KENYA, AMORE NOSTRO
Corruzione e povertà
Nel paese di Kenyatta e Moi
Il prossimo dicembre in Kenya
ci saranno le elezioni presidenziali.
Esse potrebbero sancire la fine
del lunghissimo «regno» di Daniel Arap
Moi, salito al potere nel 1978, subito
dopo la morte di Jomo Kenyatta,
il «padre della patria».
Il nuovo presidente troverà un paese
con enormi problemi: in primis,
una crescente povertà. Ma anche
corruzione, violenza e la piaga
dell’Aids.
A MOI NON BASTANO
I FENICOTTERI
IL KENYA OGGI politica, economia, società
Daniel Arap Moi, da 24 anni presidente-padrone del Kenya,
tra qualche mese forse lascerà le redini del paese.
Successore di Jomo Kenyatta (il padre della patria),
Moi è riuscito a costruire uno stato politicamente stabile,
ma economicamente e socialmente debolissimo, oltre che
corroso da una radicata corruzione. Le esportazioni
agroalimentari (in mano alle multinazionali) e il turismo
occidentale (spesso devastante) non bastano a sollevare
le sorti di un’economia che non riesce a sfamare
una fetta rilevante dei suoi 30 milioni di abitanti.
A COME AFRICA
Il Kenya non è uno stato africano
soltanto in ragione della sua collocazione
geografica, ma anche e soprattutto
perché dell’Africa presenta
tutti i connotati tipici, in particolare
quelli meno invidiabili: fame,
siccità, deforestazione, malattie,
Aids, corruzione dilagante, degrado
sociale, delinquenza.
Una situazione decisamente diversa
da quella idilliaca (e anche un
po’ patealistica) descritta da Karen
Blixen, la scrittrice danese che
in Kenya visse per 15 anni.
«Intoo a noi – scrive la Blixen
nel suo libro più famoso (La mia Africa)
– s’apriva un paesaggio unico.
A sud, fino al Kilimangiaro, le vaste
pianure della grande zona di caccia;
a ovest e a nord la falda delle colline
che parevano un parco, con dietro
le foreste; più in là, fino al monte
Kenya, la terra tutta ondulata della
riserva kikuyu, lunga più di 150 chilometri,
un mosaico di piccoli campi
di mais, quadrati, boschetti di banani
e terre da pascolo, con qua e là
il fumo azzurrino di un villaggio indigeno,
tutto cucuzzoli, come un
grappolo di tane da talpa».
Chissà cosa pensava della scrittrice
(morta nel 1962, un anno prima
dell’indipendenza del paese) Jomo
Kenyatta, il padre della nazione
kenyana.
C COME COLONIZZATORI
«Gli europei – scrive Kenyatta nella
conclusione del suo libro (pubblicato per la prima volta a Londra
nel 1938 con il titolo di Facing
Mount Kenya) (1) – hanno certo alcune
idee progressiste: l’idea di benessere
materiale, di medicina, di igiene
e di alfabetizzazione che permette
alla gente di partecipare alla
cultura mondiale. Tuttavia fino ad
ora gli europei che hanno visitato
l’Africa non si sono mostrati particolarmente
zelanti nell’impartire
questi elementi del loro retaggio culturale
agli africani, e sembrano pensare
che l’unico modo per farlo sia
con la forza armata e la repressione
poliziesca. Parlano come se per un
africano fosse in qualche modo un
bene lavorare per loro invece che
per sé, e per assicurarsi che goda di
questo privilegio (notare il sarcasmo
dell’autore, ndr), fanno del loro meglio
per portargli via la terra e non
dargli alcuna alternativa. Assieme
alla sua terra, lo spogliano del suo
governo, condannando le sue idee
religiose, ed ignorando le sue concezioni
fondamentali di giustizia e
morale, il tutto in nome del progresso
e della civiltà».
La divisione internazionale del lavoro
ereditata dal periodo coloniale
non solo è rimasta inalterata, ma
è stata addirittura rafforzata dalla
classe dirigente locale dell’era postcoloniale.
Ciò fa sì che il paese continui
a produrre ed esportare materie
prime e prodotti primari e ad importare
prodotti lavorati. In altri
termini, il Kenya, come tutti gli altri
paesi africani, «produce ciò che non
consuma e consuma ciò che non
produce» (2).
L’importante non è dare cibo e sicurezza
al popolo kenyano, bensì rispettare
gli impegni finanziari inteazionali,
che richiedono valuta pregiata
ottenibile soltanto con le
esportazioni. Questa è la conseguenza
di un sistema totalmente
strutturato sui principi neoliberisti
e sottoposto alle rigide direttive della
Banca mondiale e del Fondo monetario
internazionale (3).
Che producono anche altre conseguenze.
M COME MULTINAZIONALI
Come tutti i paesi, anche il Kenya
ha dovuto sottomettersi ad un ricatto,
che è così sintetizzabile: o privatizzate
e liberalizzate il mercato o
non vedrete un dollaro.
Un diktat questo che suona come
musica alle orecchie
delle potenti multinazionali
straniere. Le
principali colture da
esportazione sono il
caffè, il tè e la frutta
tropicale. La produzione
è nelle mani
delle multinazionali,
tutte ben posizionate
in Kenya. Tra le altre
sono presenti la svizzera
Nestlé (caffè) e
l’olandese Unilever
(tè).
Per parte sua, la statunitense Philip Morris non si fa problema
a spingere i bambini verso il
fumo. Si stima che in Kenya il 40%
dei bambini sotto i 14 anni abbia già
cominciato a fumare.
Vale la pena di ricordare l’esemplare
caso della «Del Monte Royal»
(appartenente al Gruppo Cirio di
Sergio Cragnotti), che in Kenya
possiede vaste piantagioni di ananas
(a Thika, in particolare). L’impresa
della multinazionale italiana è al
centro di molte polemiche a causa
delle pessime condizioni di lavoro,
dei salari bassissimi e dell’utilizzo di
pesticidi molto pericolosi.
Nel 1999 il Centro nuovo modello
di sviluppo organizza una campagna
di pressione popolare «Diciamo
“no!” all’uomo Del Monte» per
chiedere condizioni di lavoro più dignitose.
In un primo tempo la Del
Monte nega l’esistenza stessa del
problema, poi riconosce la situazione
e promette di correre ai ripari.
Ma per le società straniere un comportamento
equo verso la popolazione
locale e compatibile con l’ambiente
è lontano dall’essere realizzato.
In Kenya come in tutti i paesi del
Sud del mondo (4).
T COME TURISMO
Il famoso flamingo, il fenicottero
rosa del lago Nakuru, è una delle icone
turistiche del paese africano, ogni
anno meta vacanziera per circa
800 mila stranieri (tedeschi, inglesi,
italiani). Dunque, il turismo è una
buona fonte di entrate per Nairobi?
«Il Kenya – scrive Mario Boccia
(5) -, “la Svizzera dell’Africa”, un
paese “no-problem”, ricco, luogo di
vacanze, è un bluff». Forse i toni sono
esagerati, ma certamente è difficile
poter affermare che nel paese africano
venga praticato un turismo
ecocompatibile e responsabile.
Malindi è ormai una specie di
«club mediterranée» dove la lingua
principale è l’italiano. I parchi e le
riserve naturali che hanno reso famoso
il paese (Masai Mara, Masai
Amboseli, Nairobi National Game
Park, Tsavo Park, Samburu Game
Reserve, Marsabit National Reserve)
rischiano grosso assediati come
sono da bracconieri, mutamenti metereologici
e mancanza di fondi.
Dal 1977 al 1994, il Kenya ha perduto
il 44% dei suoi animali selvatici
(in particolare, gli elefanti per l’avorio
e i rinoceronti per il corno). Le
perdite sono del 53% fuori delle aree
protette e del 30% all’interno.
Dicono: il turismo porta ricchezza.
Ma non si dice in quali tasche
questa ricchezza finisca. Certamente
non in quella dei kenyani. I soldi
del turismo, infatti, vanno in larghissima
parte in mani straniere o in
quelle dell’oligarchia locale: operatori
di viaggi organizzati e safari,
proprietari di alberghi, lodges e
campi, agenzie di charter.
K COME KENYATTA
«L’africano – scrive Jomo Kenyatta
– non è cieco: egli sa riconoscere
questi falsi filantropi e in varie parti
del continente si sta risvegliando in
lui la consapevolezza che un fiume
in piena non può essere sbarrato indefinitivamente
e che un giorno
spezzerà gli argini. La sua capacità
di espressione, finora conculcata, si
sta facendo strada e molto presto
spazzerà via il patealismo e la repressione
che la circondano».
In realtà, sia Kenyatta che il suo
successore Daniel Arap Moi sono
caduti negli stessi «vizi» dei colonizzatori
europei.
Il primo, appena salito al potere
(1963), si preoccupò quasi esclusivamente
della propria etnia (quella
kikuyu) e di sistemare in posizioni
chiave parenti ed amici, senza contare
la responsabilità storica di essere
stato l’ideologo dei Mau Mau,
il cruento movimento indipendentista.
Il secondo ha instaurato un regime
personale che dura ormai da
24 anni.
Su questa struttura politica molto
personalizzata e nepotistica, si inserisce
anche il cancro della corruzione,
finora inarrestabile nonostante
la «Anti-corruption authority» (anch’essa
al centro di scandali e polemiche).
Secondo l’organizzazione
«Transparency Inteational» il
Kenya è tra i paesi più corrotti del
mondo. Nella classifica della corruzione
è preceduto soltanto da Bangladesh,
Nigeria, Uganda e Indonesia
(detto per inciso, l’Italia è il peggiore
tra i paesi industrializzati).
Nel giugno 2000, in occasione di
una delle ricorrenti crisi alimentari,
il presidente Moi fece un appello alla
comunità internazionale perché
inviasse aiuti in soccorso della popolazione
affamata.
Al di là del problema, un militante
di un gruppo per i diritti umani
dichiarò allora all’agenzia Misna (6):
«Con i soldi frodati allo stato da Moi
e dalla sua classe dirigente, il Kenya
potrebbe essere un paradiso felice
per tutti. Per far fronte all’emergenza
fame basterebbe solo che la comunità
internazionale chiedesse a
Moi di tirar fuori dalle banche straniere
ciò che lui e i suoi uomini del
Kanu hanno rubato alla nazione».
M COME MOI
C’è una strana titubanza a parlare
di Daniel Arap Moi come di un dittatore.
Eppure non c’è dubbio che
lo sia, indipendentemente dalla frequenza
con cui indice e vince le elezioni.
Basti guardare a come il presidente
ha sempre calpestato la libertà di
espressione dei mezzi di informazione,
primo obiettivo di qualsiasi
governo dittatoriale (in qualsiasi
parte del mondo) (7).
Ora, dopo anni di incontrastato
dominio, l’anziano presidente (78
anni) dovrebbe ritirarsi dalla scena
che lo vede unico protagonista dal
lontano 1978. Le elezioni presidenziali
dovrebbero tenersi nel dicembre
di quest’anno o nei primi mesi
del prossimo.
Nell’attesa, lo scorso agosto, trascurando
completamente il vicepresidente
George Saitoti (poi licenziato),
Moi ha indicato il suo successore:
Uhuru Kenyatta, figlio di
Jomo Kenyatta, 41 anni, da novembre
ministro per le autonomie locali.
«Moi sta veramente esagerando –
ha dichiarato un missionario a Misna
-. Prima ha detto che voleva posticipare
le elezioni. Poi, vista la reazione
all’interno del suo partito e del
paese, ha scelto il suo successore. Una
persona giovane e inadatta, ideale
per svolgere il ruolo di burattino
dell’attuale capo di stato, che andrebbe
così avanti a controllare il
Kenya da dietro le quinte».
T COME TRIBALE
Nell’agosto 1997 a Likoni, un
sobborgo di Mombasa, ci furono
scontri violentissimi che lasciarono
sul terreno oltre 60 morti e ingentissimi
danni materiali. Oltre un migliaio
di persone trovarono rifugio
nella missione dei missionari della
Consolata (8).
Le cause della violenza furono individuate
nelle rivalità tribali (tribal
clashes), ma risultò evidente che la
gente era stata aizzata da politici locali
per raggiungere fini personali.
In un puzzle etnico come il Kenya
non è difficile fomentare l’odio tribale.
Si pensi alla rivalità tra turkana
e samburu. O a quella tra le tante
tribù della Rift Valley: maasai, tugen,
kipsigis, pokot, marwet e altre
ancora.
Moi e il Kanu utilizzeranno ancora
le rivalità etniche per i loro obiettivi
politici? Ciò è quello che teme il
«Kenya human rights network».
Per questa ragione, l’organizzazione
kenyana per i diritti umani
chiede che venga reso pubblico il
rapporto redatto dalla «Akiwumi
Commission». Questa commissione
si è occupata delle violenze accadute
nel paese africano tra il 1991 e
il 1998. Dall’investigazione effettuata
sarebbero emerse chiare responsabilità
di uomini del governo.
Ad avvalorare questa ipotesi, c’è anche
la scomparsa di testimoni chiave
di quell’inchiesta (come padre
John Anthony Kaiser, missionario
di Mill Hill, morto in circostanze oscure)
o la fuga precipitosa di altri.
Oggi, alla vigilia di un importantissimo appuntamento elettorale,
l’organizzazione chiede che la relazione
della commissione Akiwumi
venga finalmente resa pubblica. Domanda
inoltre con forza che i candidati
alle prossime elezioni si astengano
dal manipolare e strumentalizzare
i sentimenti etnici per i loro
fini politici.
V COME VIRUS
Come in tutta l’Africa, anche in
Kenya il virus dell’Aids fa strage e
mina le generazioni future. Anche
perché i farmaci sono inaccessibili
per la maggior parte degli infettati.
Ma, oltre al virus dell’Aids, vaga
e si propaga un virus ancora più
difficile da estirpare: quello della
violenza, che trova un fertile terreno
di coltura in un paese dove la
crescita della miseria non conosce
recessione.
«A Nairobi – scrive Boccia – non si
può più passeggiare in
centro, uscire da
alberghi recintati
che
sembrano
galere di lusso.
Ma non è
un problema di
“sicurezza”, risolvibile
aumentando
poliziotti pubblici
e privati; è lotta per la
sopravvivenza, legittima
difesa. Circa il 70
per cento degli abitanti
vivono in baraccopoli.
Case di fango e lamiera,
senza luce, acqua, gas,
fogne». Baraccopoli come
Korogocho o Kibera
(9).
«A Korogocho, dove
Dio è difficile da incontrare,
possono uccidere –
racconta padre Alex Zanotelli,
che lì ha vissuto per anni –
per una gomma di bicicletta.
Ma non si accontentano della
tua vita. La fanno a pezzi.
Troppe volte, per uscire dalla
mia baracca, ho dovuto scavalcare
cadaveri sfigurati».
A Kibera, nel dicembre
2001, ci furono almeno 18 morti in
una rivolta scoppiata a causa – pare
incredibile – degli affitti delle baracche.
«A Nairobi – spiega ancora padre
Alex -, 2 milioni di neri vivono
nell’1,5 per cento dell’intera terra.
La maggior parte vive sardinizzata
nelle bidonville dove i ricchi pretendono
l’affitto di quelle putride baracche.
In Africa oggi è meglio essere
gazzelle e leoni. Quelli sono
cacciati qualche volta.
Gli uomini neri
sempre».
NOTE:
(1) Il libro è stato pubblicato in Italia
con il titolo La montagna dello
splendore, Edizioni Jaca Book,
Milano 1977.
(2) Si veda: Aa.Vv., «La qualità della
vita nel mondo» / Social Watch –
Rapporto 2001, Emi, Bologna
2001.
(3) «I tratti essenziali – scrive l’economista
Michele Candotti (in Debito
da morire, Baldini&Castoldi 2000) –
sono (…) il taglio della spesa pubblica,
il licenziamento dei dipendenti
pubblici, la privatizzazione delle
compagnie statali e parastatali. (…)
Ed è credibile che la ricetta antipovertà
sia negoziata da e con quel
governo che ha creato, anno dopo
anno, abuso dopo abuso, la povertà
stessa?».
(4) Al riguardo si veda lo straordinario
volume del Centro nuovo modello
di sviluppo Guida al consumo
critico, Emi, Bologna 2000.
(5) Pubblicato dal settimanale
«Carta» dell’8 agosto 2002.
(6) La scorsa estate l’«Agenzia missionaria
d’informazione» (Misna,
Missionary service news agency) ha
ricevuto il prestigioso premio Saint
Vincent di giornalismo.
(7) Lo scorso maggio il parlamento
kenyota ha approvato il «Books and
Newspapers Act», che sottopone al
controllo governativo libri, quotidianie
e periodici. D’altra parte, i 3 quotidiani
principali – The Standard,
Kenya Times, Daily Nation – da
sempre subiscono la pesante influenza
del governo.
(8) La storia di quelle drammatiche
giornate è stata raccontata da
Missioni Consolata nel dicembre
1997.
(9) «Eccoli, gli abitanti di Kibera.
Arrivano dalle campagne e sveano
lì. Le vittime dello “sviluppo insostenibile”.
Le vittime dei cambiamenti
climatici che hanno prosciugato i
campi spingendoli verso quella città
di pattumiera. Le vittime delle multinazionali
alimentari che acquistano i
terreni dei loro padroni per coltivare
prodotti da vendere all’estero (caffè
e cacao, soprattutto) invece del
grano che servirebbe a sfamarli. Le
vittime dei governi corrotti che incoraggiano
l’abbattimento selvaggio
delle foreste e il commercio abusivo
del legname. Le vittime delle politiche
sanitarie che non riescono a
sconfiggere ancora la malaria, figuriamoci
l’ultimo flagello, l’Aids, che
l’Occidente ormai fa quasi finta di
non conoscere più» (il Venerdì, 23
agosto 2002).
Sulla bidonville di Kibera è uscito a
settembre un film-denuncia, Baba
Mandela, del regista italiano
Riccardo Milani, prodotto con il contributo
del comune di Roma, della
Provincia di Torino, di Legambiente
e Amref.
«PER IL BENE DEL PAESE,
È ORA DI CAMBIARE»
Politica, economia,
società, corruzione,
violenza, Aids, rapporti
con le altre religioni,
ambiente.
Quattro vescovi cattolici
del Kenya, missionari
della Consolata,
parlano della situazione
del paese.
Senza remore, timori
o risposte di comodo.
Torino – Due kenyani e due italiani.
Quattro persone di
diversa età, provenienza, colore
della pelle, con un’importante
caratteristica in comune: tutti e
quattro sono vescovi in Kenya. Ambrogio
Ravasi opera a Marsabit,
Anthony Mukobo a Nairobi, Virgilio
Pante a Maralal, Peter Kihara a
Murang’a. (*)
LA POLITICA
Qual è la posizione della chiesa cattolica
rispetto alla difficile situazione
politica del paese?
Mons. Ravasi: «Lo scorso 28 agosto
la conferenza episcopale del
Kenya, composta da 28 membri
(dei quali 8 sono stranieri appartenenti
a vari istituti missionari), ha rilasciato
una lettera pastorale dalla
quale emerge l’unità della chiesa
cattolica di fronte ai problemi politici,
sociali ed economici del paese.
Siamo molto uniti e, credo di poterlo
affermare, concordi nelle critiche
al governo di Moi e del Kanu,
che ha dimostrato di essere dittatoriale
e deciso a rivincere le elezioni
a tutti i costi. Nonostante il paese
abbia aperto al multipartitismo dal
1992, questa possibilità rimane ancora
sulla carta. Tra l’altro, i partiti
d’opposizione sono divisi e anche
per questo hanno perso le ultime
due elezioni E probabilmente perderanno
pure questa volta.
Per me questo è il momento più
delicato e difficile dall’anno dell’indipendenza.
Il presidente Moi non
può essere rieletto secondo l’attuale
costituzione, ma questa stessa costituzione
è in via di revisione. L’incaricato, il professor YASH PAL
GHAI, dice che non ce la farà a completarla
per dicembre, quando sono
previste le elezioni».
Quindi, si voterà ancora secondo
la vecchia costituzione che favorisce
il Kanu, il partito al potere?
Mons. Ravasi: «Non si sa. Si prevede
uno scontro molto forte che
può anche sfociare in violenza.
L’unica cosa certa è che la popolazione
è stanca di questo potere
corrotto, che per anni ha sfruttato il
paese. Veramente è difficile capire
come faccia a sopravvivere la maggioranza
dei kenyani…».
La chiesa ha preso posizione anche
contro la volontà del presidente Moi
di imporre il proprio candidato…
Mons. Kihara: «Moi è furbissimo.
Vuole Uhuru Kenyatta, figlio di
Jomo Kenyatta, per attrarre i
kikuyu, che in grande maggioranza
(lo so perché anch’io sono kikuyu)
sono contro di lui. E soprattutto lo
vuole per continuare a reggere il
paese: alla guida apparirebbe un
Kenyatta, ma dietro le quinte sarebbe
lui a manovrare. Se così non
fosse, Moi potrebbe avere dei problemi
considerando tutto quello
che ha fatto in questi 24 anni di potere…».
Mons. Mukobo: «Uhuru Kenyatta
non ha alcuna esperienza politica.
Ha sempre fatto il businessman.
Moi prima lo ha fatto ministro, ora
lo ha nominato suo successore. Ma
il nuovo presidente lo debbono scegliere
i kenyani».
L’ECONOMIA
Si dice che globalizzazione sia l’unica
ideologia del mondo odierno.
Quasi una religione che indica l’unica
strada possibile per il benessere
dell’uomo. Che ne dite voi, vescovi
in un paese del Sud del mondo?
Mons. Mukobo: «La globalizzazione
deve rispettare l’individuo e
l’economia locale. Faccio un esempio
concreto: a Nairobi, dove io sono
vescovo ausiliare, si continuano
ad aprire nuovi supermercati, che
però costringono alla chiusura i piccoli
negozi gestiti da gente modesta.
Anche questo è un modo per arricchire
chi è già ricco e impoverire chi
è già povero. Io non nego la possibilità
di fare profitto, ma prima di
tutto guardo alla salvaguardia della
persona.
Con gli africani non funziona né
un capitalismo all’americana né la
ricetta socialista. Credo che occorra
guardare ad esperienze che mecoscolino
pubblico e privato, come
fece Nyerere in Tanzania».
Mons. Pante: «Purtroppo, anche
in Kenya è arrivato un tipo di capitalismo
all’americana, cioè molto
selvaggio. In pratica, funziona così:
i pochi che hanno il potere fanno
quello che vogliono, perché il denaro
è al di sopra della legge. Oggi
si privatizza tutto, dalle scuole agli
ospedali. Le strutture private prendono
sempre più piede, mentre
quelle pubbliche sono un disastro.
Ma per i poveracci (che sono la stragrande
maggioranza) non c’è alternativa,
perché non possono permettersi
di andare nella clinica o
nella scuola privata.
Faccio un esempio, che vedo nella
mia diocesi di Maralal. Qui un
maestro deve lasciare il villaggio dove
lavora per andare a ritirare la paga
e per questo perde almeno una
settimana. In questo modo i ragazzi
perdono molto tempo prezioso.
Quindi, i bambini samburu, già
molto svantaggiati a causa del loro
isolamento, restano sempre più indietro».
Come in tutti i paesi del Sud del
mondo, anche in Kenya ci sono due
tipi di arrivi dal Nord del mondo: chi
viene per aiutare e chi per interesse…
Mons. Pante: «Quelli che vengono
ad aiutare sono i missionari e i
volontari delle Ong, mentre le società
cercano i loro interessi.
Il paese non ha ricchezze nel sottosuolo
e, a ben guardare, ciò è probabilmente
una fortuna. Altrimenti,
ci sarebbero le guerre per il petrolio,
per i diamanti o per altro
ancora, come avviene in altri paesi
a noi vicini.
Ci sarebbe la risorsa del turismo.
Il Kenya è un paese bello e variegato:
c’è il deserto, la savana, le spiaggie,
i parchi. Purtroppo, le società
legate al turismo vengono qui, ma i
soldi normalmente tornano in Italia
o negli altri paesi ricchi.
Comunque, in questi ultimi anni
c’è stata meno gente che è venuta
ad investire in Kenya, a causa di
quell’incertezza politica di cui hanno
parlato i miei confratelli».
L’AMBIENTE
Si è appena chiuso il Summit di
Johannesburg sullo sviluppo sostenibile.
Come tutti i paesi africani, anche
il Kenya deve affrontare un enorme
problema ambientale: inquinamento,
deforestazione, mancanza
di piogge. Com’è la situazione?
Mons. Pante: «Soltanto un quarto
del Kenya è adatto all’agricoltura.
I restanti tre quarti sono savana,
che vanno bene per la pastorizia.
Così ci sono zone molto popolate al
centro del paese. Dove sono io, si
lotta anche per pochi metri di terra
coltivabile.
Il taglio delle foreste è pazzesco:
ormai ne sono rimaste pochissime.
C’è una professoressa kikuyu che si
batte contro tutto questo. Si chiama
WANGARI MATHAI e appartiene al
“Green Belt Movement”, ma purtroppo
la mettono sempre in prigione…
La gente cresce, ha bisogno di terra
e abbatte le foreste…».
Dunque, è un problema di ignoranza
e povertà…
Mons. Pante: «Sì, ma anche di
corruzione. In Kenya, se tu paghi le
bustarelle, scavalchi tutte le leggi. E
non c’è soltanto il problema delle
foreste. I fiumi sono pochissimi e
l’inquinamento dell’acqua peggiora
la situazione.
A Nairobi le macchine sono tutte
fuori legge: rilasciano nell’atmosfera
fumi pazzeschi… Ciò avviene nella
capitale, ma anche nelle piccole
città, inquinate al massimo. Insomma,
il problema dell’ambiente è
molto serio».
Possiamo dire che la terra è in mano
a latifondisti, piuttosto che a piccoli
proprietari?
Mons. Pante: «Certo, c’è poca
gente che ha molta terra e chi non
ne ha affatto. L’interesse privato
prevale sul benessere comune. I ricchi
si accaparrano la terra per investire,
per fare palazzine…
Anche nella nostra zona, dei samburu
è così. Una volta la terra era
proprietà degli anziani, oggi è privata.
Si vedono fili spinati e recinzioni
per ogni dove».
Questo è legale?
Mons. Mukobo: «: «Beh… Il ministero
addetto alla terra c’è, ma il
presidente può venire qui e dire io
ho regalato questa terra a queste
persone perché sono del mio partito.
È così che i politici guadagnano
potere…».
LA CORRUZIONE
Cosa può fare un vescovo di fronte
al problema della corruzione?
Mons. Kihara: «Come vescovi
cattolici dobbiamo gridare e ancora
gridare che non è giusto, non è
corretto perché è contro la legge,
contro la natura, contro l’uomo.
Dobbiamo ricordare ciò che anni
fa lo stesso Kenyatta, il padre della
patria, disse: “La chiesa è la coscienza
del popolo”».
Comportandovi così, voi rischiate
di farvi nemici potenti e pericolosi.
Proprio da poco c’è stato l’anniversario
dell’uccisione di padre Antony
Kaiser…
Mons. Kihara: «Certo, è così. Padre
Anthony morì per aver affrontato
questi problemi. Anche noi
dobbiamo essere pronti a una simile
eventualità».
LE RELIGIONI
Parliamo dei rapporti con le altre
religioni.
Mons. Ravasi: «Parlando delle altre
religioni, c’è innanzitutto il rapporto
con il vasto mondo che segue
le religioni tradizionali. Sono tutte
persone profondamente legate alle
loro tradizioni, ma al tempo stesso
aperte al messaggio evangelico.
Mancano solo i mezzi per raggiungerle,
specialmente quelle appartenenti
a minoranze abbandonate.
Per quanto rigurda le altre religioni
cristiane, c’è stato un cambiamento
radicale di attitudine. Da una
quasi inimicizia tra la chiesa cattolica
e le chiese protestanti
(chiamiamole così, anche se è una
definizione non corretta) siamo oggi
su una buona strada. Ricordo che
mons. Cavallera, mio predecessore,
faticò molto ad entrare nel nord (in
quelle che sono ora le diocesi di
Marsabit e Maralal), perché c’era la
presenza massiccia degli anglicani,
favoriti dal governo coloniale inglese.
Poi venne il Vaticano II che smussò
un po’ questo clima di inimicizie.
In questo momento c’è una atmosfera
di reciproco rispetto con un
tentativo di collaborare su programmi
comuni, dove non c’è un elemento
proprio di una chiesa. Per
esempio, abbiamo collaborazioni
nel campo dell’istruzione e della sanità.
Penso che non siamo ancora al
vero ecumenismo, ma questa è la
strada giusta».
Ci rimane da dire dell’islam…
Mons. Ravasi: «Qui il discorso è
molto diverso.
Ci sono due tipi di islamismo. C’è
quello tradizionale, che è in Kenya
da anni e che ci rispetta, perché ha
visto che la nostra chiesa ha portato
aiuti e favorito lo sviluppo della
gente.
Ma da 10-15 anni è entrato nel
paese anche l’islam fondamentalista
e con questo c’è poco da ragionare.
Sono venuti dall’estero, sono ben
pagati, hanno molti mezzi in mano…».
Da dove provengono questi soldi?
Mons. Ravasi: «Vengono da
Mombasa (roccaforte dell’islam) e
dall’estero: Arabia Saudita, Yemen,
Iraq, Iran, India. Con questi petrodollari
in mano fanno uno sfacciato
proselitismo».
Anche il cattolicesimo fa opera di
proselitismo…
Mons. Ravasi: «È molto diverso.
Il cristianesimo prima si spiega alla
gente, poi si impianta, senza imposizione
o violenza.
Dispiace che nel passato noi siamo
stati accusati di usare le nostre
scuole per spingere quelli che erano
seguaci di religioni tradizionali a
diventare cattolici. Non è stato così.
Noi volevamo farli arrivare ad un
certo livello per poi lasciarli liberi di
valutare il nostro messaggio.
Adesso gli islamici fanno proselitismo
nella maniera più sfacciata.
Come? Ad esempio, pagando.
Tempo fa, sono venuti tre giovani
a trovarmi e mi hanno detto: vescovo,
ci hanno dato 20 mila scellini
(circa 300 euro) per pagare la retta
scolastica e noi abbiamo
promesso di seguire la fede islamica
pur di avere quei soldi per gli studi.
Cosa ne pensi? “Che avete fatto
male, perché avete venduto la vostra
fede”, ho risposto».
È corretto affermare che per un africano
è molto più facile diventare islamico?
Mons. Pante: «Secondo me, sì. È
molto più facile, perché l’islam non
è esigente come la chiesa cattolica.
Si pensi ad esempio alla poligamia
consentita dall’islam, ma non dal
cattolicesimo. E, nel caso dei nomadi
e dei pastori, la poligamia è
molto importante.
L’AIDS
In Occidente si parla meno di
Aids. Ma il problema è rimasto tale
e quale nei paesi del Sud, dove le cure
non arrivano o sono inaccessibili.
Com’è in Kenya?
Mons. Pante: «Purtroppo, il problema
dell’Aids c’è ed è enorme».
Che fa il governo? E la chiesa cattolica?
Mons. Pante: «Il governo fa molta
propaganda al condom (preservativo)
e accusa noi perché non ne
favoriamo la diffusione e l’utilizzo.
Se fosse questa la soluzione del problema…».
Mons. Kihara: «Le statistiche sono
drammatiche: ogni giorno 700
persone muoiono per Aids. E mancano
tutte quelle che sfuggono a
qualsiasi rilevazione. Noi abbiamo
un team di persone che vanno in giro
a parlare del problema dell’Aids.
Quando la gente soffre, la chiesa
deve essere presente per alleviare il
dolore. Qualsiasi sia la ragione di
quella sofferenza…».
(*) L’intervista collettiva è stata raccolta
il 5 settembre 2002.
DAL REGNO DI MALINDI
ALLA DITTATURA DI DANIEL ARAP MOI
800-1400: la costa
Arabi e persiani creano città costiere: Malindi, Mombasa,
Ghedi e altri centri di cultura islamica e di economia mercantile.
1498: i portoghesi
Vasco da Gama e i portoghesi trasformano Malindi in una
base di appoggio delle navi dirette verso l’India.
1500: migrazioni
Iniziano migrazioni di popoli bantu (kikuyu e altre etnie)
che occupano a poco a poco le aree intorno al monte
Kenya, scacciandone i primitivi abitanti (pigmei e altri).
1600-1792: Mombasa
Per quasi 200 anni i lusitani si stabiliscono nella città costiera
di Mombasa.
1890: tedeschi e inglesi
La presenza europea è una conseguenza della Conferenza
di Berlino (1885) e del successivo accordo anglo-tedesco
che definisce le rispettive sfere d’influenza nell’area: ai tedeschi
il Tanganyika, agli inglesi il Kenya e l’Uganda.
1896-1901: ferrovia
Si costruisce la ferrovia Mombasa-Kampala, che favorisce
le comunicazioni e le esplorazioni nell’interno.
1900: occupazione delle terre
Le terre lungo la linea ferroviaria vengono occupate da
coloni europei, cosicché dei quasi 5 mila kmq di terre fertili,
4.200 appartengono a 5 mila europei, mentre un milione
di kikuyu (una delle etnie originarie) occupano meno
di 1.000 kmq, senza che vi sia alcun indennizzo o compensazione
per questo sfruttamento.
1920: masai e kikuyu
Popolazioni masai (pastori d’origine nilotica) e kikuyu si
costituiscono in associazione per rivendicare i loro diritti,
soprattutto contro la riduzione dei territori delle riserve,
l’aumento delle tasse indigene e il taglio dei salari nelle
piantagioni di caffè, sisal e granoturco.
1945-1946: il Kau e Jomo Kenyatta
Sorge, come partito politico riconosciuto, il «Kenya african
union» (Kau). Dopo 15 anni in Europa, rientra in
Kenya Jomo Kenyatta (kikuyu), che viene eletto presidente
del Kau. Inizia la lotta per il raggiungimento dell’autogoverno
e per i diritti sociali.
1947: il movimento dei «Mau Mau»
Parallelo al partito legale sorge un movimento clandestino,
rivoluzionario e culturale denominato «Mau Mau».
1952: repressione coloniale
La rivolta cruenta dei Mau Mau contro i coloni bianchi semina
terrore e morte. In risposta all’escalation di attentati
ad opera del movimento, l’amministrazione coloniale
imprigiona migliaia di kikuyu in campi di concentramento.
Anche Jomo Kenyatta è imprigionato (1953-1961),
in quanto sospettato di far parte dei Mau Mau.
1960: arriva il Kanu
Dopo anni di brutale repressione e stragi indiscriminate
da parte dei governi coloniali, la Kau può tornare alla legalità,
con il nome di Kanu (Unione nazionale africana del
Kenya, che raggruppa kikuyu e luo). Sorge anche un secondo
partito, il «Kenya african democratic union» (Kadu),
orientato verso uno stato di tipo federale.
1963: arriva l’indipendenza
Il 12 dicembre viene proclamata l’indipendenza («Uhuru
») del Kenya, che entra nel Commonwealth britannico.
Kenyatta è eletto primo ministro; «Harambee», «tiriamo
insieme», è il nome del programma per costruire
il paese.
1964: Kenyatta presidente
Il 12 dicembre Kenyatta viene eletto primo presidente,
sconfiggendo Tom Mboya, di formazione cattolica, e Jaramogi
Oginga Odinga, marxista.
1969: delitto eccellente
Tom Mboya viene ucciso in una via di Nairobi. Kenyatta
fa arrestare Odinga, come presunto mandante dell’assassinio.
settembre 1978: da Kenyatta a Moi
A 85 anni, muore Kenyatta, considerato il padre della patria
e ormai divenuto un mito. Gli succede nella carica Daniel
Arap Moi, fino ad allora vicepresidente, appartenente
a un’etnia poco numerosa, i kalenjin.
settembre-novembre 1978: elezioni-farsa
Quando vengono indette le elezioni generali, il partito di
governo, il Kanu, è l’unico autorizzato a presentare candidati
e Moi viene perciò confermato nella carica. Il presidente
lancia una nuova parola d’ordine: «nyayo» (le orme),
per indicare il futuro seguendo gli esempi passati.
1982: fallito colpo di stato
Tentativo di colpo di stato ad opera dell’aviazione con centinaia
di morti e 3 mila arresti. Il presidente Moi indice elezioni
anticipate e si fa rieleggere presidente (1983).
1987-1989: conflitti regionali
Scoppia un conflitto con l’Uganda (fine 1987). Nel settembre
1989 ci sono problemi con la Somalia.
1988: Moi sempre più dittatore
Nonostante la dura politica di risanamento imposta dal Fmi
e dalla Banca mondiale, le elezioni consolidano il potere
di Moi e del Kanu.
Nello stesso anno Moi porta a termine la formazione dello
stato autoritario mettendo il potere giudiziario sotto il
suo diretto controllo ed estendendo i termini della carcerazione
preventiva da 24 ore a 14 giorni, senza necessità
di avviso al giudice.
febbraio 1990: assassinio politico
Robert Ouko, ministro degli esteri e critico feroce della
corruzione a livello di consiglio dei ministri, viene misteriosamente
assassinato.
inizio 1992: arresti di oppositori
L’avvocato James Orengo e l’ecologista Wangari
Maathai vengono arrestati e accusati di
«diffondere voci tendenziose» che attribuiscono al
presidente Moi piani tesi a interrompere il processo
di democratizzazione iniziato nel 1991.
febbraio 1992: un nuovo partito
Viene creato il Partito democratico (Pd),
un nuovo gruppo di opposizione al governo
di Moi, favorevole alla creazione
di un sistema democratico pluripartitico.
dicembre 1992:
quarto mandato per Moi
Arap Moi assume il suo quarto mandato
consecutivo, dopo aver vinto le elezioni generali.
febbraio 1993: ecco l’Fmi
Il governo prepara un piano per la privatizzazione e la liberalizzazione
del commercio estero, che però viene considerato
insufficiente dal Fondo monetario internazionale.
aprile 1994: prestito
Dopo una nuova svalutazione dello scellino (23,47%), la
Banca mondiale ordina il pagamento di un prestito di 350
milioni di dollari.
dicembre 1994: soddisfazioni?
Gli organismi finanziari e i paesi creditori del Kenya manifestano
la propria soddisfazione per la politica economica
e per l’introduzione del multipartitismo.
1995: privatizzazioni
Nairobi annuncia la privatizzazione parziale della compagnia
aerea nazionale e di altre importanti aziende statali.
agosto 1997: scontri a Likoni
A Likoni, sobborgo di Mombasa, avvengono scontri con
decine di morti e ingenti distruzioni. Oltre mille persone
trovano rifugio all’interno della missione dei missionari
della Consolata.
dicembre 1997: quinto mandato per Moi
Con l’opposizione divisa, il presidente Daniel Arap Moi
viene rieletto per la quinta volta con il 40,1% dei voti.
febbraio 2001: processo a New York
Comincia a New York il processo ai quattro musulmani
accusati di aver messo le bombe alle ambasciate Usa di
Nairobi e Dar es Salaam che il 7 agosto 1998 uccisero
224 persone.
febbraio-marzo 2001: siccità e guerra tra poveri
Un gruppo di razziatori samburu uccide 30 pastori borana
e ruba 15 mila capi di bestiame. In marzo razziatori
pokot uccidono 47 allevatori per impossessarsi delle man-
drie. Battaglia anche tra pokot e turkana con oltre 30 vittime.
La prolungata siccità ha esasperato gli animi.
marzo 2001: via i dipendenti pubblici
Il governo Moi fatica a rispettare il programma di ristrutturazione
(cioè di licenziamenti) delle strutture pubbliche.
Nel 2000 erano stati mandati a casa 25.000 impiegati.
Entro il 2002 dovrebbero essee licenziati altri 40.000.
aprile-luglio 2001: la censura di Moi
La polizia chiude la radiotelevisione privata «Citizen». Aveva
aperto due anni fa e si era distinta per l’opposizione
al governo. In luglio vengono incarcerati Asema Muyoma
e David Matende, editore e redattore del settimanale
«Weekly Citizen». Sono accusati di aver diffuso notizie allarmistiche
attraverso un articolo in cui si accusavano funzionari
di polizia di aver partecipato a incidenti di matrice
politica a Nairobi.
14 agosto 2001: respinta legge anticorruzione
Il parlamento respinge la legge anticorruzione. La approvazione
della legge era considerata, dal Fmi, una condizione
per la ripresa degli aiuti inteazionali, interrotti
da un anno. Il Kenya è, da anni, classificato ai primi posti
tra i paesi più corrotti. Nel 2001 in questa poco ambita
classifica era preceduto soltanto da Bangladesh, Nigeria,
Uganda e Indonesia.
12 ottobre 2001: musulmani contro gli Usa
Migliaia di musulmani protestano a Nairobi contro gli attacchi
americani all’Afghanistan nonostante la polizia abbia
vietato le manifestazioni.
4-5 dicembre 2001: gli «affitti» della baraccopoli
Avvengono scontri a Kibera (Nairobi), una delle baraccopoli
più grandi d’Africa (si parla di 700 mila abitanti), a
causa delle proteste per gli «affitti» troppo alti: si contano
almeno 18 morti e migliaia di persone in fuga. Il problema
nasce dal fatto che i proprietari della terra pretendono
un affitto per le baracche…
giugno 2002: rinviate le elezioni?
Daniel Arap Moi e il suo partito vogliono rinviare le elezioni,
previste per dicembre, adducendo come giustificazione
che non c’è tempo sufficiente per approvare la nuova
costituzione, attualmente in fase di elaborazione.
Per le opposizioni si tratta di un ennesimo espediente per
prolungare ancora il mandato di Moi (presidente dal 1978)
e del Kanu (al potere dal lontanissimo 1963).
6 agosto 2002: Moi non molla
Il presidente Arap Moi «sceglie» il suo successore: Uhuru
Kenyatta, 41 anni. Mentre anche all’interno del Kanu si
levano proteste, George Saitoti, attuale vicepresidente,
lancia una propria iniziativa politica.
13 agosto 2002: lotta per la successione
Il ministro dell’ambiente, Joseph Kamotho, viene rimosso
per aver criticato la decisione di Moi di candidare Uhuru
Kenyatta alla presidenza senza una consultazione intea
(sul tipo delle «primarie») al Kanu.
14 agosto 2002: «Decidano gli elettori»
L’arcivescovo di Mombasa, monsignor John Njenga, interviene
nel dibattito politico per auspicare che il nuovo
presidente venga scelto dagli elettori kenyani e non da
Moi.
23 agosto 2002: elezioni a dicembre
Le elezioni generali si terranno a dicembre, indipendentemente
dall’approvazione della nuova costituzione.
Fonti: Atlante Imc, Sulle vie dei popoli, Torino
1993; Aa.Vv., Guida del mondo. Il mondo visto
dal Sud, Emi, Bologna 2002; Nigrizia (a cura di), Un
anno con l’Africa, Emi, Bologna 2002; archivio Misna
(www.misna.org).
PAOLO MOIOLA