KENYA, AMORE NOSTRO

Corruzione e povertà
Nel paese di Kenyatta e Moi

Il prossimo dicembre in Kenya
ci saranno le elezioni presidenziali.
Esse potrebbero sancire la fine
del lunghissimo «regno» di Daniel Arap
Moi, salito al potere nel 1978, subito
dopo la morte di Jomo Kenyatta,
il «padre della patria».
Il nuovo presidente troverà un paese
con enormi problemi: in primis,
una crescente povertà. Ma anche
corruzione, violenza e la piaga
dell’Aids.

A MOI NON BASTANO
I FENICOTTERI

IL KENYA OGGI politica, economia, società

Daniel Arap Moi, da 24 anni presidente-padrone del Kenya,
tra qualche mese forse lascerà le redini del paese.
Successore di Jomo Kenyatta (il padre della patria),
Moi è riuscito a costruire uno stato politicamente stabile,
ma economicamente e socialmente debolissimo, oltre che
corroso da una radicata corruzione. Le esportazioni
agroalimentari (in mano alle multinazionali) e il turismo
occidentale (spesso devastante) non bastano a sollevare
le sorti di un’economia che non riesce a sfamare
una fetta rilevante dei suoi 30 milioni di abitanti.

A COME AFRICA
Il Kenya non è uno stato africano
soltanto in ragione della sua collocazione
geografica, ma anche e soprattutto
perché dell’Africa presenta
tutti i connotati tipici, in particolare
quelli meno invidiabili: fame,
siccità, deforestazione, malattie,
Aids, corruzione dilagante, degrado
sociale, delinquenza.
Una situazione decisamente diversa
da quella idilliaca (e anche un
po’ patealistica) descritta da Karen
Blixen, la scrittrice danese che
in Kenya visse per 15 anni.
«Intoo a noi – scrive la Blixen
nel suo libro più famoso (La mia Africa)
– s’apriva un paesaggio unico.
A sud, fino al Kilimangiaro, le vaste
pianure della grande zona di caccia;
a ovest e a nord la falda delle colline
che parevano un parco, con dietro
le foreste; più in là, fino al monte
Kenya, la terra tutta ondulata della
riserva kikuyu, lunga più di 150 chilometri,
un mosaico di piccoli campi
di mais, quadrati, boschetti di banani
e terre da pascolo, con qua e là
il fumo azzurrino di un villaggio indigeno,
tutto cucuzzoli, come un
grappolo di tane da talpa».
Chissà cosa pensava della scrittrice
(morta nel 1962, un anno prima
dell’indipendenza del paese) Jomo
Kenyatta, il padre della nazione
kenyana.

C COME COLONIZZATORI
«Gli europei – scrive Kenyatta nella
conclusione del suo libro (pubblicato per la prima volta a Londra
nel 1938 con il titolo di Facing
Mount Kenya) (1) – hanno certo alcune
idee progressiste: l’idea di benessere
materiale, di medicina, di igiene
e di alfabetizzazione che permette
alla gente di partecipare alla
cultura mondiale. Tuttavia fino ad
ora gli europei che hanno visitato
l’Africa non si sono mostrati particolarmente
zelanti nell’impartire
questi elementi del loro retaggio culturale
agli africani, e sembrano pensare
che l’unico modo per farlo sia
con la forza armata e la repressione
poliziesca. Parlano come se per un
africano fosse in qualche modo un
bene lavorare per loro invece che
per sé, e per assicurarsi che goda di
questo privilegio (notare il sarcasmo
dell’autore, ndr), fanno del loro meglio
per portargli via la terra e non
dargli alcuna alternativa. Assieme
alla sua terra, lo spogliano del suo
governo, condannando le sue idee
religiose, ed ignorando le sue concezioni
fondamentali di giustizia e
morale, il tutto in nome del progresso
e della civiltà».
La divisione internazionale del lavoro
ereditata dal periodo coloniale
non solo è rimasta inalterata, ma
è stata addirittura rafforzata dalla
classe dirigente locale dell’era postcoloniale.
Ciò fa sì che il paese continui
a produrre ed esportare materie
prime e prodotti primari e ad importare
prodotti lavorati. In altri
termini, il Kenya, come tutti gli altri
paesi africani, «produce ciò che non
consuma e consuma ciò che non
produce» (2).
L’importante non è dare cibo e sicurezza
al popolo kenyano, bensì rispettare
gli impegni finanziari inteazionali,
che richiedono valuta pregiata
ottenibile soltanto con le
esportazioni. Questa è la conseguenza
di un sistema totalmente
strutturato sui principi neoliberisti
e sottoposto alle rigide direttive della
Banca mondiale e del Fondo monetario
internazionale (3).
Che producono anche altre conseguenze.

M COME MULTINAZIONALI
Come tutti i paesi, anche il Kenya
ha dovuto sottomettersi ad un ricatto,
che è così sintetizzabile: o privatizzate
e liberalizzate il mercato o
non vedrete un dollaro.
Un diktat questo che suona come
musica alle orecchie
delle potenti multinazionali
straniere. Le
principali colture da
esportazione sono il
caffè, il tè e la frutta
tropicale. La produzione
è nelle mani
delle multinazionali,
tutte ben posizionate
in Kenya. Tra le altre
sono presenti la svizzera
Nestlé (caffè) e
l’olandese Unilever
(tè).
Per parte sua, la statunitense Philip Morris non si fa problema
a spingere i bambini verso il
fumo. Si stima che in Kenya il 40%
dei bambini sotto i 14 anni abbia già
cominciato a fumare.
Vale la pena di ricordare l’esemplare
caso della «Del Monte Royal»
(appartenente al Gruppo Cirio di
Sergio Cragnotti), che in Kenya
possiede vaste piantagioni di ananas
(a Thika, in particolare). L’impresa
della multinazionale italiana è al
centro di molte polemiche a causa
delle pessime condizioni di lavoro,
dei salari bassissimi e dell’utilizzo di
pesticidi molto pericolosi.
Nel 1999 il Centro nuovo modello
di sviluppo organizza una campagna
di pressione popolare «Diciamo
“no!” all’uomo Del Monte» per
chiedere condizioni di lavoro più dignitose.
In un primo tempo la Del
Monte nega l’esistenza stessa del
problema, poi riconosce la situazione
e promette di correre ai ripari.
Ma per le società straniere un comportamento
equo verso la popolazione
locale e compatibile con l’ambiente
è lontano dall’essere realizzato.
In Kenya come in tutti i paesi del
Sud del mondo (4).

T COME TURISMO
Il famoso flamingo, il fenicottero
rosa del lago Nakuru, è una delle icone
turistiche del paese africano, ogni
anno meta vacanziera per circa
800 mila stranieri (tedeschi, inglesi,
italiani). Dunque, il turismo è una
buona fonte di entrate per Nairobi?
«Il Kenya – scrive Mario Boccia
(5) -, “la Svizzera dell’Africa”, un
paese “no-problem”, ricco, luogo di
vacanze, è un bluff». Forse i toni sono
esagerati, ma certamente è difficile
poter affermare che nel paese africano
venga praticato un turismo
ecocompatibile e responsabile.
Malindi è ormai una specie di
«club mediterranée» dove la lingua
principale è l’italiano. I parchi e le
riserve naturali che hanno reso famoso
il paese (Masai Mara, Masai
Amboseli, Nairobi National Game
Park, Tsavo Park, Samburu Game
Reserve, Marsabit National Reserve)
rischiano grosso assediati come
sono da bracconieri, mutamenti metereologici
e mancanza di fondi.
Dal 1977 al 1994, il Kenya ha perduto
il 44% dei suoi animali selvatici
(in particolare, gli elefanti per l’avorio
e i rinoceronti per il corno). Le
perdite sono del 53% fuori delle aree
protette e del 30% all’interno.
Dicono: il turismo porta ricchezza.
Ma non si dice in quali tasche
questa ricchezza finisca. Certamente
non in quella dei kenyani. I soldi
del turismo, infatti, vanno in larghissima
parte in mani straniere o in
quelle dell’oligarchia locale: operatori
di viaggi organizzati e safari,
proprietari di alberghi, lodges e
campi, agenzie di charter.

K COME KENYATTA
«L’africano – scrive Jomo Kenyatta
– non è cieco: egli sa riconoscere
questi falsi filantropi e in varie parti
del continente si sta risvegliando in
lui la consapevolezza che un fiume
in piena non può essere sbarrato indefinitivamente
e che un giorno
spezzerà gli argini. La sua capacità
di espressione, finora conculcata, si
sta facendo strada e molto presto
spazzerà via il patealismo e la repressione
che la circondano».
In realtà, sia Kenyatta che il suo
successore Daniel Arap Moi sono
caduti negli stessi «vizi» dei colonizzatori
europei.
Il primo, appena salito al potere
(1963), si preoccupò quasi esclusivamente
della propria etnia (quella
kikuyu) e di sistemare in posizioni
chiave parenti ed amici, senza contare
la responsabilità storica di essere
stato l’ideologo dei Mau Mau,
il cruento movimento indipendentista.
Il secondo ha instaurato un regime
personale che dura ormai da
24 anni.
Su questa struttura politica molto
personalizzata e nepotistica, si inserisce
anche il cancro della corruzione,
finora inarrestabile nonostante
la «Anti-corruption authority» (anch’essa
al centro di scandali e polemiche).
Secondo l’organizzazione
«Transparency Inteational» il
Kenya è tra i paesi più corrotti del
mondo. Nella classifica della corruzione
è preceduto soltanto da Bangladesh,
Nigeria, Uganda e Indonesia
(detto per inciso, l’Italia è il peggiore
tra i paesi industrializzati).
Nel giugno 2000, in occasione di
una delle ricorrenti crisi alimentari,
il presidente Moi fece un appello alla
comunità internazionale perché
inviasse aiuti in soccorso della popolazione
affamata.
Al di là del problema, un militante
di un gruppo per i diritti umani
dichiarò allora all’agenzia Misna (6):
«Con i soldi frodati allo stato da Moi
e dalla sua classe dirigente, il Kenya
potrebbe essere un paradiso felice
per tutti. Per far fronte all’emergenza
fame basterebbe solo che la comunità
internazionale chiedesse a
Moi di tirar fuori dalle banche straniere
ciò che lui e i suoi uomini del
Kanu hanno rubato alla nazione».

M COME MOI
C’è una strana titubanza a parlare
di Daniel Arap Moi come di un dittatore.
Eppure non c’è dubbio che
lo sia, indipendentemente dalla frequenza
con cui indice e vince le elezioni.
Basti guardare a come il presidente
ha sempre calpestato la libertà di
espressione dei mezzi di informazione,
primo obiettivo di qualsiasi
governo dittatoriale (in qualsiasi
parte del mondo) (7).
Ora, dopo anni di incontrastato
dominio, l’anziano presidente (78
anni) dovrebbe ritirarsi dalla scena
che lo vede unico protagonista dal
lontano 1978. Le elezioni presidenziali
dovrebbero tenersi nel dicembre
di quest’anno o nei primi mesi
del prossimo.
Nell’attesa, lo scorso agosto, trascurando
completamente il vicepresidente
George Saitoti (poi licenziato),
Moi ha indicato il suo successore:
Uhuru Kenyatta, figlio di
Jomo Kenyatta, 41 anni, da novembre
ministro per le autonomie locali.
«Moi sta veramente esagerando –
ha dichiarato un missionario a Misna
-. Prima ha detto che voleva posticipare
le elezioni. Poi, vista la reazione
all’interno del suo partito e del
paese, ha scelto il suo successore. Una
persona giovane e inadatta, ideale
per svolgere il ruolo di burattino
dell’attuale capo di stato, che andrebbe
così avanti a controllare il
Kenya da dietro le quinte».

T COME TRIBALE
Nell’agosto 1997 a Likoni, un
sobborgo di Mombasa, ci furono
scontri violentissimi che lasciarono
sul terreno oltre 60 morti e ingentissimi
danni materiali. Oltre un migliaio
di persone trovarono rifugio
nella missione dei missionari della
Consolata (8).
Le cause della violenza furono individuate
nelle rivalità tribali (tribal
clashes), ma risultò evidente che la
gente era stata aizzata da politici locali
per raggiungere fini personali.
In un puzzle etnico come il Kenya
non è difficile fomentare l’odio tribale.
Si pensi alla rivalità tra turkana
e samburu. O a quella tra le tante
tribù della Rift Valley: maasai, tugen,
kipsigis, pokot, marwet e altre
ancora.
Moi e il Kanu utilizzeranno ancora
le rivalità etniche per i loro obiettivi
politici? Ciò è quello che teme il
«Kenya human rights network».
Per questa ragione, l’organizzazione
kenyana per i diritti umani
chiede che venga reso pubblico il
rapporto redatto dalla «Akiwumi
Commission». Questa commissione
si è occupata delle violenze accadute
nel paese africano tra il 1991 e
il 1998. Dall’investigazione effettuata
sarebbero emerse chiare responsabilità
di uomini del governo.
Ad avvalorare questa ipotesi, c’è anche
la scomparsa di testimoni chiave
di quell’inchiesta (come padre
John Anthony Kaiser, missionario
di Mill Hill, morto in circostanze oscure)
o la fuga precipitosa di altri.
Oggi, alla vigilia di un importantissimo appuntamento elettorale,
l’organizzazione chiede che la relazione
della commissione Akiwumi
venga finalmente resa pubblica. Domanda
inoltre con forza che i candidati
alle prossime elezioni si astengano
dal manipolare e strumentalizzare
i sentimenti etnici per i loro
fini politici.

V COME VIRUS
Come in tutta l’Africa, anche in
Kenya il virus dell’Aids fa strage e
mina le generazioni future. Anche
perché i farmaci sono inaccessibili
per la maggior parte degli infettati.
Ma, oltre al virus dell’Aids, vaga
e si propaga un virus ancora più
difficile da estirpare: quello della
violenza, che trova un fertile terreno
di coltura in un paese dove la
crescita della miseria non conosce
recessione.
«A Nairobi – scrive Boccia – non si
può più passeggiare in
centro, uscire da
alberghi recintati
che
sembrano
galere di lusso.
Ma non è
un problema di
“sicurezza”, risolvibile
aumentando
poliziotti pubblici
e privati; è lotta per la
sopravvivenza, legittima
difesa. Circa il 70
per cento degli abitanti
vivono in baraccopoli.
Case di fango e lamiera,
senza luce, acqua, gas,
fogne». Baraccopoli come
Korogocho o Kibera
(9).
«A Korogocho, dove
Dio è difficile da incontrare,
possono uccidere –
racconta padre Alex Zanotelli,
che lì ha vissuto per anni –
per una gomma di bicicletta.
Ma non si accontentano della
tua vita. La fanno a pezzi.
Troppe volte, per uscire dalla
mia baracca, ho dovuto scavalcare
cadaveri sfigurati».
A Kibera, nel dicembre
2001, ci furono almeno 18 morti in
una rivolta scoppiata a causa – pare
incredibile – degli affitti delle baracche.
«A Nairobi – spiega ancora padre
Alex -, 2 milioni di neri vivono
nell’1,5 per cento dell’intera terra.
La maggior parte vive sardinizzata
nelle bidonville dove i ricchi pretendono
l’affitto di quelle putride baracche.
In Africa oggi è meglio essere
gazzelle e leoni. Quelli sono
cacciati qualche volta.
Gli uomini neri
sempre».

NOTE:
(1) Il libro è stato pubblicato in Italia
con il titolo La montagna dello
splendore, Edizioni Jaca Book,
Milano 1977.
(2) Si veda: Aa.Vv., «La qualità della
vita nel mondo» / Social Watch –
Rapporto 2001, Emi, Bologna
2001.
(3) «I tratti essenziali – scrive l’economista
Michele Candotti (in Debito
da morire, Baldini&Castoldi 2000) –
sono (…) il taglio della spesa pubblica,
il licenziamento dei dipendenti
pubblici, la privatizzazione delle
compagnie statali e parastatali. (…)
Ed è credibile che la ricetta antipovertà
sia negoziata da e con quel
governo che ha creato, anno dopo
anno, abuso dopo abuso, la povertà
stessa?».
(4) Al riguardo si veda lo straordinario
volume del Centro nuovo modello
di sviluppo Guida al consumo
critico, Emi, Bologna 2000.
(5) Pubblicato dal settimanale
«Carta» dell’8 agosto 2002.
(6) La scorsa estate l’«Agenzia missionaria
d’informazione» (Misna,
Missionary service news agency) ha
ricevuto il prestigioso premio Saint
Vincent di giornalismo.
(7) Lo scorso maggio il parlamento
kenyota ha approvato il «Books and
Newspapers Act», che sottopone al
controllo governativo libri, quotidianie
e periodici. D’altra parte, i 3 quotidiani
principali – The Standard,
Kenya Times, Daily Nation – da
sempre subiscono la pesante influenza
del governo.
(8) La storia di quelle drammatiche
giornate è stata raccontata da
Missioni Consolata nel dicembre
1997.
(9) «Eccoli, gli abitanti di Kibera.
Arrivano dalle campagne e sveano
lì. Le vittime dello “sviluppo insostenibile”.
Le vittime dei cambiamenti
climatici che hanno prosciugato i
campi spingendoli verso quella città
di pattumiera. Le vittime delle multinazionali
alimentari che acquistano i
terreni dei loro padroni per coltivare
prodotti da vendere all’estero (caffè
e cacao, soprattutto) invece del
grano che servirebbe a sfamarli. Le
vittime dei governi corrotti che incoraggiano
l’abbattimento selvaggio
delle foreste e il commercio abusivo
del legname. Le vittime delle politiche
sanitarie che non riescono a
sconfiggere ancora la malaria, figuriamoci
l’ultimo flagello, l’Aids, che
l’Occidente ormai fa quasi finta di
non conoscere più» (il Venerdì, 23
agosto 2002).
Sulla bidonville di Kibera è uscito a
settembre un film-denuncia, Baba
Mandela, del regista italiano
Riccardo Milani, prodotto con il contributo
del comune di Roma, della
Provincia di Torino, di Legambiente
e Amref.

«PER IL BENE DEL PAESE,
È ORA DI CAMBIARE»

Politica, economia,
società, corruzione,
violenza, Aids, rapporti
con le altre religioni,
ambiente.
Quattro vescovi cattolici
del Kenya, missionari
della Consolata,
parlano della situazione
del paese.
Senza remore, timori
o risposte di comodo.

Torino – Due kenyani e due italiani.
Quattro persone di
diversa età, provenienza, colore
della pelle, con un’importante
caratteristica in comune: tutti e
quattro sono vescovi in Kenya. Ambrogio
Ravasi opera a Marsabit,
Anthony Mukobo a Nairobi, Virgilio
Pante a Maralal, Peter Kihara a
Murang’a. (*)

LA POLITICA
Qual è la posizione della chiesa cattolica
rispetto alla difficile situazione
politica del paese?
Mons. Ravasi: «Lo scorso 28 agosto
la conferenza episcopale del
Kenya, composta da 28 membri
(dei quali 8 sono stranieri appartenenti
a vari istituti missionari), ha rilasciato
una lettera pastorale dalla
quale emerge l’unità della chiesa
cattolica di fronte ai problemi politici,
sociali ed economici del paese.
Siamo molto uniti e, credo di poterlo
affermare, concordi nelle critiche
al governo di Moi e del Kanu,
che ha dimostrato di essere dittatoriale
e deciso a rivincere le elezioni
a tutti i costi. Nonostante il paese
abbia aperto al multipartitismo dal
1992, questa possibilità rimane ancora
sulla carta. Tra l’altro, i partiti
d’opposizione sono divisi e anche
per questo hanno perso le ultime
due elezioni E probabilmente perderanno
pure questa volta.
Per me questo è il momento più
delicato e difficile dall’anno dell’indipendenza.
Il presidente Moi non
può essere rieletto secondo l’attuale
costituzione, ma questa stessa costituzione
è in via di revisione. L’incaricato, il professor YASH PAL
GHAI, dice che non ce la farà a completarla
per dicembre, quando sono
previste le elezioni».
Quindi, si voterà ancora secondo
la vecchia costituzione che favorisce
il Kanu, il partito al potere?
Mons. Ravasi: «Non si sa. Si prevede
uno scontro molto forte che
può anche sfociare in violenza.
L’unica cosa certa è che la popolazione
è stanca di questo potere
corrotto, che per anni ha sfruttato il
paese. Veramente è difficile capire
come faccia a sopravvivere la maggioranza
dei kenyani…».
La chiesa ha preso posizione anche
contro la volontà del presidente Moi
di imporre il proprio candidato…
Mons. Kihara: «Moi è furbissimo.
Vuole Uhuru Kenyatta, figlio di
Jomo Kenyatta, per attrarre i
kikuyu, che in grande maggioranza
(lo so perché anch’io sono kikuyu)
sono contro di lui. E soprattutto lo
vuole per continuare a reggere il
paese: alla guida apparirebbe un
Kenyatta, ma dietro le quinte sarebbe
lui a manovrare. Se così non
fosse, Moi potrebbe avere dei problemi
considerando tutto quello
che ha fatto in questi 24 anni di potere…».
Mons. Mukobo: «Uhuru Kenyatta
non ha alcuna esperienza politica.
Ha sempre fatto il businessman.
Moi prima lo ha fatto ministro, ora
lo ha nominato suo successore. Ma
il nuovo presidente lo debbono scegliere
i kenyani».

L’ECONOMIA
Si dice che globalizzazione sia l’unica
ideologia del mondo odierno.
Quasi una religione che indica l’unica
strada possibile per il benessere
dell’uomo. Che ne dite voi, vescovi
in un paese del Sud del mondo?
Mons. Mukobo: «La globalizzazione
deve rispettare l’individuo e
l’economia locale. Faccio un esempio
concreto: a Nairobi, dove io sono
vescovo ausiliare, si continuano
ad aprire nuovi supermercati, che
però costringono alla chiusura i piccoli
negozi gestiti da gente modesta.
Anche questo è un modo per arricchire
chi è già ricco e impoverire chi
è già povero. Io non nego la possibilità
di fare profitto, ma prima di
tutto guardo alla salvaguardia della
persona.
Con gli africani non funziona né
un capitalismo all’americana né la
ricetta socialista. Credo che occorra
guardare ad esperienze che mecoscolino
pubblico e privato, come
fece Nyerere in Tanzania».
Mons. Pante: «Purtroppo, anche
in Kenya è arrivato un tipo di capitalismo
all’americana, cioè molto
selvaggio. In pratica, funziona così:
i pochi che hanno il potere fanno
quello che vogliono, perché il denaro
è al di sopra della legge. Oggi
si privatizza tutto, dalle scuole agli
ospedali. Le strutture private prendono
sempre più piede, mentre
quelle pubbliche sono un disastro.
Ma per i poveracci (che sono la stragrande
maggioranza) non c’è alternativa,
perché non possono permettersi
di andare nella clinica o
nella scuola privata.
Faccio un esempio, che vedo nella
mia diocesi di Maralal. Qui un
maestro deve lasciare il villaggio dove
lavora per andare a ritirare la paga
e per questo perde almeno una
settimana. In questo modo i ragazzi
perdono molto tempo prezioso.
Quindi, i bambini samburu, già
molto svantaggiati a causa del loro
isolamento, restano sempre più indietro».
Come in tutti i paesi del Sud del
mondo, anche in Kenya ci sono due
tipi di arrivi dal Nord del mondo: chi
viene per aiutare e chi per interesse…
Mons. Pante: «Quelli che vengono
ad aiutare sono i missionari e i
volontari delle Ong, mentre le società
cercano i loro interessi.
Il paese non ha ricchezze nel sottosuolo
e, a ben guardare, ciò è probabilmente
una fortuna. Altrimenti,
ci sarebbero le guerre per il petrolio,
per i diamanti o per altro
ancora, come avviene in altri paesi
a noi vicini.
Ci sarebbe la risorsa del turismo.
Il Kenya è un paese bello e variegato:
c’è il deserto, la savana, le spiaggie,
i parchi. Purtroppo, le società
legate al turismo vengono qui, ma i
soldi normalmente tornano in Italia
o negli altri paesi ricchi.
Comunque, in questi ultimi anni
c’è stata meno gente che è venuta
ad investire in Kenya, a causa di
quell’incertezza politica di cui hanno
parlato i miei confratelli».

L’AMBIENTE
Si è appena chiuso il Summit di
Johannesburg sullo sviluppo sostenibile.
Come tutti i paesi africani, anche
il Kenya deve affrontare un enorme
problema ambientale: inquinamento,
deforestazione, mancanza
di piogge. Com’è la situazione?
Mons. Pante: «Soltanto un quarto
del Kenya è adatto all’agricoltura.
I restanti tre quarti sono savana,
che vanno bene per la pastorizia.
Così ci sono zone molto popolate al
centro del paese. Dove sono io, si
lotta anche per pochi metri di terra
coltivabile.
Il taglio delle foreste è pazzesco:
ormai ne sono rimaste pochissime.
C’è una professoressa kikuyu che si
batte contro tutto questo. Si chiama
WANGARI MATHAI e appartiene al
“Green Belt Movement”, ma purtroppo
la mettono sempre in prigione…
La gente cresce, ha bisogno di terra
e abbatte le foreste…».
Dunque, è un problema di ignoranza
e povertà…
Mons. Pante: «Sì, ma anche di
corruzione. In Kenya, se tu paghi le
bustarelle, scavalchi tutte le leggi. E
non c’è soltanto il problema delle
foreste. I fiumi sono pochissimi e
l’inquinamento dell’acqua peggiora
la situazione.
A Nairobi le macchine sono tutte
fuori legge: rilasciano nell’atmosfera
fumi pazzeschi… Ciò avviene nella
capitale, ma anche nelle piccole
città, inquinate al massimo. Insomma,
il problema dell’ambiente è
molto serio».
Possiamo dire che la terra è in mano
a latifondisti, piuttosto che a piccoli
proprietari?
Mons. Pante: «Certo, c’è poca
gente che ha molta terra e chi non
ne ha affatto. L’interesse privato
prevale sul benessere comune. I ricchi
si accaparrano la terra per investire,
per fare palazzine…
Anche nella nostra zona, dei samburu
è così. Una volta la terra era
proprietà degli anziani, oggi è privata.
Si vedono fili spinati e recinzioni
per ogni dove».
Questo è legale?
Mons. Mukobo: «: «Beh… Il ministero
addetto alla terra c’è, ma il
presidente può venire qui e dire io
ho regalato questa terra a queste
persone perché sono del mio partito.
È così che i politici guadagnano
potere…».

LA CORRUZIONE
Cosa può fare un vescovo di fronte
al problema della corruzione?
Mons. Kihara: «Come vescovi
cattolici dobbiamo gridare e ancora
gridare che non è giusto, non è
corretto perché è contro la legge,
contro la natura, contro l’uomo.
Dobbiamo ricordare ciò che anni
fa lo stesso Kenyatta, il padre della
patria, disse: “La chiesa è la coscienza
del popolo”».
Comportandovi così, voi rischiate
di farvi nemici potenti e pericolosi.
Proprio da poco c’è stato l’anniversario
dell’uccisione di padre Antony
Kaiser…
Mons. Kihara: «Certo, è così. Padre
Anthony morì per aver affrontato
questi problemi. Anche noi
dobbiamo essere pronti a una simile
eventualità».

LE RELIGIONI
Parliamo dei rapporti con le altre
religioni.
Mons. Ravasi: «Parlando delle altre
religioni, c’è innanzitutto il rapporto
con il vasto mondo che segue
le religioni tradizionali. Sono tutte
persone profondamente legate alle
loro tradizioni, ma al tempo stesso
aperte al messaggio evangelico.
Mancano solo i mezzi per raggiungerle,
specialmente quelle appartenenti
a minoranze abbandonate.
Per quanto rigurda le altre religioni
cristiane, c’è stato un cambiamento
radicale di attitudine. Da una
quasi inimicizia tra la chiesa cattolica
e le chiese protestanti
(chiamiamole così, anche se è una
definizione non corretta) siamo oggi
su una buona strada. Ricordo che
mons. Cavallera, mio predecessore,
faticò molto ad entrare nel nord (in
quelle che sono ora le diocesi di
Marsabit e Maralal), perché c’era la
presenza massiccia degli anglicani,
favoriti dal governo coloniale inglese.
Poi venne il Vaticano II che smussò
un po’ questo clima di inimicizie.
In questo momento c’è una atmosfera
di reciproco rispetto con un
tentativo di collaborare su programmi
comuni, dove non c’è un elemento
proprio di una chiesa. Per
esempio, abbiamo collaborazioni
nel campo dell’istruzione e della sanità.
Penso che non siamo ancora al
vero ecumenismo, ma questa è la
strada giusta».
Ci rimane da dire dell’islam…
Mons. Ravasi: «Qui il discorso è
molto diverso.
Ci sono due tipi di islamismo. C’è
quello tradizionale, che è in Kenya
da anni e che ci rispetta, perché ha
visto che la nostra chiesa ha portato
aiuti e favorito lo sviluppo della
gente.
Ma da 10-15 anni è entrato nel
paese anche l’islam fondamentalista
e con questo c’è poco da ragionare.
Sono venuti dall’estero, sono ben
pagati, hanno molti mezzi in mano…».
Da dove provengono questi soldi?
Mons. Ravasi: «Vengono da
Mombasa (roccaforte dell’islam) e
dall’estero: Arabia Saudita, Yemen,
Iraq, Iran, India. Con questi petrodollari
in mano fanno uno sfacciato
proselitismo».
Anche il cattolicesimo fa opera di
proselitismo…
Mons. Ravasi: «È molto diverso.
Il cristianesimo prima si spiega alla
gente, poi si impianta, senza imposizione
o violenza.
Dispiace che nel passato noi siamo
stati accusati di usare le nostre
scuole per spingere quelli che erano
seguaci di religioni tradizionali a
diventare cattolici. Non è stato così.
Noi volevamo farli arrivare ad un
certo livello per poi lasciarli liberi di
valutare il nostro messaggio.
Adesso gli islamici fanno proselitismo
nella maniera più sfacciata.
Come? Ad esempio, pagando.
Tempo fa, sono venuti tre giovani
a trovarmi e mi hanno detto: vescovo,
ci hanno dato 20 mila scellini
(circa 300 euro) per pagare la retta
scolastica e noi abbiamo
promesso di seguire la fede islamica
pur di avere quei soldi per gli studi.
Cosa ne pensi? “Che avete fatto
male, perché avete venduto la vostra
fede”, ho risposto».
È corretto affermare che per un africano
è molto più facile diventare islamico?
Mons. Pante: «Secondo me, sì. È
molto più facile, perché l’islam non
è esigente come la chiesa cattolica.
Si pensi ad esempio alla poligamia
consentita dall’islam, ma non dal
cattolicesimo. E, nel caso dei nomadi
e dei pastori, la poligamia è
molto importante.

L’AIDS
In Occidente si parla meno di
Aids. Ma il problema è rimasto tale
e quale nei paesi del Sud, dove le cure
non arrivano o sono inaccessibili.
Com’è in Kenya?
Mons. Pante: «Purtroppo, il problema
dell’Aids c’è ed è enorme».
Che fa il governo? E la chiesa cattolica?
Mons. Pante: «Il governo fa molta
propaganda al condom (preservativo)
e accusa noi perché non ne
favoriamo la diffusione e l’utilizzo.
Se fosse questa la soluzione del problema…».
Mons. Kihara: «Le statistiche sono
drammatiche: ogni giorno 700
persone muoiono per Aids. E mancano
tutte quelle che sfuggono a
qualsiasi rilevazione. Noi abbiamo
un team di persone che vanno in giro
a parlare del problema dell’Aids.
Quando la gente soffre, la chiesa
deve essere presente per alleviare il
dolore. Qualsiasi sia la ragione di
quella sofferenza…».

(*) L’intervista collettiva è stata raccolta
il 5 settembre 2002.

DAL REGNO DI MALINDI
ALLA DITTATURA DI DANIEL ARAP MOI

800-1400: la costa
Arabi e persiani creano città costiere: Malindi, Mombasa,
Ghedi e altri centri di cultura islamica e di economia mercantile.
1498: i portoghesi
Vasco da Gama e i portoghesi trasformano Malindi in una
base di appoggio delle navi dirette verso l’India.
1500: migrazioni
Iniziano migrazioni di popoli bantu (kikuyu e altre etnie)
che occupano a poco a poco le aree intorno al monte
Kenya, scacciandone i primitivi abitanti (pigmei e altri).
1600-1792: Mombasa
Per quasi 200 anni i lusitani si stabiliscono nella città costiera
di Mombasa.
1890: tedeschi e inglesi
La presenza europea è una conseguenza della Conferenza
di Berlino (1885) e del successivo accordo anglo-tedesco
che definisce le rispettive sfere d’influenza nell’area: ai tedeschi
il Tanganyika, agli inglesi il Kenya e l’Uganda.
1896-1901: ferrovia
Si costruisce la ferrovia Mombasa-Kampala, che favorisce
le comunicazioni e le esplorazioni nell’interno.
1900: occupazione delle terre
Le terre lungo la linea ferroviaria vengono occupate da
coloni europei, cosicché dei quasi 5 mila kmq di terre fertili,
4.200 appartengono a 5 mila europei, mentre un milione
di kikuyu (una delle etnie originarie) occupano meno
di 1.000 kmq, senza che vi sia alcun indennizzo o compensazione
per questo sfruttamento.
1920: masai e kikuyu
Popolazioni masai (pastori d’origine nilotica) e kikuyu si
costituiscono in associazione per rivendicare i loro diritti,
soprattutto contro la riduzione dei territori delle riserve,
l’aumento delle tasse indigene e il taglio dei salari nelle
piantagioni di caffè, sisal e granoturco.
1945-1946: il Kau e Jomo Kenyatta
Sorge, come partito politico riconosciuto, il «Kenya african
union» (Kau). Dopo 15 anni in Europa, rientra in
Kenya Jomo Kenyatta (kikuyu), che viene eletto presidente
del Kau. Inizia la lotta per il raggiungimento dell’autogoverno
e per i diritti sociali.
1947: il movimento dei «Mau Mau»
Parallelo al partito legale sorge un movimento clandestino,
rivoluzionario e culturale denominato «Mau Mau».
1952: repressione coloniale
La rivolta cruenta dei Mau Mau contro i coloni bianchi semina
terrore e morte. In risposta all’escalation di attentati
ad opera del movimento, l’amministrazione coloniale
imprigiona migliaia di kikuyu in campi di concentramento.
Anche Jomo Kenyatta è imprigionato (1953-1961),
in quanto sospettato di far parte dei Mau Mau.
1960: arriva il Kanu
Dopo anni di brutale repressione e stragi indiscriminate
da parte dei governi coloniali, la Kau può tornare alla legalità,
con il nome di Kanu (Unione nazionale africana del
Kenya, che raggruppa kikuyu e luo). Sorge anche un secondo
partito, il «Kenya african democratic union» (Kadu),
orientato verso uno stato di tipo federale.
1963: arriva l’indipendenza
Il 12 dicembre viene proclamata l’indipendenza («Uhuru
») del Kenya, che entra nel Commonwealth britannico.
Kenyatta è eletto primo ministro; «Harambee», «tiriamo
insieme», è il nome del programma per costruire
il paese.
1964: Kenyatta presidente
Il 12 dicembre Kenyatta viene eletto primo presidente,
sconfiggendo Tom Mboya, di formazione cattolica, e Jaramogi
Oginga Odinga, marxista.
1969: delitto eccellente
Tom Mboya viene ucciso in una via di Nairobi. Kenyatta
fa arrestare Odinga, come presunto mandante dell’assassinio.
settembre 1978: da Kenyatta a Moi
A 85 anni, muore Kenyatta, considerato il padre della patria
e ormai divenuto un mito. Gli succede nella carica Daniel
Arap Moi, fino ad allora vicepresidente, appartenente
a un’etnia poco numerosa, i kalenjin.
settembre-novembre 1978: elezioni-farsa
Quando vengono indette le elezioni generali, il partito di
governo, il Kanu, è l’unico autorizzato a presentare candidati
e Moi viene perciò confermato nella carica. Il presidente
lancia una nuova parola d’ordine: «nyayo» (le orme),
per indicare il futuro seguendo gli esempi passati.
1982: fallito colpo di stato
Tentativo di colpo di stato ad opera dell’aviazione con centinaia
di morti e 3 mila arresti. Il presidente Moi indice elezioni
anticipate e si fa rieleggere presidente (1983).
1987-1989: conflitti regionali
Scoppia un conflitto con l’Uganda (fine 1987). Nel settembre
1989 ci sono problemi con la Somalia.
1988: Moi sempre più dittatore
Nonostante la dura politica di risanamento imposta dal Fmi
e dalla Banca mondiale, le elezioni consolidano il potere
di Moi e del Kanu.
Nello stesso anno Moi porta a termine la formazione dello
stato autoritario mettendo il potere giudiziario sotto il
suo diretto controllo ed estendendo i termini della carcerazione
preventiva da 24 ore a 14 giorni, senza necessità
di avviso al giudice.
febbraio 1990: assassinio politico
Robert Ouko, ministro degli esteri e critico feroce della
corruzione a livello di consiglio dei ministri, viene misteriosamente
assassinato.
inizio 1992: arresti di oppositori
L’avvocato James Orengo e l’ecologista Wangari
Maathai vengono arrestati e accusati di
«diffondere voci tendenziose» che attribuiscono al
presidente Moi piani tesi a interrompere il processo
di democratizzazione iniziato nel 1991.
febbraio 1992: un nuovo partito
Viene creato il Partito democratico (Pd),
un nuovo gruppo di opposizione al governo
di Moi, favorevole alla creazione
di un sistema democratico pluripartitico.
dicembre 1992:
quarto mandato per Moi
Arap Moi assume il suo quarto mandato
consecutivo, dopo aver vinto le elezioni generali.
febbraio 1993: ecco l’Fmi
Il governo prepara un piano per la privatizzazione e la liberalizzazione
del commercio estero, che però viene considerato
insufficiente dal Fondo monetario internazionale.
aprile 1994: prestito
Dopo una nuova svalutazione dello scellino (23,47%), la
Banca mondiale ordina il pagamento di un prestito di 350
milioni di dollari.
dicembre 1994: soddisfazioni?
Gli organismi finanziari e i paesi creditori del Kenya manifestano
la propria soddisfazione per la politica economica
e per l’introduzione del multipartitismo.
1995: privatizzazioni
Nairobi annuncia la privatizzazione parziale della compagnia
aerea nazionale e di altre importanti aziende statali.
agosto 1997: scontri a Likoni
A Likoni, sobborgo di Mombasa, avvengono scontri con
decine di morti e ingenti distruzioni. Oltre mille persone
trovano rifugio all’interno della missione dei missionari
della Consolata.
dicembre 1997: quinto mandato per Moi
Con l’opposizione divisa, il presidente Daniel Arap Moi
viene rieletto per la quinta volta con il 40,1% dei voti.
febbraio 2001: processo a New York
Comincia a New York il processo ai quattro musulmani
accusati di aver messo le bombe alle ambasciate Usa di
Nairobi e Dar es Salaam che il 7 agosto 1998 uccisero
224 persone.
febbraio-marzo 2001: siccità e guerra tra poveri
Un gruppo di razziatori samburu uccide 30 pastori borana
e ruba 15 mila capi di bestiame. In marzo razziatori
pokot uccidono 47 allevatori per impossessarsi delle man-
drie. Battaglia anche tra pokot e turkana con oltre 30 vittime.
La prolungata siccità ha esasperato gli animi.
marzo 2001: via i dipendenti pubblici
Il governo Moi fatica a rispettare il programma di ristrutturazione
(cioè di licenziamenti) delle strutture pubbliche.
Nel 2000 erano stati mandati a casa 25.000 impiegati.
Entro il 2002 dovrebbero essee licenziati altri 40.000.
aprile-luglio 2001: la censura di Moi
La polizia chiude la radiotelevisione privata «Citizen». Aveva
aperto due anni fa e si era distinta per l’opposizione
al governo. In luglio vengono incarcerati Asema Muyoma
e David Matende, editore e redattore del settimanale
«Weekly Citizen». Sono accusati di aver diffuso notizie allarmistiche
attraverso un articolo in cui si accusavano funzionari
di polizia di aver partecipato a incidenti di matrice
politica a Nairobi.
14 agosto 2001: respinta legge anticorruzione
Il parlamento respinge la legge anticorruzione. La approvazione
della legge era considerata, dal Fmi, una condizione
per la ripresa degli aiuti inteazionali, interrotti
da un anno. Il Kenya è, da anni, classificato ai primi posti
tra i paesi più corrotti. Nel 2001 in questa poco ambita
classifica era preceduto soltanto da Bangladesh, Nigeria,
Uganda e Indonesia.
12 ottobre 2001: musulmani contro gli Usa
Migliaia di musulmani protestano a Nairobi contro gli attacchi
americani all’Afghanistan nonostante la polizia abbia
vietato le manifestazioni.
4-5 dicembre 2001: gli «affitti» della baraccopoli
Avvengono scontri a Kibera (Nairobi), una delle baraccopoli
più grandi d’Africa (si parla di 700 mila abitanti), a
causa delle proteste per gli «affitti» troppo alti: si contano
almeno 18 morti e migliaia di persone in fuga. Il problema
nasce dal fatto che i proprietari della terra pretendono
un affitto per le baracche…
giugno 2002: rinviate le elezioni?
Daniel Arap Moi e il suo partito vogliono rinviare le elezioni,
previste per dicembre, adducendo come giustificazione
che non c’è tempo sufficiente per approvare la nuova
costituzione, attualmente in fase di elaborazione.
Per le opposizioni si tratta di un ennesimo espediente per
prolungare ancora il mandato di Moi (presidente dal 1978)
e del Kanu (al potere dal lontanissimo 1963).
6 agosto 2002: Moi non molla
Il presidente Arap Moi «sceglie» il suo successore: Uhuru
Kenyatta, 41 anni. Mentre anche all’interno del Kanu si
levano proteste, George Saitoti, attuale vicepresidente,
lancia una propria iniziativa politica.
13 agosto 2002: lotta per la successione
Il ministro dell’ambiente, Joseph Kamotho, viene rimosso
per aver criticato la decisione di Moi di candidare Uhuru
Kenyatta alla presidenza senza una consultazione intea
(sul tipo delle «primarie») al Kanu.
14 agosto 2002: «Decidano gli elettori»
L’arcivescovo di Mombasa, monsignor John Njenga, interviene
nel dibattito politico per auspicare che il nuovo
presidente venga scelto dagli elettori kenyani e non da
Moi.
23 agosto 2002: elezioni a dicembre
Le elezioni generali si terranno a dicembre, indipendentemente
dall’approvazione della nuova costituzione.

Fonti: Atlante Imc, Sulle vie dei popoli, Torino
1993; Aa.Vv., Guida del mondo. Il mondo visto
dal Sud, Emi, Bologna 2002; Nigrizia (a cura di), Un
anno con l’Africa, Emi, Bologna 2002; archivio Misna
(www.misna.org).

PAOLO MOIOLA




Viaggio in Togo: paese del vodoun

Con 56 mila kmq di
superficie (due volte la
Sicilia), dal Golfo di Guinea
alle soglie del Sahel, il Togo
è uno dei più piccoli stati
africani. Nessuno ne parla,
se non con imbarazzo: da 35
anni lo governa un dittatore
per nulla intenzionato di
farsi da parte. Per la
mancanza di democrazia e
di rispetto dei diritti umani,
l’Occidente ha chiuso la
borsa degli aiuti: a soffrire,
però, sono 5 milioni di
abitanti, affogati nella
miseria più nera.
Eppure qualcosa si muove:
la gente non è rassegnata a
tale destino e la chiesa è al
suo fianco.
Con 56 mila kmq di
superficie (due volte la
Sicilia), dal Golfo di Guinea
alle soglie del Sahel, il Togo
è uno dei più piccoli stati
africani. Nessuno ne parla,
se non con imbarazzo: da 35
anni lo governa un dittatore
per nulla intenzionato di
farsi da parte. Per la
mancanza di democrazia e
di rispetto dei diritti umani,
l’Occidente ha chiuso la
borsa degli aiuti: a soffrire,
però, sono 5 milioni di
abitanti, affogati nella
miseria più nera.
Eppure qualcosa si muove:
la gente non è rassegnata a
tale destino e la chiesa è al
suo fianco.

Storia di un dittatore «dinosauro»
L’INNOMINATO
Da secoli il Togo vive nel limbo della storia (vedi
scheda). Pochi saprebbero indicarne la posizione
geografica; meno ancora ne conoscono la
situazione della gente, violentata da una
dittatura che dura da 35 anni, senza sapere come
e quando potrà liberarsene

I pannelli con la sua faccia ossessionano
il paese; spille e distintivi
con la sua immagine sono
su tutti i petti d’impiegati governativi;
nugoli di donne lo accolgono
danzando ogni volta che visita un
villaggio; la sera, la televisione racconta
come ha speso la giornata…
Parlando con la gente, però, il suo
nome non lo sento pronunciare mai.
Anche i più coraggiosi usano i pronomi:
lui, costui, quello lì, quello là.
I sostenitori lo chiamano: timoniere,
padre della nazione, salvatore
della patria; i più prudenti: vecchio,
dinosauro; gli avversari gridano: assassino,
bufalo, elefante, lupo mannaro,
demonio di Pya, suo paese natale,
nel nord del Togo.
«Lui» è Gnassingbé Eyadéma, da 35
anni presidente del Togo, il più longevo
dittatore di tutti i paesi dell’Africa
post-coloniale. E resterà ancora
a lungo sulla scena, secondo diplomatici
e analisti politici.

NAZIONE ALLO SFASCIO
«Radio e televisione presentano la
situazione del paese come la migliore
che possa esistere – afferma un
missionario, che per prudenza non
nominiamo -; “lui” rassicura che tutto
va bene. Ma la realtà è differente:
la povertà impera; manca il lavoro e
la gente sopravvive col piccolo commercio;
la terra disponibile è ancora
molta, ma rende poco, per arretratezza,
siccità o troppe piogge; maestri
e funzionari statali hanno stipendi
da fame, arretrati fino a 5-6
mesi e non tutti retribuiti».
In tali condizioni, non ci si può
aspettare che gli insegnanti siano
motivati e le scuole funzionino: quelle
elementari sono in tutti i villaggi,
ma il tasso di analfabetismo è al
50%, tra le donne soprattutto.
Il rendimento scolastico è in caduta
libera. Nelle superiori i programmi
non sono svolti per intero e, all’esame
di maturità, la percentuale dei
promossi non supera il 10%; in alcuni
licei il tasso è zero. I giovani ripetono
per più anni, finendo d’iscriversi
all’università a 30 anni. Molti abbandonano
gli studi e cercano di
scappare in Europa o America, perché
il paese non garantisce un avvenire
alla sua gioventù.
Il paese è ricco di fosfati; ha industrie
di cemento; produce cotone,
caffè, cacao; ma nessuno sa dove vadano
a finire i proventi di tali risorse,
poiché ormai tutto è privatizzato.
«È stato privatizzato anche l’acquedotto
– aggiunge il missionario -.
L’acqua potabile si paga; chi non può
permettersela attinge ai fiumi, con
deleterie conseguenze per la salute».
La gente non protesta?
«Resistenze e proteste sono frequenti
e nella legalità – continua il
missionario -. Uno sciopero generale,
protratto per molti giorni, ha paralizzato
il paese. Lomé, per esempio
sembrava una città fantasma: tutto
era chiuso e nessuno per strada. Per
ora il popolo è vincente, perché ha
grande forza di sopportazione; sa che
la violenza genera violenza. La pazienza
della gente rasenta il fatalismo;
vorremmo che avesse più iniziativa
e, da parte nostra, bisognerebbe
impegnarsi di più nell’opera di
coscientizzazione: non si può parlare
molto, altrimenti quello là…».

IL COLONNELLO
Di etnia kabyé, nato nel 1935, dopo
un breve curricolo scolastico
Etienne Eyadéma diventò sotto ufficiale
dell’esercito francese e militò
per 12 anni sotto tale bandiera in
Dahomey (attuale Benin), Algeria,
Niger e Indocina. L’esperienza militare
ha supplito alla mancanza di formazione
scolastica, facendo di lui un
grande lavoratore, che si corica a
mezzanotte e si alza alle 4 del mattino.
I vicini lo dipingono affabile, disponibile
all’ascolto, grande intrattenitore
che racconta fatterelli. Tutte
doti abilmente sfruttate per farsi
una buona reputazione all’estero e
interporsi come uomo di mediazione
in vari conflitti africani: Biafra,
Ciad, Niger e Congo (Zaire).
Scampato a vari incidenti e attentati,
veri o presunti, si è costruito
un’aureola d’immortalità
e la gente lo crede dotato di
poteri occulti. A tali credenti
egli dice che, a dargli
forza, c’è un «solo marabutto:
il caro popolo
togolese».
Eyadéma militava
ancora nell’esercito francese il 27
aprile del 1960, quando il Togo, terzo
paese a sud del Sahara, dopo
Ghana (1957) e Camerun (gennaio
1960), raggiunse la piena sovranità.
Artefice dell’indipendenza fu
Sylvanus Olympio, di etnia ewé del
sud, nazionalista moderato, vero
creatore del Togo moderno.
Il presidente, però, sottovalutò
le tensioni tra nord
e sud del paese: le popolazioni settentrionali, da lui definite
petits nordiques, si sentirono trascurate.
E quando, nel 1963, rifiutò d’integrare
nell’esercito nazionale 600
soldati, quasi tutti kabyé del nord, reduci
dal servizio sotto la bandiera
francese, il colonnello Eyadéma ne
approfittò per fare un golpe militare:
Olympio fu freddato mentre cercava
di rifugiarsi nell’ambasciata americana.
Eyadéma rivendica ancora a sé tale
assassinio, anche se altri dicono
che sia stato un soldato francese a
sparare al presidente.
Eyadéma fu il primo a innescare la
danza macabra di colpi di stato militari
che, in breve tempo, avrebbero
consegnato tanti paesi africani a dittatori
senza scrupoli come lui.
Promosso generale dell’esercito,
nel 1967 Eyadéma capeggiò un altro
colpo di stato, incruento, e si autoproclamò
capo dello stato.

IL DITTATORE
In due anni Eyadéma instaurò un
regime autoritario: fece confluire i
movimenti operai in un’unica federazione
sindacale; abolì i partiti politici
e fondò il suo: Raggruppamento
del popolo togolese (Rpt).
Nei paesi confinanti erano in corso
rivoluzioni marxiste (Ghana, Burkina
Faso e Benin); ma egli rimase legato
all’Occidente, pur senza rompere con
la Corea del Nord. E ne fu largamente
ricompensato con aiuti militari dai
francesi e benevolenza da Washington
e vari governi europei, che chiusero
gli occhi sui suoi eccessi.
Ciò non gli impedì qualche sterzata
nazionalista: nel 1972-76 nazionalizzò
la produzione ed esportazione
dei fosfati. Emulando l’amico Mobutu,
dittatore dello Zaire, si erse a
paladino dell’«autenticità»: ordinò ai
togolesi di rimpiazzare i nomi europei
con quelli africani e lui stesso
cambiò Etienne in Gnassingbé; costruì
uno dei più pervasivi culti della
personalità, circondandosi di uno
stuolo di leccapiedi e di donne festanti
in abiti tradizionali.
Nel 1974 uscì indenne da un incidente
aereo, da lui pubblicamente
attribuito a un complotto di «imperialisti
» stranieri, e diventò più irrazionale
e imprevedibile.
Per una decina d’anni (1970-80)
l’incremento del turismo e l’aumento
del prezzo dei fosfati fecero esplodere
un boom economico che meritò al
Togo l’appellativo di «Svizzera africana
». Eyadéma cavalcò il miracolo
per varare una nuova costituzione
(1979) che sanciva il presidenzialismo
e, manco a dirlo, fu eletto presidente
per sette anni.
La pacchia finì nel 1981: il prezzo
dei fosfati si dimezzò e la recessione
economica mondiale ridusse drasticamente
il turismo europeo; il deficit
della bilancia dei pagamenti fece
schizzare il debito estero a un miliardo
di dollari.
Per avere altri prestiti, Eyadéma dovette
adottare le misure imposte dagli
organismi finanziari mondiali:
congelare i salari, ridurre le spese statali,
aumentare le imposte fiscali, privatizzare
le aziende pubbliche e licenziare.
Il debito estero aumentava
e l’economia continuò a decadere.
Sindacati e movimenti di opposizione
alzarono la testa con scioperi
e pubbliche proteste. Ma alle elezioni
del 1986, il presidente fu rieletto
per altri sette anni col 99,95% dei
voti.
Di fronte al plebiscito fasullo, l’opposizione
scese di nuovo in piazza.
Nel settembre dello stesso anno un
gruppo di esuli in Ghana riuscì a entrare
nel palazzo presidenziale e in
un campo militare di Lomé. Ci furono
morti da ambo le parti; Eyadéma
stesso sparò parecchi colpi. Ma a salvarlo
furono 200 paracadutisti francesi,
prontamente inviati dal Gabon
e Centrafrica.
Il dittatore continuò a disfarsi degli
oppositori con ogni mezzo illecito,
finendo regolarmente sulla lista
nera di Amnesty Inteational.

SPERANZA STRANGOLATA
Finita la guerra fredda (1989), la
Francia cominciò a mollare Eyadéma
e fece pressione perché aprisse il paese
al multipartitismo, come stavano
facendo altre ex colonie francesi.
Per mettere in cattiva luce i sistemi
pluralisti, la televisione di stato
mostrava scioperi e violenze; ma ottenne
l’effetto contrario: all’inizio
del 1991 le forze favorevoli alla democrazia,
in maggioranza ewé e mina
del sud, iniziarono scioperi e tumulti,
repressi brutalmente: 28 corpi
furono ripescati nella laguna di
Lomé e scaricati sulla gradinata dell’ambasciata
americana.
Di fronte alle pressioni estee e
intee, Eyadéma dovette concedere
libertà di stampa, liberare i prigionieri
politici e convocare una Conferenza
nazionale sovrana (Cns), come
era avvenuto l’anno prima in Benin,
per decidere l’avvenire del paese.
Aperta nel giugno 1991 e presieduta
da mons. Philippe Kpodzro, vescovo
di Atapkamé, poi di Lomé, la
Cns spogliò il dittatore d’ogni potere,
formò un governo di transizione, guidato
da Kokou Koffigoh, già presidente
della Lega per i diritti umani, e
istituì l’Alto consiglio della repubblica
(Atr), massimo organo legislativo,
sempre presieduto dal vescovo.
Ma i militari disertarono subito
l’Assemblea: non ci stavano a perdere
i privilegi e sentirsi rinfacciare torture,
assassinii e carneficine. Quando
fu deciso lo scioglimento del partito
unico (Rpt), essi sequestrarono
e umiliarono i membri dell’Atr finché
non si rimangiarono il decreto; la
settimana seguente presero in ostaggio
il primo ministro, obbligandolo a
formare un governo d’unità nazionale,
cioè con uomini di Eyadéma.
Tattiche intimidatorie e mini colpi
di stato continuarono per tutto il
1992, costringendo Koffigoh a continui
rimpasti governativi, secondo
gli umori del dittatore. Diversi leaders
dell’opposizione subirono attentati,
tra cui Gilchrist Olympio, figlio
di Sylvanus e capo dell’Unione di forze
per il cambiamento (Ufc). Prontamente
ricoverato a Parigi, si salvò.
Più volte Koffigoh chiese alla Francia
di difendere la democrazia; ma
questa non mosse un dito, pur avendo
300 paracadutisti nel Benin, pronti
a evacuare i 3.500 connazionali
ancora in Togo.
In un anno Eyadéma riacquistò
quasi tutto il potere. Sindacati, organizzazioni
politiche e partiti d’opposizione
lanciarono uno sciopero
generale a oltranza, durato nove mesi:
la guardia presidenziale uccise un
centinaio di manifestanti; migliaia di
togolesi fuggirono in Ghana e Benin.
Eppure la Cns è stato un evento
storico: ha permesso alle forze democratiche
di emergere, guardarsi in
faccia; ha fatto il processo al regime,
costringendolo a gettare la maschera;
ha attirato sul paese l’attenzione
della comunità internazionale.
Inoltre la Cns ha varato la nuova costituzione
(1992), fissando la durata
del mandato presidenziale a cinque
anni, rinnovabile una sola volta:
un cavallo di Troia in mano alle forze
democratiche, che possono mobilitarsi
per esigee il rispetto.

FARSA CONTINUA
Ma le elezioni presidenziali del
1993, da tenersi secondo le regole
della nuova costituzione e sotto gli
occhi di osservatori africani e occidentali,
furono una farsa: il principale
oppositore, Gilchrist Olympio, fu
squalificato dalla competizione per
un cavillo burocratico; altri due candidati
si ritirarono. Gli osservatori tedeschi
e americani tornarono a casa;
restarono quelli francesi e del Burkina
Faso e avallarono le elezioni «democratiche
»: il dittatore fu eletto col
96,5% di suffragi; solo un terzo degli
aventi diritto si recò alle ue.
Le elezioni parlamentari del 1994
furono preparate da coprifuoco e sparatorie
giornaliere; ciò nonostante,
l’opposizione ottenne la maggioranza:
su 78 seggi, 34 andarono al Comitato
d’azione per il rinnovamento
(Car), guidato da Yao Abgoyibo, 6 all’Unione
democratica togolese (Udt)
di Edem Kodjo, 38 al partito di Eyadéma.
Ma il dittatore riuscì a dividere
l’opposizione: affidò a Kodjo la formazione
del governo con il suo partito
(Rpt) e il Car fu messo fuori gioco.
Di fronte alle frodi elettorali e violazioni
dei diritti umani, nel 1994 la
Comunità Europea, Stati Uniti e organismi
finanziari mondiali esclusero
il Togo da aiuti e prestiti. Eyadéma
cominciò a stringere rapporti col
Giappone, Arabia Saudita, Emirati
Arabi, Kuwait, Iran, Cuba…
Le elezioni presidenziali del 1998
si svolsero all’insegna «della legge
del terrore, in un clima d’impunità»
secondo Amnesty Inteational, che
portò davanti all’opinione mondiale
centinaia di uccisioni di oppositori e
testimoni. La rivelazione fece imbestialire
il dittatore, costretto ad accettare
una commissione d’inchiesta
internazionale.
La vittoria del dittatore arrivò con
la «frode sistematica», parole del Dipartimento
di stato americano: la
conta delle schede fu bloccata, quando
apparve chiaro che Eyadéma stava
perdendo; la commissione elettorale
fu costretta a dare i numeri: 52%
ad Eyadéma, 34% all’Udt, 9,5% al
Car: un altro plebiscito non era più
credibile.
Inutili furono le contestazioni, disperse
con pallottole e gas lacrimogeni.
Le elezioni parlamentari del
1999 furono boicottate da Car e Udt
e il partito di Eyadéma ottenne quasi
tutti i seggi: 78 su 81. Il governo
fu affidato ad Agbéyomé Kodjo, tuttora
in carica.

TOGO: STATO DI TERRORE»
Ora tutto sembra in pace, ma la povertà
aumenta di giorno in giorno. La
gente è stanca di protestare o, piuttosto,
è terrorizzata. L’opposizione è
imbavagliata: il suo leader principale,
Yao Abgoyibo, è appena uscito di
prigione; molti dirigenti di partiti sono
in esilio; altri cambiano ogni notte
domicilio; continuano la caccia ai
«democratici» e le sparizioni.
Per rientrare nelle grazie dell’Occidente
Eyadéma ha promesso di anticipare
le elezioni presidenziali al
2001: l’anno è passato e nessuno sa
dire se e quando si terranno. La scadenza
naturale è il 2003; si spera che
non si ricandidi: la Costituzione non
permette più di due mandati.
«Lo sanno tutti – afferma un oppositore
-. “Quello là” vuole restare al
potere fino alla morte e tenterà di farlo.
Vuole far credere al mondo che il
Togo è diventato democratico; ma
non è neppure uno stato a partito
unico: è un paese di un uomo solo, di
una famiglia sola. Con un esercito di
12 mila uomini ben pagati, per il 75%
kabyé, che lo riconoscono come unico
capo tribù e due figli in posizioni
chiave, addestrato in ogni tattica di
repressione da istruttori nordcoreani,
è difficile immaginare un rapido e pacifico
cambiamento».
«Più impensabile sarebbe una rivoluzione
– spiega un missionario -.
Il partito del presidente, che continua
a essere unico, è sempre in campagna
elettorale, con menzogne e
insulti all’opposizione e marce di sostegno
al dittatore. Gli stati confinanti
non hanno interesse a destabilizzare
il paese: Benin e Burkina
Faso sono governati da militari puri;
il Ghana è democratico, ma il suo
presidente è stato appena eletto e
accetta il Togo così com’è. Dell’opinione
internazionale il regime se ne
infischia, vomitando insulti da mattino
a sera, specialmente contro Amnesty
Inteational: si è permessa di
dire che “il Togo è uno stato di terrore“,
che esercito e polizia sono la
vera minaccia per la popolazione».
«Anche in Occidente ci sono troppe
forze interessate a lasciare le cose
come sono – aggiunge un altro
missionario -. Il giorno in cui perdesse
il potere, Eyadéma sarebbe messo
sotto accusa, trascinando sul banco
degli imputati potenze e governi stranieri
che lo hanno sostenuto».
Intanto a chi gli domanda se presenterà
per la terza volta la sua candidatura,
Eyadéma risponde che «rispetterà
scrupolosamente la Costituzione
». Ma quale? Il primo ministro
Kodjo getta pietre nello stagno, ventilando
la possibilità di cambiarla, per
dare al suo padrone altri cinque anni
di potere, e il parlamento ha tutti i
numeri per farlo.
Tale cambiamento, tuttavia, sarebbe
una sfida alla Comunità Europea,
che condiziona i suoi aiuti alla ripresa
della democrazia nel paese. Un altro
mandato presidenziale «si tradurrebbe
in un suicidio nazionale – afferma
l’americano Chris Fomunyoh,
direttore degli Affari africani presso
l’Istituto democratico nazionale – e
sarebbe terribile per la regione, per il
Togo e per il continente».

Superficie: 56.785 kmq.
Popolazione: 5,1 milioni di abitanti; è composta da 37 gruppi
etnici; i predominanti sono ewé-mina44%, kabyé27%,
gurma16%, tem4%, kebu3,8%, ana( yoruba) 3,2%, bianchi
0,3%. I brasileños(ex schiavi tornati dal Brasile) costituiscono
una «casta» molto influente sul piano economico e politico.
Lingua: francese (ufficiale) e vari idiomi etnici.
Istruzione: alfabeti 51%; maschi 67%; femmine 35%.
Religione: culti tradizionali 50%; cattolici 24%, musulmani
15%, protestanti 7%.
Capitale: Lomé.
Partiti politici: Raggruppamento del popolo togolese (Rpt), partito
unico fino al 1991; Unione democratica togolese (Udt); Comitato
d’azione per il rinnovamento (Car).
Forma di governo: repubblica presidenziale; presidente è Gnassingbé
Eyadéma dal 1967; primo ministro Koffi Sama dal 27-
6-2002, dopo la rimozione di Agbéyomé.
Moneta: franco C.F.A. (1 euro = 640 C.F.A.).
Debito estero: 1.448 milioni di dollari.
Crescita annua Pil: -1% (1998).
Economia: agricoltura con la produzione per il fabbisogno locale
(mais, miglio, riso, manioca, fagioli, arachidi e frutta) e
per l’esportazione (cotone, cacao, caffè, palma oleifera, cocco).
Minerali: fosfati, di cui il Togo è tra i primi paesi produttori
ed esportatori del mondo. Industrie chimiche, petrolchimiche,
tessili, alimentari e cemento.

Scheda storica politica e religiosa
12°-16° sec.: varie etnie si stabiliscono nell’attuale Togo: kabyéa
nord; ewé, mina, guinlungo le coste.
1470: navigatori portoghesi esplorano le coste dell’Africa occidentale
e iniziano il commercio dell’oro e prodotti esotici.
1482: costruzione del forte a La Mina (Elmina, Ghana).
16°-18° sec.: compagnie commerciali inglesi, olandesi, francesi
e danesi cacciano i portoghesi e monopolizzano il commercio degli
schiavi: Togo e Dahomey prendono il nome di «Costa degli
Schiavi».
1737-1771: la Società dei fratelli moravi (Giacomo Protte) opera
in Costa d’Oro e Togo.
19° sec.: abolizione dello schiavismo: famiglie di afro-brasiliani ritornano
in Togo.
1827: la Società evangelica di Basilea opera tra le popolazioni a
est del Volta.
1842: creazione del vicariato delle due Guinee. Metodisti ad Aneho.
1847: la Missione di Brema fonda missioni nell’interno del Togo.
1860: creazione del vicariato del Dahomey.
18 aprile 1861: primi missionari della Sma sbarcano a Ouidah.
1884: congresso di Berlino: le potenze europee si spartiscono l’Africa
in zone d’influenza; sorprendendo inglesi e francesi, i tedeschi
firmano un trattato di «protezione» col re togolese: per 20 anni sviluppano
infrastrutture e coltivazioni scientifiche.
1886: i padri Moran e Bauquis avvelenati.
1892: creazione della prefettura apostolica del Togo, affidata ai
missionari tedeschi dello Spirito Santo: il loro arrivo segna
la nascita ufficiale della chiesa togolese.
1914: il vicariato del Togo è elevato a prefettura apostolica.
Scoppia la prima guerra mondiale e il Togo è occupato
da inglesi e francesi.
1916: missionari tedeschi dichiarati prigionieri politici,
poi espulsi.
1918: la Società delle Nazioni (oggi Onu) affida due
terzi del Togo alla Francia, la parte occidentale all’Inghilterra.
1921: il Togo francese è affidato ai missionari di Lione
(Sma).
1923-45: mons. Cessou vescovo di Lomé.
1937: erezione della prefettura di Sodoké.
1939-45:2a guerra mondiale: soldati togolesi
nell’esercito francese.
1945: nascita di partiti indipendentisti:
Comitato dell’unione togolese (Cut) e
Partito togolese del progresso (Ptp).
1946: dal regime di mandato a quello
di tutela: il Togo diventa Territorio
d’Oltremare, con proprio parlamento e
deputati a Parigi.
1955: istituzione della gerarchia in Togo:
Lomé diventa arcidiocesi e Sodoké
diocesi.
1956: Togo diventa Repubblica autonoma:
esponente del Ptp, tendenze neocolonialiste.
1958: vince le elezioni Sylvanus Olympio, leaderdel Cut, ewédel
sud, indipendentista moderato.
27 aprile 1960: il Togo ottiene piena indipendenza. Olympio avvia
riforme nazionaliste, attirandosi le ire dei francesi. Si aggrava la tensione
con le etnie del nord.
1962: mons. Dosseh consacrato primo vescovo togolese di Lomé.
1963: colpo di stato guidato da Eyadéma; Olympio deposto e assassinato.
Grunitzky ritorna dall’esilio e guida il nuovo governo.
1964: mons. Atakpah, primo vescovo togolese di Atakpamé.
1965: mons. Bakpessi, primo vescovo togolese di Sodoké.
1967: nuovo golpe(incruento) di Eyadéma, che si autoproclama
capo dello stato e instaura un regime dittatoriale.
1969: movimenti operai riuniti in un’unica Federazione sindacale;
abolizione dei partiti politici e fondazione del partito unico: Raggruppamento
del popolo togolese (Rpt).
1970-80: nazionalizzazione della produzione ed esportazione dei
fosfati e processo di «autenticità» togolese; inizia il miracolo economico,
che merita al Togo il nome di «Svizzera dell’Africa».
1979: nuova costituzione instaura il presidenzialismo: Eyadéma
eletto presidente per sette anni.
1981: crollo del prezzo dei fosfati e recessione internazionale provocano
crisi economica e crescita del debito estero.
1986: Eyadéma presidente col 99,95% dei voti. Tumulti di sindacati
e movimenti di opposizione con scontri e morti.
Eyadéma è salvato dai paracadutisti francesi.
1989: la Francia preme per aperture democratiche.
1991: serie di scioperi e tumulti repressi nel sangue.
Eyadéma è costretto a concedere varie libertà
democratiche.
1991-92: convocazione della Conferenza
nazionale sovrana che avvia il processo democratico
e vara una nuova costituzione, sotto
la minaccia d’intimidazioni, attentati e mini
colpi di stato militari.
1993: elezioni farsa: Eyadéma eletto col 96,5%
di voti.
1994: elezioni parlamentari: l’opposizione ottiene
la maggioranza dei seggi, ma Eyadéma riesce
a imporre il suo governo. Comunità Europea,
Usa e organismi finanziari tagliano aiuti
e prestiti al Togo.
1998: votazioni presidenziali all’insegna di
brogli e terrore: il dittatore vince con il 52%
dei voti.
1999: elezioni parlamentari boicottate dai
partiti di opposizione: Eyadéma ottiene
quasi tutti i seggi in parlamento. Per rientrare
nelle grazie dell’Occidente il dittatore
promette di anticipare le elezioni presidenziali
al 2001: promessa non ancora
mantenuta.

Una chiesa nel cuore della società
PIÙ VOLTE RINATA
Ufficialmente iniziò nel 1892,
ma i precedenti tentativi di evangelizzazione
non sono da trascurare.
L’opera dei missionari ha forgiato
la società togolese, che ancora oggi
guarda alla chiesa come segno
di speranza, per una rinascita
nella giustizia e riconciliazione
nazionale.

Per oltre quattro secoli la storia
del Togo rimase legata a quella
della «Guinea», regione tra il
Senegal e l’equatore, esplorata dai
navigatori portoghesi a partire dal
1470. Per meglio commerciare oro e
prodotti esotici, essi stabilirono vari
insediamenti, ma scartarono le coste
del Togo, prive di porti naturali. Nel
1482 costruirono il forte a Elmina, poi
a Keta (Costa d’Oro, oggi Ghana) e a
Ouidah (Dahomey, oggi Benin).
L’espansione del cristianesimo era
una priorità dei conquistatori portoghesi.
Da ogni viaggio portavano a Lisbona
giovani «guineani» che, dopo
essere stati istruiti, venivano ricondotti
in patria per diffondere la fede
cristiana tra i connazionali. Gli insediamenti
portoghesi erano, quindi,
anche centri missionari, ma è difficile
dire fino a che punto tale irradiazione
abbia toccato il Togo.
0
LA COSTA DEGLI SCHIAVI
Un cronista di quei tempi, Diego
d’Alvarenga, racconta che a Elmina,
nel 1503, «furono battezzati il capo
di Afouto, 6 ufficiali e 100 persone».
Nel 1634 Propaganda fide assegnò
ai cappuccini inglesi l’evangelizzazione
della Costa d’Oro; 10 anni dopo
arrivò a Roma la notizia del battesimo
del capo di Komenda e altri
principi. Poi i calvinisti olandesi presero
Elmina e cancellarono ogni traccia
cattolica.
Nel Dahomey, a est del Togo, i cappuccini
bretoni fondarono una missione
a Ouidah nel 1644; ma gli stregoni,
sobillati da mercanti inglesi e
olandesi, incendiarono la cappella e
i missionari dovettero scappare. Sedici
anni dopo arrivarono i cappuccini
spagnoli, richiesti dal re d’Arda al
sovrano di Spagna, ma furono cacciati
dai portoghesi. Ritentarono nel
1674 tre domenicani francesi: stavano
per convertire il capo di Ouidah,
ma i mercanti di schiavi montarono
la testa ai locali e i missionari morirono
sulla costa, forse avvelenati.
L’evangelizzazione era impossibile:
la tratta degli schiavi portava ad
identificare cristianesimo e schiavismo;
gli schiavisti, indigeni ed europei,
non permettevano che i missionari
turbassero i loro affari. E dovevano
essere enormi, se la regione tra
Keta e Lagos fu per secoli conosciuta
come «Costa degli Schiavi».
I primi a portare il cristianesimo
tra le popolazioni del Togo furono i
missionari protestanti: il loro eroismo
merita tanto di cappello.
Iniziò la Società dei fratelli moravi
con Giacomo Protte, un mulatto
nato in Costa d’Oro da padre danese
e madre africana. Dopo aver studiato
a Copenaghen, nel 1737 fu inviato
a convertire i suoi paesani; quattro
anni dopo toò in Olanda; nel
1757 e 1769 tentò altre due imprese
solitarie. Nel frattempo fu raggiunto
da altri 5 fratelli, tre dei quali scesero
nella tomba nel giro di due mesi.
Nel 1770 altri quattro missionari raggiunsero
i due sopravvissuti: l’anno
dopo morirono tutti e sei senza lasciare
traccia.
Nel 1827 i missionari della Società
evangelica di Basilea arrivarono nel
forte danese di Christianborg. Per
fuggire al clima micidiale della costa,
si concentrarono nell’interno del paese
e cominciarono ad evangelizzare le
popolazioni ad est del Volta.
Nel 1842 i metodisti si stabilirono
a Lagos, Ouidah e Aneho, grazie a ex
schiavi americani, tornati ai paesi
d’origine. Tra i missionari metodisti
si distinse Thomas Freeman, pastore
infaticabile: di padre africano e madre
inglese, fu educato a Londra; in
due riprese (1843 e 1854) visitò tutta
la Costa degli Schiavi, spingendosi
nell’interno del Togo.
Nel 1847 la Società missionaria di
Brema (Germania) si unì agli evangelici
di Basilea. Stabilito il quartiere
generale a Keta, evangelizzarono
la popolazione ewé a est del Volta e
fondarono varie stazioni missionarie,
distrutte dalle guerre e puntualmente
ricostruite; esplorarono le regioni
di Atakpamé e Anfoin, nel cuore del
Togo. Nel giro di 40 anni si succedettero
circa 100 missionari, 54 dei
quali falciati da febbri malariche.

TEMPI EROICI
Con l’abolizione dello schiavismo,
la Costa degli Schiavi vide nascere le
prime comunità cattoliche, formate
da famiglie di afro-brasiliani (Olympio,
de Souza, da Silveira, Santos,
Campos, Sacramento, Paraiso) che
avevano abbracciato il cristianesimo
durante la schiavitù ed erano tornate
nelle terre di origine: mercanti intelligenti,
diventarono l’élite del Togo
e Dahomey.
Nel 1835 Vanessa de Jesus fece costruire
una cappella ad Aneho, la prima
in terra togolese. Distrutta da un
incendio, fu ricostruita da un gruppo
di bahiani, guidati da Joaquim
d’Almeida. Preti portoghesi venivano
da São Tomé per amministrarvi i sacramenti:
il primo battesimo in Togo
porta il nome di Marcos Francisco da
Massa e la data del 1844.
A quel tempo, il Togo era inglobato
nell’immenso vicariato apostolico
delle due Guinee, creato da Propaganda
fide nel 1842, da cui fu ritagliato,
nel 1860, il vicariato del Dahomey
(tra il Volta e il Niger) e affidato
alla Società delle missioni africane di
Lione (Sma). Il 18 aprile 1861 sbarcarono
a Ouidah i primi due missionari,
l’italiano Borghero e lo spagnolo
Feandez.
Senza trascurare i cristiani brasiliani,
i missionari Sma evangelizzarono
i nativi: nel 1963 battezzarono i primi
due togolesi; 10 anni dopo si stabilirono
ad Agoué, in territorio togolese,
e si spinsero nell’interno del
paese, fino a Atakpamé.
Nel 1892 il vicariato fu smembrato
in due prefetture, l’una con sede a
Lagos, l’altra ad Agoué, avendo per
confini i fiumi Ouémé e Volta. Due
anni dopo (1884) il Togo diventò
protettorato tedesco e, con la firma
di accordi con inglesi e francesi, cominciò
ad avere confini più definiti:
tra i fiumi Mono e Volta.
Intanto i missionari francesi continuarono
ad avanzare nell’interno, accolti
a braccia aperte dal cecuziente
re Abasa: all’inizio del 1886, i padri
Moran e Bauquis, fondarono ad Atakpamé
la prima vera stazione missionaria
del Togo. I due padri non stavano
nella pelle per la gioia, ma dovettero
fare i conti con gli stregoni,
che cercarono di avvelenarli insieme
al vecchio re. Dopo vari tentativi, ci
riuscirono (vedi riquadro). Nell’agosto
del 1887 la missione fu abbandonata
e totalmente saccheggiata.

PIONIERI E STRATEGHI
Intanto l’amministrazione tedesca
impose nelle scuole l’insegnamento
della lingua del padrone, pena la
chiusura delle missioni. I missionari
di Brema e Basilea giocavano in casa;
cattolici e metodisti dovettero
correre ai ripari.
La congregazione di Propaganda fide
eresse il territorio del protettorato
a prefettura apostolica del Togo,
e la affidò alla Società del verbo divino
(Svd), la più grande congregazione
missionaria tedesca: era il febbraio
del 1892, data ufficiale della
nascita della chiesa togolese.
Il 27 agosto dello stesso anno, 2
preti e 3 fratelli erano a Lomé e si misero
subito al lavoro; il 18 settembre
era pronta la cappella; il 20 dello
stesso mese apriva la scuola con 25
alunni; il 25 ottobre iniziava il catecumenato;
a natale i primi battesimi.
Alla fine del 1893, la relazione inviata
a Propaganda fide così riassumeva
i 15 mesi di lavoro: 3 missioni
con 5 preti, 8 fratelli e un volontario
laico; 135 alunni nelle scuole di
Lomé, Adidjo e Togoville; 150 cristiani
e 160 catecumeni; battezzati
50 adulti e un migliaio di morenti.
Le cifre non danno conto dei missionari
falciati da malaria e vaiolo, o
costretti a rimpatriare a pochi mesi
dall’arrivo. «Tutti malati! Stop. Aiuto!
» gridava il telegramma del prefetto
al superiore generale nel giugno
1896. Ma dalla casa madre, almeno
nei primi anni, arrivano pochi
soldi e tante critiche: si parlava d’infantilismo,
ambizioni e sprechi, anche
se, per sopravvivere, i missionari
si arrangiavano con artigianato e
agricoltura.
Anche sul campo abbondavano le
spine. Il manipolo di cristiani afrobrasiliani
trovati in Togo vivevano
«nelle condizioni dell’Antico Testamento
– scriveva il prefetto, padre
Schäfer -; molti sono tornati alla poligamia;
ma sono ben disposti verso
i missionari». Più dura era la lotta
con gli stregoni, che proibivano di
mandare i ragazzi a scuola e tentarono
di avvelenare un missionario.
Inoltre, bisognava sgomitare per
farsi largo tra i protestanti, arrivati
decenni prima. Il governo fu costretto
a dividere il territorio in zone
d’influenza e proibire invasioni di
campo. Solo nel 1913, i padri poterono
spingersi nell’estremo nord.
Autentici strateghi, i missionari tedeschi
si stabilirono nei centri popolosi,
mercati e incroci di vie di comunicazione.
Poiché il mondo degli
adulti resisteva alla penetrazione del
vangelo, a causa dell’attaccamento
alla religione tradizionale (vodoun e
feticismo) e poligamia, essi concentrarono
gli sforzi sui giovani, seminando
il paese di scuole primarie,
agricole e professionali.
Alla formazione umana e religiosa,
i verbiti univano lo studio di lingue
e culture locali, traduzioni e pubblicazioni
di libri religiosi. Studiarono i
problemi più spinosi, come la poligamia,
prospettando soluzioni audaci:
dare almeno il battesimo ai poligami
più aperti ai valori del vangelo.
I fratelli, spesso in numero superiore
ai padri, innalzarono le strutture
materiali (case, chiese, cappelle,
scuole e cattedrale di Lomé) e si immersero
nella formazione scolastica,
sfoando maestri, artigiani e catechisti.
Altrettanto preziosa, nella formazione
femminile, fu la presenza
delle suore, arrivate nel 1897.
Tale strategia lungimirante si dimostrò
vincente: la maggioranza dei
battezzati e famiglie cristiane nascevano
sui banchi di scuola. In 20
anni la chiesa in Togo era impiantata
e consolidata. Nel 1914 essa contava
quasi 20 mila battezzati, 6.425
catecumeni e 1.235 matrimoni religiosi;
47 padri, 15 fratelli e 25 suore
erano distribuiti in 15 missioni, attendevano
a un numero impressionante
di stazioni periferiche e gestivano
198 scuole con 8.463 alunni e
228 maestri e catechisti. C’erano più
alunni nelle scuole cattoliche del Togo
che in tutte le colonie francesi
dell’Africa occidentale.
«Se i tedeschi fossero rimasti, oggi
tutto il Togo sarebbe cattolico»
sospira un missionario italiano con
lunga esperienza nel paese.

SECONDA NASCITA
Con lo scoppio della prima guerra
mondiale (1914), il Togo fu occupato
dalle truppe inglesi e francesi, prima
vittima del conflitto. Inizialmente
tollerati, ma con le ali tarpate da
restrizioni d’ogni genere, i missionari
tedeschi vennero dichiarati prigionieri
politici nel 1916 e, nel giro
di un anno, erano tutti fuori del paese:
padri e fratelli deportati in Inghilterra,
le suore rimpatriate.
Per quattro anni i vescovi della Costa
d’Oro e Dahomey presero in consegna
il vicariato e inviarono alcuni
missionari per tenere aperte alcune
missioni e scuole. Finita la guerra, i
verbiti cercarono di ritornare nelle
amate missioni, ma Parigi e Londra
non ne vollero sapere. Nel 1921 Propaganda
fide affidò la parte francese
ai missionari di Lione; quella amministrata
dagli inglesi fu annessa al vicariato
di Keta.
La chiesa togolese cominciò a riprendersi,
ma molto lentamente: i
missionari arrivavano col contagocce,
sempre insufficienti a coprire tutte
le opere avviate dai verbiti: nel
1958 il numero dei missionari era di
poco superiore a quello del 1914.
Nonostante ciò, la chiesa togolese
sperimentò una nuova nascita, grazie
al sacrificio del personale missionario
e alla lungimiranza del vicario,
mons. Jean-Marie Cessou. Egli continuò
lo sviluppo delle scuole, aprì
nuove missioni nel centro e nord del
paese e, per neutralizzare l’influenza
islamica, facilitò la creazione della
prefettura di Sodoké (1937).
Grande merito di mons. Cessou fu
la promozione delle vocazioni indigene.
Nel 1922 fu ordinato il primo
prete africano nella zona britannica;
6 anni dopo un togolese nella zona
francese. Alla sua morte (1945) il vescovo
lasciava 23 preti europei e 4
togolesi, 26 suore e 292 catechisti,
191 scuole e 13 mila allievi, 88 mila
cristiani e 200 chiese e cappelle.

CHIESA MAGGIORENNE
Dopo il secondo conflitto mondiale,
che aveva richiamato sotto le armi
i missionari più giovani, arrivarono
una quindicina di congregazioni
maschili e femminili di diverse nazionalità
e la chiesa togolese fu rivitalizzata.
Furono promesse numerose
associazioni, confrateite religiose
e istituzioni varie: collegi, seminari,
noviziati di suore indigene, per rispondere
ai venti nuovi che soffiavano
sulla società del Togo.
Nel 1955 il vicariato di Lomé fu
elevato ad arcidiocesi e la prefettura
di Sodoké a diocesi; pochi anni dopo
la chiesa cominciò a passare nelle
mani della gerarchia togolese: nel
1962 Robert Dosseh fu consacrato
vescovo di Lomé; due anni dopo Beard
Ogouki-Atakpah guidava la diocesi
di Atakpamé; l’anno seguente
Chretien Bakpessi quella di Sodoké.
Il Togo è stato definito «figlio primogenito
della chiesa». Non è retorica.
Con le solide strutture e organizzazioni,
qualità delle scuole, formazione
di quadri ed élites, strutture
sanitarie e ospedaliere, opere agricole
e idrauliche, sociali o di beneficenza
sviluppate prima e dopo l’indipendenza
(1960) la chiesa cattolica
ha modellato la nascita e la crescita
della società togolese.
Nel 1958, per esempio, alle votazioni
per il parlamento della Repubblica
autonoma, 37 deputati su 46 e
8 ministri su 10 erano cattolici, tra
cui il primo ministro, Sylvanus Olympio,
padre del Togo indipendente.
Oggi, su una popolazione di circa 5
milioni di abitanti, la chiesa conta
quasi un milione e mezzo di cattolici
(25%) e 65 mila catecumeni, 7 diocesi
guidate da altrettanti vescovi autoctoni,
oltre 300 preti diocesani
(erano 170 nel 1990) e 200 seminaristi,
160 religiose di origine straniera
e più di 400 religiose autoctone,
appartenenti a una trentina di istituti
missionari; quattro istituti locali
che contano oltre 300 suore.

SFIDE DEL TERZO MILLENNIO
Nell’ultima visita ad limina (1999),
i vescovi togolesi hanno sentito dal
papa queste parole: «Auguro che una
vera solidarietà si manifesti tra le
diocesi, attraverso una ripartizione
adeguata di personale apostolico,
che permetta di aiutare generosamente
quelle più povere».
Di fatto, la chiesa del Togo sembra
spaccata in due: al sud è ultracentenaria,
tradizionalista e clericalizzata,
ricca di clero, suore e risorse finanziarie;
al nord è appena cinquantenne,
povera d’organizzazione e totalmente
dipendente dalla chiesa universale
in quanto a personale e aiuti
materiali. Il cammino verso la solidarietà
della «chiesa famiglia», ideale
del sinodo per l’Africa, in Togo è
ancora ai primi passi.
La sfida più lacerante viene dalla situazione
politica e sociale del paese.
Se all’inizio della dittatura la chiesa
si era appiattita sulle posizioni del regime,
scegliendo il male minore, ben
presto ha recuperato il suo ruolo profetico:
nel 1976 il vescovo di Atakpamé
fu costretto a dimettersi per
aver osato criticare il dittatore. Questi
diede ordine all’esercito d’impedie
la consacrazione del successore,
mons. Kpodzro: il giorno prima
dell’ordinazione fu cambiato il luogo
e i soldati arrivarono alla fine della
cerimonia. Ma il vescovo rimase sequestrato
a Lomé per cinque anni,
prima di entrare nella sua diocesi.
Nel passaggio alla democrazia la
chiesa c’era: comunità cristiane e preti
erano contro la dittatura e mons.
Kpodzro fu chiamato a guidare la
Conferenza nazionale (1991-92). Il
prestigio che gode nella società togolese
è uno stimolo in più per impegnarsi
nella promozione della giustizia
e riconciliazione nazionale.
Alcune lettere pastorali presentano
diagnosi inequivocabili dei mali della
società: paura, violenze, vendette,
corruzione, impunità. «Come missionari
– afferma uno di essi – vorremmo
dai vescovi un po’ più di interventismo
in occasione delle elezioni, nel
campo sociale e dei diritti umani».
La chiesa rimane una spina nel
fianco del regime, che reagisce con
meccanismi diabolici e, per tagliarle
l’erba sotto i piedi, strizza l’occhio alle
sètte, massoneria, Rosa Croce e
mondo islamico soprattutto.
Presenza percettibile solo nel centro-
nord, l’islam è passato dal 5% del
1960 all’11% nel 1970, al 16% nel
2001. Da un decennio si assiste a una
fioritura di moschee, centri islamici
e scuole coraniche in tutto il paese,
soprattutto da quando il Togo è diventato
membro dell’Organizzazione
della conferenza islamica nel 1997.
Tale adesione non è disinteressata:
i paesi islamici aprono la borsa dei loro
petrodollari; in compenso, il regime
concede spazio ai musulmani nella
stanza dei bottoni, amministrazione
e uso di radio e televisione.
«L’islam fa breccia anche tra i più
poveri – afferma mons. Kpodzro -.
Promesse di denaro e promozione sociale
sono forti tentazioni per farsi
musulmano. Malgrado tutto, la chiesa
intrattiene buone relazioni con i
musulmani. Ma come arginare tale
offensiva legata essenzialmente alla
potenza del denaro?».
Alla domanda il vescovo di Lomé
ha già trovato la risposta: nella sua
diocesi ha aperto la «Scuola cristiana
della fede», che opera su tre direttive:
formazione dei laici, studi biblici
e Forum fede e vita, destinata a
incontri e dibattiti ad alto livello sulla
dottrina sociale della chiesa.
«C’è bisogno di una rinascita nella
catechesi, sia a livello popolare, per
aiutare i cristiani a difendersi dall’aggressività
delle sètte e dell’islam,
sia a livello di élites cristiane, poiché
hanno una cultura religiosa rudimentale.
Con la nostra “Scuola” vogliamo
dare loro una formazione dottrinale,
spirituale e morale, per avere
una classe dirigente ancorata ai
valori cristiani e pienamente impegnata
nella promozione della pace,
giustizia, bene comune e un’autentica
democrazia. E che Dio ci aiuti!».

PRIMI MARTIRI

Due donne stavano raccogliendo legna.
Sbadatamente raccattarono
frasche di un albero sacro. Era un crimine
meritevole di morte, anche se
commesso inavvertitamente: furono
avvelenate. L’una morì, l’altra fu portata
ai missionari, che riuscirono a salvarla.
Gli stregoni le diedero un’altra
porzione di veleno; e i missionari la salvarono
una seconda volta.
I fattucchieri erano infuriati: quei due
stranieri erano più forti di loro. Il sabato
santo del 1886 li avvelenarono, non
si sa come, insieme al re. Questi morì
all’istante; i missionari se la cavarono;
ma erano così indeboliti che dovettero
andare a riposarsi sulla costa.
Toati ad Atakpamé, padre Moran
si guadagnò la simpatia di alcuni
capi e stregoni, distribuendo regali, e
ottenne il permesso di esercitare la medicina.
Per qualche mese i missionari
furono lasciati in pace. La gente accorreva
alla missione, disertando le
pratiche feticiste, provocando rabbia e
gelosia tra vari fattucchieri.
Questi studiarono i movimenti dei missionari
e videro che, ogni giorno, un ragazzo
andava a comperare una zucca
di vino di palma per i padri; avvicinarono
il mercante, avvelenarono il vino
e raccomandarono al ragazzo di non
berlo, perché sarebbe stato un furto.
Appena i missionari bevvero il vino,
sentirono subito gli effetti del veleno.
Presero immediatamente dei rimedi e
vomitarono anche l’anima: era il 7
agosto 1887. Padre Bauquis si salvò;
ma padre Moran spirò tra atroci contorsioni,
senza medico e senza prete,
poiché il confratello era troppo debilitato
per assisterlo. Aveva solo 28 anni.
I nemici della missione avevano raggiunto
lo scopo: un missionario morto
e l’altro in fin di vita. Padre Bauquis dovette
ritirarsi sulla costa, dove morì nel
1891.
Nel 1939 si venne a sapere che il
calice di padre Moran era stato
usato come feticcio in una festa pagana
ufficiale. I missionari lo reclamarono
energicamente. Ma i fattucchieri ricorsero
di nuovo ai veleni. Il vescovo
dovette ritirare i preti perché non rischiassero
la vita.
La storia riemerse nel 1951: per l’ordinazione
del primo prete di Atakpamé
i giovani gli offrirono un calice «per
cancellare l’onta dell’avvelenamento di
padre Moran».

Vodoun: religione tradizionale del Togo
NEL MONDO DEI GRI-GRI
Per capire una cipolla bisogna sfogliarla. Così il
vodoun: non esistono definizioni; per comprenderlo
bisogna guardare le sue manifestazioni.

Gli europei li chiamano feticci; i locali tolegba (spirito
del paese); è una testa di terra, con occhi spalancati,
piantata al suolo. Impossibile non notarli: sono posti ai
crocicchi, all’entrata dei villaggi e nei luoghi più frequentati.
A Fiata ce ne sono due a poca distanza: uno accanto
alla strada, protegge il paese; l’altro nel mercato, sotto una
pianta, aiuta la gente a fare buoni affari.
Spesso ci si imbatte in tempietti, altarini, simulacri, oamenti
e altri feticci di vario genere e forma: tutti simboli
del vodoun, la religione tradizionale praticata dalla
maggioranza della popolazione del Togo e del Benin.
«In principio Mawu (Dio) viveva fra gli uomini – racconta
un mito degli ewé -. Il cielo era così basso che
lo si poteva toccare con la mano. Un giorno una donna stava
cuocendo la polenta e, non potendo girare il mestolo
perché il cielo era troppo vicino, s’indispettì e gettò la polenta
contro il cielo. Mawu si arrabbiò e disse: “D’ora in poi
non voglio più stare fra gli uomini!”. E tirò su anche il cielo».
Mawu, il Dio creatore e trascendente, è inteso lontano e
irraggiungibile, impassibile alle preghiere e vicende umane:
ma per compensare il suo allontanamento, affida la cura
della creazione a divinità minori: i vodoun. Il termine,
infatti, nella lingua fon (Benin) significa «cosa misteriosa,
nascosta, sacra», tra le popolazioni togolesi «messaggero
del profondo». Tale parola sta a indicare, quindi, l’insieme
delle forze da cui dipende l’uomo, nel bene e nel male,
e la religione che ne deriva.
Nessuno sa quanti siano i vodoun; i più informati dicono
che possono essere quasi duemila. I più antichi e importanti
sono identificati
con le forze della natura (fulmine,
vaiolo, mare, terra, foresta,
animali, serpenti), altri
si rifanno a personaggi
storico-mitici e antenati; ne
esistono di modei, inventati
per far fronte a potenze
occulte (magia e violenza) e
ottenere favori «immediati»:
protezione, benessere o maledizioni
per i nemici.
I vodoun cosmici e degli
antenati hanno propri templi
e conventi, sacerdoti, sacerdotesse
e adepti, ai quali
vengono trasmessi i relativi
poteri. Tale iniziazione dura tre anni: novizi e novizie apprendono
tutto lo scibile e la saggezza religiosa ricevuta
dagli antenati: storia, leggende, miti, erbe medicinali e arte
divinatoria… una vera e propria enciclopedia orale.
Nella natura e nella vita umana non si muove foglia che
il vodoun non voglia. Esso, di per sé non è né buono
né cattivo: tutto dipende dal comportamento dell’uomo.
Perciò i fedeli, attraverso giochi divinatori, devono conoscere
il proprio destino e imparare come comportarsi e soprattutto,
mediante preghiere e danze, sacrifici animali e
libagioni di olio di palma, offerte di farina di mais e altri
doni di vario genere, devono convincere i vodoun a elargire
favori e protezione.
I vodoun, inoltre, sono «energie vitali» presenti dappertutto
e che si concretizzano in diverse forme del regno
animale, vegetale e minerale. Tale forza vitale può essere
controllata, aumentata o diminuita mediante offerte e sacrifici.
Più le offerte sono abbondanti, più le divinità hanno
forza e migliori sono le loro intenzioni; se esse diminuiscono,
i vodoun s’indeboliscono.
Tale interdipendenza tra
l’uomo e le forze cosmiche e
ancestrali presenta una visione
altamente positiva
dell’universo: il mondo è
un’immensa manifestazione
del sacro, mistero «tremendo
e fascinoso», che permea
tutta l’esistenza quotidiana;
la relazione tra vita e pratica
religiosa è così stretta che
rende impossibile stabilire
una netta divisione tra sacro
e profano.
I l mondo visto dal vodoun
è solidarietà, unità, totalità,
eloquentemente tradotto in simbolo dal serpente che
si morde la coda; ma presenta pure aspetti patologici. Lungo
le rive del Volta, in Ghana, per esempio, esistono vari
templi in cui vivono le trokosi o schiave di Tro: donne che,
fin da bambine, sono state offerte alla divinità in riparazione
di colpe commesse dai genitori; in pratica sono proprietà
dei sacerdoti e passano la loro vita in stato di schiavitù,
soggette a ogni genere di abuso.
Inoltre, i confini tra religione e magia sono incerti; anzi,
spesso entrano in cortocircuito. Mentre la religione cerca di
onorare e propiziarsi la divinità, la magia cerca, con precisi
e vincolanti rituali, di sottomettere al proprio potere spiriti
e forze della natura e sfruttae la potenza per provocare
effetti benefici (magia bianca) o malefici (magia nera).
Tutto dipende dagli addetti ai lavori: indovini, curatori,
maghi, stregoni, uomini e donne, che praticano
la magia con abilità, turlupinando la gente. Non
per nulla la popolazione del Benin chiama il bokono
(sacerdote di fa, lo spirito dell’oracolo) awono: bugiardo.
Un esempio di magia nera è il chakata, chiamato «fucile
africano»: serve ad avvelenare o a infiggere nel corpo
della vittima, distante anche vari chilometri, chiodi,
aghi, sassi, lamette, pezzi di vetro e simili, provocando
atroci dolori, fino alla morte. Per prevenire
o liberarsi da simili disgrazie, si ricorre a stregoni
più potenti, capaci di diagnosticare il maleficio
e rimuoverlo con medicine, incantesimi, sacrifici,
dietro lauta ricompensa.
Esistono anche mezzi fai-da-te: amuleti o grigri.
E sono innumerevoli. Si può richiederli
agli stregoni: basta pagare. Ma li si può
comprare anche al mercato:
sono di ogni forma e grandezza,
pezzi di legno o di ferro,
statuette di creta, tutti decorati
da piume, denti di rettili, pesci
e uccelli. Per farli agire basta pronunciarvi
una formula oscura e il gri-gri è confezionato,
pronto da portare a casa.
I primi missionari videro nel vodoun una religione politeista,
simile a quella dell’antica Roma, opera del diavolo,
e come tale da combattere frontalmente, bruciando
feticci e distruggendo idoli e altarini. Oggi il loro atteggiamento
è cambiato: i vodoun non sono dèi, al pari di
Mawu, ma semplici creature; non più lo scontro, ma la cristianizzazione
degli aspetti cultuali più significativi.
Ne è un esempio il santuario della Madonna del Lago,
costruito nel 1973
a Togoville, cuore
del feticismo. Qui
risiede il capo dei
sacerdoti vodoun, il
quale ha rappresentato
la religione
tradizionale africana
all’incontro interreligioso
di preghiera
per la pace,
tenuto ad Assisi nel
1986. Qui la gente
viene per sottomettersi
a riti di purificazione
individuali
e collettivi.
Oggi il tempio
mariano è diventato
santuario nazionale,
meta di pellegrinaggi
provenienti da tutte le
parti del Togo: così la purificazione
continua, ma in senso cristiano.
Nel febbraio 1993, Giovanni Paolo
II, in visita al Benin, incontrò i
capi del vodoun e, nel suo discorso,
insistette sulla «necessità del
dialogo tra tutti i credenti in
Dio». I vescovi presenti masticarono
amaro, timorosi
che le parole papali potessero
accrescere la confusione
tra i cristiani, già così
facili a conciliare le due
religioni.
Alcuni cristiani, infatti, si
comportano come tali la
domenica; ma nelle case
conservano i soliti feticci e
amuleti; varie donne sgranano
il rosario inginocchiate davanti
alla Vergine; poi si abbandonano
alle danze più sfrenate in
preda alla possessione. Non sono
pochi coloro che si fanno contemporaneamente
cristiani e musulmani,
considerando Allah e Cristo
alla stregua dei vodoun
tradizionali. Non si sa mai: se
uno non funziona si ricorre all’altro.

RESTITUIRE DIGNITÀ
Da una decina d’anni, le Figlie di S. Gaetano sono
presenti in Togo e, secondo il loro carisma, si
occupano «dei più poveri tra i poveri», curando
ammalati, assistendo handicappati, aiutano la
gente a camminare con le proprie gambe.
Èancora scuro a Fiata, ma la
gente è già in strada per recarsi
nei campi, sfruttando le
ore fresche del mattino. Quando il
sole è alto e il caldo troppo forte, lavorare
diventa più faticoso. Anche il
guardiano della casa delle suore è già
in azione: pulisce il cortile, annaffia
i fiori, apre il portone che immette al
dispensario e subito si forma la lunga
fila di pazienti.
I PIÙ POVERI TRA I POVERI
È così ogni mattina. Suor Fatima,
brasiliana, responsabile della direzione
del dispensario, comincia ad
accogliere i malati e, coadiuvata da
suor Alfonsa e un’infermiera locale,
riempie le schede sanitarie, ascolta
le sofferenze della gente, prescrive e
distribuisce medicine. Malaria e
malnutrizione infantile sono le patologie
più frequenti, insieme alle
infezioni e malanni vari causati dal
clima tropicale e dalla miseria. Negli
ultimi tempi si è aggiunto il flagello
dell’Aids.
Il dispensario è la prima struttura
che le Figlie di San Gaetano, arrivate
in Togo una decina di anni fa,
hanno costruito per rispondere al
loro carisma: amare «i più poveri tra
i poveri». E la povertà è visibile e
tangibile, scolpita nel viso di bimbi
scheletriti soprattutto.
La struttura è semplice, ma dignitosa
ed efficiente, attrezzata per sfidare
le necessità della gente e le precarietà
della situazione del paese: un
sistema di pannelli solari, realizzato
di recente, permette ai frigoriferi di
conservare vaccini e medicine deperibili,
anche quando la rete elettrica
nazionale non funziona; il che
capita spesso.
L’elettricità solare ha reso possibile
attivare un laboratorio di analisi.
Lo hanno organizzato Donato ed
Elena Calocero, due volontari torinesi
che, ottenuto un anno di aspettativa
dall’ospedale delle Molinette
di Torino, hanno montato le strutture,
messo in funzione il laboratorio
e passato le consegne a suor Innocence,
infermiera togolese della
stessa famiglia gaetanina.
Fiore all’occhiello di tutta la diocesi
di Aneho, il dispensario di Fiata
è un’autentica testimonianza di
carità e la gente vi accorre con fiducia,
sia perché vi trova le medicine di
cui ha bisogno, sempre scarse o inesistenti
nelle strutture statali, sia perché
si sente trattata con amore e rispetto
della propria dignità.

I CIECHI VEDONO
GLI ZOPPI CAMMINANO…

Tra i poverissimi le missionarie
hanno incontrato gli handicappati,
con alle spalle storie di degrado ed
abbandono, come quella di Ekoué
Kankoé. Colpito da malformazione
congenita, orfano di madre, rifiutato
dal padre passato in seconde nozze,
il ragazzo conduceva una vita
randagia quando fu scoperto dalle
suore: si trascina a fatica con mani e
piedi; incapace perfino di tirare l’acqua
dal pozzo, era sopravvissuto
grazie alla compassione della gente
e qualche furtarello.
Dopo aver rintracciato un cugino,
che lasciò la scuola per assisterlo all’ospedale,
le suore provvidero a farlo
operare. Quando Ekoué ritoò
al villaggio, la gente non credeva ai
propri occhi, vedendolo ritto sulle
proprie gambe; il padre rimase impietrito,
in un misto di stupore e
rabbia, e continuò a ignorarlo.
Per alcuni mesi il cugino lo portò
a scuola sulle spalle, finché il ragazzo,
con la forza di volontà, riuscì a
recarvisi da solo, con l’aiuto delle
stampelle. Nel frattempo, gli fu trovata
una sistemazione in una famiglia
che, oltre ai propri figli, si prende
cura di quattro orfani.
Oggi Ekoué frequenta la quinta
elementare; nella nuova famiglia ha
trovato la gioia di vivere e ottenuto
tutti i documenti di un normale cittadino.
Anche Yawo Missadjo, detto Tata,
è stato rifiutato dai genitori, ma
è stato accolto da una zia. «È il pri-
mo dramma degli handicappati –
continua suor Luciana -: i genitori li
considerano un castigo divino, una
vergogna da tenere nascosta il più
possibile; quando non sono abbandonati
a se stessi, tali figli vengono
affidati a nonni o zii».
Per 16 anni Yawo non aveva alzato
le mani da terra più di un palmo.
Ma riusciva a fare qualche lavoretto,
intrecciando la paglia. Sottoposto
all’operazione, è riuscito a rimettersi
in piedi. Quindi fu iscritto
alla scuola di alfabetizzazione, ma
con scarso successo: riesce appena
a scrivere il suo nome. Ma ha molte
doti pratiche e alcuni stregoni lo
hanno ingaggiato per fare collane e
altri oggetti artigianali; con i guadagni
riesce a badare a se stesso, anche
se per rinnovare gli apparecchi ortopedici
dipende ancora dall’aiuto
della missione.
Gloria Kankoé è cieca dalla nascita.
Anche lei abbandonata dai genitori,
è stata raccolta dalle suore e
affidata a un istituto per non vedenti,
dove ha imparato a impagliare sedie,
fare stuoie e tappeti. Ha incominciato
a studiare e già maneggia
una macchina da scrivere braïlle.
Il caso di Missan Afli fa eccezione:
fu il padre in persona a portare
la figlia alla missione, quando seppe
che le suore si prendevano cura degli
handicappati. L’esempio delle
suore ha risvegliato in lui l’amore
paterno, offrendo tutta la collaborazione
possibile per restituire alla
figlia la sua dignità.
La bambina camminava con mani
e piedi, ma l’attenzione delle suore
e l’amore del padre le hanno dato
tale forza di volontà per reagire
al suo handicap, finché è
riuscita a camminare senza bisogno
di alcuna operazione. Nonostante
una mano ancora gravemente menomata,
ha imparato a scrivere. La
domenica, mentre procede danzando
in processione con le offerte
della messa, non manca di dare una
sbirciata alla suora, per esprimere la
felicità di camminare come le compagne.
Storie di «ciechi che vedono e
storpi che camminano» ce ne sono
altre 130, racchiuse in un faldone
che suor Luciana sfoglia con la reverenza
dovuta a un messale. Sono
schede con fotografie scattate prima
e dopo l’operazione, dati anagrafici,
situazioni familiari, progressi di
riabilitazione, resoconti contabili,
relazioni aggiornate e spedite regolarmente
al Lilian Fonds, un’associazione
olandese che si occupa del
recupero di handicappati.
«È un lavoro che assorbe energie
fisiche e mentali – confessa sorridendo
suor Luciana, responsabile
di fronte all’associazione dei progetti
di recupero -. Ma procura soddisfazioni
impareggiabili: rimettere
in piedi questi infelici significa reintegrarli
nell’umanità, restituire loro
la dignità umana. Oggi, nel raggio
30-40 km, non si vedono più handicappati
chiedere l’elemosina per
strada. Alcuni di essi hanno raggiunto
la piena indipendenza».
È il caso di Ekoué Gakpea: rimesso
in piedi, ha imparato a fare il sarto;
ha ricevuto una macchina da cucire
e con il suo lavoro mantiene se
stesso e tutta la famiglia. Anzi, è diventato
tanto esperto di macchine
da cucire che va in giro ad aggiustare
quelle degli altri.

MANAGER DELLA…
PROVVIDENZA

Fino a quando non è raggiunta la
piena autonomia, il processo di riabilitazione
è lungo e faticoso: bisogna
seguire caso per caso, controllare
se gli apparecchi sono in buono
stato o troppo stretti, riportarli all’ospedale
per eventuali riparazioni
o adattamenti.
Speciale attenzione è rivolta alle
famiglie degli handicappati, per esigere
la loro collaborazione, specialmente
quando i figli incontrano delle
difficoltà, rifiutano gli apparecchi
ortopedici, si buttano per terra e ritornano
a una situazione peggiore
di quella precedente l’operazione.
«Il mio lavoro consiste nel cornordinare
iniziative e progetti – continua
la missionaria, sentendosi quasi in
colpa per mancanza d’umiltà -. Va-
do a visitare i genitori solo quando
essi rifiutano di essere coinvolti nel
recupero dei figli. Il grosso del lavoro
è fatto da collaboratori, due
uomini e due donne, che scovano i
casi più pietosi, visitano regolarmente
i 130 ragazzi e ragazze, ne seguono
da vicino il processo di riabilitazione
e fanno i rapporti sulla situazione.
Uno dei collaboratori è il mio
braccio destro: battezzato otto anni
fa insieme a tutta la famiglia, macina
chilometri e chilometri, sostenuto da
fede granitica e tanta passione per gli
handicappati, che mi sembra di toccare
con mano la misericordia del Signore
per questa popolazione, povera
e sofferente da fare pietà».
Un’altra iniziativa intrapresa dalle
suore è quella delle adozioni a distanza.
Anche questa attività è racchiusa
in grossi faldoni e gestita da
suor Luciana. «L’adozione dura cinque
anni – spiega la missionaria -: oltre
500 adottati ne hanno beneficiato
e concluso il ciclo elementare; altre
900 sono ancora in corso. Spesso
devo fare le ore piccole per compilare
e aggioare le schede degli
adottati e inviare relazioni ai padrini
e madrine sulla situazione dei figliocci».
Il lavoro più delicato consiste nel
vagliare i casi da aiutare, poiché tutti
sono poveri, ed evitare di creare
dipendenze e, soprattutto, gelosie
tra le famiglie del villaggio. In questo
campo i collaboratori africani si
rivelano indispensabili: una bianca
darebbe troppo nell’occhio. E se la
cavano da veri 007, sia nello scoprire
le reali situazioni familiari, sia nell’evitare
la curiosità dei vicini, sia
nello scattare le fotografie senza che
gli interessati se ne accorgano.
Inoltre, non si parla mai di «adozione
», affinché i genitori non avanzino
pretese, ma il denaro viene distribuito
in tre rate annuali, sotto
forma di prestiti, aiuti di emergenza
o pagamento diretto alla scuola dalla
quale gli alunni sono stati cacciati,
perché i genitori non hanno pagato
la tassa scolastica.
Secondo il sistema proposto dalle
Figlie di San Gaetano, la cifra di
adozione è assai modesta (100 mila
lire, ora portata a poco più di 80 euro);
sbriciolata in tre rate, appare ancora
più esigua, ma non in Togo,
dove tali briciole equivalgono allo
stipendio mensile di molti maestri
di scuola elementare.

A PICCOLI SOGNI
Dopo il ciclo elementare, non c’è
speranza di continuare gli studi: le
tasse per accedere alle scuole superiori
e liceali sono proibitive. Ragazzi
e ragazze cercano di imparare un
mestiere e, magari, mettersi in proprio.
Per realizzare tale sogno occorre
prima di tutto avere un diploma,
senza il quale è impossibile ottenere
la licenza dal governo, e i soldi per
procurarsi strumenti e materiali.
Quando un falegname del luogo,
diplomato in Nigeria, ha presentato
a suor Luciana il progetto di avviare
una falegnameria, con scuola
per giovani apprendisti, e le hanno
chiesto una spinta per avere attrezzi
e rifoirsi di legname, la missionaria
non ha saputo dire di no: ha
scritto alla Caritas di Montegranaro
(Ascoli Piceno), suo paese di residenza,
e sono arrivati alcuni macchinari
e i fondi necessari.
Les Olivieres, così si chiama la
nuova società, è in piena attività: costruisce
e vende mobili di vario genere
e dimensione, preparano assi e
travi per fabbricare case. Mentre i
tre falegnami che gestiscono tale iniziativa
si guadagnano da vivere onestamente,
i quattro giovani imparano
il mestiere e, alla fine dei due anni
di apprendistato avranno il
diploma e potranno realizzare il sogno
di mettersi in proprio.
Ma poiché l’appetito viene mangiando,
suor Luciana ha presentato
alla Caritas marchigiana i progetti
per allargare la società con officine e
relativi corsi di formazione per elettricisti,
fabbri e meccanici. «Les Olivieres
si appoggiano ancora su di me,
ma spero che presto diventino autonomi
e camminino con le proprie
gambe», conclude la missionaria.
Un progetto diventato autonomo
è quello dei mulini per aiutare le madri
di famiglia. Il processo è molto
semplice: un gruppo di donne hanno
chiesto un prestito per comperare
il frantornio, costruire la struttura
muraria, acquistare granoturco, manioca,
palme da olio; una volta macinati
questi prodotti vengono ven-
duti al minuto; il ricavato viene diviso
in v

Benedetto Bellesi




I CUMULI DELL’ODIO

«Sembra che in Terra Santa sia stata dichiarata guerra
alla pace! Ma la guerra nulla risolve, né servono
ritorsioni o rappresaglie…
Cristo impegna noi, suoi discepoli
a rimuovere ogni causa di odio e vendetta
»
(Giovanni Paolo II, Pasqua 2002).
«Un tempo i cardinali si chiudevano in conclave e
non uscivano finché non avevano eletto il papa.
Facciamo la stesso con Arafat, Sharon e Bush:
che non escano senza aver sottoscritto prima
la pace
» (Susan George, Missioni Consolata,
dicembre 2001).

«No, non siamo perfetti»

Gerusalemme, 28 settembre 2000:
Ariel Sharon sale sulla «spianata delle moschee» (per i palestinesi)
o sul «monte del tempio» (per gli israeliani).
È la goccia che fa traboccare il vaso, per l’ennesima volta.
Però «questa volta» non scatena solo l’«intifada» delle pietre,
ma attacchi terroristici a pioggia, con autobombe e «kamikaze»,
ai quali l’esercito israeliano risponde con carri armati, assedi alle città, stragi.
Da ambo le parti le vittime sono troppe.
È dal 1948 che il «nodo israelo-palestinese» attende di essere sciolto…
Nell’ultima «tragedia annunciata» alcuni scrittori israeliani
ci sorprendono, positivamente, per la loro lucidità intellettuale.

a cura di Silvana Bottignole

Alcune voci rappresentative di
scrittori d’Israele hanno fatto
conoscere all’Italia una
letteratura rigogliosa e sorprendente.
Infatti, negli ultimi 10 anni, sono
state tradotte nella nostra lingua oltre
100 opere di una quarantina di
scrittori israeliani.
Come spiegare questa esplosione
creativa in Israele, un paese poco più
grande del Piemonte? E che cosa
raccontano gli scrittori? Come vivono
i drammi del passato e del presente,
pesanti macigni per il popolo
della «terra santa» e per tutta l’umanità?
A Torino gli autori Batya Gur, Etgar
Keret e Dorit Rabinyan, presentati
da Elena Loewenthal (esperta di
letteratura israeliana e editorialista di
«Tutto Libri» per La Stampa), ci
hanno resi partecipi degli ideali, dei
drammi e delle speranze del popolo
d’Israele, ispiratore dei loro racconti.
Loewenthal ha inquadrato il fenomeno
letterario d’Israele con alcune
magistrali pennellate, capaci di introdurci
in un paesaggio «dai toni
cangianti».
«La letteratura israeliana – ha affermato
Loewenthal – è una letteratura
militante accanto alla storia, che
critica anche la storia stessa. Da tanti
anni lavoro per amore di questa
letteratura. Nei primi tempi, allorché
proponevo agli editori italiani
opere israeliane, mi accorgevo che
per loro si trattava di un corpo alieno
che non destava nessun interesse,
se non uno sguardo sbigottito.
Adesso la letteratura israeliana è entrata
nel circuito dei lettori italiani in
tutta la sua varietà e i suoi colori cangianti».
«Vorrei evocare la strana nostalgia
che si prova quando si ascolta o si
legge di Israele: una nostalgia che
prende anche chi non c’è mai stato,
come pure chi è già lì. Rapporto strano,
che forse deve qualcosa a questa
lingua, dalla storia e dal cammino
lunghissimo, che provoca una sensazione
intraducibile, una nostalgia
allegra, vivace».
Perché Israele, così piccolo, abbia
una produzione letteraria così varia
e significativa è, per alcuni versi, un
mistero; e, come tutti i misteri, è utile
per porsi delle domande.
«Nella bibbia sta scritto: “Non ti
farai alcuna immagine – dice Dio all’uomo -”.
Questo comandamento
ha implicato moltissimo sul piano
della storia, della coscienza di sè e
del rapporto della cultura e lingua
ebraica con il mondo che ci circonda.
Come è noto, l’arte figurativa ha
avuto scarsa eco e produzione nel
mondo ebraico. Ritengo che la sua
comunicazione sia fatta esclusivamente
di parole. Come con il cielo si
comunica attraverso la parola (e non
con la contemplazione e il silenzio),
così l’ebraismo comunica da sempre
con il mondo attraverso le parole».
Le suggestioni, i simboli e i significati
dell’ambiente esterno vengono
manifestati e trovano spazio sulla pagina.
La letteratura israeliana rappresenta
un modello forte di rapporto
con il paesaggio; e la sua descrizione
avviene più attraverso le
parole che l’arte figurativa. La pittura
e la scultura stanno arrivando in
Israele; però la scrittura ha una tradizione
millenaria.
«Il gioco dei contrasti è una caratteristica
forte e una grande dote della
letteratura; ambientata in uno spazio
geografico ridotto, offre numerose
immagini geografiche. Si va
dalla vita in kibbutz
(con prati quasi all’inglese, che declinano
verso il Mediterraneo dalle
spiagge selvagge) al deserto lunare
ed impalpabile di Giudea e la depressione
del Mar Morto».
«Gli autori spaziano con le loro
descrizioni: si passa da un ambiente
rurale e quasi atavico, come quello
nei libri di Shalev, al mondo urbano,
suburbano e metropolitano in cui
nuota Etgar Keret; dalla periferia
delle città alla vita di provincia in
tante altre località, come quelle scelte
da Yehoshua per rappresentare
Haifa, che sente i vizi e le virtù della
città provinciale. Ci sono boschi, deserti,
mari. C’è una varietà di orizzonti
che fa sì che le culture diverse,
approdate in terra d’Israele, incontrino
quelle europee e quelle che
stanno emergendo.
Dorit Rabinyan, una delle scrittrici
più rappresentative, ci trasporta in
un Israele che proviene dall’ebraismo
orientale, ma inserito in un contesto
islamico o arabo».
«Questa letteratura – ha detto ancora
Loewenthal – ha la capacità di
dilatare il paesaggio e fae vivere
ogni sfumatura, offrendoci orizzonti
geografici e dell’anima estremamente
ampi».

GUR: «LA MIA PATRIA
NEL BENE E NEL MALE»

Nata a Tel Aviv
nel 1947, Batya
Gur ha pubblicato
il suo primo romanzo
poliziesco
a 39 anni e non
ama che i suoi
scritti siano definiti
«di evasione». Gur abbraccia le teorie del poeta
W.H. Holden, che dichiara: «Le
persone leggono romanzi polizieschi
non tanto per scoprire il “colpevole”,
ma per rafforzare il loro senso di
innocenza». Perciò «sappiamo che
il romanzo poliziesco è tipico delle
società coloniali con una mutua colpevolezza
nazionale».
La scrittrice israeliana con molta
franchezza dichiara: «Ho condotto
un’esistenza parallela a quella dello
stato d’Israele (creato nel 1948). Sono
nata e cresciuta quando fu fondato
e ho creduto nel suo “ben sperare”
per offrire un “giusto focolare”
agli ebrei. Non posso dire di
essere anti-sionista e non posso affermare
che sia stato tutto un grande
sbaglio o qualcosa del genere.
Israele è la mia patria nel bene e nel
male. Nella fase attuale sta più dalla
parte del male.
Quando parlo di colpa nazionale,
penso al fatto che si desiderava creare
un movimento socialista con ideali
di purezza per coltivare il suolo della
“terra santa”, e iniziare una società
giusta ed uguale. Questo è stato fatto
con così tanti peccati e così terribili
eventi che non ha permesso a
questa forma pura di vivere, a causa
della colpa nazionale.
Il mio romanzo poliziesco Omicidio
nel kibbutz, per esempio, è stato
ambientato in questa società chiusa
d’Israele per investigare su un delitto.
Il libro, scritto nel 1990-91, è
emerso inconsciamente dal desiderio di erigere un “monumento” ad
un fenomeno che si stava estinguendo
o distruggendo: il nuovo stato
d’Israele iniziava a diventare colonialista…
Penso che, se avessi scritto
il libro 10 anni prima, sarei stata
crocifissa nello stato d’Israele, perché
la società del kibbutz rappresentava
il 10% del paese ed era considerata
la parte migliore dell’ideologia:
rappresentava i grandi ideali
di uguaglianza, di parità tra i generi,
di giustizia. Tutto questo si è realizzato
nei kibbutz dagli anni ’50 sino
all’inizio degli anni ’90.
Non ho mai vissuto in un kibbutz,
ma non si può vivere in Israele senza
visitare e conoscere un kibbutz,
perché ha veramente riassunto tutti
i desideri e i grandi ideali che hanno
ispirato quella società chiusa. I nuovi
sviluppi nello stato d’Israele hanno
trasformato i kibbutz in una coice
senza contenuti.
Da quando il libro è stato scritto
ad oggi il kibbutz è in bancarotta. Da
un punto di vista ideologico si è trasformato
in un ente privato: si pagano
salari ai dipendenti, la gente nel
kibbutz può acquistare i propri appartamenti
e deve pagare il cibo nel
refettorio. Quando scrissi il libro si
era solo all’inizio di questo processo.
Ho, perciò, raccontato come i bambini
dormivano insieme, accuditi da
una governante, e come erano cresciuti
insieme, lontani dalle famiglie.
Ho cercato di raccontare come si
sentivano. Il libro è un confronto tra
la vecchia e la nuova generazione
della società dei kibbutz».

KERET: «LA PACE È BUONA,
LA GUERRA È…»

Anche Etgar Keret
è nato a Tel
Aviv nel 1967 (generazione
successiva
a Batya Gur).
Scrive per la televisione
israeliana
e lavora per la Tel
Aviv University
School of Film. Ci ha raccontato come
nascono i suoi racconti, a detta
dei critici, pervasi da «ironia corrosiva
». «Il tempo tra il risveglio
(quando ancora ci si deve lavare la
faccia) e la tazza di caffè è il periodo
in cui molte delle mie storie hanno
luogo. Momenti in cui uno si ritrova
tra l’essere una persona normale,
pronta ad andare al lavoro, ed un
pezzo di argilla che il Signore volle
trasformare senza molto successo in
un essere umano.
Le ragioni si trovano nel fatto che
il Dio degli ebrei non ha una forma
corporea, al contrario di Gesù che si
può vedere. Da questo discende tutta
una cultura astratta. Anche il sionismo
(2), conosciuto da bambino,
è stato per me un’ideologia astratta,
difficile da sentire: mi è sempre sembrata
piena di contraddizioni e di
grande ansietà per gli scampati dall’olocausto.
Tutti i nostri libri per ragazzi erano
pieni dei grandi eroi d’Israele; ce
n’era uno in particolare, Danet
Dean (parlo del 1950-60), che era
speciale. Era un personaggio eroico
che lottava sempre per la sopravvivenza
di Israele ed aiutava il suo paese,
spiando le nazioni arabe o salvando
bambini dall’essere rapiti. Ma
aveva una particolarità: era invisibile.
Credo non per caso. Per tantissimi
bambini israeliani come me, la figura
letteraria ideale è stato appunto
un personaggio invisibile:
nessuno sapeva com’era fatto.
Tanti della mia generazione si trovano
a far parte di una società che è
stata plasmata da un’ideologia; ma
tale ideologia ci è diventata invisibile,
come il personaggio a cui accennavo
prima. Per lo più la società
sembra fare riferimento al grosso
buco di una ciambella. A partire da
tale buco, noi cerchiamo di ricostruirci
un’identità e un futuro per
mezzo di strumenti di alta spiritualità
(come lo studio della bibbia) o
cose pratiche e pragmatiche (come
risolvere i problemi del Medio
Oriente).
Alcuni scrittori, come Dorit ed io,
cercano di ricostruire qualcosa del
nostro passato. Infatti siamo nati e
vissuti in una nazione che ha preso
la sua gente da paesi diversi e, ciò facendo,
ha sradicato le persone. I
nonni di Dorit sono immigrati dalla
Persia; i miei nonni sono immigrati
in Israele dalla Polonia dopo la seconda
guerra mondiale. Ciò ha comportato
uno sradicamento, oltre che
un trasferimento, un’immigrazione.
Dorit Rabynian in Spose persiane
racconta, con successo, una storia
che si svolge in un paese straniero,
ricollegandola attraverso le generazioni
femminili alla sua storia personale.
Io non ho altrettanto successo
nel tentare di ricostruire il mio passato,
ma penso di riuscire a raccontare
il presente. Nella Poetica di Aristotele
si legge che l’arte dovrebbe
imitare la vita così com’è. La vita è,
però, assai più complessa di qualsiasi
manifesto politico.
Anni fa scrissi un racconto (pubblicato
da un giornale), ambientato
nei territori occupati, che descriveva
lo scontro violentissimo tra un
soldato israeliano ed un palestinese.
Ricevetti moltissime lettere, in cui i
lettori mi accusavano delle cose più
varie ed estreme: uno mi ha accusato
di essere un estremista di sinistra,
affetto da una sindrome di odio verso
se stesso; un altro mi ha accusato
di essere un estremista di destra, un
fascista.
Ora il fatto che ci fosse questa diversità
di interpretazioni, per me, è
stato un complimento. Si può, perciò,
scrivere un racconto provando
empatia per un personaggio o per
un altro. Se in Israele facessimo così
nella vita di ogni giorno (cioè simpatizzare
e fare propria in parte la
causa dell’uno, ma anche dell’altro),
non saremmo arrivati al punto in cui
siamo. È stato scritto che l’arte ha
due ruoli: estraniare ciò che ci è familiare
e renderci familiari a ciò che
ci è estraneo.
Frasi ovvie come “la pace è buona,
la guerra è brutta e non bisogna
farla” sono slogan da scrivere sugli
adesivi che si appiccicano sui paraurti
delle auto. La verità è che ci
sono tante storie che si possono raccontare,
inviando al lettore un messaggio
altamente morale, sovente assai
più pragmatico di quello che è
contenuto in qualsiasi manifesto politico».
ETGAR KERET: Mi manca Kissinger
(Theoria 1997); il racconto La triste
storia della famiglia Nemalim in
«Nuovi narratori israeliani» (Theoria
1998); il racconto Paride e Venere,
in «Amori, raccontati dai più
grandi narratori israeliani» (Stampa
Alteativa 1999)

RABINYAN: «NOI
ISRAELIANI IMMIGRATI…»

Dorit Rabinyan,
nata nel 1972 a
Kfar Saba da una
famiglia emigrata
dall’Iran, vive a
Tel Aviv. Ha
scritto due romanzi,
un libro
di poesie e la sceneggiatura
di un
film per la televisione. Con il romanzo
Spose persiane, in cui rievoca
le sue radici iraniane, rivela una
forte empatia con il mondo arabo.
«Noi israeliani non abbiamo solo
un passato glorioso, ma anche un
presente terribile; lo dobbiamo affrontare
ogni volta che ci sediamo al
computer per scrivere le storie che
vengono dal nostro cuore. Le brutte
notizie, trasmesse ogni giorno dalla
radio e televisione israeliana, non
sono una gabbia, ma solo un momento
di quel male che viene fatto
da anni contro un altro popolo in cui
tutti quanti noi viviamo immersi.
Noi non siamo in una gabbia; ma il
senso di colpa continua a ferire chi,
come noi, non ha muscoli irrigiditi
della coscienza.
La nostra scrittura è veramente in
contrasto con quella della generazione
di Batya Gur e il messaggio inculcato
a quella generazione: il messaggio
sulla creazione dello stato di
Israele, che voleva essere il centro
verso cui far convergere gli immigrati
provenienti da tutto il mondo,
pretendendo però che si adeguassero
per essere degni di essere chiamati
israeliani.
Per me (e credo di interpretare il
pensiero di Keret) scrivere è cercare
di rifiutare la pretesa del sionismo
di creare una figura ideale di ebreo,
per restare invece noi stessi
per quanto possibile:
senza dover
per forza convergere e sentire di doverci
uniformare, ma restare la voce
di una minoranza che si esprime.
Non tutti devono per forza essere
israeliani perfetti per appartenere a
questo paese. Voglio anche pensare
che sia possibile per noi appartenere
ad Israele, pur restando noi stessi.
Siamo israeliani fatti in un modo
diverso, forse alternativo».
DORIT RABINYAN: Spose persiane
(Neri Pozza 2000)

Elena Loewenthal ha terminato
la presentazione degli
scrittori commentando:
«Tutti gli israeliani fanno parte di
uno sradicamento, eccetto Yehoshua,
che si sente una pianta e non
uno sradicato, perché appartiene alla
generazione del paese.
C’è pure la coscienza, più o
meno vasta, che lo sradicamento
è la condizione della
sopravvivenza. Ogni
israeliano sa che, se il
padre o il nonno o egli
stesso non fosse stato
sradicato (vuoi dalla Persia,
vuoi dalla Polonia, vuoi
dal resto del mondo), non esisterebbe
più. Questo senso di
essere dei sopravvissuti, anche
a due o tre generazioni di distanza
dagli eventi storici più diversi
(non mi riferisco soltanto
alla shoa/olocausto), è parte di un
comune destino ebraico, che è quello
di essere comunque tutti dei sopravvissuti.
Primo Levi ci ha raccontato quale
groviglio emerge, nella coscienza
di ciascuno di noi, quando si tenta
di esplorare il senso di essere dei
“sopravvissuti”. Tutto questo si riflette
nella letteratura israeliana, anche
a distanza, in forme e rifrazioni
estremamente varie con i risultati
che vediamo.
Non vorrei, però, che si creasse
nel lettore che si avvicina per la prima
volta alla letteratura israeliana un
equivoco: pensare che qualunque libro
proveniente da Israele non contenga
altro che la profonda lacerazione
della coscienza, dovuta al fatto
di vivere in un paese come questo.
Questa letteratura è grande, anche
a prescindere da quello che si è costretti
a vivere ogni giorno: entrare
magari in un supermercato e… non
uscie vivi, perché un kamikaze si
butta dentro ed ammazza numerose
persone.
La letteratura israeliana è (forse
anche per questo e a prescindere da
questo) una grande letteratura, ricca
di diversità e pluralismo. Non a
caso ho parlato di “paesaggi cangianti”,
di varietà di toni, di colori e
orizzonti che regalano alla letteratura
una varietà ed un impegno piuttosto
unici. Ci troviamo di fronte a
scrittori capaci di riflettere criticamente
sulla realtà che li circonda».

(1) Kibbutz: insediamento di un gruppo
israeliano con i beni in comune.
(2) Sionismo (da Sion): movimento politico-
culturale all’origine della nascita
del moderno stato di Israele. Antisionismo
e antisemitismo non coincidono.

NON COMBATEREMO PIÙ
QUESTA GUERRA

Noi, ufficiali e soldati di riserva della Forza di difesa di Israele,
siamo cresciuti con i principi del sionismo, del sacrificio e del
dono per il popolo di Israele; abbiamo sempre servito in prima linea
e siamo stati i primi a terminare qualsiasi missione, leggera o
pesante, per proteggere e rinforzare lo stato di Israele.
Noi, ufficiali e soldati di combattimento, abbiamo servito Israele
per tante settimane. Ogni anno, a scapito delle nostre vite, abbiamo
operato da riserve in tutti i territori palestinesi occupati e abbiamo
ricevuto ordini
che non hanno niente
a che vedere con la sicurezza
della nostra
nazione, ma mirano
solo a mantenere il
controllo sul popolo
palestinese.
Noi abbiamo visto
con i nostri occhi il
prezzo di sangue che
questa occupazione
esige da entrambe le
parti.
Noi sentiamo che gli
ordini ricevuti nei territori
palestinesi distruggano
ogni valore
assorbito crescendo
in questa nazione.
Ora noi sappiamo che
il prezzo, pagato all’occupazione,
è la
perdita di umanità da
parte della Forza di
difesa di Israele e la
corruzione dell’intera
società locale.
Noi sappiamo che i
territori occupati non
sono Israele e che gli
insediamenti sono destinati
ad essere evacuati.
Pertanto dichiariamo
che non combatteremo
più la
guerra degli insediamenti. Non dobbiamo continuare a combattere
al di là dei confini di Israele del 1967, con lo scopo di dominare,
espellere, affamare e umiliare un popolo intero.
Continueremo il servizio nella Forza di difesa di Israele in ogni
missione utile alla sua salvaguardia. Ma le occupazioni e oppressioni
non servono a questo scopo e noi non avremo più parte alcuna
in esse.
Dichiarazione del 16 marzo ’02, sottoscritta da 451 soldati (6-05-’02)
Testo (in ebraico e inglese) apparso sul sito
www.seruv.org.il

S. Bottignole Francesco Beardi D. Casali




Simmetria fatale

Lei opera nell’ebraismo italiano dall’età di 15 anni; si riconosce nel movimento
«Shalom Achshav» (Pace adesso); è segretaria di redazione di «Ha-Keilà»
(La comunità), giornale ebraico, edito a Torino.
Lui, consulente aziendale, è agnostico in seguito alle tragedie
che hanno colpito la sua famiglia durante le «leggi razziali» (fascismo);
è impegnato nel dialogo interculturale.
L’opinione di Alda Segre e Franco Debenedetti, ebrei di Torino.

Signora Alda e signor Franco, voi
contate numerosi parenti in
Israele. Come vivono e come vivete
l’attuale dramma del paese?

Alda: con il terrore che succeda
la tragedia. Quando avviene un attentato,
non telefono più, perché è
inutile… I parenti in Israele divergono
dalle mie idee politiche; quelle
poche volte che ci telefoniamo,
discutiamo. In Israele alcuni conoscenti
(che credevano nella strategia
di «Pace adesso») oggi concordano
con la politica di Ariel Sharon,
perché esasperati dal terrore
quotidiano.
Franco: c’è forte preoccupazione
per i giovani che hanno già fatto il
servizio militare e che, tuttavia, possono
essere richiamati nell’esercito.
Però ammiro le loro famiglie, perché
vivono la precarietà quasi con
normalità, continuando a lavorare.
Gli ebrei hanno patito la «shoa»
(olocausto), che ha coinvolto anche
le vostre famiglie. Esiste oggi
un serio pericolo di un ritorno all’antisemitismo?</b<
Alda: il pericolo esiste, anche se
non nelle dimensioni della «shoa»;
questo perché c’è lo stato di Israele
e le comunità ebraiche nel mondo si
sono rafforzate. È da temere l’antisemitismo
politico-religioso: gli attacchi
contro gli ebrei in Francia
(circa 400 in 20 giorni) sono eloquenti.
Vi sono pericoli anche in
Russia, Polonia, Germania. In Italia
noi ebrei ci sentiamo tutelati dallo
stato; però non siamo tranquilli.
Franco: con la globalizzazione si
possono diffondere, ad enorme velocità,
delle informazioni fittizie sugli
ebrei: informazioni che influenzano
negativamente i comportamenti
di molti «che non sanno».
Esiste anche il pericolo di un antisemitismo
verso persone che non
hanno niente a che fare con lo stato
di Israele. Il privilegiare immagini
virtuali (non fatti) genera sentimenti
ostili con conseguenze imprevedibili.
Ciò serve politicamente a qualsiasi
estremista (nazisti, integralisti
musulmani o di altro credo), per acquisire
un forte ascendente su masse
insoddisfatte, per gestie le frustrazioni
al fine di ottenere potenza
e ricchezza. Servono capri espiatori,
colpiti e criminalizzati indiscriminatamente
senza alcun presupposto
razionale.
Ecco un esempio: «Un signore
cammina nella civilissima Parigi dei
Champs Elisées tra fiumi di turisti;
porta una borsa di plastica con il disegno
del candelabro rituale, presa
in una boutique del Marais. Tre magrebini
sui 15 anni, i capelli rasi, lo
affiancano, sputano per terra e gridano
“sporco ebreo!”, guardando-
lo dritto negli occhi. Poi il più giovane
gli torce la guancia sinistra ridendo
come un matto. I passanti distolgono
lo sguardo. Un plotone di
giapponesi non si accorge di nulla.
La polizia non c’è. Potrebbe ora arrivare
uno che ha votato per Le Pen
e godere dello spettacolo…».
In altri casi e momenti si sono colpiti
i curdi, gli armeni e gli stessi palestinesi…
Il 15 aprile a Roma si è celebrato
l’«Israel day». È stata una marcia
che ha rivendicato il diritto di esistere
per Israele. E che dire della
Palestina?

Franco: la Palestina ha ogni diritto
di essere uno stato.
Quanto all’«Israel day», non sono
stato affatto d’accordo con la marcia.
Marce del genere alimentano l’antisemitismo
e vengono manipolate:
così si confonde, ad esempio, «israeliano
» con «ebreo»; il che è grave.
Gli ebrei che hanno preso parte
all’«Israel day» l’hanno fatto sotto
l’impulso di emozioni; dovrebbero
ragionare di più. Però non sono
estremisti, come è apparso in tivù.
Alda: il diritto dei palestinesi di
avere uno stato è fuori discussione.
Ma sono manovrati dai paesi arabi
vicini e sono vittime dei loro stessi
musulmani.
La risoluzione dell’Onu 181 del
29 novembre 1947 prevedeva la divisione
della Palestina in uno stato
ebraico e uno stato palestinese. Gli
ebrei l’hanno accettata, mentre gli
stati arabi l’hanno rifiutata, convinti
di «poterli buttare in mare» in pochissimo
tempo. Da qui è cominciato
il dramma dei profughi palestinesi.
Poi si sono compiuti errori da par-
te sia degli israeliani che dei palestinesi.
L’«Israel day» è stata una risposta
sbagliata (manipolata da Giuliano
Ferrara) alla manifestazione per la
pace che si era svolta a Roma, aperta
da palestinesi vestiti da «kamikaze
», e con mons. Capucci sul palco;
tanto che i sindacati, DS e Margherita
si sono allontanati dal corteo.
Abbiamo bisogno dell’apporto di
persone, non coinvolte emotivamente,
in grado di dire a ragion veduta
«questo è giusto» e «questo è
sbagliato»: persone che non sfruttino
né Israele né Palestina a loro uso
e consumo.
Pertanto ne consegue un dialogo
fra sordi.

Spesso sì.
In tale contesto come valutate i
«kamikaze» palestinesi e le rappresaglie
di Sharon?

Franco: il binomio kamikaze-rappresaglia
in psicologia si chiamerebbe
«simmetria»: tutti vogliono avere
ragione. Allora c’è una sovrapposizione
continua, che non finisce mai.
Purtroppo in Israele manca un
anti-Sharon, come Yitzhak Rabin.
Egli fu il generale che vinse tutte le
guerre e stava per vincere pure quella
della pace; fu ucciso da un cretino
su commissione di estremisti
israeliani o arabi. Data la «simmetria
», Rabin era scomodo a tutti.
Quanto ai «kamikaze» suicidi che
uccidono innocenti, essi sono manipolati;
la colpa non è loro, ma di chi
li manda al macello. Siamo di fronte
ad un completo lavaggio del cervello
per fini religiosi.
Alda: i «kamikaze» riguardano
un problema politico-religioso. Sono
dei «disgraziati» manovrati: mi
spaventano per la mancanza di rispetto
verso la vita umana, da parte
loro e delle loro famiglie.
Se non c’è rispetto per la vita, dove
si va a finire?
Signora Alda e signor Franco, è
possibile uscire, una volta per sempre,
dal conflitto Israele-Palestina,
che perdura da oltre 50 anni?

Alla domanda, scontatissima, gli
intervistati ammutoliscono abbassando
lo sguardo con un triste sorriso.
Poi…
Franco: secondo la mia formazione
ingegneristica (quindi limitata),
penso che bisogna uscire dalla simmetria.
Ciò dipende dagli Stati Uniti
e dai grandi stati arabi. Però dubito
che ne escano facilmente.
Ma che intende, signor Franco,
per simmetria in questo caso?

Rispondo mostrandole
un disegno: sono
due biciclette unite,
che pedalano
in direzione opposta;
rappresentano
Israele-Palestina
e Stati Uniti-
Stati Arabi.
Tuttavia mi auguro
che sorga un nuovo Rabin,
oppure che entri in scena un
nuovo e forte stato catalizzatore…
Nella simmetria giocano le grandi
forze di potere. Israele e Palestina,
da soli, non possono sciogliere il nodo
che li strangola.
Signora Alda, il nodo israelo-palestinese
non si può proprio sciogliere?

Ne abbiamo parlato anche nella
nostra comunità ebraica di Torino.
E un oratore diceva: «È difficilissimo
uscire dal conflitto, perché si è
di fronte a due individui… che hanno
entrambi ragione».
E si ricade nella simmetria.
Purtroppo!… Ma il ritiro di Israele
dai territori occupati non giova
molto ai palestinesi, perché si trovano
senza lavoro, senza infrastrutture
e con pochissime possibilità di
sviluppo. Questa è stata già una grave
colpa di Yasser Arafat e del suo
entourage: nei loro territori bisognava
per prima cosa creare scuole,
ospedali, posti di lavoro. Si parla dei
profughi di Jenin: da circa 30 anni
sono tali! A Gerico l’autorità palestinese
ha costruito un casinò, frequentato
anche da israeliani danarosi.
Francamente, troppo poco!
I leaders palestinesi non incarnano
l’idea di uno stato democratico,
dove tutti i cittadini possono e devono
esprimersi. I palestinesi hanno
ogni diritto e possibilità di farlo,
senza essere in balia di qualche potente
stato arabo.
D’altro canto, Israele stesso è a sovranità
limitata… E anch’io, come
Franco, sogno un nuovo Rabin per
vincere la battaglia della pace.

La tattica del «souk»
«Mi sia consentito – ha detto ALDA SEGRE al termine dell’incontro rivolgendosi
all’intervistatore – aggiungere tre osservazioni. La prima: mi ha stupito,
positivamente, che lei abbia parlato di Israele e non di “terra santa”. Per
noi, ebrei, questo è l’approccio giusto. Parlare di “terra santa” può portare a speculazioni.
Seconda: non so fino a che punto le nostre idee su Israele possano interessare
gli italiani: stando ai mass media, essi sono più interessati alla chiesa
di Betlemme, alla Madonna che è stata colpita, ai frati che fanno la fame, ecc. E
si dimentica il dramma dei palestinesi che stanno intorno.
Ultima considerazione: dobbiamo guardarci dal voler risolvere il “problema palestinese”
con la mentalità europea, mentre in loco predomina quella araba. L’arabo
si comporta diversamente; usa la tattica del souk (mercato): si annuncia il
prezzo, che poi viene scontato una, due, tre volte… A mio parere, la mentalità
del mercato ha danneggiato anche Arafat nelle sue scelte politiche».

Integralismi alleati
«Anch’io aggiungo qualcosa – ha affermato FRANCO DEBENEDETTI -. Quale
migliore alleato potevano trovare i potenti integralisti islamici se non il piccolo
e miope Sharon?».

Francesco Beardi




DOSSIER: mutilazioni genitali femminili


Circa 130 milioni di donne, soprattutto nel sud del mondo,
sono sottoposte a scioccanti mutilazioni: l’operazione si pratica su
bambine in tenera età. Un atto contro i diritti dell’integrità della
persona. Una sua manipolazione. E la denuncia è doverosa.


Persone in
corpo e anima

Lo scrisse
su Missioni Consolata, nell’aprile 1996, la ricercatrice Anna Bono.

La piaga
riguardava allora 80 milioni di donne, mentre oggi ne investe 130 milioni.
Il dato al rialzo è dovuto a maggiori informazioni acquisite negli ultimi
anni: informazioni non facili, trattandosi di un tabù.

Nel giugno
1996 il Tribunale di Washington riconosceva che l’escissione, ad esempio,
è una persecuzione: quindi motivo sufficiente per concedere asilo alle
donne che lo richiedono.

In Italia
le mutilazioni femminili sono vietate,in base all’articolo 5 del Codice
civile e agli articoli 582 e 583 del Codice penale.

Missioni
Consolata ritorna sul tema con un dossier, perché ritiene che la sua
conoscenza sia fondamentale per debellare la piaga. È una violazione dei
diritti umani.

Secondo la
teologia morale cristiana, «l’uomo è unità»: di qui l’importanza anche del
corpo-soggetto. La persona si apre al mondo attraverso il corpo. Ma, se
l’individuo è corpo, è pure vero che non si identifica con esso. «Il
soggetto umano è il proprio corpo e tuttavia più del proprio corpo»
(Tullio Goffi, Problemi e prospettive di teologia morale, Queriniana,
Brescia, 1976, p. 335).

In nome di
una presunta supremazia (complici tradizioni culturali discutibili),
l’uomo può trattare i suoi simili da oggetto. A fae le spese sono spesso
le donne. Donne ferite, nel corpo e nella mente, anche attraverso le
mutilazioni genitali. Una gravissima manipolazione.

Non
l’unica oggi.

Francesco
Beardi


Storie
drammatiche sulla propria pelle

 E
non sei più come prima


 «Io urlavo come un animale al macello… Non permetterò
mai che le mie figlie possano subire un torto simile» (Aisha). «Sono stata
cucita con spine senza anestesia. La ferita mi bruciava» (Basma). «Ci
hanno dato dei regali: ma con quello che abbiamo patito non sarebbe
bastato tutto l’oro del mondo» (Fatima).

Prende
fiato Aisha, una bella ragazza somala di 30 anni, mentre inizia il suo
racconto percorrendo, a ritroso nella memoria, i ricordi di un evento
traumatico. «Avevo otto anni – continua -, stavo giocando a pallone con
alcune amiche e cuginette, in mezzo alla strada, davanti alla casa di mia
nonna. All’improvviso arrivò correndo mia sorella, Zahra, che disse:
“Vieni, dài, stiamo per essere infibulate…”. Era felice. Ci avevano
detto che era un grande evento e che, per l’occasione, avrebbero ucciso un
pollo e ci avrebbero offerto dei dolci. Quindi mi alzai e, felice, corsi
via con lei. Entrammo in una casa poco distante, dove abitava una vecchia
levatrice. Toccò per prima a mia sorella, di un anno più grande di me. La
donna, con l’aiuto di mia madre e mia nonna, fece stendere la sorella su
una stuoia. Io rimasi nella stanza a fianco, seduta per terra, silenziosa,
come paralizzata. La sentii urlare. Il suo dolore mi sembrava atroce: mi
entrava nelle orecchie e mi impediva di respirare. Ero terrorizzata. Una
violenta ribellione si impossessò di me. Feci per fuggire.

Non capivo
bene che cosa stesse accadendo, ma certamente, regali o no, non volevo
soffrire. “Non voglio più essere cucita” gridai con quanto fiato avevo in
gola. Ma la nonna mi afferrò stretta e, aiutata da una vicina, mi adagiò
su un materasso. Poi si sedette dietro di me e mi tenne aperte le gambe,
come in una morsa. La vecchia ostetrica aveva terminato il lavoro di
ricucitura. Mia sorella ora se ne stava quieta, come un animale ferito,
senza forze e senza volontà, sulla stuoia ancora insanguinata.

Era il mio
tuo. Sentivo crescere la disperazione e la rabbia. In ginocchio, di
fronte a me, la vecchia mi guardava sicura e severa. Con un esperto colpo
di coltello mi tagliò la clitoride e le piccole labbra, senza anestesia.
Allora non si usava ancora; ora sì, in ospedale, dove l’infibulazione è
praticata dai medici.

Furono
minuti indescrivibili: il coltello grondava sangue, mentre io urlavo come
un animale al macello; non capivo perché mi stessero facendo quel male.
Mia madre e mia nonna mi rassicuravano dicendo che stavo per diventare una
donna, che avremmo festeggiato tutti insieme l’evento, che erano
orgogliose di me, della sorella e che, qualche anno dopo, avrei potuto
sposarmi e fare dei bambini.

“Sposarmi?
Fare figli?” domandavo a me stessa mentre mi tagliavano, e pensavo ai
giochi lasciati per strada… Mi cucirono con ago e filo, lasciando
un’apertura sottile per far defluire l’urina e il sangue mestruale. Poi mi
lavarono e disinfettarono con erbe e unguenti. Infine mi legarono le gambe
strette tra loro e mi portarono a casa della nonna, insieme a mia sorella,
dove rimanemmo immobili, distese su stuoie, per due settimane. “La ferita
si deve rimarginare bene – ci spiegarono -; altrimenti, quando
partorirete, si lacererà”.

In quei
giorni arrivarono familiari, parenti e amici a congratularsi con noi.
Portarono dolci e doni, ma a me non interessava nulla: ero mortificata e
scioccata. Mia sorella sembrava invece gradire tutte quelle attenzioni; si
sentiva importante. Io ero piena di rabbia: “Mai – mi ripetevo –
permetterò che le mie figlie possano subire un torto simile”.

Pochi anni
dopo, fui data in moglie ad un uomo molto più vecchio di me… La notte
delle nozze avrei voluto morire. Provai un dolore atroce. Per il marito,
invece, fu un grande onore, una prova di virilità, avere rapporti con una
sposa così cucita. È anche una sicurezza sulla sua fedeltà: con chi altri
potrebbe mai tradirlo?

Rimasi
incinta. Andai in ospedale a Mogadiscio. Là mi aprirono per farmi
partorire, e mi ricucirono. Avevo 14 anni e avevo appena terminato le
scuole. All’età di 18 arrivai in Italia con mia sorella…».

Da 12 anni
Aisha vive in Piemonte con delle connazionali e si prende cura della
figlia. Il marito è in America a lavorare.

A
Mogadiscio ha frequentato, finché ha potuto, scuole italiane, come la
maggioranza delle sue coetanee benestanti, e in Italia si è laureata in
medicina, mentre lavorava come assistente domiciliare per anziani. La sua
attività più importante è quella di sensibilizzare le sue connazionali,
giovani mamme e ragazze, contro la pratica delle mutilazioni genitali,
affinché quelle giovani vite non debbano patire torture atroci in nome
della tradizione e del controllo dell’uomo sulla donna.

Una donna
grossa mi bloccava tra le sue gambe, mentre mi bendavano gli occhi con un
foulard nuovo. Mi hanno operato senza anestesia (sono solo 20 anni che
hanno iniziato ad usarla, ad operare su tavoli e a chiamare un’ostetrica).
Sono stata cucita con le spine. La ferita mi bruciava. Mia madre mi ha
lavata con acqua calda. Dopo aver scavato una buca per terra e deposto
della carbonella con delle erbe che producevano fumo, mi hanno fatta
appoggiare sopra per disinfettare e seccare la cucitura, che è diventata
scura. Ho contratto un’infezione, perché mi sfregavo la ferita: sono stata
male per un mese, avevo la febbre…».

Nonostante
il ricordo ancora vivo della sofferenza causatale da tale pratica, Basma
si dichiara pronta per lo stesso intervento: sua figlia è stata infibulata
e vorrebbe che anche le nipoti seguissero la tradizione.

Per
Fatima l’esperienza non è da ripetersi. «Sono stata circoncisa a sette
anni, insieme ad una sorella di nove. Altro che festa! Quel giorno ho
subìto uno shock che non dimenticherò più. Sono stata operata senza
anestesia, senza niente. Ho sofferto moltissimo. Eravamo sette bambine da
sei a nove anni; c’erano le figlie dei vicini di casa, nel tempo di
chiusura delle scuole. Le donne si erano dette: “Facciamo ciò che dobbiamo
fare, perché le ragazze sono ormai grandi”.

Hanno
chiamato una donna anziana e siamo state operate in una casa vicina. La
prima ad essere sottoposta ai ferri è stata la più piccola, mentre noi
guardavamo terrorizzate, in lacrime. La mamma era fuggita, perché non
voleva sentire i nostri pianti.

Mi
hanno deposta nuda su un tavolo grande, mentre tre donne mi tenevano
legate mani e piedi. Non ho visto con che cosa mi hanno tagliata, se con
un coltello o una forbice (si nascondono gli strumenti, perché la pratica
incomincia ad essere criticata). Mi hanno asportato la clitoride e le
piccole labbra. Poi sono stata cucita con filo, perché eravamo in città, e
non con spine, come avviene in campagna. Il dolore è durato ben sette
giorni. Sono rimasta con le gambe legate (dalla vita fin sotto le
ginocchia) per due settimane. Non si può mangiare… Io sono riuscita a
fare pipì, mentre a mia sorella (che non l’ha fatta per tre giorni) si è
gonfiata la pancia. Ha sofferto di più, perché era più grande.

Mamma e
papà, una volta guarite, ci hanno dato dei regali: ma con ciò che abbiamo
patito non sarebbe bastato tutto l’oro del mondo a consolarci! Per fortuna
non sono sorte infezioni, perché papà ci portava tintura di iodio e
antibiotici.

Prima
dell’operazione correvo, giocavo a pallone, ma dopo non l’ho più fatto.
Mia madre mi diceva sempre: “Attenta, ora sei diventata grande, ti
strappi!”.

Non ero
più libera. Non era più come prima. Mi hanno lasciato un buco
strettissimo. Prima del contatto con l’uomo, le mestruazioni erano molto
dolorose. I primi rapporti sessuali mi hanno fatto schifo. Poi è andata un
po’ meglio».

 



Il parere medico sulle mutilazioni

 Igiene?

C’è ben altro!

 «L’infibulazione
è un rapporto tra schiava


e padrone, dove, in accordo a schemi primitivi,

si dona
tutto e si riceve tutto. Il rispetto per le donne è zero. Esse non valgono
nulla» (dott. Mascherpa).


«È un rito iniziatico: la donna rimane un oggetto e, nello stesso tempo,
viene allontanata da lei ogni tentazione» (dott. Bracco).



E le conseguenze sono clamorose.


 Abbiamo interpellato il dottor Franco Mascherpa, medico presso la clinica
ginecologica universitaria di Torino, a suo tempo impegnato in Somalia,
sulle mutilazioni genitali femminili.


Dottore, cosa s’intende per mutilazione sessuale femminile?


«Attualmente sono circa 130 milioni le donne che hanno subìto pratiche di
mutilazione sessuale. Sono interventi laceranti, che si effettuano sui
genitali estei delle bambine prepubere.

Sono
possibili tre tipi di operazione. La più diffusa è quella sudanese o
faraonica (infibulazione), che risulta la più mutilante e dà origine a
tanti problemi medici e psicologici. Essa consiste nell’asportazione della
clitoride e delle piccole labbra, nella cruentazione (con incisioni
verticali, scaificare) della parte intea delle grandi labbra, della
parte mediana della vulva e nella cucitura delle labbra. Le tecniche di
sutura sono diverse: nelle zone rurali si possono usare spine di acacia,
tenute insieme da fili di cotone.

La
clitoridectomia (escissione) è meno diffusa: prevede l’asportazione della
clitoride e della parte superiore delle piccole labbra. La ferita non
viene mai suturata, bensì tamponata con erbe. Le bambine vengono fasciate
con le gambe strette.

La
sunnah (circoncisione), diffusa nei paesi arabi, ma anche in Somalia) è
una pratica meno cruenta della clitoridectomia: comporta minori
conseguenze permanenti sul piano fisico. Consiste, nei casi più radicali,
nella asportazione di una parte della clitoride. Nelle varianti minori
vengono prodotte piccole ferite superficiali nella regione paraclitoridea.
Lo scopo di tale pratica è di produrre una fuoriuscita di sangue.
Solitamente viene utilizzato un coltello rituale, oppure una lametta da
barba. Vengono anche impiegate sostanze anestetiche.

Dopo
l’intervento, le gambe delle bambine vengono saldamente legate con fasce
all’altezza delle caviglie, delle ginocchia e delle cosce, e mantenute in
questa posizione per dieci giorni, durante i quali seguono una particolare
dieta. Talvolta cospargono la ferita con una sostanza a base di incenso e
mirra, che ritengono svolga un’azione antisettica e cicatrizzante.

Un
altro aspetto del fenomeno è la reinfibulazione post partum. Una
missionaria mi raccontò che, in Somalia, la praticavano alle donne che
avevano appena partorito per evitare tensioni familiari».

Come
sono considerate le donne non circoncise?

«In
Somalia le donne non circoncise sono ritenute orfane, meticce e fanno di
mestiere le prostitute: questo perché perdono dignità, valore sociale ed
economico; non sono più sposabili e hanno perciò poche speranze di
sopravvivenza. In un paese povero come la Somalia, infatti, le poche
risorse sono legate alla presenza di un uomo. Le donne, se non c’è un
maschio a fianco che abbia qualche attività commerciale, da sole non
possono sopravvivere. Per la stessa ragione vogliono essere sempre
incinte: il marito, che ha mogli sparse qua e là, è più propenso ad
andarle a trovare spesso e portare loro da mangiare. Se la donna è
sterile, rischia di non ricevere mezzi di sussistenza».

In
Occidente consideriamo affascinanti le somale: la loro bellezza, la
fierezza e la sensualità del portamento sembrano giustificare tale
considerazione. Ma come vivono il rapporto con il proprio corpo?

«In
Somalia, come ginecologo e sessuologo, ho cercato di capire come le donne
si rapportavano alla propria sessualità: l’unica risposta che ne ho
dedotto è che essa ha una pura funzione riproduttiva. La loro grande
sensualità non è genitale, perché da quegli organi ricavano solo molto
dolore. Dal punto di vista ginecologico, hanno sempre mal di pancia e
problemi vari. Per loro il benessere non è vivere bene la sessualità nel
matrimonio, bensì avere un marito che le mantenga.

Le
bambine di soli cinque anni, che sanno di essere infibulate, aspettano con
ansia il momento di passaggio all’età adulta. Se una ragazzina grandicella
non ha ancora subìto tale operazione, viene emarginata dal gruppo di
amiche.

Il
corpo della somala è un corpo doloroso. Infatti i racconti sui primi
rapporti sessuali sono agghiaccianti, traumatici: lei si presenta a lui
“cucita”. Sono poche le mogli che, d’accordo con il marito, si fanno
scucire. In genere lui vuole constatare di persona che lei sia chiusa. La
regola è quella del grano di mais: se passa un grano è ben cucita. Da quel
foro fuoriescono urine e mestruazioni, ma con gran ristagno di liquidi.

Al
momento della penetrazione sorgono i problemi: la cucitura deve essere
aperta o con il pene o un oggetto qualsiasi (un coltello, una lametta, la
parte superiore di una lattina di coca-cola).

L’atto
sessuale, più che un rapporto intimo, è un gesto di valorizzazione sociale
delle velleità maschili: io, uomo, la posso penetrare anche se è
difficilissimo. È una prova, mentre alla donna è richiesta una
superverginità. Spesso questa ha il primo rapporto in modo strumentale,
non naturale: vetri, coltelli, forbici, frammenti di latta che lacerano le
suture. Una donna facile da avere è vista come una prostituta, con
sospetto. Una donna non infibulata può essere ripudiata immediatamente. Se
il marito non riesce a deflorare la moglie, può sempre dire di aver
sposato una donna ben cucita, quindi di grande moralità.

In
Somalia si porta ad estreme conseguenze questo aspetto antropologico: “io
sono così preziosa che sono inaccessibile; però quando mi conquisti mi dai
tutto”. È un rapporto tra schiava e padrone, in cui, in accordo a schemi
primitivi, si dona tutto e si riceve tutto. Il rispetto per le donne è
zero. Esse non valgono nulla.

Se
l’orgasmo femminile è seducente per l’uomo in un contesto occidentale, è
superfluo, negativo, privo di interesse in società maschiliste e sadiche.
“Perché una donna mi deve sedurre? Faccio io quello che voglio di lei.”
Innamoramento, amore non esistono. La donna è un mezzo attraverso il quale
l’uomo realizza la propria discendenza.


Comunque, a livello sessuale, donna e uomo hanno strategie diverse: la
prima deve essere prudente, poiché ne può conseguire una gravidanza; il
secondo invece cerca di sedurre più donne possibile, perché la poligamia è
la forma di famiglia più diffusa nel mondo (come numero di culture, non di
persone). In Occidente si espleta attraverso numerosi rapporti
extraconiugali, che coinvolgono l’80% delle persone».

Ci sono
donne somale che chiedono di essere deinfibulate perché sono fidanzate ad
italiani?

«Dove
sono? Si sposano solo tra loro. Da me arrivano donne con complicazioni
mediche… Un somalo non sposerebbe mai una connazionale, anche se
infibulata, arrivata qui molto tempo fa, perché pensa che abbia ormai
assunto la mentalità occidentale. Tutte le donne che hanno avuto
“contaminazioni” con l’Occidente non si sposano più».

Tutte
le giovani somale in Italia sono qui sapendo che perdono la possibilità di
trovare marito?

«Se non
trovano subito un fidanzato somalo, con il passare del tempo perdono la
propria accettabilità sessuale».

 


 Abbiamo brevemente intervistato anche il ginecologo Roberto Bracco.


Dottore, in certi contesti culturali l’infibulazione è considerata
un’usanza igienica, che rende più bello e pulito il corpo della donna.
Cosa ne pensa?


«L’infibulazione non è una pratica igienica. In tutti i casi che ci sono
capitati, quando abbiamo riaperto la ferita, abbiamo trovato l’assenza
totale di igiene. L’urina e il sangue mestruale ristagnano all’interno
della cucitura».

Come
intervenite?


«Introduciamo una pinza a becco e tagliamo i punti. In certi casi è
necessario operare con anestesia totale».

Come
definire allora l’infibulazione?

«Un
intervento mutilante che, dal punto di vista sanitario, non ha nulla di
igienico. È un rito iniziatico: l’asportazione della parte erettile della
donna. La clitoride, infatti, ha la stessa struttura anatomica dei corpi
caveosi del pene; rappresenta il centro del piacere sessuale femminile,
che viene così ad essere mutilato. Se in un rapporto di coppia si toglie
alla donna la parte di piacere, essa rimane un oggetto e, nello stesso
tempo, viene allontanata da lei ogni tentazione. Il controllo dell’uomo è
così veramente efficace.

La
circoncisione femminile, praticata alle donne egiziane, è invece più
blanda e permette loro di avere una vita sessuale normale.

Nei
casi estremi si può intervenire chirurgicamente con una plastica delle
piccole labbra».

 

La
pratica delle mutilazioni genitali femminili può comportare delle
complicazioni mediche immediate e a lungo termine.


Nell’immediato: shock post-operatorio, infezione locale, setticemia,
tetano, emorragia, lesioni delle vie urinarie e della regione perianale,
ritenzione di urina e infezioni urinarie…

A lungo
termine: proliferazione fibrosa del tessuto, cisti e ascessi, malattia
infiammatoria pelvica, ritenzione di sangue nella vagina e cavità uterina,
defibulazione cruenta al momento della deflorazione e del parto, parto
distocico, fistole vagino-vescicali e rettali post partum, rapporti
sessuali difficoltosi e dolorosi, infezioni uro-genitali ricorrenti…


mancano ripercussioni psicologiche: paura e angoscia infantile,
lacerazione in infanzia/età adulta, senso di inevitabilità del proprio
destino, senso di inferiorità sociale, morale e spirituale della
condizione femminile, disturbi della sfera sessuale, restringimento di
interessi e perdita di intraprendenza, senso di offesa alla propria
integrità psico-fisica, caduta di autostima, malattie mentali (nevrosi
cenestopatica, stati depressivo-reattivi).

 


I dati riportati sono stati desunti dalla ricerca della professoressa
Silvana Borgognini Tarli, docente di antropologia all’università di Pisa,
e della dottoressa Elisabetta Marini, ricercatrice in scienze
antropologiche, pubblicata dalla rivista «Sapere», maggio-giugno 1994.

 

 



Altre dichiarazioni e precisazioni

 Tra
dovere



e vergogna

 


Alia: sono stufa di sentirmi chiedere se approvo o meno l’infibulazione e
se la ripeterei sulle mie figlie… Mariam: l’unico suo significato è
quello di controllo, di potere da parte dell’uomo sulla donna; è una forma
di maschilismo cui dobbiamo opporci…Giovanna: i seni, i glutei e altre
parti del corpo sottoposte a chirurgia estetica non sono forse altrettante
forme di tortura a cui la donna si sottopone pur di piacere al maschio o
di tenersi il marito?

 

Alle
donne somale dà spesso fastidio l’interesse dell’Occidente verso
l’infibulazione: sentono una ingerenza nella loro vita, nelle loro
tradizioni, nei loro corpi.

Alia,
studentessa somala, dichiara: «Noi non andiamo a sindacare sulle abitudini
sociali, sessuali o estetiche delle donne europee. Sono fatti loro, come
la tradizione dell’infibulazione è affare nostro. Sono stufa di sentirmi
chiedere se approvo o meno questa usanza e se la ripeterei sulle mie
figlie. L’Occidente non può sempre esportare i suoi valori e il suo
modello di vita agli altri paesi. Credo che ogni popolo vada lasciato
libero di scegliere il suo modello di sviluppo e di seguire le proprie
tradizioni, senza per questo essere accusato di barbarie o di inciviltà».

Di
opinione differente si dimostra Mariam, mediatrice culturale presso uno
sportello sociosanitario di Torino: «Sono contraria alla pratica delle
mutilazioni genitali, anche se l’ho subìta e non me ne vergogno, come
invece accade ad alcune mie connazionali. È parte della nostra cultura e
non c’è da vergognarsene. Anche sul termine “mutilazioni” non sono
d’accordo. Si può condividere o meno l’uso di tale pratica, ma non credo
che si tratti di una mutilazione. Certo, i danni causati sono molti. Da
noi infatti arrivano donne infibulate, che hanno sviluppato seri problemi
clinici e hanno timore di essere visitate, ma anche madri che chiedono
consigli sulla scelta di fare infibulare (o circoncidere) le proprie
figlie.

In
Somalia tutte le bambine sono sottoposte a tale intervento. Vengono
preparate dalle madri ad accettare ciò che dovranno subire come un momento
importante nella loro vita: è un “rito di passaggio” che si manifesta
anche attraverso la festa, i regali e l’aspetto gratificante del
riconoscimento pubblico. Le mamme chiedono alle figlie di non esteare
dolore e pianto, perché altrimenti disonorano la famiglia: infatti la
parte coinvolta del corpo è “vergognosa”, e non può essere menzionata. Il
dolore, dunque, va nascosto, segregato, represso.

Alcuni
fanno ricoverare le proprie figlie in ospedale, affinché l’operazione sia
eseguita in modo corretto e igienico; altri si rivolgono a “mammane”, che
tagliano senza anestesia e in condizioni sanitarie pessime. In entrambi i
casi, tuttavia, la ferita rimane: nel corpo e nella mente. Ed è difficile
da rimarginare. Crescendo sorgono grossi problemi ginecologici, che si
manifestano soprattutto durante i rapporti matrimoniali, la gravidanza e
le mestruazioni. Le donne, qui in Italia, hanno paura di farsi visitare:
temono di essere scucite. A Firenze opera un medico somalo, che con il
laser deinfibula coloro che glielo richiedono.

Prima
della notte di nozze, qualche donna accetta di farsi scucire per evitare
lacerazioni e sofferenze eccessive; ma la maggioranza rifiuta tale
pratica, temendo il giudizio negativo del marito. Si dice che venga a
mancare la sensibilità femminile durante il rapporto sessuale; non è vero.
Ad essere asportata è solo la parte superiore della clitoride. Io ritengo,
comunque, che noi donne abbiamo il dovere di ribellarci a questa pratica.
Dobbiamo dire “no”. Dobbiamo porre fine a tale cultura.

Prima
della guerra civile, il presidente Siad Barre (1) aveva promosso una
campagna contro l’infibulazione, ma con il conflitto tutto è andato
perso…

Le
donne somale in Europa, ad esempio, si pongono il problema se fare
tagliare o meno le proprie bambine e pensano: “Adesso siamo qui e tutto va
bene. Ma, se torniamo nel nostro paese, cosa accadrà alle nostre figlie?
Verranno prese in giro dai coetanei, additate come prostitute e non
troveranno mai marito“.

A
Torino le donne somale sono oltre un migliaio, e sono poche quelle che si
rifiutano di ricorrere all’infibulazione. È sentita come un retaggio
culturale da mantenere.

Io non
l’accetto. Che senso ha? Perché mai è necessaria? Nel passato era forse
usata come una sorta di “cintura di castità”… L’unico suo significato è
quello di controllo, di potere da parte dell’uomo sulla donna. È una forma
di maschilismo cui dobbiamo opporci».

 


 Abbiamo avuto pure l’occasione d’incontrare Giovanna Zaldini, di origine
somala, vicepresidente dell’Associazione torinese Alma Terra.

Ci sono
famiglie, in Italia, che richiedono di infibulare le proprie figlie?

«A
Torino non sono mai state registrate, finora, richieste di
infibulazione/circoncisione.

Chi ha
scelto di emigrare in Italia ha pure scelto di mettere in discussione le
proprie origini e tradizioni, diversamente da chi è stato costretto a
lasciare il proprio paese a causa della guerra. Questa seconda tipologia
di persone si sente più sradicata e non è in grado di operare scelte
contro la propria cultura e tradizione… In ogni caso, se in Italia vi è
stata richiesta di infibulazione, non troverà risposta da parte dei
medici.

Il
problema più evidente è quello delle conseguenze sulla salute delle donne
già infibulate. A livello sanitario nazionale, permane ancora una grande
impreparazione nell’affrontare casi di pazienti infibulate e nel prestare
loro soccorso e cure adeguate. Quando, ad esempio, in ospedale arrivano
delle partorienti infibulate nessuno pensa di scucirle prima del parto. Il
personale sanitario ricorre automaticamente al taglio cesareo.

Inoltre
le donne giovani non si sottopongono a visita ginecologica per paura del
dolore, ma anche perché si vergognano e non si sentono capite dai medici.
Qualcuna ha raccontato di avere provato molto disagio, perché si sentiva
studiata, osservata.

Anche
per questa ragione va posta molta enfasi sulle nefaste conseguenze
cliniche di tale pratica e sulle ragioni che spingono certi poteri ad
infibulare le proprie donne; così facendo, sottopongono queste ultime ad
umiliazioni e mortificazioni ulteriori.

In
Occidente si parla di “mutilazioni” sessuali. Già! Ma i seni, i glutei e
altre parti del corpo sottoposte a chirurgia estetica non sono forse
altrettante forme di tortura a cui la donna si sottopone pur di piacere al
maschio o di tenersi il marito? Altrimenti se ne cercherebbe una più
giovane, più bella o più “nuova”…

Il
comune denominatore tra “noi” e “voi” resta sempre la sottomissione al
desiderio maschile. Abbiamo tutte subìto un lavaggio del cervello. Siamo
dipendenti dagli uomini, in un modo o nell’altro, a livello sociale,
economico, psicologico.

Per una
donna somala non essere infibulata significa non trovare marito; per una
occidentale non possedere un bel seno vuol dire non essere neanche
guardata. Per la paura di non trovare un uomo che le sposasse, nel mio
paese erano le bambine stesse a chiedere alle mamme più liberali di essere
cucite.

In
Somalia, durante il 1986-90, è stata portata avanti una campagna di
sensibilizzazione contro l’infibulazione, che non ha inciso molto.
Tuttavia, la massiccia emigrazione porterà per forza al confronto con
altre culture e al cambiamento di mentalità nei confronti di questa
pratica.

Se si
supera l’età più a rischio, che va fino a 12-13 anni, le ragazze saranno
fuori pericolo e le mamme avranno un alibi per evitare loro l’intervento.

Presso
gruppi somali, residenti all’estero da lungo tempo, si è visto come il
fenomeno dell’infibulazione si stia trasformando in un’azione puramente
simbolica, iniziatica (pungere la clitoride in modo che fuoriesca del
sangue), finalizzata alla purificazione».


Come dire: l’incontro fra culture diverse può essere liberatorio.

 

(1)
Siad Barre, presidente-dittatore, fu al potere in Somalia dal 1969 al
1991.

 

 


Mutilazioni
sessuali femminili nel mondo

Sono
circa 130 milioni le donne che, nel mondo, hanno subìto mutilazioni
sessuali: circoncisione (clitoridectomia), escissione, infibulazione.

La
circoncisione consiste nella rimozione del prepuzio della clitoride; tale
pratica, nei paesi arabi che la eseguono, è chiamata anche «sunnah».


L’escissione prevede la rimozione del prepuzio, della clitoride, delle
piccole labbra (interamente o in parte), ma lascia intatte le grandi
labbra e il resto della vulva.


L’infibulazione è la rimozione del prepuzio, della clitoride, delle
piccole e grandi labbra, la sutura delle due estremità della vulva (viene
lasciata una piccola apertura per permettere al flusso dell’urina e del
sangue mestruale di scorrere).

 

Queste
pratiche mutilatorie sono largamente diffuse in Africa, Asia, Mondo Arabo,
America Latina ed Europa.

n
Africa: nella costa occidentale, dal Camerun alla Mauritania, nelle zone
centrali e nel Ciad, nel nord dell’Egitto, in Kenya e Tanzania
(circoncisione ed escissione), in Mali, Sudan, Somalia, Etiopia e nel nord
della Nigeria (infibulazione).

n Asia:
Filippine, Malesia, Pakistan e Indonesia (tra i gruppi musulmani).

n Mondo
Arabo: Emirati Arabi Uniti, Yemen del sud, Bahrain, Oman.

n
America Latina: la circoncisione femminile è praticata in Brasile, in
Messico e Perù (presso gruppi di origine africana).

n
Europa: a causa della numerosa presenza di immigrati provenienti dai
sopracitati paesi, il fenomeno delle mutilazioni genitali, dall’antichità
dov’era sepolto, è ritornato alla luce e interessa una vasta fascia di
donne e bambine straniere. Una nuova tendenza, al riguardo, è stata
introdotta da ricchi africani che portano le loro figlie in Europa per
sottoporle a circoncisione, sotto anestesia e in condizioni
igienico-sanitarie migliori di quelle presenti nei loro paesi.

(cfr.
«The circumcision of women. Strategy for eradication», Zed Books ltd,
London).

 


E il
nostro paese?

 L’
Italia è interessata al fenomeno, insieme al resto dell’Europa, anche se
non è possibile risalire a dati certi e reali: certamente esistono casi
(forse qualche centinaio), dal 1992 ad oggi, di bambine, figlie di
immigrati, che hanno subìto mutilazioni sessuali nel nostro paese o in
patria. Quando i genitori non decidono di accompagnarle al paese
d’origine, le piccole vengono operate qui, in cliniche private o in case,
dove medici italo-somali o personale paramedico eseguono l’intervento.

Per
un’infibulazione la famiglia giunge a pagare oltre 1.000 euro. L’età delle
bambine si aggira tra 5 e 12 anni.

Molto
più alto è, invece, il numero di donne straniere, residenti in Italia, che
sono state sottoposte, anni addietro e nel paese d’origine, a
circoncisione o infibulazione.

Oggi
qui, in terra di immigrazione, manifestano varie patologie, fisiche o
mentali, o semplicemente profondo disagio psicologico.

 

 



Infibulazione: è possibile cambiare?

  

Di
questa pratica, delle sue origini, motivazioni e degli strumenti per
sradicarla totalmente dall’uso comune in molte aree dell’Africa, si è
occupato il seminario internazionale «Mutilazioni dei genitali femminili.
Una questione di relazioni tra uomini e donne», organizzato nel giugno
scorso a Torino, presso il Centro internazionale di formazione, dall’Aidos
(Associazione italiana donne per lo sviluppo). Numerosi gli interventi di
esperte africane (giuriste, psicologhe, medici, sociologhe e
antropologhe), da anni impegnate in prima fila nella lotta contro il
fenomeno.

«ll
nostro intento è quello di promuovere scambi di informazioni e conoscenze
fra le associazioni africane ed occidentali – ha detto Cristiana Scoppa,
dell’Aidos e una delle organizzatrici del corso – e di fornire strumenti
formativi e didattici per facilitare l’opera di prevenzione nei villaggi e
nelle città dell’Africa.


Cerchiamo di aiutare a sviluppare una consapevolezza sulle motivazioni
personali, non solo sociali e tradizionali, alla base del radicamento di
tale pratica. È solo prendendo coscienza di sé, del proprio ruolo di
donna, del proprio valore e dei modelli familiari di appartenenza
(centrati sul controllo della donna da parte del clan familiare maschile)
che è possibile apportare un cambiamento a tradizioni antiche e radicate.

Un
altro aspetto altrettanto importante è quello dell’informazione
nell’ambito sanitario: medici e infermieri, infatti, sempre più spesso in
Italia e a Torino, si trovano di fronte a donne infibulate o escisse, in
procinto di partorire, ed è impensabile che possano operare alla rimozione
della sutura al momento delle doglie. Bisogna intervenire prima,
altrimenti si creano lacerazioni o complicazioni gravi e tanto disagio,
sia per le pazienti sia per i medici».

 

Il prezzo … della
sposa

Le
mutilazioni genitali femminili (mgf) hanno radici lontane e ancora oscure.
Qualcuno le fa risalire ai faraoni di Egitto (circoncisione faraonica),
altri all’antica Roma (in-fibulare, chiudere con fibbia: è l’usanza di
applicare ai genitali estei maschili o femminili fermagli o anelli per
evitare i rapporti sessuali).

Molti
sono gli studi sull’argomento, a livello sia antropologico-sociologico sia
medico-scientifico, che tuttavia non hanno scalfito il silenzio e il
disagio che gravitano attorno a questo diffusissimo fenomeno.

 Scrive
Carla Pasquinelli nella ricerca «Antropologia delle mutilazioni dei
genitali femminili», curata dall’Aidos (Associazione italiana donne per lo
sviluppo): «Dietro questo silenzio ci sono molte cose: c’è un mondo di
donne chiuso su se stesso, un mondo di interni, sospeso tra l’attesa e il
timore di togliare via una parte del corpo delle proprie bambine nel corso
di cerimonie di cui per secoli le madri sono state le grandi registe, e
c’è un mondo esterno, un mondo di uomini che si mantiene estraneo e
distante, e che però su questo disciplinamento dei corpi femminili ha
fondato le proprie strategie di potere. A tenere insieme e dare coerenza a
questi due mondi così distanti tra loro c’è una pratica cruenta, che
stringe in una morsa tutta la fascia dell’Africa subsahariana, e che
costituisce l’espressione simbolica di un complesso sistema economico e
sociale di strategie matrimoniali diffuso in maniera capillare in tutta
l’area.

Si
tratta di un meccanismo di dominio fondato sul prezzo della sposa, cioè
sul compenso che la famiglia del futuro marito versa alla famiglia della
futura moglie in cambio di una donna illibata, il che vuol dire circoncisa
(escissa o infibulata che sia), pronta a rispedirla al mittente e a
riprendersi il compenso versato… se la donna non è operata come si deve.
Il valore di una sposa dipende infatti dalla sua verginità e le mgf sono
una forma di protezione che inibisce nella donna desideri e tentazioni di
rapporti prematrimoniali, ma che soprattutto la preserva e la difende da
violenze e stupri».

 

Fra
tanta incertezza circa l’origine del fenomeno delle mutilazioni genitali
domina una certezza: l’islam non ha nulla a che vedere con la diffusione
in territorio africano di questa antica pratica ad esso antecedente.

Scrive
ancora Carla Pasquinelli: «L’attribuzione che spesso viene fatta
all’islam… è probabilmente dovuta alla facilità con cui si è saputo
adattare al tessuto tradizionale conformandosi al modo di vita locale.

La sua
penetrazione, infatti, è stata resa possibile dalla presenza nelle culture
africane di alcuni elementi (come le strutture patrilineari e la
concezione di Dio fondata su un forte senso di dipendenza), che ne hanno
favorito l’accettazione, permettendogli di radicarsi nel tessuto
tradizionale molto più di quanto non siano riuscite a fare le varie chiese
cristiane che si sono impegnate alcuni secoli più tardi
nell’evangelizzazione del continente africano…

Questo
diverso atteggiamento della religione islamica e di quella cristiana si
riflette anche nella percentuale di donne sottoposte alla mutilazione dei
genitali nei due contesti. Le cifre parlano chiaro: mentre in area
cristiana (dove predomina la clitoridectomia) le percentuali oscillano tra
il 20 e il 50, in area islamica (in particolare nel Coo d’Africa, dove
l’infibulazione è di rigore) si toccano punte che vanno dall’80 al 100%.

Con il
tempo l’identificazione dell’islam con la tradizione indigena non ha fatto
che rafforzarsi, a tal punto che è stato il maggior responsabile della
diffusione delle mutilazioni genitali femminili fuori dell’Africa,
esportandole tra l’altro in Indonesia e Malesia».

 

Bibliografia

– The
circumcision of women, a strategy for eradication (a cura di Olayinka
Koso-Thomas), Zed Books Ltd, London


Antropologia delle mutilazioni dei genitali femminili, una ricerca in
Italia (a cura di Carla Pasquinelli), Aidos


Special needs of ritually circumcised women patients (a cura di Hanny
Lightfoot-Klein – Evelyn Shaw), in «Jognn, principles & practice»


Figlie d’Africa mutilate. Indagini epidemiologiche sull’escissione in
Italia (a cura di Pia Grassivaro Gallo), Editrice L’Harmattan Italia, 1998

– Nous
protégeons nos petites filles (a cura de la «Prefecture d’Ile-de-France»)

– Il
corpo offeso, in «Sapere», 1994

– The
sexual esperience and marital adjustment of genitally circumcised and
infibulated females in the Sudan (a cura di Hanny Lightfoot-Klein), in
«The Joual of sex research», 1989


L’histornire de Fatoumata (a cura di «Campagne pour l’éradication des
mutilations génitales féminines»)


Mutilazioni dei genitali femminili. Una questione di relazioni tra uomini
e donne, diritti umani e salute (convegno), Torino, luglio 2001, OIL


Figlie d’Africa mutilate, anche in Italia (convegno), Torino, febbraio
1999


Infibulazione tra diritti umani e identità culturale (a cura del CSA,
Centro Piemontese di Studi Africani, Associazione Frantz Fanon, Istituto
Avogadro), Torino 1998


Pharaonic circumcision of females in the Sudan (a cura di Hanny
Lightfoot-Klein), in «Medicine and Law», 1983


Observation ethnopsychiatrique de l’infibulation des femmes en Somalie (a
cura di Michel Erlich) in «Terrain Ethnologique»

– La
lunga marcia delle donne contro l’infibulazione, in «Tam Tam», 1995

– Waris
Dirie, Fiore del deserto. Storia di una donna, Garzanti Editore, 2000


L’excision hors la loi (a cura di Karine Sidibe), in «Le Temps de
l’Afrique noire», novembre 1996

– La
salute delle donne e le mutilazioni sessuali: un problema della società
multietnica (a cura di Elisabetta Cirillo), in «Politica del Diritto»,
marzo 1992

Angela Lano




IL BUON SAMARITANO… COMUNISTA

Ho letto «la parabola di Luca».
Pensate che il vostro mensile
sia letto da imbecilli? No. La parabola
del buon samaritano è stata
stravolta da GIANCARLO TELLOLI, proponendo
come esempio un comunista.
L’autore della lettera conosce forse
molto poco di quanto è successo
in Russia dal 1917; non conosce o fa
finta di dimenticare cosa sta facendo
oggi la Russia, zitta zitta, in Cecenia,
massacrando un popolo che
chiede solo l’indipendenza. Peccato
che Missioni Consolata non scriva un
articolo (naturalmente onesto) sulla
situazione cecena!
Caro Giancarlo, senza guerra, sotto
il comunista Stalin furono uccisi
e torturati milioni di persone: legga
il libro da poco pubblicato sul «comunismo».
Mi stupisco che Missioni
Consolata pubblichi lettere come la
sua, che io definisco demente, e non
quelle che dicono la verità.

Quante lettere sono state cestinate
da Missioni Consolata? In che cosa consisteva
la loro verità?… Alla Cecenia la
nostra rivista ha dedicato ben due dossiers,
scritti da B. BALESTRA, esperta di
problemi russi: documentano una tragedia
di enormi proporzioni, con atrocità
commesse dai soldati russi e dai
guerriglieri ceceni (Missioni Consolata,
marzo 2000 e marzo 2001)… Abbiamo
pure denunciato l’invasione sovietica
dell’Afghanistan (Ivi, dicembre 1989).
«Un uomo scendeva da Gerusalemme verso Gerico»
(Lc 10, 30). Ma a Kabul…

GIOVANNI VIOTTO




DA PORTO ALEGRE, L’UTOPIA POSSIBILE

«Ritorniamo davvero a sognare. Il potere ha paura
di chi sogna. Sogniamo un mondo alternativo.
Il nostro è un mondo assurdo che deve crollare.
Non è possibile rattoppare, mettere delle pezze
su un sistema che è morto e che ci dà la morte.
Sogniamo una cosa nuova». (padre Alex Zanotelli)

«Un mondo ingiusto
non è un mondo sicuro»

È sotto gli occhi di tutti che il tanto decantato sviluppo ha riguardato soltanto
una piccola parte del mondo. Eppure, la potente «Organizzazione mondiale
del commercio» continua ad attribuire poteri salvifici al libero mercato,
che però è un rapporto sociale fondato sulla disuguaglianza. Nel frattempo
anche il finanziere-speculatore George Soros comincia a nutrire dei dubbi…

L’obiettivo fondamentale
dell’«Organizzazione mondiale
del commercio»
(Wto) è quello di liberalizzare il
commercio e la giustificazione è il
benessere dell’umanità. Qualche
anno fa, Renato Ruggiero (il ministro
degli esteri licenziato da Berlusconi,
ndr), allora direttore del Wto,
disse che l’umanità raggiungerà la
felicità nel primo quarto del ventunesimo
secolo, se ci sarà una liberalizzazione
totale del mercato.
Oggi noi constatiamo che, per
ora, la realtà ha mostrato esattamente
l’opposto: 20 anni di storia
neoliberale hanno portato esattamente
all’opposto, cioè ad una riduzione
dello sviluppo da parte
del mondo. A questo punto dobbiamo
chiederci perché questo è
accaduto.

IL MERCATO
È UN RAPPORTO SOCIALE

Qual è la filosofia dell’Omc e
quali sono le sue contraddizioni?
Secondo la teoria neoliberista, il
mercato è un regolatore universale.
Questo significa che, se noi lasciamo
piena libertà ad esso, tutti i problemi
trovano una soluzione, perché
c’è sempre un equilibrio che si
forma tra domanda e offerta. Inoltre,
secondo questa filosofia, il
commercio è il motore dello sviluppo.
Dal punto di vista pratico, questa
teoria è funzionale ad un preciso
obiettivo: l’accumulazione del capitale.
E, di conseguenza, non produce
una regolazione generale, ma
un vantaggio privato.
Ci possiamo domandare: cosa
manca a questa teoria? Qual è l’errore
ideologico alla base? Per essere
semplici, diciamo che l’errore sta
nel fatto che non si riconosce che il
mercato non è un regolatore, bensì
un rapporto sociale.
Sul mercato agiscono due soggetti,
l’offerta e la domanda, che
teoricamente sono uguali, ma nella
realtà non lo sono. E nel rapporto
sociale del capitalismo non possono
essere uguali perché, in base alla
logica della concorrenza, c’è
sempre una parte più forte o più
corrotta che prevale sull’altra. L’accumulazione
capitalistica è possibile
solo se c’è una differenza. In altri
termini, il capitalismo non può
che riprodursi nella disuguaglianza.
Riassumendo: il mercato è un
rapporto sociale e il rapporto sociale
è ineguale.
Due anni fa, a Washington, incontrai
Michel Camdessous, l’ex
direttore generale del «Fondo monetario
internazionale» (Fmi), e discutemmo
sugli effetti delle politiche
dell’organizzazione. Io gli chiesi
se ciò non derivava dal fatto che
il mercato è un rapporto sociale.
Egli mi rispose in modo netto: no.
Pertanto, se il mercato non è un
rapporto sociale, allora è un fatto
naturale, una volontà di Dio. Se accettiamo
questa definizione, non si
può mettere in dubbio nulla: le differenze
tra offerta e domanda, tra
acquirente e venditore, eccetera.
Il mercato non è nato con il capitalismo,
ma molto prima. Ciò che
lo ha trasformato è il rapporto ineguale,
necessario per poter generare
accumulazione. Inoltre, quando
si dice che il mercato è il regolatore
tra offerta e domanda, in realtà
bisognerebbe precisare che esso è
il regolatore della domanda cosiddetta
solvibile. Soltanto una domanda
di questo tipo può entrare
nel mercato. Per intendere questo
punto faccio un esempio.
L’India è l’ottava potenza mondiale.
Ha uno sviluppo industriale
importante e, contemporaneamente,
ha più del 50% della sua popolazione
che vive al di sotto della soglia
di povertà. C’è uno sviluppo
economico spettacolare che riguarda
solo il 20% della popolazione.
Perché? Perché, nella logica capitalistica,
è meglio produrre beni sofisticati
per il 20% della popolazione
che produrre beni di massa
per quel 50% che è sotto la soglia
della povertà. Perché il livello di accumulazione
è maggiore nel primo
caso che nel secondo.
È per questo che, a livello mondiale,
abbiamo una situazione in
cui il 20% della popolazione raccoglie
più dell’80% dei redditi,
mentre il 20% più povero raccoglie
solo l’1,4% della ricchezza totale.
Secondo la filosofia capitalistica,
nel mercato vince il migliore. In
realtà, noi sappiamo che vince soltanto
il più forte. Prendiamo i rapporti
Nord-Sud. Negli ultimi 25
anni le ricchezze del Sud del mondo
sono state succhiate dal Nord.
E questo attraverso tutta una serie
di meccanismi, la maggior parte dei
quali non viene minimamente considerata
nelle discussioni del Wto.
Prendiamo, per esempio, la fissazione
dei prezzi delle materie prime
agricole. Ebbene, questi prezzi
sono considerevolmente diminuiti
negli ultimi 25 anni. Pensiamo al
debito estero che, a causa dei meccanismi
dei tassi d’interesse, si riproduce
costantemente, anche se
negli ultimi 10-15 anni i paesi del
Terzo mondo hanno pagato 4 volte
il loro debito. Eppure oggi molti
di essi sono fino a 6 volte più indebitati
di quanto lo fossero 10-15
anni fa. Il debito del Terzo mondo
assorbe più risorse di quante
vengano restituite attraverso gli
aiuti e l’investimento esteri.
Né va dimenticata la possibilità
dei ricchi del Sud di
espatriare gli utili nei paradisi
fiscali del Nord. È l’insieme
di tutti questi meccanismi
che permette di
realizzare l’accumulazione
necessaria al sistema vigente.
Recentemente sono stato
in Vietnam dove anche la
Coca Cola ha investito. È
stata costruita una società
al 50% dallo stato vietnamita
e 50% dalla multinazionale
statunitense. Dopo
soli tre anni la Coca Cola-
Vietnam ha dichiarato fallimento.
Che cosa è successo?
Hanno speso somme enormi in
pubblicità per arrivare fino al più
piccolo dei villaggi del Vietnam;
a sua volta, la casa madre ha superfatturato
la filiale vietnamita
e questo ha provocato
il crollo. La Coca Cola
madre ha allora
chiesto al governo del
Vietnam di immettere
nuovi capitali all’interno
dell’impresa;
naturalmente il governo
ha risposto
che quella non era
una sua priorità. A
quel punto, i soci
nordamericani
hanno chiesto e ottenuto di avere il
100% della società. Così avviene
che le multinazionali costruiscono
i loro monopoli.

SE ANCHE
SOROS HA DEI DUBBI…

Anche in economia ci sono dei
periodi storici. Ora stiamo passando
da un periodo neoliberale a un
periodo neoclassico.
Persino gente come George Soros,
il più noto finanziere-speculatore
del mondo, è a favore di una
regolazione del capitale finanziario.
Ci si è resi conto dell’insostenibilità
delle continue crisi finanziarie nell’Asia
del sud-est, in America Latina
(ultima in ordine di tempo, l’Argentina),
in Russia; si è visto che in
ogni parte del mondo la povertà
aumenta così come le distanze sociali.
Tutto ciò è pericoloso per il sistema.
A Doha (novembre 2001), in Qatar,
i paesi poveri del Sud si sono
coalizzati; c’è stata anche una convergenza
dei movimenti sociali, da
Seattle a Genova. Si cominciano a
fare delle concessioni, ma non tanto
per risolvere i problemi, quanto
per salvare il capitalismo.

DAL GATT ALL’OMC
Il Gatt (in italiano, «Accordo generale
sulle tariffe e il commercio»)
era l’organizzazione fondata dopo
la seconda guerra mondiale (1947),
accanto alla Banca mondiale e al
Fondo monetario internazionale,
nell’ambito degli accordi di Bretton
Woods, dal nome della piccola
città degli Stati Uniti dove furono
prese tutte queste decisioni.
Il Fondo monetario nacque per
regolare gli scambi fra paesi, rispettando
gli equilibri della bilancia
dei pagamenti; la Banca mondiale
per finanziare, in un primo
tempo, la ricostruzione dei paesi
europei dopo la guerra e, poi, lo
sviluppo nei paesi poveri; il Gatt
per liberalizzare il commercio. Ma
tutto questo accadde in una determinata
situazione economica.
Tra il 1970 e ’75 abbiamo ciò che
viene chiamato il «Consenso di
Washington», che è un accordo tra
multinazionali, la Banca centrale
americana, il Fondo monetario e
Banca mondiale per orientare l’economia
mondiale in un senso neoliberista.
Questo ci porta ad un altro
passaggio storico, che è il passaggio
dal Gatt all’Organizzazione
mondiale del commercio (nata il 1°
gennaio 1995, ma dopo anni di discussioni).
I principi centrali del Gatt erano
tre: primo, che ci fosse lo stesso
trattamento per ogni paese; secondo,
che non esistessero discriminazioni
nelle tariffe; terzo, che tutti i
beni provenienti da un altro paese
avessero gli stessi diritti delle produzioni
intee, compresi gli investimenti.
Come si vede, era l’applicazione
della teoria neoliberale, dove
il mercato diventa il regolatore
e il motore di tutte le attività economiche.
Una simile teoria non ha alcuna
verifica scientifica. In effetti, se noi
prendiamo semplicemente il periodo
del secondo dopoguerra, vediamo
che le economie più sviluppate
sono quelle che hanno protetto la
loro economia e non quelle che si
sono aperte, anche se quello era
uno stato provvisorio. L’espansione
del commercio non è una causa
del progresso e dello sviluppo economico,
ma una conseguenza.
Dunque, siamo partiti da una definizione
che non corrisponde alla
realtà.
Ci sono state molte discussioni
durante i differenti rounds (i momenti
di negoziazione all’interno
dell’organizzazione, ndr) del Gatt.
In realtà, i paesi più ricchi evadevano
in maniera considerevole gli
accordi firmati, ma poi le uniche
sanzioni venivano date proprio dai
paesi ricchi, in particolare dagli Stati
Uniti, in funzione della loro definizione,
per esempio, dei diritti
umani.
Negli ultimi 10 anni ci sono stati
dei cambiamenti profondi. C’è stato
un declino dei paesi in via di sviluppo
a causa della crisi del debito;
c’è stata la caduta del socialismo
reale; ci sono stati alcuni paesi del
Terzo mondo che sono entrati nel
gioco del neo-liberalismo, indebolendo
la posizione collettiva dei
paesi del Sud.
Da qui tutta una serie di diseguaglianze
che si sono ricostruite e una
limitazione progressiva delle protezioni
dei paesi più deboli. Il Wto
è andato molto più in là del Gatt,
entrando in nuovi settori come
quelli della proprietà intellettuale.
Oggi c’è la possibilità, per le economie
più potenti, di dichiarare la
proprietà intellettuale nei confronti
delle scoperte scientifiche che viceversa
dovrebbero essere un bene
comune dell’umanità.

FARMACI
E PRODOTTI AGRICOLI

Tutti conoscono il caso del Sudafrica,
dove 32 imprese farmaceutiche
mondiali denunciarono il
governo locale perché voleva comprare
o produrre farmaci generici
contro l’Aids.
Meno noto è il caso del Vietnam
dove, fino a pochi anni fa, la maggioranza
della domanda di farmaci
era soddisfatta attraverso la piccola
industria locale. Con l’apertura
del mercato sono arrivate le multinazionali
farmaceutiche. Queste
potevano fare tutta una serie di offerte
che non potevano fare le industrie
locali. Il risultato è che oggi
il 60% delle medicine vendute
nelle farmacie del paese sono di
provenienza estera, sono molto più
costose e, quindi, i poveri non le
possono più acquistare.
Il Wto ha creato una propria
struttura giuridica ed è la sola istituzione
internazionale che può imporre
delle sanzioni. Nella realtà
questo è diventato un segno di discriminazione
tra i paesi ricchi e i
paesi poveri, perché la procedura
giuridica è talmente costosa e complicata
che i paesi poveri non se la
possono permettere. Abbiamo visto,
per esempio, il Burkina Faso
chiedere delle sanzioni, perché negli
Stati Uniti vige la pena di morte?
Questa impotenza ha provocato
naturalmente un sentimento di
insofferenza nei paesi più poveri.
È dall’Uruguay Round in poi che
i paesi del Sud hanno accettato le
decisioni del Wto. Perché l’hanno
fatto? Perché le pressioni (o minacce)
del Nord sul Sud sono state
gigantesche. Le pressioni (o minacce)
sono avvenute attraverso la
Banca mondiale e soprattutto il
Fondo monetario: «Se non accettate
le decisioni non avrete più alcun
credito». Io stesso ho sentito il
responsabile per la negoziazione
dell’Egitto che diceva
che non avevamo
idea delle pressioni
che subiva un paese
come il suo per accettare
il documento del
Wto.
Bisogna dire che le
misure protezionistiche
dei paesi più ricchi, in particolare
degli Stati Uniti, sono ancora
molto forti e sono in evidente contraddizione
con la stessa filosofia
del Wto. Solamente i sussidi dei
prodotti agricoli sono pari a 406 miliardi
di dollari all’anno, mentre l’esportazione
dal Sud verso il Nord è
pari a 170 miliardi di dollari.
La diseguaglianza è evidente.
Poiché la cosa essenziale per i paesi
ricchi è di mantenere l’egemonia
economica, ogni tanto bisogna fare
delle concessioni. Quelle fatte in
campo farmaceutico nel summit di
Doha avevano due cause: lo scandalo
del processo contro il governo
del Sudafrica (molto malvisto
dall’opinione pubblica mondiale)
e il problema dell’antrace negli Stati
Uniti. Il governo di Washington
ha preteso (e ottenuto) dalla Bayer
di ridurre drasticamente il prezzo
dell’antibiotico contro l’infezione.
E dunque, dopo un simile episodio,
non poteva più difendere solo
il punto di vista delle multinazionali
farmaceutiche.

L’OSCURO LAVORO
DELLE «LOBBIES»

Ritorniamo al metodo di lavoro.
Prima della conferenza di Doha,
c’è stato un lungo lavoro di
lobbying (pressioni, manovre di
corridoio, ndr) da parte delle multinazionali.
Una organizzazione di nome
«Lotis» (per la liberalizzazione del
commercio e dei servizi), che comprende
le più grandi multinazionali
degli ambienti d’affari americani
ed europei, ha organizzato 14 incontri
segreti (tra l’aprile
1999 e febbraio
2001, insieme ai responsabili
delle negoziazioni
al Wto)
per preparare il documento
da mettere sul tavolo del
negoziato. L’obiettivo era di arrivare
alla maggiore liberalizzazione
possibile in tema di servizi, in particolare
di servizi pubblici (educazione,
sanità, energia, acqua, trasporti,
ecc.).
Vale la pena di ricordare che i
gruppi rappresentati all’interno
della Lotis insieme avevano un giro
d’affari che superava i 100 miliardi
di dollari annui. Una potenza
economica straordinaria a confronto
di paesi come Camerun,
Senegal, Paraguay…
Il documento da discutere è stato
preparato con riunioni informali
con il pretesto dell’insuccesso di
Seattle. Ora, l’Organizzazione
mondiale del commercio è l’unica
istituzione internazionale che funziona
con il sistema «un paese, un
voto». Apparentemente un sistema
democratico, soprattutto se paragonato
ad altre realtà come la Banca
mondiale e al Fondo monetario
in cui ogni voto corrisponde ad una
quota di capitale investito nella
Banca e nel Fondo. C’è però un
dettaglio: non c’è mai stato un voto
all’interno del Wto.
Se non c’è voto, allora come si arriva
ad un consenso? Ecco come.
C’è una divisione in gruppi di lavoro
sui temi principali di discussione:
agricoltura, ambiente, aspetti
sociali, investimenti, sviluppo…
Ogni gruppo è diretto da una persona
scelta dal presidente o segretario
del Wto. Dopo lunghe discussioni
si arriva a un documento
finale, nonostante le critiche al metodo
di lavoro.
La novità di Doha rispetto a Seattle
è che c’è stata una resistenza più
organizzata da parte del Sud del
mondo. C’è stato un risultato positivo
in tema di medicine. Per quanto
riguarda l’agricoltura, si è riusciti
a far passare l’idea dell’eliminazione
dei sussidi, senza fissare però alcuna
data. Mentre, in tema ambientale,
l’Europa voleva ottenere
qualcosa, ma si è dovuta fermare
per il parere contrario degli Stati
Uniti.
Sulle tematiche sociali (introduzione
di tutele dei lavoratori e dell’ambiente)
c’è stata l’opposizione
dei paesi del Sud del mondo, perché
vedono in questi temi una maniera
di proteggere i mercati del
Nord; sul piano delle differenze di
sviluppo tra paesi diversi si sta facendo
strada il principio in base al
quale alcune economie si possono
proteggere, ma solo provvisoriamente.
Insomma, c’è stato un grande
mercanteggiamento su tutto, ma
nessun passo in una direzione positiva.
Cosa si può fare davanti a scenari
tanto negativi? Ci sono delle alternative
fattibili?

RIFORMA O
ABOLIZIONE DEL WTO?

Ci sono differenti tipi di alternative.
Il documento dell’Egitto, per
esempio, chiede che si riconoscano
le differenze tra i diversi partners;
un trattamento uguale è praticamente
un’ingiustizia. Secondo, bisognerebbe
riconoscere il diritto
dei paesi più deboli a difendere le
loro economie e che c’è un rapporto
tra debito e mancato sviluppo di
alcune economie. Terzo, il Wto si
prenda l’impegno di osservare e
criticare quelle pratiche dei paesi
più sviluppati che impediscono lo
sviluppo dell’economia dei paesi
poveri.
Un’altra corrente di pensiero arriva
a dire: bisogna abolire il Wto,
perché non può essere riformato.
Poiché la filosofia stessa del Wto è
la causa dei problemi, non si può
risolvere questo problema mantenendo
l’organismo in vita. Tuttavia,
io credo che occorra essere realisti:
è evidente che non riusciremo
domani a cancellare o sconfiggere
il Wto.
Occorre disegnare un avvenire
più credibile…

UN ALTRO MONDO
È POSSIBILE!

Bisogna avere il coraggio di usare
le utopie di fronte a realtà ingiuste.
L’utopia non è sinonimo di illusione,
ma al contrario rappresenta
la base di qualunque alternativa.
È una spinta all’innovazione, a
cercare, a fare e a gridare che, come
abbiamo detto qui a Porto Alegre,
«un altro mondo è possibile». Proprio
il contrario delle parole della
signora Thatcher: non c’è alternativa
(secondo il famoso acronimo
Tina: «There is no alternative»).
L’utopia è dire: c’è un’altra logica,
diversa da quella capitalista per
costruire l’economia; c’è un’altra
logica, rispetto a quella del mercato,
per fare l’educazione; c’è un altro
modo di fare comunicazione
che non il mercato, altrimenti finiremo
tutti sotto l’egida mondiale di
personaggi come Berlusconi… Sono
possibili molti obiettivi. Per
questo vale la pena di lottare, anche
se sappiamo che sarà un processo
lungo.
A parte il livello più alto dell’utopia,
abbiamo anche vari livelli a
medio e breve termine. Per esempio,
il grande obiettivo politico,
economico, ecologico di dichiarare
l’acqua patrimonio dell’umanità
e non un mercato. E ancora, l’obiettivo
di difendere i servizi pubblici,
che sono privatizzati a tutta
velocità e in tutto il mondo, facendo
dimenticare l’idea stessa di servizio
pubblico.
Un altro obiettivo è quello di
cambiare rotta all’agricoltura, oggi
indirizzata verso l’agro-business
dagli appetiti delle multinazionali.
Per fortuna, i movimenti più organizzati
sono proprio quelli contadini.
Possiamo chiedere, a medio
termine, anche le riforme delle organizzazioni
inteazionali a cominciare
dalle Nazioni Unite e alcune
loro costole come la Fao, come
l’Ondp, che sono oggi in
pericolo.
A breve termine, c’è la regolazione
dei movimenti di capitali attraverso,
ad esempio, l’introduzione
della Tobin tax. Non è sicuramente
questa che sconfiggerà il capitalismo,
ma è un passo in avanti per
arrivare ad una trasformazione del
sistema.

(*) Sacerdote e sociologo, François
Houtart ha insegnato per anni
all’Università cattolica di Lovanio, in
Belgio, una delle più vecchie università
del mondo. Attualmente è segretario
del «Forum mondiale delle alternative
» e direttore del «Centro
Tricontinentale»:
Centre Tricontinental (CETRI)
Avenue Sainte Gertrude, 5
B-1348 Ottignies
Lauvain-La-Neufe (Belgio)
Per altre informazioni biografiche si
veda l’intervista pubblicata in questo
stesso dossier.

I protagonisti

Gatt / Wto – Il Gatt ha regolato le negoziazioni
commerciali tra i paesi
aderenti dal 1947 al 1994. Dal 1995
è stato sostituito dalla più potente
«Organizzazione mondiale del commercio» (Omc in italiano, Wto in inglese).

Tina – Acronimo di «There is no alternative», non c’è alternativa (al
mercato, alla supremazia del privato
sul pubblico). È il credo introdotto
dal primo ministro inglese Margaret
Thatcher, capostipite dei politici convertiti
al neo-liberismo.

Davos / Porto Alegre – Indica la contrapposizione,
anche geografica, tra
il «World Economic Forum» delle multinazionali
e il «World Social Forum»
dei movimenti popolari.

George Soros – Finanziere statunitense
divenuto multimiliardario attraverso
speculazioni inteazionali.
Dopo essersi arricchito, ha cercato di
trasformarsi in filantropo e critico del
sistema capitalistico.

François Houtart




DA PORTO ALEGRE, L’UTOPIA POSSIBILE

«Lasciamo il pessimismo
per tempi migliori»

Se questo mondo non può andare avanti così, esiste un’alternativa credibile?
Sono seri i movimenti di contestazione che si stanno diffondendo a Nord
come a Sud? Meglio continuare sulla strada segnata dai leaders dell’economia
mondiale riuniti nel «World Economic Forum» di Davos? O raccogliere le sfide
e le alternative proposte dai rappresentanti della società civile raccolta
nel «World Social Forum» di Porto Alegre?
Di tutto questo abbiamo parlato con il professor Houtart, sacerdote, già «collega» di Carol Wojtyla e amico di Helder Camara.

Porto Alegre. Belga, classe
1925, primo di 14 figli,
François Houtart è direttore
del «Centro Tricontinentale» di
Lauvain (Lovanio), in Belgio. Il
centro accoglie ricercatori provenienti
da tre continenti: America
Latina, Africa ed Asia. Si fanno ricerche
nei campi della sociologia,
della cultura e della religione.
Quella delle grandi collaborazioni
inteazionali è una caratteristica
di Houtart, che è anche segretario
del «Forum mondiale delle alternative» e membro del comitato
organizzatore del Forum di Porto
Alegre.
Lo incontriamo in una delle
grandi sale della «Pontificia università
cattolica» (Puc), mentre, seduto
in prima fila, è in attesa dell’inizio
di una conferenza.
Professor Houtart, siamo venuti
da tutto il mondo per capire
se «un altro mondo è possibile».
Ma, sia sincero, in questi tempi
parlare di alternative è realistico?
«L’alternativa esiste ed è concreta.
Il problema è che, oggi come oggi,
non c’è la volontà politica per attuarla.
D’altra parte, le 60.000 persone
giunte da tutto il mondo per
questo secondo Forum di Porto
Alegre sono a dimostrare che la voglia
di cambiamento c’è ed è forte».
Nella coloratissima e festosa sfilata
per le vie di Porto Alegre i manifestanti
scandivano slogan contro
le istituzioni inteazionali:
Fondo monetario (Fmi), Banca
mondiale, Area di libero commercio
delle Americhe (Alca), Organizzazione
mondiale del commercio
(Wto). Anche alla luce della
recente riunione di Doha, quale
aspetto di quest’ultima le sembra
più deplorevole?
«Penso alla proprietà intellettuale,
difesa con i denti dalle industrie
farmaceutiche. Un mio fratello lavora
nel campo farmaceutico. È un
esperto internazionale di processi
di fabbricazione. Non ha idee socialiste,
tutt’altro. Alcune volte è
stato mandato a Cuba e mi ha detto:
“Cuba è molto più efficiente
nella ricerca scientifica di un paese
capitalista. Hanno 40 laboratori e,
quando uno di essi scopre una cosa
nuova, immediatamente lo comunica
agli altri. Allora si fa una
riunione per capire quale laboratorio
è più efficiente per continuare
l’investigazione. Nel mondo capitalista
la prima cosa che si fa è
chiedere il brevetto per fare denaro.
La privatizzazione della ricerca
scientifica serve a giustificare il
profitto di pochi. L’alternativa è
che la ricerca scientifica sia un settore
di competenza pubblica, sostenuto
con soldi pubblici. Per il
vantaggio della collettività e non a
servizio delle multinazionali…».
Ma le industrie si giustificano dicendo
che se non c’è la proprietà
dei brevetti, si frena la ricerca…
«Mi viene in mente l’inventore
dei “raggi X” (Wilhelm Conrad
Röntgen, 1845-1923, premio Nobel
per la fisica nel 1901, ndr), che
si rifiutò di brevettare la sua scoperta perché la considerava un bene
comune da dividere tra tutti».
Professore, qualcuno sostiene
che con il vertice di Genova (luglio
2001) e di Doha (novembre 2001)
si sono fatti passi in avanti nel
campo delle politiche sanitarie. È
vero?
«Affatto. Gli unici progressi sono
avvenuti per puro caso. Dapprima,
per lo scandalo del Sudafrica,
poi a seguito della vicenda dell’antrace,
quando il governo degli
Stati Uniti è intervenuto sulla Bayer
per costringerla a vendere l’antibiotico
a metà del suo prezzo».
Io continuo a chiamarla professore,
ma lei è anche un sacerdote…
«Non c’è dubbio al riguardo. Sono
– risponde con un sorriso – amico
di papa Wojtyla da oltre 30 anni.
L’ho conosciuto da giovane,
quando studiavo in seminario a Roma.
Egli veniva a trascorrere le sue
vacanze di natale e pasqua in Belgio,
mentre io lo visitavo spesso in
Polonia, a Cracovia soprattutto. In
seguito, ci ritrovammo al Concilio
Vaticano II in una commissione
preparatoria per la “Gaudium et
Spes”, della quale io ero il segretario.
Dopo la sua elezione a papa, io
non l’ho più visto…».
Le sue idee, i suoi studi le hanno
creato qualche problema con i vertici
ecclesiastici?
«Sì, ma il fatto di essere sociologo
mi ha aiutato a non rompere.
Comunque, i miei problemi non
sono iniziati con il pontificato di
Giovanni Paolo II. Già durante la
conferenza di Medellin, dove ero
stato invitato dalla Conferenza latinoamericana,
sono stato fatto oggetto
di veto da parte della Santa
Sede. Identicamente c’è stato un
veto per la mia nomina alla testa
dell’“Istituto missiologico” dell’Università
di Münster, in Germania».
D’altra parte, lei ha insegnato
lungamente presso l’Università di
Lovanio, una delle più antiche e
prestigiose università cattoliche
del mondo…
«Verissimo. Ho insegnato a Lovanio
per oltre 30 anni, dal 1958 al
1990. Ad onor del vero, anche lì ho
avuto un paio di richiami…
Tutto ciò non mi ha impedito di
avere rapporti normali con l’episcopato
belga e gli organi centrali
della chiesa. Io affermo la mia appartenenza
alla chiesa cattolica».
Da dove nasce il suo amore per
l’America Latina?
«Da 15 anni di lavoro con quei
paesi e poi dalla stretta amicizia che
mi ha legato a monsignor Helder
Camara. Comunque, non mi sono
interessato soltanto di America Latina.
Ho lavorato anche in Asia, soprattutto
in Sri Lanka e Vietnam».
Lei è uno dei principali organizzatori
del «Forum sociale mondiale
» di Porto Alegre. Rispetto ad esso
le opinioni sono discordanti.
Qualcuno lo disprezza, altri sorridono
con sufficienza, altri ancora
sparano insulti contro i partecipanti,
definendoli illusi o addirittura
pericolosi, nemici dei poveri
e del progresso…
«A me pare che Porto Alegre abbia
prodotto un effetto fondamentale
sul piano internazionale. Vale
a dire un cambiamento di prospettiva,
in base al quale all’idea dominante
che non ci sono alternative al
cammino del capitalismo oggi si
contrappone l’idea che “un altro
mondo è possibile”, perché esistono
delle alternative credibili.
Per sintetizzare, possiamo dire
che il “Forum Social Mundial” di
Porto Alegre rappresenta il punto
di vista della società civile dal basso,
mentre il “World Economic
Forum” di Davos (quest’anno spostato
a New York) porta avanti le
istanze dall’alto.
Attualmente la responsabilità
principale del Forum di Porto Alegre
è sulle spalle di movimenti latinoamericani
ed europei. Ma stiamo
lavorando per coinvolgere di
più il mondo africano, asiatico ed
arabo. Per questo è probabile che,
dopo la prossima edizione (ancora
a Porto Alegre), il Forum sarà ospitato
altrove, forse in India».
Gli obiettori (anche tra i lettori
che scrivono alla nostra rivista) affermano
che tutti questi movimenti
contrari alla globalizzazione
sono, per la loro stessa natura,
contro la società nella quale vivono.
Per dirla in maniera popolare,
sarebbero «persone che sputano
nel piatto nel quale mangiano».
Che rispondere, professor Houtart?
«Il grande vantaggio di Porto
Alegre è di riunire movimenti e organizzazioni,
che non hanno l’obbligo
di essere d’accordo su un testo
unico. D’altra parte, è vero che
a Porto Alegre si riuniscono tutti i
soggetti che hanno preso posizione
contro il neo-liberismo e il capitalismo,
e a favore di una ricerca di
alternative.
Accanto a tutto ciò ci sono anche
molti pericoli: una certa dominazione
delle Organizzazioni non governative
(Ong) sui movimenti sociali,
una folklorizzazione dei movimenti
di resistenza contro la
mondializzazione della filosofia capitalista,
una repressione sempre
più forte (soprattutto dopo l’11
settembre) da parte dei poteri dominanti,
con una criminalizzazione
delle resistenze e delle lotte sociali,
e una militarizzazione delle società».
Professore, a sentire queste sue
considerazioni, non mi pare si possa
essere molto ottimisti per il futuro…
«Guardi, voglio risponderle con
le parole di Edoardo Galeano: “Lasciamo
il pessimismo per tempi migliori”».

Per un’«ecologia
dell’informazione»

Oggi anche l’informazione è una merce. Spesso distribuita in un regime
di monopolio e priva di una qualità essenziale: la veridicità. Ecco cosa propongono
Ignacio Ramonet, direttore de «Le Monde Diplomatique», Roberto Savio, presidente
dell’agenzia giornalistica internazionale IPS, e lo scrittore spagnolo Manuel Vasquez
Montalban. Che concordano su un punto fondamentale: un altro mondo
sarà possibile solo con un’altra informazione. A meno che non si considerino
le notizie della CNN come l’esempio da imitare.

Porto Alegre. Le borse danzano
pericolosamente su teste e
tastiere. Le pance provano a
ritrarsi per tentare di passare nei
pochi centimetri che separano una
postazione di computer dall’altra.
Ci si muove a fatica nella sala stampa
del Forum. L’hanno sistemata in
posizione strategica (ovvero di
fronte ai grandi saloni delle conferenze),
l’hanno attrezzata con computer
nuovi fiammanti, ma hanno
esagerato a comprimere gli spazi.
O, forse, non hanno previsto che al
secondo appuntamento di Porto
Alegre si sarebbero presentati
3.000 giornalisti da 50 paesi.
Già, l’informazione. Una delle tematiche
a cui gli organizzatori del
Forum hanno lasciato più spazio,
per cercare di rispondere a una serie
di difficili quesiti.
Negli spazi dello splendido campus
della Pontificia università cattolica
(la Puc, sede principale del
Forum) sull’argomento si sono susseguite
conferenze, dibattiti, seminari.
Proviamo allora a riassumere
i termini della discussione attraverso
le tesi sostenute da alcuni dei
principali relatori.

LE NOTIZIE?
BREVI, SEMPLICI, LEGGERE

Si dice: nell’era della globalizzazione,
l’informazione è una merce
come un’altra. Una simile affermazione
corrisponde al vero?
Tutti i relatori hanno concordato
che (purtroppo) questa è una
tendenza ormai consolidata. In un
processo di globalizzazione di tutto
e tutti, anche l’informazione è diventata
una merce che circola secondo
le leggi del mercato: domanda
e offerta.
Le multinazionali della comunicazione
hanno fissato le caratteristiche
del prodotto-informazione.
Come debbono essere, allora, le
notizie? «Brevi, semplici, leggere»
ha spiegato Ignacio Ramonet.
Ciò produce conseguenze rilevanti.
Secondo il giornalista francese,
tutto è ridotto a schemi elementari.
Come si nota nell’informazione
che riguarda il Sud del
mondo. I paesi del Sud sono rappresentati
soltanto a tinte forti. Come
un paradiso quando si parla dei
loro prodotti (il caffè, le banane
ecc.) o delle loro attrattive turistiche.
Come un inferno nelle uniche
occasioni in cui la televisione si occupa
di loro e cioè in concomitanza
con tragedie naturali, guerre civili,
genocidi, colpi di stato.
Questa descrizione caricaturale
confonde le idee, crea stereotipi e,
in ultima analisi, disinforma.
Ma – si obietta – ci sono così tanti
mezzi d’informazione che chiunque
ha la possibilità di scegliere tra
una pluralità di fonti alternative…
Oggi l’informazione si è moltiplicata
(soprattutto grazie alle nuove
tecnologie), ma il fenomeno della
concentrazione proprietaria si è
accentuato.
«La globalizzazione – ha spiegato
Manuel Vasquez Montalban –
non è soltanto economica, ma anche
ideologica. L’idea di base (“ha
valore ciò che produce lucro”) deve
essere diffusa. Ecco, dunque, il
motivo della crescente concentrazione
dei mezzi di comunicazione:
la propagazione del pensiero unico
neoliberale».
Il calcolo è presto fatto: tanti media
in poche mani significano meno
pluralismo e quindi meno diversificazione.
Negli Stati Uniti,
per esempio, 5 grandi consorzi detengono
il controllo dell’informazione.
Non c’è quindi da stupirsi se
i contenuti (e i messaggi) si assomigliano
tutti, proprio come una
qualsiasi merce.

NESSUN MESSAGGIO
È INNOCENTE

«Il problema con i grandi media
– ha precisato Montalban – è “saper
leggere”. In primo luogo, dobbiamo
chiederci chi è il padrone
del mezzo e cosa questi vuole proporci.
Nessun messaggio è innocente!».
La qualità della notizia è diventata
così poco rilevante che le imprese
produttrici tendono a offrire
l’informazione gratuitamente. Ma
dove sta allora il business? «Le imprese
in realtà – ha spiegato Ignacio
Ramonet – non vendono informazioni
ai cittadini, ma questi ultimi
agli inserzionisti».
E la veridicità è ancora ingrediente
fondamentale?
Secondo Ramonet, oggi esiste
una diffusa contaminazione dell’informazione,
tanto grave da riuscire
a trasformare la menzogna in
verità e la verità in menzogna. Per
questa ragione il direttore de Le
Monde Diplomatique propone di
praticare una nuova forma di ecologia:
«l’ecologia dell’informazione
», attuata attraverso appositi osservatori
istituiti in ogni paese.
Esiste la possibilità di avere una
contro-informazione? Per Roberto
Savio, fondatore e presidente
emerito dell’agenzia giornalistica
internazionale IPS, a un’informazione
fondata sulle regole della globalizzazione
(come il profitto e l’efficienza)
è necessario opporre una
informazione basata sui valori dei
cittadini: solidarietà, giustizia,
equità e partecipazione.
È vero che stanno apparendo
mezzi di comunicazione alternativi,
«però – ha confessato Montalban
– è difficile resistere».
Inteet è, oggi, uno strumento
fondamentale per mettere in comunicazione
la società civile, ma va
utilizzato bene.
Perché, dopo aver imparato a difenderci
dall’informazione del sistema,
occorre non cadere nello
stesso errore. «La controinformazione
– ha sottolineato Ignacio Ramonet
– deve essere rigorosa. Altrimenti
non serve alla causa».

ALTRO MONDO,
ALTRA INFORMAZIONE

È stato detto: un altro mondo
sarà possibile solo con un’altra
informazione. Difficile non concordare
con questa affermazione.
Manuel Vasquez Montalban ha
portato l’esempio della CNN in
lingua spagnola (la famosa televisione
statunitense ha anche un canale
in questo idioma). «Il canale
nordamericano – ha avvertito lo
scrittore spagnolo – sta seguendo
sia il Forum di New York che quello
di Porto Alegre. Ma ha un approccio
completamente diverso nei
confronti dei due avvenimenti. Serio
per l’evento statunitense, folcloristico
per quello brasiliano».
Capito come funziona il meccanismo?

Sfogliando s’impara…
A NEW YORK, I SIGNORI DEL NEOLIBERISMO
«Il Forum economico (…) ha riunito nel Waldorf
Astoria di New York capi di governo, industriali,
banchieri e scienziati, in breve, i signori e i cervelli
del neoliberismo, quelli che orientano e dirigono la
finanza e l’economia del nostro mondo globalizzato.
(…) Quest’anno non si sono celebrati i trionfi del
cosiddetto “pensiero unico”, della filosofia e dell’economia
occidentale e liberista. Il capitalismo
non se la passa troppo bene in questo tempo».
Gabriele Ferrari sul quindicinale cattolico
«Testimoni», Bologna, 28 febbraio 2002

MA NON ERANO FINITI?
«Chi sperava in una fine imminente del “popolo di
Seattle”, dopo il disgraziato capitolo di Genova, dovrà
per il momento riporre i suoi sogni nel cassetto.
La lunga kermesse di Porto Alegre (…) ha rassicurato
il movimento sulla sua capacità di superare
le avversità».
Maurizio Salvi su «Rocca», quindicinale edito
da Pro Civitate Christiana (Assisi),
15 febbraio 2002

«QUELLI DI PORTO ALEGRE»
«Come chiamarli? Diciamo che sono quelli di Porto
Alegre, perché è ormai questo il simbolo. Globale,
mondiale. Certo sono molto più “global” di un sacco
di gente che li ha definiti sbrigativamente “noglobal”.
(…) Oggi, in tutto l’Occidente
ricco, non c’è paese che
possa vantare una vitalità critica,
democratica, così intensa come
questa Italia, dove c’è un’altra
Italia così poco “global” che fa fatica
persino a stare in Europa. (…)
E infine c’è la sterminata galassia
cattolica, che vedo emergere con
una vitalità strabiliante. Un segmento
di società italiana vasto,
dinamico, carico di idealità. Anche
loro in libera uscita, forse definitiva,
rispetto alle rappresentanze
cattoliche istituzionali. (…)
Fino a luglio del 2001 si diceva
che il movimento era incoerente, contraddittorio,
che non aveva soluzioni da proporre. Adesso che la
globalizzazione è in crisi, l’America è ferma, diventa
chiaro che le soluzioni non le ha nessuno».
Giulietto Chiesa sul quotidiano «La Stampa»,
18 gennaio 2002

ECONOMIA DI RAPINA
«Siamo sicuri, signor ministro, che abbiamo il diritto
di difendere un’economia che non si regge se non
sul furto? (Risponde il) ministro Martino: “(…) Noi
non abbiamo il diritto di difendere le nostre conquiste
economiche e sociali, noi abbiamo il dovere
di farlo (…). I paesi non nascono ricchi, diventano
ricchi. (…) C’è un solo modo per diventare ricchi,
ed è lo sviluppo. È soltanto lo sviluppo che rende
ricchi i paesi. (…) Coloro i quali si oppongono allo
sviluppo, all’apertura dei mercati che sono l’unica
ricetta che conosciamo per produrre ricchezza, colpiscono
soprattutto i poveri, e l’assurdo è che hanno
persino la pretesa di farlo in nome della difesa
dei poveri. (…)”. Un commento? Non è superfluo segnalare
il cinismo delle argomentazioni di questo
discorso (e Martino non è certo il peggiore dei ministri
di questo pericolosissimo governo). La sostanza
del nostro quesito è stata del tutto elusa, ma
indirettamente confermata: abbiamo il diritto di difendere
la nostra economia di rapina? Il governo dice
SÌ, e non smentisce che si tratti di un’economia
di rapina. (…) Lo sviluppo economico è indipendente
dalle scelte dell’etica politica? Questa sarebbe
la questione morale, di cui non si vuole più parlare
(…)».
Da «Tempi di frateità», periodico cattolico
di Grugliasco (Torino), gennaio 2002

«È IL MERCATO, BELLEZZE»
«Fra le tante novità del nostro tempo, anche in Italia,
c’è l’assoluta fiducia nell’economia di mercato.
Quando questa colpisce duro, si ricorda sempre che
lo fa per il nostro bene futuro, avendo essa per scopo
unico, assoluto e indiscutibile lo sviluppo, che a
sua volta non tollera lacci e lacciuoli, di nessun genere.
(…) I lavoratori vogliono conservare le loro
pensioni? Sì, gli dicono Maroni e Tremonti, a patto
che i vostri risparmi contributivi finiscano
nei ‘fondi pensione’ (…). E
se i fondi pensione investono male,
o sono sfortunati, e perdono i vostri
soldi? “È il mercato, bellezze”».
Da «Il nostro tempo»,
settimanale cattolico
di Torino, 20 gennaio 2002

LA GALLINA DALLE UOVA D’ORO
«I contestatori che vogliono limitare
i poteri del Wto o mandarlo a picco
(…) distruggerebbero la gallina dalle
uova d’oro. Dobbiamo respingere
con decisione queste istanze, ma
anche tenere in considerazione le
preoccupazioni legittime e sincere di chi critica il
modo in cui queste uova vengono utilizzate e distribuite».
George Soros sul quotidiano «La Repubblica»,
9 novembre 2001

«DALLA CONTESTAZIONE ALLA PROPOSTA»
«Sono sempre di più i movimenti e le azioni civili di
cooperazione e solidarietà; i vari forum liberi e alternativi
all’economia, al pensiero e alla politica
neoliberisti, che sono passati dalla semplice contestazione
alla proposta, dall’impotenza alla convocazione
efficace».
Pedro Casaldaliga, vescovo di São Felix
do Araguaia (Brasile), sul quindicinale
«Adista», 14 gennaio 2002

…il Forum visto dagli altri
«CHE PENA GLI APOSTOLI TERZOMONDISTI»
«Tutti i mezzi d’informazione contrappongono simbolicamente
– anche per la non casuale contemporaneità
– il Forum economico di Manhattan al Forum
“no global” di Porto Alegre. In maniera esplicita
o suggerita o sottintesa le simpatie vanno in
larga prevalenza a Porto Alegre.
Il buonismo – che non costa nulla e piace molto – induce
a parteggiare per gli apostoli terzomondisti
vocianti nelle piazze o in assemblee confusionarie,
anziché per governanti, banchieri e miliardari rinchiusi
nei loro santuari ovattati. (…) I capitalisti e il
capitalismo hanno trovato (…) un sostegno nelle
manifestazioni dei “no global”: così parolaie, inconcludenti
e truffaldine, nonostante la loro ostentata
nobiltà d’intenti, da riabilitare ogni cinismo
dei possidenti. Il disagio ispirato da questa retorica
saltellante della povertà diventa disgusto se ci
si riferisce alla marea di
politici che (…) sanno
quanto squinteate e
fanfarone siano le parole
d’ordine dei “no
global”. (…) Che pena,
per usare un eufemismo
pietoso».
Mario Cervi
sul quotidiano
«Il Gioale»,
2 febbraio 2002

«UN CAPITALE
E UNA SPERANZA»
«Che “senso” ha, in questo
tempo convulso (…),
il movimento mondiale
che ha tenuto l’ultima sua grande convocazione a
Porto Alegre all’inizio del 2002? Chi voglia guardarlo
con oggettività deve, intanto, prendere atto
di alcuni dati dei quali non è più possibile, dopo tanti
eventi e tante notizie, continuare a dubitare o,
peggio, a negarli. Uno di essi è la ormai assodata
profondità storica del movimento. (…) Un altro elemento
assolutamente caratterizzante è che non siamo
davanti a un movimento soltanto critico (né men
che meno unicamente protestatario) ma, non cessando
di essere tale, esso è anche intensamente
propositivo e costruttivo. (…) Altrettanto brutale,
fino ad essere falsificante, la semplificazione di chi
pretende ridurre tutto ad un insieme di manifestazioni
di strada in reazione ad iniziative ufficiali. (…)
Il senso vero del movimento è di mettere a tema i
problemi della società globale. Da quando (…) la
globalizzazione dell’economia, della politica, della
cultura (…) ha toccato una nuova misura (…), l’intreccio
dei problemi generati da questo nuovo modo
di essere (…) della condizione umana, si è fatto
più aspro e più difficili le condizioni di soddisfazione
degli elementari bisogni di sostentamento materiale,
di crescita umana, di pacifica convivenza.
(…) La riscossa della società (…) si va componendo
appunto attraverso il nuovo movimento globale.
(…) Altro che movimento “no-global”! (…)
Insomma, c’è in queste associazioni, gruppi, movimenti,
reti minori (…) una responsabilità per l’umanità
che spesso manca di essere altrettanto acuta
nelle organizzazioni politiche, nelle istituzioni e
nella cultura ufficiale. Un capitale e una speranza
per il mondo che occorre coltivare con delicatezza
e, vorrei dire, tenerezza».
Umberto Allegretti su «Rocca», quindicinale
edito da Pro Civitate Christiana (Assisi),
1 marzo 2002

«ANCHE PADRE PIO»
«Anche Padre Pio, che aveva il dono dell’ubiquità,
sarebbe entrato in crisi davanti al programma del
secondo Forum sociale mondiale di Porto Alegre
(…). D’altra parte, lo slogan scelto (“Un altro mondo
è in costruzione”)
non lascia dubbi: i noglobal
(…) vogliono rifare
tutto, ma proprio tutto.
(…) I temi messi in
discussione dagli antiliberisti
sono sterminati.
Si va dai “cavalli di battaglia”,
cioè commercio
mondiale, multinazionali
e debito estero, alla
“democratizzazione della
comunicazione”; dall’accesso
alla ricchezza
alla sostenibilità dello
sviluppo; dalla lotta
contro le discriminazioni
fino alla proprietà intellettuale,
etica e politica, diritto alla salute, questioni
ambientali, guerra e terrorismo internazionale.
(…)
I maestri del pensiero no-global tentano di articolare
un’intera visione del mondo anticapitalista. (…)
Ma nonostante la “svolta intellettuale” e le ripetute
assicurazioni di non volere un’altra Genova, resta
la minaccia dei Black Bloc (…) ».
Stefano Filippi sul quotidiano «Il Gioale»,
31 gennaio 2002

«SENI NUDI E BLACK BLOC»
«A guardarlo prevalentemente o esclusivamente dal
punto di vista dello spettacolo, l’“anticonclave” di
Porto Alegre batte largamente il “conclave” di New
York. Vi si incontrano spalla a spalla, o petto a petto,
pensosi uomini di Stato – soprattutto in pensione
– e lesbiche che inalberano il seno nudo come argomento
contro la “globalità”, dai sindacalisti brasiliani
agli anarchici greci, dagli “amici del
consumatore” americani di Ralph Nader ai Black
Bloc».
Alberto Pasolini Zanelli
da Washington per il quotidiano «Il Gioale»,
2 febbraio 2002

«Io e i compagni»
Ho seguito, a debita distanza, il convegno di Porto
Alegre. I temi trattati sono grosso modo lavoro
minorile, sfruttamento sessuale, assenza di tutele
sindacali, fame e denutrizione, istruzione/ignoranza,
insensibilità alla tutela ambientale, malattie endemiche,
assenza di protezione sanitaria e altri analoghi.
Qual è la differenza tra me e i compagni? Essi immaginano
per ognuno di questi problemi competenti
organismi inteazionali (dell’Onu, della Fao, dei
ministeri…), adeguati aiuti economici e ancora più
stringenti apparati normativi, a garanzia di adeguati
controlli in tutto il pianeta, affinché in ogni angolo
della terra si imponga il buon agire e il buon fare…
Io ragiono diversamente e parto da una domanda:
quanti di quei problemi allignano in Italia, in Europa
e in genere nei paesi ricchi d’Occidente? Qualcosa in
verità alligna anche da noi, ma si tratta di fenomeni
da decenni ridotti a percentuali lusinghiere. Allora
viene la seconda domanda: perché da noi tutto sommato
bene e nei paesi del Terzo mondo tutto sommato
male, anzi malissimo? È ovvia e facile la risposta:
da noi lo sviluppo e livelli capillari della libera
iniziativa economica, cioè del capitalismo, ha prodotto
benessere di massa. Altrove manca del tutto o
non riesce, per i più disparati motivi, ad impiantarsi
stabilmente e utilmente, con ciò favorendo il permanere
di ogni arbitrio ed abuso.
In definitiva penso che lo sforzo a favore dei popoli
del Terzo mondo (sforzo sia nostro che loro) sia quello
di rielaborare/inventare grosso modo gli stessi
meccanismi sociali (economici, politici, culturali) che
a noi hanno giovato molto. Altro che «fermare i motori
», come postula il confuso piagnisterno dei no global!
Si tratta, al contrario, di farli girare molto e nel
migliore dei modi. Lo sviluppo più equilibrato possibile
del capitalismo e del mercato porta in sé l’eliminazione
o, quanto meno, la drastica riduzione dei
problemi elencati all’inizio.
Non è una differenza da poco, cari compagni.
Spero di sbagliarmi, ma se davvero foste tornati dal
Brasile con l’idea di prendere a pretesto le sofferenze
del mondo per gonfiare le burocrazie inteazionali
(un posticino non si nega a nessun militante…),
sappiate che questa pretesa è più oscena del turismo
sessuale.
Luigi Fressoia

«Um outro mundo é possível!»
La Conferenza episcopale brasiliana (Cnbb)
Èstato questo il tema della seconda edizione del
«Forum sociale mondiale» (FSM), svoltosi a Porto
Alegre (Rio Grande do Sul) dal 31 di gennaio al 5 febbraio
2002. Decine di migliaia di persone, venute da
131 paesi, 16 mila delegati, migliaia di Ong, entità,
movimenti sociali, associazioni, chiese, partiti: insomma
un’ampia rappresentazione
nazionale e internazionale
(…). Il FSM è più che
uno spazio aperto al dialogo
e al dibattito. Oltre ad essere
un incontro tra persone ed
idee, culture ed esperienze,
l’evento è un cammino per la
costruzione collettiva di un
modello alternativo di società.
I partecipanti all’unisono, attraverso
conferenze, dibattiti
e seminari, hanno sollevato
critiche contundenti alla globalizzazione
neoliberale, quale
modello accentratore ed
escludente. Nello stesso tempo,
hanno cercato di indicare
le vie per una nuova civiltà:
giusta, solidaria e fratea.
Una civiltà sociale ed ecologicamente sostenibile,
pluralistica, democratica e senza esclusione.
Se il «Forum economico mondiale», a New York, si
è concentrato sull’uso delle ricchezze accumulate,
delle risorse del pianeta e del lavoro umano, a Porto
Alegre il fulcro del dibattito è stata la globalizzazione
della giustizia, della solidarietà
e della pace, in un mondo
ricreato dall’intelligenza
umana. (…)
Seminari, conferenze, dibattiti
hanno fatto di Porto Alegre la
capitale del «pensiero politico
alternativo» contrapposto al
«pensiero unico».
Il FSM, sia nella prima che nella
seconda edizione, ha rappresentato
un vero segno dei tempi.
Segno del quale si può dire
a gran voce e non in termini interrogativi,
ma affermativi: um
outro mundo é possível! («un
altro mondo è possibile!»).
Conferenza episcopale
brasiliana
(Brasilia, 7 febbraio 2002)

«SIAMO
UN MOVIMENTO
DI SOLIDARIETÀ
GLOBALE»

Di fronte al continuo deterioramento delle
condizioni di vita dei popoli, noi, movimenti
sociali del mondo intero, ci siamo
incontrati in decine di migliaia nel secondo
Forum sociale mondiale di Porto Alegre. Siamo
qui in gran numero a dispetto dei tentativi di
spezzare la nostra solidarietà. (…)
Siamo diversi (…). L’espressione di questa diversità
è la nostra forza e la base della nostra
unità. Siamo un movimento di solidarietà globale,
unito nella determinazione di lottare contro
la concentrazione della ricchezza, la proliferazione
della povertà e delle ineguaglianze e
la distruzione del pianeta. Stiamo costruendo
alternative, utilizzando modi creativi per promuoverle.
(…)
Noi vogliamo rafforzare il nostro movimento attraverso
azioni e mobilitazioni comuni per la
giustizia sociale, il rispetto dei diritti e delle libertà;
per la qualità della vita, l’uguaglianza, la
dignità e la pace. Lottiamo:
– per la democrazia: i popoli hanno il diritto di
conoscere e criticare le decisioni dei loro governi,
specialmente quando riguardano istituzioni
inteazionali (…);
– per l’abolizione del debito estero e la sua riparazione;
– contro le attività speculative, chiedendo l’introduzione
di tasse specifiche, come la Tobin
tax, e l’abolizione dei paradisi fiscali;
– per il diritto all’informazione;
– contro la violenza, la povertà e lo sfruttamento
delle donne;
– contro la guerra e il militarismo, contro le basi
e gli interventi militari stranieri, e la sistematica
escalation di violenza, noi scegliamo di privilegiare
il negoziato e la soluzione non violenta
dei conflitti;
– per una Unione europea democratica e sociale,
basata sui bisogni dei lavoratori e dei popoli,
che includa la necessità della collaborazione
e della solidarietà con i popoli dell’Est e del Sud;
– per i diritti dei giovani, il loro accesso a una
istruzione pubblica, gratuita e socialmente autonoma,
e l’abolizione del servizio militare obbligatorio;
– per l’autodeterminazione dei popoli, soprattutto
dei popoli indigeni. (*)

(*) Stralcio del documento dei movimenti sociali presenti
al Forum di Porto Alegre. Per scelta del Comitato
organizzatore, il Forum non produce un proprio documento
finale.

«INSIEME, PER UN CAMBIAMENTO POSSIBILE»
Proprio qui, nella nostra Europa dei potenti,
possiamo trovare le chiavi per disinnescare i
meccanismi dell’economia neoliberista che,
nel Sud come nel Nord del mondo, opprimono e
uccidono donne, uomini e bambini, ampliando il divario
tra poveri e ricchi, minando alla base le garanzie
dei diritti umani universalmente riconosciuti,
distruggendo l’ambiente con consumi e produzioni
insostenibili, minacciando la stessa
democrazia. Le colpe dei nostri governi sono evidenti.
Di questo ci sentiamo responsabili. Per questo,
a Genova come a Porto Alegre, ci siamo impegnati.
Per un cambiamento possibile, come ci
hanno insegnato le lotte e le resistenze di tanti movimenti
di base del Sud del mondo. Qui e ora. Ma,
dopo Genova, tanti compagni di strada si sono allontanati.
Spaventati dalla violenza
della repressione, ma anche diffidenti
rispetto a meccanismi di rappresentanza
del movimento e di scelta
dei contenuti e delle azioni (…).
(…) saremo insieme, ma solo se saremo
davvero tutti, condividendo uno
stile nonviolento della nostra iniziativa
politica dal quale non vogliamo
prescindere.
Una partecipazione orizzontale,
senza relatori o portavoce non scelti
da tutti, in un confronto aperto (…)
tra tutte le realtà presenti, impegnandoci
ad allargare, a tornare a
quella pluralità che aveva dato forza
e spessore al Genoa social forum.
Insieme con le nostre storie, politiche,
valori, fedi, convinzioni tutte
sullo stesso piano, compagni, compagne,
fratelli e sorelle. Tutti dentro al Forum,
con regole certe e condivise da tutti, perché il vero
Forum resta fuori, nelle strade e nelle piazze,
nelle periferie e nelle stanze del potere, nei campi,
in fabbrica, nelle case e sotto i cartoni, nei luoghi
della preghiera e della disperazione. Ma solo
insieme. (*)
(*) Stralcio dell’appello all’unità del 26 febbraio già sottoscritto,
tra gli altri, da: don Vinicio Albanesi, don Luigi
Ciotti, don Alessandro Santoro, don Tonio Dell’Olio,
don Paolo Tofani, don Beppe Stoppiglia, Rita Borsellino
(Libera), Sabina Siniscalchi (Mani Tese), Marina Ponti
(Tavola della pace), Gianfranco Bologna (WWF), Nicoletta
Dentico (MSF), Michele Sorice (Università La Sapienza),
ecc.ecc.

Paolo Moiola




i loro nomi sono scritti in cielo

1. Ivone Faustino – Aveva 5 anni, ma era già una bambina molto vivace e giudiziosa: aiutava la madre nei piccoli lavori di casa, come attingere acqua, raccogliere legna, tenere pulita la casa. Tre fratelli maggiori furono rapiti dagli assalitori: due riuscirono a fuggire; l’altro fu costretto a seguire i rapitori alla loro base e non toò più. Fu trafitta da una baionetta, in braccio alla mamma.
2. Cecilia Jamisse – Aveva 41 anni e quattro figli. A 18 anni fu battezzata e lo stesso giorno sposò il catechista Faustino Cuamba. Moglie esemplare, accompagnò il marito
nell’attività apostolica della comunità fino alla morte.
Il giorno prima di arrivare al Centro, era ancora all’ospedale.
Giunsero a Guiúa la sera del 22 marzo; poche
ore dopo, fu uccisa da un colpo di baionetta,
mentre cercava di difendere la figlia Ivone.
3. Faustino Cuamba – Marito di Cecilia Jamisse, aveva
44 anni. Era catechista e cornordinatore zonale nella
parrocchia di Inhambane:
educato dai genitori alla
vita tenace del pescatore
per diventare anche, mediante
il servizio alla comunità,
«pescatore di
uomini». Fu il primo a
morire nell’attacco al
Centro catechetico. Mentre usciva di
casa, venne falciato da una raffica di mitraglia. Fu
trovato agonizzante, accasciato ai piedi di un albero
di cajú, con le mani sul ventre, squarciato dalle
pallottole.
4. Albino Tepo – Era nato nel 1948 a Mocumbi, cugino
di suor Lurdes, delle Francescane missionarie
di Maria. Grande lavoratore, nei giorni di permanenza
alla missione occupò il tempo intessendo cesti,
che poi vendeva. Stava per ritornare a Mocumbi,
quando fu sorpreso dall’attacco dei guerriglieri.
Ucciso a colpi di baionetta.
5. Catarina Sambula – Nata il 2 marzo 1965 a Machukele,
Mapinhane (Vilankulo), da genitori metodisti.
Nel 1987 sposò Armando Duzenta, responsabile
parrocchiale della commissione dei laici e famiglie.
Donna molto attiva in famiglia e nella
comunità, era insegnante di cucito, responsabile dei
giovani e assistente dei gruppi per la promozione
della donna. Aveva due figli: Azarias (5 anni) e Candida
(6 mesi). Gli assalitori la obbligarono a seguirli
ed abbandonare a terra la figlia più piccola, che fu
trovata ancora viva dalle suore e si salvò. Azarias fu
salvato dal padre, che riuscì a sfuggire agli assalitori.
Catarina, invece, fu trovata nel bosco martoriata
in tutto il corpo.
6. Isabel Foloco – Aveva 45 anni. Proveniva da Morrumbene.
Sposata con il catechista Benedito Penicela,
aveva cinque figli. Generosa nel collaborare ad ogni
iniziativa comunitaria, i poveri e bisognosi trovavano in lei
un aiuto sicuro e discreto. Fu accoltellata, sotto gli occhi
dei figli.
7. Benedito Penicela – Marito di Isabel e catechista di Morrumbene,
era nato nel 1944. Uomo alto e forte, si distingueva
per zelo e dinamismo nell’animare la sua comunità.
Insegnava xitshuaa suor Teresa. Anche lui, come la
sposa, fu ucciso a coltellate alla gola e al ventre.
8. Joaquim Marumula – Era nato a Massinga nel 1939.
Fu battezzato a 17 anni; sposò Palmira Kezane
Mapuiane, che gli diede 10 figli. Per sostenere
la famiglia, emigrò in cerca di lavoro. Aveva
iniziato l’attività di catechista nel 1967, facendosi
apprezzare per la generosità e la bella
voce, con cui guidava i canti della liturgia. Fu
ucciso a colpi di baionetta. Tre dei suoi figli furono
rapiti, ma tornarono a casa dopo sei mesi.
La moglie riuscì a salvarsi con la fuga.
9. Veronica Sambula – Era nata a Mavume
(Massinga) nel 1960. A 13
anni andò a lavorare a
Maxixe, dove conobbe
il futuro marito, Paolo
Saieta Kuniane, che lavorava
a Inhambane.
Ad entrambi furono affidati
compiti di responsabilità:
Veronica fu eletta anziana della comunità
e il marito fu scelto come catechista e anziano
della zona di Murure. Nel 1987 fu affidato loro
il compito della formazione dei giovani della
stessa zona pastorale. Morì accoltellata in varie
parti del corpo.
10. Madalena Beme – Originaria di Guiúa, aveva
una cinquantina d’anni. Donna semplice e
laboriosa, viveva in un villaggio vicino a Guiúa.
Frequentava il secondo anno di catecumenato.
Al momento del massacro si era rifugiata nel
Centro. Fu uccisa a colpi di baionetta.
11. Deolinda Gungave Sevene – Aveva 50 anni.
Fu battezzata nel dicembre 1962. Sposa di
Feando Sevene, catechista di Mocodoene,
era una madre esemplare e laboriosa. Nella comunità
era stimata per la profonda vita di preghiera
e la generosità nell’aiutare gli altri. Uccisa
a colpi di baionetta.
12. Gina Feando – Figlia di Deolinda, aveva
13 anni. Era ancora catecumena. Nutriva grande
amore per i genitori, che aiutava nei lavori
di casa e dei campi. Non si separava mai dalla
madre, alla quale confidava i suoi problemi
e dalla quale attingeva forza e coraggio. Fu trovata accanto
a lei, sul luogo del martirio, trafitta da baionetta.
13. Manuel Peres – Quarant’ anni. Originario di Beira. Fu
ucciso nell’assalto al Centro il 13 settembre 1987. Cadde
vittima di pallottole sparate a bruciapelo mentre difendeva
la moglie e i figli.
14. Maria Titosse – Era nata nel territorio di Guiúa nel
1960 ed era stata battezzata nella chiesa metodista. Piccola,
magra e timida, aveva sposato Leonardo Joel Maniane,
da cui ebbe tre figli. Volendo entrare nella chiesa
cattolica, frequentava il secondo anno di catecumenato.
Fu uccisa a colpi di baionetta, insieme al marito e i figli
Rita e Arlindo.
15. Arlindo Leonardo Maniane – Figlio di Maria Titosse e
Leonardo Joel, aveva solo un anno di età. Fu trovato sul
luogo del massacro con due ferite all’addome: morì durante
il trasporto all’ospedale di Inhambane.
16. Rita Leonardo Maniane – Figlia di Maria Titosse e Leonardo
Joel, aveva 8 anni. Frequentava la scuola elementare
di Guiúa. Allegra e laboriosa, aiutava i genitori nei lavori
di casa e dei campi. Trafitta da colpi di baionetta, morì
insieme ai genitori.
17. Leonardo Joel Maniane – Nato nel territorio di Guiúa,
aveva 47 anni. Grande lavoratore, era stato per molti anni
cuoco della missione. Sposato con Maria Titosse, aveva
tre figli. Era entrato solennemente nel catecumenato nel
1987 e stava per essere battezzato. Fu trovato morto, insieme
alla sposa e ai figli Rita e Arlindo.
18. Aaldo Adolfo Nombora – Nato a Massinga nel 1976
da Adolfo Nombora e Luisa Mabalane, genitori profondamente
cristiani, fu battezzato a un anno
di età. Frequentava la settima classe
elementare e faceva parte del gruppo
giovanile. Scomparso il padre nel
trambusto causato dall’attacco, rimase
con la madre e insieme a lei fu
ucciso.
19. Zito Adolfo Nombora – Fu tra i più
giovani martiri: aveva 4 anni. Era figlio
di Vitoria Adolfo. Al momento del
massacro era insieme ai nonni,
Adolfo Nombora e Luisa Mabalane.
20. Luisa Mafo – Nata nel 1943 a
Moduça, missione di Massinga, venne
battezzata a 14 anni. A 17 sposò
Adolfo Raul Nomera: ebbero 10 figli. Nel 1977 frequentò
con il marito il primo corso per catechisti nel Centro catechetico
di Mangonha (Massinga); entrambi esercitarono
il loro apostolato nella comunità di Kofi. Uccisa a colpi di
baionetta, insieme al figlio Aaldo e al nipote Zito.
21. Juvencio Carlos Mukwanane – È il più piccolo dei martiri:
era nato a Funhalouro il 2 marzo 1991. Figlio di Carlos
Mukwanane e Fatima Valente, fu trovato agonizzante
con ferite all’addome e al petto, mentre succhiava dal seno
della mamma morta.
22. Fatima Valente – Nacque a Makwene (Funhalouro)
nel 1970. Si sposò con Carlos Mukwanane nel 1989, dal
quale ebbe il figlio Juvencio. Donna molto sensibile e di
debole costituzione, era tuttavia molto impegnata come
madre e catechista, aiutando il marito nell’attività apostolica.
Morì con il piccolo Juvencio tre le braccia.
23. Carlos Mukwanane – Nato nel 1960 a Mukamba (Fugnaloro),
aveva frequentato la sesta classe elementare. Alto
e magro, era un bravo agricoltore. Nel 1991 aveva frequentato
con la moglie un corso di formazione nella missione
di Massinga, per diventare entrambi responsabili
della missione di Fugnaloro, rimasta senza missionari a
causa della guerra. La comunità li aveva scelti e mandati
a Guiúa per completare la loro formazione. Fu uno dei primi
martiri di Guiúa: gli assalitori gli spararono, appena lo
videro uscire dalla sua casa.
24. Susanna Carlos Mukwanane – Figlia di Carlos e della
sua precedente moglie, era nata a Mukamba (Fugnaloro)
nel 1979. A 13 anni si comportava come una «donna di
casa», aiutando i genitori in tutti i lavori domestici e accudendo
gli altri fratellini. Fu uccisa nel luogo del martirio,insieme
alla seconda madre, a colpi di coltello.

Giacomo Mazzotti




AFGHANISTAN: Dopo la guerra e le bombe, verrà il tempo della pace?

A KABUL NON BASTANO GLI AQUILONI


«Il risultato è che i sovietici se ne sono andati,
mentre  i vincitori – i mujaheddin –   la guerra non l’hanno ancora
smessa, 12 anni dopo la ritirata sovietica. Anzi, molti di loro  l’hanno
anche importata,   al loro rientro, nei Paesi d’origine. (…) E quel tale
Osama,   prima in buoni rapporti con la CIA, ha finito col
dichiarare  apertamente guerra…  agli Stati Uniti! E l’Afghanistan,   
in tutto questo? 1.500.000 morti, 1.000.000 di mutilati, 4.000.000  di
profughi».

(Gino
Strada, medico e fondatore  di «Emergency»)



Kabul è
caduta !

L’attesa in
una Peshawar invasa dai profughi e poi l’arrivo dell’agognata notizia: i
talebani hanno lasciato Kabul. Siamo entrati in un paese devastato da
trent’anni di guerre. A Kabul abbiamo trovato miseria, macerie e
confusione, ma anche degli italiani che da anni si fanno onore. Come
Alberto Cairo, che riassume così la situazione: anche dopo le bombe e la
caduta dei talebani, per gli afghani la parola chiave è sempre e soltanto
una, «sopravvivenza».

Appena
rientrati nella «guest house» che ci ospita, dalla televisione via cavo
arriva la notizia: Kabul è caduta!

Il giorno
seguente ci rechiamo in vari uffici governativi, dove tentiamo (invano) di
ottenere il permesso per transitare nelle «aree tribali». Ovvero in quelle
zone del Pakistan, che da Peshawar arrivano sino alla frontiera con
l’Afghanistan, in mano a tribù locali. Potremmo quasi definirle zone
franche, perché qui il governo pakistano non ha alcuna autorità. Si limita
solamente al controllo della strada che, attraverso il Kyber Pass, porta
sino alla città di confine di Thorkam.

Il giorno
precedente un convoglio di giornalisti, con l’appoggio di un capo tribù, 
ha «forzato»  il posto di blocco della polizia pakistana, che oggi quindi
non sembra disposta ad accontentare fotografi, giornalisti e cameramen
occidentali che premono per entrare in Afghanistan.

Per
fortuna, arriva una telefonata di un amico del Gr Rai, il quale ci informa
che i pakistani  hanno finalmente deciso di accordare il permesso di
transito attraverso le zone tribali.

Il 17
novembre finalmente riusciamo a partire, con un centinaio di altri
rappresentanti dei media  di tutto il mondo. Arriviamo a Thorkam, dove le
operazioni di controllo dei passaporti  sono estenuanti, un po’ per il
numero di persone da controllare, un po’ per l’estrema meticolosità dei
pakistani.

Alle 19.00
riusciamo ad entrare in Afghanistan.


SULLA STRADA
PER KABUL

«Welcome
to Afghanistan» sorride il mujaheddin, appoggiato al pick-up che ci sbarra
la strada. Alcuni come lui formeranno la nostra scorta sino a Jalalabad.

Al mattino
presto ci sveglia la guida, informandoci che il giorno precedente molte
macchine di giornalisti  avevano percorso la dissestata via del
contrabbando che porta a Kabul e che, anche in quel momento, molti si
stavano mettendo in viaggio.

Lungo la
strada attraversiamo zone desertiche e oasi coltivate (prevalentemente a
cavolfiori), che costeggiano il fiume Kabul. Dopo circa tre ore,
nonostante il ramadan, la nostra guida si ferma per offrirci un tè nel
piccolo ospedale gestito da afghani con fondi di una Ong francese. «Qui i
talebani praticamente non si sono mai visti. Solo qualche ferito in
scontri nelle vicinanze» ci dice un infermiere.

La strada
è ormai una pista. Di tanto in tanto, si incontra qualche nomade con le
sue greggi o bambini, che cercano di racimolare qualcosa tappando le buche
lungo il percorso e chiedendo qualche spicciolo alle vetture che
transitano.

A
ricordarci di essere in un paese in guerra da ormai trent’anni, ci sono
carcasse di carri armati sovietici, arrugginite dal tempo e depredate di
tutto ciò che poteva essere utile.

Eccoci a
Sourubi. Ci sono una grande diga e la centrale elettrica che fornisce la
corrente a Kabul. Qui incontriamo il primo posto di blocco dell’Alleanza
del nord.

I
militari non fanno alcun tipo di problema, sorridono e parlottano con
l’autista.


Arriviamo a Kabul, dopo aver tirato un sospiro di sollievo, per aver
superato senza problemi il canyon che ci separava dalla capitale.

È
evidente la presenza dei mujaheddin, soprattutto nelle zone strategiche
della città. Ci stupisce  il fatto che in soli 2 giorni l’Alleanza del
nord abbia già occupato tutti i posti di controllo e stia organizzando
l’amministrazione, mentre al nord del paese la guerra prosegue. Gli
americani continuano a bombardare perché i talebani dicono di non volersi
arrendere se non a una forza dell’Onu.

Kabul,
comunque, sembra sicura. I mujaheddin ci rassicurano e ci dicono che
problemi potrebbero esserci solo con alcuni gruppi di arabi e pakistani
che si sono rifugiati sulle montagne. «Di tanto in tanto ne viene
catturato qualcuno, oppure scende dalle montagne per la fame», ci dice
Abdullah, venticinquenne comandante di un piccolo gruppo di uomini che
arriva dal Panshir.

Ci
raccontano che nei giorni precedenti ci sarebbero stati diversi linciaggi,
ma che ora si sono spostati soprattutto fuori città. La gente sembra
cordiale e tutto sommato felice di aver recuperato un po’ delle libertà
perse nel 1994. Molti ragazzi che parlano un po’ di inglese si offrono
come guide ai giornalisti. Per loro significa guadagnare in pochi giorni
quello che di solito racimolano in un anno o più.



LO STADIO DEGLI IMPICCATI

Le
macchine dei mujaheddin sono tappezzate di manifesti del comandante Massud,
«il leone del Panshir», ucciso il 9 settembre. In soli 3/4 giorni sono
spuntati, qua e là, negozi di radio e televisioni, libri e musicassette.
In un piccolo supermercato troviamo persino alcuni prodotti italiani
(Barilla, Nutella), co-flakes, tonno, olio d’oliva, sigarette americane.
«Arriva quasi tutto da Dubai (Emirati Arabi)» ci spiega il proprietario. 

Andiamo
allo stadio. All’ingresso incontriamo il custode.  Abdarsak  ha 48 anni e
lavora qui da parecchio tempo. Ricorda che, in 5 anni di regime, su quel
campo sono state impiccate non meno di 50 persone e almeno altre 500 hanno
subìto il taglio di una mano. «Nell’intervallo allo stadio di Kabul c’era
quasi sempre qualche “fuori programma”».  Racconta di quel sabato 11
agosto 2001: «Sono le due di pomeriggio. I tagiki del Pamir, in maglia
rossa e pantaloni lunghi, e gli azarà di Maivan, in completo verde e
pantaloni lunghi, stanno per affrontarsi. Non è una partita ufficiale
eppure lo stadio è gremito, ci saranno 30 mila persone. Sono così rare le
occasione per divertirsi che una qualsiasi partita di calcio diventa un
evento. L’arbitro dà il fischio di inizio. Si gioca. Mancano 10 minuti
alla fine del primo tempo, quando dall’altoparlante si chiede di fare
silenzio e di sospendere la partita. Eccolo il “fuori programma”!

La voce
dura di Abdrakam Arrà, il temuto capo della polizia religiosa talebana,
annuncia che da lì a pochi minuti verranno puniti, in nome di Allah, 4
uomini macchiatisi di crimini gravissimi. Calciatori, arbitro e
guardalinee hanno già raggiunto le linee laterali per non perdersi lo
spettacolo. L’altoparlante torna a dire qualcosa e i colpevoli, due ladri
e altrettanti assassini,  vengono spinti, ammanettati, a centro campo,
dove sono attesi da una dozzina di boia incappucciati».


Prosegue Abdarsak: «Il rituale era sempre lo stesso: gli assassini
venivano impiccati alle traverse e poi finiti a fucilate; i ladri subivano
il taglio di una mano».  Le esecuzioni non avvenivano solo allo stadio, ma
anche in una piazza, alla periferia residenziale di Kabul, chiamata Charai
Aiana, ma tristemente nota con il soprannome di piazza della morte. Al
centro di quello slargo a luglio hanno penzolato, da una gru, quattro
uomini accusati di aver minato l’Hotel Kabul,  quartier generale dei
talebani; ma era solo un pretesto per liberarsi di quattro scomodi
oppositori. 


IL
DOTTOR CAIRO,

L’«ANGELO
ITALIANO»

Kabul
di notte è una città fantasma. Non vige un vero e proprio coprifuoco, ma
di fatto è come se ci fosse. Solo alcuni giornalisti si muovono (ma
rapidamente) da un albergo all’altro. Mentre mangiamo un piatto di riso
con pollo, un ragazzo ci raccomanda di ricordare che le croci bianche
sulle case segnalano che sono state sminate, mentre quelle con la croce
rossa non lo sono. Ci ricorda anche che nel paese rimangono circa 11
milioni di mine.

Poiché
le stime parlano di circa 8/9 milioni di abitanti, questo significa più di
una mina per afghano! Ecco perché, per strada, è normale vedere persone
con una sola gamba.


Incontriamo il dottor Alberto Cairo (laureato in legge, ma convertitosi
alla fisioterapia) nel suo centro ortopedico, ospitato presso l’ospedale
Wasir Abkhar Khan.

«Sono
appena rientrato dopo 57 giorni, non ce la facevo più a stare lontano da
qui. Non sapevo cosa avrei trovato, ma vedo ottimismo e fiducia. Molti
sperano in qualcosa di nuovo e di buono, specie adesso che tutto il mondo
guarda all’Afghanistan. Tutti sono contenti della fine dei bombardamenti,
ma tutti sono preoccupati per il futuro: la fine degli attacchi e il
cambio di regime non significano, automaticamente, pane, case, caldo,
sicurezza o un governo stabile». Il dottor Cairo vive a Kabul da 12 anni,
il suo centro ortopedico sfoa protesi a getto continuo, avvalendosi a
volte di materiali di recupero, come ad esempio copertoni.

Nel
centro ci sono una sala ed un percorso all’aperto per la riabilitazione.
Il personale dell’ospedale è tutto afghano, formatosi nel medesimo centro,
e la maggior parte di esso è composto di ex pazienti. Continua il dottor
Cairo: «La parola chiave in Afghanistan è sopravvivenza. Gli abitanti
hanno dei meccanismi che io non riesco a comprendere: in qualche modo ce
la fanno sempre, ma pur sempre sopravvivenza è. So che gli afghani hanno
grandi capacità lavorative, ma non mi aspettavo che potessero portare
avanti da soli tutte le nostre attività, pur avendo così tanta pressione
sulle spalle. I laboratori ortopedici hanno fabbricato gambe, braccia,
stampelle; le distribuzioni di cibo sono andate avanti. Il centro è in
perfetto ordine. Ci sono persino i fiori. Temevo che i colleghi afghani mi
avessero mentito, per farmi stare tranquillo. Invece no, è tutto a posto».


Salutiamo il dottor Cairo e continuiamo i nostri giri per Kabul.


A
SPASSO TRA LE MACERIE

DELLA
CAPITALE

Alcune
zone della città sono completamente distrutte. Ci sono milioni di fori di
proiettile, come se un pazzo fosse entrato, casa per casa, sparando
centinaia di colpi in ogni stanza.

Il
museo è devastato; l’università, per il momento, resta chiusa.  L’ex
palazzo reale, alla periferia di Kabul, è uno scheletro di travi e
calcinacci. Peccato, doveva  essere bello. La Tomba del Padre (un anonimo
mausoleo) è stata bombardata. Lo zoo, nonostante tutto, resiste ed ospita
un orso spelacchiato, qualche scimmia ed un leone entrato nella leggenda,
perché è sopravvissuto allo scoppio di una granata lanciatagli da un
mujaheddin per vendicare la morte del fratello, sbranato  dall’animale.
Quella che era l’ambasciata russa è ormai occupata da circa 20 mila
profughi.


Incontriamo due donne, rigorosamente con il burqa, che pare abbiano voglia
di chiacchierare. Anche loro sono sfollate e si sono rifugiate qui per
sfuggire ai combattimenti che per anni hanno bersagliato le zone a nord
della capitale. Si ritengono fortunate, perché anche con i talebani hanno
potuto continuare a lavorare.

Da due
anni lavorano come assistenti sanitarie ed educatrici presso il campo
profughi. Si tratta di un progetto organizzato da «Save the children». Pur
sembrando molto giovani, sono entrambe sposate. Una di loro però non pare
soddisfatta, ed il fatto che ne parli con due stranieri è sorprendente. Si
è sposata da 7 mesi e, dopo appena uno, il marito è partito per l’Iran in
cerca di lavoro. E oggi lei è costretta a vivere con la famiglia di lui.
Gli uomini di casa si affacciano alla finestra, un po’ curiosi e un po’
minacciosi; ma lei non pare scossa e continua a camminare disinvolta fra
la polvere con le sue scarpe bianche, unica parte visibile sotto il  burqa.



LE BOMBE «INTELLIGENTI»

I
soldati dell’Alleanza del nord cominciano a farsi più rigidi con i
giornalisti occidentali. Ci negano il permesso di fotografare alcuni carri
armati talebani bombardati dagli americani, ci impediscono di vedere
alcuni prigionieri arabi e pakistani, rinchiusi in un container, nel mezzo
di una delle basi.

Dietro
la vittoria dell’Alleanza ci sono i bombardamenti anglo-americani, che
hanno lasciato il segno, e non solo sulle basi militari. Nei paraggi di
questi obiettivi molte case civili sono state distrutte. Errori? C’è chi
li ammette e chi no.

 «Non
posso giustificare un errore che ha ucciso tutta la famiglia di mio
fratello» ci dice Abdul. «La casa è stata colpita durante i primi
bombardamenti – spiegano alcuni vicini -. Erano da poco passate le otto
quando, all’improvviso, l’esplosione: 9 morti e 12 feriti». «Mio fratello
non ha mai avuto nulla a che fare con i talebani era un semplice maestro»
racconta Abdul. Ma le bombe, si sa, non guardano in faccia nessuno.

Molte
sono le zone di Kabul colpite dai bombardamenti. Vicino all’Hotel
Continental, dove alloggiano la maggior parte dei giornalisti, nella zona
di Karte Parvan, si trova una villa che era stata donata dal re ad uno dei
suoi consiglieri più fidati. Negli ultimi anni la villa era diventata la
base di alcuni arabi e per questo sarebbe stata bombardata. Sotto il buco
nel tetto ci sono ancora i resti del missile «intelligente» lanciato dagli
americani.

Alcuni
mujaheddin stanno ripulendo lo stabile. Ci dicono che intendono farvi una
guest house per il ministero della Difesa. Ma il fatto di essere tornati
grazie alle bombe americane non vi reca qualche imbarazzo? Ci risponde
Quasim, ventiduenne capo militare dell’Amirat del Panshir, evidentemente
soddisfatto di essere tornato a Kabul: «Certo, le bombe americane ci hanno
aiutato. Hanno colpito i terroristi, nemici dei musulmani, del nostro
paese nonché dell’umanità intera». Invece sulla sorte di possibili
prigionieri preferisce lasciare la risposta ai suoi superiori.

Da ieri
mattina è cominciato l’attacco a un migliaio fra talebani e arabi che si
sono raggruppati a Maidan Shar, una quarantina di chilometri a sud-est di
Kabul. Un punto strategico per entrambi i contendenti, poiché qui passa la
strada che porta ad Herat e Kandahar. Il comandante Haji Shirihalam, in un
improvvisato incontro con i giornalisti, dichiara: «Abbiamo negoziato per
10 giorni. Alla fine, lunedì scorso, i talebani sono venuti a dirci che si
sarebbero arresi e che avrebbero consegnato le armi. Ma così non è stato e
noi questa mattina abbiamo attaccato».

Il
problema è che qui, come in altri posti del paese, i talebani sarebbero
anche disposti ad arrendersi, ma gli arabi e i pakistani che sono con loro
si oppongono, ben sapendo che a loro spetta la sorte peggiore. Fra i
talebani afghani è quasi subentrato un sentimento nazionalista, essendo
consapevoli del fatto che per loro le pene saranno miti, sempre che siano
puniti.

Guljan,
trentaduenne studente di teologia, come ama definirsi, ci dice: «Per il
mio paese io voglio solo la pace». Discute tranquillamente con alcuni
soldati dell’Alleanza, tra sorrisi ed abbracci da vecchi amici ritrovati.
«Era nostra intenzione arrenderci, ma gli stranieri ce l’hanno impedito».
Sanno di non avere via di scampo, che non possono certo tornare a casa. I
combattenti stranieri sono stati i primi ad essere passati per le armi dai
mujaheddin, quando sono stati intercettati, mentre sembra che in alcuni
casi, come a Kunduz, siano stati gli stessi stranieri ad uccidere i
talebani che volevano arrendersi.


Toiamo verso Kabul, lungo la strada che è un continuo sali e scendi. Ai
lati viene continuamente segnalata la presenza di mine. Appostati nei
luoghi strategici, i mujaheddin scrutano l’orizzonte o formano i posti di
blocco, che qui sono più numerosi che altrove.

 L’impatto
con l’entrata sud della capitale è assolutamente impressionante: una città
completamente devastata,  macerie su macerie. Superata la parte distrutta
durante i 20 anni di guerra civile, l’altra, quella sopravvissuta, sta
chiudendo i battenti.

In
tempo di ramadan, al calar della sera comincia la corsa verso casa per
l’agognato pasto dopo il lungo digiuno. Cosa troveranno sulla tavola i
milioni di afghani che vivono solo degli aiuti umanitari? Intanto, al
mercato di Kabul, i prezzi dei beni alimentari sono in costante aumento.
Succede sempre durante il mese di ramadan, ma oggi, in più, ci sono la
guerra e gli stranieri.

 

 



Afghanistan una storia tormentata

Dal
XIII al XVI secolo


L’Afghanistan è governato prima da Gengis Khan, poi da Tamerlano e dai
suoi discendenti.


 1839-1919: le guerre con gli inglesi

Persa
la prima guerra anglo-afghana (1839-1842), gli inglesi si rifanno nella
seconda (1878-1880) e stabiliscono sull’Afghanistan un protettorato. Nella
terza ed ultima guerra (1919), gli afghani si liberano degli inglesi. 

 Dal
1933 al 1963


L’Afghanistan è governato dal re Zahir Shah. Durante la seconda guerra
mondiale, il paese riesce a mantenere l’integrità nazionale e una
difficile neutralità. A partire dagli anni Cinquanta diventa un
protettorato di fatto dell’Unione Sovietica.

 1964:
riforme democratiche

Zahir
Shah approva una nuova costituzione trasformando il regno in una
democrazia con libere elezioni e diritti civili.

 1973:
il re viene detronizzato

Luglio
– Il re Zahir Shah viene detronizzato da un colpo di stato organizzato dal
principe Mohammed Daud. L’Afghanistan viene proclamato repubblica e Daud
ne diventa il presidente.

 1978:
nascono i «mujaheddin»

Aprile
– Daud viene ucciso. Il Partito democratico del popolo afghano (PDPA),
filo-sovietico, dà il via alla «Rivoluzione d’aprile», che porta alla
nascita della Repubblica democratica dell’Afghanistan. Al potere sale
Mohammed Taraki, con Babrak Karmal primo vice premier.

Agosto/dicembre
– Le riforme del nuovo regime, volte alla sovietizzazione e alla
laicizzazione del paese, alimentano il malcontento di larghi strati della
popolazione. Comincia a organizzarsi la resistenza islamica armata (mujaheddin)
con l’appoggio degli USA.

 1979:
l’invasione sovietica

16
settembre – Il presidente della repubblica Taraki viene ucciso e il potere
passa nelle mani di Afizullah Amin. Il PDPA si spacca. L’URSS, che non
gradisce l’ascesa di Amin e teme un’estensione della ribellione islamica
alle vicine repubbliche di Turkmenistan, Uzbekistan e Tagikistan, decide
di invadere l’Afghanistan.

27/28
dicembre – Truppe dell’Armata Rossa entrano nel paese. Amin viene
assassinato dai servizi segreti di Mosca e i sovietici installano al
potere Babrak Karmal.

 1980:
interessi vitali

In
occasione del tradizionale discorso sullo Stato dell’Unione, il presidente
USA Jimmy Carter dichiara che «il tentativo da parte di una potenza
straniera di conquistare il controllo della regione del Golfo Persico sarà
considerato come un assalto agli interessi vitali degli Stati Uniti e sarà
respinto con ogni mezzo necessario, compresa la forza militare». Gli USA
offrono al Pakistan un piano di aiuti economici e militari (missili
Sidewinder e Stinger) per arrestare l’avanzata dell’URSS in Afghanistan.

1983:
profughi

Il
numero dei profughi afghani raggiunge livelli altissimi: circa 3 milioni e
mezzo di persone sono rifugiate in Pakistan, 2 milioni in Iran e diverse
migliaia in India, in Europa e negli Stati Uniti.

Le
truppe sovietiche in Afghanistan ammontano ormai a più di 100 mila unità.

 1986:
arriva Najibullah

Maggio
– Babrak Karmal perde l’appoggio dell’URSS e viene costretto a dimettersi.
Lo rimpiazza il medico, ex capo della polizia segreta e segretario del
PDPA, Mohammed Najibullah.

 1988:
accordi di Ginevra

Aprile
– Dopo anni di incontri tra il governo afghano, i gruppi ribelli e i
rappresentanti di USA e URSS, sotto l’egida dell’O.N.U., a Ginevra si
firmano gli accordi per il definitivo ritiro sovietico.

Maggio
– L’URSS rivela che 13.310 soldati sovietici sono morti e 35.478 sono
rimasti feriti nel corso degli 8 anni di guerra in Afghanistan. Il 25
maggio inizia ufficialmente il ritiro dell’Armata Rossa. Ad agosto il
contingente sovietico nel paese è già dimezzato.

Luglio
– A Kabul Najibullah forma un governo di coalizione, nella sostanza
filosovietico, nonostante la presenza di alcuni ministri non comunisti.

 1989:
i sovietici si ritirano

15
febbraio – Ritiro definitivo delle truppe sovietiche.

Aprile
– I guerriglieri musulmani mujaheddin, si trasformano progressivamente in
un esercito regolare, organizzato e ben equipaggiato, con il sostegno
della C.l.A. e del Pakistan. Continuano a combattere contro il governo
moderato di Najibullah, ma per il momento controllano solo alcune aree
rurali.

 1991:
crolla l’Unione Sovietica


Novembre – Burhanuddin Rabbani guida una delegazione mujaheddin a Mosca
per discutere di un possibile cessate il fuoco. Le parti si accordano per
il trasferimento del potere a un governo islamico ad interim e per lo
svolgimento di libere elezioni entro 2 anni.

8
dicembre – L’URSS cessa di esistere. Al suo posto nasce la Comunità di
Stati Indipendenti (CIS).

 1992:
l’ora di Rabbani e Massud

Aprile/giugno
– Kabul è presa dai mujaheddin. Dopo giorni confusi e sanguinosi scontri
intestini tra le forze ribelli, si costituisce un governo di coalizione
sotto la guida di Burhanuddin Rabbani.

Vi
entrano rappresentanti dei 7 partiti della guerriglia. Il comandante Ahmad
Shah Massud viene nominato ministro della difesa.

 1994:
arrivano i talebani


Novembre – I componenti della fazione più fondamentalista, quella degli
studenti sunniti di teologia coranica, i talebani, compaiono per la prima
volta sulla scena come gruppo armato. Da questo momento i combattimenti
subiscono un’escalation.


Novembre – Kandahar viene presa dai talebani, che assumono anche il
controllo di due province del sud, Lashkargarh e Helmand.

1995: i
talebani avanzano ovunque

5
settembre – Dopo mesi di combattimenti Herat cade nelle mani dei talebani.
ll leader sciita Ismail Khan, luogotenente di Rabbani nella città, fugge
in Iran. All’O.N.U. il ministero degli esteri di Rabbani accusa il governo
pakistano di «aggressione diretta» per il sostegno fornito ai talebani
nella presa di Herat.


Novembre – Le milizie talebane attaccano Kabul. Le truppe governative
riescono tuttavia a respingere l’offensiva.

 1996:
la caduta di Kabul

20
marzo – La shura dei talebani invita il popolo afghano alla jihad (guerra
santa) contro il presidente Rabbani. Il maulvi Mohammed Omar è proclamato
condottiero dei talebani.

26
settembre – I talebani muovono verso Kabul e la conquistano nella notte.
ll presidente Rabbani e il primo ministro Hekmatjar fuggono. L’ex
presidente Najibullah viene impiccato a un lampione. Mohammed Omar è
nominato capo di un consiglio provvisorio formato da 6 membri. ll Pakistan
invia una delegazione a Kabul.

28
settembre – L’amministrazione americana esprime «rammarico» per
l’esecuzione di Najibullah, ma si dichiara disposta a stabilire relazioni
con il nuovo regime. I talebani intanto avanzano verso il nord del paese.

2
novembre – L’Organizzazione della conferenza islamica decide di lasciare
vacante il seggio dell’Afghanistan.

 1997:
il Pakistan riconosce il governo talebano

La
resistenza moderata antitalebana si concentra nella parte nord del paese,
dove varie fazioni danno vita all’«Alleanza del Nord», appoggiata dalla
Russia che non vuole perdere totalmente il controllo della regione. ll
generale tagiko Massud guida l’Alleanza. La guerra prosegue durissima e a
fasi altee nelle province settentrionali.

24
maggio – I talebani entrano a Mazar-i-Sharif, impongono la sharia (la
legge islamica) e chiudono le scuole femminili.

26
maggio – Il Pakistan riconosce il governo dei talebani.

4
settembre – Uno dei massimi dirigenti talebani si reca in Arabia Saudita,
dove a Jeddah riceve promesse di aiuti da re Fahd. Accusa inoltre Iran,
Russia e Francia di aiutare Massud.

17
dicembre – Il Consiglio di sicurezza dell’O.N.U. condanna i rifoimenti
di armi da parte di eserciti stranieri alle fazioni afghane e invita le
parti al cessate il fuoco.

 1998:
Omar e Osama

9
luglio – Un aereo dell’O.N.U. viene colpito da un razzo a Kabul. Il maulvi
Omar mette al bando la televisione e annuncia la deportazione dei
cristiani e punizioni per i comunisti.

18
luglio – L’Unione europea sospende tutti gli aiuti umanitari a Kabul per
le inaccettabili restrizioni cui è sottoposto il suo personale.

7
agosto – Le ambasciate USA in Kenya e Tanzania saltano in aria: i morti
sono centinaia. Gli americani ritengono che il responsabile degli
attentati sia Osama bin-Laden, un miliardario saudita che sostiene anche
finanziariamente i talebani.

8
agosto – I talebani riconquistano Mazar-i-Sharif uccidendo 11 diplomatici
iraniani e un giornalista. Massacro di migliaia di hazara.

18
agosto – L’ayatollah Ali Khamenei accusa Stati Uniti e Pakistan di usare i
talebani come strumento antiiraniano. Il leader talebano Omar dichiara che
il suo governo darà asilo a Osama bin-Laden.

20
agosto – Gli Stati Uniti lanciano 75 missili Cruise sui campi di Jalalabad
e di Khost, che sarebbero al comando di Osama bin-Laden: 21 morti e 30
feriti.

29
dicembre – L’UNICEF denuncia il totale collasso del sistema educativo
afghano.

 1999:
gasdotti, sanzioni O.N.U. e oppio

9
febbraio – Il governo di Kabul respinge una lettera formale degli Stati
Uniti in cui si richiede di consegnare Osama bin-Laden.

29
aprile – Talebani, Turkmenistan e Pakistan firmano un nuovo accordo per la
costruzione di un gasdotto attraverso l’Afghanistan.

14
maggio – Gli Stati Uniti diffidano ufficialmente il Pakistan dal dare
aiuto ai talebani. Washington dichiara nuovamente il suo favore per un
ritorno a Kabul del re Zahir Shah, che si trova in esilio a Roma.

22
maggio – I talebani individuano una potenziale rivolta a Herat. Otto
congiurati vengono giustiziati in pubblico. Un altro centinaio di nemici
sono uccisi.

26
giugno – Zahir Shah convoca a Roma 70 delegati afghani per organizzare una
Conferenza degli Anziani (la «Loya Jirga», tradizionale strumento
istituzionale per risolvere i conflitti interni), ma i talebani rifiutano
la sua mediazione.

6
luglio – Gli USA impongono sanzioni economiche e commerciali al governo
dei talebani e congelano i loro patrimoni finanziari. I talebani si
preparano intanto a un’offensiva estiva contro le truppe di Massud.
Migliaia di giovani arabi e pakistani si uniscono a loro.

10
settembre – Le Nazioni Unite calcolano che la produzione di oppio in
territorio afghano sia raddoppiata, raggiungendo le 4.600 tonnellate. Il
97% delle coltivazioni è sotto controllo talebano.

12
ottobre – In Pakistan, un colpo di stato militare rovescia il governo di
Nawaz Sharif. Sale al potere il generale Musharraf.

15
ottobre – Il Consiglio di sicurezza dell’O.N.U. vota a favore
dell’imposizione di sanzioni contro il regime di Kabul se, entro 30 giorni,
i talebani non consegneranno Osama bin-Laden agli Stati Uniti.

11
novembre – Centinaia di persone scendono in piazza nelle maggiori città
afghane per protestare contro le sanzioni dell’O.N.U. e chiedere il
sostegno dei paesi islamici. Contemporaneamente esplode in Pakistan la
protesta anti-occidentale degli integralisti islamici, che sfocia in una
serie di gravi attentati.

14
novembre – Le sanzioni delI’O.N.U. diventano operative.

2000:
tentativi di colloquio

Maggio
– Secondo i dati O.N.U. la produzione di oppio in Afghanistan ha raggiunto
cifre record, superiori alle 4.800 tonnellate. La superficie coltivata è
cresciuta del 23%.

13
luglio – Il generale Massud lancia una controffensiva militare, ma la
reazione dei talebani si dimostra più efficace del previsto. L’ex
presidente Rabbani lamenta lo scarso sostegno all’Alleanza antitalebani da
parte della comunità internazionale.

Ottobre
– Una delegazione dei talebani è ricevuta a Washington al Dipartimento di
Stato.


Novembre – Dopo una lunga opera di mediazione compiuta dall’inviato
speciale dell’O.N.U. in Afghanistan Francisc Vendrell, i talebani e
l’opposizione dell’Alleanza del Nord firmano un impegno a partecipare
entro dicembre a una serie di colloqui di pace indiretti. Il 21 novembre,
tuttavia, Stati Uniti e Russia chiedono l’inasprimento delle sanzioni
contro i talebani.

Le
organizzazioni umanitarie mettono in guardia le Nazioni Unite dai rischi
dell’imposizione di ulteriori sanzioni, che causerebbero soltanto maggiori
sofferenze alla popolazione civile già duramente provata.

10
dicembre – I talebani minacciano di boicottare i previsti colloqui di
pace.

19
dicembre – Il Consiglio di sicurezza dell’O.N.U. adotta una risoluzione (sostenuta
principalmente da Stati Uniti, Russia e India), per l’inasprimento delle
sanzioni contro l’Afghanistan, se i talebani non consegneranno entro 30
giorni Osama bin-Laden, non smobiliteranno i campi di addestramento per i
terroristi islamici e non cesseranno ogni commercio illegale di sostanze
stupefacenti.

 2001:
la situazione precipita

19
gennaio – Entrano in vigore le nuove sanzioni dell’O.N.U. contro il regime
dei talebani.

28
febbraio – L’ambasciatore di Kabul in Pakistan, Abdul Salam Zaeef,
conferma che il suo governo ha deciso la distruzione dei Buddha di Bamiyan,
capolavori dell’arte ellenistico-orientale fiorita nel paese prima
dell’islamismo.

27
marzo – Un gruppo di giornalisti occidentali è ammesso nella valle di
Bamiyan per certificare l’avvenuta demolizione delle statue.

5
aprile – Massud viene ricevuto a Strasburgo.

19
maggio – La polizia religiosa chiude a Kabul le panetterie del PAM (Programma
alimentare mondiale) dove lavorano donne. La polizia religiosa irrompe
nell’ospedale di Emergency a Kabul.

23
maggio – Diventa legge l’ordinanza che impone agli indù di portare sugli
abiti un segno distintivo.

9
settembre – Il generale Massud viene ucciso.

11
settembre – Attacco terroristico alle Torri Gemelle di New York e al
Pentagono.

 DOPO
L’11 SETTEMBRE 2001

 7
ottobre – L’aviazione anglo-statunitense colpisce Kabul e Kandahar.

26
ottobre – Bush firma la legge antiterrorismo denominata «Usa Patriot Act»
(legge del patriottismo americano). Il provvedimento rafforza enormemente
i poteri della polizia e dell’Fbi.

7
novembre – Il Parlamento italiano approva l’intervento militare italiano
accanto agli USA. «Il nostro Parlamento ha scritto ieri una pagina
onorevole della sua storia» (Piero Ostellino, sul «Corriere della Sera»
dell’8 novembre).

13
novembre – Le truppe dei mujaheddin entrano a Kabul.

27
novembre – Scoppia un rivolta nel carcere-fortezza di Qala-e-Jhangi, a 10
chilometri da Mazar-e-Sharif, dove sono detenuti circa 600 talebani, in
gran parte pakistani. Oltre 450 rivoltosi vengono uccisi. Amnesty
Inteational chiede l’apertura di un’indagine. Tra i talebani feriti c’è
anche un cittadino statunitense di 20 anni, John Walker.

5
dicembre – I rappresentanti dei quattro maggiori gruppi etnici e politici
afghani riuniti a Petersberg, vicino a Bonn, sotto l’egida delle Nazioni
Unite, raggiungono un accordo sul futuro dell’Afghanistan.

22
dicembre – Si installa il governo provvisorio di Hamid Karzai, leader
pashtun di 44 anni. La nuova amministrazione è composta da 29 ministri,
tra cui 2 donne (Sima Samar vicepremier e Suhaila Seddiqi ministro della
sanità), che rappresentano tutte le etnie. Vi sono 11 pashtun, 8 tagiki, 5
hazara, 3 uzbeki e altri esponenti di etnie minori.

31
dicembre – Un bombardamento statunitense provoca più di 100 vittime tra i
civili. È il terzo «effetto collaterale» in 10 giorni. Il governo di
Karzai chiede la sospensione dei raids aerei.

12
gennaio 2002 – Bendati e

legati
arrivano nella base


statunitense di Guantanamo (Cuba) i primi prigionieri talebani.


(a cura di Paolo Moiola)

 


Il
commento



Caduta libera verso la barbarie

di Gino Strada (Emergency)

Il
secolo passato ha visto numerose catastrofi umanitarie. Io speravo, fino a
qualche tempo fa, di non vedee più. Sono state firmate ogni tipo di
carte dei diritti, una montagna di carte: per l’uomo, per la donna, per il
bambino, per il vecchio, per la mezza età. Nonostante questo, ciò che sta
accadendo in questo momento storico si può definire come una caduta libera
verso la barbarie. Vorrei raccontare cosa sta accadendo in due delle sette
corsie dell’ospedale di Emergency a Kabul.

Una è
la corsia pediatrica. Ogni giorno arriva qui un bambino mutilato, ferito,
tagliato in due pezzi dall’esplosione di una «cluster bomb» (1) americana.
Gli americani si sono rifiutati di indicare agli sminatori i luoghi
bombardati con quegli ordigni. Quando le cluster bombs non esplodono
nell’impatto con il suolo, la loro dispersione le trasforma in mine sparse
sul territorio per un ampio raggio. È stata fatta una grande propaganda
sul lancio degli aiuti, i famosi sacchetti gialli, che anch’io ho visto.
Ora quei pacchi lanciati dal cielo hanno lo stesso colore delle… cluster
bombs americane. Sono lì, sparse dentro e fuori ai villaggi, pronte per
essere raccolte dai bambini, bramosi di trovare i famosi aiuti. Bene, io
chiamo questo terrorismo!

Queste
lanciate dal cielo sono mine antiuomo, mine contro la giustizia, la pace,
la libertà, la verità! Io non ci sto. Non ci sto. Credo che Emergency
faccia bene a denunciare questo gioco al massacro.

 All’interno
del nostro ospedale di Kabul, c’è poi un’altra corsia: quella destinata ad
ospitare i pazienti che hanno preso parte alle ostilità.

Ci sono
combattenti talebani non afghani, pakistani, uomini di Al Qaeda. Con i
talebani hanno combattuto uomini di 22 diverse nazionalità.

Questi
pazienti non sono stati portati feriti in ospedale. Siamo andati a
prenderli nelle carceri di massima sicurezza, dove erano abbandonati a
morire. Siamo andati perché, altrimenti, sarebbero stati brutalmente
uccisi. E con loro sarebbero stati uccisi i più basilari diritti umani.
Diritti che valgono anche per i combattenti talebani. D’altronde, questa è
la politica degli Usa: non fare prigionieri. Una politica che pratica e
genera terrore. Per questo dobbiamo muoverci prima che sia troppo tardi,
prima che le retroazioni simmetriche giungano anche in Europa. Noi viviamo
in un’Europa meno sicura, perché gli Usa hanno deliberatamente scelto di
occupare tutti i luoghi sacri del Medio Oriente. Questa politica estera
americana è da fermare. È un dovere morale per tutti!

Alcuni
sostengono che quella statunitense sia «la verità della civiltà». In
realtà, si tratta solo dell’attuazione di una politica imperialista volta
a combattere i disastri di una recessione economica intea al paese.


Naturalmente, l’Italia si è schierata in prima linea.  Abbiamo un
parlamento che per il 95% ha votato a favore dell’ingresso in guerra
contro l’Afghanistan. Oppure è la guerra contro Osama bin-Laden, che forse
in questo momento si sta nascondendo in uno dei rifugi fatti costruire
dalla CIA vent’anni fa.


Purtroppo, in questo contesto storico io sono molto meravigliato della
mancanza di un serio movimento per la pace. Noi proponiamo il dialogo come
alternativa alla guerra. Dobbiamo fare cultura per opporci a questa
catastrofe. Un esempio concreto in questa direzione è proprio Emergency.

Io dico
questo e poco importa se dal parlamento italiano arrivano insulti
personali gratuiti (2). L’unica forma di resistenza in questo momento è
parlare di fratellanza per evitare che si cada in una spirale di
disperazione per tutti. Spero che questo non accada mai. Dipenderà tutto
da noi. Ma dobbiamo muoverci! (3)

 (1)  
Termine per indicare le «bombe a grappolo», tipo di ordigno che,
all’impatto con il suolo, libera circa 50 bombe di dimensioni ridotte che
si sparpagliano sul terreno circostante.

(2)  Il
dottor Strada si riferisce a Silvio Berlusconi, che lo ha definito «un
uomo confuso».

(3) 
Questo intervento è stato fatto lo scorso 15 dicembre 2001 presso la
Camera del lavoro di Milano in occasione della presentazione del libro
«Afghanistan anno zero». È opportuno ricordare che questo lavoro di
Giulietto Chiesa e Vauro è stato scritto PRIMA dell’11 settembre.

 

 


A Kabul, con i nuovi padroni e i problemi di sempre



 «Non vogliamo solo speranze»

 


Musica, televisione, cinema, aquiloni. Tutto sembra tornare,
a Kabul. Ma sono questi i veri problemi? Forse è meglio concentrarsi sui
diritti e sulla rappresentanza all’interno dei nuovi organismi statali,
dicono le donne afghane. Con o senza burqa.

 

Kabul.
Nella capitale afghana è tornata la musica; qua e là spuntano antenne
paraboliche; si vedono di nuovo i libri e i bambini possono giocare con
gli aquiloni senza rischiare una severa punizione. Tutto cambia, ma le
donne restano invisibili. Le strade sono affollate di uomini, mentre le
afghane continuano a camminare rasentando  i muri, nascoste sotto i loro
burqa, nonostante la vittoria dell’Alleanza del nord.

In un
negozio di televisioni, aperto a tempo di record, incontriamo Soraja: sta
scegliendo un videoregistratore. E il televisore? «L’abbiamo tenuto
nascosto durante tutti questi anni, ma adesso possiamo utilizzarlo senza
paura». E come mai un videoregistratore? «Un passatempo per noi donne, che
dobbiamo restare in casa».


SHAMSIA
E RAHIMA,

DONNE E
MEDICI

Negli
anni dei talebani (1996-2001) le donne hanno potuto lavorare solo in casi
eccezionali e solo a contatto con altre donne. Se le possibilità di lavoro
erano così strettamente limitate, il problema dell’educazione e della
formazione delle bambine era risolto con il divieto alle ragazze di
studiare. La sanità poi era un vero dramma. All’inizio tutti gli ospedali
furono interdetti alle donne, poi furono ricavati degli spazi a loro
dedicati.


Un’amica giornalista italiana, che per girare inosservata (per quanto sia
possibile a degli occidentali), ha scelto di muoversi sempre con un velo
sulla testa, ci racconta: «Tre anni fa avevo trovato a Kabul una
situazione disastrosa: nel reparto di ginecologia di un ospedale le donne
venivano dimesse circa un’ora dopo il parto (quasi certamente si trattava
di situazioni complicate, altrimenti non avrebbero fatto ricorso alla
clinica, ndr), per lasciare il posto ad altre donne in attesa (a volte già
con le doglie) sulle panche di legno nel cortile dell’ospedale».

La
strada che porta all’ospedale Rabia Balki è affollatissima, frotte di
donne, con il burqa alzato sulla fronte, si accalcano contro il portone di
ferro che separa la strada dal cortile dell’unico ospedale per donne di
Kabul. In realtà ce n’è un altro, ma solo per problemi ginecologici.
Questo, invece, tratta tutte le patologie e c’è anche un reparto
chirurgico. È un grande edificio (un po’ fatiscente, ma abbastanza pulito),
suddiviso in stanze con 6/8 letti ciascuna, sala operatoria, ambulatori,
65 medici (tra cui 5 maschi) per un totale di 250 degenti.

Shamsia,
camice rigorosamente bianco e velo trasparente viola, è una delle
chirurghe. È arrivata all’ospedale due anni fa, appena finiti gli studi.
Ha frequentato, all’università di Kabul, l’unica facoltà rimasta aperta
alle donne: quella di medicina, indispensabile visto che le pazienti
possono essere visitate solo ed esclusivamente da altre donne. Anche se
adesso in questo ospedale si fa un’eccezione per i 5 medici maschi.

Rahima
è invece la direttrice sanitaria e medico internista. Shamsia e Rahima
dicono di non aver mai avuto particolari problemi per il loro lavoro in
ospedale. I problemi con i talebani erano quelli di tutte  le donne
afghane. E ora? Per loro non è cambiato nulla con l’arrivo a Kabul degli
uomini dell’Alleanza del nord, ma sperano in un cambiamento. E sono in
spasmodica attesa dei risultati della conferenza di Bonn (conclusasi con
un accordo lo scorso 5 dicembre, ndr), anche se l’Onu ha già fallito molte
volte nel tentativo di trovare una soluzione per l’Afghanistan.

Che
cosa si aspettano? «Un governo rappresentativo di tutti, che possa portare
la pace» dice Rahima, mentre Shamsia concorda. Con la partecipazione dei
talebani?  «Devono partecipare tutti, tranne i gruppi armati che hanno
combattuto per 23 anni (sia talebani che  mujaheddin) distruggendo il
paese. Sono loro i responsabili di questa catastrofe, quindi devono
restare fuori dal governo».


Un’utopia, anche se, contrariamente ad altre donne, come quelle di Rawa («Associazione
rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan») che contestano tutti i
fondamentalismi, Shamsia e Rahima non pensano ad un governo laico, ma
islamico: «Siamo un paese musulmano e l’oppressione della donna non
dipende certo dal corano. Diversamente da quanto credete voi occidentali,
il corano non impone l’adozione del velo, ma si limita a raccomandare che
il corpo della donna non sia oltremodo scoperto. Soltanto in un versetto
si parla di velo come elemento di abbigliamento. Altrove il  libro fa
riferimento al velo in quanto indumento indossato per tutelare il pudore
femminile».

Sperano
invece che torni il re deposto ed in esilio a Roma, Zahir Shah. Ma non è
troppo anziano? «Non importa l’età, contano  l’esperienza e le capacità
intellettuali». E le donne? «Le donne sono oltre il 50 per cento della
popolazione e devono avere una partecipazione almeno al 25 per cento nei
luoghi di decisione». E Rahima, come molte altre afghane, contesta la
rappresentatività delle donne che partecipano alla conferenza di Bonn:
«Non sono presenti donne che hanno vissuto in Afghanistan in questi anni.
Quelle andate a Bonn hanno vissuto fuori dal paese».

E il
burqa? Per Shamsia e Rahima  non è la priorità, come lo sono invece
l’educazione e il lavoro. Rispondono con una certa insofferenza, stanche
che molti occidentali vedano nel burqa il simbolo dell’oppressione.
Naturalmente non lo portavano prima dell’avvento dei talebani, ma ora è
diventato un modo per garantirsi la sicurezza. E c’è da giurare che non
saranno di certo i mujaheddin dell’Alleanza a garantire alle donne la
libertà di decidere se portarlo o no.



DOPO IL BURQA, I DIRITTI

Molte
donne afghane non vog

Davide Casali