, di successo, che ad un certo punto entra in crisi. Ce ne puoi parlare?
«Lui rappresenta l’immigrato che vive in Italia da tanti anni e che si sente completamente inserito nella società, o almeno così crede: è colto, educato, sposato e separato, con un buon lavoro. Ha fatto di tutto per farsi accettare da una società benestante e borghese come quella torinese. Ad un certo punto, però, incontra Amina, la prostituta, una ragazza ai margini: improvvisamente, la sua memoria sopita, il suo senso d’identità perduto si risvegliano.
Ora riesce a provare nuovamente sensazioni, emozioni, che aveva rimosso. Capisce che non era poi così “integrato”, e che l’integrazione stessa non significa annullare, dimenticare le proprie radici. Con e grazie ad Amina inizia il percorso a ritroso del recupero della memoria: lei rappresenta la Shahrazade delle Mille e una notte, quel raccontare storie l’una nell’altra, che l’aiutano a mantenersi in vita e a far vivere. Attraverso di lei il protagonista riscopre colori, profumi, desideri, ambienti che gli appartenevano, ma che aveva dimenticato. Questa donna, tuttavia, diviene anche la terra traditrice, la prostituta (la madre terra che lo ha costretto ad andarsene via). Quando la perde, scopre il vuoto, capisce di essere un immigrato, quello straniero che aveva dimenticato di essere».
Il romanzo si inserisce bene all’interno dello stile narrativo arabo: prosa e poesia mescolate insieme, trama ad incastro (per intenderci, il racconto nel racconto), uso abbondante della memoria. Tuttavia, è un’opera italiana, scritta nella nostra lingua, che contiene descrizioni e situazioni a noi familiari. Insomma, gli stranieri che tu descrivi li abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni.
Possiamo dunque parlare già di letteratura araba in lingua italiana, come avviene, ad esempio, per quella araba in lingua francese o inglese?
«Direi di sì. Ho usato la lingua italiana come strumento di espressione: strumento che, più volte, mi è stato stretto, e che mi rendeva prigioniero di un vocabolo in cui non riuscivo pienamente a comunicare ciò che desideravo. Tuttavia volevo dimostrare che, in Italia, gli intellettuali arabi possono considerarsi allo stesso livello di quelli anglofoni o francofoni, anche perché ritengo che, quella italiana, sia una bellissima lingua, che ben s’adatta a raccontare storie nello stile narrativo arabo».
Perché hai deciso di raccontare agli italiani una storia di immigrazione?
«Il mio obiettivo era quello di fornire uno strumento per capire la psicologia degli immigrati, gente dotata di un corpo, una mente e un cuore, che ride, soffre, piange o si dispera. Per me è una grande soddisfazione sentir dire da un italiano: “Finalmente sono riuscito a guardare uno straniero per quello che è: una persona come tutte le altre, con il proprio bagaglio di sogni e speranze, di tragedie quotidiane, ecc. Prima li consideravo poco più di ombre, senza identità, senza peso, senza emozioni”. Già, essi sono anime in “trasferta”, spesso loro malgrado, costrette dalla miseria, dalle guerre, dalle persecuzioni a lasciare la propria famiglia, la propria terra, e a vivere all’estero una vita difficile, a volte drammatica e densa di solitudine e malinconia».
Quale messaggio vorresti comunicare agli italiani?
«Vorrei poter dire loro che non tutti gli immigrati sono criminali o gente che ruba il lavoro, perché, nella maggior parte dei casi, svolgono quelle mansioni che nessuno vuole più fare. Gli immigrati costituiscono una ricchezza per l’Italia. Se viene data loro la possibilità, sono in grado di contribuire alla nascita di una società multietnica: si tratta di un processo mondiale che, in era di globalizzazione, è divenuto ormai irreversibile.
Fino alla fine degli anni ’60 erano gli italiani ad emigrare nel nord Europa o in America, ora sono loro ad accogliere gli stranieri. Tuttavia, le leggi sull’immigrazione non giocano a favore degli immigrati, e, nello stesso tempo, non aiutano lo stato a combattere la criminalità. Quest’ultima sanatoria è servita solo per schedarli, e i permessi di soggiorno tardano ad arrivare, creando grossi problemi a chi un lavoro l’aveva trovato o potrebbe trovarlo.
Hanno espulso ingiustamente onesti padri di famiglia, che mantenevano figli e genitori al loro paese, oppure hanno diviso famiglie rimpatriando i genitori e mandando in affidamento i figli presso famiglie italiane; da un altro canto, però, non riescono a liberarsi dei grandi spacciatori, dei delinquenti o di chi si arricchisce con il racket della prostituzione.
Paradossalmente, spacciatori, ladri e prostitute hanno i soldi necessari per ottenere il permesso di soggiorno, altri onesti lavoratori no. Quante prostitute sono state regolarizzate perché hanno pagato ditte italiane o famiglie che hanno dichiarato fittiziamente di averle assunte come operaie o come colf?».
Perché hai scelto la parola «straniera» come titolo del tuo romanzo?
«Perché l’altra, “extracomunitaria”, comunemente usata, è spregiativa e discriminatoria. “Straniero” indica l’estraneità, il disagio provocato dal vivere in un certo ambiente. Ed è quello che io ho descritto: il disagio di esistere, l’essere un po’ estranei in patria e stranieri in Italia».

Angela Lano




“Ero forestiero e mi avete ospitato”

I «mediatori interculturali» del Trentino

Albania, Croazia, Serbia, Macedonia, Tunisia, Marocco, Egitto, Siria, Iran, Cina, Brasile, Colombia, Libano, Polonia. Per un intero anno, in una scuola del piccolo Trentino si sono ritrovate persone provenienti da tutti questi paesi. L’obiettivo era concreto e meritorio: formare dei «mediatori interculturali» che sappiano affrontare i problemi della società multietnica e multiculturale. Un tipo di società che in Italia, come già nel resto del mondo occidentale, è divenuta realtà quotidiana.
Ecco come descrive l’esperienza la nostra collaboratrice serba.

Finalmente possiamo dare una buona notizia in tema di immigrazione: la provincia di Trento ha costruito un «ponte» nuovo. Un bellissimo ponte, ma non di pietra o di ferro: un ponte fatto di persone. Persone molto diverse fra di loro: diverso colore della pelle, diversa nazionalità, diversa religione, diversa mentalità e abitudini, diverso carattere. Ognuno con la propria storia. Queste persone, come elementi di una nuova costruzione, si sono ritrovate per uno scopo comune: mettere la propria esperienza di «forestiero» al servizio degli altri.
Gli stranieri in Italia sono una realtà dei nostri tempi. Ora abbiamo due possibilità: che la loro presenza sia fonte di arricchimento (materiale, culturale e spirituale) per il nostro paese, oppure fonte di conflitti, soprattutto futuri.
Tutto dipende dalle nostre scelte. Dai semi che gettiamo oggi cresceranno frutti per i nostri figli. La provincia di Trento ha gettato seme buono. Ha introdotto nella nostra società la figura del «mediatore interculturale», una figura nuova che personifica la speranza in un futuro migliore.
A dispetto del pessimismo sempre più diffuso, la presenza del «mediatore interculturale» nella nostra società ci dà una possibilità in più: quella di sfruttare le nostre diversità per incrementare la qualità del nostro paese.

Chi è il «mediatore interculturale»? È una persona con un livello culturale superiore o universitario proveniente da un paese di forte emigrazione. È una persona che vive da molti anni in Italia e parla bene l’idioma. Conosce la cultura italiana, la mentalità della gente ed ha legami affettivi solidi con il paese che l’ha accolto.
Dall’altra parte, il mediatore porta con se molte conoscenze sul paese dal quale proviene. Queste conoscenze possono rendersi utili per risolvere in modo positivo e costruttivo i problemi che si presenteranno in una società multinazionale e multiculturale come anche l’Italia è diventata.
La provincia di Trento ha organizzato un corso per «mediatori interculturali» allo scopo di inserirli nel mondo della scuola. Il loro lavoro dovrà rivolgersi indistintamente ai bambini italiani e a quelli stranieri al fine di facilitare la classe nel passaggio dal gruppo multiculturale al gruppo interculturale. Tratto fondamentale del suo lavoro è la collaborazione con gli insegnanti.
Gli obiettivi del lavoro del mediatore dovrebbero essere plurimi. In primo luogo, facilitare l’interazione del gruppo classe, prestando particolare attenzione allo studente straniero per incoraggiarlo e sostenerlo nell’intrecciare relazioni con coetanei e insegnanti e per favorire l’inserimento nel nuovo sistema scolastico.
Il mediatore agevolerà la comunicazione tra scuola e famiglia. Collaborerà inoltre con gli insegnanti per creare condizioni e occasioni di scambio interculturale all’interno del gruppo classe e della scuola, facilitando la comunicazione, il gioco comune e le forme di aiuto reciproco nell’apprendimento dei contenuti.
Uno dei punti qualificanti del loro intervento dovrebbe consistere nel valorizzare tutte le culture presenti in classe, stimolando il gruppo a cogliere diversità e affinità.

Quando ci siamo incontrati per la prima volta (era l’8 dicembre del 1999), ci guardavamo incuriositi. Credo che nessuno di noi si era mai trovato prima in un gruppo così variopinto.
Ricordo che i nostri «tutors», Leila e Gabriel, ci hanno insegnato un gioco di presentazione molto interessante, che ha subito stuzzicato la curiosità della classe.
Metà di noi ha posto in un contenitore un bigliettino con il proprio nome. Ognuno degli altri ha poi pescato uno di questi biglietti. Si sono così formate una quindicina di coppie che, in disparte, si sono conosciute. Alla fine, ogni persona ha presentato al gruppo il proprio compagno o compagna. Con contentezza abbiamo imparato i nomi gli uni degli altri e la provenienza di ognuno. Quel primo incontro per me è forse stato il più bello e interessante.
Da dicembre a maggio ci siamo incontrati il sabato e la domenica, nonché in alcuni pomeriggi durante la settimana. È stato molto impegnativo, ma anche estremamente interessante!
Durante il corso abbiamo studiato come funziona la scuola italiana; ci hanno dato nozioni generali di storia contemporanea e dei fenomeni migratori; abbiamo conosciuto alcuni programmi e progetti di tipo interculturale.
In altre occasioni, abbiamo fatto lezione noi studenti. Ognuno ha cercato di presentare la propria cultura e i sistemi scolastici dei paesi d’origine. Una particolare importanza è stata data all’ascolto, cercando di sviluppare tale capacità in ognuno di noi. Abbiamo cercato di approfondire i rapporti con persone di altre culture d’immigrazione presenti in questo paese e di sviluppare la capacità di relativizzare il punto di vista.
Il prossimo anno scolastico noi tutti saremo sparsi nelle scuole trentine per svolgere i nostri compiti di mediatori. Saremo noi a facilitare l’inserimento dei bambini stranieri nelle scuole trentine e a insegnare ai ragazzi una disciplina nuova, l’intercultura, indispensabile per la formazione corretta dei nostri figli che vivranno in una società fortemente multietnica e multiculturale.

Snezana Petrovic




Tra angeli e diavoli

«Tesi e antitesi»

La legge Turco-Napolitano, la proposta Berlusconi-Bossi, la delinquenza, i Centri di permanenza, il lavoro,
la religione, la passata emigrazione italiana.
Gli immigrati rappresentano un terreno di scontro
tra le forze politiche e gli stessi cittadini. Comunque la si pensi, di immigrazione si continuerà a parlare.
Perché è un fenomeno di portata storica.
In questo articolo tentiamo di dare una risposta alle «tesi» più diffuse.

TESI: «La legge Turco-Napolitano è troppo permissiva. Gli irregolari effettivamente scoperti ed espulsi sono pochissimi. Gli scafisti poi la fanno sempre franca».

ANTITESI:
I dati del ministero dell’Inteo indicano in circa 90.000 unità le espulsioni comminate dal 27 marzo 1998, data di entrata in vigore della legge Turco-Napolitano (n. 40/98).
Il numero delle espulsioni è, quindi, notevolmente aumentato rispetto alla situazione precedente, quando vigeva la legge Martelli.
I dati smentiscono l’assunto secondo cui la legge in questione sarebbe troppo permissiva.
Inoltre, va aggiunto che solo gli strumenti repressivi previsti dalla legge hanno fino ad ora trovato attuazione. Non altrettanto può dirsi per quelli, pure esistenti, volti a favorire l’integrazione degli immigrati, quali – ad esempio – la carta di soggiorno.

TESI: «La proposta di legge di Berlusconi e Bossi è giusta perché tutela gli italiani dai pericoli dell’immigrazione incontrollata».

ANTITESI:
La proposta di legge in questione ha tutti i caratteri propri della c.d. «legge manifesto», ovverosia di un provvedimento che annuncia dei principi che appaiono forti e risolutori, senza tuttavia preoccuparsi di come possano essere realizzati. È pertanto una proposta demagogica.
Basti un esempio. Non è sufficiente parlare di «espulsione immediata» se non si spiega come si provvede all’identificazione della persona da espellere.
Invero, tutti coloro i quali ritengono che l’immigrazione sia un pericolo, non potranno che giornire all’idea, sbandierata, dell’espulsione immediata del clandestino. Ma costoro non sanno, perché viene loro dolosamente taciuto, che l’espulsione con accompagnamento immediato tramite la forza pubblica è già prevista dalla legge attuale. E nemmeno sanno che le difficoltà si incontrano nella fase di esecuzione dell’espulsione con il paese verso il quale l’espellendo è inviato. Infatti, se costui non è identificato con certezza o tramite passaporto (che spesso non ha) o tramite rappresentanza consolare straniera in Italia, il paese di destinazione non lo accetta e la polizia italiana è costretta a riportarselo indietro.
Con l’ulteriore danno di un viaggio aereo di andata-ritorno inutile, il cui costo grava esclusivamente sul contribuente italiano.
Ecco, allora, che le strade da percorrere per dare effettività alle espulsioni sono altre da quelle indicate nella proposta del Polo e passano attraverso la stipula di accordi diplomatici di riammissione con i paesi da cui provengono i maggiori flussi migratori.

TESI: «Gli extracomunitari hanno fatto incrementare la delinquenza. Non solo nel campo della prostituzione e della droga, ma anche in quello delle rapine. L’alto numero di extracomunitari detenuti nelle carceri italiane è una conferma di questa affermazione».

ANTITESI:
L’alto numero di detenuti extracomunitari non è indice esclusivo di aumento della criminalità. Il dato può infatti essere letto come indice della efficacia dell’apparato repressivo nonché della oggettiva difficoltà, per i detenuti extracomunitari, di accedere alle misure alternative alla detenzione.
Il che significa che al delinquente straniero è riservato un trattamento sanzionatorio e penitenziario peggiore di quello riservato agli italiani.

TESI: «Gli extracomunitari tolgono lavoro agli italiani. Non è vero che fanno soltanto i lavori che noi non vogliamo più. Il loro contributo alla ricchezza nazionale è inferiore al costo che lo stato deve accollarsi».

ANTITESI:
La tesi è contraddetta dalle affermazioni delle organizzazioni confindustriali che indicavano in almeno 100.000 unità il fabbisogno di manodopera straniera per il 2000.
Tali organizzazioni hanno pertanto accolto con parziale favore il recente decreto di programmazione dei flussi di ingresso dei lavoratori extracomunitari nel territorio dello Stato per l’anno 2000 che indica in 63.000 unità la quota per l’anno in corso.
Richieste di lavoratori stranieri per ricoprire posti di lavoro a tempo indeterminato sono state avanzate dai settori siderurgico e meccanico, mentre altri settori produttivi nazionali, quali turistico-alberghiero, agricolo ed edilizio hanno avanzato richiesta di manodopera straniera per lo svolgimento di lavori a tempo determinato e stagionale.
La legge della domanda e dell’offerta che regola il mercato del lavoro, contraddice pertanto la tesi in oggetto.

TESI: «La metà degli extracomunitari sono musulmani. L’islam è una religione antagonista e intollerante verso i fedeli delle altre religioni. Perché l’Italia cattolica dovrebbe aprirsi a persone provenienti da Stati che non hanno rispetto per i non-islamici?».

ANTITESI:
Alle soglie del nuovo millennio, sia pur faticosamente, anche l’Italia si è laicizzata: parlare di «Italia cattolica» pare pertanto fuori luogo. Ciò premesso, non è che l’Italia debba aprirsi ai musulmani: costoro, per ragioni economiche, sociali, storiche e geografiche, arrivano nel nostro paese senza che all’ «Italia cattolica» sia data la possibilità di aprirsi o di chiudersi. Di fronte ai fenomeni storici di grande portata, e tra questi vi è quello migratorio, non è data possibilità di scelta. Potrà piacere o meno, ma è così.
E allora il problema diventa capire se si vuol fare della diversità – anche religiosa – un’occasione positiva di confronto, di dialogo e di crescita, ovvero se si ritiene più intelligente e «cristiano» erigere improbabili steccati con l’unica conseguenza di aumentare la xenofobia, la conflittualità ed il disagio.

TESI: «I “Centri di permanenza temporanea” sono uno strumento indispensabile per poter fronteggiare gli illegali».

ANTITESI:
Secondo i dati ufficiali del ministero dell’Inteo, gli stranieri transitati nei «Centri di permanenza temporanea» nel periodo 1.1.1999-31.12.1999 sono stati 8.847. Di questi ne sono stati effettivamente rimpatriati solo 3.893, per una percentuale pari al 44%. Orbene, se si considera che di questo 44% molti sono successivamente rientrati clandestinamente, ne consegue che detti Centri non sono così utili come si vuol fare intendere, posto che servono ad allontanare meno della metà dei reclusi.
È importante tener presente, inoltre, che 3.379 trattenuti – pari al 38,19% degli ospiti – sono stati dimessi perché non si è riusciti ad identificarli.
Il che conferma che il vero scoglio per l’esecuzione delle espulsioni è la difficoltà di identificazione degli espellendi, rispetto alla quale l’istituzione dei Centri di permanenza è poco influente.
Infine, poiché buona parte dei 3.893 trattenuti effettivamente e-spulsi erano persone appartenenti a paesi con i quali l’Italia ha sottoscritto accordi di riammissione (Tunisia, Albania e Marocco) è evidente che questa è la via da seguire.

TESI: «I sostenitori (centri sociali e gruppi di estrema sinistra) di una “immigrazione libera” sono oltranzisti, che non hanno a cuore i problemi del Terzo Mondo, ma mirano soltanto alla destabilizzazione dello Stato».

ANTITESI:
In linea di principio non può non far riflettere il fatto che, nell’era della globalizzazione, circolino liberamente merci e capitali ma non le persone.
In concreto, se da un lato l’immigrazione incontrollata non è oggi realisticamente proponibile, è altrettanto vero che a fronte della dimensione strutturale e non meramente congiunturale del fenomeno migratorio, nonché della posizione e della conformazione geografica dell’Italia che rende praticamente incontrollabili le nostre coste (a meno di una costosissima ed altrettanto improponibile militarizzazione del territorio costiero) è difficilissimo frenare l’immigrazione clandestina con strumenti “militari”. Ed infatti non ci si riesce.
Prova ne sia che tra il 1986 ed il 1998 vi sono state quattro sanatorie: in media una ogni tre anni. Il che significa, al di là delle ipocrisie e della propaganda politica, che la sanatoria è stato l’unico vero strumento di controllo e governo dell’immigrazione utilizzato dai vari governi che si sono succeduti in Italia dal 1986 ad oggi.
Tant’è vero che la stragrande maggioranza degli stranieri regolari ed inseriti nel tessuto sociale e produttivo del nostro paese si sono “regolarizzati” tramite le periodiche sanatorie.
Prendere atto di questo dato oggettivo, significa rendersi conto che una politica razionale dell’immigrazione non può che essere quella di rendere competitivo l’ingresso legale a discapito di quello illegale. E ciò è possibile solo attraverso una corretta politica dei flussi migratori nel senso di determinare le quote annuali di ingresso in misura rilevante.
Solo rendendo più appetibile l’ingresso legale si potrà sperare di arrivare ad una tendenziale diminuzione dei flussi migratori clandestini e, conseguentemente, dei lauti guadagni degli scafisti.
La realizzazione di una politica antiproibizionista in materia migratoria comporterebbe dunque un maggior controllo del territorio da parte dello Stato, il che non è affatto un obiettivo destabilizzante.
TESI: «Comparare l’emigrazione italiana di inizio ‘900 con l’immigrazione extracomunitaria attuale è un falso storico. Gli italiani emigravano in paesi che avevano un “sentire comune” al nostro».

ANTITESI:
La storia ci racconta i grandi movimenti migratori che si sono succeduti nei secoli. La loro comparazione è obiettivamente ardua, in ragione della diversità dei contesti socio-economici di riferimento.
Certo è che, oggi, l’Europa occidentale appare, ai popoli del Sud e dell’Est del mondo, quella che, agli occhi dei nostri nonni di inizio ’900, era la «America».

di Guido Savio

Guido Savio




E voi che ne pensate?

GLI ISCRITTI STRANIERI

Fatos Nanushi, dall’Albania: «Questo corso mi piace molto per l’insegnamento alla convivenza di culture diverse e per l’amicizia che sta nascendo fra di noi».

Rashid Saafi, dalla Tunisia: «Questo corso è un’occasione non solo per imparare ad integrarsi nella società in cui viviamo, ma anche per integrarsi fra di noi, capirci e conoscere altre culture».

Ali Bacha, dalla Tunisia: «Questo corso ci ha dato la possibilità di migliorare le nostre capacità comunicative ed arricchire il nostro bagaglio culturale, affrontando varie problematiche che riguardano soprattutto la convivenza, e la presenza dei bambini immigrati nelle scuole italiane. La cosa più importante secondo me è la possibilità di conoscerci meglio, rispettando le nostre diversità».

Danuta Wrona, dalla Polonia: «È da sottolineare l’atmosfera del corso: tante culture, tante religioni, tanti modi di pensare diversi, però siamo un gruppo molto integrato, molto unito. Ci ritroviamo ogni volta con piacere e curiosità di conoscerci. La diversità ci unisce, è questo che poi dovremo trasmettere ai bambini fin da piccoli.
L’interculturalità (che già esiste) dobbiamo viverla in modo sempre più positivo. Il nostro gruppo è esempio e conferma che questo è possibile. Sono contenta di fae parte».

Moktar Chioua, dal Marocco: «Il corso ci ha fornito una vasta preparazione di base per quanto riguarda l’ordinamento scolastico italiano. Questo è un arricchimento per la scuola e per noi è un confronto tra esperienze e persone di varie parti del mondo».

Mohamed Abdel Kader, dall’Egitto: «Quello che mi è piaciuto di più di questo corso è il contatto diretto con altre culture, con le persone di paesi di cui avevo sentivo soltanto parlare. È stato molto positivo conoscere le realtà degli altri paesi dai protagonisti».

Cecilia Lotero Chaux, dalla Colombia: «Sono felice di aver potuto conoscere tutte queste persone e condividere con loro esperienze diverse dalle mie».

Olabi Rawaa, dalla Siria: «L’interculturalità è l’aspetto sano della multietnicità. Perciò è giusto che sia presente nella scuola dell’obbligo la mediazione interculturale».

Shkelqim Ibrahimi, dall’Albania: «Mi dispiace molto per quelli che non sono riusciti a partecipare a questo corso. In buona amicizia, sto imparando tante cose che mi serviranno per il futuro».

Vida Bardiyaz, dall’Iran: «Mi piacciono i corsisti e la relazione creata fra di noi. Sono interessanti gli argomenti trattati e spero che mi piacerà anche il progetto del tirocinio».

Djurdjica Macura, dalla Croazia: «Frequentando questo corso ho imparato molto delle altre nazioni, soprattutto i loro modi di vita. Sono molto contenta perché ho avuto l’opportunità di conoscere mentalità diverse. Spero che questa nostra esperienza sarà utile non solo per noi, ma anche per gli italiani. Vorrei ringraziare i nostri “tutors” e tutti i relatori per la disponibilità, ma soprattutto gli organizzatori di questo corso».

Lu Xuemei, dalla Cina: «Mi è piaciuta soprattutto l’amicizia che abbiamo creato, e poi la metodologia adottata per apprendimento dei contenuti. È molto stimolante la conoscenza delle altre culture».

Ana Lucia Dos Santos Wilson, dal Brasile: «Mi è piaciuto moltissimo ascoltare le esperienze di tutte queste persone provenienti da culture diverse. Ho ricevuto molto da questa esperienza. È ammirevole la disponibilità e modo di lavorare dei nostri “professori”».

Husni Darwiche, dal Libano: «Il corso di mediatore interculturale è una iniziativa unica che sarà perfezionata con gli anni. Permette di migliorare ognuno di noi. Quest’esperienza ci arricchisce lo spirito, la fantasia e la cultura. Perciò siamo molto contenti di aver seguito questo corso».

Ana Maria Avila, dall’Argentina: «Le aspettative che avevo di questo corso sono state addirittura superate. Corsi come questo sono molto importanti per creare una società cosmopolita».

Naima El Moutaquakil, dal Marocco: «Per me questo corso è stato molto importante perché ho stretto nuove amicizie. E perché mi ha arricchito con nuove conoscenze di culture e storie diverse».

Nedzmi Mati, dalla Macedonia: «Quello che mi è piaciuto di più di questo corso è che il nostro gruppo è un piccolo mondo dove ho conosciuto persone di diversi paesi. Ho imparato tante cose nuove della scuola italiana. L’iniziativa di organizzare un corso per mediatori interculturali è un’ottima idea per migliorare l’inserimento degli stranieri nella società italiana».
Aurela Aliraj, dall’Albania: «Io sono in Italia da 5 mesi. Non essendo mai stata fuori dall’Albania, per me questo corso è stata una bellissima esperienza. Ho conosciuto persone provenienti da tutto il mondo e ho scoperto che, anche se veniamo da diversi paesi, abbiamo tante cose in comune».

Maja e Piro Adami, dall’Albania: «Siamo una coppia non più giovane, con un figlio di 25 anni. Siamo arrivati in Italia 8 anni fa. Siamo molto contenti di aver partecipato a questo corso, per la presenza di tante culture diverse e per la possibilità di conoscerle direttamente».

GLI ISCRITTI ITALIANI…

Elena Lapina: «Questo corso mi ha dato la possibilità di conoscere da vicino gente di diverse culture».

Iva Rigo-Righi, maestra di Trento: «È la prima volta che mi trovo ad operare in un gruppo multietnico così numeroso e ciò mi ha permesso di conoscere direttamente, in una visione globale, spaccati di vite di altre culture. Gli incentivi, che mi hanno portato ad accettare quest’esperienza, sono stati la curiosità e l’interesse che poi si sono trasformati in stimoli, in voglia di approfondimenti, in desideri di aumentare le mie conoscenze, al fine di, grazie ad un mutuo scambio, “crescere” sia come persona che come insegnante.

Antonella Tomasi, maestra di Trento: «L’opportunità di condividere alcuni momenti con i partecipanti al corso per mediatori interculturali è stata molto positiva. L’aspetto più forte è stato quello emotivo. Il trovarmi assieme a persone provenienti da varie parti del mondo mi ha fatto sentire una profonda gioia dentro. È stato come assaporare piccoli scorci di vita diversi dai miei e per questo accattivanti, interessanti ed arricchenti. Il risuonare di lingue ed accenti diversi, ognuno con una propria musicalità, ha creato il sottofondo ideale e significativo alle tematiche affrontate. Lo stare tutti insieme nello spazio di un’aula a condividere e scambiarci esperienze ed idee mi ha confermato una volta di più il valore dell’incontro».

E I COORDINATORI…

Leila Ziglio: «Essere “tutor” di un gruppo di circa 30 adulti stranieri dalle provenienze più disparate e con percorsi di vita spesso difficili e dolorosi è un’esperienza umana molto ricca e stimolante.
Si ha la sensazione di far parte di un laboratorio interculturale, con i suoi entusiasmi, conflitti ed esigenze di continue “mediazioni”, dovute proprio alle differenti provenienze ed esperienze di vita. È necessaria molta attenzione per rispettare le sensibilità individuali e far sì che tutte le capacità insite nel gruppo si possano esprimere».

Gabriel Mokoi: «Un delicato ruolo quello del mediatore interculturale, un vero protagonista delle conciliazioni fra famiglie, scuole e alunni che “vengono da lontano”. Che ci sia oggi, nella configurazione di questa figura, un apposito corso di formazione organizzato dalla sovrintendenza scolastica con il patrocinio della provincia di Trento non può che rallegrarci e farci sperare in una società interculturale in cammino». S.Pe.

Snezana Petrovic