Urgenti e scottanti

Inculturazione

Prima di parlare di inculturazione (radicare il messaggio evangelico nella cultura locale), serve avere una buona comprensione del cristianesimo; poi si può scegliere ciò che nel costume non ne travisa le regole. L’inculturazione va fatta con coscienza. Poiché nella cultura africana la fede cristiana ha una storia breve, penso che la gente non sia pronta per tale discorso, che comunque va attuato passo dopo passo.
Oggi l’esistenza di molti cristiani in Tanzania è caratterizzata da una profonda dicotomia tra la professione della fede cristiana e il concreto vivere quotidiano. Mentre teoricamente la fede può essere espressa in modo ortodosso, la vita contraddice spesso la fede: si rimane meravigliati dalla coesistenza di atteggiamenti antitetici in un individuo. Una duplicità a livelli così fondamentali necessariamente causa sofferenze: a livello psicologico e socio-relazionale.
La situazione che ne consegue è paragonabile a quella dell’indemoniato di Gerasa, descritta dall’evangelista Marco al capitolo 5. Il pover’uomo, da una parte si sente attratto dalla persona di Cristo e, dall’altra, chiede che il Maestro lo lasci solo… La condizione in cui si trovano molti cristiani necessita del messaggio salvifico di Cristo. Bisogna attuare un’inculturazione autentica del messaggio evangelico nella vita del popolo. In questo processo, Cristo ed il suo vangelo devono avere precedenza assoluta.
Se non ci si basa solidamente su questo principio, si finirà solo con il «battezzare» istituzioni culturali che hanno causato sofferenza e paura, intromettendosi nella concezione tradizionale di vita della gente. In questo modo priveremmo il messaggio evangelico del suo potere salvifico e liberatorio.
Polycarp Pengo
arcivescovo di Dar es Salaam

Musulmani

Il rapporto tra cristiani e musulmani è la questione più rilevante in Africa. In generale abbiamo sempre mantenuto buone relazioni; ma negli ultimi 15 anni alcuni gruppi di fondamentalisti islamici hanno creato problemi. Il governo sostiene che i movimenti sono sotto controllo. Ma, durante le ultime elezioni, abbiamo sperimentato che il fondamentalismo islamico sta cercando di inserirsi nei partiti: in particolare nel Kaf (partito formato in prevalenza da musulmani), che ha avuto parecchi consensi soprattutto nelle isole, dove sta esasperando le differenze tra cristiani e musulmani. Ci sono motivi per credere che cercherà di fare altrettanto sulla terraferma.
Polycarp Pengo

Rivoluzione

I tanzaniani vedono le ingiustizie, ma non le affrontano direttamente: non sono aggressivi. Vogliono risolvere i problemi adeguando le mete da conseguire al loro temperamento e vogliono la giustizia «pacifica». Nel governo opera il Partito della rivoluzione, ma non si può dire che i tanzaniani siano rivoluzionari.
Noi, della commissione «Giustizia e pace», collaboriamo con il governo e le altre istituzioni per portare graduali miglioramenti. L’anno scorso ci siamo impegnati non solo perché la popolazione andasse a votare, ma anche perché si sentisse coinvolta nella gestione della cosa pubblica. Abbiamo cercato di sensibilizzare i politici per indurli a fare scelte prioritarie a favore dei più poveri.
In particolare abbiamo messo in risalto un errore: il paese, allontanandosi dal 1986 dal socialismo dell’ujamaa, con la scelta del capitalismo sta causando una crescente e macroscopica ingiustizia nei confronti della classe meno abbiente, che diventa sempre più povera.
Negli ultimi cinque anni il governo ha cercato di fare delle riforme per ridurre il grande squilibrio tra ricchi e poveri, ma i risultati tardano a farsi notare: le riforme macroeconomiche non raggiungono la stragrande maggioranza della popolazione. Il 60% è totalmente escluso da ogni beneficio.
Paul Ruzoka,
vescovo di Kigoma,
presidente di «Giustizia e pace»

Carceri

Molte persone sono in prigione per reati minori. Le carceri traboccano di persone ammassate in modo disumano. Ci sono 44 mila detenuti in strutture atte a contenee molto meno della metà. E si verificano moltissimi abusi.
Due anni fa i vescovi hanno scritto una lettera aperta per far capire che i prigionieri non devono essere considerati come i rifiuti della società e che c’è sempre uno spazio per aiutare chi sbaglia a correggersi e riprendere un posto nella società. Hanno lanciato un programma per migliorare il sistema giudiziario e per coscientizzare la gente sui diritti dei prigionieri, in particolare dei ragazzi, considerati alla stregua di criminali incalliti e messi in carcere con delinquenti che li seviziano. Molti prigionieri sono reclusi a causa del cattivo modo di procedere delle «corti primarie»: ce ne sono circa 900 nel paese, composte da persone non sempre competenti. I vescovi hanno lanciato un programma di formazione per chi deve giudicare la criminalità spicciola.
Si cerca di educare per andare oltre la legge, ponendo al primo posto la persona, per superare i limiti di chi, poco preparato culturalmente, tende a giudicare superficialmente e in modo rigido, senza considerare l’individuo. Si vuol far capire che la legge deve essere uno strumento per aiutare la società e non un mezzo per liquidare chi non si adegua a certi canoni, spesso discutibili.
Paul Ruzoka

Donne

Le donne che vivono in città hanno maggiori possibilità di ricevere un’educazione. Però chi intende continuare gli studi (una minoranza) si rende conto che non può sposarsi giovane, né avere tanti figli. Tale esigua minoranza, inoltre, avverte la necessità di una pianificazione familiare, per garantire ai figli una buona educazione scolastica. Il problema non si pone nei villaggi, dove nessuno vuole sentire parlare di limitazione delle nascite e di contraccezione, perché l’unica ricchezza delle famiglie sono ancora i figli.
Dovremmo sensibilizzare la gente sulla necessità di una pateità responsabile. Io sono molto preoccupata che, ai nostri giorni, sia terribilmente aumentato il numero degli orfani: sono troppi i genitori irresponsabili nei loro rapporti sessuali; l’Aids si diffonde in modo impressionante. Non si contano i morti.

Monika Mbega, parlamentare

aa.vv.




Chi paga i suonatori sceglie pure la musica

«Soldi-e-missione»: un intreccio complesso e… delicato.
Infatti sono pochi quanti accettano
che si guardi nel loro portafoglio! Per portare un esempio,
nel 1998 i vescovi italiani contavano 135 miliardi di lire
(frutto della generosità dei cattolici)
da offrire ai poveri nel Sud del mondo. Come l’hanno fatto?
E bastano i denari per vincere il sottosviluppo?

«Soldi» e «missione». Due temi contrastanti? Eppure la missione fa uso di risorse finanziarie e il loro impiego indica uno stile di evangelizzazione. L’argomento «soldi e missione» è spinoso:
– esiste un certo pudore quando si parla di «soldi e missione», come se vi fosse un livello spirituale prioritario… e il resto entrasse accidentalmente. Il denaro allora assume una valenza negativa (l’idolo «denaro»). Il trattae contaminerebbe la purezza missionaria;
– in missione si è pronti a condividere le esperienze, però non il portafoglio. Ci sono lodevoli sforzi di trasparenza; ma si è gelosi dei propri conti; non si gradisce che altri ci mettano il naso;
– infine, per le ragioni suddette, è difficile avere il quadro della situazione per poter esprimere una valutazione seria.
Nel dossier si osserva l’ambito ecclesiale:
1. presentando il quadro generale della situazione;
2. accennando a qualche problema;
3. indicando alcune ipotesi di lavoro.

1. Situazione

Sarebbe bello conoscere il giro di soldi che si muovono per la missione.
Nel 1990 si tentò di raccogliere più dati possibili, per delineare il quadro della situazione (vedi il box Offerte pro missioni); ma il principio della privacy prevalse.
Tuttavia da quell’analisi, anche se datata, è possibile avere un’idea del denaro, destinato al Sud del mondo, da enti istituzionali quali il Comitato aiuti della Conferenza episcopale italiana e le Opere pontificie (vedi i vari box).

La fantasia non ha confini

La prima impressione che si ricava dall’analisi del 1990 è la constatazione, nel tessuto italiano, di una realtà missionaria variegata. Sono coinvolte istituzioni nazionali, regionali e locali, soggetti religiosi e laici: insomma una galassia. È una presenza attiva, capace di fantasia e creatività, di proposte e realizzazioni.
Nel 1998 il Convegno missionario nazionale di Bellaria, con 1.600 presenze, ne ha preso atto coniando l’espressione «popolo della missione».
Le diverse realtà hanno a che fare con raccolte di fondi per sostenere attività e progetti. Tutte, sia pure in varie forme, attingono dalla gente le risorse necessarie. Più chiaramente, tutti attingiamo alla stessa fonte: i cittadini italiani. E bisogna dire che sono generosi, almeno con i missionari.
Le iniziative messe in campo hanno aspetti di grande creatività: «otto per mille», giornate missionarie, campagne nazionali, raccolte ordinarie, cene e digiuni di solidarietà, marce sponsorizzate, lotterie, campi di lavoro, autotassazioni, spettacoli. La fantasia non ha confini.
Per i prossimi anni bisognerà prevedere una flessione, perché le richieste si sono moltiplicate, ma il «pozzo» è sempre lo stesso. Inoltre, probabilmente, la gente si stancherà di essere sollecitata a contribuire per una pletora di attività.
Forse l’iniziativa più innovativa (e di maggior successo) negli ultimi anni è stata l’«adozione a distanza». È una proposta con elementi di presa immediata: il coinvolgimento emotivo, il rapporto individuale, l’investimento su persone, la continuità dell’impegno, l’efficacia dell’intervento, il controllo sul processo.
Se esiste una diffusa perplessità sull’incidenza degli aiuti nella realtà globale, bisogna pure affermare che questi hanno permesso la realizzazione di numerosi progetti, che hanno dato un contributo significativo al cammino dei popoli. Le nazioni sono disseminate di opere realizzate con il concorso di un’efficace generosità: scuole, ospedali, strade… Per molti paesi l’intervento ecclesiale-missionario resta l’unico catalizzatore di sviluppo.

Il giardino è mio

Bisogna ammettere che il difficile reperimento dei fondi determina, a volte, una esasperata concorrenza. Questo rischia di ridurre l’animazione missionaria a pura raccolta di soldi, con un antagonismo fra gli organismi interessati ed una accentuata diffidenza reciproca.
Si nota una «malcelata gelosia» dei propri spazi e benefattori, delle piccole «miniere d’oro» che ognuno ha scoperto… da difendere ad ogni costo.
Avviare una collaborazione con tale mentalità alle spalle è difficile, se non impossibile.
Cuore e portafoglio

Un’altra interessante osservazione viene fatta soprattutto da chi è parte in causa. Sovente l’urgenza di reperire fondi non permette un esame critico dei mezzi utilizzati per raggiungere lo scopo.
Abbiamo tutti assistito a testimonianze missionarie, racconti di campi estivi trascorsi in missione con filmati e diapositive. L’immagine e il commento sono scontati: povertà, abbandono, ecc. Si ricorre (anche se inconsciamente) ad elementi emotivi. E il passaggio dal cuore al portafoglio è breve. Si esige più attenzione al riguardo: ogni popolo ha la sua dignità che va rispettata; della povertà bisogna parlare con «pudore».
L’Africa, per esempio, è «molto di più» della somma dei suoi mali.

Domande spicciole

Esprimo ad alta voce qualche interrogativo, che mi porto dentro dagli anni della missione in Zaire (Congo).
Non ho mai capito perché è sempre facile trovare finanziamento per un… allevamento di maiali, mentre è estremamente complicato reperire fondi per erigere una cappella o sostenere un progetto pastorale. Forse si ritiene che i suini creino sviluppo e migliorino le condizioni di vita, mentre la cappella avrebbe meno incidenza. Per esperienza, garantisco che una comunità cristiana ben animata è capace di essere una grande forza di progresso per tutti.
Lo stesso si puo affermare degli investimenti in persone e strutture. È più facile reperire fondi per realizzare opere che per formare persone. Le strutture sono quantificabili e permettono un ritorno di immagine. Invece investire in persone è più rischioso, perché gli individui possono lasciare l’iter formativo e il risultato è meno visibile. Tuttavia il fattore umano è l’elemento cardine del cammino di un popolo: su questo bisogna investire molto di più.

Isole felici

Si tratta della sperequazione degli aiuti.
Il missionario lombardo o veneto ha a disposizione discreti capitali, che gli permettono di realizzare progetti di una certa portata; invece il calabrese, il latinoamericano o africano non hanno le stesse risorse. Il primo passa per bravo, capace e sarà rimpianto dalla comunità cristiana dove ha operato, a differenza del secondo.
Evitiamo di creare «isole felici» in un oceano di miseria.

. Problemi

Gli aiuti che la chiesa italiana invia non sono sufficienti per avviare un efficace programma di sostegno alle chiese più giovani. Inoltre sono frammentati, con un’estrema varietà dei soggetti che intervengono.

In ordine sparso

Valutando l’indagine del 1990, il professor A. Oberti affermava: «Tutti siamo consapevoli che c’è un flusso (probabilmente ingente) di aiuti, diversi per tipologia, genere, provenienza, destinazione… che dall’Italia parte per il terzo mondo; ma non riusciamo a conoscere le dimensioni, le modalità e, soprattutto, le motivazioni di fondo del flusso. La non conoscenza di questi e altri elementi è grave, non perché non soddisfa la curiosità o il gusto per le statistiche; è grave perché, nella guerra che si cerca di condurre al sottosviluppo, non siamo in grado di razionalizzare l’aiuto e di finalizzarlo il più oggettivamente possibile. Lasciamo che tutto sia guidato da sentimenti, ragioni individuali o di gruppo, motivazioni soggettive religiose, assistenziali, politiche, economiche».
«Si ha un’ulteriore riprova dell’esistenza, nella chiesa e società italiana, di uno spiccato vitalismo sociale; però non si riesce a trovare modi e forme che consentano, senza spegnere la vitalità, di accompagnare e orientare le individualità verso una società comunitaria».
Quattro sono, oggi, i soggetti operanti, ma scarsamente cooperanti fra loro: gli enti ecclesiali nazionali e diocesani, gli istituti missionari e religiosi, gli organismi di volontariato e i movimenti ecclesiali. A questi si affianca una miriade di gruppi attivi sul territorio e variamente collegati agli spazi ecclesiali.
Il fragile tessuto che connette la «galassia missionaria» impedisce la comunicazione di esperienze per una crescita globale e, soprattutto, rende ardua la verifica del loro impatto. La frammentarietà degli interventi impedisce migliori risultati e può rallentare il necessario impatto culturale per una crescita di conoscenza e di coscienza collettiva rispetto ai problemi da affrontare.

Fiducia sì, ma non troppa

Sovente si invocano lo scambio e la cooperazione come principi direttivi: dovrebbero esprimere uno sforzo congiunto dei soggetti interessati, dare e ricevere con spirito di reciprocità. Però, finché ciò avviene a senso unico, è difficile realizzare una comunione paritaria.
Resta l’impressione che nella chiesa si ripeta la situazione esistente nei rapporti di forza del mondo. C’è una chiesa del Nord, ricca, e una del Sud, povera. Una chiesa che dà e una che riceve, una chiesa «benefattrice» e una «assistita». È un rapporto disuguale, ma anche di «forza». Questo si esprime nella sfiducia sulle capacità delle comunità destinatarie a progettare, gestire e realizzare progetti propri.
Perciò… «è normale che le chiese che ricevono aiuti facciano un rapporto dettagliato sulla loro gestione; al contrario, non ci si immagina nemmeno che possano, allo stesso modo, chiedere alle chiese dei paesi ricchi di dare ragione dell’utilizzo delle risorse, perché le risorse appartengono all’unico popolo di Dio».
Ciò vale anche per i regolamenti della cooperazione, che gli organismi istituzionali hanno sviluppato. L’utilità e necessità di darsi delle regole è evidente. Ma la domanda è: chi le stabilisce e secondo quali criteri? L’impressione è che chi detiene le risorse detti anche i principi del loro utilizzo.
Pertanto, non stiamo ricopiando i rapporti di forza fra il Nord e Sud del mondo che, di solito, condanniamo nella Banca mondiale, nel Fondo monetario internazionale, nell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo? Anche la solidarietà richiede regole condivise o, almeno, che tengano conto delle esigenze dei partners.

Neocolonialismo religioso?

Conosciamo il tempo delle «colonie d’oltre mare», appendici economiche di vari paesi europei. Con l’indipendenza degli stati, è subentrato un altro regime che, pur lasciando l’apparato statale autonomo, economicamente lo ha reso dipendente dai governi di tuo del Nord.
È il rischio che corre anche la gestione degli aiuti alle missioni: creano dipendenza (economica e psicologica, dovendo dipendere dall’approvazione altrui).
Ricordiamo la «moratoria» della Conferenza delle chiese d’Africa, tenutasi a Lusaka (Zambia) nel 1974, che proponeva la sospensione di tutti gli aiuti, sia in personale sia in finanze, che provenivano dall’estero. Il fatto suscitò vive reazioni da parte di vescovi e missionari stranieri. Era però il tentativo di affermare un necessario protagonismo dei soggetti locali, cercando di toglierli dal «patronato» esterno.
Al presente serpeggia un «sentire»; a volte è assopito per paura che i canali di finanziamento siano chiusi per «rappresaglia». La domanda però resta: quanta coercizione esercita l’aiuto offerto? Il denaro è sempre potere. Questo mette in gioco la consistenza vera di una chiesa locale e il suo grado di autonomia e decisione. Sono da capire le domande che sovente le chiese del Sud si pongono. Quali sono il peso e l’autorità delle giovani chiese, se non dispongono di un’autonomia finanziaria? Chi fornisce loro i mezzi? Fin dove le lascerà autonome nella parola e nell’iniziativa?
Il problema «finanziamenti» chiama in causa anche l’ecclesiologia e pone la questione del giusto rapporto fra autonomia della chiesa locale e corresponsabilità nella chiesa universale. L’aiuto dovrebbe essere il segno che manifesta la comunione delle chiese nel rispetto di ciascuna.
Ricordiamo «lo stile delle offerte» nella chiesa primitiva. «La colletta – afferma san Paolo – non ha lo scopo di ridurre voi in miseria, affinché altri stiano bene: la si fa per realizzare una certa uguaglianza. In questo momento voi siete nell’abbondanza e, perciò, potete recare aiuto a quelli che sono nella necessità» (2 Cor 8, 13-14; cfr. 1 Cor 16, 1-6; 2 Cor 8-9; Rom 15, 25-31).
Non si tratta solo di dispute tecniche o teologiche, ma di vera dignità.
Mi hanno sempre impressionato i vescovi africani, obbligati a percorrere l’occidente come mendicanti, passando da una diocesi all’altra e da un organismo all’altro, ad intercedere per i bisogni delle loro diocesi… con l’obbligo poi di rendere conto ad una pletora di benefattori stranieri.
Non mi è successo di vedere un nostro vescovo (anche di una piccola e povera diocesi) fare altrettanto.

3. Che fare?

Recenti fatti (che hanno coinvolto alcuni settori della cooperazione italiana e – senza reale consistenza – alcune sezioni della Caritas) hanno generato nell’italiano sfiducia in organismi ritenuti credibili ed efficienti. Perché?

Esigenza di trasparenza

È la qualità necessaria ad ogni gestione finanziaria nella chiesa. Trasparenza comporta chiarezza e serietà nei bilanci, nella destinazione e nell’uso delle risorse (sia di chi dà sia di chi riceve). Nella maggioranza dei casi si usano offerte della gente comune, spesso frutto di sacrificio.
Ma non basta la trasparenza di bilancio. Si richiede chiarezza di programmazione, non disgiunta da una valutazione dell’efficacia degli interventi. Sovente non è sufficiente realizzare un progetto: bisogna valutae la sostenibilità nel tempo. Un briciolo di managerialità in questo settore non guasta.
Aggiungo due semplici proposte:
– organizzare un «data base» consultabile dei progetti in atto, almeno per quelli sostenuti da soggetti istituzionali;
– usare la Banca Etica per la gestione dei fondi. Si darebbe anche una mano a questa iniziativa, evitando di far transitare fondi attraverso istituzioni bancarie, i cui movimenti finanziari sovente non sono compatibili con lo scopo dei soldi raccolti.

Scambio alla pari

L’aiuto deve esprimere la comunione di tutte le chiese, che è alla base della cattolicità. La solidarietà non è mai imposta, ma fa proprie le attese di una comunità sociale o ecclesiale. Naturalmente non sempre sono evidenti, per chi vive nel Nord, le urgenze o priorità di chi sta nel Sud.
«Il vero aiuto è quello che viene dallo scambio alla pari: non solo dare, ma dare e ricevere, solidarietà e interdipendenza. Deve nascere a poco a poco una conoscenza reciproca, la capacità di comprensione dell’altro: ossia spirito di frateità e solidarietà». Questo va oltre l’aiuto finanziario, per includere elementi culturali, cammini di chiesa, persone.
Sembrerebbe scontato che l’azione delle nostre comunità non si limitasse solo all’invio di denaro, ma gettasse un ponte di comunicazione più efficace. Anche i missionari (che rientrano in diocesi per vacanze o altro) dovrebbero «divenire ponte» fra diverse esperienze di chiesa. Invece, sovente, utilizzano il tempo con lo spirito del «prendi e fuggi». Difficilmente il personale inviato in missione diventa stimolo di riflessione nella vita pastorale della propria diocesi.
Ci siamo aperti alla missione; abbiamo inviato soldi e persone; i vescovi visitano i preti in missione. Ma tutto continua come sempre. «Dall’aiuto allo scambio» si diceva tempo fa. È ancora un percorso valido.

Dal frammento alla sintesi

In un mondo che si globalizza unificandosi e fondendosi, è ridicolo difendere il proprio orticello. Il futuro dell’impegno missionario non appartiene solo ai singoli, ma al lavoro di équipe, al costituire reti di azione (la filosofia delle «reti lillipuziane»), mettere insieme una società civile che possa pesare nei contesti nazionali e inteazionali per capacità di analisi, proposta e operatività.
Al di là delle provocazioni, il movimento di Seattle è un esempio bello di cooperazione, che ha aggregato soggetti diversificati e tecnologie a portata di tutti (solidarietà telematica).
È necessario fare sintesi e superare i parallelismi ecclesiali. Penso alla Caritas, all’Ufficio per la Cooperazione missionaria tra le chiese (a livello nazionale e locale), alle riviste missionarie, ai movimenti, agli organismi laicali.
Bisogna anche vincere il provincialismo per immetterci in contesti globali. La domanda da porsi è: come situarci nel flusso di aiuti che le chiese inviano? E ancora: qual è il nostro apporto alle politiche di cooperazione che i governi nazionali e l’Unione Europea mettono in atto?
Si deve mirare a quattro effetti:
– la crescita complessiva della qualità degli interventi;
– la costituzione di un fronte civile, nazionale e internazionale, che incida sui grandi processi in corso;
– la perequazione degli aiuti;
– la capacità d’investire insieme con interventi di respiro nazionale e internazionale (pensiamo agli investimenti per creare informazione e opinione, i processi di pace).
Non basta il tappabuchi

L’inchiesta del 1990 evidenziava un problema di una certa portata: il rapporto fra la quantità e qualità degli aiuti. E, di fronte ai problemi nel Sud del mondo, gli interventi seguono due criteri.
Criterio congiunturale. Punta all’efficacia immediata dell’intervento, affievolendosi poi sulla media e lunga distanza. Gli esempi sono tanti: carestie, conflitti, esodi di massa, terremoti, alluvioni.
In questi casi prevale il fare, secondo il principio «so io quello di cui hai bisogno». E la preferenza delle iniziative cade su tutto ciò che si può subito mettere in atto e quantificare. Al di là delle vere emergenze, questo modello riproduce lo schema dell’eurocentrismo e dello sviluppo attraverso capitali e tecnologie. È l’aiuto «umanitario», dentro il quale molti ancora operano. Talora ha prodotto «cattedrali nel deserto», delle quali sono disseminati i continenti.
Criterio strutturale. È il risultato della riflessione maturata in questi anni. Tiene conto delle necessarie variabili umane: cultura, storia, politica, religione, geografia, sostenibilità degli interventi a medio e lungo termine, scenari globali. Coglie lo sviluppo come una realtà unica, che si manifesta in modi diversi da caso a caso, luogo a luogo, ma che resta fondamentalmente un fatto di «persone». Senza di queste, si possono avere progressi settoriali (economici, tecnologici, agricoli, sanitari…), ma non uno sviluppo reale e duraturo, strutturale anziché congiunturale: uno sviluppo che renda il povero agente della propria crescita, soggetto capace di autonomia, non succube di «scambi ineguali».

Tre snodi essenziali

Il passaggio dal congiunturale allo strutturale è il cambiamento qualitativo da realizzare nei nostri interventi. Il percorso avviene attraverso tre snodi.
1. I nuovi scenari mondiali: particolarmente il fenomeno e gli effetti della globalizzazione.
Neoliberismo, mercato, monopoli finanziari… sono le nuove frontiere dentro le quali sviluppare un’azione. Ci sono squilibri contro i quali bisogna lottare, una strumentalizzazione politica degli aiuti da correggere, perché sono le strutture globali all’origine delle inclusioni o esclusioni di interi continenti. Sono i sistemi «forti» che oggi governano il mondo. È nell’impegno per un nuovo ordine mondiale che ci si deve compromettere, se si vuole incidere sui processi di marginalizzazione.
Questo implica conoscenze dettagliate dei micro e macro sistemi, monitoraggi dei processi in corso (ad esempio: il meeting di Seattle, Davos), aggioamenti continui.
Il passaggio culturale dal «singolo» progetto alla solidarietà «globale» è consistente. Ci dobbiamo chiedere se, in qualche missione, sia più urgente costruire una struttura o aderire ad una campagna nazionale. Se vale di più raccogliere fondi per il «nostro missionario», o se non sia meglio sostenere, anche economicamente, la campagna per tassare le transazioni finanziarie (Tobin tax).
2. I nuovi modelli di intervento. In questo settore siamo debitori di una prassi che, nel passato, ci ha ancorati ad interventi consolidati (il progetto da realizzare). Ma, grazie alla creatività di alcuni, sono nate nuove forme di azione che pare diano discreti risultati a medio e lungo termine. Mi riferisco al «commercio equo e solidale» con la sua capacità di sostenere la crescita di una imprenditorialità locale, con riinvestimenti nel sociale.
C’è pure il «micro credito», che offre agli esclusi la possibilità di affrancarsi dalla povertà con i loro propri sforzi. È una bella novità, portata alla ribalta da Muhammad Yunus, economista del Bangladesh, fondatore della Grameen Bank.
Le «banche etiche». Nate di recente in Italia, indicano la via per un risparmio alternativo, non finalizzato al mero profitto. C’è tutta una serie di nuove iniziative che indicano la vitalità e il rinnovamento in questo settore. Vanno conosciute e sostenute anche con i nostri finanziamenti.
3. La valenza educativa dell’aiuto. «Ricordiamoci che lo scopo principale dell’aiuto non è quello di venire incontro alle altre nazioni, ma di aiutare noi stessi». Lo affermava il presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon, per ribadire gli interessi americani.
In ogni caso la prima ricaduta degli aiuti è su di noi, quasi a boomerang. Oggi siamo tutti coscienti della interdipendenza nel mondo, del legame fra la ricchezza di pochi e la povertà di molti, fra l’emarginazione di interi continenti e le nostre responsabilità.
Siamo tutti invitati a mettere in discussione i nostri «stili di vita», secondo lo slogan di una famosa campagna «contro la fame cambia la vita». La cultura della solidarietà, della giustizia per tutti, del bene comune da ricercare insieme… chiama in causa i nostri modelli culturali, politici, economici, oltre ai nostri consumi.
Soldi e missionari

Impressiona favorevolmente l’ammontare degli aiuti economici che la chiesa italiana destina alle missioni. Ma questo basta per dirci missionari?
Se per lo sviluppo bisogna in primis investire nelle risorse umane, a maggior ragione lo si deve affermare per la missione: più che di mezzi, ha bisogno di persone. Di fronte ad un aumento di aiuti verso le missioni, si è registrata in questi anni una sensibile diminuzione di missionari che partono. Non c’è il rischio di delegare ai soldi il compito dell’annuncio?
Non nascondiamoci il pericolo di sostituire l’evangelizzazione con le opere di promozione umana. Si può, certo, parlare di «predica delle opere», ma non senza l’annuncio.
Occorre ribadire con forza che:
– la missione senza missionari non ha senso;
– la missione senza annuncio si svuota del suo contenuto originale;
– la missione senza gesti concreti non riproduce il modello del Gesù, «che ha fatto e insegnato» (At 1, 1).

L o scopo di questo dossier è di fornire degli argomenti che servano da piattaforma per avviare un dibattito su «soldi e missione». Sono convinto che il processo evolutivo, dentro il quale l’evangelizzazione si sta muovendo, richieda anche il rinnovamento dell’aspetto finanziario.
Il mondo dominato da criteri di mercato, monopolio e profitto ha bisogno di nuovi segni credibili di solidarietà.

Bibliografia

– Il fuoco della missione, Emi, Bologna 1999
– Come orizzonte il mondo, Emi, Bologna 1999
– A. Sella, Giubileo di giustizia, Editrice Monti, Milano 1999
– Dizionario dello sviluppo (a cura di Wolfgang Sachs), Edizioni Gruppo Abele, Torino 1998
– Gli aiuti della chiesa italiana ai paesi in via di sviluppo. Vademecum, Emi, Bologna 1991
– M. Meloni, La battaglia di Seattle, Edizione Berti (supplemento di «Altreconomia», febbraio 2000)
– Finances: autonomie et solidarité, in «Spiritus», dicembre 1992
Mission dans la faiblesse, in «Spiritus», marzo 1996

Ricerca di archivio:
Indagine sugli aiuti della Chiesa italiana ai paesi in via di sviluppo, Ufficio nazionale per la Cooperazione missionaria tra le Chiese, Caritas Italiana, Pontificie Opere Missionarie

Siti Inteet consultati:
http://www.vatican.va
http://www.chiesacattolica.it
http://www.unimondo.org
http://www.un.org

OFFERTE «PRO MISSIONI»
Modalità di raccolta nelle parrocchie / Ricerca del 1990

FONTI
– private e volontarie 77,70%

DOVE
– funzioni religiose, quaresima 69,20%
– giornate particolari, giornata missionaria
mondiale, lotterie 12,70%
– raccolta a domicilio 15,30%

QUANDO
– ricorrenza annuale 58,60%
– ricorrenza occasionale 45,90%
– ricorrenza costante 2,30%

FORME di AIUTO
– in beni 30%
– in denaro 64,10%

PROVENIENZA delle RICHIESTE
– missioni 43,8%
– singoli volontari e missionari 25,8%
– diocesi, Caritas locali, istituti religiosi 42%
MOTIVI dell’AIUTO
– richieste specifiche 44,8%
– emergenze particolari 24,60%
– intuito personale 22,30%

DESTINAZIONE GEOGRAFICA
– Africa 31,50%
– Centro e Sud America 21,17%
– Asia 13,16%
– altro 4,55%

TIPO D’INTERVENTO
– settore ecclesiale 36,20%
– casi di emergenza 20,08%
– sviluppo sanitario 16,62%
– alfabetizzazione 13,75%
– sviluppo agricolo 10,19%

Fonte:
Gli aiuti della chiesa italiana ai paesi in via di sviluppo. Vademecum, Emi, Bologna 1991

Contributi della Conferenza episcopale italiana
Ai Paesi nel sud del mondo

Distribuzione dei fondi al 30 dicembre 1998
cifre arrotondate

Importo da distribuire 135 miliardi di lire

Conferenze Episcopali (49 progetti) 32 miliardi
Diocesi (198 progetti) 33 miliardi e mezzo
Organismi religiosi e missionari (197 progetti) 25 miliardi
Caritas (18 progetti) 2 miliardi
Organismi laici (108 progetti) 40 miliardi
Altro (3 progetti) 500 milioni

TOTALE 133 miliardi
Avanzo: 2 miliardi

Distribuzione per aree geografiche

Paesi africani del Sahel 18 miliardi
Asia (paesi prioritari) 6 miliardi e mezzo
America Latina (paesi prioritari) 26 miliardi
Aree diverse ed emergenze 82 miliardi e mezzo

TOTALE 133 miliardi

Fonte:
Notiziario dell’Ufficio nazionale della Cooperazione missionaria tra le chiese, Roma, novembre 1999

Eesto Viscardi




Non solo un campo da gioco

Trecento mini atleti

La «maratonina di minibasket» è un’iniziativa che ha coinvolto 22 squadre di bambini dai 10 agli 11 anni. Hanno dato vita a 11 incontri di pallacanestro durante l’intera giornata del 3 dicembre 2000, dalle ore 10 alle 21, senza sosta: una maratona dunque. I giovani atleti appartengono alle più importanti società cestistiche di Torino e provincia e sono stati i protagonisti assoluti della manifestazione.
Le partite si sono susseguite a ritmo serrato: ad ogni ora nuovi giocatori calcavano il «parquet» degli impianti del C.U.S. Torino, la società organizzatrice. Il risultato di ogni partita incrementava il «punteggio complessivo» di due schieramenti, nei quali rientravano le singole squadre, in maglia bianca o blu: infatti le varie società, messe da parte le proprie divise, indossavano solo le maglie della manifestazione. In campo regnava tanta amicizia, ma anche un pizzico di agonismo, per una giornata di un buon minibasket.
Nella parte centrale del pomeriggio l’«All Star Game», ossia la partita delle «stelle», con i migliori giocatori di ogni squadra, ha attirato un massiccio afflusso di pubblico. È stato un grande momento di aggregazione.
I mini atleti intervenuti sono stati circa 300 e gli spettatori molti di più, nonostante il blocco della circolazione automobilistica che ha minacciato la riuscita della manifestazione.
Con 8 mila lire
L’obiettivo della «maratonina» è stato: «regalare un campo» ai ragazzi di Suguta Marmar, in Kenya. «Missione compiuta», grazie alla generosità di tutti i partecipanti, grandi e piccoli: grandi come i genitori, che hanno riempito la cassetta delle offerte, e piccoli come i bambini, che hanno versato 8 mila lire a testa per partecipare. La quota di partecipazione ha avuto un aspetto educativo importante: infatti si è trattato di denaro «risparmiato e donato» dai ragazzi stessi, e non semplicemente attinto dal portafoglio di papà.
Ma, oltre ai soldi, ci sono state le magliette regalate ai bambini, gli impianti sportivi utilizzati gratuitamente e tanto, tantissimo tempo di sensibilizzazione. Per non parlare del lavoro.

Regalare un campo

L’idea di costruire un campo di pallacanestro non è degli organizzatori. Nasce direttamente da padre Isaia, il parroco kenyano di Suguta Marmar. L’esigenza è quella di fornire ai suoi ragazzi un passatempo, di strapparli dall’ozio e (probabilmente) dalla criminalità, di educarli all’impegno e al rispetto delle regole attraverso lo sport. Questo è stato l’«anello» che ha unito il prete africano agli istruttori e allenatori torinesi, che credono già nel valore della solidarietà e la vivono, anche se in altri contesti. In questo caso si sono affidati anche al valore educativo dello sport.
Ma «regalare un campo» a bambini africani è anche un modo concreto per ricordare a tantissimi coetanei italiani che «fare dello sport» non è di tutti, e che praticarlo in strutture adeguate (come quella che ha ospitato la manifestazione) lo è ancora di meno.
Allora tutto diventa uno stimolo in più per toccare sul vivo i ragazzi, che praticano il basket con passione e impegno. Un’occasione per regalare ciò che più ci sta a cuore.

Se il Kenya aiuta l’Italia

È stato un altro grande obiettivo della «maratonina». E cioè: non solo raccogliere soldi, ma anche e soprattutto raccontare (forse per la prima volta) una realtà diversa, un mondo lontano e povero, povero non per caso. Ancora: rendere familiare il nome «Suguta Marmar» attraverso i volti dei suoi bambini (anche se visti solo in foto), che vivono nel bisogno. In una parola: sensibilizzare.
Far sì, per esempio, che il bambino italiano noti con stupore che i suoi coetanei kenyani sono scalzi e si chieda: «E come fanno a giocare a basket?».
Sarebbe molto se i nostri bambini aiutassero quelli kenyani. Ma sarebbe ancora di più se il Kenya «aiutasse» l’Italia.

La mia esperienza
È stata quella di aver conosciuto, attraverso i missionari della Consolata, padre Isaia in Kenya, di aver riso con i bambini di Suguta Marmar, di averli anche fotografati, «portati» a Torino, fatti incontrare con tanti compagni piemontesi.
È stata un’avventura, una scoperta. La scoperta di quanto la nostra gente sia ancora disposta a dare e di quanto «lontano» si vada… se uno ci prova: «lontano» secondo il mio punto di vista, chiaramente.
Ho provato la gioia di vedere qualcuno lavorare duramente per sostenere la «mia causa», per aiutare qualcuno che non conosceva. Ho avuto la sorpresa di vedere cose, complicate burocraticamente, comporsi a poco a poco, con fatica ed entusiasmo. E sono diventato euforico allorché «Suguta Marmar» è apparso (certamente per la prima volta) anche su La Stampa. Così, d’ora in poi, quello sperduto villaggio di samburu sarà meno sconosciuto.
Ma se c’è la gioia di aver fatto qualcosa, coinvolgendo tante persone, c’è pure la consapevolezza che moltissimo è in «lista d’attesa».

Sandro Busso




Una missione leggera

Oggi è urgente schierarsi: o nella geografia dei forti o in quella dei deboli, degli inclusi o esclusi, degli utili o inutili. Non si può giocare, nello stesso tempo, con i poveri e con i sistemi che producono povertà.
Il vangelo non lascia scampi: occorre situarsi con «i dannati della terra». Questi, tuttavia, diventano il luogo ermeneutico per interpretare il mondo e la chiesa, per elaborare e vivere la fede, per interrogarsi sui mezzi e collocarsi davanti ai nuovi poteri. Fuori dei poveri non c’è salvezza!
Perché i poveri? Perché li ha scelti il Signore: è la ragione più valida; perché sono la maggioranza: e, stando con loro, si sta con tutti. Questo comporta: essenzialità e coerenza dell’annuncio; una grande libertà dal potere (collateralismi politici, teocrazie, potere dei soldi); la giusta misura dei mezzi (annuncio ai poveri e annuncio povero del vangelo).
L a chiesa dell’America Latina, nel 1979 a Puebla (Messico) ricordava: «I poveri meritano un’attenzione preferenziale, qualunque sia la condizione morale o personale, in cui si trovano. Fatti a immagine e somiglianza di Dio per essere suoi figli, tale immagine è offuscata e persino oltraggiata. Perciò Dio prende le loro difese e li ama. Ne consegue che i primi destinatari della missione sono i poveri, e la loro evangelizzazione è per eccellenza segno e prova della missione di Gesù».
Così, a dieci anni dalla Conferenza di Medellin (Colombia), la chiesa povera:
– denuncia l’ingiusta carenza dei beni di questo mondo e il peccato che ne è la causa;
– predica e vive la povertà come atteggiamento di semplicità spirituale e apertura al Signore;
– s’impegna essa stessa nella povertà materiale. La povertà della chiesa è una costante della storia della salvezza.
N el vangelo di Luca si legge: «Gesù disse ai discepoli: “Non prendete nulla per il viaggio: né bastone né sacca, né pane né denaro; non abbiate tunica di ricambio… Ed essi, partiti, andavano di villaggio in villaggio, evangelizzando e operando guarigioni dappertutto”» (Lc 9, 3).
Senza creare contrapposizioni inutili o essere paladini del pauperismo, oggi molti sentono la necessità di una missione più «leggera» ed essenziale, più sbilanciata su un patrimonio di grande humanitas, fondata in una soda spiritualità, ricca di Parola e animata dal grande desiderio di incarnazione, piuttosto che affogata da ingenti mezzi, strutture, burocrazie.
Per esperienza, so che non è facile mantenere un sano equilibrio. Allora ogni tanto bisogna avere il coraggio di fermarsi per una serena autocritica.
Eesto Viscardi

Eesto Viscardi




Quando tra i fedeli c’era un esponente del partito

Com? la situazione della chiesa (e della gente) nella nuova Russia di Putin?
Che cosa divide i cristiani ortodossi, guidati dal patriarca Alessio II,
dai cristiani cattolici fedeli a Roma? Ci sono speranze per un miglioramento
dei rapporti? A Mosca ne abbiamo parlato con Aleksej Uminskij, prete ortodosso,
sposato e padre di due figli. Aleksej ? parroco della chiesa della Trinit? a Khokhly
e direttore di una scuola privata ortodossa.

Mosca. Padre Aleksej abita con la giovane moglie medico e i due figli in un piccolo appartamento della periferia di Mosca. Per raggiungere la sua parrocchia, in centro citt?, gli ci vogliono circa tre quarti d?ra di strada. Tutte le volte che sono andata a trovarlo a casa, padre Aleksej ha sempre voluto venirmi a prendere alla stazione del metr?, per evitare il rischio che mi perdessi. Lo vedevo arrivare in borghese. Niente del suo abito tradiva lo status di sacerdote, se non forse l?bbondante barba e i capelli un po?lunghi.
Una volta che, come di consueto, ci siamo trovati fuori dal metr?, per dimostrare che avrei trovato la casa anche da sola, mi sono offerta di fare strada io. Inutile dire che, senza il suo aiuto, non saremmo arrivati da nessuna parte. Non certo perch? il percorso sia tortuoso, ma perch? tutte le case sono uguali e ogni casa ha tanti portoni tutti simili.
Se si infila quello giusto e si sale al primo piano, si giunge al piccolo appartamento di padre Aleksej. Pare proprio di essere arrivati in una famiglia come tante: la moglie Masha che traffica in cucina; i bambini che, abbandonati per un momento i loro rumorosi giochi, accorrono incuriositi a studiare l?spite; il padrone di casa che ti fa accomodare intorno al tavolo gi? apparecchiato. Il lindore, l?rdine e, naturalmente, l?ngolo delle icone (ben in vista nel salotto) sono i segni pi? macroscopici che ci troviamo, invece, in una casa un po?speciale.
Le serate sono sempre piene di mille discorsi. Si parla di tutto. Aleksej e Masha hanno tanti interessi e tante letture alle spalle. Si parla, tra l?ltro, dei paesi in cui abbiamo viaggiato, dell?talia, dove Aleksej e Masha sono stati pi? volte e, inevitabilmente, della Russia.
M?mmergo in quella calda atmosfera familiare e penso: chiss? quanti sacerdoti in Russia toeranno ad avere una vita normale? La condizione in cui vive padre Aleksej d? la misura del cataclisma che la chiesa ha attraversato. Ma, nello stesso tempo, per chi, come me, ha visto gli anni in cui i cristiani dovevano nascondersi, in cui dovevano temere tutto e tanto pi? i visitatori stranieri (marcati a vista), il fatto che ci possa liberamente incontrare, che un sacerdote possa vivere insieme agli altri apertamente, sembra gi? un miracolo.
RICOSTRUIRE LE MURA,
RICOSTRUIRE LE COSCIENZE
?ifficile capire quale sia la cosa giusta da fare quando si ha il compito di ricostruire una nazione ridotta in macerie. Questa ?, infatti, la condizione in cui si trova la societ? russa, dopo 70 anni di regime sovietico e 10 di post-comunismo.
Nonostante i capelli gi? grigi, padre Aleksej ha appena 40 anni. Quanto basta per? per aver vissuto gli anni bui dell?poca brezneviana, quando per un giovane frequentare la chiesa voleva dire compromettere ogni possibilit? di carriera; quando tutte le espressioni di autentica vita cristiana erano relegate a una dimensione di semiclandestinit?. Ora, certo, quei tempi sembrano lontani anni luce.
Padre Aleksej ? diventato parroco della chiesa della SS. Trinit? in Khokhly, che si trova nel centro storico di Mosca, in uno dei pi? bei quartieri della capitale. L?dificio (su tre piani) ? stato restituito al culto nel 1992 e affidato all?diacente parrocchia di S. Vladimir. ?occato a questa piccola comunit? l?neroso compito di riportare la chiesa (ridotta in condizioni deplorevoli) alle sue condizioni originarie. Un lavoro svolto interamente dai fedeli, grandi e piccoli, con il solo contributo di offerte private. Ora la chiesa ? completamente rinata. ?inda, accogliente; il bianco delle pareti e l?ro delle nuove icone rallegrano gli occhi del visitatore.
Tuttavia, padre Aleksej non si fa nessuna facile illusione su un rapido ritorno alla fede del suo popolo. Proprio per questo si ? messo alacremente a lavorare con quei pochi fedeli che si sono raccolti intorno a lui, una trentina circa. Egli sa bene che non basta avere quattro mura entro cui riunirsi per costituire una comunit? cristiana. Il compito pi? arduo ? ricostruire le coscienze, rifondare una cultura ecclesiale da tempo distrutta, dare senso concreto alle parole e ai gesti della liturgia. ?os? che ogni domenica, dopo la messa, tutti sono invitati a mangiare insieme nei locali della parrocchia: ? l?ccasione per parlare di quanto si ? appena udito durante la messa, chiedere spiegazioni sulle letture, fare domande sulla storia della chiesa, sulla dottrina. ?na scuola, una sorta di catechismo per adulti.
Dopo tanti anni di ateismo militante, c? bisogno di un luogo in cui imparare di nuovo parole e concetti che un tempo erano patrimonio comune. La cosa migliore ? farlo insieme, prendendo spunto dalle parole della liturgia domenicale.
Iniziative del genere sono fondamentali, perch? in Russia possa nascere una nuova generazione di uomini liberi, abituati a chiedere a se stessi e agli altri ragione di parole e atti, avendo solidi punti fermi cui ancorare il proprio giudizio. Sono ancora molto pochi in Russia i luoghi come questo. La gente non ha riferimenti, non sa dove andare.
QUANDO C?RA IL PARTITO
Padre Aleksej, il pranzo domenicale in comune ? una vostra ?nvenzione?o avete semplicemente rispolverato una vecchia tradizione ortodossa?
?i tratta di una tradizione dei primi secoli del cristianesimo. No, da noi non esisteva niente del genere. Prima della rivoluzione da noi, come da voi, la parrocchia era costituita dalle persone residenti nelle vicinanze della chiesa.
La situazione ? cambiata dopo la rivoluzione, con la persecuzione contro la chiesa e la chiusura degli edifici del culto. Poli di aggregazione di quei pochi fedeli rimasti sono diventati, non pi? le parrocchie, ma alcuni sacerdoti, che attiravano per l?utorevolezza della parola e la purezza della fede.
Nulla di autentico poteva nascere in un ambito ufficiale: nelle poche chiese aperte al culto c?ra sempre un esponente del partito, che poteva essere il sacerdote stesso, o una persona dell?mministrazione parrocchiale. Costui non permetteva che si costituisse una vera vita parrocchiale. Appena si avvertiva il nascere di una comunit? intorno a un sacerdote, si provvedeva a trasferirlo in altra sede.
I sacerdoti non avevano possibilit? di entrare in rapporto diretto coi fedeli. Anche la liturgia si svolgeva in modo essenziale. La predica, o veniva evitata, o si riduceva a poche frasi. Fu abolita la confessione individuale e introdotta quella collettiva, in cui il sacerdote pubblicamente leggeva una serie di peccati e i fedeli se ne riconoscevano colpevoli.
Quando, alcuni anni fa, la Russia ha finalmente riacquistato la libert? di culto, non esisteva pi? una normale vita ecclesiastica. Come nel cristianesimo primitivo, la comunit? si raccoglie intorno ai suoi ministri. I miei parrocchiani giungono dai pi? diversi quartieri di Mosca. A volte anche da fuori citt?. Il ritrovarsi insieme, dopo la messa, ha anche il senso di offrire loro un luogo dove riposarsi, prima di riprendere il cammino verso casa?
COMUNISMO-LIBERISMO:
DA UN ECCESSO ALL?LTRO
Sembra una banalit? affermare che l?ducazione dei giovani ? fondamentale per una societ?. Sembra un luogo comune, e lo ?, ma solo in teoria. In pratica, la Russia in questi ultimi anni pare essersene dimenticata.
La scuola ? uno dei settori che pi? ha sofferto, da una parte, delle difficolt? finanziarie in cui versa il paese, dall?ltra, del caos e del vuoto legislativo che si ? sostituito alla rigidezza di un sistema politico disintegratosi con velocit? pari alla sua artificiosit?. La scuola pubblica non riceve adeguati finanziamenti, gli insegnanti hanno stipendi da fame che, per di pi?, non vengono pagati regolarmente. In simili condizioni difficilmente si pu? garantire la qualit? dell?nsegnamento. In un momento cos? delicato nella storia del paese c? il rischio che intere generazioni di giovani perdano quell?ccasione unica, per la propria formazione, che sono gli anni passati sui banchi di scuola.
Padre Aleksej ha deciso di dedicare le proprie energie all?ducazione dei giovani (e non soltanto di questi). Da 8 anni ? il direttore di una scuola privata ortodossa.
Ho avuto occasione di visitarla durante un normale giorno di lezione. Le facce allegre e vispe dei ragazzi, il sorriso dei pedagoghi, la pulizia della mensa, le fotografie appese ai muri a testimonianza di svariate attivit? educative (teatro, canto, pittura, campi di lavoro estivi) mi hanno fatto capire che mi trovavo in un ambiente privilegiato, in cui gli allievi erano circondati di quelle cure di cui spesso i loro coetanei mancano.
Padre Aleksej, la vostra scuola sembra un?sola felice. Ma cosa accade fuori di queste mura, nella scuola di stato?
?a scuola statale sta vivendo un periodo di profondissima crisi. Ai tempi dell?nione Sovietica la scuola assicurava un buon livello d?struzione, soprattutto nelle materie scientifiche, e un sistema di valori che, per quanto discutibile, costituiva pur sempre un riferimento per insegnanti e allievi; c?rano dei criteri per stabilire ci? che era da considerarsi bene e ci? che era male: era bene perch? l?veva detto Lenin. Adesso questi riferimenti sono venuti a mancare, senza esser stati sostituiti da altri.
Subito dopo la fine del comunismo c?ra la smania di distruggere i principi cui ci si era attenuti per decenni, diventati ormai odiosi. Quest?perazione ? riuscita benissimo. Ma quando si ? trattato di sostituirli con altri principi, ci si ? trovati completamente sguaiti. Pare che l?nico criterio oggi sia quello cos? ben sintetizzato da una reclame della Coca Cola: ?rendi tutto dalla vita?
Per decenni in Russia gli insegnanti hanno tenuto lo sguardo fisso alle direttive del partito. Quest?bitudine ? rimasta anche oggi. Guardano a quello che fa chi governa. Quando a un certo punto la parola d?rdine ? diventata il liberalismo, anche gli insegnanti sono diventati liberali con gli allievi: tutto ? diventato lecito. Ovviamente, ci? ha fatto saltare i meccanismi che garantivano la disciplina nella scuola. Non potendo pi? farsi forte di un sistema di valori e regole comunemente accettate e riconosciute, ogni scuola si ? ritrovata in balia di se stessa. Si sono salvate solo alcune scuole pubbliche, tradizionalmente prestigiose ed elitarie, che hanno condizionato la selezione degli allievi alla loro eccellenza negli studi e al rispetto di regole di comportamento ben precise. Per il resto, nella scuola pubblica regna il caos.
Per fare un esempio, si calcola che l?0% degli alunni abbia fatto almeno una volta uso di stupefacenti?
Dunque, il governo si disinteressa della scuola?
?l governo non ha nessun preciso orientamento educativo, anche perch? non ha un?deologia. Recentemente il presidente Putin ha fatto delle dichiarazioni sull?struzione pubblica, ma talmente vaghe che le si pu? interpretare in modi diversi. All?nizio la Russia era orientata verso l?merica: si imitavano i modelli americani, ritenuti invariabilmente buoni. La scuola non faceva eccezione.
La situazione ? cambiata dopo la guerra in Kosovo, anche se non ? ancora chiaro in quale direzione. La cosa preoccupante ? che di questo vuoto di valori, di idee e di iniziative approfittano organizzazioni che perseguono scopi non edificanti. ?l caso, ad esempio, di un?ssociazione internazionale per la pianificazione familiare, che qualche tempo fa si ? introdotta nelle scuole proponendo corsi di educazione alla sessualit?.
Questi corsi, che si rivolgevano anche agli allievi delle prime classi, erano, in realt?, una guida alla contraccezione (si ? poi scoperto che l?ssociazione ? legata a case produttrici di contraccettivi). Veniva, tra l?ltro, distribuito agli studenti un opuscolo dal titolo: Il mio amico: il contraccettivo. Si spacciava questa iniziativa come un programma per la salute del corpo?
Cosa pu? fare la chiesa ortodossa per colmare questo vuoto? Non si ? pensato di promuovere interventi educativi nelle scuole statali, magari istituendo qualcosa di simile alla nostra ?ra di religione?
?fficialmente l?nsegnamento della religione nelle scuole non ? consentito, in quanto la nostra costituzione sancisce la separazione tra chiesa e stato.
Di conseguenza, lo stato mantiene una posizione di assoluta neutralit? nei confronti del credo religioso degli allievi. ?uesto il motivo per cui non esiste l?ra di religione, il cui insegnamento pu? essere introdotto solo su specifica richiesta dei genitori degli allievi e, in ogni caso, al di fuori dell?rario scolastico.
Tuttavia, ci sono scuole private dove vengono insegnate materie che hanno a che fare con la religione. ?onsiderato prestigioso. In alcune scuole pubbliche si ? deciso di introdurre l?nsegnamento di ?ultura cristiana? A chi protesta, denunciando l?niziativa come incostituzionale, si fa notare che ? impossibile capire la cultura russa, prima del 1917, senza conoscere la tradizione cristiana.
Ma il vero pericolo ? costituito da organizzazioni religiose non tradizionali. C? stato un periodo in cui le scuole sono state prese d?ssalto da s?tte religiose d?gni genere in cerca di nuovi adepti. Particolarmente attive sono state Scientology e Moon. Sono gruppi che dispongono di grosse risorse finanziarie, attirano nella propria orbita con proposte allettanti, come l?nvito a partecipare a seminari di lingue all?stero. Si presentano con programmi che hanno, apparentemente, obiettivi sociali, di formazione, e non religiosi.
Come avr? capito, nella scuola regna la pi? completa confusione. Ci? lascia anche ampio spazio alla sperimentazione. La nostra scuola, ad esempio, ? frutto di un?sperienza del tutto nuova?
Vuol dire che non sono mai esistite scuole private ortodosse? Neanche prima della rivoluzione?
?rima del 1917 il problema non si poneva, perch? tutti gli insegnanti dovevano essere di provata fede ortodossa. C?rano precisi controlli sul corpo docente. Ad esempio, si doveva dimostrare di essersi confessato e comunicato almeno una volta nel corso dell?nno. A questo scopo venivano rilasciati appositi certificati dalle autorit? ecclesiastiche?
Da quanti anni esiste la vostra scuola?
?el 2001 compiamo 10 anni?
Come si sostiene economicamente?
?iamo in parte finanziati dallo stato, in quanto legalmente riconosciuti. Il resto delle spese viene sostenuto dalle famiglie secondo il loro reddito. Il 25% degli studenti non paga, il 60% paga una retta ridotta. Quindi il maggior onere grava sulle famiglie benestanti, che pagano anche per gli altri. La parrocchia contribuisce alle vettovaglie per la mensa, mette a disposizione i locali, i materiali da costruzione e gli operai?
Sembra un impegno non da poco. Per tutti quanti!
?o ?. L?rganizzazione della scuola non ? facile, richiede tante energie da parte di tutti. Si tratta di un?niziativa spontanea. Questa, come le altre scuole ortodosse, ? nata nell?mbito delle parrocchie, in modo artigianale. Si ? imparato facendo, senza poter contare su un modello da seguire, o su un aiuto esterno, neanche da parte del patriarcato.
All?nizio ogni scuola viveva per s?, senza sapere cosa facessero le altre. Ora, con l?sperienza, la situazione ? migliorata. Ci sono maggiori contatti tra le diverse scuole. Esiste un consiglio dei direttori delle scuole religiose che si incontra regolarmente. Il patriarcato ha istituito una sezione per l?ducazione religiosa. Adesso ? il patriarca in persona a consegnare i diplomi di licenza superiore agli studenti dell?ltimo anno nella cattedrale di Cristo Salvatore?
LE ACCUSE
DI PROSELITISMO
Il patriarca Alessio II, capo della chiesa ortodossa russa, ? forse, dopo l?ntervista rilasciata in luglio al Corriere della Sera, meno sconosciuto al pubblico italiano. In quell?ccasione, egli ha toccato anche un tema delicato, suscitando parecchio scalpore: ha indicato nel conflitto tra ortodossi e uniati (cattolici) in Ucraina occidentale e nel proselitismo cattolico in territori storicamente ortodossi i due ostacoli che si frapporrebbero a una visita del papa in Russia.
Chiedo a padre Aleksej di commentare le parole del patriarca.
?ffettivamente – risponde padre Aleksej -, questi sono i due grossi nodi da sciogliere perch? possa realizzarsi la visita del pontefice nel nostro paese. Nell?craina occidentale, rimasta per lungo tempo sotto la Polonia, si ? sviluppata la chiesa uniate, che fa capo alla chiesa di Roma. Da quando si ? sciolta l?rss, in queste terre la chiesa ortodossa ? diventata il bersaglio del nazionalismo locale e ha fatto le spese del risentimento della popolazione contro i russi. Difatti, si associa l?rtodossia con i russi dominatori.
Molte chiese sono state sottratte con la forza alla comunit? ortodossa. Ci sono stati dei morti. I nostri sacerdoti sono costretti quasi a vivere in clandestinit?. Ora Mosca chiede la restituzione delle chiese che sono da sempre appartenute agli ortodossi. Si chiede la fine di questo conflitto. A parole si sono gi? presi innumerevoli accordi, ma ogni volta le violenze riprendono. Oltre a questo problema, c? la questione del proselitismo cattolico?
Che cosa intende per proselitismo cattolico?
?ntendo questo. Come mai il Vaticano nomina dei propri vescovi in territori in cui storicamente i cattolici non hanno mai vissuto? Nel passato vescovi cattolici erano presenti nelle province in cui c?ra una comunit? cattolica. Ad esempio, a Krasnojarsk, Novosibirsk, nella regione dei tedeschi del Volga. Pensate che effetto farebbe se il patriarca Alessio II nominasse un proprio vescovo nella citt? di Roma!?
?unque un problema di ?atto? Non ? educato comportarsi in un certo modo in casa d?ltri…
?o, non ? solo un problema di forma, ma anche di sostanza. Le missioni cattoliche arrivano col pretesto di aiutare la Russia, portando avanti ad esempio programmi umanitari. Tutto senza mettersi d?ccordo col vescovo ortodosso locale. Come se si fosse in terra pagana. Insomma, c? da parte dei cattolici uno spirito di conquista, come nel Medio Evo.
Durante gli anni del regime comunista l?iuto dei cattolici d?ccidente ? stato fondamentale. Quanti libri, quante bibbie ci hanno fatto arrivare, aiutandoci a tenere viva la fiamma della fede. Era per noi una boccata d?ria. E noi accettavamo questi aiuti con grande riconoscenza. A quel tempo la nostra chiesa versava in condizioni catastrofiche.
Poi la situazione ? cambiata. Ci sono stati restituiti i templi. Ora ci tocca un enorme lavoro di ricostruzione, ma i mezzi sono pochissimi. La nostra chiesa ? povera e non pu? certo competere con la chiesa cattolica: sono pochi gli edifici del culto, sono pochi i ministri. Nel 1985 a Mosca, citt? di 8 milioni d?bitanti, c?rano 50 chiese aperte. Oggi con 10 milioni di abitanti ci sono 350 chiese, con una media di tre sacerdoti per chiesa. Ma Mosca, in quanto capitale, ? in una situazione privilegiata rispetto al resto del paese. Le nostre cifre non sono certo comparabili con la realt? della chiesa in Italia.
Dobbiamo affrontare il problema di una tradizione che ? stata perduta. ?na tragedia per il popolo. La gente deve consolidarsi, deve essere aiutata a riavvicinarsi alla fede dei propri padri. Invece qual ? lo spettacolo che si presenta loro: chiese diverse in competizione tra loro. Il nostro popolo ? stato privato della propria cultura e questo non ? certo il modo per aiutarlo a ritrovare i riferimenti smarriti?
Tuttavia, lei stesso ha detto che il lavoro da fare ? enorme e che le vostre forze sono inadeguate. Possibile che il contributo di altri cristiani non possa servire? O ci sono altre forme d?iuto a voi pi? gradite?
? cattolici possono fare molto. Potrebbero, ad esempio, aiutarci nella formazione di persone che poi lavorino con la gente sul territorio, magari, invitandoci a vedere come fanno loro in Occidente. ?uesto tipo di aiuto che noi ci aspettiamo: che comunichino a noi, ortodossi, la loro esperienza, non che agiscano indipendentemente da noi?
CHIESA E STATO:
A CIASCUNO IL SUO?
Padre Aleksej, lei ci ha ricordato che per la costituzione russa la chiesa ? separata dallo stato. Essa dovrebbe essere, quindi, indipendente nel giudicarne l?perato. Nei confronti della guerra in Cecenia, qual ? la posizione della chiesa ortodossa?
?urtroppo, la chiesa non ha in proposito una sua posizione politica chiara e univoca. Essa, coscientemente, tace su questo tema. Eppure, sono molti che guardano alla chiesa, perch? si aspettano di sentire una parola di verit?. Invece essa tace. In questo ? determinante il retaggio del passato, quando la chiesa non interferiva nella politica dello stato per il timore di ritorsioni.
Nella realt?, ci troviamo di fronte a due atteggiamenti opposti. Da un lato, c? stata l?niziativa di alcune parrocchie di inviare aiuti a chi si trova nella zona del conflitto. Dall?ltro, la chiesa prega per i soldati russi; ci sono tra le truppe russe sacerdoti per la somministrazione dei sacramenti; nella cattedrale di Cristo Salvatore si celebrano le esequie solenni di soldati russi morti in Cecenia.
In questo modo acquistano il peso di funerali di stato. Si tratta, chiaramente, di un gesto dimostrativo, cui viene data ampia risonanza dalle reti televisive nazionali. Tanto pi? che non sappiamo se questi soldati fossero cristiani, se volessero essere sepolti secondo il rito ortodosso, se siano morti benedicendo o maledicendo.
Naturalmente, simili immagini televisive danno l?mpressione che la chiesa sia dalla parte dello stato. In linea di principio, la chiesa, giustamente, sostiene lo stato, perch? essa ? per la stabilit? del paese. Il problema, per?, ? a quale prezzo?
Come ha accolto la chiesa il passaggio di poteri da Eltsin a Putin?
ƒipeto, ufficialmente la chiesa non si esprime al riguardo. Possiamo, per?, ricordare alcuni fatti.
Ad esempio, la prima cosa che ha fatto Putin la notte stessa in cui ? diventato presidente ad interim, dopo le dimissioni di Eltsin, ? stata di andare a trovare il patriarca (si pu? dire che lo abbia tirato gi? dal letto) per chiedergli la benedizione.
Un altro fatto. Una settimana prima delle elezioni presidenziali, nell?mbito del programma televisivo Kanon, tenuto da sacerdoti, ? stato dato ampio rilievo a un episodio della biografia del futuro presidente. Si ? raccontato che Putin, dopo l?ncendio che alcuni anni fa distrusse completamente la sua casa di campagna, avrebbe ritrovato tra le rovine fumanti un unico oggetto: una croce metallica, ricevuta da bambino.
E ancora. Del tutto inaspettatamente, Putin ha inviato un telegramma d?uguri per il compleanno a un anziano starec, un monaco molto autorevole tra il popolo per la propria fede, che vive nel monastero delle grotte di Kiev. Evidentemente, qualcuno glielo ha suggerito e il presidente ne ha compreso la portata politica. Indubbiamente, Putin ? stato allora sostenuto da alcuni circoli ecclesiastici, che si sono espressi in suo favore.
Ma ci sono anche episodi che mostrerebbero l?ntenzione di mantenere certe distanze nei confronti del patriarca. Ad esempio, in occasione della pasqua, Putin non ha assistito alle celebrazioni religiose a Mosca, ma si ? recato a Pietroburgo.
A proposito, ecco un altro fatto a mio parere significativo. In Russia, quando ci si fa gli auguri di pasqua, si dice ?risto ? risorto? cui sempre si risponde: ?n verit? ? risorto? Sapete, invece, cosa ha risposto Putin? Ha risposto: ?razie!?.

TRA ZAR E PASTORI

La chiesa ortodossa russa ? la pi? grande tra le 15 chiese ortodosse autocefale. ?uidata attualmente da Alessio II, patriarca di Mosca e di tutte le Russie, che governa col santo Sinodo, di cui ? presidente. Il potere supremo nella dottrina e nel governo spetta al concilio locale, che viene convocato di solito ogni 5 anni. Diversamente dalla chiesa cattolica, la chiesa ortodossa non richiede il celibato dei preti, cui nega per? l?ccesso alle alte gerarchie ecclesiastiche: solo i monaci possono diventare vescovi.

DA KIEV A MOSCA
Il 1988 (*) ha visto in tutta l?RSS le solenni celebrazioni per i mille anni dal battesimo della Rus?(da non confondere con la Russia, ndr) che hanno avuto il loro culmine nella citt? di Kiev, ora capitale della Repubblica ucraina. La cristianizzazione nelle terre russe, infatti, si fa risalire all?nno 988, quando Vladimir, gran principe di Kiev, si battezz? e fece battezzare il proprio popolo. La Russia scelse di entrare a far parte della chiesa cristiana d?riente e non di quella di Roma.
Oltre che da ragioni geografiche e politiche, questa scelta si spiega con l?ntensa opera di evangelizzazione delle terre slave che Costantinopoli aveva promosso fin dal IX secolo, inviando i monaci tessalonicesi (greci) Cirillo e Metodio presso il principato di Moravia. La loro opera fu senz?ltro favorita dal fatto che i due monaci conoscevano la locale lingua slava e che se ne servirono, non solo per predicare, ma anche per la liturgia e per la traduzione dei libri sacri. A questo scopo adattarono l?lfabeto greco ai suoni dello slavo. Fu cos? che gli slavi ebbero la scrittura cirillaca.
Missionari e catechisti arrivarono nella Rus?dalle terre slave gi? cristianizzate, mentre l?lta gerarchia ecclesiastica, i vescovi e il metropolita, erano designati direttamente dal patriarca di Costantinopoli. Tutti i metropoliti del periodo premongolico, eccetto due, furono greci.
Nel X secolo iniziarono a diffondersi in Russia i monasteri. Nel 1051 fu fondato il famoso monastero delle Grotte di Kiev. Come in Occidente, i monasteri divennero importanti centri di arte e di cultura. I monaci redigevano le cronache, traducevano opere teologiche, storiche e letterarie, si dedicavano alla pittura delle icone.
Nel 1237, l?sercito di Kiev venne sconfitto dalle armate mongole di Batu, che avanzavano verso l?uropa centrale. Il ?iogo?dei mongoli, chiamati tatari dai russi, grav? sui territori centrali e meridionali della Rus?fino al 1480. Ci? ebbe incalcolabili conseguenze sulla storia e la cultura del paese. La civilt? fiorita a Kiev cadde in rovina. Nuovi centri politici e commerciali cominciarono lentamente a svilupparsi molto pi? a nord, nei principati di Vladimir, di Tver?e di Mosca, tutti tributari dei tatari.
Anche la sede del metropolita si spost? al nord, prima a Vladimir (1299) e poi a Mosca (1325). Ci? contribu? a dare lustro alla citt? e al suo principe, che stava cercando di affermare la propria egemonia nella regione. Nel 1336 San Sergio di Radonezh fond?, non lontano da Mosca, il monastero della Trinit?, che divenne un importante centro religioso e culturale. Qui visse e lavor? anche il famoso pittore d?cone Andrei Rublev.
Con il crescere della potenza politica di Mosca e il decadere dell?mpero cristiano d?riente, la chiesa russa si rese sempre pi? autonoma dal patriarca di Costantinopoli. Nel 1448 fu il consiglio dei vescovi russi, e non Costantinopoli, a nominare il nuovo metropolita Iona: la chiesa russa divenne autocefala. Infine, nel 1589 il patriarca di Costantinopoli Geremia, in visita a Mosca, consacr? il metropolita Iob primo patriarca di Mosca e di tutte le Russie. Nel 1590 anche gli altri patriarchi approvarono l?stituzione del patriarcato di Mosca, che divenne il quinto, dopo quelli di Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme.
Aumentava, intanto, l?nfluenza sulla chiesa russa dei grandi principi di Mosca, che ambivano a raccogliere l?redit? politica di Bisanzio, caduta definitivamente in mano ai turchi nel 1453. L?deologia politica moscovita trov? espressione nella teoria di ?osca terza Roma? formulata agli inizi del Cinquecento dal monaco Filofej.

LA CHIESA E GLI ZAR
Il primo a mettere seriamente in questione il primato del potere temporale su quello spirituale fu il patriarca Nikon (1652-1667), che perseguiva l?dea di uno stato teocratico. Egli promosse, tra l?ltro, la riforma dei libri e dei costumi liturgici per eliminare le divergenze createsi nei confronti della chiesa greco-ortodossa. Questi cambiamenti non furono mai accettati da una parte dei fedeli, che li considerarono un tradimento della tradizione slavo-cristiana. Ebbe cos? origine lo scisma dei ?ecchi credenti? che dura fino ai nostri giorni.
Le aspirazioni teocratiche portarono Nikon a scontrarsi con lo zar Aleksej Mikhajlovic (1645-1676). Nikon ebbe la peggio: nel 1666 lo zar fece deporre il patriarca dal concilio.
L?nizio del XVIII secolo fu segnato dalle riforme occidentalizzanti di Pietro I, che toccarono anche la chiesa. Dopo la morte del patriarca Adrian nel 1700, Pietro imped? che venisse eletto un suo successore, finch? nel 1721 abol? il patriarcato e stabil? per la chiesa un organo di governo collegiale, il santo Sinodo, costituito sul modello delle chiese luterane di Svezia e Prussia. Il Sinodo era presieduto da un funzionario statale, detto anche ??cchio dello zar? che ne controllava l?perato. Questo controllo fu facilitato dall?cquiescenza di buona parte dell?lto clero. Con i successori di Pietro la linea di condotta verso la chiesa non cambi?, anzi; il potere laico acquist? un peso sempre maggiore negli affari ecclesiastici, finch?, col manifesto di Paolo I (1797), l?mperatore divenne anche il capo della chiesa ortodossa russa.
All?nizio del XX secolo si fece pressante l?sigenza di un rinnovamento della chiesa. Il concilio del 1917-18 vot? la restaurazione del patriarcato, eleggendo alla dignit? di patriarca il metropolita di Mosca Tichon, ed espresse l?ntenzione di riformare l?rdinamento ecclesiastico. Ci? non ebbe seguito, perch? nel settembre del 1918 il concilio fu disperso dai bolscevichi che combattevano la religione e la chiesa, considerata un?stituzione controrivoluzionaria.

LA CHIESA E IL REGIME COMUNISTA
La prima Costituzione del 1918 sanciva la separazione dello stato e della scuola dalla chiesa e privava i sacerdoti e i membri delle loro famiglie del diritto elettorale; nel 1918-20 ci fu la campagna contro le reliquie; nel 1922 vennero confiscati i beni ecclesiastici, fu arrestato il patriarca Tichon.
Durante la guerra civile che segu? al colpo di stato bolscevico furono uccisi 23 vescovi e circa 10.000 sacerdoti. Una parte della gerarchia ecclesiastica emigr? dopo la sconfitta dell?esercito bianco? dando vita alla chiesa ortodossa russa all?stero. Alla morte di Tichon (1925) le autorit? impedirono che venisse eletto un nuovo patriarca e il metropolita Sergij divenne vicario del locum tenens patriarcale. Egli tent? di normalizzare i rapporti con lo stato e nel 1927 eman? un documento in cui si affermava che l?ppartenenza alla chiesa non era incompatibile con la fedelt? all?nione Sovietica. Questo documento, conosciuto come la ?ichiarazione di Sergij? segn? la definitiva rottura con la chiesa russa all?stero. I tentativi di arrivare a un compromesso col regime non salvarono tuttavia la chiesa dalle grandi epurazioni degli anni Trenta. Furono chiusi gli ultimi monasteri rimasti e gran parte delle chiese parrocchiali. Gli anni pi? terribili furono tra il 1937 e il 1941, quando vennero fucilati 110.700 membri del clero.
Durante la seconda guerra mondiale Stalin comprese che il sentimento religioso poteva giocare un ruolo importante nel tenere alto lo spirito del popolo. Il 4 settembre 1943 ci fu lo storico incontro tra il dittatore e i metropoliti Sergij, Aleksij e Nikolaj, che segn? l?nizio di una nuova fase nelle relazioni tra stato e chiesa. Gi? l? settembre si apr? il concilio, che finalmente consacr? Sergij patriarca. Furono riaperti tre seminari (Leningrado, Zagorsk, Odessa), due accademie (Leningrado, Zagorsk), un certo numero di chiese parrocchiali, alcuni monasteri. Dopo la morte di Stalin ricominci? la campagna antireligiosa e con Kruscev gli attacchi alla chiesa ripresero. Solo alla fine degli anni Ottanta la chiesa si vide riconoscere pienamente il diritto di esistere.
Nell?prile del 1988, durante un incontro tra Michail Gorbachev e il patriarca Pimen, fu ufficialmente riconosciuto il ?iritto dei credenti di esprimere liberamente le proprie convinzioni?
Da allora per la chiesa russa ? cominciato un periodo di lenta e difficile rinascita.

LA NASCITA DELLA ?HIESA UNIATE?L?nione tra la chiesa greca e di quella latina fu formalmente approvata al Concilio di Firenze del 1439, ma non fu mai accettata dalla chiesa russa. Al concilio era presente il metropolita di Kiev, il greco Isidoro, il quale, al suo ritorno, cominci? a predicare la restaurata unit? tra le chiese. Arrivato a Mosca, per?, fu subito arrestato, ma riusc? a fuggire. L?nione rimase lettera morta anche nei territori bielorussi e ucraini, a quel tempo divisi tra Polonia e Lituania, dove si trovava anche Kiev.
All?nizio del Cinquecento la chiesa rutena (di Ucraina e Bielorussia) entr? in un periodo di grande crisi. L?buso del patrocinio laico aveva elevato al soglio vescovile candidati indegni, con una caduta del livello morale e culturale della gerarchia ecclesiastica. Iniziava a diffondersi lo spirito del protestantesimo, soprattutto tra i fedeli delle classi alte, attirati da calvinismo e antitrinitarismo. La chiesa rutena non aveva i mezzi culturali (mancava completamente di scuole teologiche) per far fronte a questa difficile situazione, n? poteva sperare nell?iuto di Costantinopoli.
Molti cominciarono a guardare alla chiesa di Roma, della cui efficiente organizzazione avevano un esempio nei vicini territori polacchi. Si fece strada l?dea che un?nione con Roma avrebbe potuto portare i benefici della rinascita cattolica. La cosa sembrava facilitata dal fatto che la diversit? dei riti era stata gi? approvata al Concilio di Firenze.
Il 12 giugno 1595 si riun? a Brest il sinodo della gerarchia rutena; si decise di inviare due vescovi a Roma per concludere l?nione con Roma, che fu ratificata in Vaticano il 23 dicembre 1595. Il documento fu successivamente approvato da un nuovo sinodo, riunitosi nell?ttobre 1596, sempre a Brest, ma fu respinto da una parte della gerarchia rutena, che aveva nel frattempo assunto una posizione anti-unionista. Non fu possibile sanare il dissidio tra le due parti, che si scomunicarono a vicenda.
Nel 1654 Kiev e l?craina occidentale passarono sotto il dominio di Mosca e ogni progetto d?nione con Roma dovette essere abbandonato. Invece tutte le diocesi della chiesa ortodossa rutena rimaste nei confini dello stato polacco-lituano accettarono l?nione entro la fine del XVII. Bi.Ba.

(*) Sui

mille anni del cristianesimo russo si veda ?rss: lo stato non ? Dio? numero monografico di Missioni Consolata dell?ttobre 1988. Pi? recente ƒussia. La fatica di rinascere?su Missioni Consolata del gennaio 1996.
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Biancamaria Balestra




Silenzio. La guerra è finita

Esattamente un anno fa il governo Putin dichiarò la vittoria delle truppe russe sui «terroristi» ceceni. Ma la guerra che Mosca nega e il mondo non vuole vedere continua più violenta che mai. Oggi, l’unica cosa sicura sono le atrocità di cui tutti i contendenti portano la responsabilità. La prima vittima di questa situazione è la popolazione civile, che deve subire le vessazioni dell’esercito, dei nazionalisti e dei banditi. Nel silenzio e nell’indifferenza, perché (come dicono le autorità moscovite, i giornali e la televisione) la guerra è finita.

Immaginatevi uno scenario di questo genere. Visto l’imperversare delle cosche mafiose in Sicilia, la cui attività criminale si fa sempre più aggressiva (rapimenti, attentati, omicidi, racket della droga), il governo italiano decide d’iniziare in quella regione una vasta operazione anti-mafia, con l’uso dell’esercito e di tutti i possibili mezzi militari.
L’intento è di annientare i mafiosi, bombardandone i covi, reali o presunti, senza risparmiare le abitazioni vicine o, addirittura, villaggi e città. Pian piano si stringe il cerchio intorno a Palermo, dove i mafiosi oppongono una strenua resistenza. Infine la città viene presa, le bande mafiose in rotta vengono spinte verso il montagnoso entroterra e si dichiara vittoriosamente terminata la campagna anti-mafia.
Immaginate che i militari, mandati a ripulire i villaggi da eventuali mafiosi rimasti nascosti, si abbandonino a saccheggi, violenze indiscriminate sui civili, brucino case, ammazzino, portino via gli uomini e che, quando i parenti delle vittime tentano di ottenere giustizia, la procura si rifiuti sistematicamente d’indagare.
Fate un ultimo sforzo. Immaginate che gli italiani abbiano accolto le notizie delle operazioni militari in Sicilia con grande soddisfazione, che radio, televisioni e giornali siano unanimi (salve rare eccezioni) nel sostenere le ragioni del governo…
L’OPERAZIONE
«ANTI-TERRORISTICA»
Un anno fa la nostra cronaca degli avvenimenti in Cecenia si era interrotta al 6 febbraio (vedi Missioni Consolata, marzo 2000), giorno in cui fu annunciata la liberazione di Groznyj da parte dell’esercito federale. L’improvvisa fuga dei guerriglieri ceceni dalla capitale aveva colpito tutti di sorpresa. Si è, poi, venuto a sapere che cosa era accaduto: ai capi guerriglieri era stata fatta pervenire la falsa notizia che avrebbero potuto comprare dai militari una via d’uscita da Groznyj verso le montagne, lungo un percorso prestabilito.
Il corridoio «di salvezza» passava, in realtà, per campi minati e conduceva nella pianura a ovest di Groznyj, in precedenza dichiarata dalle autorità russe «zona di sicurezza», verso alcuni villaggi, dove i guerriglieri dovevano arrivare indisturbati per poi essere accerchiati e annientati dall’esercito. L’aviazione e l’artiglieria hanno colpito i villaggi che si trovavano lungo quel percorso. I guerriglieri hanno subito perdite, ma molte di più sono state le vittime tra i civili.
In ogni caso, il tentativo di sbarrare ai guerriglieri la strada verso le montagne non è riuscito. Il 5 marzo a Komsomol’skoe i militari sono effettivamente riusciti a intrappolare un cospicuo gruppo di guerriglieri al comando di Ruslan Gelaev, infliggendo loro perdite ingenti. Questa volta il villaggio era stato preventivamente evacuato, ma gli abitanti sono stati bloccati in un campo poco distante e tenuti per alcuni giorni all’addiaccio, senza ripari e senza cibo, mentre sulle loro teste volavano i proiettili; si trovavano, infatti, tra i due fuochi.
Il 14 marzo è stato preso il famigerato capo guerrigliero Raduev; il temibile Shamil Basaev aveva lasciato una gamba su una mina mentre usciva da Groznyj. Tutto ciò ha fatto sì che a metà marzo 2000 l’«operazione anti-terroristica» venisse per l’ennesima volta dichiarata conclusa.
Non dimentichiamoci che il 26 marzo ci sono state le elezioni presidenziali, stravinte da Vladimir Putin, allora presidente ad interim, grande sostenitore della campagna cecena. Anche nella «pacificata» Cecenia le elezioni si sono svolte regolarmente. Ce lo ha mostrato la televisione.
Ma non si erano ancora spenti i festeggiamenti per la vittoria di Putin, che è giunta la notizia di un’imboscata tesa dai guerriglieri a una colonna russa.
La guerra continuava.
E IL POPOLO PAGA
Il conflitto ha assunto sempre di più la forma di una guerra partigiana. Secondo stime ufficiali, nella «pacificata» Cecenia ogni settimana muoiono più di venti militari, vittime di attacchi kamikaze, bombe, agguati, mine.
Ma di gran lunga maggiore è il numero di vittime tra i civili. Dall’inizio delle ostilità è stato subito chiaro che nessuna delle due forze in campo si preoccupa della sicurezza della popolazione: i guerriglieri collocano le proprie postazioni vicino ai villaggi, l’esercito li bombarda indiscriminatamente. Con la guerra partigiana i civili hanno cominciato a morire per gli scontri che avvengono a seguito di attacchi a posti di blocco o a basi militari in prossimità o all’interno dei centri abitati. Inoltre, sono iniziati gli attentati a veri o presunti collaborazionisti: sono stati uccisi diversi capi delle amministrazioni locali; il 22 ottobre a Groznyj un’auto-bomba parcheggiata accanto a un edificio del Ministero degli interni ha ucciso 17 civili che si trovavano negli uffici per normali pratiche amministrative. È un segno di debolezza. I guerriglieri non hanno l’appoggio del popolo, per cui ricorrono al terrore verso chiunque abbia contatti di qualsiasi genere con le strutture federali.
Ma molto più brutale è il comportamento dei militari russi nei confronti della popolazione civile.
LE OPERAZIONI
DI «RIPULITA»
Nel gergo militare russo esiste il termine zachistka, «ripulita», a designare il controllo dei documenti, casa per casa, che si effettua quando si vuole verificare che in un villaggio o in un quartiere non si nascondano criminali. Si tratta di un’operazione che in Cecenia presenta enormi pericoli. Per i civili. Può capitare quello che è avvenuto il 5 febbraio 2000 nel villaggio di Novye Aldy, alla periferia di Groznyj.
Quando vi sono entrati i russi, i guerriglieri avevano ormai abbandonato la zona. Nel corso della zachistka, durata alcune ore, i militari hanno ucciso, picchiato, rubato indisturbati, lasciando dietro di sé un pesante bilancio di morti: 46 quelli accertati.
È agghiacciante leggere le testimonianze dei sopravvissuti: i soldati si sono accaniti contro donne, ragazzi, vecchi; hanno ucciso invalidi, hanno finito i feriti (il villaggio era stato in precedenza bombardato più volte) con incredibile cinismo, accompagnando le loro gesta col turpiloquio e le ingiurie più umilianti. Una violenza del tutto gratuita: nessuno li aveva minacciati, gli abitanti non aspettavano altro che uscire dai rifugi e riprendere le loro attività. «Uccidevano, bruciavano la gente senza chiedere i documenti. Chiedevano soprattutto soldi e oro, poi sparavano», ha detto Marina Ismailova, abitante del villaggio, ai rappresentanti di Memorial (vedi box). Poi davano fuoco ai corpi o alla casa.
Anche senza arrivare a tali eccessi, è diventata pratica quasi di routine condurre la zachistka in questo modo: prima si abbatte la porta della casa; poi si lancia una granata all’interno, facendola seguire da una raffica di mitragliatrice; infine si procede ad accertare l’identità degli abitanti.
In Cecenia le «ripulite» sono all’ordine del giorno. Non sempre si concludono così tragicamente come a Novye Aldy. Dipende dal grado di sobrietà dei soldati. Può andar bene come può andar male. Allora ci scappano i morti, a volte tanti morti, come nel quartiere Staropromyslovskij di Groznyj, il primo ad essere occupato dalle truppe federali nel gennaio 2000, dove sono stati uccisi decine di civili rimasti nelle loro case.
PRESUNZIONE
DI COLPEVOLEZZA
C’erano già durante la prima guerra cecena. Gli uomini dai 10 ai 60 anni vengono considerati tutti potenziali guerriglieri e possono, quindi, essere fermati per accertamenti.
Il fermo può avvenire a un posto di blocco, durante una zachistka o durante un’operazione militare. Gli uomini vengono portati via senza che ai congiunti siano date spiegazioni: perché, dove, per quanto tempo. Di regola non si sa neanche da chi sono stati prelevati, perché i militari indossano per lo più tute mimetiche, senza segni di riconoscimento che permettano di capire a quali delle diverse formazioni militari e di polizia presenti sul territorio ceceno appartengano.
Chi si sarà portato via tuo padre, tuo figlio, tuo fratello? I corpi speciali del ministero dell’Inteo? Un reparto di soldati del ministero della Difesa? Un gruppo di kontratniki, come vengono chiamati i soldati mercenari? Per i congiunti incomincia una lunga ricerca presso luoghi di detenzione e i diversi comandi militari; per il prigioniero comincia una via crucis che può finire con la morte.
Il sistema del «filtraggio» presuppone che ci siano elenchi di persone ricercate, dossier sulla base dei quali stabilire l’eventuale appartenenza a bande armate. In realtà non esiste niente del genere. Una volta che sul torso non sono stati rilevati segni evidenti di porto d’armi, non rimane che la confessione del prigioniero. Siccome per tutti i ceceni vale la presunzione di colpevolezza, la confessione deve essere estorta con le botte e la tortura.
Nei campi di «filtraggio» (in russo: fil’tracionnye lagerja) lavorano, tra l’altro, picchiatori e torturatori di professione: sono gli specialisti della «Direzione centrale esecuzione castighi» (Guin) del ministero della Giustizia. Ma prestano la loro opera anche i soldati. Gli scampati se li ricordano spesso ubriachi fradici. I prigionieri vengono ammassati in celle sovraffollate, picchiati di giorno e di notte, sottoposti a ogni genere di soprusi, minacciati, ingiuriati nel peggiore dei modi, tenuti senza mangiare e senza bere. Non pochi muoiono per le botte e le torture. Se il prigioniero ha dei familiari che riescono a sapere dove si trova e sono disposti a pagare un riscatto, costui alla fine viene liberato, altrimenti, peggio per lui. Di altri sono stati ritrovati i corpi, frettolosamente sotterrati, con segni di torture e di una morte violenta.
IMPUNITÀ ASSOLUTA
In Cecenia non è possibile avere giustizia, perché regna l’arbitrio più totale. L’assassino, il torturatore, il violentatore, lo sciacallo hanno piena coscienza della propria impunità: sanno che non verranno perseguiti per i propri crimini. Per lo meno, così è stato fino ad oggi. In Cecenia non funzionano i tribunali; quelli di altre repubbliche della Federazione Russa affermano di non avere giurisdizione sul territorio ceceno. In alcuni casi i parenti delle vittime si sono rivolti alla corte di Strasburgo; altri hanno presentato denuncia direttamente al Rappresentante speciale del presidente della Federazione Russa per il rispetto dei diritti dell’uomo e del cittadino in Cecenia. Egli stesso ha affermato di aver ricevuto 4.000 esposti per crimini contro la persona commessi dalle forze armate russe. Solo in una ventina di casi sono state avviate indagini. Di solito la procura si rifiuta di procedere, affermando che il fatto non sussiste, o che non ci sono gli elementi sufficienti. Comunque sia, non è noto neanche un caso in cui i colpevoli siano stati trovati e condannati.
SPARIZIONI E CORRUZIONE
Uno dei principali scopi dell’«operazione anti-terroristica», iniziata da Mosca nell’autunno 1999, era di porre fine all’industria dei rapimenti, che aveva assunto proporzioni massicce e di cui soffrivano in primo luogo gli stessi ceceni.
Le autorità russe hanno, però, trascurato il fatto che il mercato d’uomini è cominciato proprio durante la prima guerra cecena, quando i militari russi erano soliti vendere a caro prezzo la liberazione di un prigioniero, o il rilascio da un campo di filtraggio. Venivano, addirittura, venduti i corpi degli uccisi. Oggi in Cecenia le persone continuano a sparire, non rapite da banditi o terroristi, ma fermate da coloro che conducono l’operazione anti-terroristica.
Altro encomiabile proposito di Mosca: restaurare la legalità, debellare la corruzione e il malaffare. Oggi, per attraversare i numerosi posti di blocco, bisogna essere disposti a pagare un balzello: 10 rubli, circa 800 lire. Non è molto, ma i posti di blocco sono tanti, soprattutto nelle zone più sicure, dove i soldati possono permettersi di essere più arroganti. I posti di blocco cominciano a diradarsi e i soldati a farsi più cauti nelle zone meno sicure. Se rifiutate di dare i 10 rubli di mancia alla sentinella, state certi che non ripartirete tanto presto: cominceranno gli accertamenti sulla vostra macchina e sulla vostra identità. Per farlo bisognerà, ad esempio, consultare un computer, che però, vista la mancanza di energia elettrica, difficilmente potrà dare un responso in breve tempo.

KALASHNIKOV E MINE:
PREZZI IN DISCESA
Da quando è cominciata la seconda guerra cecena, i prezzi delle armi al mercato nero sono scesi: è diventato più facile rifoirsene dai russi. Prima un kalashnikov costava 400 dollari, adesso appena 100, una mina adesso costa 3 dollari e mezzo, altrettanto una granata. A proposito, c’è qualche militare burlone che ai familiari di persone trattenute nei luoghi di «filtraggio» propone un escamotage: se si consegnano le armi, il congiunto potrebbe passare per guerrigliero pentito. E il militare si dichiara disposto a vendere il suo kalashnikov.
Inutile dire quanto la pratica dei bombardamenti indiscriminati, delle zachistke, dei campi di filtraggio possa giovare a riportare la pace nel paese e favorire il legame tra russi e ceceni. È stata seminata una tale quantità di odio, da bastare per qualche generazione.
Altro obiettivo del governo Putin era la lotta senza quartiere contro i banditi. Ma anche su questo punto ci sono ragionevoli dubbi. La banda del sanguinario Arbi Baraev è uscita illesa da Groznyj, per lo stesso corridoio lungo il quale qualche giorno dopo gli altri guerriglieri avrebbero trovato le mine; la sua famiglia continua a vivere indisturbata ad Alkhan Kala; anche lui vi soggioa, allontanandosene, però, prima dei controlli. Il fratello è stato visto attraversare senza problemi un posto di blocco su una jeep nuova di zecca. C’è chi apertamente afferma che egli sia un agente della FSB (i servizi di sicurezza).
D’altra parte, anche l’operazione più perfetta fallisce quando c’è la corruzione. Se un guerrigliero dovesse finire in un campo di filtraggio saprebbe subito come uscie. Basta pagare. Lo stesso vale per i posti di blocco.
Intanto, da settembre ha ripreso il flusso dei profughi in Inguscetia: chi non ha fatto tempo a ricostruirsi la casa non può affrontare l’inverno senza un tetto. E, poi, in Cecenia gli aiuti umanitari arrivano più difficilmente, senza contare che si rischia la vita ogni giorno. Ci sono stati casi di profughi rientrati che hanno trovato la morte durante una zachistka, o per una bomba o per pallottole vaganti.
Anche nei campi profughi la sopravvivenza è a rischio per i più deboli a causa del freddo, delle malattie, della denutrizione. È stata più volte sospesa la distribuzione di pasti caldi e di pane. Il governo non ha soldi.
LA GUERRA
O L’URGENZA DELLA VITA?
Sono passati parecchi anni da quando, con la perestrojka, la Russia ha cominciato a leggere del proprio recente passato, a stupirsi, a sbiancare per le terribili cose che erano avvenute. Non solo nei lontani lager, ma dietro l’angolo di casa, nelle carceri cittadine, nei boschi fuori città, luoghi di esecuzioni sommarie e fosse comuni. Il lettore è stato investito da una valanga di documenti, testimonianze, memorie; ha letto, e poi… si è stancato. Aveva capito la lezione.
Bisognava chiudere il capitolo e andare avanti. La vita urgeva. Le giovani generazioni non avrebbero ripetuto i tragici errori dei padri, che avevano tollerato, taciuto, che si erano tappati occhi, orecchie, bocca ed erano, infine, caduti nella fossa scavata per loro.
Quando è iniziata la prima guerra cecena, qualcuno si è mobilitato. Si è creato un movimento di opposizione al conflitto. Pareva il pallido inizio di una nuova vita. Poi è iniziata la seconda guerra cecena. Ed è calato il silenzio.

Biancamaria Balestra




Sarà una tentazione, ma il cristianesimo è bello

Che significa oggi «fuori della chiesa non c’è salvezza»?
La chiesa di Cristo «è» o «sussiste» in quella cattolica?
Forse non sono questioni di lana caprina…
È significativo che Dio voglia la salvezza di tutti,
a prescindere dalle religioni di appartenenza.
E «non nega la grazia a chi fa quanto può».

A volte basta cambiare
una virgola
Lo storico Eusebio di Cesarea (263-337) scrisse che a Costantino Magno, in occasione della battaglia decisiva contro Massenzio alle porte di Roma, apparve in cielo come presagio di vittoria una croce luminosa e le parole: «In questo segno vincerai». Era il 28 ottobre del 312.
Ma, nel secolo precedente, avvenne qualcosa forse di più importante, di certo storicamente più sicuro. Nel cielo della chiesa apparve una «meternora», che non sarebbe più scomparsa. In altre parole: il vescovo Cipriano (210-258) enunciò il famoso principio: Extra ecclesiam nulla salus (fuori della chiesa non c’è salvezza). «Non è infatti possibile – affermava il vescovo africano – avere Dio come padre se non si ha la chiesa come madre». Era la logica conseguenza di quanto gli apostoli Pietro e Paolo avevano affermato: «C’è salvezza solo in Cristo e in nessun altro» (At 4, 12).
Il motto «fuori della chiesa non c’è salvezza» è rotolato lungo i secoli, irrigidendosi come un ghiacciaio perenne. Al Concilio di Firenze (1442) il principio raggiunse persino la rigidità dell’acciaio: «La chiesa crede e annuncia che nessuno fuori della comunità cattolica (non solo pagani, ma anche ebrei, eretici e scismatici) potrà raggiungere la vita eterna, ma andrà nel fuoco eterno… se prima della morte non sarà ad essa unito». Qui, veramente, la chiesa cattolica appare una madre troppo possessiva.
Dopo il 1492, con la scoperta di nuovi popoli (che non avevano mai avuto contatti con il cristianesimo), e più recentemente, alla constatazione che le altre grandi religioni non solo non risultano assorbite dal cristianesimo, ma sono in continuo aumento, quel «blocco di ghiaccio» incominciò a sgocciolare.
Ora si preferisce enunciare il principio al positivo: nella chiesa c’è salvezza, meglio e più sicuramente che altrove. Come in algebra si insegna che tutto può andare a posto cambiando il «meno» in un «più».
Un’operazione
di microchirurgia
La meternora «fuori della chiesa non c’è salvezza» non abbagliava più gli occhi dei padri del Concilio ecumenico Vaticano II, né campeggiava sulla cattedra di san Pietro o nella gloria del Beini. Tuttavia era presente (almeno come un sassolino nella scarpa) in parecchi dei vescovi conciliari; e gli ortodossi e i protestanti osservavano con interesse come se lo sarebbero tolto. Se lo tolsero infatti.
E, da quel momento, i padri del Concilio camminarono più spediti.
I tempi erano maturi per una piccola ma importante operazione, forse una delle più delicate del Concilio. Un’operazione brillante: stupì i non cattolici dell’intero mondo, perché tutti erano consapevoli che si trattava di danzare su un vulcano in eruzione.
Il modo, poi, in cui l’operazione «chirurgica» venne compiuta fa sorridere per la sua semplicità.

Il cambio
di un verbo latino
Riguarda l’articolo 8 della Costituzione sulla chiesa Lumen gentium, approvata dopo molte discussioni il 21 novembre 1964. Da Cristo emana la chiesa, da Lui costituita nei suoi elementi essenziali. Però i padri si chiesero se la «vera» chiesa di Cristo esista ancora e dove si trovi.
Un primo testo affermava: «L’unica chiesa di Cristo, costituita e organizzata in questo mondo come società, è (est) la chiesa cattolica, ancorché fuori del suo organismo si trovino parecchi elementi di santificazione e verità». In tal modo solo la chiesa cattolica è «la» chiesa.
Poi si giunse alla seguente formulazione: «L’unica chiesa di Cristo sussiste (subsistit) in forma integrale in quella cattolica». È l’«integrale» a fare problema; si dice infatti che solo la chiesa cattolica possiede gli elementi della vera chiesa di Cristo, anche se con il «sussiste» si ammette che essa può esistere, sia pure in modo non «integrale», presso altre comunità ecclesiali.
Il testo definitivo si colloca tra le due redazioni e afferma: «La chiesa (originale di Cristo), in questo mondo costituita e organizzata come società (cioè visibile), sussiste (subsistit) nella chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui, ancorché al di fuori del suo organismo si trovino parecchi elementi di santificazione e verità, che, quali doni propri della chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica».
Il nuovo testo riconosce che nelle altre chiese possano esserci «parecchi elementi» della chiesa originale di Cristo. Perciò anche in queste sussiste, in qualche modo, la chiesa di Cristo. L’articolo 15 della Lumen gentium indica gli «elementi» che costituiscono i legami con la chiesa cattolica; essi sono: il battesimo, altri sacramenti (come l’eucaristia), la sacra scrittura, la devozione a Maria, ecc.
Poiché le varie chiese non insegnano le stesse cose (e non solo su aspetti marginali), qualcuno potrebbe concludere che la chiesa di Cristo non esiste più da alcuna parte; perciò nessuna comunità ecclesiale può considerarsi come l’erede autentica ed integrale della chiesa di Cristo. No. Essa sussiste ancora: in modo (più) perfetto in quella cattolica, ma anche in altre chiese.
Una dichiarazione congiunta di ortodossi e «vecchi cattolici», redatta tra il 1977 e il 1981, recita: «La vera chiesa (una, santa, cattolica e apostolica) sussiste senza alcuna interruzione, dalla fondazione fino ai nostri giorni, là dove viene custodita la vera fede, la liturgia divina e l’ordinamento della chiesa antica e indivisa».
Il Vaticano II, con subsistit al posto di est, ha adottato una terminologia «aperta». Il testo è uno stimolo, non una barriera. Se i padri del Concilio avessero voluto imporre barriere, avrebbero mantenuto est o, meglio ancora, sottolineato il secolare Extra ecclesiam nulla salus.
Un paragone per comprendere meglio. San Francesco d’Assisi fondò l’ordine francescano, che si divise in frati minori, conventuali, cappuccini, fraticelli, ecc. Oggigiorno l’ordine fondato da Francesco esiste ancora? Tutti i frati, a prescindere dalla loro appartenenza, rispondono di sì. Però si potrebbe discutere dove l’ordine di san Francesco «sussiste» nella forma genuina e cosa si è perso per strada.
non nega la grazia
a chi fa ciò che può
Il Concilio affrontò pure il problema della possibilità di salvezza per chi appartiene alle religioni non cristiane. L’articolo 16 della Lumen gentium è chiaro: «Quelli che senza colpa ignorano il vangelo di Cristo e la sua chiesa e, tuttavia, cercano sinceramente Dio e, sotto l’influsso della grazia, si sforzano di compiere con le opere la sua volontà, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire l’eterna salvezza».
Questa soluzione contrasta il «fuori della chiesa non c’è salvezza». Il Concilio non poteva scordare quanto aveva sancito al numero ottavo, soprattutto perché continuava ad essere valido il principio altrettanto secolare: facienti quod est in se Deus non denegat gratiam (a chi fa ciò che può Dio non nega la grazia).
Resta oggi aperto un altro problema: quello degli agnostici e indifferenti, di coloro che appartengono alla società secolarizzata e alla laicità. È accettabile la loro provocazione di un «disarmo religioso», ritenendo le differenze come componenti benefiche della diversità umana?

La melassa
È per gli animali
Dal punto di vista cristiano, Gesù è «sorgente di vita per tutti», perché «la salvezza viene da Cristo», come scrive Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptoris missio (1990). Pertanto la missione ad gentes «ha per destinatari gli uomini che non conoscono Gesu Cristo, né il vangelo, né la chiesa» (55). È ugualmente pacifico che «Dio vuole la salvezza di tutti gli uomini» (1 Tim. 2, 4).
Tuttavia è comprensibile che la chiesa si preoccupi di non svendere il proprio patrimonio in bancherelle di periferia. La chiesa cattolica, in particolare, mette in guardia contro due pericoli, che si propagano come una epidemia: il relativismo e il sincretismo.
Il relativismo religioso è «fare di ogni erba un fascio», ritenere che una religione valga l’altra… come se culture, lingue e manifestazioni artistiche fossero tutte uguali. Ma – si sa – l’argento non è oro, il coccio non è maiolica e il vetro non è cristallo! Come avviene pure nel campo monetario: ci sono monete fortemente inflazionate; dove sono in uso, servono al massimo a non morire di fame.
E ci sono monete forti. La chiesa cattolica ritiene di possedee una, garantita da una riserva in oro procuratagli da Cristo e dalla sua storia: una moneta sicura, anche se soggetta a sbalzi. Monete valide esistono pure in altre chiese e religioni. Ma, al cambio, occorre aprire gli occhi.
La ricchezza della chiesa sta nel saluto che Paolo rivolge ai suoi cristiani: «La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo sia con tutti voi». Come in natura: non tutto ciò che per l’uomo è commestibile, lo è alla stessa maniera; col grano buono cresce anche la zizzania; in una rete non tutti i pesci sono uguali.
Le chiese e le religioni non sono uguali: alcune, anzi, possono manifestarsi repressive, intolleranti, disumane; altre (con i valori positivi) possono celare veleni, come anche tra gli aspetti validi possono esistere differenziazioni rilevanti. Per questo occorre l’uso dei «raggi X», come fanno i medici per vedere sotto la pelle. Occorre dare uno sguardo «dietro le quinte».
Più pericoloso ancora (e banale) è il sincretismo, cioè il tentativo di costruire una super-religione prendendo un po’ da tutte, come sostiene il New Age o si è tentato di fare in passato senza nulla concludere. Giungere ad un «esperanto religioso» non è possibile. Il giornalista Igor Man ha adoperato l’espressione «sincretismo marmellata». Forse sarebbe meglio parlare di «melassa», che è quanto rimane dopo aver spremuto dalle barbabietole lo zucchero: una miscela informe, senza colore e gusto, che in Romagna si dà agli animali.

Dove abita il demonio?
Detto questo, la chiesa cattolica non deve più chiudersi in un atteggiamento di rifiuto o opposizione, considerando le altre chiese, l’ebraismo e le religioni come monete fuori uso, residuati da museo, scorie, reliquie rinsecchite, arti anchilosati. Con le altre chiese e religioni bisogna saper convivere, accettando il pluralismo con simpatia dinamica e calore. È un nuovo stile di convivenza cui nessuno è ancora sufficientemente preparato.
Una signora, alla Settimana ecumenica di La Mendola (Trentino), ha raccontato: «Sono nata in un paesino dell’Abruzzo e, vicino a casa mia, c’era un tempio protestante. Già da bambina tutti mi dicevano che, uscendo di casa, non dovevo guardare da quella parte, perché lì c’era il diavolo. Dopo il Concilio, in occasione della Settimana di preghiera per l’unità della chiesa in gennaio, il parroco e il pastore un giorno pregarono nella parrocchia e, un altro, nel tempio evangelico. Fu uno shock per me entrare nel tempio, quando per tutta la vita mi avevano detto che vi abitava il demonio».
Con gli appartenenti alle altre religioni il dialogo è pure doveroso, ma assai più problematico: si rischia di discutere senza fine. Il dialogo è utile nella misura in cui serve, almeno, ad evitare atti d’intolleranza; o, anche, a far meglio capire le differenze e affrontare qualche problema pratico di solidarietà.
Ugualmente il dialogo è indispensabile con la massa dei contemporanei che fanno professione di ateismo, agnosticismo, indifferentismo.
Una comune aspirazione
di salvezza
L’atteggiamento di apertura e dialogo è necessario, poiché in ogni religione c’è una diffusa aspirazione di salvezza. Perché la chiesa cattolica è «cattolica», non per una universalità materiale di presenza, ma per l’onnipresenza dello Spirito.
Valgono i paragoni, portati da Cristo, dell’albero su cui si posano «tutti» gli uccelli dell’aria (Mt 13, 32), del lievito che fermenta l’«intera» massa (Mt 13, 33) e del banchetto con «ogni tipo» d’invitati (Lc 13, 29). Vale l’immagine delle «12 porte» della «Gerusalemme celeste» (Ap 21, 22), che permettono l’ingresso da ogni lato. Più ancora vale la visione da fantascienza che i salvati sono una moltitudine immensa che «nessuno può contare», proveniente da «ogni nazione, razza, popolo e lingua» (Ap 7, 1-9). La bontà di Dio si leva su tutti, come il sole in cielo, e scende su tutti come la pioggia (Mt 5, 43).
Vale il passo degli Atti degli apostoli (17, 22-28), quando Paolo indica agli ateniesi «un Dio ignoto» (che adorano senza conoscerlo), nascosto in immagini e idoli. Ciò significa che le «religioni pagane» non si caratterizzano solo per il segno «meno».
Agli inizi – dice la Bibbia – il mondo fu avvolto da luce, e quella luce «era vita». E prima della luce «c’era il verbo», cioè la parola di Dio: parola, vita, luce che «illumina ogni uomo» senza eccezione.
Infine c’è lo spirito di Dio che «soffia dove vuole» (Gv 3, 8), anche al largo degli oceani e non solo al riparo dei porti.

E attenti ai cortocircuiti!
Fa riflettere quanto raccontò padre Arrupe, superiore generale dei gesuiti, circa la sua prima esperienza in Giappone.
«Nei miei primi tentativi missionari – affermò il gesuita – ricevetti una lezione dolorosa, ma molto utile. Istruivo quattro catecumeni accennando all’esistenza di Dio, l’anima immortale, la creazione, la divinità di Gesù Cristo. Tutto procedeva bene. Poi arrivò il momento di dimostrare l’unicità della vera religione. Dissi, in conclusione, che la religione cattolica era l’unica vera. Senza rendermi conto di dove stavo andando a parare, affermai che il cattolicesimo è il custode dell’unico e vero credo. Quando ebbi finito, i miei quattro uditori sembravano convinti. Non fecero alcuna obiezione, né mi chiesero spiegazioni. Ci salutammo e ci demmo appuntamento per il giorno seguente…
… L’indomani arrivò solo uno dei quattro. Gli altri tre non vennero più. Cos’era successo? L’unico scampato al naufragio me lo spiegò. La mia ultima lezione (esempio tipico d’inesperienza) aveva spento la speranza che quei tre catecumeni, onesti, avevano riposto nella nostra religione. Le riflessioni che si scambiarono dopo il mio discorso furono: “Non è possibile che Dio abbia potuto lasciare, per tanti secoli, i giapponesi fuori della conoscenza dell’unica vera religione. Se nessuno può essere salvato fuori della religione cattolica, quale sarà dunque la sorte di tutti coloro che ci hanno preceduto?”».
Dobbiamo annunciare Cristo, salvatore di tutti gli uomini, ma nel modo giusto.

L’unica tessera
di riconoscimento
La tessera di riconoscimento per essere ammessi in paradiso – come diciamo noi cattolici – è una sola: «Avevo fame e voi mi avete dato da mangiare», con ciò che segue (Mt 25, 31-46).
Come le beatitudini evangeliche sono un paradosso e una provocazione, così lo è il seguente racconto del giornalista Domenico del Rio.
«Budda vide un giorno i dannati che si aggrovigliavano là in fondo e, tra essi, c’era anche Kandata, il famoso brigante e incendiario di paesi. Ma Budda sapeva che nella sua malaugurata vita era stato capace di una buona azione. Un giorno, sulla strada, aveva incontrato un piccolo ragno: invece di calpestarlo, lo aveva posto a lato della via. Per tale piccolo atto di pietà Budda pensò di togliere Kandata dall’inferno. Su una foglia di loto vide il ragno color giada in paradiso, sospeso ad un filo d’argento. Spostò il loto, prese dolcemente il fragile filo e lo calò all’inferno. Kandata vide il filo d’argento e, senza sapere cosa facesse, vi si aggrappò e cominciò a salire. A metà percorso, si fermò un momento e guardò giù nel profondo dell’inferno. Con spavento vide che anche altri dannati, in una lunga fila, si erano aggrappati al fragile filo e salivano lentamente. “No, no – gridò Kandata -, è mio il filo del ragno. Si romperà. Andate via!”. E scuoteva furiosamente il filo per far cadere gli altri. Alla fine il filo si spezzò tra le mani del bandito, che ripiombò nella notte spaventosa tra il fuoco, a testa in giù».
La medesima lezione ci viene dal mondo musulmano. Ad Abur Bakar, mistico di Baghdad, morto nel 945, apparve in sogno un amico, che gli chiese: «Come ti ha trattato Dio?».
«Dio mi ha posto al suo cospetto e mi ha chiesto: “Abur, sai perché ti ho perdonato?”. Io risposi: “A causa delle mie azioni”. E Lui: “No”. Ed io: “Perché ero sincero nella mia devozione”. Dio rispose ancora “no“. “Allora per i miei pellegrinaggi, i digiuni, le preghiere”. “No, non è per questo che ti ho perdonato”. “Perché allora?”.
Dio disse: “Ricordi quando, camminando per le strade di Baghdad, trovasti un gattino che il freddo aveva reso debolissimo e che si muoveva appena da un muro all’altro in cerca di riparo dalla neve, e come tu, preso da compassione, lo sollevasti e lo tenesti sotto il mantello che indossavi e, così facendo, lo proteggesti dal gelo?”.
– Sì, ricordo.
– Perché avesti pietà di quel piccolo gatto io ho avuto pietà di te…».
Per dire che la bontà è senza limiti e apre tutte le porte, anche quelle del cielo.
Un giorno Nikolaevic Tolstoj raccontò una parabola. Un re si recò ad una battuta di caccia. Dopo aver abbattuto molta selvaggina, ebbe sete e andò in cerca di una fonte. Trovata una sorgente d’acqua chiara e fresca, riempì una coppa e fece per bere; ma il falco che teneva sul braccio si agitò e, con un colpo d’ala, la rovesciò. Di nuovo il re riempì la coppa, ma il falco, svolazzando, rovesciò anche questa. Il re, oramai nervoso, ripetè il gesto e, con maggiore attenzione, cercò di bere. Anche questa volta il falco si gettò sopra la coppa e la rovesciò.
Allora il re uccise il falco. Stava quindi per riempire un’altra volta la coppa, quando giunse ansante uno del suo seguito e gli gridò: «O re, non bere quell’acqua. È una sorgente avvelenata».
E Dio non terrà in nessun conto questi atti di estrema generosità, anche se compiuti da animali?

Goffredo, Isacco, Pavel
e Teresina
Che dire se qualche cattolico si recasse in pellegrinaggio a Torino, non nei luoghi sacri, ma in Piazza Castello, per sostare in preghiera di fronte alla lapide di Goffredo Varaglia? La lapide fu posta dai valdesi, l’11 novembre scorso, proprio sul luogo dove il 29 marzo del 1558 Varaglia fu impiccato e bruciato per eresia. Varaglia era un frate francescano. Inviato alla corte di Francia quale membro di una delegazione pontificia, a Parigi aderì al protestantesimo. Poi fu inviato come pastore nelle valli valdesi del Piemonte. Catturato dagli agenti dell’inquisizione e rifiutando di abiurare, fu condannato a morte.
E perché non recarsi anche, sempre a Torino, alla tomba dell’ebreo cuneese Isacco Levi, che gli ebrei venerano per la sua straordinaria carità?
Ancora: perché non invocare la protezione del prete ortodosso russo, Pavel Florenskij (1882-1937), considerato come scienziato un secondo Leonardo da Vinci e, come cristiano, un grande come Agostino o Rosmini? Venne deportato in Siberia e qui, per farlo tacere definitivamente, fu fucilato l’8 dicembre 1937. È un martire della fede.
Teresa di Lisieux (1873-1897), all’età di 14 anni, era preoccupata della sorte del famigerato Pranzini, accusato di assassinio, condannato a morte e ghigliottinato il 31 agosto 1887. Nonostante il rifiuto del reo di confessarsi, la giovane chiede a Dio un segno della sua salvezza. Sul patibolo, con il capo già sul «lugubre foro» – scrive la santa – Pranzini accettò di baciare il crocifisso che gli veniva presentato. Era il segno che Teresa aveva chiesto nella preghiera… In seguito, già sul letto di morte, l’11 luglio 1897, la santa fece questa dichiarazione: «Ha ragione, reverenda madre: se avessi commesso tutti i delitti possibili, avrei sempre la stessa fiducia, sentirei che quel cumulo di offese sarebbe una goccia d’acqua in un braciere ardente».
Non è meraviglioso un cristianesimo che giunge a tali altezze?

Igino Tubaldo




Cristo in mano ai teologi

Il 5 settembre 2000 è apparso «Dominus Iesus»,
dichiarazione della Congregazione
per la dottrina della fede. Il documento,
firmato dal cardinale Joseph Ratzinger
e dall’arcivescovo Tarcisio Bertone,
gode del benestare di Giovanni Paolo II.
Per chi conosce il magistero della chiesa cattolica
la dichiarazione non presenta novità sostanziali.
Vi sono affermazioni vincolanti, quali «deve essere fermamente creduta la dottrina della chiesa»,
ma anche dei condizionali, come «sarebbe contrario alla fede cattolica»…
Tuttavia «Dominus Iesus» ha suscitato
reazioni vivaci e contrastanti.
Ecco qualche esempio (*).

Anche gli anglicani
sono vera chiesa

N el riaffermare la tradizionale opinione della chiesa cattolica sulla posizione delle altre chiese cristiane, la dichiarazione Dominus Iesus non dice nulla di nuovo, ma non riflette nemmeno pienamente la profonda comprensione raggiunta attraverso il dialogo e la cooperazione ecumenica nel corso degli ultimi 30 anni. Sebbene il documento non costituisca parte di quel processo, l’idea che gli anglicani ed altre chiese non siano «chiese in senso proprio», sembra mettere in discussione i notevoli successi ecumenici che abbiamo conseguito.
È importante che celebriamo il processo ecumenico. È un compito a cui resto impegnato in rappresentanza sia della Chiesa d’Inghilterra sia della Comunione anglicana mondiale. È questo un compito che continuerò a portare avanti sia con i leader cattolici sia con quelli di altre chiese sulla base di un profondo rispetto reciproco.
In occasione di un importante incontro di anglicani e cattolici svoltosi a Toronto (che ho presieduto con il cardinale Cassidy), si sono fatti eccezionali passi avanti, riconoscendo un sostanziale accordo su numerosi temi e proponendo che una nuova commissione mista sull’unità porti avanti questo lavoro.
Certamente la Chiesa d’Inghilterra, con la Comunione anglicana mondiale, non accetta che i propri ministeri e l’eucaristia abbiano difetti di alcun tipo. Essa, pertanto, ritiene di essere parte dell’unica, santa, cattolica e apostolica chiesa di Cristo, nel cui nome serve e reca testimonianza, qui e in tutto il mondo.
George Carey, arcivescovo
anglicano di Canterbury

Conta l’incontro
con Cristo

L a Dominus Iesus solleva nelle chiese evangeliche non poche riserve critiche. Il tema del pluralismo religioso (fenomeno in espansione in occidente), pone i teologi dinanzi a sempre nuove domande: non vanno condannati solo per questo. È vero che l’espressione «fuori della chiesa non c’è salvezza» ci viene dai tempi della chiesa primitiva, dove aveva un suo contesto storico e teologico preciso. Noi protestanti abbiamo sempre obiettato a questa formulazione, ritenendo che non è l’«essere nella chiesa» a garantirci la salvezza, quanto piuttosto l’incontro con Gesù Cristo a donarci la salvezza e metterci in comunione con altri credenti nella chiesa. La mediazione è operata esclusivamente da Cristo, mai dalla chiesa.
Quanto poi all’essere salvati o non salvati, Gesù ci ricorda che questo è un compito riservato esclusivamente a Dio Padre; e noi saremo sorpresi di trovare nei due gruppi persone che non avremmo mai immaginato (Mt 21, 31), e del tutto inconsapevoli (Mt 25, 31-40). A noi spetta il compito dell’annuncio dell’evangelo ad ogni creatura, del dialogo fraterno e attento, nel rispetto delle altrui convinzioni, non quello della condanna definitiva.
Da quando la chiesa ha preteso di essere non solo madre e maestra, ma soprattutto un’istituzione che, a suo insindacabile giudizio, dispensa salvezza e condanne, è diventata altra cosa dal modello prevalente del Nuovo Testamento.
Domenico Tomasetto, presidente delle chiese evangeliche in Italia
È la fine
dell’ecumenismo

È vero: lo stile redazionale di Dominus Iesus non è assolutamente lo stesso di quello dei testi del Concilio ecumenico Vaticano II. Assai spesso si adottano formule del genere: «i fedeli non sono tenuti a professare», «si deve credere fermamente che»… Ma io non sono del tutto convinto che questo potrebbe implicare o annunciare la fine di un impegno cattolico sul piano ecumenico o interreligioso. Tutti conoscono le iniziative di Giovanni Paolo II verso le altre religioni: dopo il memorabile incontro di Assisi, le iniziative si sono moltiplicate.
Quanto all’ecumenismo, non si possono trascurare le attese del recente accordo tra luterani e cattolici sulla giustificazione per la fede (31 ottobre 1999). In questo campo si è riusciti in qualcosa di notevole, precisando il punto fondamentale su cui siamo d’accordo, e perché le differenze che restano fra noi non devono essere considerate separatrici. La nostra speranza è che con il tempo l’intesa, riconosciuta possibile su questo punto centrale, possa divenirlo anche su altro.
Joseph Doré, arcivescovo cattolico
di Strasburgo

Un testo da esorcizzare

L a cosa più triste che emerge da Dominus Iesus è «il volto di Dio». Pare lecito chiedersi: in quale Dio crede l’estensore di questo documento del Vaticano? Avrà mai, qualche volta, sentito parlare di «Abbà», il papà di Gesù di Nazaret? Dove è andata a finire, nel testo romano, la gioia manifestata da Gesù per il fatto che Dio rivela i suoi segreti ai piccoli, che non riescono e non riusciranno mai a star dietro ai meccanismi di potere contenuti nel dogmatismo formulato dalle loro chiese? Perché un testo, proveniente da ministri dai quali ci aspetteremmo la conferma nella fede, è tanto pessimista e chiuso all’azione della grazia e alla libertà dello spirito di Dio?
Grazie a Lui, la fede alla quale ci educa Gesù è esattamente il contrario: «Io posso morire e uscire di scena, perché è il Padre l’ultima parola e troverà sempre la spinta di reiterare il suo sì alla vita dell’umanità». Un fratello mi ha ricordato che nel vangelo si dice che Gesù comanda ai demoni di tacere, anche quando dicono una verità: la professione di fede in lui. Sono spiriti diabolici (cioè divisori).
Mi pare che lo spirito del testo abbia bisogno di un esorcismo. Resto in preghiera per la chiesa, perché si lasci convertire ogni giorno ed accetti di morire se il prezzo è la vita dell’umanità. È necessario che mai più un popolo possa cantare, piangendo, come in questo poema maya:
«Quando gli stranieri giunsero qui
ci insegnarono la paura,
fecero appassire i loro fiori
e inghiottirono i nostri fiori…».
Gesù è venuto ad annunciare la vita per tutti i fiori e colori, le razze, culture e religioni. Solo così le chiese possono dare prova della loro fedeltà all’evangelo, senza correre il rischio di essere confuse con gli scribi di qualche congregazione romana.
Manteniamoci fedeli nella testimonianza dell’amore di Dio e nella fiducia che un giorno ci sia concesso il diritto che i vescovi latinoamericani già chiesero nel 1968, nella II Conferenza generale a Medellìn: «Che si presenti sempre più nitido il volto di una chiesa autenticamente pasquale, missionaria e povera, spogliata di potere e coraggiosamente compromessa con la libertà di tutti gli uomini».
Marcelo Barros,
monaco benedettino brasiliano

Sarebbe tragico se…

L a dichiarazione Dominus Iesus ha sorpreso la cristianità. Rischia di chiudere porte che erano state aperte nei decenni passati dallo sforzo ecumenico. Ha provocato forte irritazione.
La causa ecumenica, cioè la ricerca dell’unità dei cristiani, è mandato inalienabile della chiesa di Gesù Cristo. Lo stesso papa ha enfatizzato che si tratta di un impegno irreversibile. Anche la chiesa cattolica confessa di aver bisogno di riforme. È quello che, tra l’altro, ha motivato Giovanni Paolo II, nell’enciclica Ut unum sint, a proporre il dialogo sulla modalità dell’esercizio del papato.
Come partecipanti al seminario, convocato dalla chiesa cattolica e luterana per riflettere sul tema del «ministero», riaffermiamo:
a) esiste un vincolo di unione fra tutte le persone battezzate che invocano il nome di Gesù Cristo;
b) esiste un vincolo di unione fra tutte le persone create ad immagine di Dio, anche se non si dichiarano cristiane;
c) esiste un vincolo di unione fra tutte le persone chiamate al servizio del regno di Dio, la cui vita porta a compimento la nostra speranza.
C’è poi un’unità anteriore alle divisioni cristiane ed umane, anche se con diverse sfumature e modalità.
Come chiese cristiane, ci impegniamo ad una maggiore fedeltà al vangelo. Confessiamo, insieme a tutti i cristiani, la salvezza che è in Gesù Cristo. Ricordiamo i segni di unità esistenti nelle nostre comunità, come la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, la condivisione di vita, la Campagna di frateità ecumenica 2000, la cooperazione in questioni sociali.
Sarebbe tragico se il cammino ecumenico verso una maggiore unità subisse interruzioni o pregiudizi.
Ivo Lorscheiter, vescovo cattolico,
e Gottfried Brakmeier,
pastore luterano

Gesù è il Signore
(replica del card. Ratzinger)

E sprimo tristezza e delusione, perché le reazioni pubbliche (a parte lodevoli eccezioni) hanno ignorato completamente il tema vero e proprio della dichiarazione. Il documento comincia con le parole «Dominus Iesus»; si tratta della breve formula di fede contenuta nella prima Lettera ai corinzi (12, 3), in cui Paolo ha riassunto l’essenza del cristianesimo: «Gesù è il Signore».
Il papa con questa dichiarazione (la cui redazione ha seguito con attenzione) ha voluto offrire al mondo un solenne riconoscimento a Gesù Cristo Signore, nel momento culminante dell’anno santo, portando con fermezza l’essenziale al centro di questa celebrazione, sempre soggetta a esteriorizzazioni.
All’inizio del presente millennio ci troviamo in una situazione simile a quella descritta da Giovanni alla fine del sesto capitolo del suo vangelo: Gesù ha spiegato chiaramente la sua natura divina nell’istituzione dell’eucaristia. Però nel versetto 66 leggiamo: «Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui».
Oggi, nei discorsi generali, la fede in Cristo rischia di appiattirsi e disperdersi in chiacchiere. Con Dominus Iesus, il santo padre, successore dell’apostolo Pietro, ha inteso dire: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Gv 6, 68). Il documento vuole essere un invito a tutti i cristiani ad aprirsi nuovamente al riconoscimento di Gesù Cristo come Signore.
Mi ha fatto piacere che il presidente delle chiese evangeliche della Germania, Kock, nella sua reazione (peraltro assai composta) abbia riconosciuto questo elemento importante del testo e lo abbia paragonato alla Dichiarazione di Barmen (città), con la quale nel 1934 la Bekennende Kirche, ai suoi inizi, rifiutò la chiesa del reich creata da Hitler.
Ndr: la «Bekennende Kirche», o chiesa confessante (Cristo), era un movimento di opposizione al nazismo, sorto sotto l’influenza di Karl Barth.
Anche il professor Jungel, di Tubinga, ha trovato in questo testo (nonostante le riserve sulla parte ecclesiologica) un respiro apostolico, simile alla dichiarazione di Barmen. Inoltre il primate della chiesa anglicana, l’arcivescovo Carey, ha manifestato il suo sostegno grato e deciso al vero tema della dichiarazione.
Perché la maggior parte dei commentatori invece lo trascura?
Joseph Ratzinger,
prefetto della Congregazione
per la dottrina della fede

Igino Tubaldo




Ippocrate a Macate – Medici nella Sierra andina

Guido e Liborio, medici italiani,
Carlo e Sandro, sacerdoti
(anch’essi italiani), e un’umanità dolente
di contadini peruviani. La storia raccontata risale a qualche anno fa (Fujimori era ancora un illustre sconosciuto), ma è quanto mai attuale.

«Affermo con giuramento, per Apollo medico ed Esculapio, per Igea e Panacea e ne siano testimoni tutti gli dei e le dee, che per quanto me lo consentiranno le forze e il mio pensiero, adempirò questo mio dovere (…) senza mai trasgredirlo (…)». Medico sempre: in ogni posto, in ogni paese, in ogni momento.
Sinceramente non avevo mai compreso il vero significato di questo giuramento che unisce i medici di tutto il mondo e di ogni tempo. Quel viaggio a Macate fu per me un momento di svolta. Medico sempre. Per Apollo, Esculapio, Igea e Panacea…
Avevamo conosciuto Carlos a Nana in uno di quei raduni dove è meglio non andare mai. Quando infatti si riunisce un gruppo di italiani all’estero, anche se delle più diverse provenienze, si passa il tempo a cantare insieme e, se si comincia sempre con «Quel mazzolin di fiori», stai sicuro che si termina con Battisti intorno ad un piatto di spaghetti e venerando un pezzo di Parmigiano che qualcuno ha ricevuto dall’immancabile madre.
In quell’occasione, Carlos, prete napoletano e rivoluzionario, poeta e suonatore di sassofono, ci aveva invitato a visitarlo nel suo paesino dell’Ancash, in quella parte del Perù che poeticamente definiva «la Cordillera Negra que mira hacia el mar (la cordigliera nera che guarda verso il mare)».
FINALMENTE IN VACANZA!
Partii assieme a Liborio, amico e collega, con il maggiolino color sabbia, un paio di borse ed una cartina del Perù. Le istruzioni erano semplici: prendere la Panamericana Norte, seguire l’Oceano Pacifico per 500 chilometri fino a Chimbote, proseguire poi fino a Santa dove padre Sandro ci avrebbe ospitato per la notte. Lasciata quindi la strada asfaltata, proseguire lungo il corso del Rio Santa fino al posto di controllo di Sciacsia; di lì, salire la valle di Macate fino al paese a 3.000 metri di altezza sotto il monte Tres Cruces.
Le ore, correndo lungo l’Oceano Pacifico, passavano rapidamente attraverso deserti rossicci, con striature verdi e, in alcuni punti, dune di sabbia che, spinte dal vento, coprivano in parte la striscia d’asfalto.
«Finalmente in vacanza» disse Liborio.
«Speriamo che Carlos non se ne approfitti» gli ribattei.
«In che senso?».
«Mi preoccupa il fatto che ci abbia raccomandato di portare lo stetoscopio e qualche medicina».
L’odore tremendo di pesce e le prime baracche ci annunciavano l’arrivo a Chimbote: «Liborio, ricordi quella poesia di Carlos. Come faceva?».
«Olìa a pescado podrido, Chimbote, aquél dìa (1)».
«Che puzza!».
«Sono le fabbriche di farina di pesce».
«Fermiamoci direttamente a Santa, sei d’accordo? Qui io certo non resisterei».
A Santa ci aspettava padre Sandro. Lo trovammo con donne e bambini del locale Club de Madres. Parassitosi, bronchiti ed un paio di casi lievi di denutrizione e poi a dormire, pronti per l’avventura sulle Ande del giorno dopo.
Cachangas con huevos fritos (2) e caffè per colazione la mattina e poi di nuovo sul maggiolino per affrontare i temibili 120 chilometri di strada sterrata. Felici della vacanza alla scoperta delle Ande, alzando nuvole di polvere correvamo immaginando di partecipare a chissà quale rally. Le montagne nude e polverose si andavano stringendo intorno alla valle del Santa, campi di mais si susseguivano a zone pietrose.
D’improvviso, un urlo di Liborio: «Attento alla scaffa!».
«Cosa dici? che è la scaffa?».
Una buca nascosta della strada mi fece capire immediatamente il significato di questa parola proveniente direttamente da Agrigento attraverso l’agitazione di Liborio. Il cerchione ammaccato e la gomma bucata ci aiutarono a riflettere sui nostri rispettivi dialetti. Poco dopo cominciammo a trovare un po’ d’acqua sulla strada: «Speriamo bene – dissi -. Dovremmo essere alla fine della stagione delle piogge».
«Porca miseria – esclamò Liborio -, guarda laggiù! La strada è inondata. Fermati, Guido!».
Mi fermai e spensi il motore. Scendemmo per capire meglio l’entità del problema.
«Saranno 50 metri di strada allagata».
«Forse anche di più – ribattei -. Che facciamo?».
Ci sedemmo sconsolati sul margine della strada, accendendo una sigaretta e guardando la campagna deserta, le montagne intorno, il cielo terso. Silenzio. Solitudine.
«È finita la vacanza».
«Tante ore di macchina per fermarci ai piedi delle Ande».
Intrepido, Liborio si alzò in piedi, si tolse scarpe, calze e pantaloni, spense la sigaretta e disse con tono deciso: «Ci penso io!».
«Bah!» commentai scettico e lo lasciai fare.
Entrò nell’acqua e cominciò a camminare su e giù commentando quello che i piedi gli comunicavano: «Qui c’è troppo fango, sul lato sinistro invece va meglio. Il fondo è ghiaioso, ma l’acqua arriva alla coscia. Se ci mettiamo al centro e poi deviamo a destra… sì, in questo modo, ce la dovremmo fare».
Nel frattempo arrivò un vecchio camion, carico di mercanzie e campesinos, che agevolmente guadò la strada allagata. Lo fermai e chiesi all’autista: «Compare, secondo lei ce la facciamo a passare?».
Questi, con la faccia di uno che si chiede «che ci staranno a fare in questo posto sperduto due gringos, uno dei quali anche in mutande?», mi rispose: «Si Dios quiere?! (Se Dio vuole)» e se ne andò.
Liborio, intanto, toò indietro, convinto di potercela fare. Me ne convinsi anch’io. Ma, per maggior sicurezza, legammo un sacchetto di plastica intorno allo spinterogeno affinché non si bagnasse.
«D’accordo Liborio, proviamoci. Però guido io» dissi.
«Va bene, ma devi seguire esattamente il percorso che ho disegnato. Io ti seguo a piedi».
Accesi il motore, mi misi in posizione e lentamente entrai in acqua. Qualche metro e sentii la macchina sempre più leggera. Le ruote cominciarono a girare a vuoto. Feci un gestaccio a Liborio, che rapidamente corse dietro la macchina e cominciò a spingere. Feci forza sull’acceleratore per cercare di afferrare il terreno e andare avanti. Incredibilmente la macchina ubbidiva alle sollecitazioni. Il fondo era divenuto pietroso e così l’auto riuscì a prendere velocità e a uscire dal guado. Mi fermai soddisfatto e scesi dal nostro prezioso maggiolino, urlando la mia gioia alla torva maschera di fango di Liborio, piantata in mezzo alla strada allagata: «Hai visto che grande autista!».
Mi rispose qualche cosa di incomprensibile in stretto dialetto siciliano e si mise a correre verso di me. Scoppiai a ridere vedendolo in quello stato. Quando mi raggiunse, mi abbracciò felice come un bambino, insozzandomi di fango. Ci sentivamo due grandi uomini, orgogliosi di aver superato le difficoltà.
«DOCUMENTI, SIGNORI!»
La strada correva incassata tra le scoscese e nude pareti dei contrafforti della Cordillera Negra, mentre il Rio Santa scendeva impetuoso e torbido. Un’ora di questo impressionante e minaccioso ambiente e, finalmente, vedemmo un gruppo di casupole e la sbarra del posto di controllo di Sciacsia.
Sporchi di polvere e fango ma soprattutto affamati, ci fermammo decisi a mangiare e proseguire subito dopo per Macate.
Un poliziotto, con un’aria annoiata più che marziale (comprensibile in un militare costeño all’ora di pranzo in un posto di blocco del profondo Perù), ci bloccò: «Documentos, señores!» disse, continuando a masticare uno stuzzicadenti.
Tirammo fuori i passaporti e, consegnandoli, chiedemmo: «Dove possiamo mangiare, señor?».
«Ah! Italianos!» esclamò con aria furba e di uomo di mondo.
«Spaghetti, Paolo Rossi, Ferrari! Come sta il papa?» e rise di gusto, mostrando gli incisivi cerchiati d’argento.
«Dove dovete andare?» aggiunse serio.
«A Macate, a visitare el padrecito Carlos. Es nuestro amigo» gli rispondemmo timidamente.
«Siete i medici di Lima allora. Vi stavamo aspettando».
«Potenza della Cia» mi suggerì all’orecchio Liborio.
«Potete mangiare al Serrano, è il miglior ristorante di Sciacsia. Per i passaporti nessun problema, ve li restituisco dopo pranzo».
«Medici, dunque – aggiunse con aria soddisfatta -. Medici amici del padrecito Carlos, bene».
Ci guardammo con aria preoccupata, sentendoci un po’ nudi senza i passaporti. Scendemmo dalla macchina e cercammo El Serrano. Il sole scottava nell’aria tersa. Ormai eravamo all’ingresso del mitico, profondo Perù.
«El Serrano» era un bugigattolo posto proprio all’altezza della sbarra, che chiudeva la strada. Entrammo e ci sedemmo ad un tavolo. La stanza era illuminata dai raggi di sole che penetravano fra le sconnessioni del tetto in eternit.
«Buenos dias señora, que hay para comer? (Buon giorno signora, che c’è da mangiare?)».
«Seco de cabrito con su arroz (3)».
«Ci porti anche due Coca-Cola».
«No hay, senor, tenemos solo Inca Cola (Non ce ne sono, signore. Abbiamo soltanto Inca Cola – 4)».
Ci portò i due piatti di riso con pezzi di carne. Il sapore predominante era quello del culantro, una piantina simile al prezzemolo con un forte aroma che è impossibile descrivere e dimenticare. Per conoscere il vero Perù bisogna imparare ad amare il sapore di questa terribile erba, così come è necessario godere al mangiare un buon piatto di ceviche, apprezzare il rocoto e riuscire a commuoversi pestando i piedi al suono di un huayno. L’unica cosa che mai sono riuscito a fare è quella di sopportare il gusto del culantro. Ma la fame era tanta.
Finito il pranzo, pagammo e uscimmo alla ricerca del nostro agente della Cia, che infatti ci stava aspettando.
«Gracias -, disse Liborio -. Partiamo subito» e allungò fiducioso la mano per raccogliere i passaporti. Ma il poliziotto non lo accontentò: «Dovete seguirmi un attimo. Non preoccupatevi».
Lo seguimmo superando una fila di gente in attesa davanti alla porta del posto di polizia. Nel locale c’erano due sedie, un tavolino e una panca. E, sul muro, la foto del presidente Garcia (il predecessore di Fujimori, ndr) con il suo smagliante sorriso.
«Señores doctores – ci disse con voce ufficiale -, prima di partire dovreste visitare un paio di pazienti. Sono mesi che non viene il medico da Chimbote».
Liborio ed io tirammo un sospiro di sollievo e, osservando i passaporti nella mano del poliziotto, ci dicemmo orgogliosi di partecipare a questa meritoria azione in favore della popolazione di Sciacsia.
Soddisfatto del nostro discorso, il poliziotto fece entrare la prima persona della lunga fila in attesa all’esterno. Il «paio di pazienti» era in realtà l’intera popolazione di questo, per nostra fortuna, piccolo agglomerato di case, sorto intorno al posto di blocco. I tanti pazienti visitati a Villa El Salvador ci permettevano ormai di individuare con facilità le piccole e grandi patologie della vita di tutti i giorni.
Avevamo con noi della piperazina e del mebendazolo per le parassitosi più comuni, un po’ di antibiotici di base, aspirine e per fortuna un grosso barattolo di un complesso vitaminico nordamericano. Lo stetoscopio e lo sfigmomanometro, insieme ad aghi e fili, completavano la nostra riserva di medici in «vacanza».
Seduti fianco a fianco, con il nostro armamentario poggiato sul tavolino, i capelli bianchi di polvere, il viso di Liborio ancora sporco di fango, il sapore del culantro in bocca e il giuramento di Ippocrate in testa… imparammo in questa occasione le basi della medicina comunitaria e preventiva sotto lo sguardo vigile e felice del nostro amico poliziotto. I confetti di vitamine, dono del popolo nordamericano ai paesi del Terzo mondo, più che la nostra scienza, ci permisero poi di recuperare i passaporti e di ripartire per Macate.
Dovevamo a questo punto lasciare la valle del Santa per imboccare quella di Macate. L’avventura continuava.
IL BRACCIO DI JUAN
«Certo che le indicazioni di Carlos sono precise» mi disse Liborio messosi alla guida del portentoso maggiolino.
«Sì – risposi -, ma la distanza doveva darcela in “pazienti” più che in chilometri».
Una serie di ripidi tornanti si snodava davanti a noi. La strada si era ridotta a poco più della larghezza dell’auto, mentre la montagna continuava ad apparire pietrosa e polverosa e la polvere ad alzarsi ed a depositarsi sui nostri capelli. La valle del Santa scompariva alla nostra vista, così come ci abbandonava il frastuono del fiume e delle sue acque torbide per la stagione delle piogge ormai al termine.
La prima terrazza della ripida valle improvvisamente ci comparve davanti. Lasciato ormai come un lontano ricordo il deserto, dopo una serie di grandi cactus posti quasi a guardia della valle, con stupore incominciammo ad attraversare piantagioni di banane, boschivi di avogados e giardini di aranci.
«Questo è il Perù, queste sono le sue contraddizioni; il deserto e l’eden, la povertà e la ricchezza, la violenza e l’allegria. Non esistono le vie di mezzo. Il Tres Cruces coperto di neve davanti a noi, il deserto alle spalle, l’ambiente tropicale nel quale siamo immersi e …».
«Aspetta, un paio di chilometri ancora e usciamo dal tropico!».
Liborio continuava a guidare e a sopportare i miei tentativi di capire il mondo.
«Guarda, Macate!».
«Dove? Vedo solo montagne».
«Segui con lo sguardo la strada; c’è un’altra terrazza in alto da dove spuntano degli eucalipti».
La strada si arrampicava abbarbicata alla parete della montagna. Il burrone sotto di noi si faceva sempre più impressionante e un canale, di origine certamente incaica, trasportava l’acqua da chissà dove seguendo le anfrattuosità della parete di roccia. Anche il tropico si era fatto ricordo.
«Ci siamo, dopo quella curva».
«Campi di mais, il grano ancora verde, prati, mucche, pecore, boschi di eucalipto ed il paese».
«Sembra di essere sulle Alpi!».
Ma un campesino con il suo poncho ci riportò al nostro Perù. Era solo un’altra faccia di questo paese e di questo popolo; forse la più bella e nello stesso tempo la più disperata: la Sierra.
Era l’imbrunire in quel punto della Cordillera Negra «que mira hacia el mar». Era sera a Macate e Carlos ci aspettava in piazza. Andammo subito in canonica.
La luce del Petromax argentino sostituiva egregiamente quella elettrica non ancora arrivata in questa vallata…
«Padre Carlos, apra, presto».
I colpi alla porta parevano sfondarla.
«Padre Carlos, il toro di Juan!».
«Che cosa succede, José!» urlò Carlos aprendo la porta.
«Il toro di Juan Yupanqui lo ha incornato!».
«Andiamo».
La voce imperiosa di Carlos non ci permise di tentennare. Afferrammo la borsa ed il Petromax e lo seguimmo fino all’infermeria del paese.
«Virgencita, San Martincito, Senor de los Milagros. Toro maldito, mi brazo! (Maledetto toro, il mio braccio!)».
«Se urla non è poi così grave» ci consolò Carlos. Entrammo accompagnati da José, infermiere responsabile di tutta la vallata, e trovammo il nostro Juan Yupanqui con il braccio avvolto da stracci insanguinati. Mentre José preparava gli attrezzi del mestiere, noi cominciammo a mettere in luce la ferita, che per fortuna appariva abbastanza superficiale.
Liborio era il nostro chirurgo provetto e sua fu l’opera. L’ago ricurvo ricostruiva rapidamente sotto l’attento sguardo degli altri. Ci trovavamo, un’altra volta (e sempre senza cercarcelo), a compiere quel giuramento di Ippocrate che già tanto tempo ci aveva fatto perdere nei due giorni di viaggio.
La nostra fama nei giorni seguenti si sparse per tutta la vallata. I formaggi freschi, le uova di giornata e perfino una mezza gallina ci riempirono la tavola a testimonianza che il braccio di Juan Yupanqui migliorava e che i nostri pazienti aumentavano. In questo angolo del Perù il primo medico era a 10 ore di camion e José era l’autorità sanitaria della zona.
Per la prima volta incontrammo anche un paio di casi di uta, la lebbra delle Ande.

E PER AMBULATORIO IL MONDO

Che lavoro incredibile quello del medico! Forse è l’unica professione che puoi applicare in qualunque punto del mondo. La gente ha, in fondo, gli stessi bisogni a Macate o a Venezia. Se poi muore di colera, è solo un problema di ingiustizia. E se, qui in Italia, non mi è mai capitato di ricordarmi di Ippocrate è forse perché oramai abita a Macate.
Se volete conoscerlo anche voi, prendete la Panamericana Norte da Lima fino a Chimbote, infilate la valle del Santa, mangiate al Serrano di Sciacsia e poi su fino ai piedi del Tres Cruces. E, mi raccomando, non dimenticate lo stetoscopio.

HO IMPARATO A STIMARE LA GENTE

Cara redazione,
mi è arrivata una copia di Missioni Consolata e, leggendola, mi sono tornati alla mente gli anni passati a Villa El Salvador in Perù. Capire i paesi del Terzo mondo e la loro situazione economica, politica e sanitaria è estremamente complesso, ma ancora più complesso è spiegarla e trasmetterla agli altri.
I miei 5 anni di lavoro come medico in Perù (dal 1984 al 1989) e la costante relazione che tengo con quel paese non mi hanno aiutato molto a capire come poter aiutare i miei amici di laggiù ad uscire da situazioni che da qui non possiamo neanche immaginare.
Ho visto, certo, tanta sofferenza e disperazione, tanti giovani morire di tubercolosi e bambini di denutrizione, gente vendere la propria casa per curarsi, madri piangere per non riuscire ad alimentare i propri figli. Ho visto tutto questo, ma ho anche visto la speranza, la voglia di uscire da un tunnel infinito, la capacità di spendersi per gli altri. Sono stato testimone dell’infinita pazienza e capacità di tanti medici ed infermieri peruviani sottopagati e senza tanti strumenti. Ho visto le «promotoras de salud» lavorare in silenzio per aiutare le famiglie in difficoltà, «parteras» aiutare a far nascere tanti bambini, e poi tanta e tanta solidarietà. Per quanto mi riguarda, ho specialmente imparato a stimare la gente.
Non so se posso essere d’aiuto alla rivista. Provo, però, ad inviarvi un racconto che tempo fa ho scritto e che riporta fatti reali. Rileggendolo mi commuove l’entusiasmo e l’incoscienza di noi giovani medici volontari nel Perù di più di dieci anni fa. Noi in questi anni probabilmente siamo cambiati molto, più del Perù che, come sapete, è in condizioni forse ancora più critiche di quegli anni.
Le persone che nomino sono reali ed in particolare:
– Liborio Ragusa, medico, lavora attualmente a Bergamo,
– Carlo (Carlos) Iadicicco, sacerdote diocesano, è ancora in Perù,
– Sandro, sacerdote, è stato ucciso da Sendero Luminoso a Santa, vicino a Chimbote, nel 1991 se non ricordo male.
Un abbraccio.
Guido Sattin

«AMIGOS DE VILLA»

È una rivista inviata attraverso la posta elettronica. Arriva in 25 paesi. È nata come strumento di collegamento tra tutti coloro che conoscono Villa El Salvador, ma parla di tutto il Perù, soprattutto dei suoi problemi sociali e politici. Ad essa contribuiscono politici ed economisti peruviani, semplici cittadini e chiunque abbia qualcosa da comunicare sul paese andino, ancora schiacciato dalla dittatura fujimorista.
Guido Sattin, che a Villa ha lavorato 5 anni, ne è il responsabile. Chiunque desideri ricevere «Amigos de Villa» può rivolgersi a questo indirizzo di posta elettronica: gusatti@tin.it. Sono ben accetti anche contributi scritti, possibilmente già in lingua spagnola.
Pa.Mo.
Indirizzo della pagina Web:
http://helios.unive.it/~sattin/amigos.htm

Guido Sattin




L’apoteosi del mercato e i naufraghi dello sviluppo

Le logiche dell’accumulazione illimitata e dell’esclusione massiccia colpiscono
soprattutto il continente africano. L’Africa sopravvive grazie ad una società
veacolare (dell’«uomo della strada») e alla solidarietà neoclanica (di nuovi gruppi
legati alla tradizione). Ma che faranno i «naufraghi» degli altri continenti?
Mentre l’economia di mercato autocelebra il proprio trionfo esclusivo, le disfunzioni del sistema mondiale (disoccupazione, esclusione, povertà materiale, miseria morale) sono sempre più insopportabili. Fino alla prevedibile «grande implosione».
A meno che…

Ci sono due Afriche. L’«Africa ufficiale» è quella dell’economia mondializzata, dello stato-nazione, dei massacri, delle guerre civili (cosiddette «tribali»), delle carestie… È l’Africa che ci viene mostrata dalla televisione.
L’Africa ufficiale ha fallito completamente. Il Prodotto interno lordo (Pil) dell’Africa sub-sahariana (cioè l’Africa nera) rappresenta meno del 2 per cento del Pil mondiale, vale a dire meno del Pil del Belgio, meno delle proprietà delle 15 persone più ricche del mondo. Niente insomma. Tuttavia questo niente fa vivere circa 600 milioni di abitanti. E ciò grazie a un espediente, l’espediente di quella che io chiamo «l’altra Africa», quella del mondo dell’informale, della società veacolare che vive grazie alle relazioni.
C’è, dunque, un’altra Africa molto vivace. Certo, con molti problemi, ma anche con una incredibile gioia di vivere, con i sorrisi dei bambini, con la bellezza delle donne, con la dignità dei vecchi. L’Africa degli spiriti, della solidarietà, che si incontra poco nei centri delle metropoli e molto nei villaggi e nei sobborghi.
D’altra parte, alcuni individui, rifiutando in tutto o in parte il mondo nel quale vivono, tentano, raggruppandosi, di mettere in opera qualcos’altro: lavorare, consumare, produrre altrimenti, dentro imprese diverse, riappropriandosi anche della moneta per usarla diversamente, secondo una logica altra rispetto a quella dell’accumulazione illimitata e della esclusione massiccia dei perdenti.
Questa alternativa volontaristica rappresenta l’«altra economia».
LE SCELTE DEI «NAUFRAGHI DELLO SVILUPPO»
L’economia mondiale, nata con l’aiuto delle istituzioni di Bretton Woods (Banca mondiale, Fondo monetario internazionale, ecc.), ha escluso dalle campagne milioni e milioni di persone, distruggendo il loro modo di vita tradizionale e sopprimendo i loro mezzi di sussistenza. Queste persone sono state costrette ad ammucchiarsi nelle baraccopoli delle periferie del Terzo Mondo. Sono i «naufraghi dello sviluppo».
Condannati, nella logica dominante, a scomparire, essi non hanno altra scelta per sopravvivere che organizzarsi secondo un’altra logica. Devono inventare un altro sistema, un’altra vita.
Vedere l’altra Africa come un laboratorio del doposviluppo, significa vedere l’informale in positivo e non commisurato al paradigma dello sviluppo. Si tratta di vedere, con occhio diverso, il modo stupefacente in cui sopravvivono gli esclusi dal mondo ufficiale. Nell’informale che ci interessa, non si è in una economia. Si è in un’altra società.
L’aspetto economico dell’esistenza è dissolto, incorporato nel sociale, in particolare nelle reti complesse che strutturano le città popolari dell’Africa. Per questo il termine di «società veacolare» è più appropriato, per parlare di questa realtà, di quello di economia informale.
Tuttavia la società veacolare non è un paradiso ritrovato. Si tratta di piccole imprese o di artigiani che lavorano per la clientela popolare: fabbri che lavorano con materiale di recupero, falegnami e sarti di quartiere. E ancora: meccanici con garage all’aperto, intrecciatrici che lavorano per strada, trasportatori su camion traballanti e variopinti che vanno per grazia di Dio, procacciatori di clienti per «pullman rapidi», piccoli commercianti ambulanti che vendono alle donne di casa senza frigorifero tre cucchiai di concentrato di pomodoro, due dadi Maggi, olio senza confezione o sacchetti di latte in polvere o di Nescafé.
La società veacolare è, prima di tutto, l’insieme dei modi in cui i naufraghi dello sviluppo producono e riproducono la loro vita, al di fuori del campo ufficiale, mediante strategie relazionali. Queste strategie incorporano ogni sorta di attività economiche, ma tali attività non sono (o sono poco) professionalizzate. Gli espedienti, il bricolage, la capacità di arrangiarsi di ciascuno s’iscrivono nelle reti. I «collegati» (reliés) formano dei «grappoli» (grappes). In fondo, queste strategie, fondate su un gioco sottile di «cassetti» (tiroirs) sociali ed economici, sono paragonabili alle strategie familiari, che sono nella maggior parte dei casi le strategie delle massaie, ma adattate ad una società in cui i membri della famiglia allargata si contano a centinaia.
La società veacolare (l’oikonomia neo-clanica) è a prima vista soprattutto femminile, fondata sulla pluriattività, sul non professionalismo e sulle strategie relazionali. Anche gli artigiani della economia popolare sono forse meno professionali di quanto non pensino o non diano a vedere. Sono spesso anch’essi pluriattivi e molto dipendenti dalla loro rete sociale. Tutti sono nel doposviluppo.
Gli esclusi della grande società realizzano il miracolo della loro sopravvivenza reinventando il legame sociale e facendolo funzionare. Esclusi dalle forme canoniche della modeità, dalla cittadinanza dello stato-nazione e dalla partecipazione al mercato nazionale, essi vivono grazie alle reti di solidarietà neoclaniche.
I tratti più significativi sono la pluriattività e gli espedienti della sopravvivenza, e lo «spirito del dono».
LA PLURIATTIVITÀ
Nelle reti neoclaniche, dove le attività ufficiali sono piuttosto rare, la pluriattività richiama soprattutto la molteplicità degli espedienti e dei lavori messi in opera per cavarsela. Si ha a che fare con un’assenza di professionalità, il che non vuol dire assenza di competenza. Anche quando esiste (per via dell’appartenenza a una casta e dell’acquisizione di un apprendistato specializzato), la professione è più esibita come un alibi e una facciata che rivelatrice dell’esercizio vero e proprio di un mestiere.
A Grand Yoff, in Senegal, i falegnami sono molto poco falegnami o almeno altrettanto avicoltori o mercanti di pomodori. Organizzare i falegnami in associazione per aiutarli ad accedere a migliori condizioni di acquisto o a migliori locali, come ha fatto una Ong, è un errore. Un simile procedimento presuppone che esista un gruppo professionale «falegnami», saldato da interessi comuni. Ora, un tale gruppo non esiste. Accanto a uno o due artigiani che formano una vera piccola impresa, c’è una folla di piccoli falegnami di facciata. Questi ultimi effettuano prestazioni occasionali, ma passano gran parte del loro tempo a fare tutt’altro che il lavoro di falegnameria.
È lo stesso per la maggior parte dei mestieri esercitati in queste zone di grandi precarietà di reddito e d’insediamento. Ciascuno esercita più attività nello stesso tempo, diversifica le proprie competenze e le modifica nel tempo. Hanno inventato la flessibilità ante litteram… All’altro estremo, i non professionisti moltiplicano gli espedienti da cui traggono le loro risorse. A Douala, in Camerun, nelle inchieste sull’occupazione, molti giovani non salariati dichiarano come mestiere: débrouillards (scaltri, che sanno cavarsela…).
LA STORIA DI N’DAYE, DONNA TUTTOFARE
N’daye Sokhna, madre di famiglia a Grand Yoff, è rappresentativa di questa categoria. Migliaia di donne vivono nelle periferie di Dakar e probabilmente quasi tutte in modo simile. N’daye ha un marito ferraiolo per il cemento armato (che non lavora da vari anni) e 7 figli, la maggior parte dei quali vanno a scuola. Essa ha un chiosco, una sorta di garitta in metallo, posta sulla strada di fronte a casa sua, dove vende, tra mattina e sera, da 25 a 35 chilogrammi di pane.
Occasionalmente vende roba usata e incenso che confeziona lei stessa; prepara la zuppa; acquista pesci e fa il tonno alla maionese per la clientela del vicinato. In stagione, N’daye vende i mandarini che le spedisce il cognato o anche l’altra sposa del marito rimasta nel villaggio, della quale dice: «Essa fa come me, anche lei si arrangia…». Ancora, fa merletti che piazza presso le sue «collegate» della rete; alleva pulcini e pensa di contrarre un prestito per impiantare un allevamento di galline sulla terrazza: progetta di avee un centinaio. Di tanto in tanto, sostituisce un’amica per un mese o due come impiegata nel centro ortopedico vicino. Affitta tre camere, ma le entrate sono irregolari e i locatari insolventi si trasformano spesso in oneri supplementari perché mangiano in famiglia.
Essa partecipa a varie «tontine» (circolo di credito rotativo), una a 10 franchi al giorno per comperare giubbotti ai bambini, una a 100 franchi per acquistare tessuti e giornielli. Quella dei tessuti è una tontina organizzata da un’amica ed essa è responsabile di quella dei giornielli. È responsabile, inoltre, di un’altra tontina di venti persone a 1.000 franchi al mese. Dà poi 100 franchi al giorno per un pezzo di tessuto a un venditore ambulante toucouleur. Se un giorno non ha denaro, non dà niente.
Il venditore, dal canto suo, vive dunque della differenza, e passa le sue giornate a fare il giro dei clienti.
Questa vita di espedienti in cui si mescolano produzione di beni e servizi, commercio, scambio di doni di denaro e soprattutto di parole, è quella della maggior parte delle famiglie di Grand Yoff, e, con qualche piccola variante, della maggioranza dei naufraghi dell’Africa.
La mia inchiesta era stata fatta nel 1993, nel ’95 e nel ’96. Alla fine, N’daye Sokhna ha realizzato il suo sogno. È diventata una donna d’affari. Grazie al credito della cornoperativa delle donne e ai consigli della Ong, ha montato con le sue amiche una piccola impresa originale e decentralizzata di produzione e vendita di sciroppo di succo di bissap (hibiscus o acetosella di Guinea o ancora carcadé), succo di tamarindo e succo di zenzero. La marca è depositata per il gruppo, la confezione e l’etichettatura sono normalizzate, è assicurato un controllo tecnico per l’insieme. E… funziona! Quanto al vecchio marito, felice di questa relativa prosperità familiare, egli assicura la vendita in assenza della padrona…
In queste condizioni, i programmi di appoggio al «settore informale», basati sulla professionalizzazione, nonostante le migliori intenzioni, hanno effetti piuttosto negativi. L’essenziale della società veacolare non entra nel quadro dell’intervento. Questo non tocca pertanto i più bisognosi e favorisce invece coloro che, entrati in una logica professionale, sono già ai margini della società informale.
LO SPIRITO DEL DONO
Al di là della plurittività e della non professionalizzazione, quel che colpisce l’osservatore attento ai «grappoli» di «collegati» della società veacolare è l’importanza del tempo, della energia e delle risorse destinate ai rapporti sociali. Se si dispiega una attività intensa, sarebbe abusivo nella maggior parte dei casi parlare di vero lavoro. Gli incontri, le visite, i ricevimenti, le discussioni prendono molto tempo. Dare e prendere in prestito, donare, ricevere, aiutarsi reciprocamente, fare una ordinazione, consegnare, informarsi occupano gran parte della giornata, senza parlare del tempo dedicato alla festa, alla danza, al sogno o al gioco… «La festa, osserva Eric de Rosny, un padre gesuita un po’ stregone (Nganga) che vive a Douala, occupa un posto smisurato in proporzione ai mezzi finanziari della popolazione. Tutti gli economisti lo dicono, ma essa è appropriata ai suoi bisogni affettivi».
I compiti esecutivi sono effettuati, alla lettera, nel tempo perso. Se c’è urgenza per finire una ordinazione, si può sempre lavorare di notte o farsi aiutare da un collega non occupato. Tutte le entrate sono investite immediatamente all’interno della rete, si tratti di derrate o di denaro. Questo sia perché «è dovuto», sia perché così facendo si anticipa la necessità di prendere prestiti e perché si vuole far profittare anche i parenti. Ciascuno è cosciente del fatto che un beneficio non è mai perduto.
L’atteggiamento generale è il senso di dovere molto ai «collegati» piuttosto che quello di essere un creditore che ci rimette sempre. Se il dono funziona bene, come ha finemente osservato Jacques Godbout, ciascuno degli attori ritiene di aver ricevuto più di quel che ha dato, mentre se il sistema funziona male ciascuno pensa di aver ricevuto di meno.
Le persone di Grand Yoff parlano esse stesse di «cassetti» per disegnare questi investimenti relazionali. Questi cassetti detenuti dai «collegati» sono indifferentemente economici e sociali. Simmetricamente, in caso di bisogno (e il bisogno è qui quasi endemico), si mobiliterà il «grappolo», si attingerà a diversi cassetti. Spesso, si attingerà a un cassetto per investire in un altro. Questa situazione di creditore-debitore è comune a tutti.
A Grand Yoff, le donne utilizzano quotidianamente un proverbio locale molto immaginifico e rivelatore: «Noi seppelliamo una iena per disseppellie un’altra». Una conseguenza supplementare di questo funzionamento è che le operazioni d’investimento sono quasi sempre filtrate dal gruppo. Il debitore al quale si richiede il proprio denaro per fare un colpo, rifiuterà di restituirlo se giudica l’affare irragionevole…
«Se si investe il proprio denaro presso una persona – spiega un falegname – un giorno glielo si può richiedere». Ma colui al quale lo avete dato può avere delle ragioni per non restituirvelo, semplicemente perché fa anch’egli degli investimenti sociali. In questo caso, solleciterà i cassetti disponibili. Proprio per questo, devo disporre di più cassetti, per potee utilizzare un secondo nel caso in cui il primo non fosse disponibile. Per questo è importante avvertire i collegati in tempo e disporre di cassetti molteplici e vari. Al contrario, quando lo mettete in banca, è come se lo conservaste voi stesso. Cioè quando andate a chiederlo, non ve lo si rifiuta. Quando invece fate investimenti presso parenti o partners, essi possono dire di «no», se giudicano che quel che ne farete non sarà bene per voi. Sono dei «parenti», mentre la banca è un estraneo. Essa non si preoccupa nemmeno del modo in cui vivete e meno ancora di come spenderete il vostro denaro. Non c’è ostacolo all’uso del denaro della banca, poiché basta chiederlo per ottenerlo. Il denaro non è al sicuro in banca.
Questo «filtro» sociale è addirittura sistematico nel caso di certe tontine.
«Questi franchi che abbiamo raccolto – dichiara solennemente un tontinier nel consegnare la somma al fortunato destinatario -, cioè questi miseri soldi (ma che rappresentano tutto il nostro tesoro), noi te li diamo oggi, non perché tu faccia sparire questo denaro, ma perché noi auspichiamo che ogni franco diventi 10 franchi e che ciò possa esserti utile. E ti rinnoviamo tutti i nostri migliori auguri perché tu riesca nel tuo progetto».
Si sarà riconosciuta facilmente in questo funzionamento della società neoclanica una logica molto diversa dalla logica mercantile, quella del dono e dei rituali oblativi. Qui il legame sociale funziona sulla base dello scambio, ma lo scambio, con o senza moneta, si basa più sul dono che sul mercato. Ci si trova di fronte al triplice obbligo di donare, ricevere e restituire, così come lo analizza Marcel Mauss. La cosa centrale e fondamentale nella logica del dono è che il legame sostituisce il bene.
LE LEZIONI DELL’«ALTRA AFRICA»
La mondializzazione non è altro che l’ultima punta della «mercificazione» del mondo.
Bisogna riconoscerlo: l’economia resta misteriosa per la maggior parte delle persone. Tutti i grandi giornali dedicano a questa materia pagine specializzate, che spesso i lettori giudicano «illeggibili» e s’affrettano a sorvolare. La situazione è tanto più paradossale in quanto non è più possibile nel mondo moderno vivere fuori dell’economia. Ciò implica due cose strettamente connesse: da una parte tutti partecipano alla vita economica e, dall’altra, tutti possiedono un minimo di conoscenza di economia.
Nelle società contemporanee, non è più concepibile partecipare all’economia senza un po’ di conoscenza. Noi tutti siamo degli ingranaggi di un’immensa macchina che definisce la nostra collocazione nella società. Lavoro o disoccupazione, livello dei redditi, modalità di consumo: questi aspetti economici della vita hanno occupato uno spazio dominante e qualche volta totalizzante. La persona la si considera, innanzitutto, in base alla sua professione, al suo reddito, ai suoi consumi. E così la vita è stata ridotta sempre di più a dimensioni economiche, ed è inevitabile che ciascuno sia ossessionato dai problemi economici, prima di tutto dal reddito: stipendio, sussidio di disoccupazione o pensione.
Il capo d’azienda, come pure la casalinga, vive con gli occhi sugli indicatori economici; solamente la loro formulazione è differente: tasso d’inflazione o prezzo del burro, prelievi fiscali e sociali o assegni familiari e previdenza sociale, ecc.
Un antico proverbio francese dice che, quando si ha un martello nella testa, si vedono tutti i problemi sotto forma di chiodi. Gli uomini del nostro tempo si sono ficcati in testa un martello economico. Noi vediamo ogni problema, ogni attività, ogni evento attraverso il prisma dell’economia. Finché avremo in testa il martello economico, il nostro agitarci sarà vano, sterile e anche dannoso.
Per quanto possa essere sorprendente, le preoccupazioni economiche, come tali, avevano poco spazio nella vita degli uomini prima del Rinascimento o al di fuori dell’Occidente. Ciascuno svolgeva i suoi compiti, molto spesso di natura domestica; il cittadino greco si preoccupava di politica, l’uomo medievale di religione e l’indigeno africano di feste e rituali.
Lo sviluppo dell’economia nell’epoca modea non appare tuttavia strano, perché il progetto della modeità riposa sulla pretesa di costruire la vita sociale sulla sola base della ragione, emancipandosi dalla tradizione e dalla religione. Nella visione ereditata dall’illuminismo, l’economia non è altro che la realizzazione della ragione. Non è sorprendente che lo sviluppo dell’attività economica si presenti come l’affermazione di potenza della razionalità. Quest’ultima si manifesta in maniera congiunta nella tecnica e nell’economia; si tratta di accrescere l’efficienza economizzando al massimo i mezzi per ottenere i massimi risultati seguendo la norma del «sempre più».
Questa razionalità calcolatrice si rende assurda, divenendo fine a se stessa. La scienza economica, dal canto suo, non è altro che una ruminazione vaniloqua e ossessiva del principio di razionalità quantitativa. L’apparente diffusione planetaria della modeità (per mezzo dell’imperialismo, prima militare e politico, poi sempre di più culturale) ha fatto trionfare, di fatto, l’economia come pratica e come immaginario mondiali.
IL TRIONFO DELLE «LEGGI DEL MERCATO»
Dopo il crollo dei paesi dell’Europa dell’Est e il fallimento del progetto socialista, l’economia di mercato ha celebrato un trionfo esclusivo. Questo successo appare come la miglior riuscita dell’economia e degli economisti.
Le sacrosante leggi del mercato si impongono verso e contro tutti, rovesciando la burocrazia più totalitaria, distruggendo insieme le sinistre mostruosità del gulag e le speranze riposte dalle masse dei diseredati nell’utopia più generosa della storia. La società aperta sembra stravincere sui suoi nemici per mettere il punto finale alla storia con l’apoteosi del mercato.
Nondimeno, le promesse dell’economia di pace e prosperità per tutti e per ciascuno appaiono oggi più lontane che mai. Più l’immaginario della grande società del mercato mondiale e pacifico diviene planetario, più la discordia, la miseria e l’esclusione sembrano guadagnare terreno.
Le disfunzioni di ogni genere nel sistema mondiale – disoccupazione, esclusione, disastri ecologici, povertà materiale e più ancora miseria morale – sono e saranno sempre più insopportabili. Nell’attesa della prevedibile «grande implosione», esse favoriscono l’emergere di contro-dogmi: integralismi etnici, fondamentalismi religiosi, più o meno intrecciati con gli strascichi ideologici del passato e con la forza del risentimento. Tuttavia, queste reazioni non possono mettere seriamente in pericolo il dominio del «pensiero unico», poiché non attaccano le sue radici, le radici dell’economicismo e dell’utilitarismo. Solo se si rimette in discussione l’impero del razionale si può forse aprire la via ad un pensiero meno intollerante e che potrebbe definirsi pluralista.
DECOLONIZZARE IL NOSTRO IMMAGINARIO
Che fare di fronte alla mondializzazione, all’onnimercificazione del mondo ed al trionfo planetario del mercato unico? La distanza tra l’ampiezza del problema da risolvere e la modestia dei rimedi individuabili a breve termine, dipende soprattutto dalla pregnanza delle convinzioni che consentono al sistema di reggersi sulle basi del suo immaginario collettivo.
Bisogna cominciare a vedere altrimenti le cose, affinché esse possano diventare altre (e si riescano a concepire soluzioni originali e innovative). In altri termini, bisognerebbe decolonizzare il nostro immaginario per trasformare veramente il mondo, prima che il cambiamento del mondo ci condanni nel dolore.
Si tratta di rimuovere il martello economico dalla testa. Si tratta di mettere al centro della vita umana significati diversi dall’espansione della produzione e del consumo. Dovremmo volere una società che non abbia al centro (o come unici) i valori economici, dove l’economia sia rimessa al suo posto, come semplice mezzo e non come fine ultimo, dove si rinunci alla folle corsa verso consumi sempre più alti. Ciò non solo è necessario per evitare la distruzione definitiva dell’ambiente terrestre, ma anche e soprattutto per uscire dalla miseria psichica e morale dei contemporanei.
Quest’altra società (dove si vivrebbe altrimenti) può essere concepita in due modi: può esserci imposta (come nel caso dell’altra Africa), ma può anche essere scelta. In altri termini, si può essere condannati a farla, in modo più o meno inconsapevole, e si può tentare di costruirla consapevolmente.
Questa seconda forma dell’altra società non è completamente separata dalla prima, e questo per due ragioni. In primo luogo, perché l’auto-organizzazione degli esclusi del Sud non è (non è mai) del tutto spontanea. Ci sono anche aspirazioni, progetti, modelli, utopie che informano più o meno le combinazioni della sopravvivenza informale. In secondo luogo, perché gli «alternativi» del Nord non sempre hanno scelta. Si tratta spesso di esclusi, derelitti, disoccupati, cassaintegrati, candidati potenziali alla disoccupazione o, più semplicemente, esclusi per disgusto… Ci sono dunque dei punti di contatto tra le due forme che possono e devono fecondarsi reciprocamente.
RISPOSTE LOCALI ALLA SFIDA GLOBALE
Oggi si contano imprese cornoperative autogestite, comunità neo-rurali, associazioni di commercio equo e solidale, banche etiche, settore non profit, Lets e Sels (sistemi di scambio locali), bilanci di giustizia, autorganizzazione degli esclusi del Sud. Queste esperienze ci interessano soprattutto come forme di resistenza e dissidenza nei confronti del processo di affermazione dell’onnimercantizzazione del mondo.
Il caso dei Sels è particolarmente interessante. I sistemi di scambio locale sono associazioni, i cui membri scambiano beni e servizi di ogni natura fuori dal mercato e in base a una «moneta» appositamente creata e valida all’interno del gruppo. I prodotti scambiati vanno dai lavori di riparazione domestica o di automobili a servizi di babysitting, passando per corsi di lingua, massaggi, foitura di ortaggi, prestito di utensili, ecc. Liste regolarmente aggiornate e gestite da un elaboratore centralizzano le offerte e le domande e permettono di conoscere la posizione dei crediti e dei debiti di ognuno. Così, persone escluse dal lavoro (le cui competenze sono state respinte dal sistema di mercato) possono ritrovare forme di attività e di riconoscimento sociale.
Si tratta di una risposta locale a una sfida globale. Come dicono i fondatori del Sel dell’Ariege: «In qualche modo, noi rispondiamo a problemi mondiali con una soluzione locale». Un Sel stimola la produzione locale e risponde a bisogni locali. Permette di rivitalizzare la società locale senza apporto di capitali estei.
Aiuta a prendere coscienza dei problemi locali, a cercare soluzioni pratiche, concrete e realistiche. Riduce le importazioni, gli sprechi e l’inquinamento conseguente ai trasporti. Soprattutto, i Sels debbono fare i conti col problema fondamentale dell’economia teorica e pratica: il valore, il rapporto di scambio. È riposta la questione del rapporto di scambio giusto. Come nella società veacolare africana, le «chiacchiere» giocano un ruolo insostituibile. Lo affermano tutti i partecipanti: la parola è essenziale. Con una piccola forzatura, si potrebbe dire che i Sels reinventano la democrazia di base e costituiscono un apprendistato alla cittadinanza. Senza chiasso, gli «informali» dell’altra Africa non fanno nulla di diverso.
NON CHIUDERSI IN TRINCEA
L’esperienza africana della società veacolare può servire da lezione anche per tutti coloro che sono impegnati in imprese alternative.
Il pericolo della maggior parte delle iniziative è quello di raccogliersi dentro la trincea che ha loro permesso di nascere, invece di lavorare al proprio rafforzamento.
L’impresa alternativa vive o sopravvive in un ambiente che è (e deve essere) differente dagli ambiti del mercato. È quest’ambiente che bisogna definire, proteggere, mantenere, rafforzare e sviluppare. Piuttosto che battersi disperatamente per conservare la trincea in seno al mercato mondiale, è meglio militare per allargare lo spazio al margine dell’economia globalizzata.
Il confronto violento e il conflitto accanito, così caratteristici della razionalità occidentale, non sono l’universo in cui può o deve muoversi l’organizzazione alternativa. Riuscire a imporre i prodotti del commercio equo e solidale e dell’agricoltura biologica sugli scaffali dei supermercati, a fianco ai prodotti «iniqui» o «anti-biologici» non è un obiettivo in sé e per sé.
È più importante assicurarsi il carattere equo del complesso della filiera, dal trasporto fino alla commercializzazione: il che esclude insieme il supermercato ed allarga il tessuto portatore. L’estensione e l’approfondimento del campo delle complicità è il segreto della riuscita e deve essere la prima preoccupazione di questa impresa. I consumatori (consumatori cittadini) – come dicono le associazioni di consumo critico – non sono se non un elemento d’un insieme che dovrebbe collegare Sels, produttori alternativi, neo-rurali, movimenti associativi impegnati in questo itinerario. È questa coerenza che rappresenta una vera alternativa al sistema.
«In sintesi – scrive Tonino Pea nel suo libro Fair trade. La sfida etica al mercato mondiale – si può dire che la sfida per il fair trade consiste non nel far entrare nel circuito della moda i prodotti del Sud del mondo, stravolgendone il patrimonio culturale, ma nel far diventare un “bisogno” la scelta etica del consumatore (…). Ciò significa che è necessario pensare più in termini d’innovazione sociale che di innovazione di prodotto (…). Il cercare di adeguarsi alle cosiddette leggi del mercato capitalistico, di inseguie i capricci, di usae acriticamente gli strumenti – come la pubblicità e il marketing – può dare qualche risultato in termini quantitativi nel breve periodo, ma alla fine risulta perdente».
Si tratta di cornordinare la protesta sociale con la protesta ecologica, con la solidarietà verso gli esclusi del Nord e del Sud, con tutte le iniziative associative per articolare resistenza e dissidenza e per sboccare, alla fine, in una società autonoma.
È così che, all’inverso di Penelope, si ritesse di notte il tessuto sociale che la mondializzazione disfa durante il giorno…

SOPRAVVIVENZA, RESISTENZA, DISSIDENZA
Siamo al centro di un triangolo i cui tre vertici sono: la sopravvivenza, la resistenza e la dissidenza. Non dobbiamo dimenticare né privilegiare nessuna di queste tre dimensioni.
Prima di tutto, dobbiamo sopravvivere. È ovvio, senza ciò nessuna resistenza né dissidenza sarebbe possibile. Sopravvivere significa adattarsi al mondo nel quale viviamo, ma non significa che dobbiamo approvarlo né aiutarlo a funzionare, al di là della necessità. Possiamo accettare dei compromessi nell’azione concreta e quotidiana, ma dobbiamo respingere le compromissioni nel pensiero. Già questa è una forma di resistenza: la resistenza mentale all’impresa del «lavaggio del cervello» da parte dei media e il dominio devastatore del «pensiero unico».
Dunque, dobbiamo resistere. Se pensiamo che siamo imbarcati in una megamacchina che fila a gran velocità senza pilota e, quindi, condannata a fracassarsi contro un muro, resistere significa, allora, tentare di frenare e provare a cambiare la direzione. Come, in verità, nessuno lo sa. Dobbiamo anche pensare di poter lasciare il bolide e saltare al momento opportuno. È questa la dissidenza.
Se a breve termine la strategia della sopravvivenza è la più importante, a termine medio è la strategia della resistenza che diviene più importante e, a lungo termine, è quella della dissidenza.

Serge Latouche