AFGHANISTAN: Dopo la guerra e le bombe, verrà il tempo della pace?


LO
SCANDALO CONTINUA


di Alberto Chiara (*)

 


L’Afghanistan è sì un paese affamato, assetato, povero; è sì uno stato
imbavagliato per colpa della crudele ottusità dei talebani; è sì rifugio
di Osama bin-Laden e di tanti altri terroristi, ma è anche e soprattutto
una nazione quotidianamente dilaniata dalle mine antiuomo e anticarro,
posate in 21 anni di guerra ininterrotta. (…)

Già le
mine. Non distinguono un soldato da una donna: colpiscono alla cieca
chiunque le calpesti. Non rispettano tregue o trattati di pace: esplodono
anche 30/40 anni dopo essere state sotterrate. Sono armi vigliacche, di
cui il mondo fatica a sbarazzarsi una volta per sempre.

Le mine
antiuomo hanno costi di produzione relativamente bassi, ma costi sociali
altissimi. «Il prezzo di un singolo ordigno varia da 3 a 30 dollari»,
osservava anni or sono il Comitato internazionale della Croce rossa (la
cifra non è variata di molto). «Per togliere una mina occorrono diverse
centinaia di dollari, mentre il costo di un arto artificiale, per chi
rimane mutilato, è di 125 dollari». Un bambino cui bisogna amputare la
gamba dilaniata dallo scoppio di un ordigno, deve cambiare 15 protesi nel
corso della vita.

Nel
dicembre 1997 il mondo sembrò mettere fine a un colpevole disinteresse. Ad
Ottawa, in Canada, fu messo a punto un Trattato internazionale che metteva
al bando queste armi vigliacche vietando l’uso, la produzione,
l’immagazzinamento e il commercio di tutte le mine antiuomo. (…)

Al 10
ottobre 2001, il Trattato di Ottawa risultava firmato da 142 paesi e
ratificato (ovvero recepito nelle rispettive legislazioni nazionali) da
122 stati. Tra chi non ha firmato figurano purtroppo grandi potenze (Stati
Uniti, Russia, Cina), nonché potenze regionali di rilievo, come India e
Pakistan; Siria, Libano, Egitto e Israele; Iran e Iraq. Le mine, intanto,
continuano a esplodere.

 (*)
Alberto Chiara è inviato del settimanale «Famiglia Cristiana». Questo
passo è tratto da «Italia Caritas» (novembre, 2001), il mensile della
Caritas italiana.

 

 


sfogliando s’impara

… i media tra guerra e pace

 


a cura di Paolo Moiola



«DALLA GUERRA NON NASCE GIUSTIZIA»

«Ogni
vittima è una parte di noi che muore. (…) La metà dei soldi usati per
questo primo mese di guerra sull’Afghanistan avrebbero consentito a 20
milioni di esseri umani di quel paese di vivere in prosperità e ricchezza
per tutto il resto della loro vita. Con il 3 per cento dei fondi destinati
alla militarizzazione dei soli e delle stelle, il cosiddetto scudo
spaziale, potremmo dare acqua potabile a chi oggi vede preclusa questa
vitale possibilità. La guerra non è solo ciò che distrugge o uccide con le
armi: è tanta intelligenza, tanta cultura scientifica, tante risorse
finanziarie bruciate per la morte anziché per la vita. Il terrorismo è
nostro nemico. Solo la pace può sconfiggerlo.

Il
terrorismo è nostro nemico. Esso si annida e si nutre nelle tante aree di
sofferenza prodotte da un sistema ingiusto. Esso è protetto nei paradisi
fiscali, nel riciclaggio di denaro sporco, dai trafficanti di armi, dai
rialzi e dai crolli delle borse».

Appello
pubblicato dal settimanale «Carta» del 6 dicembre 2001, firmato tra gli
altri da: mons. Luigi Bettazzi, don Luigi Ciotti, don Tonio dell’Olio (Pax
Christi), padre Alex Zanotelli



 SIAMO TUTTI AMERICANI?

«Era
dal 10 giugno 1940 che un governo non convocava una grande manifestazione
di piazza, nella quale poter dire con orgoglio “L’Italia è in guerra”.
Infatti l’Alleato, esaminata la pratica, ci ha concesso di schierare anche
le nostre navi e i nostri aerei. (…) Ma cosa vuol dire “siamo tutti
americani”? (…) Significa che anche noi ci sentiamo colpiti dall’attacco
al pentagono e alle due Torri e che anche noi siamo responsabili della
risposta che gli si dà; e infatti entriamo nella stessa guerra. Ciò però
ci legittima a parlare come se fossimo americani. La prima cosa che
pertanto possiamo dire è che siamo pessimamente governati. (…)

Elevare
al rango di nemico il terrorismo significa creare un nemico universale,
onnipresente (…). Universale il nemico, universale la guerra, universale
la militarizzazione, universale il passaggio dai codici di pace ai codici
di guerra. E così, col terrore, in nome del terrore e contro il terrore si
governa, e si trasforma la vita quotidiana in un inferno (…).

Di
questo ci potremmo lamentare, come americani. E anche di aver esibito
questa immagine di un’America puritana, farisea, che si ritiene la
migliore e più giusta, benefica per l’intera umanità, stupita di non
essere amata».

Raniero
La Valle, su «Rocca», quindicinale edito da Pro Civitate Christiana
(Assisi), 15 novembre 2001



 «O CON NOI O CONTRO DI NOI»

«Non
contano i pensieri e le opinioni: durante la guerra non è lecito avere
dubbi, porsi delle domande, esercitare il proprio spirito critico; ogni
forma di opposizione diventa un tradimento.

Lo
slogan "o con noi o contro di noi" è un esempio di questa deriva verso
l’intolleranza».

Gruppo
Pace Valsusa, su «Dialogo in Valle», periodico cattolico di Condove (Torino),
novembre 2001



 CENSURA E OMOLOGAZIONE

«Disarmante
è, poi, la rinuncia a capire e a spiegare cosa c’è dietro a quello che è
successo e sta succedendo, cosa ha fatto nascere un odio così feroce e
devastante, come è possibile contrastarlo senza per questo far uso di
missili e bombe. Chi cerca di farlo di volta in volta viene demonizzato,
deriso, minacciato e da qualcuno anche considerato alla stregua dei
terroristi che si sono abbattuti su New York. (…)

Se non
resistiamo oggi alla "tentazione" del silenzio, della censura e
dell’omologazione, domani sarà troppo tardi. Dopo l’informazione toccherà
ad altre libertà e ad altri diritti civili. Nel nome della lotta al
terrorismo e all’integralismo tutto sarà possibile e – quel che è peggio –
tollerato. Siamo disposti ad accettarlo? Spero proprio di no».

Beppe
Muraro sul mensile «Azione nonviolenta», novembre 2001

 COS’È
IL TERRORISMO?

«Due
crimini mostruosi hanno segnato l’inizio del nuovo millennio: gli
attentati dell’11 settembre e la risposta a questi attacchi, che
certamente ha fatto molte più vittime innocenti. Le atrocità dell’11
settembre sono considerate ovunque un evento storico, e questo è
assolutamente vero. Ma bisogna anche capire perché. Questi crimini hanno
causato la morte simultanea del più alto numero di persone nella storia,
fatta eccezione per il tempo di guerra.

La
parola “simultanea” non dev’essere trascurata: purtroppo i crimini sono
tutt’altro che rari negli annali della violenza che non dipende dalla
guerra. (…) Soltanto negli anni di Reagan, gli stati terroristici
finanziati dagli Stati Uniti nell’America centrale hanno ucciso, torturato
e mutilato centinaia di migliaia di persone, hanno provocato milioni di
storpi e di orfani, e hanno mandato in rovina quattro paesi. (…) Dire
che il terrorismo è “un’arma dei poveri” significa commettere un grave
errore di analisi. In realtà il terrorismo è la violenza contro gli Stati
Uniti. Chiunque ne sia l’autore».

Noam
Chomsky, articolo ripreso dal settimanale «Internazionale» del 30 novembre
2001;


l’autore insegna al «Massachusetts Institute of Technology» (M.I.T.) di
Boston



 STATI UNITI DI POLIZIA

«Vivo a
pochi isolati di distanza dal World Trade Center. A New York siamo ancora
in lutto dopo l’11 settembre. Vogliamo arrestare e punire i colpevoli,
smantellare la rete dei terroristi e impedire nuovi attentati. Ma le
misure adottate dal governo per combattere il terrorismo limitano in modo
allarmante la libertà e i diritti civili. (…) Diritti che credevamo
sanciti dalla Costituzione e tutelati dal diritto internazionale sono in
grave pericolo o sono già stati cancellati.

Non è
esagerato affermare che stiamo andando verso uno Stato di polizia. (…)
Ma neanche uno Stato di polizia potrebbe fermare i terroristi. L’illusione
della Fortezza americana ci impedisce di analizzare le cause di fondo del
terrorismo e le conseguenze di decenni di politica estera statunitense in
Medio Oriente, in Afghanistan e in altri paesi. Se le accuse mosse agli
Stati Uniti non verranno studiate e affrontate, il terrorismo continuerà».

Michael
Ratner, articolo ripreso dal settimanale «Internazionale» del 30 novembre
2001;


l’autore, avvocato esperto in diritti umani, insegna alla «Columbia Law
School» di New York



 «LE MARCE COSIDDETTE DELLA PACE»

«Gli
orfani di Stalin si sono aggregati al carro del terrorismo musulmano,
sperando che dalle piaghe e dalle pieghe della storia esca un po’ di pus
per nutrirli nuovamente. (…)

Il
clima persecutorio verso le forze di polizia cominciato a Genova, la
connivenza tra terrorismo islamico e le stesse frange che andarono in
soccorso delle Br, le marce cosiddette della pace ma, nei fatti, a favore
della guerra altrui, sono segnali da non sottovalutare».

Piero
Laporta, sul quotidiano «Libero» del 25 novembre 2001



 «IL CHIODO FISSO DELL’AMERIKA»

«Trent’anni
fa, vent’anni fa, i democratici e i pacifisti avevano un chiodo fisso: il
Cile di Pinochet. (…) E adesso? Trent’anni dopo, vent’anni dopo, i nuovi
cortei hanno ancora il chiodo fisso dell’Amerika e dell’imperialismo
malvagio (…). Ma stranamente sono evasivi ed evanescenti sui Pinochet
dei tempi d’oggi: loro, i talebani. Si respira nelle piazze una strana
aria: se non di giustificazione, quanto meno di superficialità. Eppure,
siamo di fronte a un regime decisamente più crudele e disumano del pur
crudele regime di Pinochet. Niente, è secondario: il problema è
l’interventismo amerikano».


Cristiano Gatti, sul quotidiano «il Gioale» dell’11 ottobre 2001



«QUESTA GUERRA GIUSTISSIMA»

«La
gente si è abituata e la tragedia dell’11 settembre sembra ormai passata.
Ci vorrebbe forse un missile talebano sul Vaticano per far ricordare alla
gente che il mondo giusto sta cercando di mandare all’inferno per sempre
la nuova minaccia musulmana? (…)

Non è
una critica a Voi, che oggi dedicate 4 pagine a questa guerra giustissima,
bensì ai nuovi giovanissimi presuntuosi che si fanno abbindolare dai
teorici della pace sempre e per forza».

Lettera
firmata pubblicata dal quotidiano «Libero» del 25 novembre 2001



CATTOLICI, MARXISTI E BUONI SENTIMENTI

«Le
culture ideologiche, di fronte alla guerra contro il terrorismo, si sono
preoccupate più di mobilitare la piazza su temi generici come la pace e le
ingiustizie nel mondo che di suggerire cosa fare in concreto, subito, qui,
ora. (…)

In
tutta la sua storia, il pacifismo non è riuscito a evitare una sola guerra
e i buoni sentimenti non hanno mai risolto i problemi del mondo. (…)

Da Gesù
Cristo, attraverso quel buon sentimento che è la fede, a Karl Marx,
attraverso quelle buone intenzioni che è la socializzazione dei mezzi di
produzione, c’è chi ha auspicato un cambiamento della natura umana. Gesù
Cristo è finito sulla croce, Marx in soffitta. E l’uomo è rimasto quello
di sempre: lupo dell’uomo. (…)

Ho
l’impressione che le culture ideologiche, cattolica e marxista e
collaterali, abbiano prodotto danni irreparabili alla nostra cultura
politica nazionale».

Piero
Ostellino, sul quotidiano «Corriere della Sera» del 24 novembre 2001



 «NOI SIAMO IL BENE»

«Visto
che sono un leale cittadino americano, non dovrei dirvi perché è accaduto
tutto ciò: del resto non è nostra abitudine indagare sul perché qualcosa –
qualsiasi cosa – accada. Preferiamo accusare gli altri di malvagità
immotivata. “Noi siamo il bene”, ha dichiarato un profondo pensatore alla
Tv americana, “loro sono il male”: e il pacchetto è pronto. A metterci,
per così dire, il fiocco è stato poi Bush in persona con il suo discorso
davanti alle Camere riunite, occasione in cui il presidente ha elargito ai
parlamentari – e in qualche modo a tutti noi della cerchia – la sua
profonda conoscenza delle astuzie e delle usanze dell’islam: “Odiano ciò
che vedono in quest’aula”».

Gore
Vidal, sul quotidiano «la Repubblica» del 16 novembre 2001



 «NON IN NOSTRO NOME»

«Gli
italiani che combatteranno in Afghanistan non lo faranno in nostro nome.
Noi non siamo in guerra. (…) È facile parlare di necessità della guerra
in un’aula di Parlamento o in una piazza tra lo sventolio delle bandiere.
Un po’ meno se la si vede da vicino, se gli “effetti collaterali” hanno un
nome, un’identità, un lavoro, degli affetti.

Se le
macerie che vediamo sono quelle di una casa o di un ospedale, se il
bambino mutilato ha un volto. Se, dietro i discorsi retorici, scorgiamo i
listini di borsa in cui le azioni delle fabbriche delle armi aumentano di
valore, o seguiamo le vie del petrolio. Se scopriamo che i buoni di oggi
erano i cattivi di ieri, e viceversa, e che le donne, con o senza burqa,
continuano ad essere usate, magari per la propaganda».


Redazionale di «Dialogo in Valle», periodico cattolico di Condove (Torino),
dicembre 2001

 

 

 



Bibliografia essenziale

– 
Chalmers Johnson, «Gli ultimi giorni dell’impero americano. I contraccolpi
della politica estera ed economica dell’ultima grande potenza», Garzanti,
Milano 2001 (l’autore è un professore statunitense)

– 
Franco Foari, «Psicoanalisi e cultura della pace», Edizioni Cultura
della pace, Fiesole (l’autore è uno psicanalista italiano, scomparso
qualche anno fa)

– 
Samuel P. Huntington, «Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale»,
Garzanti, Milano 2001 (il libro sostiene la diversità tra la cultura
occidentale e quella islamica, nonché l’inevitabilità dello scontro)

–  Noam
Chomsky, «Egemonia americana e "stati fuorilegge"», Edizioni Dedalo 2001 (l’autore
è un professore statunitense del M.I.T. di Boston)

–  Noam
Chomsky, «11 settembre. Le ragioni di chi?», Marco Tropea Editore 2001

–  Gore
Vidal, «La fine della libertà», Fazzi Editore 2001 (l’autore è uno
scrittore statunitense)

– 
Ahmed Rashid, «Talebani», Feltrinelli, Milano  2001

– 
Giulietto Chiesa/Vauro, «Afghanistan anno zero», Guerini e Associati,
Milano 2001

–  Ana
Tortajada, «Il grido invisibile. La vita negata delle donne afghane»,
Sperling & Kupfer, Milano 2001

– 
AA.VV., «No Global. Gli inganni della globalizzazione sulla povertà,
sull’ambiente e sul debito»,  Zelig Editore, Milano 2001

–  Gino
Strada, «Pappagalli verdi», Feltrinelli, Milano 1999

(un
medico davanti ai disastri della guerra).

 



Cliccando su

siti
inteazionali:

– 
www.rawa.org

è il
sito dell’«Associazione rivoluzionaria delle donne afghane», nata a Kabul
nel 1977

– 
www.9-11peace.org

è un
sito pacifista statunitense; 9-11 stanno ad indicare la data dell’11
settembre 2001


www.thenation.com

sito
dell’omonima rivista, per trovare un’informazione statunitense meno
schierata con il potere

– 
www.amnesty.org

il sito
di Amnesty inteational

– 
www.landmineaction.org 

il sito
delle organizzazioni che si battono contro la produzione delle mine
antiuomo

– 
www.un.org 

il sito
delle Nazioni Unite.

Siti
italiani:

– 
www.emergency.it

il sito
dell’organizzazione umanitaria italiana fondata nel 1994 dal chirurgo Gino
Strada

– 
www.unimondo.org

sito di
Trento, con moltissime informazioni sulle principali tematiche mondiali,
dal debito alla globalizzazione

– 
www.waews.it 

sito
che informa sui conflitti nei vari paesi del mondo, molto facile da
utilizzare

– 
www.peacelink.it 

storico
sito italiano sulle tematiche della pace

– 
www.nonluoghi.it

sito
per un giornalismo critico, tra fatti, idee e utopia

– 
www.lunaria.org

sito su
volontariato internazionale, immigrazione, razzismo.

 

 


MAI PI
U’

poesia di Meena (*)

 

 Sono
una donna che si è destata.

Mi sono
alzata e sono diventata una tempesta,

che
soffia sulle ceneri

dei
miei bambini bruciati.

Dai
flutti di sangue del mio fratello morto sono nata.

L’ira
della mia nazione me ne ha dato la forza.

I miei
villaggi distrutti e bruciati mi riempiono

di odio
contro il nemico.

Sono
una donna che si è destata,

la mia
via ho trovato e più non toerò indietro.

Le
porte chiuse dell’ignoranza ho aperto.

Addio
ho detto a tutti i bracciali d’oro.

Oh
compatriota, io non sono ciò che ero.

Sono
una donna che si è destata,

la mia
via ho trovato e più non toerò indietro.

Ho
visto bambini a piedi nudi, smarriti e senza casa,

ho
visto spose con mani dipinte di henna


indossare abiti di lutto,

ho
visto gli enormi muri delle prigioni inghiottire

la
libertà nel loro insaziabile stomaco.

Sono
rinata tra storie di resistenza, di coraggio.

La
canzone della libertà ho imparato negli ultimi respiri,

nei
flutti di sangue e nella vittoria.

Oh
compatriota, oh fratello, non considerarmi

più
debole e incapace.

Sono
con te con tutta la mia forza sulla via

di
liberazione della mia terra.

La mia
voce si è mischiata alla voce di migliaia

di
donne rinate, i miei pugni si sono chiusi insieme

ai
pugni di migliaia di compatrioti.

Insieme
a voi ho camminato sulla strada della mia nazione,

per
rompere tutte queste sofferenze,

tutte
queste catene di schiavitù.

Oh
compatriota, oh fratello, non sono ciò che ero.

Sono
una donna che si è destata,

la mia
via ho trovato e più non toerò indietro.

Sono la
donna che si è svegliata.

Mi sono
alzata e sono diventata tempesta

fra le
ceneri dei miei figli bruciati.

I miei
villaggi in rovina e in cenere mi riempiono

di
rabbia contro il nemico.

Oh
compatriota, non mi guardare più debole e incapace.

La mia
voce si mescola con migliaia di donne in piedi,

per
rompere tutte insieme tutte queste sofferenze e queste catene.

Sono la
donna che si è svegliata,

ho
trovato la mia strada e non toerò mai indietro.

 

 (*) 
Meena, nata a Kabul nel 1957, fondatrice dell’«Associazione rivoluzionaria
delle donne dell’Afghanistan» (RAWA), fu assassinata da agenti segreti
russi e afghani a Quetta, in Pakistan, il 4 febbraio 1987.

 (*)
Davide
Casali


è nato a Torino nel 1974. Fotografo freelance, ha fatto reportages su
Sudan, Kenya, Kosovo, Perù, Colombia, Messico, Pakistan, Afghanistan,
pubblicati da varie testate (la Repubblica, L’Unità, il Manifesto,
Liberazione, La Stampa, Nigrizia, Missione Oggi, Missioni Consolata ecc.).
Ogni tanto, come dimostra questo dossier, si cimenta anche con la
scrittura, ma alla penna e ai tasti del computer dice di preferire la
macchina fotografica.

Davide Casali




COLOMBIA. La lotta del popolo U’WA: IL CUORE DEL MONDO (e le trivelle della Oxy)




Una storia esemplare


 Quando
il petrolio è sangue


 



Sono soltanto seimila, ma si sono ribellati alla prepotenza della «Oxy
Corporation»,  una multinazionale petrolifera degli Stati Uniti che
vuole sfruttare la loro terra.

I

dubbi (anche personali) di un osservatore internazionale davanti ad
opposti modelli di vita: quello antropocentrico e tecnoconsumistico
dell’Occidente e quello ecocentrico dei popoli indigeni.


 

«Esto es el
coracon del mundo». Ci disse con aria profetica il cacique major
Berito, con il suo sguardo da sciamano, i suoi bellissimi tratti
somatici da indio u’wa e gli occhi che ti penetrano l’anima.

Ancora oggi ci
chiediamo come abbia fatto a tornare a casa, in quel piccolo villaggio
sperduto nella selva colombiana, quest’uomo di circa 50 anni, mai uscito
da quelle montagne amiche, padrone di uno spagnolo poco più che
elementare ed incapace di leggere e scrivere.

«Così hanno voluto
i grandi spiriti», rispose ridacchiando e masticando una piccola
pallottola di foglia quando glielo chiedemmo, increduli, per la prima
volta.

Venuto per un giro
di sensibilizzazione sulla causa u’wa in Europa, al momento del ritorno,
all’aeroporto Internazionale Malpensa 2000 di Milano, salutati gli
accompagnatori, scomparve.

Panico tra gli
organizzatori, squadre di ricerca a Milano, Miami, Dusseldhorf, Caracas,
Bogotà. Nulla. Dopo una settimana arrivò, a piedi, nel suo villaggio di
Cubarà…

Forse allora hai
ragione tu, Berito, indigeno u’wa che insieme alla tua gente stai
combattendo una guerra che racchiude veramente il cuore di tutte le
contraddizioni, per usare una parola gentile, di questo mondo moderno.

Come tutti i cuori
anche il vostro coracon del mundo pompa sangue. Sangue vitale alla vita
degli u’wa e della selva, luogo dove vive questo popolo di 6.000
persone, nella stragrande maggioranza bambini.

Il sangue u’wa
prende il nome di ruiria e non ha prezzo. Se la Madre terra ne fosse
privata, morirebbe, come qualsiasi altro essere vivente che è
dissanguato.

L’uomo occidentale
invece l’ha battezzato in maniera diversa: petrolio. E un prezzo lo ha,
anzi tutti i giorni ha un valore differente, che è deciso in fredde
stanze piene di computers, che ricevono ordini di compravendita da tutto
il mondo.

Uomo contro uomo,
profitto contro ambiente, guerra contro pace, morte contro vita. Il
tutto riconducibile a due semplici parole: progresso e sviluppo. Parole
che ormai hanno perso il significato originario, surrogati di un
concetto decisamente più imbarazzante: denaro.

 



ARRIVA LA OXY

La storia è molto
semplice. Il sottosuolo del territorio u’wa, posto all’estremo nord
della Colombia, al confine con il Venezuela, è ricco d’idrocarburi.

Il governo di
Bogotà appoggia gli scavi e, nel febbraio del 1995, concede la licenza
d’esplorazione alla multinazionale statunitense Occidental Petroleum,
meglio conosciuta come Oxy Corporation.

Come tutti gli
altri esecutivi del Sud America, il gabinetto presieduto da Andreas
Pastrana sembra mal sopportare le proprie radici pre-colombiane. E in un
ambiente di democrazia sospesa, in cui il popolo colombiano è
periodicamente chiamato a scegliere tra uno schieramento politico
(neoliberista) e il suo esatto clone (aspetto tipico dell’influenza
statunitense nel sud America, ma ormai anche in Europa), gli uomini che
hanno il colore della terra sono considerati un fastidio.

Il danno che
porterebbe l’attuazione di questo progetto può essere analizzato in
maniera duplice. La prima rifacendosi alla cultura locale, la seconda
dando un valore occidentale e quindi puramente pratico.

Per i werjayas
(sciamani che vivono sulla montagna e influenzano la vita della
comunità) e per la stragrande maggioranza della popolazione,
l’estrazione petrolifera ha un significato dissacrante. Il sacro è
d’altronde l’asse portante della cultura u’wa, come di tutte le culture
indigene. L’estrazione del petrolio è l’atto con cui si dissangua la
Madre terra, generatrice di tutte le forme viventi da cui dipende la
sopravvivenza di tutti gli uomini.

Non potrebbe
esistere catastrofe più grande. La ricaduta socio-religiosa sarebbe
devastante. Il terrore per la vendetta di Sira, la Madre terra,
pervaderebbe la comunità.

Alla costruzione
del primo pozzo, pur se esterno al «resguardo», i digiuni di
purificazione si susseguono, nuove rigidissime regole sono dettate. La
scarsità di piogge è vissuta come una colpa, una punizione da scontare
per il gravissimo oltraggio.

La comunità u’wa
(la parte che  non conosce tecnologia, compravendita ed altri aspetti
tipici della società occidentale) non può nemmeno immaginare quali
catastrofi pratiche si abbatterebbero sulla sua vita.

Il territorio
sarebbe alterato da un inquinamento generalizzato ed irreversibile. I
fiumi si trasformerebbero in discariche di liquami tossici, stroncando
così la presenza di pesce. La foresta sarebbe rasa al suolo per far
posto a pozzi d’estrazione, oleodotti, piste asfaltate, accampamenti per
operai, nuovi insediamenti per coloni. La prostituzione importata e
l’alcolismo dilagherebbero tra i nuovi abitanti arrivati da lontano. Gli
u’wa ribelli sarebbero brutalmente uccisi da squadracce di paramilitari
adibite appositamente a fare il «lavoro sporco» che l’esercito regolare
non può fare. Dove ora è pace e prosperità sarebbe solo distruzione e
morte.

Verso tutto questo
gli u’wa sono indifesi, come un bambino che si incammina inconsapevole
con l’orco.

La Laguna de Lipa
è un esempio di come potrebbe evolvere la situazione attuale. Gli
indigeni ghuababis che vi vivevano, dopo essere stati spostati nella
bidonville di Saravena, si sono trasformati in un branco di accattoni
alcolizzati, ombre lamentose che implorano monetine da 50 pesos.

La laguna ha perso
per sempre la propria originaria bellezza e versa in condizioni
ecologicamente disastrose, simile ad una palude di liquami tossici.

Il mercato globale
inteso come selezione darwiniana (il più forte vince, il più debole si
estingue) si abbatterà come una furia sulle vite degli u’wa…

Solo pochi
indigeni, debitamente incaricati dalle autorità spirituali negli anni
passati di formarsi con una cultura occidentale per avere un’arma in più
nella lotta contro la Oxy, comprendono quali drammi incombano sul
destino della comunità. Costoro, in genere giovani intorno ai 25-30
anni, non godono però della simpatia della  popolazione, che mal vedono
la loro assenza prolungata dovuta ai lunghi viaggi, i loro nuovi
costumi, la loro contaminazione con l’uomo bianco.

 



SCONTRO TRA CULTURE

 «Gibraltar One»:
così è stato denominato il primo pozzo di esplorazione petrolifera della
Oxy Corp. costruito pochi metri all’esterno del territorio sacro. Un
nome che ricorda le Colonne d’Ercole e il significato che ha avuto per
secoli quello stretto che divideva il conosciuto dall’ignoto.

Per arrivare
all’impianto bisogna sottostare ad estenuanti controlli da parte
dell’esercito, schierato a difesa dell’insediamento. Il sito è
disseminato di bidoni che portano il marchio Shell, altra benefattrice
dell’umanità.

Dopo una lunga
collaborazione con la Oxy nello sfruttamento petrolifero di questa
regione, quando incominciarono le proteste inteazionali in favore
degli u’wa, la Royal Dutch Shell si ritirò prontamente dall’affare,
memore del boicottaggio globale. Oggi  la compagnia preferisce
acquistare pagine pubblicitarie sul Time, per spiegare come sia divenuta
una paladina dell’ambiente e dei diritti umani.

Sarebbe istruttivo
portare su questa montagna (un tempo ricoperta di selva, oggi
trasformata in pianura di cemento armato) i tanti «guru»  della crescita
economica continua.

Eccolo di fronte
ai miei occhi questo famoso libero mercato, nella sua versione più
sfrenata, selvaggia, pura. Luogo nel quale non c’è posto per le culture
diverse da quella tecno-consumistica occidentale.

Esiste una sola
ragione per cui queste persone devono morire per fare posto ad un
impianto petrolifero? Di più: esiste una sola ragione per cui queste
persone debbano morire affinché noi occidentali si abbia il diritto di
non utilizzare mezzi pubblici perché un po’ scomodi?

Su questa collina
abitavano circa 150 persone. Un giorno arrivarono gli elicotteri
dell’esercito e le sfollarono. Resiste una famiglia sola che vive
arrampicata sulla montagna (con vista sul pozzo petrolifero), invasa dal
fetore nauseabondo che emette incessantemente il cantiere, circondata da
militari che vigilano giorno e notte. Che sguardo triste hanno questi
uomini e queste donne. Non parlano, ma resistono.

Giovani militari,
molti dei quali con caratteristici tratti somatici indigeni, controllano
tutto quello che facciamo. È vietato scattare fotografie, è vietato
parlare con gli operai, è vietato fare riprese video.

Sopra le nostre
teste volteggiano gli elicotteri che trasportano i tecnici della Oxy
dalla cittadina di Arauca al pozzo petrolifero. Vivono blindati.

Gli operai (coloni
con la faccia triste riconoscibili dalla mantellina gialla) viaggiano
ogni mattina su camion messi a disposizione dalla multinazionale, lungo
la pista che corre in mezzo alla selva, costruita nei decenni passati.
Durante il percorso immensi pascoli testimoniano la distruzione massiva
della foresta negli anni del «taglia e brucia» selvaggio.

L’autista che ci
guida (un giovane u’wa dal nome biblico, Samuel) spiega che questi
pascoli un tempo erano tutti territori ancestrali indigeni. Racconta le
storie narrate dai vecchi sciamani. Storie di un tempo, quando il
territorio u’wa era dieci volte più grande e la comunità più numerosa di
quanto sia attualmente. Ogni tanto spunta un bovino, un «long ho»,
come lo chiamano i locali.

Testimonianza che
una ricchezza (anche economica) come la foresta pluviale è tuttora
distrutta da capitali gringos, ansiosi di portare nei fast food
occidentali hamburgers a basso costo.

Petrolio e bovini,
lo sviluppo all’occidentale voluto, preteso e desiderato dalla classe
dirigente colombiana, come da tutti gli altri paesi dell’America Latina,
passa attraverso la distruzione delle ricchezze naturali e la cacciata
delle popolazioni locali.

 



GLI INDIGENI

 È data in
Occidente, e non solo, l’idea che essi rappresentino un elemento
anacronistico. Un popolo ed una cultura, che rifiutano la proprietà
privata e lo scambio commerciale, esulano dal concetto occidentale di
civilizzazione.

«Per la mentalità
modea, il fatto di trincerarsi dietro un valore non commerciabile del
territorio rappresenta qualcosa di sfasato e contrario alla civiltà, che
merita qualsiasi forma di repressione volta a neutralizzare pretese così
assurde», ha sentenziato il giornalista Plino Apuleyo Mendoza durante
una trasmissione televisiva dedicata alla contrapposizione tra u’wa e
Oxy.

Un pensiero rozzo,
ma non lontano dalle dissertazioni economiche che quotidianamente si
sviluppano in prestigiose università occidentali.

Un’accozzaglia di
razzismo, idolatria del mercato ed ignoranza, solitamente riconducibili
ad un fantomatico interesse comune contro un piccolo interesse locale,
rappresentato da uno sparuto gruppetto di «selvaggi».

Accecati da
un’onnipotenza delirante, la civiltà tecno-consumistica ignora
bellamente che la distruzione continua dell’ambiente e dei tanti piccoli
popoli sparsi per il mondo ci sta portando verso una comodissima
catastrofe.

Una cultura come
quella u’wa, che mette l’homo tecnologichus di fronte alle proprie
responsabilità su quale tipo di mondo stiamo costruendo, è ingombrante.
E merita ogni forma di repressione. Non può spiegarsi altrimenti questo
spiegamento di forze, questo annientamento fisico silenzioso.

Ciò che quest’uomo
analfabeta, Berito, ci racconta attraverso tortuosi percorsi logici,
facendo ampi riferimenti ai miti, sono verità ecologiche
incontrovertibili. Anche scientificamente.

Il pensiero corre
ai chili e chili di carta scritta che l’IPCC (Intergovernamental Panel
Climate Change) ha pubblicato pochi mesi fa, contenenti un monito
all’umanità per il fenomeno del riscaldamento globale rapido, dovuto in
parte rilevante all’utilizzo di combustibili fossili.

Ma che importa! Là
sotto ci sono tre mesi di consumo petrolifero del mercato statunitense.
Là sotto ci sono milioni di dollari. Lontano di casa, immerso nelle
contraddizioni del mondo, con questi uomini miti e generosi che smontano
ogni pregiudizio occidentale sul selvaggio povero, sporco ed ignorante,
tutto appare chiaro, limpido. Ed allora le domande, soprattutto di notte
quando la conoscenza del buio vero ed assoluto scatena paure ancestrali
e non si riesce a dormire, piovono continue.

Due mondi
separati, uno popolato da una cultura indigena come gli u’wa e l’altro
da una civiltà tecno-consumistica: quale raggiunge il fine ultimo di
ogni essere vivente in natura, la prosecuzione della specie?
Indubbiamente il primo. O forse il fine ultimo dell’uomo è avere il
maggior numero di gingilli tecnologici? Qualcuno conosce un altro
pianeta dove andare a vivere? Il pozzo distante poche decine di metri da
me ne è un esempio chiaro.

Dove prima c’era
la vita donatrice di vita, ora c’è il cemento e l’acciaio. Le culture
indigene hanno sviluppato una cultura ecocentrica, noi antropocentrica.

Non è necessario
raggiungere il loro equilibrio ecologico perfetto, basterebbe che la
nostra visione del mondo che ha al centro l’uomo fosse contraddistinta
dall’amore, parola che tanto imbarazza, e dal rispetto per tutti gli
esseri umani.

Con i loro sguardi
sospettosi, questi piccoli grandi uomini sembrano cogliere il cuore del
problema che tuttora sfugge, forse volontariamente, a noi occidentali.

Un giorno, una
giovane indigena, madre di 5 stupendi bambini all’età di 25 anni,
laureata in sociologia a Bogotà, guardandoci con occhi profondissimi ci
domandò: «Perché l’uomo bianco non trova mai sazietà in quello che ha?».

Impossibile
rispondere a questa banale domanda. Forse perché, a differenza loro,
abbiamo deciso di sostituire i valori spirituali con quelli materiali.
Forse perché l’amore vero è difficile da raggiungere, ed allora è molto
più semplice comprarsi qualcosa che dia un po’ di soddisfazione
momentanea.

 


CHI DEVE AIUTARE
CHI?

 L’impatto con gli
indigeni è disarmante. Da buon occidentale ero partito dall’Italia
pensando che la mia presenza sarebbe stata indispensabile nella vicenda
u’wa. Ci aspettavamo un’accoglienza calda e amichevole, da eroi, da
salvatori.

Arrivati al
Chuscal, luogo dove si teneva l’annuale assemblea u’wa, a bordo di una
camionetta  scese il silenzio. Solo pochi bambini si misero a saltare
festosi intorno all’automezzo.

I delegati delle
autorità spirituali, dopo averci impedito di scendere dal mezzo (poiché
impuri), ci rispedirono senza tante storie al nostro alloggio, una
missione gestita da tre suore Teresine al di là del fiume Cubaron, in
mezzo alla selva.

Da subito capimmo
che la figura dell’occidentale, eroe indispensabile, non ha molta
ragione d’essere.

Passarono tre
giorni, in cui rimanemmo parcheggiati alla missione. Un luogo lontano
dal nostro mondo: senza luce, telefono, riscaldamento, acqua corrente,
circondato dalla selva e dai suoi rumori. Le tre suore vivono così, da
sempre. Anch’esse appoggiano gli u’wa. Dicono che in loro vi sia una
spiritualità profonda che li ha portati a conservare intatto il loro
credo religioso, nonostante le forti pressioni evangelizzatrici. E di
questo sono contente loro per prime.

Finalmente giunse
un ragazzo a comunicarci che potevamo raggiungere il Chuscal.

Ma quale
significato aveva la fredda accoglienza che abbiamo ricevuto all’arrivo?
Indubbiamente noi non eravamo che gli ultimi bianchi che si
presentavano, da 500 anni, a fare promesse. Inoltre le
strumentalizzazioni, in situazioni che attirano l’interesse
internazionale, si sprecano.

Le azioni di
alcune persone, che operano in stretto contatto con gli u’wa, sono
spesso dubbie e, molto probabilmente, interessate al ruolo di
intermediario unico tra gli indigeni e i capitali che arrivano
dall’Occidente. Per noi ci fu una breve cerimonia di accoglienza e tanti
buoni propositi sulle collaborazioni future. Nulla di più, nulla di
meno. D’altronde era meglio così.

Gli u’wa sono
timidi e silenziosi, non amano fare dissertazioni filosofiche. Inoltre
la realtà è di fronte agli occhi di tutti e non necessita di tanti
discorsi. Chiunque capirebbe il sopruso, la vergogna e il dolore che
vivono in questa terra. Allora è chiaro quale sia il compito di chi
viene quaggiù a vedere e a parlare.

Non soltanto per
aiutare, ma soprattutto per imparare. L’uomo occidentale deve
radicalmente cambiare i propri stili di vita. Si deve liberare del
consumismo dilagante, perché genera morte e distruzione. E non importa
se genera anche ricchezza. La ricchezza smodata non è un diritto.

Ed io di fronte a
quel pozzo mi sono sentito colpevole. Colpevole di far parte di una mega
macchina economico-sociale che trasforma ogni azione in danno o in
sopruso.

Mentre guardavo
quegli uomini pensavo alla carta che sarebbe stata utilizzata per
denunciare questa storiaccia, al gasolio necessario per il volo aereo,
all’energia indispensabile per battere sui tasti del computer e mille
altre cose.

«Al mio ritorno
avrò il coraggio di dire a tutti che gli u’wa non sono lontani da noi,
dato che li incontriamo quotidianamente quando andiamo rifornire la
nostra auto di carburante? Avrò il coraggio di ammettere che noi tutti
siamo corresponsabili di un genocidio nella misura in cui non ci
impegneremo nel limitare i nostri sfrenati consumi? Avrò il coraggio di
dire che, prima di intervenire sulle multinazionali, dobbiamo pensare
alle nostre azioni quotidiane? Avrò il coraggio di andare contro tutti i
luoghi comuni, creati in questi secoli per giustificare la
subordinazione dell’uomo alle macchine e ai sistemi economici?».

Tutto questo mi
domandavo mentre, salito velocemente in una camionetta, assieme ai miei
colleghi scappavo dal territorio per evitare una colonna di guerriglieri
venuti a prenderci. Ennesima contraddizione di un paese dove, forse,
realmente batte il cuore del mondo.




 

 


Le
organizzazioni delle Farc e dell’Eln


 Ma
con chi sta la guerriglia?

 


Nel dipartimento di Arauca, i guerriglieri delle Farc e
dell’Eln tengono comportamenti ambigui sia con il narcotraffico che con le
compagnie petrolifere. Forse anche per questo, da sempre gli u’wa si
dichiarano distanti da ideologie e azioni delle due organizzazioni
guerrigliere.


 di
Antonio Mazzeo


 

L’inizio delle
esplorazioni petrolifere in Arauca ha richiamato  l’attenzione di tutti
gli attori del conflitto colombiano, comprese le organizzazioni della
guerriglia, che a partire dal 1980 hanno fatto la loro comparsa nell’area,
avviando una offensiva per il controllo delle principali vie di
comunicazione.

Nel dipartimento di
Arauca operano stabilmente i Fronti n. 10 e 45 delle Farc e il Fronte
«Domingo Laín» dell’Eln. Di difficile lettura è il rapporto tra queste due
organizzazioni guerrigliere. Le relazioni non sono mai state stabili e si
sono alternate fasi di mutua collaborazione a veri e propri periodi di
conflitto per l’egemonia politica e territoriale. Le divergenze iniziarono
a presentarsi nel 1991, quando fu avviato il dialogo tra la guerriglia e
il governo di César Gaviria.

Tra Farc e Eln ha
pesato, in particolare, la competizione per il consenso da parte dei forti
movimenti popolari esistenti nel dipartimento di Arauca, in lotta per la
promozione degli investimenti sociali delle rendite petrolifere nel
deficitario settore dei servizi e dell’assistenza educativa e sanitaria.

Almeno sino alla
prima metà degli anni ’90, l’Eln ha operato combinando gli elementi
fortemente militari con il lavoro di propaganda ideologica, mentre le Farc
si sono presentate più legate ai movimenti sociali e meno radicali nelle
azioni militari. Nella seconda metà del decennio, l’atteggiamento dell’Eln
è mutato per ciò che riguarda il rapporto con i soggetti organizzati del
mondo contadino e sindacale. Tra i militanti di queste associazioni l’Eln
è riuscita a strappare alle Farc l’egemonia esercitata nel passato.

La perdita di
leadership ideologica si è fatta palese in occasione del massacro compiuto
il 12 giugno 1999 ad Arauca da parte di una colonna delle Farc-Ep di 6
leaders sociali. I responsabili del crimine vengono denunciati proprio
dall’Anuc (la forte Associazione dei contadini), dalla centrale sindacale
della Cut e dal Comitato indigeno di Arauca, i quali si dichiarano
«sconcertati per la serie di violazioni e fatti di sangue realizzati dai
membri dei Fronti n. 10 e 45 delle Farc».

Per contro le Farc
hanno ottenuto legittimità e consenso tra le organizzazioni dei piccoli
produttori di coca, vittime delle campagne di fumigazione del governo e
della pressione dei narcotrafficanti che monopolizzano i processi di
trasformazione e l’esportazione della cocaina. La distinta posizione
rispetto alla coltivazione della coca è stata causa di ulteriore frizione
tra i due gruppi armati. Mentre l’Eln non permette che nella zona si
sviluppino la coltivazione e il traffico della coca, nelle zone sotto il
controllo delle Farc, si sono diffusi piccoli appezzamenti e alcuni
laboratori per la lavorazione della pasta base.

 

 LA
STRAGE DELLE FARC


 
In
questo complesso scenario di lotta per il controllo del territorio era
inevitabile che le organizzazioni guerrigliere si dovessero confrontare,
entrando talvolta in conflitto, con il popolo u’wa in lotta contro la Oxy.
Il cabildo mayor ha più volte denunciato la crescente pressione esercitata
dai gruppi armati, l’utilizzo del resguardo per il loro occultamento, i
tentativi di reclutare giovani u’wa.

«Chiediamo di vivere
secondo le nostre regole – chiarisce Daris Cristancho, rappresentante del
cabildo u’wa -. Siamo un popolo totalmente pacifico e non vogliamo
violenza nel nostro territorio. Rispettiamo le culture e le filosofie
diverse dalle nostre, anche quelle che fanno uso della violenza per
combattere le proprie lotte; ma, allo stesso modo, chiediamo il rispetto
della nostra cultura di pace e che le armi e i conflitti siano lasciati
fuori dal Territorio Sacro. Così siamo distanti sia dalle Farc che dall’Eln,
perché distante e differente è la loro cultura e filosofia».

Tuttavia, alcune
gravi vicende verificatisi negli ultimi tre anni hanno spinto le autorità
tradizionali indigene ad assumere atteggiamenti distinti rispetto alle
Farc ed all’Eln. Mentre con la prima organizzazione si è determinata la
rottura di ogni relazione, con la seconda il dialogo è aperto: il transito
nel territorio u’wa delle colonne dell’Eln, ad esempio, non è apertamente
osteggiato. Non sono isolati i casi di simpatia da parte di adolescenti
indigeni, ma il forte controllo sociale esercitato dagli anziani proibisce
loro l’ingresso nelle file della guerriglia, pena l’esclusione dalla
comunità.

Ciò che ha
maggiormente influenzato i rapporti guerriglia u’wa risale al marzo 1999,
quando una colonna delle Farc sequestrava tre ricercatori indigenisti
statunitensi in visita nel territorio u’wa: Terence Freitas, Ingrid
Washinawatok e Lahe’ena’e Gay. Il primo di essi era stato il redattore
principale del pamphlet «Sangue della nostra madre: il popolo u’wa, la
Occidental Petroleum e l’industria petrolifera», che aveva consentito la
campagna internazionale a favore degli u’wa. I tre ricercatori indigenisti
avevano discusso con gli u’wa la possibilità di implementare alcuni
progetti educativi popolari. Una decina di giorni dopo il sequestro,
furono rinvenuti i loro corpi crivellati da armi da fuoco alla frontiera
con il Venezuela.

Ad oltre due anni di
distanza dall’eccidio, non è stato possibile comprenderne le motivazioni
reali. Secondo il National Catholic Reporter, l’atteggiamento delle Farc
potrebbe essere stato influenzato dalle tangenti pagate dalla Occidental:
«Una pratica comune in Colombia da parte delle compagnie che fanno affari
in aree sotto il controllo delle forze ribelli».

Le Farc avrebbero
deciso di sostituire, alla vigilia del «Plan Colombia», gli ingressi
ottenuti con le coltivazioni della coca con la richiesta del pagamento di
tangenti da parte delle industrie petrolifere. L’opposizione ai nuovi
progetti di esplorazione sarebbe stato considerato in modo negativo, in
quanto avrebbe potuto mettere in crisi il «nuovo» sistema di
autofinanziamento. A prova di questo presunto «interesse»
dell’organizzazione combattente, rappresentanti u’wa hanno affermato che
l’arrivo dei macchinari della multinazionale per le perforazioni a Cedeño,
nei primi mesi del 2000, sarebbe stato «pacificamente» presidiato da
elementi vicini alle Farc.

La tesi è tuttavia
di difficile dimostrazione; inoltre presenta almeno un’incongruenza.
Perché la Occidental dovrebbe negoziare con le Farc un suo intervento a
repressione di chi si oppone contro i nuovi progetti petroliferi, quando è
possibile continuare a sperimentare con successo la strategia di
finanziamento delle forze armate e di proliferazione dei gruppi
paramilitari? E quanto sono realmente antitetiche o distanti le posizioni
di Farc ed Eln rispetto al petrolio e le multinazioni che ne hanno
monopolizzato l’estrazione?

 


TANGENTI E SEQUESTRI

 È un dato acquisito
che le Farc abbiano reso sistematica la riscossione di tangenti dalle
imprese petrolifere straniere operanti nel territorio colombiano, così
come risponde a verità che le stesse imprese abbiano accettato di
sottostare all’estorsione, mentre contemporaneamente finanziavano lo
sviluppo di organizzazioni armate di estrema destra per la lotta
all’insorgenza e l’eliminazione selettiva dei leaders politici e
sindacali. Tuttavia, anche la crescita dell’Eln è stata possibile grazie
all’accumulazione finanziaria, ottenuta attraverso l’estorsione e il
sequestro di funzionari ed impiegati delle compagnie petrolifere ivi
operanti.

Ciò non ha impedito
all’Eln di considerare i consorzi inteazionali come obiettivo strategico
delle proprie azioni militari. Per questo motivo, contro le imprese del
settore petrolifero sono stati eseguiti attentati mediante il sabotaggio
degli oleodotti e la distruzione di automezzi. La prima grande azione
dimostrativa risale al 14 luglio del 1986, quando, ad appena un mese
dall’inaugurazione dell’oleodotto Caño Limón-Coveñas, l’Eln ne dinamitó un
tratto. Nei 10 anni successivi l’Eln lo avrebbe dinamitato in 443
occasioni.

Nello stesso periodo
le Farc hanno, invece, preferito non partecipare alle distruzioni degli
oleodotti. Una importante mutazione strategica ha avuto avvio nel 1997: il
6 giugno effettuano il loro primo attentato contro la struttura
petrolifera. In questa occasione lo stato maggiore delle Farc dichiara
obiettivo militare l’oleodotto e «tutte le compagnie straniere che
sfruttano le nostre risorse naturali».

Una valutazione più
oggettiva dei recenti fatti di cronaca, sul conflitto in atto nella
regione di Arauca, permette di verificare che, pur nella forte dialettica
ideologica ed egemonica tra Farc ed Eln, non sono mancati i momenti di
collaborazione per la realizzazione di importanti azioni militari contro i
complessi petroliferi e contro le stesse infrastrutture della Oxy.

Il 16 dicembre 1999,
ad esempio, guerriglieri di Farc e Eln hanno dinamitato congiuntamente tre
pozzi del campo di Caño Limón. Due mesi più tardi (23 febbraio 2000),
guerriglieri Farc e Eln hanno realizzato il blocco della strada nella zona
di Samoré, per impedire il transito dei tir verso il nuovo impianto Oxy.

 

 


LE
TAPPE DELLA LOTTA

 1988
I rappresentanti della Occidental Petroleum incontrano gli u’wa, offrendo
di partecipare alle spese della comunità per l’istruzione e la sanità.


1991

Adozione della nuova
Costituzione colombiana, che afferma i diritti degli indigeni.


7 aprile:
La Occidental,
nell’ambito di un consorzio che include la Royal Dutch/Shell e la
Ecopetrol, ottiene i diritti per l’esplorazione nel blocco di Samore.


agosto:
La Occidental e alcuni rappresentanti degli u’wa
firmano un accordo per lo sviluppo di scuole e ospedali. La Occidental
sostiene che questo accordo riguarda anche le conseguenze sociali e
ambientali del progetto, ma il portavoce dell’autorità tradizionale u’wa, 
Berito KuwarU’wa, che è analfabeta, sostiene che pensava di firmare un
accordo riguardante solo scuole e ospedali.


1995
  3 febbraio: I
l
ministero dell’Ambiente concede alla Occidental la licenza per le
esplorazioni sismiche intorno al territorio u’wa.


aprile:

Gli indigeni
minacciano il suicidio di massa se la Occidental inizierà a sfruttare i
giacimenti che potrebbero trovarsi nel loro territorio.


agosto:

Il difensore civico
deposita una denuncia contro il ministero dell’Ambiente presso la Corte
suprema di Bogotà, per la violazione dei diritti umani degli u’wa in
seguito alla concessione dei permessi di esplorazione alla Occidental
senza le consultazioni richieste dalla legge.


14 settembre:
La Corte suprema
si esprime a favore degli u’wa. La Occidental presenta ricorso alla stessa
Corte.


19 ottobre:
La Corte suprema
accoglie il ricorso della Occidental. Della causa viene interessata la
Corte costituzionale, competente per le questioni relative ai diritti
umani.


1996
  gennaio:

La Corte
costituzionale accetta di  esprimersi sulla decisione della Corte suprema,
affermando la legittimità della licenza ottenuta dalla Occidental.


1997
  12 gennaio:

La causa degli u’wa
viene presentata davanti alla Corte costituzionale colombiana, che il 3
febbraio si esprime a favore degli indigeni, richiedendo opportune
consultazioni entro 30 giorni.


4 marzo:

Il Consiglio di
stato si pronuncia sulla richiesta del difensore civico, dando torto agli
u’wa e in contraddizione con la Corte suprema.


1999
  marzo:

Una colonna delle Farc sequestra e giustizia tre
ricercatori statunitensi in visita al territorio u’wa.


24 agosto:
Il Goveo
colombiano e le autorità tradizionali sottoscrivono l’allargamento dei
confini ufficiali della riserva u’wa. Gli indigeni ribadiscono la loro
opposizione alle esplorazioni e allo sfruttamento petrolifero nel loro
territorio tradizionale.


21 settembre:
Il ministro
dell’Ambiente concede alla Occidental il permesso di effettuare scavi
esplorativi nell’area di Gibraltar. La Occidental propone quindi di
scavare il pozzo «Gibraltar 1», a 500 metri dal confine della riserva. Gli
u’wa non vengono consultati.


2000
  19 gennaio:

Agenti dell’esercito
colombiano irrompono nel territorio u’wa. La Occidental trasporta
macchinari sul sito del «Gibraltar 1». Il giorno dopo giungono poliziotti
anti-sommossa e gli u’wa che abitano vicino al pozzo vengono circondati.


22 giugno:
Polizia e
militari tentano di costringere gli indigeni ad abbandonare i loro
villaggi. I lacrimogeni vengono lanciati nelle case. Gli u’wa resistono
passivamente a questa azione.


24 giugno:
Centocinquanta
poliziotti anti-sommossa attaccano violentemente un sit-in degli u’wa nei
pressi di Cubarà. Almeno venti persone vengono ricoverate per i danni dei
gas lacrimogeni, un uomo viene colpito da un proiettile, diversi vengono
arrestati.


25 giugno:
I manifestanti
vengono di nuovo aggrediti  dalla polizia: 33 persone sono arrestate senza
motivo.


2001
  gennaio:

Bulldozer
dell’esercito abbattono le barricate degli u’wa lungo la pista che porta
al sito destinato alla costruzione del pozzo «Gibraltar 1». Muoiono due
bambini indigeni.


gennaio:

Al pozzo «Gibraltar
1» inizia la prospezione. Centocinquanta persone vengono sfollate con gli
elicotteri.


aprile:
Due rappresentanti indigeni, Daris Cristancho e
Roberto Berito Cubaria, iniziano un giro di sensibilizzazione in Europa.


aprile:
L’udienza con il papa a San Pietro, organizzata da
tempo, viene rimandata dal Vaticano per non ben specificati motivi.


luglio:

Attraverso una nota
Reuters, la Oxy Corp. comunica il mancato ritrovamento di petrolio durante
la prospezione nel sito «Gibraltar 1».

La multinazionale
americana informa anche di riservarsi nuove esplorazioni in loco.

 

 


Tra
storia e leggenda


 IL
SUICIDIO DI MASSA


 

«Il Padre del Cielo
diede loro questa storia vera: non possiamo consegnare ciò nelle mani
della Morte. Per questo il cacique disse: non resterò qui. Consegnerò il
mio spirito nelle mani della Madre terra insieme a tutta la comunità».
Rimasero solo alcune donne gravide, con compito di perpetuare la
discendenza. Gli altri si lanciarono da un dirupo.

A Guican è ben
individuabile il «penòn de los muertos», la rupe dei morti. Vuole la
memoria storica, e la leggenda, che in questo luogo gli u’wa, intorno alla
metà del 1600, attuarono un suicidio di massa contro la colonizzazione
violenta cui furono assoggettati. Fu la protesta estrema contro la
violenza sistematica dei conquistadores.

Un popolo che in
tutta la sua storia mai conobbe il giogo oppressivo dell’invasore, nemmeno
da parte degli incas che mai arrivarono in questi luoghi, pose termine
alla disperazione senza futuro in maniera irreversibile. «Il fiume si
riempì di corpi di uomini, donne e bambini. Così tanti che il corso
d’acqua da quel giorno cambiò percorso», raccontano i vecchi saggi.

La notizia che gli
u’wa abbiano nuovamente minacciato il suicidio collettivo, qualora il
sistema di pozzi fosse costruito, è smentita da alcuni, mentre da altri è
confermata.

È facile immaginare
che gli u’wa abbiano paventato questa minaccia (attraverso giornali
ansiosi di fare «il colpo»), affinché il silenzio che circondava la loro
lotta, fino al 1995, fosse rotto. La combattività che dimostrano non
lascia, infatti, intendere che gesti così estremi siano nelle loro menti.

Questo però è
accaduto e fa parte della loro cultura e della loro storia. È bene non
dimenticarlo.

Ma.P.

 



L’assemblea politica degli u’wa


 POLITICA
E SPIRITUALITÀ

 

Annualmente gli u’wa
indicono un’assemblea per decidere collegialmente quali misure adottare
per opporsi al progetto della multinazionale statunitense Oxy Corp. e del
governo colombiano.

Le modalità di
questa riunione, preceduta da un lungo digiuno purificatore, possono
considerarsi un esempio di democrazia e di vera partecipazione popolare
alla vita della comunità.

Nel territorio del
Chuscal, nei paraggi di una scuola non più utilizzata, si stabiliscono i
rappresentanti di tutte le famiglie che compongono la comunità.
All’esterno della scuola si costruiscono dei luoghi di riparo e ristoro.
Ogni partecipante porta viveri in abbondanza, affinché le esigenze di
tutti siano soddisfatte. All’interno dell’edificio si svolge l’assemblea.

Subito si nota una
grande presenza di donne, molte delle quali intente ad allattare un
piccolo. Non vi è gerarchia. Tutti hanno diritto ad esprimere le proprie
opinioni. L’assemblea è accesa e partecipata. Non esistono momenti di
tensione anche se le vedute, talvolta, sono molto diverse.

Le decisioni finali
non vengono prese a maggioranza. Bensì si discute ad oltranza, fino al
raggiungimento di una linea comune nella quale si possano riflettere i
pensieri di tutti gli u’wa.

Contemporaneamente i
vecchi werjayas, le autorità spirituali, anziché esercitare un potere
decisionale diretto come si potrebbe immaginare, pregano e svolgono riti
sacri affinché all’interno dell’assemblea vengano prese le decisioni
migliori.

Questo dà anche una
valenza sacrale alle decisioni finali, coerentemente con la cultura
spirituale della comunità u’wa.

Ma.P

 



Luglio 2001


LA
OXY SI RITIRA?

 

In un comunicato
stampa della fine di luglio, la Occidental Petroleum dichiarava che i
sondaggi, durati nove mesi, nel sito esplorativo «Gibraltar 1» escludevano
la presenza di petrolio.

Un moto di speranza
ha pervaso il fronte che ha avversato per lunghi anni questo progetto. «Il
petrolio si trasformerà in acqua perché noi stiamo pregando Sira, la Madre
terra, affinché compia questo prodigio. La Oxy non troverà oro nero e sarà
costretta ad andarsene, lasciandoci finalmente in pace». Così mi disse un
giorno un capo indigeno, ma io nel mio incrollabile determinismo scossi il
capo e pensai che il futuro sarebbe stato molto amaro per questa gente.
Gli ultimi sviluppi della storia danno, metaforicamente, ragione agli
indigeni.

Nei giorni
successivi il comunicato stampa ho preso contatto personalmente con il
vice presidente della Oxy Corp., Lawrence Meriage, a Seattle, che in una
stizzita risposta affermava che non è stato rilevato petrolio, ma che i
tecnici si riservano la possibilità di ordinare nuovi sondaggi in futuro
nella stessa zona.

Particolarmente
antipatico è stato inoltre il sarcasmo con cui sottolineava il mancato
suicidio collettivo degli u’wa.

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Maurizio Pagliassotti




Dossier: TESTIMONIANZE DI MISSIONARI CON PERMESSO? Su culture, conflitti, scelte, annuncio del vangelo

Articolo 1

SEMPRE
"AL TROTTO"

 

Il beato Giuseppe Allamano affermava che, se vogliamo conoscere la
nostra identità, è sufficiente ricordare il nostro nome: "missionari della
Consolata". Missionari che egli ha sognato come persone che andassero incontro alla
gente, qualificate nel campo spirituale, scientifico, culturale e pastorale. Il fondatore
non voleva gente mediocre. Essendo i suoi missionari destinati ad avere come orizzonte il
mondo, esigeva che avessero un cuore aperto alle sue dimensioni, capace di ampie visioni e
di accoglienza verso tutti. Il missionario è colui che va, che cammina. L’Allamano,
però, diceva (con un tocco originalissimo) che non dobbiamo solo camminare, ma correre,
"trottare". Missionari che camminano sempre, come i "samburu" o come i
magi, che non si sono fermati di fronte alle difficoltà; come ha corso la Consolata, per
andare ad aiutare Elisabetta; come hanno corso i cristiani "atleti" ricordati da
san Paolo.

Persone che trottano, dice l’Allamano, come la Madonna faceva
"trottare Gesù" (non so dove l’abbia letto o saputo, ma lui lo dice!). In ogni
caso questo esprime il suo sentimento e il dinamismo richiesto ai missionari della
Consolata oggi. Allora il sogno è che, a 100 anni dalla fondazione dei missionari della
Consolata, quando si sente il peso del tempo, noi vinciamo la tentazione di adagiarci, di
non sapere più correre. Trottare con entusiasmo. Se non lo facciamo, diventiamo inutili.
L’Allamano, nonostante l’età, non è mai invecchiato, perché ha sempre avuto attenzione
a ciò che avveniva al di fuori della sua stanza, a quello che vedeva; ha sempre
conservato l’attenzione ai tempi, ai cambiamenti; non si è fossilizzato, non si è
accontentato di ripetere, non è stato contento delle mete raggiunte, ma ha cercato di
andare incontro alle situazioni, alle necessità. È anche il nostro compito: non
fossilizzarci, non accontentarci di quello che abbiamo compiuto, ma andare oltre, obbedire
al comando di Gesù, prendere il largo, affrontare le situazioni che sfidano la missione,
il vangelo, il bene dell’umanità. E non solo partire, ma partire in comunione.
"L’unità di intenti" è il principio vincente: o si lavora insieme o si
perde tempo. E questo diventa particolarmente evidente oggi in un mondo globalizzato.
Ricordo le parole che il fondatore scriveva, nel 1909, a fratel Benedetto Falda: "La
nostra missione andrà innanzi e prospererà, perché è opera di Dio e della Consolata.
Passeranno gli uomini, cadranno alcune foglie, cadranno i rami secchi, ma l’albero
prospererà e diventerà gigantesco. Io ne ho le prove in mano". Le prove ci sono
ancora. Ce lo conferma anche l’esperienza di tanti nostri fratelli e sorelle che, nel
silenzio di ogni giorno, continuano a portare la "consolazione di Dio tra i più
poveri del mondo". È con questo spirito che vanno accolte le testimonianze di alcuni
missionari della Consolata, rilasciate in occasione del centenario dell’Istituto e
riproposte dal presente "dossier".

 

p. Gottardo Pasqualetti,

superiore dei missionari della Consolata in Italia

 

Articolo 2

 

 

Mozambico

 

 

Tenacemente presenti

 

"Mi tempestavano di domande:

"Perché rimani? Perché ti preoccupi di noi?".

E poter rispondere nel cuore: "Perché sono cristiano"".

 

 

di Franco Gioda (*)

 

Racconto quello che ho visto in Mozambico, quello che abbiamo vissuto
insieme e si sta vivendo oggi, con il sogno che ci ha guidato in questi anni. Se
togliamo il sogno, non comprendiamo il significato della nostra presenza missionaria nel
paese.
Bisogna ricordare e comprendere la storia: il tempo coloniale portoghese,
l’inizio dell’indipendenza nazionale e la rivoluzione comunista, la guerra, la pace e
oggi l’oblio. Dopo il 1975, con la libertà concessa a malincuore dal Portogallo in
seguito ad una lunga lotta, il Mozambico è caduto in un sistema che ha gravato
pesantemente su tutto: il marxismo-leninismo nel suo modello più radicale. Sono seguite
le nazionalizzazioni affrettate, la paralisi del commercio, la fuga degli imprenditori,
l’indottrinamento socialista, la mancanza di libertà minime, il controllo generale
su tutto. Come se ciò non bastasse, ecco la tragedia della guerra civile tra Frelimo
(Fronte di liberazione del Mozambico) e Renamo (Resistenza nazionale mozambicana), guerra
aggravata da siccità e fame. Di qui l’insicurezza totale. Nel 1992 la pace, firmata
a Roma, con una grande speranza di rinascita.

Oggi, però, il Mozambico rischia di essere dimenticato
dall’opinione pubblica mondiale. Ultimamente il paese è stato ancora oggetto di
attenzione, ma solo a causa dell’alluvione: un momento drammatico e isolato, nel senso che
ha toccato solo una parte della nazione.

 

 

Calati nelle situazioni

 

I missionari della Consolata, che arrivarono in Mozambico nel 1925,
avevano in cuore la formazione impartita dal beato Giuseppe Allamano: quindi una
spiritualità del concreto, del quotidiano.
I primi pionieri giunsero nel territorio
senza tanti progetti, ma con una fortissima carica umana e spirituale, con l’ideale di
vivere in mezzo alla gente.

Oggi sono ancora presenti nelle zone più sperdute, dove le persone
sono abbandonate da tutti. Direi che hanno quasi timore della città, anche perché si
cercano i più poveri, con l’idea chiara dello sviluppo-consolazione. Quando il
missionario si cala nella realtà, non fa distinzione tra sviluppo e consolazione:
non ci può essere l’uno senza l’altra, e viceversa.

Con queste premesse, è importante sottolineare alcuni aspetti del
nostro lavoro in Mozambico. Abbiamo sempre cercato di immergerci nelle situazioni
concrete, per dare risposte utili.

La prima è stata la formazione attraverso le scuole: scuole di
arti e mestieri per l’avvio professionale al lavoro. In questo i fratelli missionari
sono stati una benedizione enorme. Naturalmente lo stato portoghese ne ha approfittato:
concedendoci la libertà di insegnamento (nel 1942), si è creato un intenso sviluppo con
il moltiplicarsi di scuole, soprattutto in foresta.

Con il tempo si è capito che, dietro il permesso del Portogallo,
c’era una strategia (non troppo velata) di espandere e rafforzare la colonizzazione.
C’è stato, allora, un momento di ripensamento e di ribellione al sistema con la
tentazione, per i missionari, di abbandonare tutto. Ma, guardando all’interesse della
gente, si è deciso di restare, di non abbandonare le comunità, almeno finché si è
potuto, cioè fino alla rivoluzione marxista-leninista, allorché tutto si è bloccato:
scuole, ministero, attività sociali.

L’unico permesso concessoci era di "essere presenti":
condividere le sofferenze e attese del popolo, aiutare a non perdere la speranza. Questo
fino al momento della pace, della ricostruzione, delle nuove scelte: scelte diverse da
quelle precedenti. Anche per noi, missionari, non più proprietari e gestori, ma
"servi" in aiuto e sostegno alle scuole governative; collaboratori senza
potere, onesti e umili.

C’è stata, con la pace, l’intuizione formidabile dell’università
cattolica.
In Mozambico c’era una sola università nel sud. Nel remoto nord del paese,
persino a 3 mila chilometri dalla capitale Maputo, la scuola era solo quella elementare,
con pochissime scuole superiori. L’intuizione di qualche missionario della Consolata è
sfociata nel progetto di una università, che al presente può vantare 1.500 studenti, con
quattro facoltà in tre città del nord. Una carta vincente.

 

 

Con grande "nostalgia"

 

Un altro aspetto del nostro lavoro missionario attuato in questi anni,
ma soprattutto in quelli della rivoluzione e della guerra, è stato la vicinanza con la
gente.

La prima "strategia" del governo comunista fu di isolarci, di
tagliarci fuori, di fare sì che non avessimo più alcun contatto con la popolazione. Ecco
la concentrazione in determinati posti, con missionari derisi ed espulsi. Per visitare le
comunità dei cristiani (fatica e denaro a parte), erano necessari permessi su permessi,
controlli meticolosi, attese estenuanti, limitazioni. Da qui ancora l’interrogativo:
che facciamo? Abbiamo cercato di resistere e di non mollare, sfruttando ogni occasione che
ci veniva concessa. Le visite alle comunità avvenivano con il rappresentante del partito
comunista alle calcagna, che controllava tutto. Ma (fatto inaspettato) il rapporto con la
gente è diventato più forte, più coinvolgente. In alcune comunità dura tutt’oggi.

I missionari di Cuamba, ad esempio, facevano pervenire (attraverso
persone) delle schede catechetiche da compilare nei villaggi; gli animatori locali
rispondevano alle domande, descrivevano i fatti, segnalavano gli esempi, e inviavano tutto
per iscritto al missionario, che ci rifletteva e programmava il lavoro pastorale.

È nata così una chiesa "ministeriale", dove i catechisti e
gli animatori facevano quasi tutto. Grazie a loro, le comunità resistevano alla
propaganda atea, vivevano nella fede e, addirittura, si moltiplicavano. In luoghi dove le
comunità, prima della rivoluzione e della guerra, erano 10-15… sono diventate 20-25. Ne
è derivata anche una "purificazione" per i missionari troppo legati
ancora alle strutture, ai metodi del passato, forse pure al governo. In quel tempo si è
capito che l’unico "buon pastore" è il Signore: è Lui che pascola il
gregge, al di là del nostro molto o poco lavoro. Un terzo aspetto della nostra presenza,
oltre alla formazione e condivisione di vita, è stata la testimonianza. Il Mozambico, con
la guerra, ha avuto circa 1 milione di morti, 2 milioni di rifugiati all’estero (nei
campi-profughi del Malawi e dello Zimbabwe), 5 milioni di sfollati interni… Tutto il
paese era in gravissime difficoltà. Poi la guerriglia, che sequestrava, rubava e
bruciava, seminando morte e distruzione anche fra i missionari.

Ma siamo rimasti. Abbiamo incoraggiato, testimoniato la speranza,
nonostante continui segni di morte. Forse ho portato anch’io un po’ di
consolazione, e solo con la testimonianza della mia presenza. Quante volte, dopo aver
viaggiato in bicicletta di notte, arrivavo ad un villaggio e mangiavo quello che
c’era. Mi tempestavano di domande: "Padre, perché sei qui? perché rimani?
perché ti preoccupi di noi?". E poter rispondere nel cuore: "Perché sono
cristiano… Per amore e nel nome di Gesù Cristo".

Quello che ho fatto io l’hanno fatto molti altri missionari, ognuno nel
suo stile, ma tutti con la stessa passione, la stessa voglia di essere
"testimoni" di Qualcuno per cui abbiamo dato la vita. Un po’ come Maria, sotto
la croce e accanto al figlio in agonia, ma senza poter fare nulla. Solo esserci!

Oggi, dopo gli accordi di pace dell’ottobre 1992, lo sforzo è di
aiutare il paese a vivere gli ideali stupendi conquistati con sofferenza nel periodo buio
del passato. Ricordare i valori appresi, il volto nuovo delle comunità cristiane, la
voglia di continuare a crescere nella formazione umana e cristiana… Cercare di non
cadere nelle nuove trappole,
come quella degli aiuti facili, della delega in bianco,
dei miraggi del benessere occidentale che generano divisioni, gelosie, discriminazioni,
povertà umana e morale.

Se volessi riassumere tutto, potrei farlo con la parola portoghese "saudade",
che è intraducibile; indica nostalgia e rimpianto di alcune situazioni, anche di
sofferenza. Credo che la chiesa in Mozambico senta "saudade" del tempo di
persecuzione e guerra. Un tempo tragico, certo, ma durante il quale in cui i cristiani
erano aggrappati alla parola di Dio. Non avevano nulla, ma erano luce. Una comunità di
testimoni e martiri (come i 21 catechisti trucidati a Guiúa), presenza viva di Cristo.

 

(*) Padre Franco Gioda, missionario in Mozambico durante il
colonialismo, la rivoluzione comunista, la guerra civile e il raggiungimento della pace.
È stato anche superiore dei missionari della Consolata operanti nel paese.

 

 

Articolo 3

dossier Kenya

 

 

Dal Kenya all’Ecuador

 

 

Dialogo con le culture

 

 

"La cultura non è un grande magazzino di fenomeni,

ma un intreccio di relazioni e di valori interdipendenti".

 

 

di Giuseppe Ramponi (*)

 

Quando operavo in Kenya (nel distretto dei samburu, diocesi di
Marsabit), ho potuto dialogare con vari rappresentanti di etnie vicine, i frequentatori
della missione, maestri e anziani che diventavano amici. Avvertivo il bisogno di capire
"la vita samburu": come era organizzata la tribù negli aspetti sociali,
educativi e religiosi. Il popolo viveva la cultura senza essee protagonisti: la vita di
ogni giorno era guidata dal capo-famiglia, in comunione con gli altri che formavano la
manyatta, il recinto.

Gli sperimentati missionari dicevano che il dialogo era previo e
necessario per l’evangelizzazione. E si doveva cercare una piccola "crepa"
dove mettere il dito e, allargandola, cominciare la predicazione; poi, come fa la sonda,
esplorare e capire se c’era posto per la nostra fede. Se ci lasciavano entrare, era nostro
compito costruire subito la chiesa, con messe, preghiere, canti, sacramenti, catecumeni.
Era il metodo di allora. Oggi, dopo tanta riflessione e polemiche durate anche anni, non
si è d’accordo su tutto. Io sono disposto ad accettare tutti i punti di vista e guardo da
ogni angolo, escluso quello "ottuso".

 

 

La cultura della vita

 

Un cambio radicale nella diocesi di Marsabit avvenne all’inizio
del 1970, quando il vescovo Carlo Cavallera accettò il parere dei missionari, che
suggerivano più impegno per la cultura: ricerca e studio di usi e costumi e conoscenza
della lingua tribale, e non soltanto di quella nazionale (swahili). Io venni scelto per il
distretto dei samburu e, nello stesso tempo, mi nominarono responsabile delle scuole
(Education Secretary). Cominciava un sogno ad occhi aperti.

Nei due settori educativi comuni a tutti i popoli (cultura e
istruzione) c’era finalmente l’opportunità di lavorare ad un progetto che mi stava
molto a cuore: elevare a dignità la cultura e farla entrare nella scuola come
educazione-base (per divenire persone) e completarla con l’istruzione (per
diventare cittadini). La scuola a Maralal era diventata un modello e un centro per
sincerare, identificare e dare dignità alla cultura locale e, allo stesso tempo, dotare
la persona di tutte le qualità garantite dai diritti umani e dal vangelo. Speravo, in
quel contesto, che la persona avrebbe saputo parlare e chiedersi: perché, come, quando,
dove, con chi?… Mi piace inorgoglirmi e affermare che la scuola era un paradigma nel
progetto storico del popolo samburu.

Con la mia partenza, l’impostazione cambiò, perché i successori
erano pratici: non volevano teorie, ma fatti pieni di numeri e guadagni.

Lasciato il Kenya, raggiunsi la Colombia. Nel 1983 ero a Cartagena de
Indias. Pensavo di lavorare con i negri, per cercare i legami con l’antica cultura
africana e dare il brivido della dignità originale a chi era stato spogliato di tutto. La
casa accogliente e comprensiva doveva essere la chiesa.
Doveva essere pure un
laboratorio di ricerca e ricostruzione, partendo da qualsiasi calore ancora vivo,
nonostante l’immensa cenere. Era una sfida. Fallì, perché i responsabili locali si
sforzavano solo di credere nelle verità divine, non nella Verità.

Nel 1987, dopo due anni passati nel Caquetá (importantissimi, perché
mi introdussero nel mondo indigeno, che mi mancava), arrivai in Ecuador, con gli indios in
lotta, portabandiera delle rivendicazioni culturali e organizzative proprie di un popolo
oppresso. In Ecuador sono diventato "pellegrino" con gli indios di lingua
quichua nella loro solitudine, angustia, indignazione ed ira. La gente era ai margini già
al tempo degli incas, diventando solo lavoro bruto e a buon mercato dai conquistatori
spagnoli in poi. Ma quando a Riobamba arrivò il vescovo Leonida Proaño, incominciò il
cammino di riscatto ed emancipazione. Ora l’indio ha un suo progetto di vita e
rivendica la propria storia.

Ho imparato di nuovo tutto e ho abbandonato un po’ la cultura dei
libri per abbracciare quella della vita reale e quotidiana. Oggi mi dedico anima e corpo
alle scuole, dove studiano i bambini indios, e voglio rendere la sede bella, idonea e
qualificata. L’educazione offrirà le "armi" per la "riconquista".

Lavoro anche nella pastorale indigena, con un buon numero di
catechisti: tutti volontari e tutti della base, popolo-popolo. Con essi faccio la lettura
critica della realtà comunitaria in trasformazione, per decifrare gli "enigmi
culturali", proponendo e avviando l’aggancio con l’utopia del Regno di Dio,
l’unica ragione per essere missionari e risposta ancora sempre valida per dipingere di
speranza il progetto storico dei popoli.La cultura non è un grande magazzino di fenomeni,
ma un intreccio di relazioni e di valori interdipendenti. Mi piace ragionare con i
collaboratori, specialmente maestri: il discorso è sempre interessante. La lettura di
segni, immagini, miti, gesti e relazioni non si può fare alle spalle del gruppo
interessato. Però è vero che c’è bisogno dell’"osservatore esterno". E
sono ancora convinto che è indispensabile il cammino indicato da Gesù Cristo e, più che
mai, sono attuali i suoi segni: chiavi per aprire, occhi, orecchie, bocche, mani, cuori
e… sepolcri.

 

 

L’innesto sull’albero buono

 

La scena ecclesiale mondiale ci ha regalato parole "chiavi".
Il Concilio ecumenico Vaticano II ci ha dato la parola "dialogo"; la
Conferenza dei vescovi latino-americani di Medellín (1968) "liberazione",
quella di Puebla (1979) "stare con i poveri" e, con la Conferenza
ecclesiale di Santo Domingo (1992), entra nella storia l’esigenza dell’"inculturazione".
In America Latina essa diventa un imperativo per seguire Gesù Cristo nella solidarietà
verso i volti umani sfigurati.

In Ecuador non parliamo di dialogo con le culture, ma di grido della
cultura
e clamore persistente che esige spazio e riconoscimento nel palazzo della
politica e nella chiesa. La cultura india vuole entrare nella chiesa in nome del
cristianesimo che, bene o male, è diventato suo e si presenta "inculturato"
nell’arco di 500 anni. E si vuole pensare, parlare e agire nella chiesa con una
lingua propria e categorie di pensiero proprie.

Non si accontenta di riti e segni, ma si chiede il diritto di studiare
la filosofia partendo dalla propria cosmovisione, di costruire una teologia muovendosi dal
proprio progetto storico. È un’inculturazione speciale, che richiede la caduta
della chiesa monoculturale
e reclama il diritto di sedersi accanto alle altre culture,
già canoniche, accedendo con diritto completo alla piena cittadinanza ecclesiale. Ora
sogno e lavoro per un "innesto culturale" nella chiesa, affinché questa capisca
e utilizzi tutte le cose buone che la cultura ha, rivedendo e rettificando la struttura
monoculturale che, finora, ha reso "visibile la grazia" con parole, concetti
espressioni liturgiche e dottrinali tratte da un solo vocabolario.

È l’idea sottile di san Paolo (Rom 11, 11-24). Di solito si innesta il
ramo buono nell’albero selvatico. Il missionario insegna, invece, ad innestare la parte
selvatica nell’albero buono. Quindi diventa logica l’azione di inculturare la chiesa,
ossia innestare la cultura indigena nella chiesa.

Paolo vedeva i "pagani selvatici" innestati nell’"albero
buono" del popolo dell’alleanza, cioè la chiesa. E mi diverte l’idea di innestare
gli indios nella chiesa. Mi fa ricordare i barbari, che sconsacrarono l’impero romano, e
immagino lo stupore nel vedere questi "rambo" entrare nelle basiliche, un
po’ chiassosi, e chiedere ascolto. Che cosa impedisce che nel 2001 gli indios entrino
nella loro chiesa, parlino, cantino, adorino e si salvino? E questo senza chiedere in
prestito simboli, ideogrammi, concetti di vita, definizioni di sapienza e conoscenza, di
intelletto e fortezza, di consiglio, pietà e timor di Dio? Passi più lunghi della gamba?
Non me ne sono mai invaghito. Ho sempre cercato di partire da quello che è possibile.
Prima di arrivare alla teologia, c’è la pastorale, che è un lavoro per costruire la
comunità di fede, speranza e carità. Dopo, basta un niente per dire: è la chiesa. Il
vangelo è spirito, forza, visione, una visione di vita che parte da Gesù. Ma gli hanno
dato corpo, segni, sensi, oratoria, logica, parola, ragionamento, mezzi comunicativi. Se
nel passato talora (per non dire spesso) c’è stato bisogno di discutere e disceere la
vera teologia, per definire che cosa si doveva insegnare e credere, ciò significa che
l’interpretazione non è stata subito unanime. E perché non oggi? Anche i popoli
dialogano, ragionano e cambiano. In Kenya i kikuyu (descritti da padre Costanzo Cagnolo in
una celebre monografia di 68 anni fa) sono cambiati; non operano più nei villaggi, nei
campi e nei mercati come allora. Anche in Ecuador l’impero inca non c’è più. Ma c’è
Pilatuña e ci sono io. Pilatuña vive la cultura e io predico il vangelo. Però con
questa differenza: Pilatuña vive la cultura e non sa predicarla; io so forse annunciare
il vangelo, ma faccio molta fatica a viverlo.

 

(*) Padre Giuseppe Ramponi, missionario in Kenya, Colombia e, oggi,
in Ecuador. Ha scritto: "Preghiere samburu", Consolata Fathers, Nairobi (pro
manuscripto); "Missionari e indios. Sentire la vita", Edizioni Siaca, Cento
(FE), 1999.

 

Articolo 4

dossier Congo

 

 

 

Repubblica democratica del Congo

 

Tra i fuochi della guerra

 

 

Una guerra con 2 milioni di morti dal 1998.

Alta la tensione: "Siamo tutti uguali, però loro…".

Ma, con il missionario, si dice pure: "Se tu resti…".

 

 

di Santino Zanchetta (*)

 

La mia è una piccola testimonianza, con qualche particolare
drammatico, che giustifichi perché siamo rimasti nella Repubblica democratica del Congo,
nonostante la guerra. Lo faccio a nome di tutti i missionari: quelli che sono rimasti per
scelta o perché costretti… e che hanno anche dato la vita. Parlo della guerra vissuta
(dalla gente e dai missionari), per rispondere alla domanda: perché restare in tale
contesto? Recentemente il Congo ha subìto due guerre successive; la seconda è scoppiata
nell’agosto del 1998 ed è tuttora in corso.

Per noi, missionari, guerra sono i bombardamenti con armi
pesanti, quando le bordate non sono mai precise, né indovinate, né tanto meno…
chirurgiche. Le bombe cadono ovunque, perché il nemico da perseguire non ha un campo
preciso e occupa generalmente i quartieri popolari. Noi abbiamo avuto la fortuna di
sopravvivere, mentre 2 milioni di persone sono state uccise.

Guerra sono gli scontri, quartiere per quartiere, con gente che fugge e
cerca disperatamente rifugio; con soldati che, aspettando l’evoluzione degli avvenimenti,
si danno al saccheggio, rubando tutto il possibile, forse per appagare la propria fame o
per rifarsi dei salari mai ricevuti.

Guerra è l’odio verso i nemici e i loro alleati: un odio
alimentato dalla stampa, dai discorsi, dai canti e ritoelli, ma anche dalla sofferenza
di chi ha dovuto patire fame, lutti, atrocità, privazioni di medicine, luce, acqua.
Guerra è pure l’Aids, trasmesso (consciamente e inconsciamente) dai soldati e vissuto con
terrore da parte delle vittime.

Guerra è la rabbia contro la povertà mal sopportata (e ciò
spiega i saccheggi e furti), sfogo del tribalismo in atto.

 

 

Tasselli di un mosaico

 

In questo quadro fosco, noi missionari abbiamo vissuto la guerra
insieme alla gente. Con tensione, per avvenimenti che non hanno mai fine; con terrore, per
ciò che potrà ancora capitare, senza sapere quando e come; con silenzio, ignorando
assolutamente cosa fare per proteggersi o proteggere la popolazione. Con paura incessante:
della morte, della tortura, del sequestro, dell’isolamento, della mancanza di
comunicazione e informazioni.

Guerra è stata anche, per noi, la partecipazione al dolore del popolo,
superando il voltastomaco nel vedere persone bruciate vive con la tecnica del
"pneumatico sui corpi", pestate con il mattarello del mortaio. E poi i
ripetuti saccheggi a missioni, parrocchie, seminari, conventi, sotto la minaccia delle
armi; obbligati a caricare tutto sulle autoblindo dei militari e vederle partire.

In guerra, però, non sono le lacrime che salvano, ma come si affronta
la situazione, soprattutto per noi missionari, divenuti punti di riferimento. Abbiamo
vissuto ogni sorta di sopruso; siamo stati anche feriti nei sentimenti più profondi: come
uomini, come stranieri, come sacerdoti, suore e consacrati. Sorgono tante domande, tutte
cariche di angoscia: perché restare nel paese? Perché amare la gente? Perché, dopo
tutto quello che abbiamo vissuto e visto, dobbiamo credere che la nostra presenza abbia
significato e valore?… Perché, invece, non partire, in attesa di tempi migliori e più
sicuri? La mia risposta (mentre la guerra continua) non è né definitiva né esaustiva:
è un insieme di piccoli tasselli, come in un mosaico.

Il primo motivo che, come missionari, ci fa rimanere è l’affetto,
la parte umana di noi. Siamo vissuti per tanti anni insieme: abbiamo pregato e partecipato
al dolore comune nei funerali, alle difficoltà materiali e spirituali; abbiamo
chiacchierato a lungo visitando le case e prendendo in braccio i bambini; abbiamo sognato
iniziative comuni di sviluppo. La nostra esistenza è intimamente legata a quella della
gente.

Date queste realtà, chi ha il coraggio di spezzare i legami,
abbandonare l’amico nel dolore o nella lotta per la sopravvivenza? La vicinanza fratea
infonde coraggio ad una comunità disorientata, la fa sentire amata e valorizzata.
"Se tu resti – mi sento dire -, significa che noi siamo importanti, ci vuoi
bene e sei uno di noi".

Il secondo tassello del mosaico è più profondo: dipende dalla stessa
missione che ci vincola, senza sconti, alle comunità cristiane. Quali che siano le
circostanze (abbondanza, penuria, gioia, pericolo, gratitudine o indifferenza), il vangelo
della carità (cioè il dono di sé) deve essere proclamato in ogni situazione. Pertanto la
missione non è una passeggiata occasionale,
una manciata di emozioni che passano, ma
condivisione di vita, costantemente e concretamente.

Un terzo motivo: la nostra presenza deve diventare segno di una cultura
di pace contro ogni logica della guerra,
facendo capire che, nonostante la violenza,
è la frateità che deve reggere la vita… Attraverso riflessioni, incontri e gesti di
carità, il missionario approfondisce il vangelo con l’uomo della strada, provocando
(non senza fatica) pensieri di riconciliazione. Un esempio: furono fatti prigionieri dei
rwandesi, ed era "normale" insultarli, denigrarli e considerarli animali per
tutte le sofferenze che avevano provocato… Nella nostra riflessione, in missione,
abbiamo affrontato il tema della dignità dell’uomo, creato ad immagine di Dio, che
supera l’appartenenza ad una tribù o stato. La riflessione ha incontrato molta
resistenza… perché "è vero che siamo tutti uguali, loro però…". Ciò
nonostante, dopo reazioni anche violente, siamo riusciti a raccogliere cibo e soldi per
andare a trovare i prigionieri "nemici", con un atteggiamento di pace e perdono.

 

 

Preparando il futuro

 

È importante rimanere e, soprattutto "come" si rimane. Non
è la presenza fisica che gioca il ruolo determinante, ma il significato che acquista e
l’azione quotidiana: cioè la vicinanza che faccia crescere la comunità cristiana,
che infonda speranza (ma anche soluzione) nei problemi concreti, che educhi alla non
violenza e al perdono.

In frangenti drammatici (come è avvenuto nelle nostre missioni del
Congo settentrionale) a volte è più utile la "partenza momentanea", perché il
missionario, restando, può mettere a repentaglio la vita della sua gente. Spesso,
infatti, "il bianco" è ricercato per quello che possiede o ha nascosto; e, per
sapere e trovare qualcosa (macchine, soldi, viveri), si può anche ricorrere alla tortura
delle persone. In questi casi, forse, la soluzione migliore è l’allontanamento
temporaneo, per permettere alla gente di vivere senza subire ulteriori pressioni e
violenze.

 

I missionari non sono eroi; non sono nati per questo (io, almeno);
però la presenza-missione li interpella e si esprime "con" la gente in tante
piccole cose.

Infine il nostro restare è un investimento per il futuro. La
situazione, anche pastorale, esige nuove visioni e prospettive; suppone che i missionari
lavorino non soltanto cercando di "sopravvivere" oggi, ma guardando alle
generazioni future. La guerra, purtroppo, non finirà domani e la ricostruzione del Congo
non avverrà dopodomani. I giovani, specialmente, devono saper convivere con la violenza,
stimolati però a cercare valori nuovi, umani e cristiani, per costruire un futuro di pace
per il paese. Ecco perché, in barba alla guerra (o, meglio, a motivo di essa), il nostro
gruppo missionario di Kinshasa ha voluto offrire un segno "forte". Prendendo lo
spunto dalla conferenza "Il coraggio dell’annuncio", abbiamo aperto una nuova
parrocchia nella "periferia più periferia" della capitale, dove bisogna
incominciare da zero. È una testimonianza di chiesa, di vicinanza missionaria, che
esprime, a dispetto della scarsità di mezzi e personale, la fiducia di poter dare un
volto nuovo al Congo. Noi siamo sempre "i missionari della Consolata".

 

 

(*) Padre Santino Zanchetta, missionario in Zaire-Congo. Il paese,
spaccato in due, è in guerra dal 1998: le vittime superano i due milioni. La separazione
incide anche sui missionari della Consolata, costituitisi in due gruppi che non possono
incontrarsi.

 

Articolo 5

 

dossier America Latina

 

 

America Latina

 

 

L’indio al centro

 

 

"Per gli indios, noi missionari non siamo importanti:

con la chiesa o senza la chiesa, faranno il loro cammino. Siamo noi che
abbiamo bisogno di loro".

 

di Antonio Bonanomi (*)

 

È importante chiarire subito un "dettaglio": l’indio non
esiste. Esiste come termine, non come realtà; nessuno degli indigeni dell’America si
riconosce come indio, perché è una parola sbagliata; è un "errore" di
Cristoforo Colombo,
che pensava di avere raggiunto le… Indie!

Pertanto meglio sarebbe parlare di popoli indigeni o, come si
dice in Argentina, di popoli aborigeni, che occupano un determinato territorio fin
dall’"inizio": quindi padroni della loro terra e storia. Tuttavia fare la
scelta degli indios non è una moda; significa incominciare a guardare il mondo non
dall’occidente, da noi, ma da loro. Non solo il mondo, ma anche la chiesa sarebbe
più povera senza la loro presenza, perché gli indios apportano una grande ricchezza, con
una saggezza, una storia e un progetto di vita diversi. Siamo noi che abbiamo bisogno di
loro, più che loro di noi. Qual è il panorama degli indigeni nell’America Centrale e
Meridionale? Sono circa 45 milioni coloro che si dichiarano indigeni, anche se credo che
siano il doppio, perché la maggioranza dei popoli che vivono in America hanno una
percentuale di sangue indi al 20-60%; quindi il volto indigeno è molto più comune di
quanto appare nelle nostre mappe. Essere indigeni in America è stato un motivo di
vergogna per tanto tempo e molti si sono mimetizzati per poter sopravvivere! Si passa dal
70-80% della Bolivia e del Guatemala, allo 0,2% del Brasile, all’1% del Venezuela, al 2%
della Colombia. Quindi c’è una diversità di presenza enorme.

C’è pure una diversità di situazioni: popoli che vivono ancora come
cacciatori, raccoglitori, pescatori e popoli che sono alle soglie della modeità con i
vantaggi e gli svantaggi che questo implica. Oggi questi popoli stanno facendo "la
riconquista" della loro storia, cultura, territorio.

Oggi il grande problema in America è il non riconoscimento della
propria identità.
Il futuro dirà chiaramente che, se l’America vorrà diventare un
continente con un volto, una storia e un progetto originali, dovrà necessariamente
riscoprirsi plurietnico e multiculturale: latina, india, nera. Una sfida enorme, ma
anche la ricchezza d’America.

 

 

Il quinto sole

 

Ci sono tre grandi tappe nella storia dei popoli indigeni. La prima è
il tempo che precede la conquista, e non è conosciuta. Tutti pensiamo che la storia
d’America sia incominciata quando è arrivato Colombo, ma quei popoli "scoperti"
avevano già migliaia di anni di civiltà, di cui è rimasto solo qualche rudere, alcune
iscrizioni e pochi reperti nei musei.

La seconda tappa della storia comincia con "la conquista".
Per noi il 1492 è una data gloriosa, perché spalanca all’Europa un mondo
sconosciuto; per gli indios è l’inizio della colonizzazione, del genocidio e della
"scomparsa", non solo fisica, ma soprattutto culturale, di identità.

Verso gli anni ’70 incomincia una terza tappa per i popoli
indigeni: è quella della "riconquista". Vissuti finora ai margini,
vogliono riappropriarsi della loro storia e identità; vogliono essere di nuovo
protagonisti e signori della loro terra espropriata. Per questo il terzo millennio, per
l’America, sarà il millennio degli indigeni e dei neri. Oggi il grande problema
americano è il non riconoscimento della propria identità, bensì l’essere un
continente senza identità.

La storia unisce i popoli indigeni, anche se la cultura a volte li
differenzia; e li unisce il progetto del futuro che sentono come proprio: gli indios
vivono dell’utopia, credono e sono convinti che sorgerà il "quinto sole", il
nuovo impero degli indios in America.

Se la società latinoamericana non accetta la sfida di assumere la
cultura e il progetto indigeno come radici della sua storia, difficilmente il continente
incontrerà la pace, perché non s’incontrerà con se stesso.

 

 

Alle radici

 

Noi missionari della Consolata in America Latina abbiamo compiuto un
lungo cammino per giungere alle… radici. Quando siamo partiti per il continente,
l’abbiamo fatto con un progetto particolare: incontrare l’America degli
emigranti e, quindi, la ricerca-scoperta di paesi o quartieri totalmente veneti, trentini,
siciliani, calabresi… tutta gente che era partita dall’Italia per cercare da
mangiare e sfuggire alla miseria.

La prima tappa dei nostri missionari è stata quella di stabilirsi dove
c’erano gli europei; arrivando, si sono sentiti più o meno a casa loro; non hanno
avvertito il cambiamento provato dai missionari in Africa, dove il "salto" era
più evidente.

Poi c’è stata la seconda tappa, a volte più lunga e a volte più
breve. Il fatto di essere missionari li ha resi inquieti e si sono, allora,
aperti alle zone più povere e abbandonate: il Chaco in Argentina, Roraima in Brasile, il
Caquetá in Colombia… Ma l’indio era sempre invisibile. Se si prendono in mano i
documenti ufficiali (come le Conferenze regionali) fino agli anni ’70, non si parla
mai di indios. È come se uno prima vede i rami, poi il tronco e, solo alla
fine, le radici.

Soltanto in una terza tappa i missionari e le missionarie della
Consolata sono arrivati agli indios. All’inizio è stato come giungere dal centro alla
periferia; poi si sono resi conto che giungere all’indio non è arrivare alla periferia
d’America, ma alle sue radici. A São Paulo, in Brasile, si contano 600-700 mila
giapponesi, una delle culture asiatiche più ricche; si trovano più cattolici giapponesi
in Brasile che nello stesso Giappone… In Colombia si incontrano pure turchi o colonie
libanesi. Le colonie sono come rami, che non hanno in sé la vita; questa viene dalle
radici. C’è anche il tronco, che è il mondo dei meticci, della colonizzazione: un
mondo inquieto, incerto, disposto a tutte le avventure. E, infine, le radici, che sono i
popoli indigeni.

Per gli indios, noi missionari non siamo importanti, né necessari: con
o senza la chiesa, essi faranno il loro cammino. Siamo noi che abbiamo bisogno di loro.
Non incontreremo mai le radici, né costruiremo una chiesa che sia davvero cattolica,
cioè con una pluralità di valori, senza gli aborigeni. Dobbiamo andare incontro agli
indios, perché sono "diversi"… La loro è una cultura che privilegia lo
spirito sulla materia. Per l’indio tutto è vita.

L’uomo può diventare animale o pietra… Noi occidentali non siamo il
centro di tutto, perché, avendolo fatto per ragioni di profitto, stiamo rovinando tutto.
È la tragedia dell’homo homini lupus, che si ripete.

 

Poi c’è la comunità. L’indio non esiste come
"individuo"; non dice "io", ma "noi"; si sente parte di un
corpo. Se volete annullare un indio, portatelo fuori dalla comunità: non esiste più, è
un uomo morto…

Come missionari, la nostra funzione è: stare con gli indios, sorretti
dal vangelo, per rafforzae l’identità. Nel momento presente essi devono
fronteggiare ad una sfida grande: unire, in una sintesi nuova, la loro storia e tradizione
con… altre realtà, in un processo di interculturalità. È questo il nostro compito di
missionari, membri di una famiglia ormai intercontinentale: non richiudere gli indios come
oggetti da museo, ma rafforzarli, aprendoli al dialogo interculturale; perché la loro
ricchezza non solo sia conosciuta, ma diventi valore per altri. Ricordo due figure
significative: la prima è quella di padre Giovanni Calleri, il primo missionario della
Consolata ucciso (nel 1968), per avere amato gli indios del Brasile; la seconda riguarda
un altro sacerdote, padre Alvaro Ulcué, colombiano, anch’egli ucciso (nel 1984),
perché si era schierato dalla parte degli indios. Questo dice qualcosa: che la scelta
degli indios in America Latina è anche scelta di martirio. Ciò vale pure per il nostro
istituto. È bello sapere che un missionario della Consolata colombiano, padre Ariel
Granada, sia morto martire in Mozambico e un italiano abbia avuto la stessa sorte in
Brasile… Questo "filo rosso", che caratterizza la storia delle missioni, lega
anche la storia dei popoli indigeni.

 

 

(*) Padre Antonio Bonanomi, missionario fra gli indios "nasa"
della Colombia. Dopo una significativa presenza in Italia come professore e formatore, ha
raggiunto l’America Latina.

 

Articolo 6

 

dossier Kenya nord

 

 

Kenya del Nord

 

 

Samburu a rischio

 

 

"Tutto si sta sgretolando, mentre l’individuo cerca

di realizzarsi fuori della comunità… La popolazione

è "in guerra" per divenire più potente e ricca".

 

 

di James Lengarin (*)

 

Io sono un samburu. Appartengo ad un popolo nomade di pastori nel Kenya
del nord. I samburu sono un ramo dei masai (eravamo "cugini"): il 95% della
lingua, degli usi e costumi sono uguali, anche se non mancano le diversità. I samburu
sono circa 150 mila e vivono su una superficie di 20 mila chilometri quadrati. Un
territorio vasto, ma povero, perché senz’acqua. Quando ritorno a casa per trovare i
parenti, non li trovo mai sullo stesso luogo, perché, essendo pastori nomadi, devono
spostarsi alla ricerca di acqua e pascoli erbosi.

 

 

Mucche al centro

 

La società samburu è formata da otto clan (o insieme di famiglie), a
loro volta divisi in due: "vacche nere" e "vacche bianche". Il nome
non deve stupire, perché la nostra vita ruota attorno alle mucche. Con la loro pelle, ad
esempio, si confezionano vestiti, stuoie, tabacchiere, sandali: tutto proviene dalla
mucca. Essa è il centro di tutto, non la… new economy!

La nostra è anche una società gerontocratica, perché tutte le
decisioni vengono prese dal "Consiglio degli anziani": solo gli anziani, non
altre persone; nonne e mamme possono dire la loro, dare un parere, ma la decisione finale
spetta al Consiglio! È composto da tutti i capifamiglia, che devono dialogare e restare
uniti per il bene del popolo. La vita dell’individuo passa attraverso vari momenti di
crescita (classi di età) e diversa è la responsabilità sociale: il bambino deve restare
bambino e il guerriero… guerriero. I lavori sono organizzati secondo i ruoli: i ragazzi
pascolano i vitellini o le caprette; i guerrieri il bestiame più grosso e difendono la
società dai nemici; gli anziani guidano la vita attraverso il Consiglio, decidono su riti
ed iniziazione, controllano i matrimoni; le donne costruiscono le dimore, mungono il
bestiame, procurano acqua, legna e cibo per tutti; esse sono al centro della famiglia e
rispettate nel loro ruolo.

In ciò concee la vita religiosa tradizionale, i samburu credono in
un unico Dio, Ngai, che rimanda non solo ad un essere supremo, ma significa pure
"pioggia" e "cielo".
Nell’acqua c’è la vita. Il nostro
è un Signore che dona la vita attraverso la pioggia. E può manifestarsi in vari luoghi:
in una casa, sotto la pianta, sulla montagna, dove si prega, si offrono sacrifici, si
invocano le benedizioni (che sono quasi infinite). Si prega mattino e sera.

I samburu tradizionali sono molto lontani dalla fede in Gesù Cristo.
Il messaggio cristiano è di difficile accettazione. Un uomo-Dio: come è
possibile? I missionari devono faticare non poco per comunicare questa "buona
notizia", sconvolgente per i samburu.

La vita sociale è legata ai periodi di siccità e pioggia; quando
questa manca, la gente sta male, gli animali muoiono e la vita si ferma. Per questo Dio è
pioggia, cioè cibo, carne, sangue, latte: ciò che garantiscono gli animali.

Negli ultimi tempi i samburu sono cresciuti di numero, ma la qualità
dei pascoli è scaduta. Le frequenti siccità e carestie hanno costretto la gente ad una
maggiore dipendenza da cibi estei, come riso, polenta… Tutte cose che prima non
mangiavano; ora, invece, ne fanno uso per sopravvivere. Al presente dipendono anche dal
governo nazionale e dagli aiuti stranieri.

I samburu sono stati a lungo "fuori dal mondo". Quando in
Kenya c’erano i coloni inglesi, alla gente non era permesso di lasciare il territorio. È
rimasta, dunque, isolata per parecchio tempo, divenendo un problema per i colonizzatori,
che faticavano a concepire e dominare una società… senza capo, in quanto tutto è
determinato dal Consiglio degli anziani.

I missionari della Consolata ebbero i primi contatti con i samburu nel
1946, allorché padre Carlo Andrione giunse a Maralal per visitare alcuni amici kikuyu.
Così è iniziato l’avvicinamento, con qualche scuola.

La prima missione sorse a Baragoi nel 1951; vi era anche un centro per
ragazzi, una scuola, un dispensario; il tutto con la presenza delle suore. Fu un passo
molto importante per la nostra storia. I missionari osservavano, imparavano dalla gente,
dialogavano con gli anziani. La scuola è stata l’iniziativa più "utile",
come quella di Wamba e l’omonimo ospedale: un’oasi nel deserto, con medici che
arrivano dall’Italia.

Accennando ai missionari, è doveroso ricordare i confratelli martiri:
padre Michele Stallone ucciso nel 1965 e padre Luigi Graiff nel 1981. Nel 1998 cadde anche
padre Luigi Andeni. Missionari uccisi in un clima di "guerra", mentre essi
aiutavano in "pace" la gente e portavano cibo ai bisognosi.

 

 

L’antenna sulle capanne

 

Contese ce ne sono sempre state nel nord del Kenya, soprattutto fra le
tribù. Noi samburu, ad esempio, non mangiamo con i turkana, perché ce lo vieta la
tradizione che abbiamo ereditato dai nostri padri. Ricordo anche i bellicosi ngorokos e le
azioni di banditismo dei somali.

Ma ben altri sono gli scontri con operazioni tipicamente militari; sono
soldati che combattono altri soldati. E lo stato centrale ha le sue responsabilità.

Un proverbio recita: "Se chiudete la bocca al popolo, ne armate la
mano". Ecco allora che la lotta nel nord del Kenya è diventata una "guerra
civile". Lo stato, invece di garantire alla gente sicurezza e speranza di
vita, mette a disposizione fucili. Una nota preoccupante nei conflitti samburu è
la "giovinezza": la violenza è diventata un modo di vivere per i giovani; sono
ragazzi disoccupati che non hanno nulla da perdere e, di conseguenza, non posseggono né
etica né disciplina. Ma non si tratta di lotte tribali per impossessarsi di mucche o di
sorgenti d’acqua, bensì di banditi organizzati per un fine politico. Tra i rovi del
deserto si aggirano uomini con fucili a tracolla. In tale situazione la cultura samburu è
davvero a rischio. Finora i samburu, pur cambiando, hanno sostanzialmente conservato
l’identità culturale (tanto da essere subito riconosciuti) e il senso di libertà.
Invece altri gruppi hanno subìto in modo violento le spinte del cambiamento: coinvolti
nel processo di urbanizzazione, hanno perso le loro radici.

Quindi i samburu potrebbero rappresentare un esempio di mutamento
positivo (persino nella religione), conservando tuttavia i tratti culturali fondamentali.
Alcuni sono diventati cristiani, lavorano in città, dirigono piccole aziende, ma restano
samburu. Inoltre si sostengono a vicenda. Ognuno ha diritto alla propria libertà di
pensiero, purché non vada contro il bene comune. Al centro c’è la persona: tutto ruota
attorno ad essa e alla vita. Questo almeno fino a ieri.

Oggi però anche i samburu sono a rischio, perché c’è il miraggio
del benessere.
Tutto si sta sgretolando, mentre l’individuo cerca di realizzarsi
fuori della comunità. Il problema grave è che, al presente, la popolazione è "in
guerra" per divenire più potente e ricca. Quando un giovane samburu lascia il
villaggio per motivi di studio o lavoro, al ritorno a casa non si trova più a suo agio,
non è più uno di "loro": non va ad attingere acqua con i compagni, non segue
il gregge al pascolo. Forse il nuovo comportamento è determinato dal fatto che il ragazzo
non ha ricevuto l’educazione tradizionale. Infatti alcuni giovani non ascoltano più gli
anziani (che sono emarginati); invece sono impegnati nell’ascolto della radio e,
possibilmente, della televisione.

Su alcune capanne svetta persino l’antenna parabolica. Solo
musica. La cultura tradizionale tace. Ha voce solo l’immediato, l’economico.

Questo è il rischio che stiamo vivendo: essere individui che cercano
solo di avere di più e a prezzi facili. E dove finiremo con i nostri traumi?

 

 

(*) Padre James Lengarin, primo missionario della Consolata
"samburu" (Kenya). Ha studiato a Londra e Roma. Oggi svolge animazione
missionaria a Galatina (LE).

 

Articolo 7

 

San Vicente/Puerto Leguízamo (Colombia)

 

Nell’inferno della coca

 

 

"Io vorrei maledire la coca. Invece i veri maledetti

siamo noi. Ci siamo lasciati ingannare

dal miraggio di quelle foglie…".

 

 

di Javier Francisco Múnera (*)

 

Mi sento sinceramente un po’ a disagio con il titolo
"nell’inferno della coca", perché io ci vivo. Ma per me non è un inferno,
anche se potrebbe apparire tale. Quindi mi permetto di cambiare il titolo con
"Colombia: tensione armata e coca; la sfida della pace e dell’armonia con il
creato".

In Colombia, in un conflitto sociale che dura da oltre 50 anni e che
non si riesce ancora a risolvere, la pace è la nostra sfida più grossa. Impegna le
migliori risorse anche nel vicariato apostolico di San Vicente/Puerto Leguízamo.

 

 

Intreccio di armi e droga

 

Il vicariato ricopre un’area di circa 100 mila chilometri quadrati, con
quattro comuni principali: Cartagena del Chairá, Solano, San Vicente e Puerto Leguízamo.
Un territorio che rivela l’assenza dello stato per tutto ciò che riguarda i servizi
e le infrastrutture, nonché per i costanti scontri. L’attuale popolazione proviene
da altre regioni della Colombia, colpite dalla violenza politica degli anni ’50-60:
ha cercato qui lavoro e rifugio. La nostra regione si caratterizza per la coltivazione
della coca, oltre che per la presenza della guerriglia. I contadini hanno incominciato
lentamente a piantare coca e a vendee le foglie raccolte; hanno imparato a trattarle,
per ricavare la "pasta basica"; questa viene poi raffinata in polvere bianca e
venduta ai commercianti che alimentano i mercati di cocaina in Europa e America del Nord.

Oggi in Colombia (nella nostra zona in particolare) il conflitto
armato e il traffico di stupefacenti si intrecciano,
condizionando la vita della
popolazione e, quindi, anche la nostra presenza pastorale. È un’incredibile sfida
missionaria. Siamo convinti che solo la via del negoziato può aiutarci ad uscire dal caos
in cui annaspa la nazione; non possiamo accettare alcuna soluzione militare, che rechi
altro sangue e sacrifichi nuove vite umane. Riteniamo utile, come male minore, una
"zona di distensione", per realizzare una intesa con i guerriglieri delle Forze
armate rivoluzionarie colombiane (Farc).

Tuttavia la guerriglia è divenuta ormai un "quasi stato",
che domina e controlla il territorio e le persone, non solo nella nostra zona, ma anche
altrove: vi sono tasse, leggi, punizioni, reclutamento di ragazzi e ragazze, lavori
forzati, abusi contro i diritti umani. La gente lo sa: o resta a tali condizioni o se ne
va; non c’è via di mezzo, anche perché il controllo è forte e si esercita maggiormente
nelle aree rurali.

Un esempio: quest’anno a Remolino non si è celebrato il natale,
nonostante che i padri Giacinto Franzoi e Beppe Cravero avessero preparato la comunità.
La comandante guerrigliera Jessica, infatti, aveva ordinato alla gente di rimanere in
piazza per il "carnevale", durato tre giorni. I missionari avevano chiesto due
ore per poter almeno celebrare la messa di natale; ma la richiesta non fu accolta…
L’aspetto peggiore dell’episodio è che la gente non ha avuto la capacità di
reagire,
di resistere al sopruso della guerriglia.

Come missionari, dobbiamo educare tutti alla pace e alla
riconciliazione. La popolazione ha fiducia nella chiesa, anche se conflitti armati e
traffici di coca hanno soffocato i valori di convivenza sociale tipici di un tempo. Si
vive in una situazione assai confusa di "legalità illegittima", e i riferimenti
ai valori umani e cristiani non sono all’ordine del giorno. Però io credo che ci sia
ancora spazio per continuare a seminare, con più capacità "profetica", tutti
insieme e come équipes ecclesiali.

Il problema rende necessaria la formazione per il coinvolgimento
sia nel processo di pace sia nella costruzione di nuove forme di convivenza sociale, per
divenire più responsabili. Pertanto abbiamo iniziato, con altre diocesi, le "scuole
di pace",
affrontando temi importanti e fondamentali: identità e appartenenza
(necessarie dove il tessuto sociale è molto fragile); conflitti sociali e il loro
ragionevole superamento; partecipazione politica. Il tutto illuminato dalla bibbia e dal
magistero sociale della chiesa.

 

 

A mani vuote

 

L’altro grande conflitto che colpisce la nostra regione è quello della
coca. È un fatto grave, che si inserisce nella storia e nell’economia di uno sfruttamento
selvaggio che ha ferito e ferisce l’Amazzonia, creando un profondo squilibrio tra
persone e "habitat".

Dalla coltivazione della coca, dal suo mercato e traffico
internazionale traggono grandi guadagni anche diversi gruppi armati. In particolare, nella
nostra regione, sono le Farc che controllano il commercio della polvere di coca; e non si
può negare che, nelle aree di loro dominio, è aumentato il numero degli ettari
coltivati. Sono loro che decidono i prezzi e a chi vendere la "neve bianca". Ma
c’è anche un versante positivo: le Farc hanno obbligato a seminare mais, riso,
platano, iucca, perché la gente pensava solo alla coca.

Tuttavia resta l’"economia illecita" della coca. Su di
essa si sono scaricate le politiche errate dello stato centrale, ricattato dagli Stati
Uniti, con metodi repressivi. Ma le fumigazioni dei campi di coca e i prodotti chimici non
sono serviti a nulla; anzi, hanno compromesso l’ambiente, favorendo la deforestazione
dell’Amazzonia. Da registrare anche danni irrimediabili alle acque.

C’è il probema della cocasa: pare che questo sottoprodotto
(un residuo della lavorazione delle foglie di coca) contenga un elevato tasso di piombo,
con il rischio che sia assimilato da altre colture, i cui frutti sono di largo consumo
(pomodori e verdure varie). L’impatto su donne e bambini, destinati alla raccolta e
soprattutto alla lavorazione degli avanzi di coca, è nefasto, perché sono a contatto
(senza alcuna protezione) con prodotti chimici nocivi alla salute.

Spesso la popolazione è coinvolta in tale lavoro più per necessità
che per volontà: praticamente viene costretta, altrimenti non potrebbe sopravvivere. Mancano
le condizioni per una economia sostenibile con altri prodotti:
la scarsità di vie di
comunicazioni e di centri di raccolta fanno sì che si perdano tanti prodotti, mentre i
contadini non trovano un appoggio statale valido per rendersi autonomi con altre risorse.
E i soldi che entrano nelle tasche dei coltivatori di coca non giovano a nulla, perché
non recano né benessere né sviluppo; invece aumentano gli alcornolizzati e i prodotti di
lusso, totalmente non necessari. La qualità di vita non è migliorata; al contrario,
tutti gli articoli di prima necessità costano cari. L’economia della coca si è riversata
come una maledizione sui nostri contadini.

Ecco la testimonianza di un’anziana: "Di fronte al dolor

Giacomo Mazzotti




Indios di Roraima, Brasile. ANCHE GLI ANGELI PERDONO LE ALI

L’ennesima lotta per non scomparire e l’impegno della chiesa del Consiglio indigeno di Roraima

Articolo 1

Area
indigena «Raposa Serra do Sol»

Gli
indios nella morsa dell’esercito

del
Consiglio indigeno di Roraima

Gli indios
brasiliani di Roraima sono, ancora una volta, sul piede di guerra. I
macuxí, wapixana, ingaricó, patamona e taurepang, che abitano la regione «Raposa
Serra do Sol», stanno affrontando una nuova battaglia politica e legale.
Questa volta contro l’esercito nazionale e le sue caserme. Il luogo della
discordia (o dell’aggressione da parte dei bianchi) è il villaggio di
Uiramutã.

La
caserma ad ogni costo

Il
progetto «Calha Norte» prevede oggi anche una base militare nel villaggio
degli indios macuxí di Uiramutã. Ma la risposta della comunità locale e di
quella delle montagne non si è fatta attendere: sono ricorse alla
giustizia per impedire la costruzione della struttura dell’esercito.

I macuxí
sono molto preoccupati, specialmente dopo le denunce dei yanomami di abusi
sessuali e distribuzione di armi da parte dei militari nei villaggi
indigeni. La costruzione della caserma è un ulteriore attentato alla
cultura degli indios e una violazione dei diritti costituzionali in
Brasile.

La
tensione è alta a Uiramutã, poiché l’esercito sembra deciso a costruire la
caserma ad ogni costo.

Nel
novembre scorso l’esercito incominciò a spianare l’area, a soli 100 metri
dalle abitazioni macuxí, e i capi indigeni fecero ricorso alla giustizia
per fermare i lavori. Ma l’Avvocatura generale dell’unione (Agu), che
difende i militari, si appellò contro le decisioni favorevoli agli indios.
L’ultima sentenza della Corte federale di Brasilia ha previsto che
l’esercito individui con le comunità indigene il luogo più appropriato per
la costruzione della caserma. Ma finora i militari non hanno preso alcuna
iniziativa per arrivare ad un accordo.

L’Agu, con
il ricorso contro la decisione della Corte, ha rivelato che i militari non
hanno alcuna intenzione di trattare con gli indios. Il generale Claudimar
Nunes Magalhães, comandante della prima brigata della «selva», non crede
nel dialogo con i leader indigeni. «Qualsiasi luogo noi scegliamo – ha
detto – a loro non va bene» (Brasil Norte 19/01/2001).

D’altro
canto, in febbraio, i capi di tutte le etnie indie del Brasile si sono
riuniti: hanno inviato un documento alle autorità denunciando gli abusi
dei militari contro i yanomami e chiedendo di partecipare alla decisione
circa il luogo dove costruire la caserma nella regione Raposa Serra do
Sol.

Il 21
febbraio rappresentanti della Giustizia federale, politici e ufficiali
dell’esercito hanno visitato Uiramutã e il villaggio di Maturuca, dove
hanno incontrato i responsabili del Consiglio indigeno di Roraima (Cir).
Questi hanno sostenuto che la costruzione di una base militare a Raposa
Serra do Sol non è necessaria, poiché esistono già due unità militari
lungo i confini della regione. L’incontro non ha portato ad alcuna
soluzione.

Il 18
marzo il ministro della Difesa, Geraldo Quintão, ha dichiarato alla stampa
nazionale che l’esercito è determinato a costruire la base a Uiramutã,
nonostante l’opposizione indigena. Il giornale O Globo ha rivelato che i
militari ritengono impensabile una decisione finale della Corte, contraria
alla costruzione della caserma (O Globo 18/03/2001).

Inoltre a
Roraima Quintão ha affermato che la demarcazione dell’area yanomami è
stata un errore e si è dichiarato contrario ad altre demarcazioni di terre
indigene in aree uniche (non a macchia di leopardo), riferendosi proprio a
Raposa Serra do Sol (O Estado de São Paulo, 22/03/01).

Il
«municipio bianco» a Uiramutã

La
demarcazione della terra indigena Raposa Serra do Sol è considerata da
varie organizzazioni ambientaliste e dei diritti umani l’emblema della
politica governativa brasiliana circa i diritti indigeni, soprattutto il
diritto alla terra.

L’area
Raposa Serra do Sol occupa 1.651.300 ettari nel nord orientale di Roraima
ed è abitata da oltre 15 mila indios macuxì, wapixana, ingaricó, patamona
e taurepang.

La
demarcazione di questa zona è stata apertamente e costantemente combattuta
dal governo e dai parlamentari di Roraima, anche con mezzi illegali (ad
esempio, la strumentalizzazione di capi indigeni), onde bloccare la
conclusione del processo di delimitazione del territorio. È dal 1998 che
l’atto finale è fermo negli uffici della Presidenza della repubblica, a
causa delle pressioni dei politici.

Vari
gruppi economici e politici, con interessi in Amazzonia, seguono con ansia
gli sviluppi della situazione a Raposa Serra do Sol, sperando in un
«precedente giuridico» che li aiuti a contrastare altre demarcazioni di
aree indigene.

Nel 1997
il governo di Roraima fece pressione per l’installazione del «municipio
bianco» a Uiramutã, nella regione delle montagne, come strategia per
destabilizzare il movimento di demarcazione e per frammentare il
territorio indigeno.

Il
municipio è stato la fonte di costanti aggressioni contro gli indios, di
invasione dei loro territori e di divisione tra i villaggi. Il Consiglio
indigeno di Roraima ha lottato legalmente per annullare il municipio,
installato al contrario per vie illegali. La sede, nel cuore del villaggio
di Uiramutã, esprime la politica di soffocamento contro le società
indigene praticata dal governo di Roraima.

La
prefettura di Uiramutã ha costruito altri edifici pubblici fra le
abitazioni macuxí e ora rivendica che il villaggio sia riconosciuto come
vila (cittadina dei bianchi) e addirittura come città. Ma vi sono solo 110
non-indios a Uiramutã, contro 380 indios. Oltre alle costanti minacce ed
aggressioni fisiche contro gli indios, i non-indios commerciano bevande
alcornoliche, responsabili della distruzione fisica, sociale e culturale
delle comunità.

È in
questo contesto che si colloca la costruzione della caserma, senza il
consenso degli indios. La struttura consoliderebbe l’invasione del
villaggio e, inoltre, costituisce una violazione del diritto
costituzionale delle società indigene a conservare i propri costumi,
lingue, credenze e tradizioni, nonché il diritto originario sulle terre
dove vivono da sempre. Oltre a questo, preoccupa gli indios la recente
denuncia dei capi yanomami di irregolarità commesse dai militari nella
base di Surucucus.

I yanomami
accusano soldati e ufficiali di abusare sessualmente delle loro donne e di
distribuire armi da fuoco e munizioni agli uomini. Il che aumenta le
aggressioni fisiche tra i villaggi rivali.

I capi
indigeni di Roraima non vogliono che questa storia si ripeta in altre
comunità e temono che la presenza di militari nei pressi dei villaggi
generi prostituzione e alcornolismo.

I tuxáuas
(capi) di Raposa Serra do Sol non sono contrari alla presenza
dell’esercito in Amazzonia, ma non vogliono caserme dentro o nei pressi
dei villaggi indigeni. Un’eventuale caserma dovrebbe essere costruita
lontano dalle comunità, per evitare i problemi vissuti dai yanomami.

L’esercito
finora si è rifiutato di discutere la scelta di un altro luogo per la
base. Secondo il colonnello Roberto De Paula Avelino, responsabile del
progetto Calha Norte, il problema non può dipendere da questioni indigene
e territoriali. A suo parere, le uniche preoccupazioni riguardano la
sovranità nazionale e lo sviluppo regionale. «Spero che nei prossimi 18
mesi la caserma di Uiramutã sia in funzione» ha affermato il militare in
un’intervista alla stampa. Significativo il titolo: «Calha Norte non bada
alla questione indigena in Roraima (Folha de Boa Vista, 5/12/2000).

Complici i cercatori d’oro

Il
villaggio di Uiramutã sorge nella regione delle montagne, una delle
quattro aree che formano la Raposa Serra do Sol, a poca distanza dal fiume
Maú, al confine tra Brasile e Guiana. Sul finire degli anni Cinquanta, i
garimpeiros (cercatori d’oro) si installarono nel cuore del villaggio, a
fianco pure della casa del vecchio tuxáua José Massaranduba, che vive
tutt’oggi in loco.

La
presenza di garimpeiros ha causato l’oppressione e disgregazione della
comunità attraverso l’alcornolismo, la prostituzione, gli omicidi, lo
sfruttamento della manodopera indigena, insieme ad una lunga serie di
violenze culturali e fisiche. Poi, con il fallimento del garimpo (miniera
d’oro) nella regione, gli invasori se ne sono andati. Sono rimasti solo
pochi avventurieri.

Agli inizi
degli anni Ottanta la comunità indigena, già rafforzata dal movimento di
recupero socioculturale nei villaggi e dalla lotta per la terra, riuscì a
controllare il viavai di estranei.

Intanto, a
partire dal 1985, si è assistito ad una nuova invasione di garimpeiros in
territorio yanomami, attratti sempre dalla corsa all’oro. Tale invasione
fu favorita dallo stesso governo di Roraima che, tra i vari provvedimenti,
aprì una strada per facilitare l’«integrazione» del territorio isolato. Il
villaggio di Uiramutã è stato nuovamente circondato da garimpeiros. I
nuovi invasori hanno aperto bar e postriboli vicino alle case degli indios.
E le comunità indigene della regione sono state colpite da malaria,
malattie respiratorie, come pure da aggressioni fisiche che causano molti
decessi.

Però, in
questa circostanza, gli indios erano più organizzati e coscientizzati
rispetto al passato. La presenza di garimpeiros li ha stimolati a
sollecitare un urgente e quanto mai necessario riconoscimento ufficiale
della loro terra.

Nel 1993
la Funai (Fondazione nazionale dell’indio) concluse e fissò il processo di
identificazione e demarcazione del territorio macuxí, ingaricó, taurepang
e wapixana e lo consegnò al ministro di Giustizia. Il fatto suscitò, da
parte del governo locale, proteste, minacce e tentativi di consolidare
l’invasione. Fra questi vi fu la costruzione della diga del Tamanduá, sul
fiume Cotingo, che gli indios contestarono con successo.

La
creazione del municipio di Uiramutã è stato l’ennesimo stratagemma
politico del governo di Roraima per impadronirsi del territorio.

Gli indios
hanno denunciato l’imposizione della struttura «bianca» nel villaggio di
Uiramutã e il Consiglio indigeno di Roraima è ricorso alla giustizia
contro la creazione illegale del municipio. Il processo è ancora in alto
mare e si aspetta la decisione definitiva di Brasilia.

Nella
regione, tra il 1997 e il 1998, la reazione degli indios portò
all’espulsione dei garimpeiros dall’area e la chiusura dei garimpos, che
costituivano insieme al settore terziario l’unica fonte di rendita per il
municipio. Al presente ci sono solo i salari dei dipendenti del municipio
a sostenere la «cittadina».

Si sappia
che le comunità indigene delle montagne hanno al presente il controllo di
quasi tutte le terre che dovevano teoricamente appartenere al municipio.

La corruzione dei capi

Uiramutã è
un villaggio che comprende due realtà diverse: il centro tradizionale
(chiamato vila), invaso dai bianchi, e il centro recente.

Il centro
tradizionale è una fascia di terra delimitata, da ovest ad est, da due
igarapés (torrenti), che confluiscono nello stesso punto dopo le ultime
case. Il territorio misura circa 1.000 metri di larghezza sul lato ovest,
300 sul lato est e circa 1.300 metri di lunghezza (vedi cartina). Tra i
due igarapés vivono 26 famiglie macuxí. Fra loro si trovano pure 31
famiglie di non-indios, per un totale di 110 persone.

Il governo
di Roraima ha installato proprio qui la sede del municipio e ha «riempito»
il luogo con le seguenti strutture politiche: una scuola elementare con
otto classi e una media con cinque, più un corso supplementare; un campo
sportivo; una casa di appoggio per l’esercito; due cistee d’acqua; un
palazzo comunale con la «camera dei deputati»; un centro di
amministrazione; un ambulatorio; due generatori elettrici; un
radiotelefono; una casa per «il club delle madri»; un commissariato di
polizia.

Il centro
recente del villaggio (situato lungo il limite settentrionale e
meridionale dell’area invasa e da essa separato solo dai due igarapés), è
amministrato dal tuxáua Orlando Pereira, figlio di Massaranduba. Qui si
contano 74 case, con un totale di 380 persone. Il centro possiede una
scuola con 83 alunni e diversi insegnanti indigeni, un ambulatorio, acqua
canalizzata, una chiesa cattolica, tre retiros per l’allevamento del
bestiame e 56 piccole piantagioni. La comunità indigena (e le sue
abitazioni) è circondata quasi totalmente dal complesso di edifici
costruiti dal governo. A lato dell’agglomerato delle case del villaggio,
c’è la sponda dell’igarapé meridionale, dove i militari vogliono costruire
la loro caserma. La distanza della base militare dalla casa indigena più
prossima è di appena 100 metri.

Nella
regione i rapporti tra indios e non-indios sono stati sempre tesi e
pericolosi per gli indigeni e i loro alleati. Basta ricordare alcuni
episodi recenti: il rogo di tre case indie a Uiramutã; l’invasione nel
1999 da parte di abitanti della vila del vicino villaggio di Weilimon, in
seguito al tentato omicidio del leader Paulo; il tentativo di pugnalare il
segretario generale del Cimi, Egon Eck.

Ma ancora
più grave è il fatto che il governo di Roraima abbia cornoptato e ingaggiato
alcuni leader indigeni con stipendi e promesse di ricchezza. Questi si
sono schierati addirittura contro i propri diritti e dei fratelli,
arrivando a chiedere la demarcazione di una superficie inferiore a quella
che la stessa legge loro garantisce, nonché il ritorno dei garimpeiros,
l’espansione della vila e, oggi, la costruzione della caserma a Uiramutã.

La
cornoptazione è stata la strategia principale, adottata dall’attuale
governatore dello stato di Roraima, per destabilizzare il movimento
indigeno e impedire l’omologazione della terra indigena Raposa Serra do
Sol.

Articolo 2

Ladri,
corrotti e «viados»

di Carlo
Miglietta (*)

Boa
Vista, capitale dello stato di Roraima. Scendendo dall’aereo, il primo
assaggio del clima è tremendo. Fa molto caldo; soprattutto c’è un’umidità
che ti fa sembrare di camminare… nell’acqua calda! I missionari della
Consolata, venuti ad attenderci, ci prendono in giro: «Ma se è inverno!
Siamo nei mesi freschi delle piogge».

Ci
sorprende che ad attenderci non ci sia l’amico padre Silvano Sabatini.
Però subito ne comprendiamo il perché. La città è tappezzata di manifesti,
stampati dal governo e da fantomatiche associazioni di commercianti e
agricoltori, che attaccano i missionari e la Funai (Fondazione nazionale
dell’indio) per la loro difesa degli indios.

Alcuni
cartelloni recitano: «La Funai genera miseria e conflitti!»; «No alle
demarcazioni delle terre! A “isole” sì, ad “area continua” no!»; «Il
Brasile è dei brasiliani e non degli indios»; «La diocesi deve
catechizzare, non terrorizzare»; «La chiesa è contro la società»…

C’è lotta
senza quartiere tra i missionari (che premono perché le terre indigene
siano demarcate come aree continue, secondo la Costituzione brasiliana del
1994, e il governo locale, in mano alla lobby dei fazendeiros, che accetta
solo la demarcazione del territorio «a isole» (cioè a pezzetti),
accerchiate da grandi fazendas pronte ad inglobarle… Sui muri vistose
scritte: «Preti ladri, corrotti e travestiti! (viados)».

Padre
Sabatini è uno dei «ricercati», ed è meglio che non si faccia vedere in
giro. Il suo libro Massacre (1998) ha inchiodato, con nomi e testimonianze
precise, gli autori dell’uccisione di padre Giovanni Calleri e di numerosi
indios: militari, personaggi di compagnie minerarie e di sètte
nordamericane fiancheggiatrici.

Missione
di Calungá, alla periferia di Boa Vista. È anche la sede provinciale dei
missionari della Consolata. E qui abbracciamo finalmente padre Silvano,
che ci aggioa sulla situazione molto tesa.

Il diritto
degli indios alla demarcazione delle loro terre indigene è rimasto
disatteso. Bianchi, fazendeiros ed enti minerari hanno depredato gli
indios delle loro terre, massacrandoli con mitragliatrici e bombe,
inquinando i fiumi con derivati mercuriali, diffondendo malattie contro
cui gli indios non hanno difese immunitarie. In una trentina d’anni, da
300-400 mila sono passati a poche decine di migliaia.

Il governo
di Roraima, dato che i potenti fazendeiros non hanno alcuna voglia di
abbandonare (neanche dietro indennizzo) le aree da essi arbitrariamente
occupate, cerca addirittura di aumentare la presenza dei bianchi nelle
aree indigene, per rendee ancora più difficile l’espulsione. A tal fine,
ha favorito l’immigrazione di contadini del nordest, soprattutto del
Maranhão. In queste regioni era iniziata una timida assegnazione di terre
ai contadini, senza dotarli delle necessarie infrastrutture (trasporti,
scuole, ospedali): il contadino, che si è visto dare un terreno a 400-600
chilometri dalla città, ma senza mezzi per raggiungerlo, non sapendo come
vendere i raccolti, ha accettato la misera offerta del latifondista; e
dotato di grossi camion e aerei per i trasporti, con pochi soldi si è
visto di nuovo legalmente proprietario di tutti i terreni.

Il governo
di Roraima concede ai contadini poveri 100 metri quadrati di terra a Boa
Vista per costruire una baracca; ed essi vi giungono a frotte dal nordest.
Così la città è cresciuta, in una decina d’anni, da 70 mila a 360 mila
abitanti: tutti baraccati, senza fogne, con la luce rubata attraverso
allacciamenti di fortuna, con acqua solo se, scavando nel terreno, c’è la
ventura di trovarvi un pozzo.

Il governo
di Roraima ha indetto, contro la demarcazione delle terre, la «marcia in
difesa dello stato», favorendola in ogni modo con trasporti gratuiti e una
giornata di libertà per i dipendenti della pubblica amministrazione. La
Folha de São Paulo ha scritto che vi hanno partecipato 30 mila persone,
ma, secondo il giornale locale O Correio, la manifestazione è stata un
fiasco, con non più di 3 mila persone.

Visitiamo
l’ospedale infettivologico per gli indios, a pochi chilometri da Boa
Vista. È stato costruito dai missionari della Consolata a misura di indio:
come «reparti» ci sono «maloche», le tipiche costruzioni a capanna
plurifamiliare, e come letti le immancabili amache. Gli indios possono
cucinarsi il cibo secondo le proprie usanze; dispongono di locali per
lavori artigianali anche durante il ricovero; hanno possibilità di
alfabetizzarsi… L’ospedale è diretto da Renato, un avvocato brasiliano
di origine tedesca, anch’egli nel mirino della repressione, e vi operano
part time un medico colombiano e un radiologo venezuelano. Malattie più
frequenti: tbc, malaria, varicella, morbillo, che colpiscono gli indios in
forme devastanti.

Un
cruciale problema per l’ospedale sono i finanziamenti: lo stato, che
dovrebbe mantenerlo in convenzione, paga… qualche volta. Tempo fa i
missionari sono stati costretti a chiuderlo e a portare gli infetti
all’ospedale statale ottenendo… l’immediato pagamento degli arretrati.

Eucaristia
nella cappella (anche questa a forma di maloca) nella missione di Boa
Vista. Padre Silvano ricorda con viva commozione Micarnela, mancata un anno
fa, indicandola come vera «santa missionaria», per avere fino all’ultimo
pensato ai fratelli e alla missione, nonostante la sua gravissima
malattia.

Pure noi,
anche guardando il sacerdote celebrante, siamo commossi: padre Silvano,
dopo 79 anni di «intemperie», è cieco! Ma la mente, lucidissima, vede
sempre lontano e il cuore è appassionato… Preghiamo per gli amici di
Torino, i familiari, i sostenitori degli indios.

(*) Carlo
Miglietta è medico a Torino. Si è recato due volte nella zona di Roraima,
l’ultima delle quali per accompagnare gli inviati del settimanale
«Famiglia Cristiana».

Articolo 3


Surumú – Maturuca


Storia di liberazioni

di
Benedetto Bellesi

Una
volta si vergognavano di sentirsi indios; oggi si sono riappropriati delle
loro terre, dignità e valori culturali. È una lotta infinita, combattuta
su due fronti: contro l’oppressione estea e schiavitù intee, come
alcornolismo e dipendenza. Da 40 anni i missionari della Consolata camminano
con gli indigeni di Raposa Serra do Sol, aiutandoli a confrontarsi con la
parola di Dio, a cui traggono ispirazione e forza per continuare il loro
processo di riscatto.

Prima di
mettersi al volante padre Giacomo Mena si toglie le ciabatte e infila i
piedi nudi nelle scarpe d’ordinanza. «Meglio bollenti che una grana con la
polizia – spiega -. Non conviene farsi prendere in castagna, specie in
questi giorni in cui tutti cercano appigli per sbattere la chiesa in prima
pagina». Un bel segno di croce e ci mettiamo in viaggio per Surumú e
Maturuca. «Il Signore ce la mandi buona» continua, con un augurio che
vuole essere anche una preghiera.

Lasciata
alle spalle Boa Vista, infiliamo la statale che conduce in Venezuela.
L’asfalto invita a pigiare sull’acceleratore; ma per un’ora e mezza, un
occhio alla strada e l’altro al contachilometri, l’autista rispetta con
scrupolo i limiti di velocità. Poi svolta a destra, su uno stradone
sterrato. «Ora siamo al sicuro» afferma il padre con un sorriso soione:
ferma l’auto, rimette le ciabatte e riparte a tutto gas.

Padre Mena
non è fanatico di regole e comandamenti. Nato a Chiari (Brescia) 60 anni
fa, metà della vita spesa in Brasile, conosce bene la situazione e,
piccolo ma furbo quanto basta, sa dove finisce la sfida e inizia la
prudenza. «Sicuri dalla polizia, non da peggiori incontri – continua
sorridendo sotto i baffi e sbirciando di traverso per vedere la mia
reazione -. Qui si sa quando si parte, ma non quando e se si arriva a
destinazione. Preti e suore sono nel mirino di pistoleros pagati dai
fazendeiros. La situazione, ora, sembra calma; ma non si è mai sicuri al
cento per cento».

SPECIALISTI DEL PROGRESSO

Il viaggio
continua, invece, liscio come l’olio e dopo un’altra ora buona siamo a
Surumú: la vila (villaggio dei bianchi) è sotto l’amministrazione
regionale; la missione si trova nella riserva Raposa Serra do Sol.
«Abbiamo i piedi su due staffe – spiega suor Leta, missionaria della
Consolata -. E ciò crea una certa tensione. I bianchi non ci sopportano,
perché difendiamo gli indios; noi boicottiamo le loro botteghe, perché
vendono alcornolici agli indigeni».

La
missione di Surumú, la prima fondata tra gli indios della savana (1951), è
stato il centro della riscossa indigena. Iniziò con la scuola elementare e
inteato per una trentina di alunni, poi è stata adattata alle varie
esigenze della popolazione indigena, diventando centro di formazione per
leaders e capi indigeni; oggi è una specie di università agricola.

«Con la
demarcazione della riserva e il graduale recupero della terra – spiega
suor Leta, incaricata della formazione di questa scuola -, c’è bisogno di
gente capace di difendere i propri diritti e promuovere l’autonomia
economica delle comunità. Cinque anni fa, nella loro assemblea annuale, i
tuxáuas hanno chiesto ai missionari di assumersi questa responsabilità».

Un’équipe
di missionari e professori di antropologia, diritto, tecnica agricola ha
progettato un programma di tre anni e si è messo subito al lavoro. Una
trentina di giovani hanno già concluso i corsi e si sono reinseriti nelle
rispettive comunità.

Le
principali materie di studio riguardano la tecnica agricola e agropecuaria;
la formazione è integrata con lezioni di antropologia e diritto, perché
gli alunni conoscano e apprezzino i valori culturali dei vari gruppi
etnici, imparino a fronteggiare uniti le sfide che li aspettano in futuro.
Qualche volta padre Giorgio Dal Ben porta a scuola i tuxáuas, che
raccontano agli studenti il cammino di lotta che stanno percorrendo per
riacquistare la loro dignità. Così la memoria storica viene tramandata di
generazione in generazione.

Alle
lezioni teoriche segue la pratica. La missione ha un esteso campo, dove i
giovani coltivano fagioli, mais, orzo; un frutteto con banani, manghi,
aranci, limoni; stalle con mucche, porci, galline. Fa impressione vedere
ragazze maneggiare zappe, concimi e tritaforaggio. «Anche le ragazze
frequentano questa scuola – spiega la suora -. Fa parte della loro
cultura: è la donna che coltiva i campi».

Entro
nell’aula scolastica, dove il professore Martino sta tenendo una lezione
di apicultura. Gli alunni sono attenti e non badano alla nostra
intrusione. «Sono affamati di sapere – continua suor Leta – e
impegnatissimi». Quasi tutti hanno solo la licenza elementare; nei ritagli
di tempo si preparano privatamente per conseguire il diploma statale di
secondo grado. Spesso accompagnano il professor Martino nelle varie
malocas, per esaminae i terreni e studiae le possibilità di
coltivazioni. Un mese fa hanno filmato il loro lavoro: un trapianto di
banani, con relative spiegazioni su qualità del suolo, malattie, cure e
concimazione. Poi hanno proiettato la cassetta in una maloca, imparando
così a trasmettere agli altri ciò che apprendono.

Suor Leta
confessa che anche lei ha molto da imparare da questi giovani. «Quando
arrivai a Surumú – racconta – in questa veranda c’erano sempre otto grossi
rospi, nonostante i sette gatti e quattro cani che girano per casa; finché
una ragazza sparse un po’ di sale sul pavimento e i rospi sparirono. “Oggi
ho appreso una cosa nuova: come ammazzare i rospi” dissi. “I rospi non si
uccidono, suora” rispose la ragazza. Oltre a imparare che il sale
impedisce la respirazione dei rospi, ricevetti una bella lezione di
ecologia: il rospo mangia insetti e scarafaggi; il gatto mangia il topo, i
cani allontanono i serpenti… Nella cultura indigena ogni creatura ha il
suo posto nell’equilibrio della natura».

AGENTI DI SALUTE

Altro
fiore all’occhiello della missione di Surumú è il piccolo, ma
attrezzatissimo ospedale S. Camillo, il primo e l’unico in tutto la parte
settentrionale della riserva Raposa Serra do Sol, la savana di Surumú e
Basso Cotingo e la «regione delle montagne» di Maturuca. Da otto anni lo
dirige suor Teresa, missionaria della Consolata kenyana. Oltre ai vari
reparti, mi mostra con orgoglio il giardino da lei curato, zeppo di alberi
da frutta ed erbe medicinali.

Ma i
frutti più belli del S. Camillo sono gli operatori di sanità, infermieri e
infermiere che già operano in molti villaggi della riserva. «Sono tanti e
ben preparati – spiega suor Teresa -. Se la cavano benissimo nei casi di
ordinaria amministrazione. Per quelli più complicati i pazienti vengono
portati qui, dove sono curati o immediatamente inviati a Boa Vista o a
Santa Eléna, in Venezuela, a seconda dell’urgenza e disponibilità: Boa
Vista è a due ore e mezza di viaggio; il confine venezuelano è
raggiungibile in un’ora».

Fino a
poco tempo fa, suor Teresa era supervisore della scuola infermieristica,
dei centri di salute e scuole della riserva: le visitava periodicamente
con grande beneficio per insegnanti e operatori sanitari. Poi
l’amministrazione regionale ha cominciato a mettere i bastoni tra le
ruote: la suora ha dovuto smettere le sue visite e i corsi di
infermieristica sono chiusi. «I fondi stanziati per l’ospedale sono
bloccati dall’amministrazione di Roraima – spiega sconsolata suor Teresa
-; medici, insegnanti e microscopisti hanno cercato lavoro altrove. Da tre
mesi sto aspettando l’arrivo di sussidi e altro personale per mandare
avanti l’ospedale. Ma sono stanca di sperare. È stanchezza mentale: ogni
progetto viene prima approvato e poi sistematicamente impedito, con grande
danno della popolazione indigena».

È la
strategia messa in atto dalla società locale contro la chiesa di Roraima,
con un continuo stillicidio di attacchi, calunnie, sospetti, minacce,
boicottaggi, fino a veri atti di violenza. «È in corso una guerra di
logoramento – sospira padre Luciano Stefanini (una vita spesa accanto alla
popolazione indigena) -, per costringerci a gettare la spugna nella difesa
dei diritti degli indios; una lotta che assorbe tempo, energie e denaro
per controbattere gli attacchi, anche per via legale, a scapito del lavoro
religioso e formazione della gente».

VIVERE NELLA TERRA PROMESSA

A Surumú
si tengono anche le assemblee annuali, dove i tuxauas della savana e delle
montagne prendono le decisioni più importanti per la vita delle loro
comunità. Storica è stata quella del 1977, quando dichiararono guerra
all’alcornolismo e giurarono di lottare uniti per riscattare terra, cultura
e dignità. Nel presbiterio della chiesa sono ancora appesi i simboli di
tale decisione: un fascio di rami, per indicare che l’unione fa la forza,
e una croce di legno, simbolo della volontà di sacrificarsi per il bene di
tutta la popolazione.

Anche i
giovani hanno assimilato le decisioni dei loro capi; sono consapevoli che
tutti i loro mali sono legati all’alcornolismo, che ubriacarsi significa
abbrutirsi. Per questo gli alunni della scuola di Surumú hanno forgiato
uno slogan e lo hanno inserito nel loro regolamento interno: «Ha bevuto?
Fuori!». Chi beve deve allontanarsi dalla scuola. E vi si attengono con
scrupolosa serietà.

«Qui è
iniziata e continua una storia di liberazione – afferma suor Leta -. Una
volta tutta la regione era in mano ai fazendeiros; gli indios erano alle
loro dipendenze e affogavano le loro frustrazioni nell’alcornol; ora quasi
tutti i bianchi hanno lasciato le fazendas e gli indigeni sono ritornati
padroni della propria terra e del proprio destino. Un conto, però, è
entrare nella “terra promessa”; come viverci è una storia tutta da
inventare».

Articolo 4

Maturuca, scuola di liberazione

Lasciamo
la savana e ci addentriamo nella regione delle serras (montagne). La
strada costeggia fiumi e ruscelli, attraversa amene vallette e e si
arrampica per dorsali scoscesi. Il panorama diventa sempre più vario e
pittoresco: bello da fotografare, affatto comodo per viverci. «Delle 46
comunità di Maturuca – dice padre Mena – non sono molte quelle
raggiungibili per strada camionabile. Alcune sono a 200 km di distanza: se
ne percorre 60 in auto, il resto a piedi. Le visitiamo tutte almeno due o
tre volte all’anno».

Tenendo
conto che, durante il periodo delle piogge, strade e sentirneri sono
impraticabili, rimangono sei mesi in cui è possibile raggiungere le
malocas più isolate. Le visite richiedono fino a due o tre settimane.
Tanto di cappello ai due missionari, Giorgio Dal Ben e Giacomo Mena,
parroco e vice, che in barba all’età, rispettivamente 58 e 60 anni,
continuano con immutato ritmo giovanile.

«Una
volta, per raggiungere un villaggio ingaricó – continua padre Giacomo – ho
impiegato 10 giorni. In un’altra occasione, i miei accompagnatori ogni ora
si fermavano a parlottare, con la scusa di farmi riposare. Dopo mezza
giornata, riuscii a capire che si erano perduti e cercavano punti di
riferimento». In questa regione montagnosa e senza strade anche gli angeli
perdono le ali.

CUORE DEL RISCATTO

Grazie a
Dio, l’auto di padre Mena non ha le ali: al tramonto siamo in vista di
Maturuca. Una corona di alture scintillanti fanno da sfondo a un arioso
anfiteatro, in cui le ombre lunghe degli alberi di mango ed anacardio
nascondono case e capanne disseminate nel pianoro. A parte la scuola, un
edificio ampio e moderno, gli altri fabbricati del villaggio appaiono
poveri e male in aese.

Cuore
della vita economica e sociale della comunità è un ampio piazzale
rettangolare, i cui lati sono delimitati da due casette bianche, sedi
dell’ambulatorio medico e laboratorio di taglio e cucito, da un grande
padiglione a cupola, dove sono raccolti una trentina di agenti di salute
per un corso di aggioamento, e da due file ben allineate e ad angolo
retto di capanne e tettornie, destinate a mercati e fiere nel periodo
estivo.

In
disparte, la vecchia chiesetta, distinta a mala pena da una crocetta di
legno, pendolante dal culmine del tetto. Neppure l’antistante casa dei
padri dà nell’occhio: tre stanzette basse e scure, con mobilia ridotta
all’osso. Unica comodità modea è un paio di pannelli solari che
alimentano le fioche lampadine dell’abitazione e della chiesa.


Disposizione e caratteristiche degli edifici sono significative: la chiesa
riveste un ruolo di presenza, sostegno e accompagnamento del cammino di
liberazione delle popolazioni indigene. Ma protagoniste sono le comunità,
che hanno preso in mano le redini del proprio futuro.

Il cammino
è stato lungo e faticoso ed è ancora tutto in salita. È iniziato alla fine
degli anni ’60, nella maloca di Raposa, nella zona della savana, quando i
missionari della Consolata si schierarono con un capo makuxí, Gabriel
Viriato, nella difesa della sua terra dalle invasioni dei bianchi. Una
vittoria che diede una svolta all’impostazione del lavoro missionario tra
gli indigeni della diocesi di Roraima.

Uno degli
animatori di tale cambiamento è padre Dal Ben, che nella regione di Raposa
fece le prime esperienze e lanciò varie iniziative a favore degli indios;
e quando si trasferì a Maturuca, questa divenne il centro della
liberazione di tutte le popolazioni indigene della riserva Raposa Serra do
Sol: macuxí, wapixana, ingaricó, patamona e taurepang. Qui fu ideata,
discussa e avviata la famosa campagna «una mucca per l’indio»: nel 1979
avvenne la prima consegna di bestiame alla maloca di Maturuca; l’anno dopo
a quelle di Enseada e Petra Branca e negli anni seguenti il progetto fu
esteso a tutte le comunità che ne fecero richista.

Con tale
progetto gli indigeni riuscirono a bloccare l’avanzata dei bianchi nel
loro territorio; con la campagna per la demarcazione della riserva Raposa
Serra do Sol, sempre partita da Maturuca, essi cominciarono a recuperare
le terre perdute.

LOTTA ALL’ALCOOLISMO

«Non siete
troppo coinvolti nel sociale?» domando con una punta di provocazione. «Il
lavoro impostato dalla missione di Maturuca nella regione delle montagne –
comincia padre Mena, serio e composto come non lo avevo mai visto – si
basa sul progetto di Dio, come appare dalle prime righe della bibbia:
“Creati a immagine di Dio”, da cui derivano rispetto, dignità e valore
della propria e altra persona; “crescere e moltiplicarsi”, cioè
organizzazione familiare e comunitaria; “occupare e dominare la terra”,
cioè lavoro e responsabilità individuale e collettiva. Sono i tre pilastri
della nostra attività missionaria, basati sul confronto con la parola di
Dio».

Una delle
prime decisioni prese a Maturuca fu la lotta all’alcornolismo. «Era l’inizio
del 1977 – racconta il maestro indigeno Elias -. Riflettendo sulla parola
di Dio, i nostri tuxauas presero coscienza della necessità di liberarsi
dalla schiavitù dell’ubriachezza, che distrugge l’essere di Dio che è in
noi, oltre a minacciare l’estensione fisica di individui e comunità».
Iniziò così la lotta alla cachaça, una grappa estratta dalla canna da
zucchero e venduta dai bianchi, e al caxirí e pajuarú, micidiali bevande
alcornoliche fatte in casa con la fermentazione della farina di manioca.
L’impegno fu accolto da tutti i tuxauas della riserva indigena
nell’assemblea tenuta lo stesso anno a Surumú.

Nonostante
la buona volontà, non è facile sbarazzarsi delle cattive abitudini
assimilate da oltre mezzo secolo di invasioni, oppressioni, frustrazioni e
abusi provocati dai fazendeiros. Il discorso fu ripreso nel natale 1993:
durante i 15 giorni di riflessione sul primo capitolo della bibbia, i
catechisti di Maturuca si presentarono in chiesa e dissero alla comunità:
«Noi abbiamo deciso di non bere più bevande alcornoliche e vogliamo che
tutta la comunità faccia altrettanto».

Era una
decisione drastica, coraggiosa, quasi una violenza psicologica e
culturale. «È vero che caxirí e pajuarú ci sono stati tramandati dai
nostri antichi – continuarono i catechisti -, ma noi ne abusiamo, fino a
commettere dei crimini. Non dobbiamo più né berle né produrle». Dopo tre
giorni di discussioni e contorsioni, metà della comunità accettò tale
decisione.

«Fu un
grande passo verso la liberazione – racconta Jaime, cornordinatore dei
catechisti di Maturuca -. In un incontro a livello diocesano abbiamo
proposto la nostra scelta ai catechisti di altre parrocchie. La reazione
fu durissima; siamo tornati a casa con la coda tra le gambe. Più positiva,
invece, è stata la risposta delle comunità di Maturuca che, dopo lunghe e
snervanti discussioni, hanno accolto tutte il nostro motto: no alle
bevande alcornoliche, sì all’organizzazione comunitaria».

«Se siano
stati sempre fedeli, non lo posso giurare – aggiunge padre Giacomo,
riprendendo il suo sorriso soione -. Ma il cambiamento è avvenuto,
specialmente negli ultimi anni. La gente ha preso coscienza che l’alcornol
distrugge la vita comunitaria; ha pure constatato che si ammala di meno,
ha più energia per lavorare e più cibo per la famiglia».

LOTTA ALLA DIPENDENZA

Per
recuperare la propria dignità, l’immagine e somiglianza di Dio, è
necessario avere una buona alimentazione, che si ottiene lavorando e
producendo con le proprie mani. Madre natura è particolarmente prodiga in
questa regione: fiumi, ruscelli e sorgenti dappertutto, foreste e
praterie, terreno per allevamenti, orti, frutteti, piantagioni.

Inoltre,
con la demarcazione di Raposa Serra do Sol, quasi tutto il territorio
indigeno è ritornato nelle mani delle varie etnie. Ora la gente è libera
di stabilirsi dove vuole, con l’autorizzazione dei capi villaggi,
naturalmente, poiché la terra, secondo la cultura india, appartiene alla
comunità. Ma bisogna farla rendere.

«Il lavoro
– continua il padre – risolve un’altra piaga secolare degli indios: la
dipendenza dal bianco». Anche oggi, con la cosiddetta «cesta basica»,
pacco di alimenti, vari politici corrompono e manipolano a piacere alcuni
gruppi indigeni rimasti fuori dal processo di liberazione, fino a far dire
loro quello che vogliono contro la chiesa e quelle organizzazioni indigene
schierate contro la politica ufficiale.

Per
sciogliere il legame della dipendenza, padre Mena vuole introdurre nella
regione delle montagne le cornoperative o botteghe di generi di prima
necessità. L’iniziativa non è nuova; già negli anni ’70 padre Giorgio
l’aveva lanciata con otto comunità della zona di Raposa e ripetuta a
Maturuca; ma è stato un fallimento: la gente comprava la merce a credito e
finiva per non pagare più. Da una decina di anni non ne esistono più e gli
indios continuano a dipendere dai bianchi, fazendeiros e commercianti
delle vilas.

Altro
sogno di padre Mena è recuperare i vecchi crediti delle cornoperative
fallite. Un’operazione del genere è riuscita con le donne della scuola di
taglio e cucito: con il capitale recuperato sono stati aperti altri
laboratori di cucito in varie malocas che hanno chiesto e sottoscritto le
regole del gioco. «Anche questo è un modo di aiutare la gente a recuperare
dignità, libertà, indipendenza e responsabilità comunitaria. Storia e
cultura li hanno abituati a vivere alla giornata. Ma hanno cominciato a
pensare al futuro: calcolare spese, costi di produzione e guadagni,
risparmiare e capitalizzare per ulteriore sviluppo, prevedere manutenzione
e riparazioni».

Lo stesso
senso di responsabilità è richiesto nei progetti di allevamento del
bestiame. Quando in un villaggio la mandria assegnata non aumenta o
addirittura diminuisce, gli animali vengono ritirati consegnati ad
un’altra comunità, che s’impegna a «recuperare il progetto», cioè
riportarlo il più presto possibile al numero originario: 50 mucche e due
tori. Recuperato il bestiame, la comunità può chiedere di continuare o
passarlo a un’altra maloca.

LA FORZA DELLA COMUNITÀ

E tutto
avviene attraverso l’organizzazione comunitaria. Il missionario ispira e
sostiene le iniziative; ma le decisioni vengono prese e realizzate
comunitariamente. È tutta la comunità che deve chiedere e sottoscrivere la
responsabilità dei progetti del bestiame o della scuola di cucito; sono
gli indigeni che gestiscono i vari progetti, assegnano o ritirano il
bestiame, controllano se le regole vengono applicate e comminano eventuali
sanzioni. È tutta la comunità che si impegna a evitare le bevande
alcornoliche.

Fuori
della comunità, l’indio è perduto; non ha forza per resistere da solo.
Basta che uno si ubriachi e tutta la maloca lo segue.

La
dimensione comunitaria permea tutta la vita, compresa naturalmente quella
religiosa. Ogni domenica la gente si raduna per pregare insieme e,
riflettendo sulla parola di Dio, esamina e discute i problemi di ogni
giorno, per concludere con un impegno concreto, che coinvolge tutti e di
cui rendere conto la domenica seguente.

Battesimi,
matrimoni e altri sacramenti sono eventi importanti per tutta la comunità.
Vi partecipano tutti e intervengono con discorsi, consigli, esortazioni,
interpretazioni, gesti simbolici: come lanciare nell’acqua sassi o
pezzetti di legno, per indicare che si gettano via i peccati, perché
l’acqua se li porti via.

«Nel rito
del battesimo – spiega padre Mena – la rinuncia a Satana e alle sue
seduzioni e la professione di fede si traducono in impegni concreti e
comunitari: no alle bevande alcornoliche e ubriachezza; sì al rispetto della
persona, al lavoro e aiuto reciproco; fedeltà nei doveri comunitari e
nell’impegno missionario, per comunicare agli altri la propria fede. Il
prete non ha bisogno di fare tante prediche; ci pensano i genitori, capi,
animatori, catechisti a dare consigli, fare raccomandazioni ai
battezzandi, ed esortare gli adulti a dare il buon esempio».

In questo
processo di crescita nello spirito e impegno comunitari anche i missionari
e loro ospiti sono chiamati a dare il buon esempio. Posso giurare che nei
giorni passati nella riserva indigena non ho visto neppure una birretta.

box 1


Glossario

box 2


Con il fiato
sospeso

i fatti
degli ultimi mesi

Novembre
2000 – Ruspe dell’esercito raggiungono Uiramutã e cominciano a spianare il
terreno per la caserma: una collinetta accanto alle case macuxí, separata
da esse solo dalla strada verso il villaggio. Avvalendosi dei militari, il
prefetto Venceslau Braz fa spianare un altro luogo nel villaggio, per
costruire un campo di calcio. Gli indios ne impediscono l’uso.

Dicembre
2000 – Orlando Pereira, leader di Uiramutã, e Jacir De Souza, cornordinatore
indigeno della regione delle montagne, a nome delle comunità, richiedono
alla giustizia di proibire la costruzione della caserma.

3 gennaio
2001 – Il giudice federale di Roraima, Helder Girão Barreto, dà parere
favorevole alla sospensione dei lavori. Il giudice considera infondata
l’argomentazione che l’opera è necessaria per la sovranità nazionale,
ricordando che la sovranità («concetto antico e abusato») non è
compromessa in alcun modo con la demarcazione delle terre indigene.
Secondo Girão, la vicinanza della caserma metterebbe a rischio
l’organizzazione sociale, i costumi, le lingue, credenze e tradizioni dei
popoli indigeni, «in netto contrasto con l’articolo 231 della
Costituzione».

18 gennaio
2001 – Il generale Claudimar N. Magalhães, comandante della prima brigata
della selva, reagisce alla sentenza del giudice federale: organizza in
loco una visita di autorità per ascoltare le parti coinvolte, cercare
l’appoggio degli indios e dimostrare l’inesistenza di un conflitto con
loro. I capi, legati al Consiglio indigeno di Roraima (Cir), e la
Fondazione nazionale per l’indio (Funai) non sono invitati. Gli unici
indios presenti sono quelli che appoggiano la suddivisione delle terre da
parte del governo.

26 gennaio
2001 – Capi macuxí organizzano a Uiramutã un incontro con le autorità
statali e federali per discutere dove costruire la caserma. I militari non
vi partecipano, perché «tutto è già stato verificato il giorno 18 e
nient’altro può più essere fatto».

31 gennaio
2001 – Il giudice Feando T. Neto, presidente del tribunale regionale
federale della prima regione di Brasilia, accoglie la richiesta
dell’Avvocatura generale dell’unione contro la sentenza di sospensione dei
lavori. I militari possono ricominciare a ricostruire la caserma.
L’Avvocatura sostiene il leader Pereira e il cornordinatore De Souza non
avevano legittimità nella loro iniziativa, non avendo dimostrato di
appartenere al villaggio. Ma la contestazione è infondata, perché si basa
solo sulle carte d’identità rilasciate a Boa Vista e non considera il
riconoscimento della Funai, secondo la quale i due sono registrati come
dirigenti della comunità e della regione.

5 febbraio
2001 – Neto ritorna sui suoi passi e sospende la decisione del 31 gennaio.
Il giudice decreta che «l’esercito brasiliano e la comunità indigena,
entro 15 giorni, si riuniscano per trovare un’area che sia strategicamente
favorevole alla vigilanza dell’esercito, ma che non sia nel villaggio
degli indios, restando ad una distanza che non comprometta questi ultimi».
La decisione è presa in seguito al ricorso di Deborah Duprat, procuratrice
del Ministero pubblico federale di Brasilia.

5-8
febbraio 2001 – Circa 400 capi di varie etnie si riuniscono a Pium (Roraima)
per la loro XXX Assemblea generale annuale: inviano un documento al
presidente della Repubblica, ai ministri di Giustizia, Ambiente e Difesa,
al presidente della Funai e ai procuratori del Ministero pubblico
federale, chiedendo che i loro diritti, riconosciuti dalla Costituzione,
siano rispettati: soprattutto la omologazione immediata delle terre;
specie Raposa Serra do Sol, minacciata dall’invasione dei risicoltori, dal
Parco nazionale del Monte Roraima e dal municipio di Uiramutã. Inoltre il
documento si appella affinché non siano costruite nuove basi militari fra
i yanomami. Ve ne sono già tre (Awauris, Surucucus e Maturacá) e una
quarta è prevista a Ericó. Pure a Raposa Serra do Sol vi sono due basi
militari.

15
febbraio 2001 – L’Avvocatura annuncia alla stampa che si appellerà contro
Neto, presidente del Tribunale regionale federale della prima regione, che
impedisce a Uiramutã la costruzione della caserma del sesto battaglione di
frontiera a Raposa Serra do Sol (Folha de São Paulo 15/02/2001).

21
febbraio 2001 – Autorità giudiziarie, militari e politiche visitano
Uiramutã su invito del Comando militare dell’Amazzonia, quando già è
scaduto il tempo, stabil

Benedetto Bellesi Carlo Miglietta




Viaggio nella società dell’AIDS. LA NUOVA PESTE (e la vecchia fame)


«Vediamo arrivare nei nostri reparti pazienti africani che
hanno risparmiato soldo su soldo per venire qui a farsi curare. Li
rimettiamo in piedi, pur sapendo che la maggior parte di loro non avrà i
mezzi per continuare la cura, quando toerà a casa»


(Martine Bulard,

“Le Monde
Diplomatique“)


Il
punto della situazione


Correva l’anno 1981

Conosciuta
soltanto dal 1981, la sindrome da immunodeficienza acquisita nota con
l’acronimo inglese «Aids» ha già fatto 22 milioni di morti, per tre quarti
africani. Nei paesi del Sud del mondo l’epidemia si espande senza
controllo. Le azioni di educazione e informazione producono risultati
deludenti. Nel frattempo, i paesi più poveri hanno intrapreso una dura
lotta contro le multinazionali farmaceutiche. Perché oggi i medicinali
contro l’Aids sono acquistabili da un’esigua minoranza.

di Guido Sattin (*)

IL
PEGGIORE DISASTRO
DELL’ERA MODERNA

«Il peggiore
disastro dell’era modea, che Stati Uniti, Europa e Giappone avrebbero
potuto evitare con relativamente poco sforzo, ma che finora hanno
totalmente ignorato. Non abbiamo fatto niente per evitare i 17 milioni di
morti di AIDS in Africa, per impedire che quest’anno ne muoiano altri 3
milioni. In tutto, dal 1996 al ’98, abbiamo dato all’Africa solo 75
milioni di dollari. Niente, appunto».

A fare questa
dichiarazione non è stato un qualche esperto dell’Organizzazione mondiale
della sanità (Oms) o un esponente terzomondista di qualche Organizzazione
non governativa. Il giudizio e l’accusa pesantissimi sono di Jeffrey D.
Sachs, direttore del Center for Inteational Development di Harvard,
consulente di governi ed organismi multinazionali, uno dei più noti
economisti a livello mondiale.

Pochi mesi fa, la
dottoressa peruviana Elisabeth Sanchez, professore dell’Università
Cayetano Heredia di Lima, esperta in malattie infettive, in una lunga
conversazione mi diceva con estrema crudezza: «È chiaro che l’AIDS sta
aumentando in Perù. Cinque anni fa erano 2.000 i pazienti con AIDS
conclamato e ora sono circa 20 mila. Direte che non sono poi tanti, ma
questo numero va moltiplicato per il dato probabilistico di 100 infettati
per ogni malato. Questa è una proporzione che è accettata in molti paesi
come il nostro. In Perù con l’AIDS succederà quello che sta succedendo in
Africa; se in questo momento in certe zone dell’Africa si arriva al 40% di
sieropositivi nella popolazione, gran parte di questi nel giro di 5/10
anni saranno morti ed il continente si spopolerà. Nel Perù sarà uguale».

E l’economista Sachs,
con altrettanta crudezza, continua: «Eppure, al di là degli effetti
devastanti che l’epidemia di AIDS e le altre malattie stanno avendo
sull’Africa, anche nel mondo occidentale vi saranno contraccolpi molto
negativi che in parte già si avvertono. La malattia non conosce confini ed
infatti nuovi ceppi dell’AIDS, che erano esclusivi dell’Africa, si stanno
già diffondendo in Occidente. Il peggiorare della situazione nel
continente nero porterà a maggiore instabilità politica, governi ancor
meno capaci di controllare le situazioni locali, guerre, migrazioni di
massa, crescita della povertà ovunque. Più aspettiamo a intervenire e più,
quando saremo costretti a farlo, sarà costoso e complicato rimediare ai
danni».

È interessante e,
allo stesso tempo, preoccupante che un professore di economia affronti
queste tematiche. Probabilmente l’AIDS ha già smesso di essere solo un
problema sanitario per trasformarsi in un problema economico e politico.

UN
PROBLEMA SANITARIO

L’AIDS (Acquired
Immuno-Deficiency Syndrome = sindrome da immunodeficienza acquisita) è una
malattia abbastanza recente e, tuttavia, essa si è diffusa rapidamente in
pressoché tutte le nazioni, assumendo le caratteristiche di una vera e
propria pandemia.

I primi casi sono
stati descritti negli USA, alla fine del 1981, tra omosessuali maschi,
colpiti da infezioni opportuniste o da tumori particolari quali, ad
esempio, il sarcoma di Kaposi, e affetti da una forma di immunodeficienza
da causa allora non conosciuta. Studi retrospettivi su sieri congelati
hanno mostrato la presenza di anticorpi contro il virus HIV (Human
Immunodeficiency Virus = virus dell’immunodeficienza umana),
successivamente riconosciuto responsabile della malattia, in un soggetto
morto in Africa nel 1959.

Da dove è venuta
questa malattia? Sono state formulate numerose ipotesi; la più accreditata
indicherebbe come progenitore dell’HIV un virus, l’STLVIII (Simian T Cell
Leukemia Virus III), che nella scimmia provoca una sindrome riconducibile
all’AIDS dell’uomo. L’infezione, dunque, avrebbe colpito le zone rurali
dell’Africa dove sarebbe rimasta confinata per lunghi anni e,
successivamente, si sarebbe diffusa alle aree urbane del Centro Africa. Di
là, attraverso i rapporti commerciali con altri stati, l’infezione avrebbe
raggiunto Haiti e l’America Centrale, si sarebbe diffusa negli USA, in
Europa e in tutto il mondo.

Per ciò che concee
le modalità di diffusione e presentazione dell’epidemia da HIV, sono
descritti tre differenti quadri (pattes) epidemiologici.

Il I patte
comprende gli USA, il Canada, l’Europa dell’Ovest, l’Australasia, il Nord
Africa e parti del Sud America; qui l’epidemia si è diffusa soprattutto
tra omosessuali, bisessuali e tossicodipendenti. Coloro che hanno
contratto l’infezione per via eterosessuale, costituiscono una piccola
percentuale.

Nel II patte,
comprendente il resto dell’Africa e del Sud America, la maggioranza dei
soggetti ha acquisito l’infezione per via eterosessuale, con un rapporto
uomo-donna di circa uno ad uno.

Il III patte (Asia-Pacifico,
Europa dell’Est e Medio Oriente), dove il virus HIV è stato introdotto
probabilmente più tardi rispetto ai paesi appartenenti agli altri pattes,
si caratterizza per un numero modesto di casi notificati di AIDS. In
questi ultimi anni, tuttavia, si è riscontrato un forte incremento dei
casi di infezione da HIV, al punto che l’epidemia dell’Asia può far
scomparire tutte le altre sia come impatto che come portata.


UN PROBLEMA POLITICO
ED ECONOMICO

La pandemia sta
distruggendo intere popolazioni del Sud del mondo. Il perché lo capiamo
dalle parole della dott.ssa Sanchez.

«In Perù, se vuoi
entrare nel programma statale di lotta all’AIDS, devi prima dimostrare di
essere sieropositivo e per questo devi fare la prova sierologica Elisa. A
pagamento: ti costerà circa 20 soles (12 mila lire, ndr). Una volta
dimostrata la sieropositività, entri nel programma. E cosa ti offre il
programma? Ti dà consigli, ti obbliga ad eseguire la prova (sempre a
pagamento) per tua moglie, per le persone con le quali hai avuto rapporti
sessuali. Solo consigli e niente farmaci. I farmaci il sieropositivo o
l’ammalato deve comprarli. Quanti sono gli infettati che potranno curarsi?
Immàginati che devi investire in farmaci circa 500 dollari al mese (più di
quello che guadagna un medico statale in Perù). Onestamente non credo che
qualcuno possa farlo, se non fa parte della ristretta, minoritaria e
potente borghesia. Il governo non può farsi carico di tale spesa, le
Organizzazioni inteazionali di aiuto neanche e i pazienti… stanno
morendo».

Semplicemente e con
poche parole, la dott.ssa Sanchez ci ha spiegato il perché in Africa,
Asia, America Latina l’AIDS è simile e forse peggiore all’epidemia di
peste vissuta in Europa nel corso del 1300.

L’impossibilità di
curare i pazienti e di trattare gli infettati fa sì che l’epidemia si
diffonda senza nemmeno conoscee le reali dimensioni, se non nel momento
in cui il paziente muore o si ammala (ad esempio di tubercolosi). Quindi
l’epidemia si estende senza controllo e i programmi di educazione e
prevenzione hanno scarso impatto su una popolazione molto giovane per
l’alto indice di natalità.

Quanto detto sopra è
chiarito dai dati della pandemia che, nei paesi ricchi, ha coinvolto
fondamentalmente persone con «comportamenti a rischio», sui quali però con
un’importante azione di educazione/informazione oggi si riesce ad
influire. Nei paesi poveri la percentuale di donne infettate (che
raggiunge il 55% di tutti i casi nell’Africa Sub-sahariana) e i quasi
1.500.000 bambini infettati dimostrano che la malattia interessa la vita
quotidiana della gente, e non più i comportamenti a rischio.

Anche il semplice
preservativo, unica ed efficace barriera all’infezione, può essere un
lusso, senza parlare degli alti livelli di prostituzione, fenomeno
tristemente «normale» in una popolazione povera e con indici di
disoccupazione inimmaginabili da noi.

CHE
FARE DAVANTI A
UN’EMERGENZA MONDIALE?

Cosa ha detto il
segretario generale delle Nazioni Unite a New York il 20 febbraio del
2001?

«Nei suoi due
decenni di esistenza – spiega il documento firmato da Kofi Annan -,
l’epidemia dell’AIDS ha continuato a propagarsi senza fine in tutti i
continenti e, anche se è più grave in alcuni paesi piuttosto che in altri,
nessun paese è fuori rischio. In questi due decenni essa si è convertita
in una vera emergenza mondiale».

«Nella dichiarazione
del Millennio, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite
(settembre 2000), si afferma chiaramente che il mondo ha finalmente
riconosciuto la reale grandezza della crisi. Nel documento i leaders si
impegnano a invertire la tendenza della propagazione del virus
dell’immunodeficienza umana per l’anno 2015; a dare aiuti speciali ai
bambini rimasti orfani a causa della malattia; ad aiutare l’Africa ad
acquisire la capacità per affrontare il problema della propagazione della
pandemia e di altre malattie infettive».

Più avanti Kofi
Annan afferma: «Si sono ottenuti buoni risultati nel tentativo di far
fronte all’epidemia in molte parti del mondo. La discesa dei tassi di
infezione con HIV in molte comunità e, in alcuni casi, in molti paesi,
specialmente fra i giovani, ha dimostrato che le strategie di prevenzione
servono. La discesa dei tassi di mortalità per AIDS nei paesi
industrializzati e in alcuni paesi in via di sviluppo ha dimostrato anche
che la prevenzione e il trattamento dell’AIDS sono efficaci».

Quindi il segretario
generale delle Nazione Unite può concludere: «L’HIV/AIDS costituisce
l’ostacolo più formidabile per lo sviluppo nei nostri tempi».

Il lungo documento,
dopo l’introduzione, inizia con un’analisi simile a quella dell’economista
Sachs: «L’AIDS si è convertito in una grave crisi di sviluppo. Uccide
milioni di adulti nel fiore della loro vita, distrugge ed impoverisce
famiglie, debilita la forza lavoro, lascia orfani milioni di bambini e
minaccia il tessuto economico e sociale delle comunità e la stabilità
politica delle nazioni».

«Gli effetti
negativi del virus dell’immunodeficienza e l’AIDS si fanno sentire in
tutto il mondo, ma soprattutto in Africa, Caraibi, Asia meridionale e
sudorientale. Il morbo si propaga con rapidità e si ripercuote sulla forza
lavoro, la produttività, le esportazioni, gli investimenti; in una parola,
su tutta l’economia nazionale. Se l’epidemia continuasse al ritmo attuale,
le nazioni più colpite perderanno nei prossimi 20 anni fino il 25% della
crescita economica prevista».

SFIDA
ALLA SICUREZZA

La mia vicina di
casa, a Villa el Salvador (Perù), mi raccontava di una ragazza del
quartiere morta per AIDS e dei suoi figli orfani.

La dott.ssa Sanchez
ribadiva che non voleva aiuti per fare le prove sierologiche in assenza
dei farmaci e che in queste condizioni l’unico aiuto possibile doveva
essere concentrato sull’informazione/educazione.

Nella mia città,
Venezia, le vestigia storiche della peste sono innumerevoli, come pure le
testimonianze dell’impari lotta per bloccarla. La società di allora si era
munita di una legislazione, di strumenti e metodi per lottare e vincere la
peste, e anche grazie a questa lungimiranza fu una società opulenta.

La nostra società
invece, nonostante la mole di dati disponibile, non riesce a comprendere
che i problemi dell’Africa Sub-sahariana o del Perù sono problemi pure
nostri, e questo indipendentemente dal fenomeno migratorio.

In un passo del suo
discorso, il segretario generale delle Nazioni Unite ha affermato: «Nelle
regioni più colpite, l’AIDS sta invertendo la tendenza di decenni di
sviluppo. Cambia la composizione delle famiglie e la forma di
funzionamento delle comunità, colpisce la sicurezza alimentare e
destabilizza i tradizionali sistemi di appoggio. Distrugge il capitale
sociale, al punto da far sparire la base delle conoscenze della società e
debilitare i settori di produzione. Inibendo lo sviluppo dei settori
pubblici e privati e grazie alle ripercussioni sull’intera società,
debilita le istituzioni nazionali. Ostacolando nel tempo la crescita
dell’economia, colpisce gli investimenti, il commercio e la sicurezza
nazionale, facendo sì che la povertà sia ancora più generalizzata ed
estrema. In poche parole, l’AIDS si è convertito in una sfida alla
sicurezza dell’umanità».

La sfida all’AIDS
deve essere una lotta alla povertà, vera peste del secolo che si è appena
aperto.


DISEGUAGLIANZA
SOCIALE

Oggi è l’AIDS,
domani sarà Ebola, dopo domani la «mucca pazza» e così via. Allora anch’io
sono d’accordo con Kofi Annan, Sachs e la dott.ssa Sanchez: il problema
non è solo sanitario, ma anche economico e politico.

Dobbiamo impegnarci
a eliminare le fondamenta sulle quali le malattie si sviluppano: la
diseguaglianza sociale.

(*) Guido Sattin,
medico-igienista di Venezia, cura per la nostra rivista la rubrica medica
«Come sta Fatou?».

Le
parole dell’Aids


GLOSSARIO ESSENZIALE


Aids
:
«Sindrome da immunodeficienza acquisita» (Acquired immunodeficiency
syndrome), una grave malattia causata dal virus HIV, che distrugge le
difese immunitarie dell’organismo, soggetto di conseguenza a gravi
infezioni «opportunistiche» e a talune forme di cancro.

Anticorpi:
sostanze secrete dai linfociti B in risposta all’aggressione
sull’organismo di sostanze conosciute come antigeni. Ogni anticorpo è
specifico per un particolare antigene. Nel caso del virus HIV, non tutti
gli anticorpi prodotti sono neutralizzanti. Nonostante la loro presenza,
il virus conserva la sua potenza distruttiva.

DNA:
acido desossiribonucleico, una molecola di grandi dimensioni che conserva
le informazioni genetiche e costituisce il fondamento dell’ereditarietà.

Elisa:
abbreviazione di «Enzyme Linked Immuno-Sorbent Assay» (saggio di
assorbimento legato a enzima o metodo immuno-enzimatico). Si tratta
dell’esame sierologico (del sangue) più usato per stabilire se il corpo
abbia reagito alla presenza del virus HIV.

Epidemia:
l’insorgere di una malattia, temporaneamente ad elevato rischio di
diffusione. L’insorgenza e l’estinzione di un’epidemia dipendono da
fattori quali la gravità della malattia, le modalità di trasmissione
dell’agente infettivo, le condizioni ambientali, la durata
dell’incubazione e l’esistenza di portatori sani (asintomatici). È
indispensabile elaborare le strategie per combattere un’epidemia sulla
base di questi fattori. L’infezione da HIV può essere trasmessa, ma non è
a elevato rischio di contagio. Il periodo di incubazione è lungo.

Epidemiologia:
studio delle cause di insorgenza, scomparsa o diffusione delle malattie.

Eziologia:
studio delle cause delle malattie.

HIV:
il virus dell’immunodeficienza umana, che causa l’Aids. Di questo virus
esistono due tipi principali: HIV-1, responsabile della pandemia mondiale
dell’Aids, e HIV-2, anch’esso causa dell’Aids e diffuso principalmente in
Africa occidentale.

Immunosoppressione:
riduzione dei meccanismi di difesa immunitaria dell’organismo.

Incubazione:
intervallo tra il momento in cui il corpo viene in contatto con il
microrganismo e il momento della comparsa dei primi sintomi della
malattia. Nel caso dell’Aids, il periodo di incubazione è molto variabile;
può durare da alcune settimane a mesi o persino ad alcuni anni.


Infezione opportunistica: infezione
indotta da un microrganismo di solito ben tollerato dall’organismo, che
può diventare patogeno quando le difese del corpo son depresse. Le
manifestazioni più gravi di Aids sono causate da infezioni
opportunistiche.

Leucociti:
cellule del sangue responsabili della difesa dell’organismo da agenti
estei.

Preservativo:
protezione in lattice da applicare sul pene in erezione, quando l’uomo è
sessualmente eccitato. Può essere usato come metodo di contraccezione e di
prevenzione di malattie veneree.

Prevenzione:
misure individuali o collettive finalizzate a limitare o a evitare il
rischio di un incidente o malattia, riducendone le conseguenze e curandone
gli effetti. Nell’ambito sanitario, la prevenzione comprende provvedimenti
sociali nonché strettamente medici.

Retrovirus:
virus il cui materiale genetico è composto da RNA, ma che è trasformato
nella cellula in DNA da uno speciale enzima, la transcriptasi inversa. Il
virus HIV è un retrovirus.

RNA:
acido ribonucleico. Trasmette le informazioni genetiche conservate dal DNA
nella cellula. Tutto il materiale genetico del virus dell’immunodeficienza
umana è costituito da molecole di RNA.

Sieropositivo
o HIV-positivo
: soggetto che risulta positivo al test per la
ricerca di anticorpi anti-HIV. Egli è venuto in contatto con il virus HIV
e dovrebbe essere considerato potenzialmente contagioso tramite il suo
sangue e i rapporti sessuali. Quando il test non individua anticorpi, il
soggetto è detto «sieronegativo» o «HIV-negativo».

Sindrome:
un insieme di sintomi e segni che possono costituire il comune
denominatore di certe malattie. La sindrome da immunodeficienza
costituisce la caratteristica essenziale dell’Aids, ma può verificarsi
anche in altre patologie, come nelle malattie congenite o tumorali
(leucemia), o può essere indotta da farmaci (terapia immunosoppressiva nei
pazienti sottoposti a trapianto).

Sistema
immunitario:
tutti i meccanismi che intervengono a difendere
l’organismo contro i cosiddetti antigeni, cioè agenti estei (batteri,
virus, parassiti) o sostanze tossiche. Il sistema immunitario riesce a
distinguere gli aggressori presenti nell’organismo stesso da quelli
estei. Può riconoscere i nemici aggressivi, quelli contro i quali è già
in possesso di difese (naturali o acquisite). Sa organizzare il giusto
attacco agli antigeni. A questo scopo usa: gli anticorpi (o
immunoglobuline) presenti nel flusso circolatorio (risposta «umorale»);
cellule specifiche chiamate linfociti B e T, capaci di riconoscere gli
antigeni, organizzare la risposta e produrre nuovi anticorpi (risposta
cellulare); i macrofagi che intervengono dopo i linfociti e gli anticorpi.
I linfociti T4, che cornordinano le difese immunitarie, sono cellule
strategiche che costituiscono il bersaglio del virus HIV, che le paralizza
e le distrugge.

STD:
sexually transmitted disease (malattia venerea trasmessa), cioè qualsiasi
malattia che può essere contratta attraverso i rapporti sessuali. L’Aids è
essenzialmente una malattia venerea trasmessa.

Virus:
agenti infettivi responsabili di numerose patologie in tutti gli esseri
viventi. Si tratta di particelle piccolissime (visibili soltanto al
microscopio elettronico) che, diversamente dai batteri, possono
sopravvivere e moltiplicarsi solamente all’interno di una cellula vivente
a spese della cellula stessa.

In
sintesi


22 MILIONI DI MORTI

Il 70% degli adulti
e l’80% dei bambini sieropositivi vivono in Africa, così come sono
africani i 3/4 dei quasi 22 milioni di morti dall’inizio della pandemia.

Si stima che
nell’anno 2000, 3,8 milioni di persone si siano infettate nell’Africa a
sud del Sahara e che 2,4 milioni di persone siano morte per AIDS.

Si stima che circa
25,3 milioni di africani siano sieropositivi o ammalati di AIDS conclamato
ed in 16 paesi più di un adulto su dieci (dai 15 ai 49 anni d’età) sia
infettato.

Attualmente l’AIDS
è la principale causa di morte in Africa. Nel mondo ci sono 13,2 milioni
di bambini orfani per AIDS e fra questi 12,1 milioni vivono in Africa.

In alcune zone
dell’Africa Sub-sahariana nel 2000 il numero di nuovi infettati, per la
prima volta, non è stato maggiore dell’anno anteriore; ma si pensa che ciò
sia dovuto al fatto che la lunghezza dell’epidemia ha già coinvolto un
numero tale di adulti sessualmente attivi, che sono sempre meno quelli
ancora non infetti e quindi suscettibili di nuova infezione.

Nei paesi dell’ex
Unione Sovietica si registrano alcune delle tendenze più drammatiche
dell’epidemia. Solo nel 2000 ci sono state nella Federazione Russa più
nuove infezioni che la somma di tutti gli anni anteriori; ciò sarebbe
dovuto ad una complessa combinazione di crisi economica, rapidi
cambiamenti sociali, aumento della povertà e della disoccupazione, aumento
della prostituzione e a cambiamenti nelle abitudini sessuali della
popolazione.

La mortalità a
conseguenza dell’AIDS è discesa considerevolmente nei paesi ricchi nel
decennio del 1990 grazie fondamentalmente all’efficace terapia retrovirale
nei sieropositivi, che allunga la vita degli stessi. È però calato il
lavoro di prevenzione: 30.000 persone si sono infettate in Europa
occidentale e 45.000 nell’America del Nord nell’anno 2000.

Con una prevalenza
del 15% che duri nel corso della vita, moriranno più della metà di coloro
che oggi hanno 15 anni di età. In Botswana, dove c’è una prevalenza del
36%, più del 75% morirà di AIDS. In alcuni paesi questa tendenza sta
cambiando la piramide tradizionale della popolazione, e la nuova avrà la
forma di un camino con una base più stretta di giovani e bambini. Il
cambiamento più drammatico della piramide avrà luogo quando i giovani
adulti, infettati in età precoce, inizieranno a morire di AIDS.


Aids tra scienza e coscienza

Ma
se l’è proprio cercata?

Nel tunnel
chiamato hiv-aids si intravvedono confortanti spiragli di luce, dopo il
buio assoluto. Ma non per le popolazioni del Sud del mondo, anche se dal
Sudafrica giungono buone notizie circa il prezzo (finora proibitivo) dei
farmaci. In ogni caso la battaglia è durissima per tutti. Specie quando si
deve combattere contro ignoranze, pregiudizi, moralismi, cattiverie.

di Giancarlo
Orofino (*)


Alcuni anni fa, durante una festa per scambiarci gli auguri di
natale tra amici, simpatizzanti e volontari dell’associazione Arcobaleno
Aids (finalizzata al supporto psicosociale di sieropositivi), mentre si
brindava, ballava e scherzava, fui assalito da uno sconforto tremendo. Una
nube nera mi offuscò l’anima e quasi la vista. «È mai possibile – mi
dicevo – che, tra un anno o due, molte di queste persone (tutte giovani)
non ci saranno più?».

Quelli erano gli
anni davvero duri dell’Aids, quando le speranze dei nuovi farmaci venivano
quotidianamente infrante dalla scomparsa di coloro che non ce l’avevano
fatta ad arrivare in tempo. Non parlo di secoli fa. Parlo di anni, di
pochi anni.

Oggi quasi tutti i
sieropositivi di allora stanno bene: molti vengono in ambulatorio e
prendono i farmaci; mi parlano dei loro malesseri ma anche dei loro
progetti; mi mostrano le foto dei loro bambini.

Ecco cosa può fare
la medicina, la ricerca, in particolare nel campo delle malattie
infettive. Il «nemico» è noto, è conosciuto nei minimi particolari, è
attaccabile in maniera molto selettiva.

La
svolta di Vancouver

Yokoama, agosto
1994. Sono in Giappone (a mie spese) per sapere, dalla viva voce dei più
importanti scienziati del mondo, se vi sia qualche notizia importante per
la cura dei miei pazienti sieropositivi. Però too con le ossa rotte:
tante cose bollono in pentola, ma per ora non c’è niente e bisogna
aspettare. Il vaccino, poi, è un’utopia. Tante persone non ce la faranno…

Vancouver (Canada),
luglio 1996, prime ore del pomeriggio. L’aula è gremita all’inverosimile.
Non è la sede delle sessioni plenarie (cioè il Palazzo dello sport, da 15
mila posti), ma una sala comunque grande, non però così ampia da contenere
tutti i partecipanti a quel Congresso mondiale. Poiché la notizia si è
diffusa, sono tutti lì.

David Ho parla dei
nuovi potenti farmaci che, in due anni, con procedure assolutamente
rapide, sono già in commercio. L’oratore spiega come si può finalmente
curare e forse guarire l’Aids. Un fremito percorre l’uditorio: medici,
pazienti, giornalisti e operatori vari sono tutti coinvolti. È la svolta.

Dal 1996 poco tempo
è passato. E tutto è cambiato in meglio, anche se la parola «guarigione» è
rientrata nel cassetto. Purtroppo, però, il Sud del mondo si è
progressivamente staccato: qui i farmaci sono mai arrivati. Questo,
attualmente, è il cruccio più grosso che accompagna (dovrebbe
accompagnare) l’operato di chi si occupa di infezione da Hiv-Aids; questa
è la grande sfida da vincere al più presto, con l’impegno di tutti, ad
ogni livello.

Molte cose sono
cambiate vertiginosamente nel giro di pochi anni e molte sono quelle
ancora da fare: sul piano della prevenzione, della discriminazione, del
supporto psicologico e delle cure. Il ritmo accelerato delle scoperte
scientifiche obbliga al continuo aggioamento, alla verifica costante.


Il medico «sa»

Oggi si ammalano di
Aids solo coloro che pervengono alla fase finale della malattia, ignari di
essee portatori, o coloro che non assumono (o non possono assumere) le
terapie.

Però i sieropositivi
continuano lentamente ad aumentare e appaiono anche persone non più
giovani. Occuparsi dei pazienti implica sforzo e dedizione, sia perché
frequentemente alle spalle vi sono situazioni psicosociali pesanti, sia
perché, in assenza di figure istituzionali-psicologiche cui riferirsi, sul
medico vengono «scaricate» angosce e timori.

Il medico è uno dei
pochi che «sa» e pertanto con lui ci si deve sfogare. Per questo, a volte,
si termina l’ambulatorio sfiniti e appesantiti da tanti problemi. La
risposta del medico può essere o di coinvolgimento o di rigida osservanza
tecnico-scientifica o di fuga.

Personalmente mi
sono fatto molto prendere dalla malattia Aids sul piano del volontariato e
dell’impegno sociale; ma cerco anche, ogni giorno, di non farmi assorbire
troppo dai pazienti, per non finire «cotto» prima del tempo. Devo
assolutamente conservare un minimo di distacco che mi permetta di non
«identificarmi troppo», di non ammalarmi con essi.

D’altro canto l’Aids
ha completamente stravolto, in Italia e nel mondo, il classico rapporto
medico-paziente: un po’ per i motivi accennati e un po’ perché i malati
stessi sono stati lo stimolo per la ricerca e l’assistenza. Di più, oggi,
nella transizione da una malattia «a prognosi infausta» (diciamo noi
medici, ossia mortale) ad una malattia cronica, il coinvolgimento del
paziente è fondamentale: in primo luogo per le problematiche legate alle
terapie.

In questi anni
alcuni pazienti hanno compiuto molti passi in avanti
nell’autodeterminazione e consapevolezza; ma altri devono fare ancora
tanta strada. Quante meschinità e bassezze ancora si perpetuano con la
scusa del virus! Invece proprio il virus dovrebbe essere la molla che
spinge a cambiare alcuni aspetti della propria esistenza.

Ho visto cambiare
tante persone rompere il proprio guscio di egoismo, aprirsi agli altri.
Come sempre, «questo incredibile uomo» sa tirare fuori nei momenti
drammatici risorse sepolte ma vive. In Sudafrica, addirittura, alcuni
attivisti hanno intrapreso lo sciopero dei farmaci, in segno di
solidarietà verso i loro concittadini che non hanno i soldi per pagarsi le
cure (cfr. box, pagina 40).

Mentre sto scrivendo
questo articolo, è giunta la notizia che proprio in Sudafrica una grande
battaglia per la vita di tante persone sieropositive è stata vinta: le 39
case farmaceutiche hanno ritirato la causa contro la produzione locale dei
farmaci anti-Aids (con prezzi inferiori), grazie anche all’impegno e alla
forza di piccoli-grandi eroi.

Già, quanti «eroi»
ho conosciuto! Giovani che hanno saputo affrontare con dignità
straordinaria il dolore e la morte, arricchendo in qualche modo il mondo.

Nella introduzione
agli Atti del Convegno Outadali (Venezia, 16-19 ottobre 1997) si legge:
«Per la maggior parte degli altri noi siamo coloro che moriranno; ma
intanto siamo coloro che rivelano e testimoniano la necessità di un
cambiamento; siamo una parte dell’umanità che offre a tutti l’opportunità
di un modo nuovo di vivere, di amare e di morire».

Spesso penso ai
tanti pazienti perduti in questi anni e mi sento come un tenente che,
durante la battaglia, ha perso i suoi uomini di compagnia: Francesca,
Roberto, Gaetano, Filomena, Maria…

Giustamente si
paragona l’Aids ad una guerra, che miete milioni di vittime lontano da
noi. Prima eravamo tutti sulla «stessa barca»: questo secondo «Titanic»
incappato nell’iceberg dell’Aids. Per un momento tutti uguali; poi sono
arrivati i farmaci, le «scialuppe». Ma solo i più fortunati (i più ricchi)
vi hanno trovato posto.


«Ipersesso»
e stranieri

Accennavo alla
prevenzione. Al riguardo gli sforzi ed investimenti sono risultati
efficaci tra i tossicodipendenti e in una certa parte della popolazione.

Ma oggi sarebbe
necessario andare più in profondità: nei luoghi del rischio, nelle strade,
nei quartieri, e non basta. La società deve risolvere una situazione
schizofrenica che è anche frutto di uno sfrenato consumismo: da una parte
la «ipersessualizzazione» (ossia mettere il richiamo sessuale, ovunque e
comunque, per vendere o attirare di più) e, dall’altra, la paura
dell’Aids.

Ma a che gioco
giochiamo?

Luc Montagnier,
grande scienziato, nonché uno degli scopritori del virus dell’Aids, ha
affermato: «La decadenza dei costumi e delle abitudini sessuali è
certamente alla base della diffusione della malattia». Nei colloqui con i
pazienti o con coloro che vengono a fare il test, io cerco sempre di
insistere non solo sulla «protezione», ma anche sulla responsabilità e
maturità dei propri comportamenti. Penso, spero di non essere l’unico.

Esiste poi il grande
problema degli stranieri. Molti hanno paura del test: temono di essere
individuati, schedati, espulsi.

Non hanno ancora
capito che il medico gode (è uno dei veri e pochi privilegi che dobbiamo
tenerci ben stretti!) di piena autonomia ed è legato al segreto
professionale. Alcuni probabilmente hanno retaggi, che si trascinano dai
loro paesi d’origine, dove il sieropositivo è un reietto; altri non si
fidano; forse credono che non esista neanche l’Hiv.

La prevenzione con
gli stranieri e per gli stranieri è un capitolo in larga parte ancora
tutto da scrivere, ma bisogna fare presto. La malattia è curabile, sì, ma
se colta in tempo.

Vi sono poi alcune
situazioni particolari, come la gravidanza, in cui la diagnosi precoce è
ancora più fondamentale. Infatti se la donna sieropositiva viene seguita
dall’inizio della gravidanza, con la possibilità di prendere tutte le
misure medico-sanitarie del caso (terapia della donna, taglio cesareo,
cura del bambino nelle prime quattro settimane di vita), il rischio per il
figlio diventa bassissimo.

Prudenza,
non moralismo

«Dottore, che mi
consiglia? Sul posto di lavoro devo dire che sono sieropositivo?». La
domanda è frequente e la risposta è quasi sempre la stessa: grande
prudenza.

Purtroppo la gente
non è ancora matura per accettare la sieropositività; e pensare che spesso
tra un datore di lavoro o un collega sieronegativi e il dipendente o
compagno, anch’essi sieropositivi, l’unica differenza è stata solo un po’
più di fortuna o prudenza in qualche occasione…

L’ignoranza è ancora
dilagante. Si pensa che sieropositività significhi tossicodipendenza o
contagio anche solo parlando. Il popolino è assetato di notizie-bomba che
diano senso a giornate «vuote» di lavoro. E allora si lancia la sassata:
«Lo sai che Tizio ha l’Aids?».

Pure il moralismo da
quattro soldi è sempre di moda. «Se l’è cercata!» si dice. A parte il
fatto che nessuno cerca il proprio male, che ci conferisce il diritto o
l’autorità di giudicare? Il giudizio può essere o su un piano
legale-giuridico (e in tale caso bisogna avere le competenze specifiche e
studiare ogni singolo caso) o su un piano morale (ipotesi questa che
richiede una correttezza interiore che appartiene solo a Dio o ai suoi
legittimi rappresentanti). Quanti giudizi sono proferiti da persone
moralmente molto più a terra dei giudicati!

E poi, applicando
questo criterio, che dovremmo dire di coloro che hanno un tumore al
polmone avendo fumato per anni 40 sigarette al giorno? Che dire degli
infartati, che non hanno voluto dimagrire né prendere la pillola per la
pressione alta, o di coloro con la cirrosi frutto di anni e anni di abusi
alcolici? Tutti colpevoli e da condannare?…

Un giorno entra in
ambulatorio una signora: viene a ritirare i farmaci anti-Hiv per il
genero, che ha telefonato preannunciando la visita. Poche battute, un po’
di imbarazzo e poi la donna prende coraggio:

– Ma a questo qui,
quanto gli resta da vivere?

– Come ha detto?
Guardi che «questo qui» è un essere umano, ha sposato sua figlia; ed è un
mio paziente. Non si permetta di parlare così!

La signora abbozza
una scusa e se ne va. Pensava di trovare un alleato alla sua cattiveria.
Avrà capito?

In ogni caso ci
vuole prudenza e grande sensibilità da parte di tutti gli operatori
sanitari nella tutela della privacy. L’Hiv continua a non essere una
malattia come le altre. Forse non lo sarà mai.

Insieme ai farmaci,
l’altra grande medicina, che in questi anni ha curato e cura i malati, è
l’amore: ha coinvolto di volta in volta infermieri, medici, psicologi,
operatori a vario titolo, così come partner, familiari, amici, volontari.
Tante donne, in particolare, hanno saputo e sanno stare accanto ai propri
mariti e compagni superando i pregiudizi, le passioni, oltre che i propri
limiti.

Come ha ragione
quella paziente e amica che scrive: «Il cuore è una ricchezza inesauribile
ed è ben più contagiosa dell’Hiv!».

Tra 100 anni l’Aids
non ci sarà più. Di esso si parlerà come di una grande epidemia della
storia, che rischiava di cancellare continenti e intere generazioni.

Esiste un gruppo di
persone (tra le quali il sottoscritto), che lottano per ridurre quel tempo
maledettamente lungo, perché ogni secondo è una vita. La lista per
iscriversi è sempre aperta.

(*) Giancarlo
Orofino è dal 1993 specialista in malattie infettive all’ospedale «Amedeo
di Savoia» di Torino. È socio-fondatore dell’associazione
«Arcobaleno-Aids» a Torino. Nel campo dell’Aids ha partecipato a studi
clinici per la sperimentazione di nuovi farmaci e a progetti di assistenza
psicosociale. È membro dell’Inteational Aids Society.

L’«etica»
delle multinazionali farmaceutiche

Salvare
i brevetti (e i profitti)
o salvare le vite?


In un mondo sempre più privatizzato anche il «diritto alla
salute» sta diventando un lusso. Lo è già da tempo nei paesi del Sud del
mondo, dove si muore di malaria, diarrea, tubercolosi, polmonite. E ora di
Aids. Le cure ci sarebbero, ma costano troppo. Le multinazionali si
giustificano con gli elevati costi della ricerca. Peccato che i dati
smentiscano i pianti: i loro profitti sono in crescita e di gran lunga
superiori a quelli delle altre aziende. Così qualche paese (Thailandia,
India, Brasile, Sudafrica) ha provato a ribellarsi al sistema vigente,
sfidando le ire degli Stati Uniti e dell’«Organizzazione mondiale del
commercio». Vinceranno le ragioni del profitto o quelle del traballante
«diritto alla salute»?

di Paolo Moiola


UGUALI DAVANTI ALLA MALATTIA?

Qualcuno sostiene
che la malattia accomuna tutti, ricchi e poveri. Ritengo che questo possa
essere (parzialmente) vero per la morte, ma non lo è per la malattia. Gli
esempi si sprecano: il reperimento di organi (dai reni alle coee), le
liste di attesa per esami ed operazioni chirurgiche, l’accesso a farmaci e
strutture ospedaliere troppo spesso tutto si riduce a una questione di
soldi. Nei paesi del Sud in primo luogo, ma anche in molti paesi ricchi.

La sanità
statunitense non è quella bella e buona favoleggiata nella popolarissima
serie televisiva «E.R., medici in prima linea». Negli Stati Uniti il
livello delle cure mediche è eccelso soltanto per chi può permettersi di
pagare un’affidabile assicurazione sanitaria. La conferma viene dalle
graduatorie inteazionali che mettono ai primi posti della sanità
pubblica la Francia e, sorpresa, l’Italia, mentre gli Usa sono molto
indietro.

Come si fa a
conciliare il diritto universale alla salute con la privatizzazione della
sanità? Eppure, sembra proprio questa la strada battuta, soprattutto nei
paesi meno sviluppati dove la popolazione spesso non ha neppure il
necessario per mangiare.

Il problema si
ripete con l’Aids. La malattia, già soprannominata la «peste» del
millennio, ha fatto strage nei suoi 20 anni di diffusione. Ebbene,
guardando alle statistiche degli organismi inteazionali, si vede che
l’80 per cento dei decessi legati alla malattia è stato registrato
nell’Africa subsahariana, ovvero nei paesi più poveri del mondo.

Per essi il futuro è
nero, se si considera l’enorme diffusione del virus Hiv tra donne e
bambini. Ci sono paesi africani (Zimbabwe, Botswana, Zambia) dove più del
35% delle donne registrate nei reparti di mateità urbani (che
rappresentano un’esigua minoranza del totale) sono contagiate.

Rispetto al totale
mondiale, si calcola che circa 2/3 dei casi di trasmissione dell’Aids
dalla madre al bambino (durante la gestazione e, in misura inferiore,
durante l’allattamento) avvengono in Africa.

Gli scienziati sono
convinti che un vaccino contro l’Aids sarà pronto entro il 2007. Nel
frattempo, i malati di Aids hanno possibilità di sopravvivenza molto
diverse, a seconda che abitino nel Nord o nel Sud del mondo.

TERAPIE
DA 15 MILA DOLLARI

Le multiterapie
anti-Aids (un cocktail di medicine come l’AZT e il 3TC) oggi consentono
una consistente riduzione della mortalità. Però queste cure costano circa
15.000 dollari all’anno per paziente. Cifre impensabili per i paesi del
Sud, dove l’epidemia ha assunto connotati drammatici.

Alcuni di essi (come
Brasile, India e Thailandia) hanno trovato un modo per aggirare il
problema fabbricando copie a buon mercato dei farmaci brevettati. In
questo modo, il costo delle terapie è crollato a circa 350 dollari l’anno
per paziente.

Nel 1997 il
presidente sudafricano Nelson Mandela promulgò una legge, denominata
Medicine Act, che recepiva questa situazione. Con essa venivano presi due
provvedimenti per combattere il dilagare dell’Aids: da un lato si decideva
di acquistare i farmaci non necessariamente dall’industria nazionale
(costituita da filiali delle multinazionali), ma da qualsiasi paese estero
dove i prezzi fossero più convenienti. In altre parole, veniva instaurato
un mercato parallelo, che importava i farmaci (i cosiddetti «farmaci
generici») dai paesi le cui leggi nazionali permettono di ignorare i
brevetti sui farmaci in caso di urgente bisogno.

Il secondo aspetto
della legge, ancora più radicale, consisteva nell’autorizzare la
fabbricazione dei farmaci antiretrovirali da parte delle industrie locali,
anche in assenza dell’autorizzazione delle industrie farmaceutiche che
detengono i brevetti.

Contro la legge si
mobilitò immediatamente la lobby farmaceutica mondiale, con immediate e
pesanti pressioni sugli Stati Uniti e, di conseguenza, sull’Omc,
Organizzazione mondiale del commercio. Così, lo scorso 5 marzo, a
Pretoria, è iniziato il processo intentato da 39 case farmaceutiche contro
il governo sudafricano, colpevole di aver emanato una legge che viola gli
accordi sul commercio mondiale.

E qui il problema
assume connotati interessanti, riassumibili in un semplice quesito. Come è
possibile che multinazionali potentissime chiedano «protezione» dalle
conseguenze del libero mercato, usualmente icona intangibile del sistema
neoliberista?

FARMACI
«PROTETTI»
DAL «LIBERO» MERCATO

Dal 1994, ai paesi
aderenti all’Omc è stato intimato di sottomettersi agli accordi denominati
«Trips». Secondo questi, non è più possibile produrre un farmaco o
acquistarlo all’estero senza l’autorizzazione (contro versamento di «royalties»)
del proprietario dell’invenzione, che conserva questa prerogativa per 20
anni.

Tuttavia, sotto la
pressione di alcuni paesi, i Trips hanno previsto clausole di eccezione:
in caso di emergenza sanitaria o di intralci alla concorrenza (rifiuto di
vendita dell’inventore o prezzi troppo alti), ogni governo ha il diritto
di ricorrere alle «licenze obbligatorie» (compulsory licences) e alle
importazioni parallele. Le prime consentono di fabbricare un prodotto
senza l’accordo dell’inventore (come hanno fatto il Brasile, la Thailandia,
l’India); le seconde di acquistarlo là dove è venduto a minor prezzo (come
vuole fare il Sudafrica).

Di queste scappatornie
si lamentano le lobbies farmaceutiche, che vogliono imporre la
soppressione di ogni eccezione ai diritti di brevetto. Lo fanno attraverso
gli Stati Uniti, che a loro volta sono i veri decisori all’interno dell’Omc.

Poiché in campagna
elettorale la nuova amministrazione Bush ha accettato cospicui
finanziamenti dall’industria farmaceutica, aspettiamoci pressioni e
ritorsioni commerciali (ad esempio: la tassazione dei prodotti
d’esportazione) degli Stati Uniti sui paesi «disobbedienti».

È inutile negare
l’evidenza: i Trips sono clausole protezionistiche introdotte
dall’Organizzazione mondiale del commercio, grande sacerdotessa del libero
mercato. Libero finché fa comodo agli interessi privati dei grandi gruppi
industriali e finanziari.

Eppure, non occorre
essere oppositori del sistema neoliberista per affermare che i pazienti
non sono clienti e i farmaci non sono prodotti come gli altri. E che il
diritto di brevetto non può essere posto al di sopra dei bisogni
elementari dell’umanità. «Che i brevetti – ha scritto Le Monde
Diplomatique – assicurino l’avvenire è forse vero per l’avvenire della
ricerca privata e senza alcun dubbio per quello degli azionisti delle
compagnie farmaceutiche, ma in nessun caso per quello dei malati».

I
TAGLI ALLA SANITÀ PUBBLICA

Abbiamo parlato di
350 dollari annuali per pagare le cure a un malato di Aids utilizzando i
«farmaci generici». La cifra, pur bassa rispetto ai prezzi ufficiali,
rimane elevatissima per le finanze pubbliche dei paesi del Sud.

Negli anni passati,
la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale hanno imposto ai
paesi del Sud l’adozione dei famigerati «aggiustamenti strutturali». I
tagli delle spese pubbliche si sono tradotti in tagli ai già esigui budget
sanitari. Ha senso ora lamentarsi dell’inadeguatezza dei sistemi sanitari
nei paesi in via di sviluppo?

Nella maggioranza
dei paesi poveri (in particolare, di quelli africani) la spesa sanitaria
globale pro capite non supera i 10 dollari all’anno. Quindi, anche a
prezzi ultrascontati, offrire cure pubbliche ai malati di Aids sarebbe
impossibile. Soltanto un’esigua percentuale di fortunati vedrà difeso (più
o meno efficientemente) il proprio «diritto alla salute». Dunque, si
ritorna all’assioma di partenza di quest’articolo. Chi è povero, sia esso
lo stato o l’individuo, ha molte meno possibilità di rimanere in salute e,
ove malato, di curarsi.


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Guido Sattin Giancarlo Orofino Paolo Moiola




Correva l’anno 1981

Il punto della situazione

Conosciuta soltanto dal 1981, la sindrome da immunodeficienza acquisita
nota con l’acronimo inglese «Aids» ha già fatto 22 milioni di morti,
per tre quarti africani. Nei paesi del Sud del mondo l’epidemia si espande
senza controllo. Le azioni di educazione e informazione producono risultati deludenti.
Nel frattempo, i paesi più poveri hanno intrapreso una dura lotta
contro le multinazionali farmaceutiche. Perché oggi i medicinali contro l’Aids
sono acquistabili da un’esigua minoranza.

IL PEGGIORE DISASTRO
DELL’ERA MODERNA

«Il peggiore disastro dell’era modea, che Stati Uniti, Europa e Giappone avrebbero potuto evitare con relativamente poco sforzo, ma che finora hanno totalmente ignorato. Non abbiamo fatto niente per evitare i 17 milioni di morti di AIDS in Africa, per impedire che quest’anno ne muoiano altri 3 milioni. In tutto, dal 1996 al ’98, abbiamo dato all’Africa solo 75 milioni di dollari. Niente, appunto».
A fare questa dichiarazione non è stato un qualche esperto dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) o un esponente terzomondista di qualche Organizzazione non governativa. Il giudizio e l’accusa pesantissimi sono di Jeffrey D. Sachs, direttore del Center for Inteational Development di Harvard, consulente di governi ed organismi multinazionali, uno dei più noti economisti a livello mondiale.
Pochi mesi fa, la dottoressa peruviana Elisabeth Sanchez, professore dell’Università Cayetano Heredia di Lima, esperta in malattie infettive, in una lunga conversazione mi diceva con estrema crudezza: «È chiaro che l’AIDS sta aumentando in Perù. Cinque anni fa erano 2.000 i pazienti con AIDS conclamato e ora sono circa 20 mila. Direte che non sono poi tanti, ma questo numero va moltiplicato per il dato probabilistico di 100 infettati per ogni malato. Questa è una proporzione che è accettata in molti paesi come il nostro. In Perù con l’AIDS succederà quello che sta succedendo in Africa; se in questo momento in certe zone dell’Africa si arriva al 40% di sieropositivi nella popolazione, gran parte di questi nel giro di 5/10 anni saranno morti ed il continente si spopolerà. Nel Perù sarà uguale».
E l’economista Sachs, con altrettanta crudezza, continua: «Eppure, al di là degli effetti devastanti che l’epidemia di AIDS e le altre malattie stanno avendo sull’Africa, anche nel mondo occidentale vi saranno contraccolpi molto negativi che in parte già si avvertono. La malattia non conosce confini ed infatti nuovi ceppi dell’AIDS, che erano esclusivi dell’Africa, si stanno già diffondendo in Occidente. Il peggiorare della situazione nel continente nero porterà a maggiore instabilità politica, governi ancor meno capaci di controllare le situazioni locali, guerre, migrazioni di massa, crescita della povertà ovunque. Più aspettiamo a intervenire e più, quando saremo costretti a farlo, sarà costoso e complicato rimediare ai danni».
È interessante e, allo stesso tempo, preoccupante che un professore di economia affronti queste tematiche. Probabilmente l’AIDS ha già smesso di essere solo un problema sanitario per trasformarsi in un problema economico e politico.
UN PROBLEMA SANITARIO

L’AIDS (Acquired Immuno-Deficiency Syndrome = sindrome da immunodeficienza acquisita) è una malattia abbastanza recente e, tuttavia, essa si è diffusa rapidamente in pressoché tutte le nazioni, assumendo le caratteristiche di una vera e propria pandemia.
I primi casi sono stati descritti negli USA, alla fine del 1981, tra omosessuali maschi, colpiti da infezioni opportuniste o da tumori particolari quali, ad esempio, il sarcoma di Kaposi, e affetti da una forma di immunodeficienza da causa allora non conosciuta. Studi retrospettivi su sieri congelati hanno mostrato la presenza di anticorpi contro il virus HIV (Human Immunodeficiency Virus = virus dell’immunodeficienza umana), successivamente riconosciuto responsabile della malattia, in un soggetto morto in Africa nel 1959.
Da dove è venuta questa malattia? Sono state formulate numerose ipotesi; la più accreditata indicherebbe come progenitore dell’HIV un virus, l’STLVIII (Simian T Cell Leukemia Virus III), che nella scimmia provoca una sindrome riconducibile all’AIDS dell’uomo. L’infezione, dunque, avrebbe colpito le zone rurali dell’Africa dove sarebbe rimasta confinata per lunghi anni e, successivamente, si sarebbe diffusa alle aree urbane del Centro Africa. Di là, attraverso i rapporti commerciali con altri stati, l’infezione avrebbe raggiunto Haiti e l’America Centrale, si sarebbe diffusa negli USA, in Europa e in tutto il mondo.
Per ciò che concee le modalità di diffusione e presentazione dell’epidemia da HIV, sono descritti tre differenti quadri (pattes) epidemiologici.
Il I patte comprende gli USA, il Canada, l’Europa dell’Ovest, l’Australasia, il Nord Africa e parti del Sud America; qui l’epidemia si è diffusa soprattutto tra omosessuali, bisessuali e tossicodipendenti. Coloro che hanno contratto l’infezione per via eterosessuale, costituiscono una piccola percentuale.
Nel II patte, comprendente il resto dell’Africa e del Sud America, la maggioranza dei soggetti ha acquisito l’infezione per via eterosessuale, con un rapporto uomo-donna di circa uno ad uno.
Il III patte (Asia-Pacifico, Europa dell’Est e Medio Oriente), dove il virus HIV è stato introdotto probabilmente più tardi rispetto ai paesi appartenenti agli altri pattes, si caratterizza per un numero modesto di casi notificati di AIDS. In questi ultimi anni, tuttavia, si è riscontrato un forte incremento dei casi di infezione da HIV, al punto che l’epidemia dell’Asia può far scomparire tutte le altre sia come impatto che come portata.
UN PROBLEMA POLITICO ED ECONOMICO
La pandemia sta distruggendo intere popolazioni del Sud del mondo. Il perché lo capiamo dalle parole della dott.ssa Sanchez.
«In Perù, se vuoi entrare nel programma statale di lotta all’AIDS, devi prima dimostrare di essere sieropositivo e per questo devi fare la prova sierologica Elisa. A pagamento: ti costerà circa 20 soles (12 mila lire, ndr). Una volta dimostrata la sieropositività, entri nel programma. E cosa ti offre il programma? Ti dà consigli, ti obbliga ad eseguire la prova (sempre a pagamento) per tua moglie, per le persone con le quali hai avuto rapporti sessuali. Solo consigli e niente farmaci. I farmaci il sieropositivo o l’ammalato deve comprarli. Quanti sono gli infettati che potranno curarsi? Immàginati che devi investire in farmaci circa 500 dollari al mese (più di quello che guadagna un medico statale in Perù). Onestamente non credo che qualcuno possa farlo, se non fa parte della ristretta, minoritaria e potente borghesia. Il governo non può farsi carico di tale spesa, le Organizzazioni inteazionali di aiuto neanche e i pazienti… stanno morendo».
Semplicemente e con poche parole, la dott.ssa Sanchez ci ha spiegato il perché in Africa, Asia, America Latina l’AIDS è simile e forse peggiore all’epidemia di peste vissuta in Europa nel corso del 1300.
L’impossibilità di curare i pazienti e di trattare gli infettati fa sì che l’epidemia si diffonda senza nemmeno conoscee le reali dimensioni, se non nel momento in cui il paziente muore o si ammala (ad esempio di tubercolosi). Quindi l’epidemia si estende senza controllo e i programmi di educazione e prevenzione hanno scarso impatto su una popolazione molto giovane per l’alto indice di natalità.
Quanto detto sopra è chiarito dai dati della pandemia che, nei paesi ricchi, ha coinvolto fondamentalmente persone con «comportamenti a rischio», sui quali però con un’importante azione di educazione/informazione oggi si riesce ad influire. Nei paesi poveri la percentuale di donne infettate (che raggiunge il 55% di tutti i casi nell’Africa Sub-sahariana) e i quasi 1.500.000 bambini infettati dimostrano che la malattia interessa la vita quotidiana della gente, e non più i comportamenti a rischio.
Anche il semplice preservativo, unica ed efficace barriera all’infezione, può essere un lusso, senza parlare degli alti livelli di prostituzione, fenomeno tristemente «normale» in una popolazione povera e con indici di disoccupazione inimmaginabili da noi.

CHE FARE DAVANTI A UN’EMERGENZA MONDIALE?

Cosa ha detto il segretario generale delle Nazioni Unite a New York il 20 febbraio del 2001?
«Nei suoi due decenni di esistenza – spiega il documento firmato da Kofi Annan -, l’epidemia dell’AIDS ha continuato a propagarsi senza fine in tutti i continenti e, anche se è più grave in alcuni paesi piuttosto che in altri, nessun paese è fuori rischio. In questi due decenni essa si è convertita in una vera emergenza mondiale».
«Nella dichiarazione del Millennio, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite (settembre 2000), si afferma chiaramente che il mondo ha finalmente riconosciuto la reale grandezza della crisi. Nel documento i leaders si impegnano a invertire la tendenza della propagazione del virus dell’immunodeficienza umana per l’anno 2015; a dare aiuti speciali ai bambini rimasti orfani a causa della malattia; ad aiutare l’Africa ad acquisire la capacità per affrontare il problema della propagazione della pandemia e di altre malattie infettive».
Più avanti Kofi Annan afferma: «Si sono ottenuti buoni risultati nel tentativo di far fronte all’epidemia in molte parti del mondo. La discesa dei tassi di infezione con HIV in molte comunità e, in alcuni casi, in molti paesi, specialmente fra i giovani, ha dimostrato che le strategie di prevenzione servono. La discesa dei tassi di mortalità per AIDS nei paesi industrializzati e in alcuni paesi in via di sviluppo ha dimostrato anche che la prevenzione e il trattamento dell’AIDS sono efficaci».
Quindi il segretario generale delle Nazione Unite può concludere: «L’HIV/AIDS costituisce l’ostacolo più formidabile per lo sviluppo nei nostri tempi».
Il lungo documento, dopo l’introduzione, inizia con un’analisi simile a quella dell’economista Sachs: «L’AIDS si è convertito in una grave crisi di sviluppo. Uccide milioni di adulti nel fiore della loro vita, distrugge ed impoverisce famiglie, debilita la forza lavoro, lascia orfani milioni di bambini e minaccia il tessuto economico e sociale delle comunità e la stabilità politica delle nazioni».
«Gli effetti negativi del virus dell’immunodeficienza e l’AIDS si fanno sentire in tutto il mondo, ma soprattutto in Africa, Caraibi, Asia meridionale e sudorientale. Il morbo si propaga con rapidità e si ripercuote sulla forza lavoro, la produttività, le esportazioni, gli investimenti; in una parola, su tutta l’economia nazionale. Se l’epidemia continuasse al ritmo attuale, le nazioni più colpite perderanno nei prossimi 20 anni fino il 25% della crescita economica prevista».

SFIDA ALLA SICUREZZA

La mia vicina di casa, a Villa el Salvador (Perù), mi raccontava di una ragazza del quartiere morta per AIDS e dei suoi figli orfani.
La dott.ssa Sanchez ribadiva che non voleva aiuti per fare le prove sierologiche in assenza dei farmaci e che in queste condizioni l’unico aiuto possibile doveva essere concentrato sull’informazione/educazione.
Nella mia città, Venezia, le vestigia storiche della peste sono innumerevoli, come pure le testimonianze dell’impari lotta per bloccarla. La società di allora si era munita di una legislazione, di strumenti e metodi per lottare e vincere la peste, e anche grazie a questa lungimiranza fu una società opulenta.
La nostra società invece, nonostante la mole di dati disponibile, non riesce a comprendere che i problemi dell’Africa Sub-sahariana o del Perù sono problemi pure nostri, e questo indipendentemente dal fenomeno migratorio.
In un passo del suo discorso, il segretario generale delle Nazioni Unite ha affermato: «Nelle regioni più colpite, l’AIDS sta invertendo la tendenza di decenni di sviluppo. Cambia la composizione delle famiglie e la forma di funzionamento delle comunità, colpisce la sicurezza alimentare e destabilizza i tradizionali sistemi di appoggio. Distrugge il capitale sociale, al punto da far sparire la base delle conoscenze della società e debilitare i settori di produzione. Inibendo lo sviluppo dei settori pubblici e privati e grazie alle ripercussioni sull’intera società, debilita le istituzioni nazionali. Ostacolando nel tempo la crescita dell’economia, colpisce gli investimenti, il commercio e la sicurezza nazionale, facendo sì che la povertà sia ancora più generalizzata ed estrema. In poche parole, l’AIDS si è convertito in una sfida alla sicurezza dell’umanità».
La sfida all’AIDS deve essere una lotta alla povertà, vera peste del secolo che si è appena aperto.
DISEGUAGLIANZA SOCIALE
Oggi è l’AIDS, domani sarà Ebola, dopo domani la «mucca pazza» e così via. Allora anch’io sono d’accordo con Kofi Annan, Sachs e la dott.ssa Sanchez: il problema non è solo sanitario, ma anche economico e politico.
Dobbiamo impegnarci a eliminare le fondamenta sulle quali le malattie si sviluppano: la diseguaglianza sociale.

Guido Sattin




Ma se l’è proprio cercata?

Aids tra scienza e coscienza

Nel tunnel chiamato hiv-aids si intravvedono confortanti spiragli di luce,
dopo il buio assoluto. Ma non per le popolazioni del Sud del mondo,
anche se dal Sudafrica giungono buone notizie circa il prezzo
(finora proibitivo) dei farmaci. In ogni caso la battaglia è durissima per tutti.
Specie quando si deve combattere contro ignoranze, pregiudizi, moralismi, cattiverie.

Alcuni anni fa, durante una festa per scambiarci gli auguri di natale tra amici, simpatizzanti e volontari dell’associazione Arcobaleno Aids (finalizzata al supporto psicosociale di sieropositivi), mentre si brindava, ballava e scherzava, fui assalito da uno sconforto tremendo. Una nube nera mi offuscò l’anima e quasi la vista. «È mai possibile – mi dicevo – che, tra un anno o due, molte di queste persone (tutte giovani) non ci saranno più?».
Quelli erano gli anni davvero duri dell’Aids, quando le speranze dei nuovi farmaci venivano quotidianamente infrante dalla scomparsa di coloro che non ce l’avevano fatta ad arrivare in tempo. Non parlo di secoli fa. Parlo di anni, di pochi anni.
Oggi quasi tutti i sieropositivi di allora stanno bene: molti vengono in ambulatorio e prendono i farmaci; mi parlano dei loro malesseri ma anche dei loro progetti; mi mostrano le foto dei loro bambini.
Ecco cosa può fare la medicina, la ricerca, in particolare nel campo delle malattie infettive. Il «nemico» è noto, è conosciuto nei minimi particolari, è attaccabile in maniera molto selettiva.
La svolta di Vancouver
Yokoama, agosto 1994. Sono in Giappone (a mie spese) per sapere, dalla viva voce dei più importanti scienziati del mondo, se vi sia qualche notizia importante per la cura dei miei pazienti sieropositivi. Però too con le ossa rotte: tante cose bollono in pentola, ma per ora non c’è niente e bisogna aspettare. Il vaccino, poi, è un’utopia. Tante persone non ce la faranno…
Vancouver (Canada), luglio 1996, prime ore del pomeriggio. L’aula è gremita all’inverosimile. Non è la sede delle sessioni plenarie (cioè il Palazzo dello sport, da 15 mila posti), ma una sala comunque grande, non però così ampia da contenere tutti i partecipanti a quel Congresso mondiale. Poiché la notizia si è diffusa, sono tutti lì.
David Ho parla dei nuovi potenti farmaci che, in due anni, con procedure assolutamente rapide, sono già in commercio. L’oratore spiega come si può finalmente curare e forse guarire l’Aids. Un fremito percorre l’uditorio: medici, pazienti, giornalisti e operatori vari sono tutti coinvolti. È la svolta.
Dal 1996 poco tempo è passato. E tutto è cambiato in meglio, anche se la parola «guarigione» è rientrata nel cassetto. Purtroppo, però, il Sud del mondo si è progressivamente staccato: qui i farmaci sono mai arrivati. Questo, attualmente, è il cruccio più grosso che accompagna (dovrebbe accompagnare) l’operato di chi si occupa di infezione da Hiv-Aids; questa è la grande sfida da vincere al più presto, con l’impegno di tutti, ad ogni livello.
Molte cose sono cambiate vertiginosamente nel giro di pochi anni e molte sono quelle ancora da fare: sul piano della prevenzione, della discriminazione, del supporto psicologico e delle cure. Il ritmo accelerato delle scoperte scientifiche obbliga al continuo aggioamento, alla verifica costante.
il medico «sa»
Oggi si ammalano di Aids solo coloro che pervengono alla fase finale della malattia, ignari di essee portatori, o coloro che non assumono (o non possono assumere) le terapie.
Però i sieropositivi continuano lentamente ad aumentare e appaiono anche persone non più giovani. Occuparsi dei pazienti implica sforzo e dedizione, sia perché frequentemente alle spalle vi sono situazioni psicosociali pesanti, sia perché, in assenza di figure istituzionali-psicologiche cui riferirsi, sul medico vengono «scaricate» angosce e timori.
Il medico è uno dei pochi che «sa» e pertanto con lui ci si deve sfogare. Per questo, a volte, si termina l’ambulatorio sfiniti e appesantiti da tanti problemi. La risposta del medico può essere o di coinvolgimento o di rigida osservanza tecnico-scientifica o di fuga.
Personalmente mi sono fatto molto prendere dalla malattia Aids sul piano del volontariato e dell’impegno sociale; ma cerco anche, ogni giorno, di non farmi assorbire troppo dai pazienti, per non finire «cotto» prima del tempo. Devo assolutamente conservare un minimo di distacco che mi permetta di non «identificarmi troppo», di non ammalarmi con essi.
D’altro canto l’Aids ha completamente stravolto, in Italia e nel mondo, il classico rapporto medico-paziente: un po’ per i motivi accennati e un po’ perché i malati stessi sono stati lo stimolo per la ricerca e l’assistenza. Di più, oggi, nella transizione da una malattia «a prognosi infausta» (diciamo noi medici, ossia mortale) ad una malattia cronica, il coinvolgimento del paziente è fondamentale: in primo luogo per le problematiche legate alle terapie.
In questi anni alcuni pazienti hanno compiuto molti passi in avanti nell’autodeterminazione e consapevolezza; ma altri devono fare ancora tanta strada. Quante meschinità e bassezze ancora si perpetuano con la scusa del virus! Invece proprio il virus dovrebbe essere la molla che spinge a cambiare alcuni aspetti della propria esistenza.
Ho visto cambiare tante persone rompere il proprio guscio di egoismo, aprirsi agli altri. Come sempre, «questo incredibile uomo» sa tirare fuori nei momenti drammatici risorse sepolte ma vive. In Sudafrica, addirittura, alcuni attivisti hanno intrapreso lo sciopero dei farmaci, in segno di solidarietà verso i loro concittadini che non hanno i soldi per pagarsi le cure (cfr. box, pagina 40).
Mentre sto scrivendo questo articolo, è giunta la notizia che proprio in Sudafrica una grande battaglia per la vita di tante persone sieropositive è stata vinta: le 39 case farmaceutiche hanno ritirato la causa contro la produzione locale dei farmaci anti-Aids (con prezzi inferiori), grazie anche all’impegno e alla forza di piccoli-grandi eroi.
Già, quanti «eroi» ho conosciuto! Giovani che hanno saputo affrontare con dignità straordinaria il dolore e la morte, arricchendo in qualche modo il mondo.
Nella introduzione agli Atti del Convegno Outadali (Venezia, 16-19 ottobre 1997) si legge: «Per la maggior parte degli altri noi siamo coloro che moriranno; ma intanto siamo coloro che rivelano e testimoniano la necessità di un cambiamento; siamo una parte dell’umanità che offre a tutti l’opportunità di un modo nuovo di vivere, di amare e di morire».
Spesso penso ai tanti pazienti perduti in questi anni e mi sento come un tenente che, durante la battaglia, ha perso i suoi uomini di compagnia: Francesca, Roberto, Gaetano, Filomena, Maria…
Giustamente si paragona l’Aids ad una guerra, che miete milioni di vittime lontano da noi. Prima eravamo tutti sulla «stessa barca»: questo secondo «Titanic» incappato nell’iceberg dell’Aids. Per un momento tutti uguali; poi sono arrivati i farmaci, le «scialuppe». Ma solo i più fortunati (i più ricchi) vi hanno trovato posto.
«Ipersesso» e stranieri
Accennavo alla prevenzione. Al riguardo gli sforzi ed investimenti sono risultati efficaci tra i tossicodipendenti e in una certa parte della popolazione.
Ma oggi sarebbe necessario andare più in profondità: nei luoghi del rischio, nelle strade, nei quartieri, e non basta. La società deve risolvere una situazione schizofrenica che è anche frutto di uno sfrenato consumismo: da una parte la «ipersessualizzazione» (ossia mettere il richiamo sessuale, ovunque e comunque, per vendere o attirare di più) e, dall’altra, la paura dell’Aids.
Ma a che gioco giochiamo?
Luc Montagnier, grande scienziato, nonché uno degli scopritori del virus dell’Aids, ha affermato: «La decadenza dei costumi e delle abitudini sessuali è certamente alla base della diffusione della malattia». Nei colloqui con i pazienti o con coloro che vengono a fare il test, io cerco sempre di insistere non solo sulla «protezione», ma anche sulla responsabilità e maturità dei propri comportamenti. Penso, spero di non essere l’unico.
Esiste poi il grande problema degli stranieri. Molti hanno paura del test: temono di essere individuati, schedati, espulsi.
Non hanno ancora capito che il medico gode (è uno dei veri e pochi privilegi che dobbiamo tenerci ben stretti!) di piena autonomia ed è legato al segreto professionale. Alcuni probabilmente hanno retaggi, che si trascinano dai loro paesi d’origine, dove il sieropositivo è un reietto; altri non si fidano; forse credono che non esista neanche l’Hiv.
La prevenzione con gli stranieri e per gli stranieri è un capitolo in larga parte ancora tutto da scrivere, ma bisogna fare presto. La malattia è curabile, sì, ma se colta in tempo.
Vi sono poi alcune situazioni particolari, come la gravidanza, in cui la diagnosi precoce è ancora più fondamentale. Infatti se la donna sieropositiva viene seguita dall’inizio della gravidanza, con la possibilità di prendere tutte le misure medico-sanitarie del caso (terapia della donna, taglio cesareo, cura del bambino nelle prime quattro settimane di vita), il rischio per il figlio diventa bassissimo.
Prudenza, non moralismo
«Dottore, che mi consiglia? Sul posto di lavoro devo dire che sono sieropositivo?». La domanda è frequente e la risposta è quasi sempre la stessa: grande prudenza.
Purtroppo la gente non è ancora matura per accettare la sieropositività; e pensare che spesso tra un datore di lavoro o un collega sieronegativi e il dipendente o compagno, anch’essi sieropositivi, l’unica differenza è stata solo un po’ più di fortuna o prudenza in qualche occasione…
L’ignoranza è ancora dilagante. Si pensa che sieropositività significhi tossicodipendenza o contagio anche solo parlando. Il popolino è assetato di notizie-bomba che diano senso a giornate «vuote» di lavoro. E allora si lancia la sassata: «Lo sai che Tizio ha l’Aids?».
Pure il moralismo da quattro soldi è sempre di moda. «Se l’è cercata!» si dice. A parte il fatto che nessuno cerca il proprio male, che ci conferisce il diritto o l’autorità di giudicare? Il giudizio può essere o su un piano legale-giuridico (e in tale caso bisogna avere le competenze specifiche e studiare ogni singolo caso) o su un piano morale (ipotesi questa che richiede una correttezza interiore che appartiene solo a Dio o ai suoi legittimi rappresentanti). Quanti giudizi sono proferiti da persone moralmente molto più a terra dei giudicati!
E poi, applicando questo criterio, che dovremmo dire di coloro che hanno un tumore al polmone avendo fumato per anni 40 sigarette al giorno? Che dire degli infartati, che non hanno voluto dimagrire né prendere la pillola per la pressione alta, o di coloro con la cirrosi frutto di anni e anni di abusi alcolici? Tutti colpevoli e da condannare?…
Un giorno entra in ambulatorio una signora: viene a ritirare i farmaci anti-Hiv per il genero, che ha telefonato preannunciando la visita. Poche battute, un po’ di imbarazzo e poi la donna prende coraggio:
– Ma a questo qui, quanto gli resta da vivere?
– Come ha detto? Guardi che «questo qui» è un essere umano, ha sposato sua figlia; ed è un mio paziente. Non si permetta di parlare così!
La signora abbozza una scusa e se ne va. Pensava di trovare un alleato alla sua cattiveria. Avrà capito?
In ogni caso ci vuole prudenza e grande sensibilità da parte di tutti gli operatori sanitari nella tutela della privacy. L’Hiv continua a non essere una malattia come le altre. Forse non lo sarà mai.
Insieme ai farmaci, l’altra grande medicina, che in questi anni ha curato e cura i malati, è l’amore: ha coinvolto di volta in volta infermieri, medici, psicologi, operatori a vario titolo, così come partner, familiari, amici, volontari. Tante donne, in particolare, hanno saputo e sanno stare accanto ai propri mariti e compagni superando i pregiudizi, le passioni, oltre che i propri limiti.
Come ha ragione quella paziente e amica che scrive: «Il cuore è una ricchezza inesauribile ed è ben più contagiosa dell’Hiv!».

Tra 100 anni l’Aids non ci sarà più. Di esso si parlerà come di una grande epidemia della storia, che rischiava di cancellare continenti e intere generazioni.
Esiste un gruppo di persone (tra le quali il sottoscritto), che lottano per ridurre quel tempo maledettamente lungo, perché ogni secondo è una vita. La lista per iscriversi è sempre aperta.

di Giancarlo Orofino (*)

Giancarlo Orofino




Salvare i brevetti (e i profitti) o salvare vite?

L’«etica» delle multinazionali farmaceutiche

In un mondo sempre più privatizzato anche il «diritto alla salute» sta diventando
un lusso. Lo è già da tempo nei paesi del Sud del mondo, dove si muore di malaria, diarrea, tubercolosi, polmonite. E ora di Aids. Le cure ci sarebbero, ma costano
troppo. Le multinazionali si giustificano con gli elevati costi della ricerca.
Peccato che i dati smentiscano i pianti: i loro profitti sono in crescita e di gran lunga superiori a quelli delle altre aziende. Così qualche paese (Thailandia, India, Brasile, Sudafrica) ha provato a ribellarsi al sistema vigente, sfidando le ire degli Stati Uniti
e dell’«Organizzazione mondiale del commercio».
Vinceranno le ragioni del profitto o quelle del traballante «diritto alla salute»?

UGUALI DAVANTI ALLA MALATTIA?

Qualcuno sostiene che la malattia accomuna tutti, ricchi e poveri. Ritengo che questo possa essere (parzialmente) vero per la morte, ma non lo è per la malattia. Gli esempi si sprecano: il reperimento di organi (dai reni alle coee), le liste di attesa per esami ed operazioni chirurgiche, l’accesso a farmaci e strutture ospedaliere troppo spesso tutto si riduce a una questione di soldi. Nei paesi del Sud in primo luogo, ma anche in molti paesi ricchi.
La sanità statunitense non è quella bella e buona favoleggiata nella popolarissima serie televisiva «E.R., medici in prima linea». Negli Stati Uniti il livello delle cure mediche è eccelso soltanto per chi può permettersi di pagare un’affidabile assicurazione sanitaria. La conferma viene dalle graduatorie inteazionali che mettono ai primi posti della sanità pubblica la Francia e, sorpresa, l’Italia, mentre gli Usa sono molto indietro.
Come si fa a conciliare il diritto universale alla salute con la privatizzazione della sanità? Eppure, sembra proprio questa la strada battuta, soprattutto nei paesi meno sviluppati dove la popolazione spesso non ha neppure il necessario per mangiare.
Il problema si ripete con l’Aids. La malattia, già soprannominata la «peste» del millennio, ha fatto strage nei suoi 20 anni di diffusione. Ebbene, guardando alle statistiche degli organismi inteazionali, si vede che l’80 per cento dei decessi legati alla malattia è stato registrato nell’Africa subsahariana, ovvero nei paesi più poveri del mondo.
Per essi il futuro è nero, se si considera l’enorme diffusione del virus Hiv tra donne e bambini. Ci sono paesi africani (Zimbabwe, Botswana, Zambia) dove più del 35% delle donne registrate nei reparti di mateità urbani (che rappresentano un’esigua minoranza del totale) sono contagiate.
Rispetto al totale mondiale, si calcola che circa 2/3 dei casi di trasmissione dell’Aids dalla madre al bambino (durante la gestazione e, in misura inferiore, durante l’allattamento) avvengono in Africa.
Gli scienziati sono convinti che un vaccino contro l’Aids sarà pronto entro il 2007. Nel frattempo, i malati di Aids hanno possibilità di sopravvivenza molto diverse, a seconda che abitino nel Nord o nel Sud del mondo.

TERAPIE DA 15 MILA DOLLARI

Le multiterapie anti-Aids (un cocktail di medicine come l’AZT e il 3TC) oggi consentono una consistente riduzione della mortalità. Però queste cure costano circa 15.000 dollari all’anno per paziente. Cifre impensabili per i paesi del Sud, dove l’epidemia ha assunto connotati drammatici.
Alcuni di essi (come Brasile, India e Thailandia) hanno trovato un modo per aggirare il problema fabbricando copie a buon mercato dei farmaci brevettati. In questo modo, il costo delle terapie è crollato a circa 350 dollari l’anno per paziente.
Nel 1997 il presidente sudafricano Nelson Mandela promulgò una legge, denominata Medicine Act, che recepiva questa situazione. Con essa venivano presi due provvedimenti per combattere il dilagare dell’Aids: da un lato si decideva di acquistare i farmaci non necessariamente dall’industria nazionale (costituita da filiali delle multinazionali), ma da qualsiasi paese estero dove i prezzi fossero più convenienti. In altre parole, veniva instaurato un mercato parallelo, che importava i farmaci (i cosiddetti «farmaci generici») dai paesi le cui leggi nazionali permettono di ignorare i brevetti sui farmaci in caso di urgente bisogno.
Il secondo aspetto della legge, ancora più radicale, consisteva nell’autorizzare la fabbricazione dei farmaci antiretrovirali da parte delle industrie locali, anche in assenza dell’autorizzazione delle industrie farmaceutiche che detengono i brevetti.
Contro la legge si mobilitò immediatamente la lobby farmaceutica mondiale, con immediate e pesanti pressioni sugli Stati Uniti e, di conseguenza, sull’Omc, Organizzazione mondiale del commercio. Così, lo scorso 5 marzo, a Pretoria, è iniziato il processo intentato da 42 case farmaceutiche contro il governo sudafricano, colpevole di aver emanato una legge che viola gli accordi sul commercio mondiale.
E qui il problema assume connotati interessanti, riassumibili in un semplice quesito. Come è possibile che multinazionali potentissime chiedano «protezione» dalle conseguenze del libero mercato, usualmente icona intangibile del sistema neoliberista?
FARMACI «PROTETTI» DAL «LIBERO» MERCATO
Dal 1994, ai paesi aderenti all’Omc è stato intimato di sottomettersi agli accordi denominati «Trips». Secondo questi, non è più possibile produrre un farmaco o acquistarlo all’estero senza l’autorizzazione (contro versamento di «royalties») del proprietario dell’invenzione, che conserva questa prerogativa per 20 anni.
Tuttavia, sotto la pressione di alcuni paesi, i Trips hanno previsto clausole di eccezione: in caso di emergenza sanitaria o di intralci alla concorrenza (rifiuto di vendita dell’inventore o prezzi troppo alti), ogni governo ha il diritto di ricorrere alle «licenze obbligatorie» (compulsory licences) e alle importazioni parallele. Le prime consentono di fabbricare un prodotto senza l’accordo dell’inventore (come hanno fatto il Brasile, la Thailandia, l’India); le seconde di acquistarlo là dove è venduto a minor prezzo (come vuole fare il Sudafrica).
Di queste scappatornie si lamentano le lobbies farmaceutiche, che vogliono imporre la soppressione di ogni eccezione ai diritti di brevetto. Lo fanno attraverso gli Stati Uniti, che a loro volta sono i veri decisori all’interno dell’Omc.
Poiché in campagna elettorale la nuova amministrazione Bush ha accettato cospicui finanziamenti dall’industria farmaceutica, aspettiamoci pressioni e ritorsioni commerciali (ad esempio: la tassazione dei prodotti d’esportazione) degli Stati Uniti sui paesi «disobbedienti».
È inutile negare l’evidenza: i Trips sono clausole protezionistiche introdotte dall’Organizzazione mondiale del commercio, grande sacerdotessa del libero mercato. Libero finché fa comodo agli interessi privati dei grandi gruppi industriali e finanziari.
Eppure, non occorre essere oppositori del sistema neoliberista per affermare che i pazienti non sono clienti e i farmaci non sono prodotti come gli altri. E che il diritto di brevetto non può essere posto al di sopra dei bisogni elementari dell’umanità. «Che i brevetti – ha scritto Le Monde Diplomatique – assicurino l’avvenire è forse vero per l’avvenire della ricerca privata e senza alcun dubbio per quello degli azionisti delle compagnie farmaceutiche, ma in nessun caso per quello dei malati».

I TAGLI ALLA SANITÀ PUBBLICA

Abbiamo parlato di 350 dollari annuali per pagare le cure a un malato di Aids utilizzando i «farmaci generici». La cifra, pur bassa rispetto ai prezzi ufficiali, rimane elevatissima per le finanze pubbliche dei paesi del Sud.
Negli anni passati, la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale hanno imposto ai paesi del Sud l’adozione dei famigerati «aggiustamenti strutturali». I tagli delle spese pubbliche si sono tradotti in tagli ai già esigui budget sanitari. Ha senso ora lamentarsi dell’inadeguatezza dei sistemi sanitari nei paesi in via di sviluppo?
Nella maggioranza dei paesi poveri (in particolare, di quelli africani) la spesa sanitaria globale pro capite non supera i 10 dollari all’anno. Quindi, anche a prezzi ultrascontati, offrire cure pubbliche ai malati di Aids sarebbe impossibile. Soltanto un’esigua percentuale di fortunati vedrà difeso (più o meno efficientemente) il proprio «diritto alla salute». Dunque, si ritorna all’assioma di partenza di quest’articolo. Chi è povero, sia esso lo stato o l’individuo, ha molte meno possibilità di rimanere in salute e, ove malato, di curarsi.

UN VIRUS CHIAMATO «POVERTÀ»

L’anno scorso il presidente sudafricano Thabo Mbeki, successore di Mandela, venne sbeffeggiato e deriso perché aveva dato credito alle teorie dissidenti, secondo le quali il virus dell’immunodeficienza (Hiv) non sarebbe la causa dell’Aids.
Di fronte a questa forte polemica, passarono in secondo piano le altre osservazioni del leader sudafricano. Nella lettera indirizzata al presidente Clinton, Mbeki sottolineava lo stretto rapporto tra la morte massiccia, provocata dalla malattia in alcune regioni del mondo come l’Africa, e la povertà di massa che soffoca quelle stesse regioni. In pratica, il presidente sudafricano sottolineava che il solo approccio biomedico non permette di vincere la sfida dell’Aids. Era questa una constatazione non nuova, ma sempre sottovalutata.
Già nel 1985, l’annuale rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità scriveva: «La povertà esercita un’influenza su tutti gli stadi della vita umana, dal concepimento alla tomba. Cospira con le malattie più mortali e dolorose».
No, non si è tutti eguali davanti alla malattia. E l’Aids è solo l’ultimo degli esempi possibili.

GLI ARGOMENTI DELLE MULTINAZIONALI FARMACEUTICHE

* Ci vogliono almeno 20 anni di protezione brevettuale per recuperare le grandi somme necessarie alla ricerca e allo sviluppo di nuovi farmaci.

GLI ARGOMENTI
DEI PAESI DEL SUD

* Le aziende farmaceutiche (e con loro gli Stati Uniti e il Wto) mettono il profitto davanti agli individui.

* Da anni gli utili delle case farmaceutiche sono sempre superiori agli utili delle altre aziende.

* La spesa in ricerca e sviluppo è un’esigua frazione rispetto ai soldi spesi per il marketing dei farmaci.

* Solo il 10% dei fondi per la ricerca e lo sviluppo è destinato a cure contro il 90% delle malattie a diffusione mondiale, mentre il grosso è speso per malattie tipiche del Primo mondo come l’obesità, la calvizie e l’impotenza.

* Il Sud del mondo viene utilizzato per la sperimentazione di farmaci che poi non vengono resi disponibili per le popolazioni che hanno subito la sperimentazione.

Farmaci antiretrovirali

Primo gruppo:
inibitori nucleosidici della transcriptasi inversa virale

Retrovir (Glaxo-Wellcome) L. 571.200
Videx (Bristol-M. Squibb) L. 406.100
Epivir (Glaxo-Wellcome) L. 532.000 H
Zerit (Bristol-M. Squibb) L. 519.600 H
Hivid (Roche) L. 499.800
Ziagen (Glaxo-Wellcome) L. 685.300 H

Combinazione di 2 inibitori
Combivir (Glaxo-Wellcome) L. 930.600 H

Secondo gruppo:
inibitori delle proteasi

Norvir (Abbott) L. 849.300 H
Invirase (Roche) L. 1.276.000 H
Fortovase (Roche) L. 1.266.000 H
Crixivan (Merck S.D.) L. 1.258.400 H
Viracept (Roche) L. 919.600 H
Agenerase (Glaxo-Wellcome) L. 959.200 H

Terzo gruppo:
inibitori non nucleosidici della transcriptasi inversa virale

Viramune (Boehringer Ing.) L. 375.000 H
Sustiva (Du Pont Ph.) L. 761.400 H

H = solo dispensazione ospedaliera (il prezzo va dimezzato).
Il prezzo equivale al costo di una terapia per un mese.
In Italia le cure sono gratuite. Per ora.

Paolo Moiola




Perché non sono americano

Superiore generale dei missionari della Consolata per 12 anni
e oggi superiore di quelli in Tanzania,
padre Giuseppe Inverardi, bresciano,
ci permette di approfondire la situazione di questo paese,
in relazione anche ad altre nazioni dell’Africa…
Il socialismo di Nyerere: successi e fallimenti.
L’importanza del kiswahili. Il dramma dell’Aids e dei ragazzi di strada.
L’azione della chiesa.

Padre Giuseppe, hai potuto girare il mondo fin da giovane. Che cos’è stato più consono alle tue aspettative?

Ho studiato teologia per quattro anni a Washington D.C. e ho lavorato per altri nove negli Stati Uniti. So di aver ricevuto molto dall’America e le sono grato delle opportunità che mi ha dato. Ma non ho mai desiderato di diventare cittadino americano. Il mio ha voluto essere un atteggiamento di apertura al mondo, un desiderio vivo di «partire», perché il mio sogno era l’Africa, senza escludere altri continenti.
Ho sempre desiderato la dimensione pastorale della missione; ma solo per due anni e mezzo ho potuto viverla in Kenya e per cinque in Tanzania. Spesso ho avuto incarichi di altro genere, fino ad oggi che ho 62 anni. Però non mi sono mai sentito frustrato. Mi ha sorretto la convinzione che la missione non è né il posto né l’attività, ma il cuore, e che essa è al «plurale»: cioè, compiuta nella diversità e organicità dei servizi.
Nel tuo servizio di superiore generale che cosa hai imparato?

Ho incontrato molte persone significative e profetiche, ad esempio: gli arcivescovi Paulo As e Luciano Mendes in Brasile, madre Teresa di Calcutta, i cardinali Joseph Malula e Edoardo Pironio (rispettivamente in Congo e Argentina), teologi di fama internazionale. E la lista potrebbe allungarsi. Il contatto con queste e altre persone ti consente un’analisi nuova della realtà, ti apre orizzonti sconfinati e ti lascia un’impronta. Sono ricordi indimenticabili.
Ho partecipato a numerosi incontri importanti, inclusi quelli dei superiori generali degli istituti missionari. Uno tra i più emozionanti: l’accordo di pace tra Frelimo e Renamo in Mozambico, presso la comunità di S. Egidio a Roma… Ho conosciuto la complessità delle situazioni dei paesi visitati e del mondo in generale. Ho avvicinato e apprezzato culture e popoli diversi, nonché una chiesa cattolica dalle espressioni più varie.
Ovviamente il mio ministero era rivolto soprattutto ai fratelli missionari, ai quali riservavo il mio tempo. Da loro ho imparato che cosa significa essere evangelizzatori nelle situazioni più disparate, remote e difficili: la guerra civile e i sequestri di padri e suore in Mozambico, lo snervante stato di apartheid in Sudafrica, lo Zaire defraudato da Mobutu, la lotta continua in Brasile per i diritti degli indios yanomami e macuxí, la guerriglia e il dramma della coca in Colombia, ecc.
Ho capito che l’atteggiamento più valido è la vicinanza, la frateità, la comprensione. Non ho mai preteso di essere maestro di missione: mi sono considerato un alunno, con il desiderio di comprendere la realtà e di amare i missionari. Ho colto il mistero della persona nei risvolti belli e meno belli. Ho appreso che il silenzio è spesso più valido della parola. Ho pure imparato a soffrire per decisioni difficili.

Pensando agli ultimi 30 anni, vedi prevalentemente dei progressi o dei regressi nell’Africa in generale?

Il progresso è visibile: africani intelligenti, capaci e sapienti in posizione di responsabilità a livello nazionale e mondiale; nazioni con più scuole e università, ospedali, città cresciute, strade asfaltate, mezzi di comunicazione più diffusi, gente che veste meglio, una dieta più ricca, più automobili, e così via.
Ma c’è anche un regresso. Il sogno che, con l’indipendenza, le nazioni dell’Africa avrebbero avuto un cammino di continua crescita e di auto nomia economica si è infranto, lasciando una sensazione di sfiducia. Oggi esiste la consapevolezza che è impossibile per il continente tenere il passo dei paesi sviluppati. Questa è, forse, la più grave povertà.
Il regresso lo si vede nelle nuove guerre etniche e nelle quasi-dittature, nel numero dei rifugiati, nella decadenza generalizzata delle strutture scolastiche e sanitarie. La capacità di acquisto della moneta locale è minore rispetto ad anni fa. La giustizia è difficile da ottenersi, la corruzione è un cancro dilagante, l’Aids è un flagello con risvolti sociali immensi. Manca la pratica di un’amministrazione seria e onesta. Soldi che vengono deviati e rubati…
Problemi immani nei confronti dei quali ti senti impotente. Se fai qualcosa, avverti che è solo una goccia.

Nei paesi africani anglofoni ho notato, da parte degli studenti, un calo nella comprensione della lingua matea. Che ne pensi?

In Kenya l’inglese è parlato molto, perché la percentuale di chi frequenta la scuola secondaria è alta. In Tanzania la percentuale è molto bassa; qui inoltre il kiswahili è stato privilegiato: un fattore che ha avuto e ha grande importanza nell’unire la nazione ancora oggi, perché gli studenti e gli ufficiali governativi vengono spostati da un angolo all’altro del paese.
Il kiswahili è un patrimonio irrinunciabile: con la conseguenza, tuttavia, di staccarsi da un mondo globalizzato, che fa sempre più uso dell’inglese. La questione è dibattuta sui giornali. Sarebbe da miopi non guardare al futuro. Non per nulla parecchi mandano i figli a studiare in paesi anglofoni e molte scuole private danno priorità all’inglese come strumento di istruzione e comunicazione.

Che cosa puoi dire della situazione generale del Tanzania?
Colpisce il dato che questo è forse l’unico paese dell’Africa che non ha avuto guerre: il Tanzania è sereno fin dall’indipendenza. Può essere il frutto sia della politica di Nyerere sia del fatto che non c’è una tribù decisamente superiore e più forte delle altre. Ci sono pace e unità.
I missionari spesso commentano: «È persino una pace troppo… pacifica, senza voci che protestano contro le ingiustizie». La giustificazione data è: nel paese i conflitti non vengono risolti con la denuncia e la violenza, ma con il dialogo, l’intesa e la cooperazione tra stato e chiesa.

Ma ci vorrebbero altri «Nyerere»! Come giudichi quest’uomo a poco più di un anno dalla sua morte?

Nyerere ha avuto un grande significato politico nell’unire la nazione, nell’avere una visione e un programma da proporre. Qualcuno ha detto che era troppo idealista ed evangelico. Infatti l’ujamaa, come sistema economico, non ha funzionato e, come ogni forma di socialismo, sembra avere generato una persistente apatia: ancora oggi non è facile parlare di cooperazione, di lavoro d’insieme. Prevalgono individualismi e interessi personali.

La visione di Nyerere era nitida, ma il Tanzania è povero: non ha ricchezze del sottosuolo, un problema grave per una nazione che nasce. Fin dall’indipendenza è stato aiutato dai paesi nordici dell’Europa e da altri. Allo stesso tempo, però, Nyerere sottolineava il kujitegemea o «autosufficienza» e rifuggiva dal gioco capitalistico. Chi è venuto dopo di lui ha cambiato rotta, con il risultato di creare classi sociali in conflitto, specie nelle città.

Indubbiamente la statura politica e morale di Nyerere è grande. Ha lasciato al paese un’eredità di unità e pace. La sua visione andrebbe rivisitata e applicata ai nuovi tempi.

Dopo il cattolico Nyerere, la presidenza è passata al musulmano Mwinyi. Cosa è successo?

C’è stato un netto favoreggiamento degli appartenenti all’islam, che – si afferma – venivano messi in posti di responsabilità, indipendentemente dalla loro preparazione. È seguita una politica di apertura verso i paesi arabi. Forse la gente se n’è accorta poco; ma, se la situazione fosse continuata, oggi avremmo un Tanzania dal volto musulmano, non consono alla realtà numerica dell’islam.

E l’attuale presidente?

Mkapa è cattolico, ed è dello stesso partito di Nyerere, il «Partito del la rivoluzione». Govea una nazione tra le più povere del mondo, priva di risorse e indebitata per circa 7 miliardi di dollari. È chiamato ad intervenire con urgenza su tre fronti: sanità, educazione e pagamento del debito estero; ma anche ad eliminare la corruzione. Lo promise qualche anno fa e stabilì una commissione ad hoc. Ma non si vedono i frutti, anzi!
In seguito al giubileo, il Tanzania ha ottenuto il condono di una parte del debito, purché la somma condonata sia devoluta ai servizi sociali. È un processo difficile, che avrà certamente i suoi vantaggi, ma non così immediati come si vorrebbe.

Perché non decolla l’industria?

Forse perché all’inizio Nyerere ebbe dei dubbi sugli investimenti esteri e la sua scelta prioritaria fu l’agricoltura, che oggi è di sussistenza; forse perché il governo pone condizioni troppo pesanti a chi vuol investire… temendo che i profitti volino all’estero. Anche così, circa 20 anni fa, nacquero delle aziende, ma ora la maggioranza di esse sono chiuse.
Il vuoto industriale genera mancanza di lavoro. È uno dei problemi più gravi del Tanzania. Non ci sono prospettive. Per chi studia e si prepara alla vita, anche all’università, questa è un’amara constatazione.

Da chi è maggiormente aiutato il Tanzania e con quale scopo?

Fin dai tempi di Nyerere – come hai ricordato -, i donatori più generosi di personale e mezzi sono stati i paesi del Nord Europa. Sono presenti in tanti campi: salute, agricoltura, ecologia, forestazione, preparazione e aggioamento del personale. Credo che siano due i motivi di tale disponibilità: l’affinità ideologica socialista e il desiderio di venire incontro alla povertà del paese. Poiché dubito che la seconda motivazione sia del tutto pura, sarebbe interessante sapere il prezzo che il Tanzania deve e dovrà pagare in futuro.

Rispetto ai tempi di Nyerere, oggi il paese è ancora più povero. Come vive la gente?
Di un’economia di pura sussistenza. In alcune regioni la siccità è endemica e la carestia è di casa; per cui l’agricoltura non soddisfa i bisogni della gente ed anche la sussistenza molte volte non c’è. Con questa economia è difficile educare i figli. Teoricamente la scuola è gratis, ma in realtà vengono continuamente sollecitati dei contributi: per i banchi, le costruzioni nuove, i quadei, gli esami, ecc. E la percentuale della popolazione scolastica è scesa.
Anche per quanto riguarda la sanità, il servizio dovrebbe essere gratuito. Però, se vai al dispensario governativo, le medicine non ci sono; e, per andare ai dispensari privati, spesso non hai i soldi. Così si vive alla giornata, senza possibilità di risparmio. I salari sono bassi e il governo ha già più volte dichiarato che non può aumentarli, perché lui stesso è il primo a non poterli pagare. Infatti, spesso, per gli impiegati governativi ci sono lunghi ritardi nel percepire il salario.

Nyerere aveva creato i villaggi «ujamaa». Di tali villaggi cosa rimane oggi?

Il mwalimu Nyerere aveva radunato la gente in villaggi per facilitare i servizi a tutti. Ci furono delle forzature ingiuste, che in alcune località resero odiosa l’operazione e crearono malcontento. Oggi rimane una struttura in virtù della quale ogni villaggio ha un’autorità governativa e di partito, la scuola elementare e il dispensario in molti casi. L’alfabetizzazione per tutti è uno dei grandi meriti di Nyerere.

Come funzionano i mass-media?

I giornali principali sono quattro: due in kiswahili e due in inglese. Vi sono altri organi di cronaca, ma senza indirizzo politico. Due giornali e la radio sono espressione del governo. La televisione è molto povera di programmi. Quasi inesistente internet. Il paese è, quindi, tagliato fuori dalla comunicazione globale.

Che percezione ha il tanzaniano del mondo? Come reagisce, ad esempio, vedendo i turisti?

I turisti non sono molti in Tanzania. Mancano infrastrutture, escluso un po’ il nord a motivo dei parchi nazionali. Non c’è una presenza di massa; per cui non si può parlare di impatto sulla gente. Invece a Zanzibar, negli ultimi cinque anni, sono stati costruiti 70 hotel. Il turismo si limita soprattutto a quest’isola e, meno, a Dar es Salaam. Ci sono voli diretti tra le città europee e Zanzibar. L’anno scorso i turisti furono circa 215 mila.
Quello del turismo è, in ogni caso, un mercato incerto. Prima delle elezioni del novembre scorso, i turisti avevano paura di venire; ora il timore continua, perché la situazione politica in generale è molto critica. Ci sono state bombe e almeno due hotel bruciati. Questo è controproducente, perché i turisti si guardano bene dal venire. Come si sa, poi, i profitti ritornano soprattutto alle compagnie di viaggio e ai paesi da dove provengono i turisti stessi.
Le Organizzazioni non governative aiutano il paese?

Ce ne sono molte e il governo cerca di controllarle e cornordinarle. Però si sente dire che tante nascono più per interessi privati che per aiutare la popolazione. Recentemente sono state soppresse una cinquantina di Ong.

Si può dire che la gente vive la povertà in modo dignitoso?

Oso dire che tutto è dignitoso nell’africano… Subisce dignitosamente anche la povertà, perché ha una capacità immensa di sopportazione del dolore e delle traversie varie. Ma ciò non toglie che sia un peso.
È un peso quando i genitori non possono educare i loro figli, quando mancano i denari per le medicine… quando vai all’ospedale e non ti curano, quando giunge il tempo della semina e non hai due soldi per il concime, quando vendi i prodotti a prezzi irrisori, quando i mezzi di trasporto sono scarsi, quando la malaria ti aggredisce più volte e ti debilita!
Per me è un mistero come l’africano possa vivere in certe situazioni e… sorriderti come se nulla fosse. Che le necessità siano innumerevoli, a livello personale e comunitario, lo testimonia il numero di richieste di aiuto.

Quali sono le priorità d’intervento dei missionari della Consolata per venire incontro alle necessità del paese?

Da tempo gestiamo un ospedale a Ikonda, nell’Ukinga, una zona remota. Legata alle esigenze dell’ospedale, è nata una scuola per infermiere, riconosciuta dallo stato. Da tanti anni a Mafinga è attiva un’importante scuola secondaria, che è anche una Boarding School, cioè un collegio.
Ancora: nella città di Iringa sono nati la Faraja House (casa della consolazione) e il Consolata Vocational Centre, che è una scuola professionale. La Faraja House accoglie i ragazzi di strada; la scuola professionale è per loro ed altri ragazzi. Queste opere sono a carattere regionale e assorbono molte risorse, anche finanziarie.
Poi ogni missione ha le sue strutture, che riguardano educazione, salute, acqua… Da sempre consideriamo lo sviluppo parte integrante dell’evangelizzazione. La vicinanza alla gente è una nostra caratteristica fin dagli inizi della nostra presenza in Africa (Kenya).

«Ragazzi di strada»? Pensavo che in Africa un ragazzo, orfano di entrambi i genitori, fosse facilmente assorbito dalla famiglia estesa…

Certamente era così nel passato e in alcuni luoghi continua ad esserlo. Ma, in seguito all’Aids, il numero degli orfani è cresciuto in modo tale da rendere impossibile a molte famiglie di assorbirli, avendo già grosse difficoltà a crescere i propri figli. Pertanto molti orfani fanno della strada la loro casa: vivono in bande, si danno al furto e alla droga leggera.

Quali sono gli aspetti positivi della chiesa in Tanzania?

Ricordo i più evidenti.
1) La struttura delle «piccole comunità cristiane». È una realtà capillare, un’autentica benedizione, feconda di frutti. A differenza delle comunità di base dell’America Latina, quelle tanzaniane non hanno un carattere sociale, ma solo di preghiera e riflessione sulla parola di Dio. Si desidererebbe che avessero anche un impatto sociale. Tuttavia sono una fonte di ministeri, una opportunità di aiuto vicendevole e una sorgente di istanze per l’intera parrocchia. Tutto passa attraverso le «piccole comunità».
2) L’impegno dei laici (incominciando dai catechisti) è ammirevole. I consigli parrocchiali sono presenti anche nei villaggi. E sono i laici che portano avanti tutte le varie attività e stimolano la crescita della comunità. C’è sete di formazione. Anche le associazioni sono vive e attive.
3) L’attività della chiesa nel campo sociale. Nessuna area di bisogno esula dal suo interesse. Si prodiga con generosità e successo.

Julius Nierere – Il “Gandhi” dell’Africa nera

IL «GANDHI» DELL’AFRICA NERA

L o chiamavano «mwalimu», maestro. Laureato in pedagogia in Inghilterra, si era dedicato all’insegnamento: maestro nella primaria e maestro di vita poi per tutta l’Africa, che voleva liberata senza spargimento di sangue.
Determinanti sono state le sue mediazioni per portare la pace in Sudafrica, Mozambico… Ha liberato il Tanzania con una precisa tattica: esercitando ogni sorta di pressione non violenta sugli inglesi e alle Nazioni Unite, per ottenere autogoverno e indipendenza. Lui, il «Gandhi» dell’Africa nera.
Ha fondato il partito Tanu (Tanganyika African National Union) con il programma Uhuru na umoja (libertà e unità). Ha creato vincoli di amicizia tra le 120 tribù del paese, facendo appello all’unità nazionale, più forte dei vincoli etnici; ha favorito la lingua kiswahili come fattore di coesione nazionale; ha saputo trarre vantaggio dalle tensioni delle «tribù» europee (inglesi, tedeschi e greci), per farsi ascoltare dagli inglesi che accettarono di ritirarsi dal Tanzania senza rappresaglie né sabotaggi. Diventato presidente, non cambiò stile di vita: viveva i principi che insegnava, basati su una particolare forma di socialismo, mirante a raggruppare la gente in villaggi per vivere una vita sociale in forma di cornoperativa, dove tutti potessero interessarsi e partecipare al bene comune, con l’aiuto dello stato nelle grandi opere: strade, acquedotti, ospedali.
Viveva modestamente. Lo posso testimoniare in seguito ad un significativo incontro avuto con lui. Avevo intervistato padre Walsh, dei Padri Bianchi, cappellano degli universitari e direttore spirituale di Nyerere. Grazie a questo missionario, potei incontrare il presidente nella sua casa, semplice e dignitosamente povera. Finito il colloquio, egli stesso ci accompagnò all’università di Dar es Salaam, guidando la sua modesta automobile. Edificante il colloquio sul rapporto tra fede e politica.
Fede in Gesù Cristo: appena poteva, partecipava all’eucaristia inginocchiato tra i ragazzi. Fu anche visto in fila, davanti al confessionale.
Fede nell’uomo, nella sua sostanziale bontà: da qui la scelta di spingere i tanzaniani a vivere con un ideale fin troppo elevato per le deboli forze di queste popolazioni, da sempre chiuse entro i limitati confini delle necessità quotidiane.
Q ualcuno lo chiamava «il maestro rosso», specie per i suoi precisi interventi contro la corruzione di coloro che il popolo aveva argutamente ascritto alla «tribù» dei «Wabenzi», cioè di quanti potevano permettersi il lusso di girare su costosissime Mercedes Benz! Aveva promulgato «il codice dei dirigenti», per impedire ai ricchi di percepire due stipendi.
La gente aveva un’estrema fiducia in lui; per cui lo seguì sulla strada di una riforma che intendeva dare al paese un indirizzo socialista, tipicamente africano, non marxista, alieno dalla lotta di classe, basato sul tradizionale collettivismo rurale e legato alla cultura del passato. «Giustizia, uguaglianza, dignità»: erano i cardini del socialismo e dell’autogestione, proclamati nella famosa dichiarazione di Arusha (1967).
Il suo socialismo si chiamava «ujamaa», termine kiswahili che significa «stato di famiglia». Nyerere sognava che l’intero Tanzania diventasse una famiglia. Cominciò la campagna di nazionalizzazione. Nello stesso tempo nacquero le cornoperative di produzione e consumo autogestite ed autornamministrate. Bellissimo l’ideale. Deboli gli uomini chiamati a metterlo in pratica.
S i parlò di disastro, di completo fallimento. I forti e contrastanti interessi economici, i boicottaggi, le invidie, l’estrema povertà del paese, la mancanza di preparazione e di incentivi personali; poi anche l’aumento del prezzo del petrolio, la guerra contro l’Uganda di Amin…
I malcontenti portarono ad un tentativo di colpo di stato. Quando Nyerere incontrò colui che progettava di destituirlo, gli mise un fucile in mano e lo invitò a sparargli: era disposto a morire se ciò fosse servito ad evitare un bagno di sangue per la sua gente.
Quando, nel 1984, si accorse che c’erano tensioni e rischi di aggravamento delle proteste separatiste, spontaneamente lasciò la presidenza al musulmano Mwinyi. Egli, convinto cattolico, parlò in favore del suo successore, per cementare tutto il paese e facilitare così la transizione del potere.
Si ritirò nel suo villaggio a coltivare la terra e a fare il catechista, lasciando tali occupazioni solo quando percepiva di poter essere ancora utile come mediatore di pace presso popolazioni travagliate dalla guerra.
Valentino Salvoldi

aa.vv




Io sono perchè, noi siamo

L’ Africa non cessa di sorprendere. Nonostante i crescenti problemi, fa di tutto per sopravvivere, anzi per danzare la vita.
Lo scorso anno, in Etiopia, per un corso di aggioamento ai religiosi e al clero, presi lo spunto da un disegno di un artista africano intitolato: «Il Cristo che ride».
Oggi in Tanzania, per sviluppare il tema della salvezza, mi avvalgo come ispirazione del presepio allestito dai missionari della Consolata nella loro casa-procura di Dar es Salaam. Si tratta di una scultura, che si dispiega in uno stupendo groviglio di corpi scolpiti nell’ebano («maconde»), plasticamente culminante in una culla: vi riposa il bambino Gesù, che si massaggia un piede con il particolare atteggiamento che prelude… al sonno. «Dormire è bello – commenta un giovane africano -, dormire e sognare».
Interessante anche l’osservazione di un missionario della Consolata su quel divino infante: «Si sta togliendo una pulce penetrante. Povero Cristo! Ha sperimentato di tutto sulla terra».
I vangeli canonici non ci parlano di pulci penetranti; forse gli apocrifi… San Paolo afferma che, attraverso la sofferenza, il figlio di Dio ha capito che cosa significa essere figlio dell’uomo. E a tutti ha offerto la salvezza.
Anche alla pulce penetrante? Se questa non viene tolta subito, porta a complicanze irreparabili. Presa in tempo, è facilmente eliminabile, come fosse uno scherzo, un gioco da bambini.

«I l sorriso» e «il massaggio del piede»: due immagini che ci parlano dell’arte di ridimensionare ogni cosa, mantenendo un sostanziale ottimismo. Questo atteggiamento, tipico di molti africani, è riscontrabile anche in Tanzania, paese dai mille problemi, sapientemente affrontati con calma uno dopo l’altro, oppure rimandati in attesa di tempi migliori… quando a Dio piacerà.
L’arte di ridimensionare tutto non va confusa con la superficialità né, tanto meno, con il cinismo. Quando il peso della sofferenza è eccessivo e il lavoro per salvare il salvabile cozza contro una serie di fallimenti, è facile scoraggiarsi e sembrare indifferenti al dolore.
Se nell’ospedale di Ikonda, nel sud del Tanzania, durante il fine-settimana muoiono otto pazienti, in prevalenza giovani e tutti a causa dell’Aids, diventa indispensabile radunare gli infermieri e cercare insieme le ragioni per motivare ancora l’impegno al servizio della vita: anziché contare i decessi, si ricordano perciò i successi ottenuti. In ospedale la gente (non abituata agli antibiotici), con poche pastiglie ritrova condizioni di vita accettabili, mentre se fosse rimasta al villaggio, priva di medicinali o con le sole cure del «dottore tradizionale» (stregone), sarebbe morta in tempi brevissimi.
Ridimensionare, in questo caso, significa trasferire tutto in una nuova dimensione: non lasciarsi sopraffare dall’angoscia e dal senso d’impotenza, ma sentirsi orgogliosi delle vite salvate o che si è tentato di salvare.
L’arte del ridimensionare è teorizzata dall’arcivescovo di Dar es Salaam, Polycarp Pengo, ed è vissuta da lui con la spontaneità di un bambino. Dice: «Bisogna ridimensionare ogni cosa, sforzandosi di vedere prevalentemente le cose belle».
Il bambino attualizza il ridimensionamento e lo mette in pratica attraverso un rito che non ho mai visto in altre parti dell’Africa. Dai tre ai sette anni, i piccoli salutano i grandi ponendo la manina sulla testa degli adulti e ripetendo più volte: «Sono ai tuoi piedi». Per lasciarsi toccare la testa, il grande deve abbassarsi al livello del piccolo e, così facendo, si ridimensiona. Forse chi è coinvolto in questo gesto non ne apprezza a sufficienza la portata. Ma, visto dall’esterno, è molto significativo.
I bambini della scuola matea l’hanno ripetuto più volte anche con me e mia nipote Maria Rosa Lorini, coautrice di questo dossier. C’è da augurarsi che non vada perduto con il passare del tempo e il sovrapporsi delle culture.

C’ è pure da sperare che i tanzaniani mantengano inalterati i valori, ribaditi con forza da Julius Nyerere, il «maestro» per antonomasia del Tanzania.
Visitiamo questo paese ad un anno circa dalla sua morte, anche con l’intento di capire quale ricordo abbia conservato la gente di quest’uomo amante della giustizia, cattolico, convinto del valore della fede, vista pure come mezzo per motivare ulteriormente l’impegno politico.
Anche Nyerere è stato un esperto nel coinvolgere i suoi concittadini nell’arte di ridimensionare tutto: per lui si basava sulla familiarità con il pensiero di Dio, la nascita e la morte. Dava per scontata la vita eterna; considerava quella terrena il bene più grande, affidatoci dal Creatore, e aiutava il suo popolo a vedere ogni realtà nella giusta prospettiva.
E, mentre non usava mezzi termini nel denunziare lo sfruttamento dell’occidente nei confronti dell’Africa, invitava i popoli del continente a convivere in pace, senza sognare l’impossibile, ma vivendo una povertà dignitosa, cercando di essere liberi, autosufficienti e capaci di governarsi gestendo con intelligenza le risorse a loro disposizione.

P iù che riportare le mie impressioni o analisi, nel presente dossier preferisco, con Maria Rosa, cedere la parola ai missionari che stanno spendendo la vita al servizio dello sviluppo integrale del Tanzania.
Abbiamo incontrato parecchi preti e suore anche avanzati in età. Ma nessuno di loro sembra preoccuparsene, e continuano a rimanere sulla breccia: annunciano il vangelo, insegnano, guidano la jeep, fanno operazioni chirurgiche, programmano costruzioni di case e ponti come se non dovessero mai morire.
Vivendo in missione, hanno imparato a ridimensionare anche la morte.
Valentino Salvoldi
Padre Giuseppe, hai potuto girare il mondo fin da giovane. Che cos’è stato più consono alle tue aspettative?

Ho studiato teologia per quattro anni a Washington D.C. e ho lavorato per altri nove negli Stati Uniti. So di aver ricevuto molto dall’America e le sono grato delle opportunità che mi ha dato. Ma non ho mai desiderato di diventare cittadino americano. Il mio ha voluto essere un atteggiamento di apertura al mondo, un desiderio vivo di «partire», perché il mio sogno era l’Africa, senza escludere altri continenti.
Ho sempre desiderato la dimensione pastorale della missione; ma solo per due anni e mezzo ho potuto viverla in Kenya e per cinque in Tanzania. Spesso ho avuto incarichi di altro genere, fino ad oggi che ho 62 anni. Però non mi sono mai sentito frustrato. Mi ha sorretto la convinzione che la missione non è né il posto né l’attività, ma il cuore, e che essa è al «plurale»: cioè, compiuta nella diversità e organicità dei servizi.
Nel tuo servizio di superiore generale che cosa hai imparato?

Ho incontrato molte persone significative e profetiche, ad esempio: gli arcivescovi Paulo As e Luciano Mendes in Brasile, madre Teresa di Calcutta, i cardinali Joseph Malula e Edoardo Pironio (rispettivamente in Congo e Argentina), teologi di fama internazionale. E la lista potrebbe allungarsi. Il contatto con queste e altre persone ti consente un’analisi nuova della realtà, ti apre orizzonti sconfinati e ti lascia un’impronta. Sono ricordi indimenticabili.
Ho partecipato a numerosi incontri importanti, inclusi quelli dei superiori generali degli istituti missionari. Uno tra i più emozionanti: l’accordo di pace tra Frelimo e Renamo in Mozambico, presso la comunità di S. Egidio a Roma… Ho conosciuto la complessità delle situazioni dei paesi visitati e del mondo in generale. Ho avvicinato e apprezzato culture e popoli diversi, nonché una chiesa cattolica dalle espressioni più varie.
Ovviamente il mio ministero era rivolto soprattutto ai fratelli missionari, ai quali riservavo il mio tempo. Da loro ho imparato che cosa significa essere evangelizzatori nelle situazioni più disparate, remote e difficili: la guerra civile e i sequestri di padri e suore in Mozambico, lo snervante stato di apartheid in Sudafrica, lo Zaire defraudato da Mobutu, la lotta continua in Brasile per i diritti degli indios yanomami e macuxí, la guerriglia e il dramma della coca in Colombia, ecc.
Ho capito che l’atteggiamento più valido è la vicinanza, la frateità, la comprensione. Non ho mai preteso di essere maestro di missione: mi sono considerato un alunno, con il desiderio di comprendere la realtà e di amare i missionari. Ho colto il mistero della persona nei risvolti belli e meno belli. Ho appreso che il silenzio è spesso più valido della parola. Ho pure imparato a soffrire per decisioni difficili.

Pensando agli ultimi 30 anni, vedi prevalentemente dei progressi o dei regressi nell’Africa in generale?

Il progresso è visibile: africani intelligenti, capaci e sapienti in posizione di responsabilità a livello nazionale e mondiale; nazioni con più scuole e università, ospedali, città cresciute, strade asfaltate, mezzi di comunicazione più diffusi, gente che veste meglio, una dieta più ricca, più automobili, e così via.
Ma c’è anche un regresso. Il sogno che, con l’indipendenza, le nazioni dell’Africa avrebbero avuto un cammino di continua crescita e di autonomia economica si è infranto, lasciando una sensazione di sfiducia. Oggi esiste la consapevolezza che è impossibile per il continente tenere il passo dei paesi sviluppati. Questa è, forse, la più grave povertà.
Il regresso lo si vede nelle nuove guerre etniche e nelle quasi-dittature, nel numero dei rifugiati, nella decadenza generalizzata delle strutture scolastiche e sanitarie. La capacità di acquisto della moneta locale è minore rispetto ad anni fa. La giustizia è difficile da ottenersi, la corruzione è un cancro dilagante, l’Aids è un flagello con risvolti sociali immensi. Manca la pratica di un’amministrazione seria e onesta. Soldi che vengono deviati e rubati…
Problemi immani nei confronti dei quali ti senti impotente. Se fai qualcosa, avverti che è solo una goccia.

Nei paesi africani anglofoni ho notato, da parte degli studenti, un calo nella comprensione della lingua matea. Che ne pensi?

In Kenya l’inglese è parlato molto, perché la percentuale di chi frequenta la scuola secondaria è alta. In Tanzania la percentuale è molto bassa; qui inoltre il kiswahili è stato privilegiato: un fattore che ha avuto e ha grande importanza nell’unire la nazione ancora oggi, perché gli studenti e gli ufficiali governativi vengono spostati da un angolo all’altro del paese.
Il kiswahili è un patrimonio irrinunciabile: con la conseguenza, tuttavia, di staccarsi da un mondo globalizzato, che fa sempre più uso dell’inglese. La questione è dibattuta sui giornali. Sarebbe da miopi non guardare al futuro. Non per nulla parecchi mandano i figli a studiare in paesi anglofoni e molte scuole private danno priorità all’inglese come strumento di istruzione e comunicazione.

Che cosa puoi dire della situazione generale del Tanzania?
Colpisce il dato che questo è forse l’unico paese dell’Africa che non ha avuto guerre: il Tanzania è sereno fin dall’indipendenza. Può essere il frutto sia della politica di Nyerere sia del fatto che non c’è una tribù decisamente superiore e più forte delle altre. Ci sono pace e unità.
I missionari spesso commentano: «È persino una pace troppo… pacifica, senza voci che protestano contro le ingiustizie». La giustificazione data è: nel paese i conflitti non vengono risolti con la denuncia e la violenza, ma con il dialogo, l’intesa e la cooperazione tra stato e chiesa.

Ma ci vorrebbero altri «Nyerere»! Come giudichi quest’uomo a poco più di un anno dalla sua morte?

Nyerere ha avuto un grande significato politico nell’unire la nazione, nell’avere una visione e un programma da proporre. Qualcuno ha detto che era troppo idealista ed evangelico. Infatti l’ujamaa, come sistema economico, non ha funzionato e, come ogni forma di socialismo, sembra avere generato una persistente apatia: ancora oggi non è facile parlare di cooperazione, di lavoro d’insieme. Prevalgono individualismi e interessi personali.

La visione di Nyerere era nitida, ma il Tanzania è povero: non ha ricchezze del sottosuolo, un problema grave per una nazione che nasce. Fin dall’indipendenza è stato aiutato dai paesi nordici dell’Europa e da altri. Allo stesso tempo, però, Nyerere sottolineava il kujitegemea o «autosufficienza» e rifuggiva dal gioco capitalistico. Chi è venuto dopo di lui ha cambiato rotta, con il risultato di creare classi sociali in conflitto, specie nelle città.

Indubbiamente la statura politica e morale di Nyerere è grande. Ha lasciato al paese un’eredità di unità e pace. La sua visione andrebbe rivisitata e applicata ai nuovi tempi.

Dopo il cattolico Nyerere, la presidenza è passata al musulmano Mwinyi. Cosa è successo?

C’è stato un netto favoreggiamento degli appartenenti all’islam, che – si afferma – venivano messi in posti di responsabilità, indipendentemente dalla loro preparazione. È seguita una politica di apertura verso i paesi arabi. Forse la gente se n’è accorta poco; ma, se la situazione fosse continuata, oggi avremmo un Tanzania dal volto musulmano, non consono alla realtà numerica dell’islam.

E l’attuale presidente?

Mkapa è cattolico, ed è dello stesso partito di Nyerere, il «Partito della rivoluzione». Govea una nazione tra le più povere del mondo, priva di risorse e indebitata per circa 7 miliardi di dollari. È chiamato ad intervenire con urgenza su tre fronti: sanità, educazione e pagamento del debito estero; ma anche ad eliminare la corruzione. Lo promise qualche anno fa e stabilì una commissione ad hoc. Ma non si vedono i frutti, anzi!
In seguito al giubileo, il Tanzania ha ottenuto il condono di una parte del debito, purché la somma condonata sia devoluta ai servizi sociali. È un processo difficile, che avrà certamente i suoi vantaggi, ma non così immediati come si vorrebbe.

Perché non decolla l’industria?

Forse perché all’inizio Nyerere ebbe dei dubbi sugli investimenti esteri e la sua scelta prioritaria fu l’agricoltura, che oggi è di sussistenza; forse perché il governo pone condizioni troppo pesanti a chi vuol investire… temendo che i profitti volino all’estero. Anche così, circa 20 anni fa, nacquero delle aziende, ma ora la maggioranza di esse sono chiuse.
Il vuoto industriale genera mancanza di lavoro. È uno dei problemi più gravi del Tanzania. Non ci sono prospettive. Per chi studia e si prepara alla vita, anche all’università, questa è un’amara constatazione.

Da chi è maggiormente aiutato il Tanzania e con quale scopo?

Fin dai tempi di Nyerere – come hai ricordato -, i donatori più generosi di personale e mezzi sono stati i paesi del Nord Europa. Sono presenti in tanti campi: salute, agricoltura, ecologia, forestazione, preparazione e aggioamento del personale. Credo che siano due i motivi di tale disponibilità: l’affinità ideologica socialista e il desiderio di venire incontro alla povertà del paese. Poiché dubito che la seconda motivazione sia del tutto pura, sarebbe interessante sapere il prezzo che il Tanzania deve e dovrà pagare in futuro.

Rispetto ai tempi di Nyerere, oggi il paese è ancora più povero. Come vive la gente?
Di un’economia di pura sussistenza. In alcune regioni la siccità è endemica e la carestia è di casa; per cui l’agricoltura non soddisfa i bisogni della gente ed anche la sussistenza molte volte non c’è. Con questa economia è difficile educare i figli. Teoricamente la scuola è gratis, ma in realtà vengono continuamente sollecitati dei contributi: per i banchi, le costruzioni nuove, i quadei, gli esami, ecc. E la percentuale della popolazione scolastica è scesa.
Anche per quanto riguarda la sanità, il servizio dovrebbe essere gratuito. Però, se vai al dispensario governativo, le medicine non ci sono; e, per andare ai dispensari privati, spesso non hai i soldi. Così si vive alla giornata, senza possibilità di risparmio. I salari sono bassi e il governo ha già più volte dichiarato che non può aumentarli, perché lui stesso è il primo a non poterli pagare. Infatti, spesso, per gli impiegati governativi ci sono lunghi ritardi nel percepire il salario.

Nyerere aveva creato i villaggi «ujamaa». Di tali villaggi cosa rimane oggi?

Il mwalimu Nyerere aveva radunato la gente in villaggi per facilitare i servizi a tutti. Ci furono delle forzature ingiuste, che in alcune località resero odiosa l’operazione e crearono malcontento. Oggi rimane una struttura in virtù della quale ogni villaggio ha un’autorità governativa e di partito, la scuola elementare e il dispensario in molti casi. L’alfabetizzazione per tutti è uno dei grandi meriti di Nyerere.

Come funzionano i mass-media?

I giornali principali sono quattro: due in kiswahili e due in inglese. Vi sono altri organi di cronaca, ma senza indirizzo politico. Due giornali e la radio sono espressione del governo. La televisione è molto povera di programmi. Quasi inesistente internet. Il paese è, quindi, tagliato fuori dalla comunicazione globale.

Che percezione ha il tanzaniano del mondo? Come reagisce, ad esempio, vedendo i turisti?

I turisti non sono molti in Tanzania. Mancano infrastrutture, escluso un po’ il nord a motivo dei parchi nazionali. Non c’è una presenza di massa; per cui non si può parlare di impatto sulla gente. Invece a Zanzibar, negli ultimi cinque anni, sono stati costruiti 70 hotel. Il turismo si limita soprattutto a quest’isola e, meno, a Dar es Salaam. Ci sono voli diretti tra le città europee e Zanzibar. L’anno scorso i turisti furono circa 215 mila.
Quello del turismo è, in ogni caso, un mercato incerto. Prima delle elezioni del novembre scorso, i turisti avevano paura di venire; ora il timore continua, perché la situazione politica in generale è molto critica. Ci sono state bombe e almeno due hotel bruciati. Questo è controproducente, perché i turisti si guardano bene dal venire. Come si sa, poi, i profitti ritornano soprattutto alle compagnie di viaggio e ai paesi da dove provengono i turisti stessi.
Le Organizzazioni non governative aiutano il paese?

Ce ne sono molte e il governo cerca di controllarle e cornordinarle. Però si sente dire che tante nascono più per interessi privati che per aiutare la popolazione. Recentemente sono state soppresse una cinquantina di Ong.

Si può dire che la gente vive la povertà in modo dignitoso?

Oso dire che tutto è dignitoso nell’africano… Subisce dignitosamente anche la povertà, perché ha una capacità immensa di sopportazione del dolore e delle traversie varie. Ma ciò non toglie che sia un peso.
È un peso quando i genitori non possono educare i loro figli, quando mancano i denari per le medicine… quando vai all’ospedale e non ti curano, quando giunge il tempo della semina e non hai due soldi per il concime, quando vendi i prodotti a prezzi irrisori, quando i mezzi di trasporto sono scarsi, quando la malaria ti aggredisce più volte e ti debilita!
Per me è un mistero come l’africano possa vivere in certe situazioni e… sorriderti come se nulla fosse. Che le necessità siano innumerevoli, a livello personale e comunitario, lo testimonia il numero di richieste di aiuto.

Quali sono le priorità d’intervento dei missionari della Consolata per venire incontro alle necessità del paese?

Da tempo gestiamo un ospedale a Ikonda, nell’Ukinga, una zona remota. Legata alle esigenze dell’ospedale, è nata una scuola per infermiere, riconosciuta dallo stato. Da tanti anni a Mafinga è attiva un’importante scuola secondaria, che è anche una Boarding School, cioè un collegio.
Ancora: nella città di Iringa sono nati la Faraja House (casa della consolazione) e il Consolata Vocational Centre, che è una scuola professionale. La Faraja House accoglie i ragazzi di strada; la scuola professionale è per loro ed altri ragazzi. Queste opere sono a carattere regionale e assorbono molte risorse, anche finanziarie.
Poi ogni missione ha le sue strutture, che riguardano educazione, salute, acqua… Da sempre consideriamo lo sviluppo parte integrante dell’evangelizzazione. La vicinanza alla gente è una nostra caratteristica fin dagli inizi della nostra presenza in Africa (Kenya).

«Ragazzi di strada»? Pensavo che in Africa un ragazzo, orfano di entrambi i genitori, fosse facilmente assorbito dalla famiglia estesa…

Certamente era così nel passato e in alcuni luoghi continua ad esserlo. Ma, in seguito all’Aids, il numero degli orfani è cresciuto in modo tale da rendere impossibile a molte famiglie di assorbirli, avendo già grosse difficoltà a crescere i propri figli. Pertanto molti orfani fanno della strada la loro casa: vivono in bande, si danno al furto e alla droga leggera.

Quali sono gli aspetti positivi della chiesa in Tanzania?

Ricordo i più evidenti.
1) La struttura delle «piccole comunità cristiane». È una realtà capillare, un’autentica benedizione, feconda di frutti. A differenza delle comunità di base dell’America Latina, quelle tanzaniane non hanno un carattere sociale, ma solo di preghiera e riflessione sulla parola di Dio. Si desidererebbe che avessero anche un impatto sociale. Tuttavia sono una fonte di ministeri, una opportunità di aiuto vicendevole e una sorgente di istanze per l’intera parrocchia. Tutto passa attraverso le «piccole comunità».
2) L’impegno dei laici (incominciando dai catechisti) è ammirevole. I consigli parrocchiali sono presenti anche nei villaggi. E sono i laici che portano avanti tutte le varie attività e stimolano la crescita della comunità. C’è sete di formazione. Anche le associazioni sono vive e attive.
3) L’attività della chiesa nel campo sociale. Nessuna area di bisogno esula dal suo interesse. Si prodiga con generosità e successo.
«Batti il tamburo,
non i bambini!»

Q uesto è lo slogan che padre Franco Sordella e i bambini della Faraja House hanno scelto per l’inaugurazione della loro nuova scuola elementare nel settembre scorso. La Faraja House (casa della consolazione) è un centro nella città di Iringa per ragazzi difficili: in maggioranza provenienti dalla strada e parecchi orfani. Ognuno con il suo bagaglio di abbandono, violenza, miseria.
Il progetto (uno dei tanti realizzati dai missionari della Consolata) è iniziato dal nulla tre anni fa. Oggi consta di due settori: il primo, «ragazzi di strada» per la riabilitazione; il secondo, per l’avviamento professionale anche di minori che non vivono nella Faraja House. Il tutto è quasi un villaggio: comprende dormitori, refettori, cucine, laboratori, dispensario e la scuola tecnica, che annovera 60 ragazzi. Con gli altrettanti bambini della Faraja House, si raggiunge un totale di 120.
Ma ci sono anche i frequentatori della domenica: ragazzini che sopravvivono lavorando al mercato e vivendo in «tane» (ad esempio, presso i mucchi di crusca dietro i mulini). Ad essi, «il dì di festa», viene offerto un buon pasto e la possibilità di lavarsi e di non restare analfabeti.
Oggigiorno anche le scuole governative sono a pagamento: perciò pochi sono i bambini che hanno la possibilità di frequentarle. Nel paese scarseggiano strutture e maestri: così non bisogna stupirsi se, entrando in una classe, si trovano anche 100 allievi, che devono solo rimanere seduti e buoni, presente o meno l’insegnante, se non vogliono essere castigati.
Accanto al «problema scolastico», sta aumentando anche il numero di bambini che, come Issa, rimangono orfani a causa dell’Aids. Issa (Gesù) è stato accolto nella Faraja House a natale.
Visto che Gesù bambino fu rifiutato, perché – si sono detti i missionari – non cercare in città il ragazzo più abbandonato e solo? Uno di quelli che dormono nascosti per paura di essere picchiati o abusati dai più grandi… e dargli una famiglia? È saltato fuori Issa, che ha trovato finalmente casa, ma anche chiesa, scuola e lavoro.
Già, lavoro. Non bisogna stupirsi se, nella Faraja House, la prima cosa che si compra all’inizio della scuola non sono i libri, ma la zappa. L’importante è che il lavoro non diventi l’unico riferimento a scapito dell’istruzione e, soprattutto, che gli insegnanti non costringano i ragazzi a lavorare nei loro campi tutto il giorno sotto la minaccia del bastone.

M entre la Faraja House ospita bambini di strada, per i ragazzi che cercano un lavoro (in particolare le ragazze) è stato creato il Centro «Stella del mattino», anch’esso nel territorio di Iringa. Costruito e gestito dai missionari della Consolata, «Stella del mattino» ospita 60 adolescenti provenienti da villaggi dove non esistono le strutture necessarie per l’istruzione.
Il sistema educativo del Centro è «studio e lavoro»: lo stesso che vige nelle scuole statali fin dai tempi dell’ujamaa. La filosofia pedagogica di base enfatizza «l’importanza di trasmettere ai ragazzi le conoscenze che possano situarli in una buona posizione sociale e renderli cittadini capaci di autoguidarsi e portare il loro popolo fuori dalla povertà e dall’ignoranza» (J.T.K. Ulimwengu, capo editore Rai/Mtanzania).
Nel Centro si punta all’autosostentamento: sia per non dover dipendere da aiuti estei, sia per rendere più consapevoli i giovani. Qui essi possono mantenersi allevando animali, coltivando i campi e, nello stesso tempo, formandosi culturalmente per far fiorire domani tutte le potenzialità che la nazione possiede. In Tanzania nel 1996, durante il seminario organizzato dal «Centro per l’energia, lo sviluppo, la sicurezza e la tecnologia», si discusse sul deterioramento del livello qualitativo dell’educazione. Se nelle scuole primarie il problema maggiore è legato al sovrannumero, alle secondarie (dove il numero degli studenti è contenuto a causa della selezione per merito) la violenza sessuale costituisce il principale fattore di ingiustizia e continua ad essere al centro di dibattiti e della cronaca locale.
Il Ministro dell’educazione ha rivelato che, tra il 1995 e il 1998, 12.721 ragazze furono espulse dalla scuola poiché incinte. Anche da parte degli insegnanti.

HO VSTO LA BONTA’ LIBERATRICE

«Abbiamo visto i miracoli dell’amore» potremmo intitolare un libro, se volessimo narrare ciò che uomini e donne di Dio, preti e suore locali, missionari e laici, stanno realizzando a favore dei più poveri nei più remoti angoli della terra, là dove manca tutto: acqua, cibo, strade, ospedali, scuole.
La jeep s’inerpica sui monti a sud della Tanzania, oltre i 2 mila metri: antichi tratturi trasformati in «strade», che si possono affrontare durante la stagione secca, ma che si convertono in rovinosi torrenti durante i sei mesi delle piogge. Nonostante si creda che quattro ruote motrici possano fare miracoli, sovente ci s’impantana al punto da non potersi più muovere.
E quelle zone che sembravano deserte, d’un tratto si animano di persone che sbucano da ogni angolo, si organizzano in breve tempo e rimettono la macchina in condizione di riprendere il viaggio. È uno dei volti della solidarietà africana, una dimostrazione che l’antica massima vale ancora: «Io sono, perché noi siamo». Non si contano i saluti, i complimenti e i ringraziamenti, anche se qualcuno afferma che non è conveniente ringraziare perché, come dicono soprattutto i musulmani, «chi ha una ricompensa in terra non l’avrà in paradiso».
Da Njombe – dove finisce la strada asfaltata – a Ikonda, per percorrere 70 chilometri impieghiamo più di tre ore. Fortunatamente da alcuni giorni non piove. Intoo a noi spazi immensi e verde… verde dappertutto: siamo nella stagione delle piogge. Le poche abitazioni che si scorgono sono in terra rossa e hanno il tetto di paglia, dal quale fuoriesce fumo. Il cibo è cotto in pentole appoggiate su tre pietre, che costituiscono il focolare, per terra, in mezzo all’abitazione «multiuso». E il cibo è tutti i giorni uguale: polenta e fagioli.
Lo stesso cibo ci viene offerto dai parenti degli ammalati nell’ospedale di Ikonda. Quando la struttura venne ultimata, fu chiesto ai capi dei wakinga e wabena (etnie locali) come dovesse essere l’ambiente affinché i degenti si sentissero più a loro agio. Risposta: una grande stanza aerata, dove ognuno posa le sue tre pietre, simbolo dell’unità familiare, sulle quali cuoce la solita farina di mais. È meglio non cambiare troppo le abitudini delle persone. Poi toeranno al loro villaggio…
Ogni tanto suor Magda porta ai bambini un uovo oppure, alle mamme, un po’ d’olio per condire le patate bollite quando ci sono. La malnutrizione non aiuta certamente la guarigione.
L’ospedale è gestito dai missionari della Consolata. Può ospitare 200 ammalati e vi lavorano tre medici africani e tre spagnoli. Attualmente è il governo spagnolo a fornire i fondi per il funzionamento della scuola-infermiere e per la formazione degli assistenti medici; ma il personale competente è insufficiente. L’organizzazione Medicus Mundi cerca costantemente volontari, e si può contare sulla presenza di persone disposte a spendere qualche anno della loro vita per gli altri.

Fra le malattie (che richiedono il ricovero in ospedale) nel 1995 al primo posto c’era la malaria, passata poi al secondo. Oggi è l’Aids che detiene il triste primato: lo è anche nella classifica dei decessi. Nell’ospedale abbiamo sfogliato il voluminoso registro dei pazienti che fanno il test dell’Hiv.
Il fatto che tante persone vi si sottopongono significa che hanno comportamenti a rischio, o che vivono in ambienti dove il contagio può essere frequente, oppure che manifestano già alcuni sintomi. Orbene: ogni pagina del registro reca 18 nomi; quelli scritti in rosso sono «sieropositivi»; solo due (a volte tre) i nomi in nero, cioè i «negativi».
Nella regione di Iringa-Njombe la trasmissione dell’Aids è particolarmente accentuata anche a causa del lavoro «offerto» dalla Brooke Bond, multinazionale del tè. Il lavoro si protrae per 11-12 ore al giorno, anche sotto la pioggia, per una paga mensile che varia da 90.000 a 150.000 lire, a seconda della quantità di foglie raccolte.
I lavoratori, immigrati stagionali per la raccolta, vivono nelle casette degli accampamenti costruiti dalla compagnia, isolati. Ovunque ci sono contadini che non lavorano «in proprio», costretti anche a comprare il cibo (per lo più proveniente dal campo del manager). Non essendoci alcun diversivo, sono facile preda dell’alcornol e della promiscuità.
All’ospedale di Kibao (della Brooke Bond) risulta che 9 operai su 10 sono affetti da Hiv positivo. Quando la malattia comincia a manifestarsi, viene loro corrisposta una piccola liquidazione e sono licenziati. Con l’aggravante che, non essendo stati informati della natura e della pericolosità del male, tornando al villaggio, contagiano chi vi è rimasto. La compagnia del tè ha pensato di risolvere il problema così: un’ora settimanale di istruzione sull’uso di profilattici e sull’importanza di anticoncezionali e abortivi. Nessun accenno viene fatto agli effetti collaterali che, usando i farmaci Depoprovera e Norplan, comportano rischi elevati. Non a caso, nel Nord del mondo, tali farmaci sono stati banditi. E non solo perché, con il passare del tempo, causano sterilità nelle donne.
Se nei centri sanitari governativi non fossero praticate regolarmente «certe» iniezioni, il paese non riceverebbe più gli aiuti dall’estero. E questo sistema sta distruggendo l’«orgoglio delle tanzaniane». Una donna, infatti, diventa tale solo dopo aver partorito il primo figlio: da quel momento sarà «la mamma di…». Col tempo, il ricorso sommario a contraccettivi distruggerà la fertilità di un’intera popolazione.
Inoltre negli ospedali governativi, al momento del parto, soprattutto se c’è stato un cesareo o in seguito a complicazioni, spesso sono i medici a decidere indiscriminatamente, senza chiedere il consenso di alcuno, di chiudere le tube delle giovani madri. Queste vengono a scoprirlo soltanto in seguito quando, vedendo che non arrivano altri figli, effettuano visite di controllo, magari negli ospedali dei missionari.
Una tanzaniana, confidandosi con una missionaria della Consolata, ha commentato: «Noi abbiamo molta più fiducia nei vostri ospedali, perché qui c’è il timore di Dio, mentre in quelli del governo c’è solo il timore della nazione».
Maria Rosa Lorini

Maria Rosa Lorini