Attraversando l’isola-continente dell’Australia

Un mosaico affascinante (e crudele)

Le «tessere» sono vescovi rattristati, bambini rubati, immigrati italiani,
medici volanti, guide tutto-fare. E costoni rocciosi, strade interminabili,
foreste, praterie, parchi con fiori smaglianti e timidi canguri.
E gli aborigeni?
Ovunque si balla il «valzer di Matilde».

IN CHIESA E I «BAMBINI RUBATI»
Sydney. Partecipiamo alla messa
nella parrocchia cattolica di St. Canice.
L’altare è in marmo di Carrara,
eseguito dallo scultore italiano «Signor
Primo Fontana» nel 1888. La
St. Canice’ Church, costruita verso il
1880 sul modello dell’omonima cattedrale
di Kilkenny (Irlanda), fu il
primo centro comunitario di ispirazione
cattolica della città.
I canti ci ricordano quelli delle funzioni
protestanti. Alla «preghiera dei
fedeli» sono ricordate anche, con nome
e cognome, le persone particolarmente
bisognose. Dopo l’eucaristia,
vengono serviti dolci, bibite e si
scambiano saluti e notizie.
Il parroco, un simpatico castigliano,
ci informa che i cattolici australiani
non sono organizzati come chiesa,
ma sentono molto l’amore verso
il prossimo e praticano ogni forma
di carità.
I primi cattolici sbarcarono in Australia
nel 1800: erano sacerdoti irlandesi
deportati dall’Inghilterra. Oggi
la presenza della chiesa è notevole
soprattutto nel campo educativo:
sono circa 2 mila le scuole, frequentate
da oltre 600 mila studenti. I vescovi
superano la trentina.
Da un giornale parrocchiale di Sydney
apprendiamo che la chiesa è rattristata
da una decisione della Corte
di giustizia; questa ha respinto la denuncia
di «sottrazione forzata», presentata
da due aborigeni appartenenti
alla stolen generation (generazione
rubata). Sono Loa Cubillo
e Peter Gunner. La coppia ha dichiarato
che, da bambini, sono stati
sottratti con la forza alle loro famiglie
per essere inseriti nel mondo
dei bianchi come addetti a lavori
umili e faticosi. Loa Cubillo e Peter
Gunner si sono appellati al Commonwealth.
I vescovi affermano che, se è vero
che alcuni indigeni permettevano che
i figli fossero loro tolti per ricevere
un’istruzione, questo non fu il caso
di Loa e Peter. Si richiede una risposta
adeguata al dramma, che non
si risolve con indennizzi economici,
bensì con il riconoscimento dei soprusi
commessi.
La Corte ha replicato che, allora, la
legge permetteva ad un funzionario
di prendersi cura di bambini nativi,
quando fosse nel loro interesse, anche
contro la volontà della famiglia.
Però questa non fu la sorte di Loa
e di Peter, vittime di viziose violenze
sessuali nelle case di Darwin, dove
crebbero infelici (anche senza mangiare),
riportando gravi traumi per
tutta la vita. Ma le vittime non hanno
convinto la Corte. Loa e Peter furono
sottratti ai loro genitori rispettivamente
nel 1947 e 1956.
Dalla decisione della Corte di giustizia,
dalle sue motivazioni, dagli
autori della denuncia e dal dibattito
svoltosi in tribunale è emerso un capitolo
crudele della storia australiana,
di cui si è venuti a conoscenza
solo nel 1997, ma che si estende ben
oltre la metà del 20° secolo.

IL SOGNO DEGLI IMMIGRATI ITALIANI
Dopo la prima guerra mondiale,
numerosi giovani italiani incominciarono
a parlare dell’Australia, la
«terra sottosopra», dove il cielo stellato
è all’«incontrario», con vastissimi
territori ancora da conquistare.
Sognavano quell’isola in fondo al
mappamondo, perché laggiù il governo
regalava ricchi terreni a chiunque
avesse il coraggio e la forza di
trasformare la foresta in fattorie,
strade, città. E, per gli appassionati, c’era la possibilità di cacciare dall’alba
al tramonto animali e uccelli
di ogni genere.
Il governo australiano, per evitare
costi sociali, preferiva che gli immigrati
sud-europei avessero un parente
cui appoggiarsi; costui firmava un
documento, impegnandosi a fronteggiare
ogni necessità del nuovo arrivato.
Dai rapporti governativi dell’epoca
si apprende che si favorivano
lombardi, veneti e piemontesi, «più
simili agli anglosassoni, educati, laboriosi
». Siciliani e calabresi erano
graditi solo per la pesca.
Ancora oggi gli anziani agricoltori
del Queensland ripetono che, quando
la canna da zucchero si lavorava
a mano, gli italiani tagliavano il
doppio dei giapponesi e dei maltesi.
Molti hanno fatto fortuna.
I nostri connazionali partivano dal
porto di Genova. Approdati in Australia,
raggiungevano una città appena
sorta, con strade di fango e baracche
di legno, il tetto in lamiera.
Lavoravano a cottimo: si presentavano
all’alba agli ufficiali della Colonial
Sugar Refining, che formavano
gruppi di tagliatori composti da tre
lavoratori esperti, sei nuovi e una
donna per la cucina. Gli ufficiali davano
la precedenza agli inglesi, poi
venivano i neri e gli italiani. Lavoravano
il più possibile.
Gli italiani, appena mettevano da
parte qualche soldo, compravano dei
cavalli, un carro, qualche suppellettile
e partivano verso le terre vergini
da disboscare, molto fertili, dove c’era
solo giungla, serpenti e coccodrilli
nei fiumi. Piantavano la canna, e
morivano di fatica per far vedere agli
inglesi che erano più bravi di loro.
Da un lato un paradiso di libertà,
con la casa dei vicini a mezza giornata
di cammino; dall’altro una vita
piena di insidie, con cicloni che duravano
giorni e giorni trasformando
le valli in laghi e le strade in fiumi.
Case intere venivano spazzate via in
un attimo, se gli uomini non vincevano
questa lotta immane salendo a
decine sul tetto, oppure legandosi alla
vita delle funi, dopo averle fatte
passare intorno alle travi del tetto e
tirandole con tutte le forze.
Le città sorgevano dal nulla, appena
un avventuriero scopriva che la
regione nascondeva giacimenti auriferi;
migliaia di cercatori vi si riversavano
seguendo il profumo della
fortuna. Intanto molti poveri disperati,
giungevano da altre città: non
conoscevano i pericoli del bush e, in
tanti casi, morivano di sete prima
che fosse costruito l’acquedotto per
portare l’acqua da centinaia di chilometri
di distanza.

«PAPPAGALLI» E CANGURI
Per tanti immigrati il sogno australiano
divenne una dura realtà,
che alcuni pagarono con la vita. Oltre
le difficoltà materiali, erano anche
gravi i problemi psicologici,
dovuti a solitudine e paura. Sorsero
così i «dottori volanti» (flying doctors).
La prima base dei «dottori volanti
» sorse a Cloncurry (Queensland)
nel 1928. Disponeva di un telegrafo
a pedale e di un piccolo aereo di tela.
Fu anche istituito un servizio, organizzato
da donne, chiamato «pappagallo
», per far sentire meno la solitudine
con chiacchiere opportune.
Molti ricordano ancora il «dottore
volante» atterrare nel bush e rimuovere
i grumi di sangue dal cervello dei
pazienti con un trapano da legno…
senza anestesia. Oggi la Royal Flying
Doctor Service è una società no profit
con basi operanti 24 ore su 24 con
radio-telefono. Per molti che vivono
in zone remote è l’unico legame con
il mondo esterno; per altri funge da
sistema di supporto, in caso di malfunzionamento
del telefono caricato
con energia solare… Le chiamate possono
essere effettuate per affari o ragioni
di natura sociale, per ordinare
viveri, per consultazioni mediche. In
caso di emergenza, ogni base può coprire
la propria area con evacuazioni
o trasporto all’ospedale in meno di
due ore.
La prima sensazione che si prova,
di fronte al paesaggio australiano,
è quella di uno struggente infinito.
Si viaggia per centinaia di chilometri
su strade rettilinee, senza incontrare
una casa o incrociare un altro
veicolo, intravvedendo in lontananza
dolci montagne arrotondate,
spesso a forma di tronco di cono.
Colpisce l’armonia dei colori: la
terra rossa, i cespugli di spinnifex di
un verde intenso, gli eucalipti (ne
esistono centinaia di specie). Nel bush
(paesaggio selvatico per eccellenza)
sembra che nulla sia lì per caso e
si capisce da dove vengono i miti degli
aborigeni. L’idea che il paesaggio
sia stato creato durante «il tempo dei
sogni» da qualche antenato, per ottenere
un’opera d’arte fatta insieme
alla natura, diventa lampante.
Attraversiamo le prime e sconfinate
praterie, all’apparenza incontaminate.
La guida ci racconta l’aggressione
ecologica che i suoi antenati,
all’inizio del 19° secolo, scatenarono
contro l’ambiente. L’erba non è australiana,
ma fu portata dagli europei
per le loro mandrie di pecore e
mucche; invadente come i coloni, in
poco tempo si sostituì alla vegetazione
originaria. La natura australiana,
isolata dal resto del pianeta per
milioni di anni, non ha potuto difendersi
dalle invasioni arrivate dall’Europa;
il bush originario è in gran
parte scomparso.
Conigli, cani, gatti, maiali inselvatichiti, rospi della canna da zucchero,
mimose africane, calle inglesi e
molte altre specie di animali e piante,
all’apparenza insignificanti, sono
responsabili della distruzione di interi
ecosistemi.
Attraversiamo un campo di calle
selvatiche; il nome australiano di calla
è white death (morte bianca)… Il
celebre evoluzionista Charles Darwin
era in relazione con i Bussel (proprietari
terrieri inglesi), che abitavano
vicino a Perth ed erano appassionati
di botanica. Darwin, un anno,
inviò loro come regalo di natale un
vaso di calle, imbarcandolo senza
speranza per l’Australia. Dopo due
mesi, la piantina, sopravvissuta al
viaggio, fu trapiantata dai Bussel in
riva al Margaret River. In meno di un
secolo le calle hanno spazzato via i
fiori naturali del bush australiano…
Ecco spuntare canguri grigi, marroni,
rossicci: fermi ai lati della strada
ci aspettano incuriositi con le
zampe anteriori raccolte sul petto,
pronti a tornare con un paio di salti
nel bush quando siamo troppo vicini.
Ci sono anche i wallaby (canguri
più piccoli e timidi), graziosissimi.

QUELLA GUIDA STRAORDINARIA
La vita rilassata degli australiani
dovrebbe essere esportata in tutto il
mondo. Un perfetto esempio di questa
Australia è la categoria delle guide
turistiche.
L’affluenza di visitatori è aumentata
in misura straordinaria con effetto
boomerang… data la diminuzione
dei costi e il miglioramento dei
servizi. Le guide sono preparate da
scuole specializzate per i vari tipi di
accompagnamento. La loro caratteristica
è quella di abbracciare molte
competenze. Sui treni la guida opera
anche come bigliettaio e cameriere,
oltre che fornire informazioni su
località e natura; e non è raro che si
infili la tuta e si trasformi in idraulico…
Percorriamo la Great Ocean Road,
una strada tagliata per centinaia di
chilometri nella scogliera ad ovest di
Melboue. Questa strada fu costruita
nel 1932 a ricordo dei soldati australiani
periti nella prima guerra
mondiale. La guida è anche autista
della corriera: una simpatica ragazzona,
che indossa comodi pantaloni
e camicia maschili.
Osserviamo dallo specchietto laterale
il suo volto pacioso, sempre sorridente
e rilassato, mentre parla per
ore al microfono sospeso alla sua altezza:
spiega la storia geologica della
zona, racconta le vicende degli innumerevoli
battelli che sono naufragati
su questa costa… Apprendiamo
che la città di Melboue fu fondata
nel 1846 con la corsa all’oro e che coloro
che venivano in Australia, al di
là dello spirito di avventura o di altri
motivi, da qualsiasi parte provenissero
e qualunque fosse la loro identità
personale, tutti avevano un
unico scopo: fare tanti soldi.
Ci parla delle raffinerie di petrolio
sorte nel 1950 e di come il governo
fece pubblicità in tutto il mondo per
far venire gente che vi lavorasse, della
Ford che arrivò nel 1924 ed è tuttora
molto popolare. Poi passa dalle
notizie sugli sport nazionali a quelle
sugli allevamenti e la tosatura delle
pecore… Da sola ci ha intrattenuti
dalle 8 del mattino alle 9 di sera, guidando
un pullman per centinaia di
chilometri, con 53 persone di tutto il
mondo, su strade strette, tortuose, a
picco sul mare. Ci ha pure servito in
un bosco una merenda con tè e dolci,
stile Australian bush.
Alla sera, ci complimentiamo con
lei per la professionalità, chiedendole
se non sia faticoso un tale lavoro.
«Non particolarmente – è la risposta
-. Ma si tratta solo di due giorni alla
settimana. Gli altri li passo in ufficio».

IL PARCO NAZIONALE «KAKADU»
Il parco nazionale Kakadu si estende
per circa 20 mila chilometri quadrati,
a nord dell’Australia. È al centro
di dispute fra ecologisti e politici
per le miniere di uranio.
Patrimonio mondiale dell’Unesco
per valori naturali e culturali, il
Kakadu comprende quasi tutto il bacino
del South Alligator e nel suo
habitat prospera un’enorme varietà
di piante e di animali, molte delle
quali uniche. Nuove specie continuano
ad essere scoperte. Abbraccia
inoltre luoghi di grande importanza
artistica e archeologica, che riflettono
la ricchezza della plurimillenaria cultura aborigena.
Il parco è diretto da un Consiglio,
composto in maggioranza da aborigeni,
scelti dai proprietari terrieri. È
la realizzazione di un progetto prestigioso,
che contempla la protezione
di un delicato ecosistema di
foreste, fiumi e monti in un’area ricca
di testimonianze preistoriche. Per
esempio: le mangrovie (che altrove
stanno scomparendo per far posto
agli allevamenti di gamberetti delle
multinazionali) contano qui 20 specie,
divenendo un vivaio naturale di
pesci. In questo ambito, da anni, è
attivo un piano governativo con forti
investimenti e il sogno di diventare
leader mondiale.
Nella visita del Kakadu, siamo accompagnati
dalla solita guida tuttofare:
in questo caso un’esile fanciulla,
biologa, esperta di flora e fauna
locale, che da sola ci ha fatti imbarcare,
ha tolto gli ormeggi, ha staccato
il battello con una lunga canna
dalla riva paludosa e acceso il motore.
Ora manovra in stretti passaggi,
si ferma e riparte. Ci fa visitare insenature
particolari. Illustra con competenza
la complessità dell’ecosistema
che stiamo attraversando.
Nella crociera sul fiume East Alligator
siamo, invece, accompagnati
da due aborigeni: uno, più intellettuale,
risponde alle nostre domande
sulla loro situazione; l’altro, più pratico,
ci illustra le loro attività artigianali.
Costeggiamo l’Ahemland, patria
degli aborigeni e dei loro miti. Poniamo
loro alcune domande. Rammentiamo
anche una scena di pochi
giorni prima ad Alice Springs, una vivace
cittadina di 25 mila abitanti. È
sabato: alcuni aborigeni scendono da
un taxi (!) e raggiungono un parco
per aggregarsi ad altri, sdraiati sull’erba;
tutti fumano e per terra vi sono
lattine di birra e bottiglie. Quando
ripassiamo dopo alcune ore, gli
aborigeni sono ancora là; ci fanno
pensare a persone sradicate dal loro
mondo e per nulla inserite in quello
dei bianchi. Ecco il problema.
Fino al 1860 gli aborigeni (chiamati
anche negritos) erano considerati
animali e i bianchi li trattavano
come la selvaggina. Non conoscevano
armi da fuoco, né sapevano difendere
il loro territorio, dal momento
che fra loro non esistevano proprietà
né si dividevano le zone di
caccia. Tuttavia la loro terra, enorme
ed inospitale, li ha salvati dall’estinzione.
Cinicamente qualcuno sostiene che
sarebbe stato più vantaggioso il contrario,
considerato il dramma passato
e presente degli antichi padroni
dell’Australia: infatti il 90% è vittima
dell’alcornolismo e per questo spesso
in carcere; l’80%, senza lavoro, sopravvive
con sussidi governativi. In
media la vita di un aborigeno è di 50
anni, mentre la mortalità infantile è
tre volte superiore a quella dei bianchi…
Ora siamo di fronte ad un giovane
aborigeno, dall’aspetto intelligente,
che si esprime in un buon inglese: ci
espone le difficoltà del suo popolo
con dignità e malinconia, ma dimostra
anche fiducia nel suo spirito d’intraprendenza.
Gli anziani soffrono
molto, perché le loro tradizioni stanno
scomparendo; i bambini vanno a
scuola e studiano l’inglese, perché i
loro genitori capiscono che l’integrazione
nel mondo dei bianchi è l’unico
futuro, pur con la forte volontà di
non abbandonare i fondamenti della
cultura tradizionale.
Alcuni bianchi rilevano nel comportamento
degli aborigeni una certa
ambiguità: da una parte si atteggiano
a vittime e protestano per i loro
diritti calpestati e i soprusi subiti
dalle istituzioni; dall’altra, proprio di
queste cercano di approfittare per ottenere
vantaggi economici dal turismo,
dalla loro arte e da altre forme
consumistiche di guadagno.

BALLANDO CON MATILDE
È notte. Con emozione ascoltiamo
dalla radio Waltzing Mathilda. È
l’inno nazionale ufficioso dell’Australia,
la canzone più popolare: una
malinconica ballata che spesso sostituisce
(anche per clamorose gaffes)
il vero inno nazionale.
Composto e scritto nel 1891, Waltzing
Mathilda è insieme un inno alla
libertà e un grido contro le repressioni
dei girovaghi da parte del potere.
Il titolo «ballare il valzer con Matilde
» assume il significato di affrontare
gli spazi infiniti dell’outback (interno),
ossia il never-never: la terra
che, una volta vista, nessuno più abbandona.
Matilde, infatti, è il nome
che i girovaghi dell’outback avevano
dato all’oggetto più prezioso del loro
equipaggiamento: il sacco-letto portatile,
che veniva arrotolato e legato
allo zaino.
E la mitica Mathilda Highway è la
pista tracciata dagli esploratori che,
guidati dall’irlandese Burke (agosto
1860 – febbraio 1861), riuscirono ad
attraversare il paese da Melboue al
Golfo di Carpentaria. Tutti i componenti
della spedizione (tranne uno)
morirono di sete durante il viaggio di
ritorno. Oggi quella strada è costellata
da decine di placche e piccoli
musei…
Le ultime e struggenti note di «ballare
con Matilde» si perdono sotto le
stelle nell’isola-continente dell’Australia.

(*) SILVIA PEROTTI
ha visitato l’Australia con il marito
Giovanni e i coniugi Francesco
e Paola Rosso. Già insegnante di
fisica nelle scuole superiori, la signora
Silvia è oggi anche presidente
dell’Associazione «Amici
Missioni Consolata» di Torino.

ALCUNE FONTI
– Australian Aboriginal Culture,
Camberra 1998
– Deirdre Stokes, Desert Dreamings
– Calendario Atlante De Agostini
2003, Istituto geografico De Agostini,
Novara 2003
– Guida del mondo 2001/2002 (il
mondo visto dal sud), Emi, Bologna
2001
– Alex Roggero, Australian Cargo,
Feltrinelli, Milano 2000
– Time, 25 settembre 2000
– Aimis (Agenzia di informazioni
missionarie), 1773/92

UN ABORIGENO A ROMA
Su alcuni edifici della «città eterna» vi sono targhe che ricordano i
soggiorni di tanti personaggi stranieri.
Ma degli australiani non vi è
nulla: nulla, per esempio, che indichi
la casa di Raffaello Carboni, celebre
cronista della rivolta di «Eureka
Stockade» (minatori contro
esercito: unica battaglia combattuta
sul suolo australiano). Né si ricorda
dove alloggiò Mary Mackillop,
prima santa australiana.
Però, nel cimitero dei benedettini
presso la basilica di san Paolo, un
appassionato di curiosità storiche
sarebbe contento di sapere che vi è
sepolto Francio Xavier Conaci, monaco,
morto giovanissimo nel vicino
convento nel 1853.
Conaci era uno dei cinque aborigeni
portati a studiare in Italia nella
metà del 19° secolo; poi alcuni
divennero probabilmente missionari
fra la loro gente: quattro provenivano
da New Norcia, nell’ovest
dell’Australia, e uno da Sydney.
Il missionario Rosendo Salvado,
spagnolo e fondatore di New Norcia,
condusse il Conaci in Italia nel
1849. Lasciata la famiglia, percorsero
i 132 chilometri dal monastero
di New Norcia a Perth su un carro
trainato da una giumenta. Pare
che Salvado si recasse in Europa
per raccogliere aiuti per la missione,
e l’aborigeno lo seguì in Inghilterra,
Francia e infine in Italia. Conaci
aveva 12 anni, capelli rossicci,
intelligenza acuta, di cui Salvado
era entusiasta. L’aborigeno scrisse
brillanti commenti sul suo viaggio
in Europa.
Frequentò con profitto la scuola
del convento a Cava dei Tirreni, vicino
a Napoli, ma il clima
umido gli causò
problemi di salute. Così
nel 1853 raggiunse
il monastero di san
Paolo. Non fu una
scelta felice, data l’umidità
e i problemi ai
bronchi. Infatti, dopo
poco tempo, morì.

LA CACCIA ALLA BALENA

«Una notte molti aborigeni si radunarono
nella baia di Encounter
per un rito, ma non avevano il fuoco
per illuminare le tenebre. Allora
invitarono alla cerimonia un potente
uomo, di nome Kondole, perché
possedeva il fuoco. Ma questi, infuriato,
lo nascose ed essi decisero di
prenderlo con la forza. Però nessuno
osava avvicinarsi. Infine un giovane,
Rilballe, scagliò la lancia: ferì
Kondole al collo e gli prese il fuoco.
Tutti gli altri si misero a ridere, ma
furono trasformati in animali. Kondole
corse verso il mare e divenne
una balena. Ora soffia fuori l’acqua
attraverso la ferita del collo» (leggenda
del «tempo dei sogni»)…
Nel 1791 iniziò nel paese la caccia
alla balena da parte dell’equipaggio
del Britannia, dopo aver scaricato
merci e galeotti. Le balene furono
ritenute idonee alla caccia,
perché si avvicinavano alla spiaggia,
galleggiavano da morte e foivano
barili e barili di olio. Si sviluppò così
una vera industria.
Nel 1845 i cetacei, mentre prima
se ne contavano circa 100 mila,
erano quasi estinti: erano così rari
che la caccia fu dichiarata antieconomica
e, in poco tempo, furono
chiusi i centri per la lavorazione
della carne e dell’olio, sorti sulle
coste.
Nel 1931, nell’Australia del sud,
iniziò una campagna di protezione
e, nel 1990, si arrivò alla riserva. Al
presente si contano circa 800 balene:
pesano anche 80 tonnellate e
misurano 17 metri di lunghezza.
Con un po’ di fortuna si possono
ammirare vicino alla costa durante
le migrazioni invernali.

Silvia Perotti




L’università cattolica del MOZAMBICO

UN FIORE NATO SULLA PACE

«L’identità cattolica
comporta assai di più
della recita del breviario
ad un’ora precisa,
della “lectio divina”…»
(padre Filipe J. Couto, rettore
dell’università cattolica
del Mozambico).
«Ho preso possesso
in uno sgabuzzino della
Conferenza episcopale
mozambicana,
con una sedia,
un tavolino
e senza un centesimo…»
(padre Francesco Ponsi,
vicerettore e amministratore
dell’università cattolica).

Scena e retroscena di un grande evento
E non è mancato
un sorso di whisky

L’università cattolica del Mozambico è un evento, un grande evento.
Nasce per volontà dei vescovi come strumento di giustizia, pace e democrazia.
La realizzazione è affidata ad un missionario della Consolata.
Inaugurata nel 1996, il rettore e vicerettore «inventano» poi le facoltà
di medicina e agraria. Meglio: valorizzano un liceo malandato dello stato
e una caserma di guerra. I carri armati sono ancora là…
Oggi l’università conta oltre 2.300 studenti in sei facoltà (economia,
medicina, scienza dell’educazione, diritto, agraria, turismo-informatica)
a Beira, Nampula, Cuamba e Pemba.

FRA DUE LITIGANTI
La guerra in Mozambico impazziva
da anni. E il popolo, esasperato,
«impose» il cammino verso la pace…
Così i belligeranti si ritrovarono
a Roma, presso la Comunità di S.
Egidio, per concertare la fine delle
ostilità. Però le discussioni si protraevano
sterili, interminabili. L’uomo
della strada insorse ancora: «Finitela!
Da oltre un anno e mezzo
mangiate e bevete a sbaffo, mentre
i nostri figli si scannano con i vostri
bazooka».
Nel giugno 1992 le trattative tra i
contendenti Frelimo e Renamo (Fronte
di liberazione del Mozambico e
Resistenza nazionale mozambicana)
erano ad un punto morto. Nel disegno
di ricostruire il paese, la Renamo
rinfacciava al Frelimo l’«asimmetria
regionale», ossia una specie di
colonialismo interno del sud rispetto
al centro-nord.
È possibile firmare l’accordo di pace
anche subito – incalzava la Renamo
-; però le cose continueranno immutate.
Per esempio: i giovani del
nord resteranno esclusi dalla formazione
universitaria; per ottenerla dovrebbero
raggiungere Maputo, dove
esistono tutte le strutture specializzate,
ma dove i nostri giovani non
hanno appoggi familiari o conoscenti.
Per non parlare di strade e trasporti.
Restando così le cose, tutti gli
sforzi di recare democrazia e giustizia
al paese rimarranno frustrati.
In tale contesto, per superare lo
stallo, Jaime Pedro Gonçalves, arcivescovo
di Beira e mediatore fra i
contendenti, lanciò un messaggio:
la chiesa cattolica si sarebbe impegnata
a fondare una università nel
centro-nord del paese. La coraggiosa
proposta sgelò l’ambiente di diffidenza
e recriminazione.
Il 4 ottobre 1992 Frelimo e Renamo
firmarono gli accordi di pace dopo
16 anni di guerra civile, che aveva
prodotto un milione di morti, milioni
e milioni di profughi interni,
devastazioni incalcolabili e aveva seminato
2 milioni di mine. Il paese,
con un reddito annuo pro capite di
soli 63 dollari, era da bonificare e ricostruire
dall’«a» alla «z», materialmente
e socialmente.
Si cominciò anche dall’università
cattolica, proposta da dom Gonçalves a nome dei vescovi del Mozambico.
Il progetto aveva entusiasmato
il presidente della repubblica Joaquim
Chissano. Era piaciuto anche al
papa Giovanni Paolo II.
Ma chi avrebbe posto «mano all’aratro»?

MA LE VIE DEL SIGNORE…
«I vescovi del Mozambico hanno
chiesto a me di mettere mano all’aratro…
». È la schietta affermazione
di padre Francesco Ponsi (*), vicerettore
e amministratore dell’università
cattolica. Con il rettore, padre
Filipe J. Couto, ci accoglie a braccia
aperte nella loro abitazione di Beira,
non facendoci mancare neppure un
pacchetto di wafers e un bicchierino
di Ballantine.
«Però, questi poveri missionari con
il Ballantine in tavola!» abbiamo malignato
mentalmente. Poi, osservando
il loro modestissimo alloggio, ci
siamo subito ricreduti. Biscotti e whisky
erano solo l’espressione di una
ospitalità squisita.
«Per iniziare l’università – racconta
padre Ponsi, in T-shirt bianca e
ciabatte nere nell’afa della sua camera
seminterrata -, il presidente
della Conferenza episcopale mozambicana,
dom Paulo Mandlate, si è rivolto
a vari istituti missionari, che
tuttavia non se la sono sentita di assumere
l’iniziativa. Però padre Franco
Gioda, superiore dei missionari
della Consolata, ha risposto: “Noi,
forse, noi uno che può farcela l’abbiamo”…». Cioè Francesco Ponsi,
docente nel seminario maggiore di
Maputo.
Questi rievoca sorridendo: «Il 1°
luglio 1993, dopo gli esami dei seminaristi
a Maputo, ho assunto l’incarico
in uno sgabuzzino della Conferenza
episcopale… con una sedia,
un tavolino e senza un centesimo».
Sennonché le vie del Signore sono
infinite. Ed ecco che, attraverso padre
Beniamino Guidotti e i professori
Felice Rizzi e Stefania Gandolfi (in
Mozambico a nome della Conferenza
episcopale italiana – Cei), al missionario
furono assegnati 25 mila euro:
non un granché per iniziare una università
da zero. Ma furono un catalizzatore,
come… i cinque pani e due
pesci (di evangelica memoria) che,
miracolosamente, sfamarono oltre 5
mila persone (cfr. Mc 6, 35-42). Infatti,
poi, la Cei donò altri 250 mila
euro per le sedi universitarie di Beira
e Nampula, nonché 200 mila euro
per le case dei professori a Nampula.
Oggi la chiesa italiana garantisce,
ogni sei mesi, 250 mila euro.
Né si scordi il contributo dei vescovi
del Portogallo, pari a 550 mila
euro, da aggiungersi a quello della
società filantropica Gulbenkia (Lisbona)
e della banca tedesca Merkur,
che offrì un prestito senza interesse.
Né è mancato il prezioso «obolo
della vedova», ancora di evangelica
estrazione: si tratta di donazioni di
istituti missionari, diocesi, parrocchie,
solo «offerte-
Couto,
un prestito
banca del
Mozambico Standard Tota (restituiti
con interesse). E gli studenti pagano…
Soprattutto si sta operando con
intelligenza e coraggio per raggiungere
l’autonomia finanziaria. La facoltà
di economia l’ha già conseguita
e quella di diritto quasi.

SUPERATA L’ASIMMETRIA
Il 10 agosto 1996 l’università ha
aperto i battenti a Beira con la facoltà
di economia e con quella di diritto
a Nampula. Il superamento della
temuta «asimmetria» è apparso
subito evidente con le due sedi universitarie
decentrate rispetto alla capitale
Maputo.
Dal 1998 Nampula ospita anche la
facoltà di scienza dell’educazione,
mentre dal 2000 Beira si è arricchita
dell’impegnativa medicina. Di più:
a Cuamba (nella dimenticata provincia
del Niassa), dal 1999 opera la facoltà
di agraria e, dall’anno scorso,
nella pittoresca e nordica Pemba si
studia informatica e turismo.
Complessivamente 2.300 giovani
frequentano l’università: sono cattolici
e musulmani, induisti e protestanti,
agnostici e credenti; appartengono
a sei facoltà, dislocate
in quattro città su una linea di circa
1.500 chilometri. «Cinque nostri
diplomati, dopo la specializzazione
in Zimbabwe e Botswana, operano
già in alcune sedi: uno è cornordinatore
alla facoltà di turismo e sarà
presto affiancato da un altro; il terzo
è direttore aggiunto alla facoltà
di agraria; la quarta persona è una
signorina, che sarà l’amministratrice
della facoltà di medicina, e la
quinta entrerà pure nell’organo direttivo
della medesima facoltà…».
Il vicerettore manifesta legittima
soddisfazione.
Il tutto in soli sei anni, mentre il
paese è ancora sanguinante per le
ferite della guerra civile ed è sottoposto
a drammatiche emergenze,
come l’alluvione di tre anni fa. Ma la
pace opera prodigi. E l’università
cattolica lo è.
«Dopo lunghe e faticose trattative
– annota padre Ponsi – lo stato ha
restituito alla chiesa cattolica alcune
strutture educative nazionalizzate:
come il grande liceo dei missionari
maristi di Beira e quello Nossa
Senhora das Victorias (Madonna delle
vittorie) di Nampula». Durante il
colonialismo erano centri efficienti
di studio; ma alla riconsegna le «crepe
» non si contavano. Oggi quegli
edifici, ristrutturati, sono la sede decorosa
di alcune facoltà.
L’università cattolica è nata con la
«c» maiuscola, al servizio del bene
comune, della giustizia sociale, della
pace… oltre che al servizio di una
professione ad alto livello. Questo è
sancito pure dallo statuto, dopo numerosi
incontri con l’università cattolica
del Portogallo e quella (all’inizio
cattolica) di Durban, in Sudafrica;
per non contare gli estenuanti
negoziati con i ministeri dell’educazione e della giustizia del governo
mozambicano. L’idea che l’università
fosse «per la gente del centro-nord»
si è fatta strada faticosamente tra alcuni
politici del sud.
«Però ce l’abbiamo fatta. Abbiamo
superato l’asimmetria. La nostra università
è la prima organizzazione nazionale
fuori della capitale».
Sembra davvero soddisfatto padre
Francesco, che si concede una pausa
ed accende la pipa.

SPADE IN ARATRI?
La facoltà universitaria che ci sorprende
di più è quella di agraria a
Cuamba: primo, perché è la più povera
ed isolata; secondo, perché sorge
in un’ex caserma di guerra. Sul
fondo, dietro gli edifici, alte erbacce
coprono autoblindo e carri armati,
con uccelli che cinguettano rincorrendosi
e bimbi che giocano. Dalle
carcasse arrugginite sono stati
divelti dei rottami. Per fae zappe
e badili?
… Forgeranno le spade in vomeri
per arare e le lance in falci per
mietere il grano, e i popoli non si
eserciteranno più nell’arte immorale
della guerra: fu il grande sogno di
un poeta sommo, 2.300 anni fa (cfr.
Is 2, 4). La profezia sta avverandosi
nel cuore del Mozambico dalla facoltà
di agraria?
A prescindere dai sogni, la facoltà
avrà un futuro roseo se Cuamba diventerà
un nodo stradale per le province
di Niassa, Cabo Delgado, Tete,
Zambesia e Sofala, province che non
possono ignorare l’agricoltura: un’agricoltura
che deve crescere tecnologicamente
superando la soglia della
zappa. Una agricoltura che, perfezionandosi,
potrà occupare con successo
anche i giovani, arrestando l’esodo
verso le città, cariche di lusinghe
e menzogne.
Ragiona padre Ponsi: «Un figlio di
contadini, diplomato in agraria, se
lo chiudi in ufficio a Maputo, non si
sente realizzato; egli ha bisogno del
campo, di incontrare gli agricoltori,
di vedere le loro condizioni per aiutarli.
Preparare un dottore in agraria
con tali orientamenti è un servizio
all’intera nazione. Intanto, mentre
frequenta l’università, deve accedere
alla biblioteca, al computer… Speriamo
di ottenere presto anche l’accesso
ad internet. Ma non basta conoscere
i problemi; bisogna risolverli
positivamente secondo la cultura locale».
Per venire incontro a tale esigenza
fondamentale, ecco che la facoltà
di agraria ha accettato l’apporto del
Centro di cultura della missione di
Maua, specializzato nello studio dell’etnia
dei macua (cfr. Missioni Consolata,
gennaio 2003).

«MAASTRICHT»
FA LA DIFFERENZA

E le altre facoltà?
Economia raccoglie il numero più
alto di studenti: quasi 800. Il fine è
quello di creare piccoli imprenditori
nei villaggi, capaci di gestire in proprio
un’attività, produrre posti di lavoro:
quindi sviluppo. A tale scopo,
si richiedono minicrediti iniziali, ma
anche fantasia innovativa. Alla facoltà,
i futuri piccoli imprenditori si
sentono spesso ripetere: «Osservate
i venditori del mercato informale nel
centro di Beira. È, come ben sapete,
il Chunga moyo (fatti coraggio). Attingete
da quei venditori (assai meno
istruiti di voi!) idee e costanza».
Ma, ad un tiro di sasso dal mercato
informale, spicca il supermercato
Shoprite: appartiene ad una catena
del Sudafrica. Il nome «shoprite» (il
rito di acquistare) è già un messaggio,
molto equivoco però. Non lontano
s’impone anche «il monumento
alla globalizzazione»: è una gigantesca
bottiglia di Coca-Cola che, da un
basamento circolare in cemento, si
staglia solenne sotto il cielo… La facoltà
di economia è chiamata a remare
anche controcorrente.
Sempre a Beira, un tardo pomeriggio
visitiamo la facoltà di medicina,
con il sole che ne illumina gloriosamente
la facciata. Ci accompagna il
rettore Couto. Una guardia giurata,
in divisa grigio-verde, scatta sull’attenti
al passaggio del «capo»… facendoci sentire noi stessi un po’ importanti.
L’apertura di medicina è merito del
rettore, che ha saputo fronteggiare
resistenze serie. Il Mozambico – si
obiettava – più che di medici necessita
di infermieri; e poi non è equipaggiato
per formare cardiologi, chirurghi…
Ma Couto replicava: puntiamo
prima su medici e, se non ce la
faremo, avremo ugualmente ottimi
infermieri. Ha vinto la scommessa.
Il problema non è solo la preparazione
professionale di medici, bensì
disporre di esperti di sanità in sintonia
(ancora una volta!) con la cultura.
La stragrande maggioranza dei
medici mozambicani lavora a Maputo;
solo un’esigua minoranza accetta
di operare nei villaggi. Occorre invertire
la tendenza.
«Si tratta di creare un “nuovo” medico
di eccellente qualità – spiega padre
Ponsi -, ma disposto a servire i
poveri e dimenticati dalle strutture.
Non per forza deve essere un missionario,
ma con il suo spirito, sì. È necessario
un professionista che, dopo
la laurea, continui a leggere la realtà
in cui vive. Formare professionisti
con una mentalità di ricerca e aggioamento
permanente comporta
una struttura di sostegno, che non si
limita alla facoltà di medicina; implica
che l’università formi medici per
la società e continui ad accompagnarli
con libri, computers e incontri
fra loro via internet e congressi inteazionali…
Esiste pure una medicina
a distanza, che si estende a tutti
i centri di salute dove le comunità
devono essere seguite…».
«La nostra facoltà di medicina deve
essere non solo un luogo dove si
studia, ma anche una sede di scambio
di esperienze: una facoltà che
utilizzi, come metodo di studio, il
problem based leaing (apprendere
partendo da problemi concreti),
già sperimentato in Olanda da 20
anni all’università di Maastricht. Anche
noi l’abbiamo assunto…».
In facoltà incontriamo alcuni docenti,
fra cui padre Elias Arroyo, medico
missionario comboniano messicano,
e suor Donata Pacini, anch’essa
dottoressa comboniana. È poi la
missionaria ad accompagnarci nella
visita a medicina.
Ci soffermiamo davanti ad un murale
naif, che esprime bene l’animus
dello studio nella facoltà secondo il
problem based leaing: partito dal
villaggio, il dottore neolaureato vi
ritorna per servire la comunità secondo
le esigenze e lo stile di vita
locali. All’università studia in gruppo,
ricorre constantemente alla biblioteca
(è necessario quindi conoscere
l’inglese), fa pratica su manichini
anatomicamente perfetti, non
su cavie umane.
La novità del problem based leaing
non è solo di metodo, ma (e soprattutto)
di approccio tra professore
e studente, dove il primo non è il
soggetto protagonista e il secondo
oggetto. Tra i due si sviluppa un rapporto
alla pari, simile a quello della
«maieutica» di Socrate. Nel dialogo,
il grande maestro greco aiutava l’allievo
a cogliere la verità con domande
«curiose»: «Non ti pare che io fossi
nel giusto?… O tu avresti paura
che…?» (Platone, Fedone, passim).

STUDENTI CHE RECUPERANO
Purtruppo non incontriamo studenti,
perché sono in vacanza. Tuttavia
ne salutiamo alcuni in biblioteca.
«Sono in ritardo con il piano di
studi rispetto ai compagni di gruppo
– spiega la professoressa Karin,
austriaca, della facoltà di economia
-. Se non vogliono essere emarginati
dai loro stessi colleghi, devono recuperare».
Sugli studenti si sofferma anche
suor Dominique, delle orsoline italiana,
responsabile dell’immatricolazione
ad economia e impegnata a
Beira nella pastorale della donna. Il
mondo femminile esige soprattutto
rispetto e riconoscimento della propria
dignità. «Quanto alla lotta contro
l’Aids – aggiunge la missionaria –
si punta sulla prevenzione, secondo
il principio dell’amore responsabile.
Il preservativo è accettato come ultimo
mezzo di prevenzione».
Dominique non nasconde la propria
apprensione di fronte al comportamento
di alcune studentesse
universitarie, perché vi sono gravidanze
extramatrimoniali e aborti.
Le consorelle Damiana e Raffaella
insegnano etica, basata sulla dottrina
sociale della chiesa, una disciplina
che caratterizza la «cattolica».
Se condividono la preoccupazione di
suor Dominique, sottolineano anche
i fattori positivi.
«Noi privilegiamo gli studenti poveri
– ci confida suor Damiana -, ma
non escludiamo i ricchi, quasi tutti
appartenenti all’induismo e all’islam.
I musulmani tirano un sospiro di sollievo
quando affermiamo che la religione
non può essere imposta… che
la democrazia non è né comunismo,
né capitalismo, né teocrazia… che
occorre valorizzare la cultura tradizionale,
fondata pure sulla disciplina…
Uno studente della campagna,
mi ha detto: “Suor Damiana, ora non
mi vergogno più di essere figlio di
contadini…”. Io conosco universitari
che dormono in capanne e studiano
al lume di candela. Questi vanno
aiutati».

SOFFERENZE E GIOIE
Qual è il «peso» della chiesa nell’università
cattolica?
«È sufficiente dire che l’università
è della chiesa – risponde padre Ponsi
– : una chiesa esperta in umanità,
che lotta per la giustizia, la pace, il
dialogo e la riconciliazione fra le religioni,
le etnie, i partiti… La gerarchia
ecclesiale si è attirata anche critiche,
perché si assiste ad una certa
competizione tra seminaristi e universitari.
Fino a ieri si entrava in seminario
anche per studiare e poi, magari,
fare strada in politica. Oggi è un
po’ diverso: chi sogna una carriera civile
non entra in seminario. Questo è
positivo. Qualcuno dice che l’università,
proprio perché cattolica, è settaria,
fondamentalista. Non è vero. I
frutti lo dimostrano»…
Siamo sempre nell’afosa stanza seminterrata
di padre Francesco Ponsi,
dove l’abbiamo ascoltato a lungo, ora
in attesa anche della cena con il Ballantine
per aperitivo.
Nel frattempo poniamo al vicerettore-
amministratore dell’università
cattolica il seguente ed ultimo
quesito: «Che cosa ti ha maggiormente
rallegrato e rattristato nella
tua esperienza?».
«Mi ha rattristato lo scetticismo
di alcuni uomini di chiesa, che ci
hanno ritenuti dei matti ridendo alle
nostre spalle. Certo, ci sono stati
dei rischi, ma anche delle opportunità,
che mi hanno fatto toccare
con mano valori evangelici che prima
ignoravo. Come prete missionario,
mi sono trovato in un cammino
di crescita personale e spirituale. Mi
ha rallegrato il fatto che il cammino
sia avvenuto in compagnia di
Gesù Cristo: lo dico però “balbettando”.
Se avessi continuato a insegnare
in una situazione di sicurezza,
non avrei avuto questa esperienza
unica nella vita…».
«Basta con le chiacchiere! La minestra
si raffredda in tavola…». È il
rettore magnifico dell’università,
padre Filipe José Couto, che parla e
comanda.

(*) PADRE FRANCESCO PONSI,
cuneese di 61 anni, missionario
della Consolata, laureato in sociologia
statistica e demografia
a New York.
È docente per otto anni all’università
di Addis Abeba (Etiopia)
e per cinque è in Kenya come ricercatore
nella pastorale dei nomadi.
In Mozambico insegna nel
seminario di Maputo. «Fonda»
l’università cattolica, di cui oggi
è vicerettore e amministratore.

Università cattolica
PERSONAGGI, DATE, LUOGHI, NUMERI
Nel giugno del 1992 l’arcivescovo
di Beira, Jaime Pedro Gonçalves, durante
i colloqui di pace a Roma tra
Frelimo e Renamo, lancia l’idea di
una università cattolica. Dopo l’approvazione
dei vescovi mozambicani,
la realizzazione del progetto è affidata
a padre Francesco Ponsi.
Il 10 agosto 1996 l’università inizia
con due facoltà: economia-amministrazione
a Beira e diritto a Nampula.
Successivamente si aggiungono altre
quattro facoltà:
– scienza dell’educazione a Nampula
(1998)
– agraria a Cuamba (1999)
– medicina a Beira (2000)
– turismo-informatica a Pemba
(2002).
Gran cancelliere: Jaime Pedro
Gonçalves, arcivescovo di Beira.
Rettore magnifico: Filipe José Couto,
missionario della Consolata mozambicano.
Vicerettore e amministratore: Francesco
Ponsi, missionario della Consolata.
I docenti sono 230: i mozambicani
sono il 50%; poi portoghesi, italiani,
spagnoli, brasiliani, austriaci, russi,
messicani, ecc. (religiosi e laici).
Gli studenti sono 2.336 (di cui il
48% donne), così distribuiti per facoltà:
economia-amministrazione
750, medicina 180, diritto 580,
scienza dell’educazione 490, agraria
236, turismo-informatica 100.
Tasse annuali di iscrizione: 500, 750
e 1.000 euro, secondo le facoltà. Alcuni
studenti bisognosi usufruiscono
di borse di studio.
Dall’apertura dell’università, 252
studenti conseguono il bacellierato
(una sorta di laurea breve) nelle varie
facoltà (il 50% donne). Particolarmente
soddisfatti sono i primi cinque
bacellieri in agraria, la facoltà più
povera. L’avvenimento viene festeggiato
anche con una eucaristia, il 28
agosto 2002, presieduta dal vescovo
di Lichinga Luis Ferreira Gonçalves,
che consegna i diplomi.
PER INFORMAZIONI:
Missionarios da Consolata
Avenida Eduardo Modlane 715
CP 544 – Beira (Mozambico)
e-mail: imc.beira@teledata.mz

L’ESEMPIO DI CHISSANO
Don Matteo Zuppi, della comunità di S. Egidio, è stato uno dei mediatori
negli accordi di pace del 1992. Il sacerdote è tornato in
Mozambico nel giugno scorso e ha celebrato a Nampula il 10° anniversario
degli accordi, alla presenza di 2.800 giovani. Ad essi ha ricordato
che la pace non si conquista una volta per sempre, ma si costruisce
giorno per giorno dall’«interno». Dall’«esterno» si può dare una
mano. Ma saranno i mozambicani a dover ricostruire il loro paese.
Parole opportune per una nazione fragile culturalmente e ideologicamente.
Gli anni di indottrinamento marxista e il successivo periodo
hanno minato i valori della società tradizionale. Ora il paese si apre al
futuro senza molti punti di riferimento. I pericoli di prendere la strada
sbagliata sono molti. I politici sono tentati dal denaro facile, dall’arroganza,
dalla corruzione. Il popolo, sentendosi defraudato, può essere
tentato dalla violenza o dall’indifferenza, dalla corruzione a basso livello
e dal furto.
L’attuale presidente Joaquim Chissano ha deciso di non ripresentarsi
alle elezioni del 2004: una decisione lodevole, dato che sono pochissimi
i presidenti africani che lasciano il proprio posto volontariamente.
Il candidato alla successione è Armando Guebuza, storico del Frelimo,
che ha partecipato alla guerra per l’indipendenza al fianco di Samora
Machel. È stato anche il rappresentante del Frelimo durante i
colloqui di pace del 1992.
S iamo ottimisti sul futuro del Mozambico. I mali della nazione sono
una realtà; ma è altrettanto innegabile che questi ultimi anni hanno
rappresentato un importante passo
avanti: la pace è stata mantenuta;
anche se con ritardi, si stanno realizzando
diversi programmi di sviluppo;
i partiti politici stanno imparando la
ginnastica della democrazia; la corruzione,
specialmente se paragonata
a quella di altri paesi, è contenuta
entro limiti tollerabili.
Mozambico, buona fortuna!
JUAN GONZÁLEZ NUÑEZ

Francesco Beardi Lino Carpaneto




L’università cattolica del MOZAMBICO

Intervista con il rettore Filipe J. Couto
Per non essere
accattoni

All’università cattolica abbiamo soprattutto incontrato
padre Filipe J. Couto, rettore magnifico:
nell’arco di 13 giorni ci ha accompagnati in aereo,
auto e treno in tutte le facoltà.
Un pomeriggio a Nampula, all’ombra di un mango,
ci ha rilasciato la seguente intervista.
È troppo poco definire le risposte «interessanti».

Signor rettore, non c’è rosa senza
spine. C’è qualche spina all’università
cattolica?
Nel 1997 c’è stato uno sciopero
generale nella facoltà di diritto, perché
il decano, il vicedecano e tre docenti
portoghesi si erano dimessi. E
questo ad appena un anno dall’apertura
dell’università.
Cos’è avvenuto?
È avvenuto che i suddetti docenti,
non concordando con la linea del rettore,
si sono appellati al gran cancelliere
dell’università, l’arcivescovo
Jaime Pedro Gonçalves. Ma questi ha
risposto: non posso rimuovere il rettore
per causa vostra, e gli interessati
in 24 ore si sono
dimessi. Poi gli studenti,
per evitare ulteriore
caos, si sono schierati con
il rettore.
L’università cattolica è nata per
ridurre l’«asimmetria» rappresentata
anche dall’università
statale di Maputo. Oggi come
sono i rapporti fra i due atenei?
Sono come le mani del corpo: fra
i due atenei c’è collaborazione.
L’università statale considera
quella cattolica un fattore di sviluppo,
che cornopera con il governo
ed altri enti dello stato al bene comune.
E l’università cattolica
non intende staccarsi dal contesto
nazionale: proprio come
una mano nel corpo umano.
La statale opera nel sud
del paese (Maputo e dintorni);
invece la cattolica
lavora nel centronord.
Però l’università
cattolica è presente anche
a Maputo con l’istituto
«Maria, madre dell’Africa», dove si insegna
teologia della vita consacrata
e si tengono corsi
per educatori sociali.
Oggi il Mozambico
necessita di esperti
che sappiano
anche rimboccarsi
le maniche…
Ben detto! Proprio a questo mira
l’università cattolica. Ecco perché si
stabilisce il periodo di studio: da un
minimo di quattro anni ad un massimo
di sette. Poi si deve andare a
lavorare come impiegati statali o nel
settore privato come imprenditori.
Vogliamo che l’università sia legata
al mondo del lavoro in genere: scuole,
negozi, imprese… Una università
aperta anche ad altri paesi: Malawi,
Zimbabwe, Sudafrica, Tanzania.
La «cattolica» è frequentata anche
da protestanti, musulmani,
induisti. Quale clima interreligioso
si respira?
Ieri a Nampula siamo passati davanti
ad una università islamica, che
ha iniziato con una piccola facoltà di
agraria ed economia. Che Allah l’aiuti!
Dobbiamo tenere conto anche di
questa esperienza: per esempio, non
vedo perché qualche nostro professore
non possa insegnare anche in un
centro musulmano.
Allora in che consiste l’«identità
cattolica» dell’università?
L’università si ispira alla dichiarazione
pontificia Ex corde Ecclesiae.
Premesso che in tutte le facoltà si
parla di Gesù Cristo e si insegna etica,
occorre anche ricordare che un
cattolico perde la sua identità se si
isola: in tale caso, non è più cattolico,
ma settario. L’identità cattolica
comporta assai di più della recita
del breviario ad un’ora precisa, della
lectio divina… Hai presente l’esperienza
di san Pietro con Coelio?
Sì, ma ricordala tu ai lettori della
rivista.
Secondo gli Atti degli apostoli (10,
9-30), un giorno san Pietro vede un
lenzuolo con degli animali ritenuti
impuri dagli ebrei osservanti, e una
voce che gli dice: mangia. Ma lui, da
bravo ebreo, risponde: no. E la voce:
tu non devi considerare impuro ciò
che Dio ha creato. Poi Pietro incontra
Coelio, un romano pagano, animato
però dallo Spirito Santo. L’apostolo
dice a se stesso: io non posso
negargli il battesimo solo perché
non è ebreo.
Che c’entra questo con l’identità
cattolica?
C’entra, c’entra! A volte chi vuole
salvare l’identità cattolica è un credente
pigro, chiuso in se stesso, non
aperto alla voce dello Spirito Santo,
e considera impuro ciò che impuro
non è.
Per accedere all’università uno
studente deve pagare ogni anno
da 500 a 1.000 euro, secondo le
facoltà. Non sono cifre alte in un
paese povero?
L’università fa tutto il possibile
per abbassare i costi e venire incontro
agli studenti bisognosi. Ma,
per aiutare, ci vogliono mezzi: l’università
cattolica non ne possiede
molti. Allora ben vengano le borse
di studio! Se la chiesa ha dei soldi,
ben vengano, anche perché l’università
non li trova per strada… E
senza denari, non è possibile comprare
libri, avere buoni professori…
Però mi domando: fino a quando
dobbiamo continuare a dare e dare?
Si raccomanda l’autonomia economica
nel terzo mondo; ma non basta
auspicarla, bisogna farla… Oggi abbiamo
2.300 studenti (che pagano
facendo sacrifici), e si va avanti.
L’università cattolica impressiona
positivamente anche per la
disciplina che vi regna… Qual è
l’atteggiamento di fronte a comportamenti
sessuali che possono
causare sieropositività?
Siamo severi e raccomandiamo il
massimo controllo di se stessi. Tuttavia
il sieropositivo non è escluso
dall’università, ma gli si suggerisce
come curarsi.
Entrando all’università, si richiede
allo studente il test dell’Aids?
Lo si consiglia con tatto. Molti studenti
vi si sottopongono liberamente.
Però i testimoni di Geova, contrari
a trasfusioni di sangue, rifiutano
il test.
Come vedi il futuro dell’università
cattolica?
La speranza è di poter contare su
persone competenti, non fanatiche,
che credono in ciò che fanno: persone
che con la loro presenza diano
un’impronta all’università. L’ho detto
anche al cardinale Saraiva, ex rettore
della pontificia università urbaniana
(Roma), prefetto delle «cause
dei santi». Egli mi ha risposto: questo
è «il» problema di tutte le università
cattoliche.
Inoltre vorrei che all’università ci
fossero più insegnanti seri di etica
che riflettano profondamente.
L’etica dell’«homo ludens» (la
persona che gioca) o quella
dell’«homo faber» (la persona
che costruisce)?
Soprattutto l’etica dell’homo faber.
La Germania, sia in ambito cattolico
che protestante, ha dei consiglieri di
etica, e ritiene che nel rapporto fra
capitale e forza-lavoro la presenza di
tali consiglieri debba essere del 50%
in ambo le parti.
Infine all’università noi dovremmo
avere docenti apartitici, dediti solo
all’insegnamento.
Tu hai sposato il pensiero del
partito Frelimo, ne conosci tutti
i leaders del passato e presente.
Qual è la tua posizione, se l’università
non deve schierarsi con
alcun partito?
Io non sono il segretario di un partito;
lavoro in una università della
chiesa cattolica.
Quindi hai dimenticato la tua
appartenenza al Frelimo!
No!… In Italia a chi ti chiede «per
quale partito voti?», tu giustamente
puoi rispondere che il voto è segreto…
All’università io non faccio
propaganda per il Frelimo. Ma questo
non significa che non abbia una
preferenza di partito. Se la mia posizione
politica non è gradita, i vescovi
mi possono sempre rimuovere.
I vescovi, nello scegliermi come rettore,
non mi hanno detto niente.
Mia Couto ha scritto: «Un tempo,
quando c’era una visita di politici
o stranieri, avevamo l’ordine
di non mostrare un paese mendicante…
Ora invece bisogna mostrare
la popolazione con la fame
e le malattie contagiose. La nostra
miseria sta diventando positiva.
Per vivere in un paese di
mendicanti, è necessario esibire
le ferite, mostrare i bambini con
le ossa fuori».
Rettore Couto, qual è il tuo parere
al riguardo?
Il romanziere Mia Couto colpisce
nel segno giusto… L’università cattolica
non è solo una sfida alla povertà,
ma anche al comportamento
da mendicanti.

LA PERLA
DELLO SVILUPPO

In ricordo di Paolo Carpaneto
Ho visitato il Mozambico con uno scopo: verificare
in loco le strutture, l’impostazione, l’efficienza, la
situazione generale dell’università cattolica (UCM), retta
da due missionari della Consolata, per eventuali borse di
studio a nome di mio figlio Paolo.
Dopo la sua morte (21 ottobre 1996), sorse in mia
moglie Mariuccia e in me il desiderio di prendere qualche
iniziativa per aiutare, in ricordo di Paolo, la promozione
culturale di giovani in paesi in via di sviluppo.
Padre Francesco Beardi ci parlò della UCM, da poco
nata, con l’invito ad attendee gli sviluppi… Maturati i
tempi, il missionario suggerì di recarsi in Mozambico
per capire meglio la situazione. Decidemmo di metterci
in viaggio nell’estate scorsa. E così fu.
All’aeroporto di Torino-Caselle, la prima piccola avventura:
le forbici da barbiere! Padre Beardi aveva riposto
le forbici nel bagaglio a mano; quindi, passando
attraverso i controlli di sicurezza, furono evidenziate dal
metal detector e fatalmente sequestrate. A nulla valsero
le spiegazioni e suppliche del missionario: «Mica sono
un terrorista!». Così le forbici, che da 30 anni lo avevano
accompagnato nei suoi viaggi per il mondo, finirono
in un inverecondo contenitore di oggetti di scarto.
Lascio immaginare la costeazione dell’interessato.
Quali le impressioni sul viaggio e sull’università? Si
possono riassumere in una frase: sono partito con
molte buone intenzioni e sono ritornato pieno di ragionato
entusiasmo.
Buone intenzioni, perché? Forte e profondo è stato
il desiderio di ricordare Paolo in modo duraturo e a certe
condizioni; finalmente si è presentata l’occasione che
rispondeva ai nostri desideri. Ragionato entusiasmo, perché?
Quello che ho visto in Mozambico in generale e nell’università
in particolare è andato oltre ad ogni ottimistica
aspettativa; di qui l’entusiasmo che, quasi con fatica,
ho dovuto razionalizzare.
Cosa mi ha colpito di più? La gente: questi bantu con
le loro tradizioni, la cultura, semplicità e disponibilità al
sorriso, l’affetto verso i missionari e il desiderio di vivere,
quasi a voler recuperare in pace il tempo perduto in
guerra. Altre favorevoli impressioni: l’innata eleganza del
portamento (soprattutto delle donne), la dignitosa povertà,
non miseria (non ho incontrato un solo mendicante,
al di fuori di Maputo; ma – si sa – le capitali sono
sempre crogiuoli dove si fondono gli elementi più eterogenei
e con maggiori difficoltà). Mi ha colpito il ruolo
fondamentale della donna, il rapporto mamme-bambini,
il rispetto di questi verso gli adulti, la consapevole e
composta partecipazione alle celebrazioni religiose.
Mozambico, una nazione veramente in via di sviluppo
con un costante indice di crescita, che si ripercuote
su particolari abbastanza significativi della vita quotidiana.
Un esempio: in alcune zone del nord, considerate le
più arretrate, il numero di biciclette, dopo 10 anni dall’accordo
di pace (4 ottobre 1992), si è quasi centuplicato.
E non sono poche le donne che ne fanno uso.
Ma è l’università cattolica, scopo del viaggio, la «perla
» dello sviluppo in corso. L’università, voluta dai
vescovi mozambicani e realizzata dai missionari della
Consolata (con il coraggio di padre Franco Gioda, allora
superiore, e il duro, costante lavoro di padre Francesco
Ponsi, attuale amministratore e vicerettore), è la prima
organizzazione nazionale con sede fuori della capitale
Maputo. È stata riconosciuta dal Consiglio dei
ministri del Mozambico quale unità autonoma di utilità
pubblica a beneficio della società. Padre Filipe J. Couto,
mozambicano, ne è il rettore.
L’università nasce nel 1996 con tre priorità: è un
mezzo al servizio della pace; è attenta ad evitare gli errori
commessi in altre università; è un’entità universale,
non settaria, aperta a tutti, per formare persone con un
servizio di qualità alla comunità. Non a Maputo, dove già
esiste l’università statale e dove gravita quasi tutta la vita
del paese, ma nel centro/nord, per dare ai giovani di
quelle province, spesso dimenticate, la possibilità di una
valida formazione e iniziare a correggere gli squilibri causati dal potere accentratore della capitale.
All’UCM si respira aria pulita, in quanto regnano ordine,
serietà, competenza, desiderio di far bene. Entrando
nelle diverse facoltà si avverte il senso di responsabilità
e la carica di entusiasmo che anima tutti: il rettore,
i professori, gli ultimi assunti, gli studenti. Tutti
contribuiscono con impegno alla vita e alla crescita dell’università.
Interessante è il coinvolgimento degli studenti nelle
facoltà di medicina, agricoltura e turismo, dove è stato
introdotto dall’inizio il metodo di «apprendimento basato
sui problemi» (problem based leaing): un metodo
che verrà assunto presto anche nelle altre facoltà,
che hanno iniziato con l’impostazione tradizionale.
Secondo l’«apprendimento basato sui problemi», si
assegna un argomento agli studenti (in gruppi di otto),
che lo sviluppano avvalendosi di testi in biblioteca; lo dibattono
fra loro affiancati da un assistente; periodicamente
gli studenti devono rispondere sul lavoro svolto;
nel corso dell’anno il gruppo stesso elimina eventuali studenti
svogliati, di rendimento insufficiente. A fine anno
ogni studente affronta gli esami personali, dove si valuta
l’idoneità al passaggio all’anno successivo. Non esiste
la figura del professore titolare di cattedra.
Il metodo responsabilizza gli studenti, li rende parte
attiva e forma in essi una mentalità di ricercatori, qualità
indispensabile quando, laureati, eserciteranno la professione.
Il successo dell’UCM presso i giovani del centro-nord
del paese è confermato dal numero crescente di presenze
che, nell’anno accademico 2002/03, supera le
2.300 unità con una massiccia partecipazione di ragazze:
quasi la metà degli studenti. Questo è il fatto
che maggiormente stupisce, ma che a sua volta sottolinea
l’evolversi positivo della promozione della donna.
Inoltre, se il corpo accademico è costituito per metà da
personale straniero, l’altra metà è mozambicano, con la
certezza di aumentare il numero nei prossimi anni.
Molte sono le persone di spicco. Basti citare i coniugi
Jan e Frouke Draisma, responsabili della facoltà di
Scienza dell’educazione (Nampula), che hanno rinunciato
alla cittadinanza olandese per naturalizzarsi mozambicani.
Però sopra tutti svettano il rettore, padre
Couto, e vicerettore-amministratore, padre Ponsi: due
personalità diverse e complementari.
Padre Couto è una mente vulcanica lanciata verso il
futuro, prolifico di nuove idee, conosciuto ed apprezzato
in tutto il paese per il suo impegno nella lotta di liberazione
nazionale, con ampie entrature in tutte le direzioni,
sostenitore di una ferma disciplina in seno all’università.
Padre Ponsi, piemontese pacato, figura di gentleman
inglese, con una profonda esperienza di studioso e
docente, amministratore provetto di assoluta affidabilità.
Entrambi animati da una solida fede, da un elevato spirito
missionario, fermamente convinti del valore dell’università
cattolica. È la migliore garanzia per il futuro.
LINO CARPANETO

Francesco Beardi Lino Carpaneto




CONTENTI DELLA PROPRIA IDENTITÀ

Sono contento di essere protestante perché…
Libero…
Come… il gatto?
Perché non prendere un poco più sul serio
i «versetti della gioia» contenuti nella bibbia?

Èfacile imbattersi in cittadini che
si dichiarano contenti di essere
italiani, inglesi o tedeschi…
Non è altrettanto frequente incontrare
persone che si dichiarano felici
di essere cattolici, protestanti o ortodossi…
Ma ci sono!

AFFARE SERIO!
Il famoso teologo protestante,
Jürgen Moltmann, nel volume Dio nel
progetto del mondo moderno (Queriniana
1999), inizia il capitolo intitolato
«Il protestantesimo come religione
della libertà» con questa domanda
personale: «Perché prediligo
il protestantesimo? Perché sono tanto
volentieri protestante?».
E risponde senza esitazione: «Per
motivo della libertà: libertà davanti a
Dio nella fede, libertà della religione
nei confronti dello stato, libertà di
coscienza nei confronti della chiesa».
Già nella prefazione del suo libro, il
teologo si permetteva di riportare la
storiella un po’ ironica di Hans Mayer.
«Al mondo appena nato vennero a fare
gli auguri tre buone fatine. La prima
augurò al bambinello libertà individuale;
la seconda giustizia sociale;
la terza prosperità. Ma sul fare della
sera arrivò la fatina cattiva, per dirgli
che soltanto due desideri potevano
essere esauditi. Così il mondo moderno
occidentale scelse libertà e benessere,
scartando la giustizia. Il
mondo orientale scelse giustizia e
prosperità, scartando la libertà».
L’affare è serio. Ma ciò spiega l’atteggiamento
giornioso di Moltmann.
Ma liberi come? Come il gatto? Che
gioca, è autodidatta, non va a scuola,
non obbedisce a nessuno?

IL GIOCO DI POLLYANNA
A riguardo dei protestanti c’è quel
delizioso romanzo, Pollyanna, scritto
nel 1912 da Eleonora Porter.
Pollyanna è la figlia di un pastore
protestante; rimasta orfana a undici
anni è affidata a una zia, anch’essa
protestante molto rigida. Lei è invece
una bimba serena, piena di vita,
sempre contenta; anche nelle situazioni
poco piacevoli finisce col dire:
«Meglio così».
Suo padre le aveva insegnato il bellissimo
gioco di essere contenta. Un
giorno la bambina lo insegnò anche
al pastore del paese in cui viveva con
la zia, Paul Ford, del tutto sfiduciato
perché la gente non lo seguiva. Aveva
preparato per la funzione domenicale
un sermone più forte del solito
per tentare di scuotere il suo gregge.
Per trovare un po’ di quiete, il pastore
era uscito all’aria libera, con in
tasca il sermone, ruminando sul da
farsi. A questo punto lo sorprese Pollyanna,
che aveva intuito il suo stato
d’animo, e avviò la conversazione.
– Signor Ford, è contento di essere
pastore?
– Se sono contento! Perché mi fai
questa domanda?
– Non so! Ma mi è venuto in mente
mio padre. Anche lui ce l’aveva qualche
volta… ed io gli chiedevo se era
contento di essere pastore. Proprio
come ora lo chiedo a lei.
– E che cosa rispondeva tuo padre?
– Rispondeva di sì, naturalmente. Ma
di solito aggiungeva che non avrebbe
continuato neanche un giorno, se
non ci fossero stati nella bibbia i versetti
della gioia.
– I versetti di che cosa?
– Papà li chiamava così – rise la bambina
-, ma lo so che non hanno questo
nome nella bibbia. Sono tutti
quelli che cominciano con «state
sempre lieti», «giornite nel Signore»,
«cantate canti di gioia». Ce ne sono
tanti nella bibbia. Un giorno papà era
tanto triste e si mise a contarli. Sono
800! Diceva che se Dio si era dato
pena di esortarci per 800 volte a
essere contenti, doveva essere importante.
E furono questi versetti a
suggerirgli l’idea di quel gioco: il gioco
bellissimo di essere contenta.
Tempo fa il card. Ruini, forse in un
momento di scoramento simile a
quello del pastore Paul Ford, scrisse:
«Chiuso il secolo dell’ateismo, si apre
in occidente quello del cinismo: un
avversario forse meno provocatorio,
ma più subdolo».
Quanto agli atei non è raro il caso
di imbatterci in atei soddisfatti e ultra
contenti di esserlo.

Sono contento di essere cattolico perché…
Sono in bella
compagnia
Nella bellezza, «luogo» privilegiato di teofania,
e con una schiera di personalità eccezionali, dai primi
secoli ai nostri giorni, mi fanno sentire a mio agio.

La domanda di Pollyanna al pastore
Ford può essere rivolta ai cattolici
che s’incontrano per strada o in
chiesa: «Sei contento di essere cattolico?».
E lo domando a me stesso.

BELLEZZA A CIELO APERTO
Posso dire di esserlo, anzitutto, come
lo può essere un buon «turista».
Da un punto di vista artistico in Italia
(e non solo) il cattolicesimo splende
per bellezza e a cielo aperto, alla
portata di tutti: una conquista plurisecolare
del regno spirituale di Dio,
perché la bellezza è uno dei «luoghi
teologici» più eloquenti e più facili,
lievito e fermento.
Qui lo spazio fiorisce come un immenso
giardino, con maestosi edifici,
basiliche, cattedrali, campanili
svettanti da tutte le parti. C’è la forza
e semplicità del romanico, gli slanci
e splendore del gotico, lo svolazzare
del barocco… E dentro a questo
svariare di forme non c’è solo il genio
degli artisti, ma l’anima di intere popolazioni
credenti. In certe basiliche,
più ancora nelle loro cripte, si sente
che vi si è voluto dare corpo al silenzio
orante, per rendere più facile la
sensazione della presenza di Dio.
Il poema sacro di Dante, al quale
«han posto mano e cielo e terra», l’arte
sacra pittorica, diffusa come libri
di una biblioteca popolare, la musica
religiosa, comprese le ispirate melodie
del canto gregoriano… sono bellezze
cresciute dappertutto.
Nel Commento alla vita di Don Chisciotte,
quello spirito tormentato di
Miguel de Unamuno (1864-1937)
scrive una pagina incantevole: «Passando
un giorno per León, mi recai a
contemplare la sua meravigliosa cattedrale
gotica, quell’immensa lampada
di pietra, nel cui seno salmodiano
i canonici al suono dolce e grave dell’organo.
Guardando le attorte colonne,
i finestroni dalle grandi vetrate,
per le quali la luce si rinfrange e
diffonde in mille colori, pensai: quanti
desideri silenziosi, muti aneliti,
pensieri reconditi non avranno accolto
le pietre di questo edificio! Quante
invocazioni mormorate o tacitamente
formulate, preghiere, lamenti,
dichiarazioni d’amore, imprecazioni,
rimproveri! Quanti segreti versati nell’ombra
del confessionale!
Se ora tutti questi desideri, aneliti,
pensieri, preghiere, mormorii, invocazioni,
imprecazioni, dichiarazioni,
lamenti e segreti cominciassero a
cantare, soverchiando a poco a poco
la monotona salmodia liturgica del
coro canonico? Se si svegliassero le
voci che dormono nella cattedrale e
prorompessero in un unico canto, la
cattedrale crollerebbe, spezzata dall’impeto
dell’immenso clamore, e le
voci liberate, cercherebbero il cielo.
Ma una cattedrale spirituale sorgerebbe
più aerea e luminosa e insieme
più salda, un immenso duomo che innalzerebbe
colonne di sentimenti diramantisi
sotto la gran volta del cielo
di Dio, un immenso duomo, libero
dal suo peso morto, con le sue arcate
e pilastri ideali».
François René de Chateaubriand
(1768-1848), ferito quasi a morte nel
sentimento religioso dalle negazioni
degli enciclopedisti e sacrileghi orrori
dei sanculotti, scrisse Il genio del
cristianesimo. Pure il «genio del cristianesimo»
cattolico, espresso nell’arte,
chi potrebbe negarlo?

COME UNA LUCE INFINITA
Nel 1885 G. F. Gamurrini scoprì nella
biblioteca di Arezzo la cosiddetta
Peregrinatio Eteriae: diario di una piissima
dama del suo viaggio in Terra
Santa, Egitto, Edessa, compiuto alla
fine del IV secolo e durato tre anni.
Nel suo libro si sofferma a descrivere
anche le liturgie a cui poté assistere
a Gerusalemme. Rimase come
abbagliata dall’«Ufficio della luce»
(licinicon), quando al cadere della
notte, nella grande basilica, tra il
canto dei salmi, venivano accese le
lampade a olio, ed essa esclama: Et
fit lumen infinitum.
Anche questo ha insegnato il cristianesimo:
pregare nella luce anche
al cadere del sole. La luce che s’intravede
attraverso la cruna di un ago
o un’apertura di dieci metri è pur
sempre la stessa luce.

LA VOCE DEI PADRI…
Cosa accadrebbe se, come immaginava
Unamuno nella cattedrale di
León, prendessero voce, tutti insieme,
gli scritti dei cosiddetti «padri
della chiesa»? Jacques-Paul Migne
(1800-1875), operoso e intraprendente
prete francese del sec. XIX, ha
raccolto in 459 volumi gli scritti degli
autori latini e greci.
Quale piacevole cosa poter visitare
questi vecchi amici e intrattenersi
con loro. Oltre che alle opere di Agostino
(ne ha scritti circa 1.030), m’inchino
davanti a quelle di Giovanni Crisostomo
(344-407); con lui saluto
Olimpia, l’avvenente dama dell’imperatrice
Eudossia, ma che era di altra
natura e risplendeva di luce propria.
A lei il patriarca Crisostomo insegnò
a superare le disdette della vita
con la metropathia, senso della misura.
Anche la vita spirituale è come
l’arte: non rispettare la misura è compromettere
la bellezza; anzi la invita
all’euthumia, al cor altum.
Entrando in quella sala devo immancabilmente
passare a salutare
Gregorio di Nissa (332-399). Non farlo
sarebbe uno sgarbo imperdonabile.
Si tratta del fratello minore di Basilio;
aveva un amico importante,
Gregorio di Nazianzio. Non possedeva
l’estro per l’azione del fratello
maggiore, né l’eloquenza chiara dell’amico
Gregorio. Era un pensatore e
un teologo di prim’ordine, discepolo
di Origene.
I due fratelli dovevano molto alla
sorella Macrina, dotata di bellezza
straordinaria, alla quale il padre aveva
scelto un ottimo partito. Ma il fidanzato
muore prima delle nozze, e
lei, come si fosse trattato di un vero
matrimonio, offre al fidanzato defunto
la sua fedeltà, come farebbe una
sposa per il marito partito per un lungo
viaggio. Aiutò in casa la madre
Emmelia nell’educazione dei fratelli e
sorelle. Quando questo compito poté
dirsi esaurito, madre e figlia, accompagnate
dalle loro domestiche, si ritirano
nel Ponto, sulle rive del fiume
Iri, e vi fondano un monastero.
Dopo la morte della madre (373),
Macrina è nominata superiora del
monastero. All’inizio del 380 il fratello
Gregorio, sapendola gravemente
ammalata, le fa visita. Tra fratello
e sorella morente avviene un colloquio
di altissima elevazione spirituale,
che poi Gregorio immortalò in un
libro dal titolo De anima et resurrectione,
trasposizione cristiana del Fedone
di Platone.
Macrina, sul letto di morte, assegna
al fratello il compito di formulare
i dubbi e le obiezioni sull’aldilà, riservando
a sé il compito della confutazione
dei dubbi e difficoltà. Si
tratta dell’eterno problema dell’uomo
di fronte alla morte. «Il bene procede
verso l’infinito». Le eventuali pene
dell’aldilà non possono essere
etee: «Tutte le anime, una volta
purificate, ritornano al loro stato di
perfezione primitiva»; «una volta distrutto
il male, dopo un lungo periodo
di tempo, non rimarrà altro che il
bene. Anche queste nature, infatti,
riconosceranno concordemente la signoria
di Cristo». «Verrà il momento
in cui tutti gli esseri riconosceranno
Dio e toeranno a lui».
Naturalmente Gregorio questo discorso
lo fa a me, quasi in segreto,
quando lo vado a trovare… perché
son cose che occorre dire sottovoce
e in privato.

I FUORI CLASSE
Altro panorama incantato del cristianesimo
primitivo e sfondo di un
cattolicesimo amato, anche se contemplato
da molto lontano, sono i
deserti o laure abitate dai monaci;
distese aride, senz’acqua, eppure
piene di vita.
Si tratta di cristiani che, dal III al
VI secolo, abbandonavano le città per
vivere nei deserti dell’Egitto, Siria,
Palestina, soli o a gruppi, quasi uccelli
in grotte a piombo sul mare.
Il poeta cristiano bizantino, Romano
Melode, nato in Siria alla fine
del sec. V, in molte sue poesie esalta
la vita di questi «fuori classe». Scrive,
ad esempio: «Siate saldi e corroborati
nella fede. Ma tenete il vostro
capo inchinato. Piegate il corpo verso
terra, ma a Cristo guardate in alto
con l’anima. Aspirate e adoperatevi
a ciò con tenacia ad accantonare
la vita quotidiana per trasferirvi
con il pensiero nelle dimore di tutti
i santi, al fine di poter cantare, come
se foste già lassù, l’inno: Alleluia».
C’è anche una meravigliosa
raccolta di sentenze, detti,
proverbi, usciti dalla bocca
di questi asceti del deserto,
ma quasi con le tenaglie,
chiamati apoftegmata,
memorizzati da
molti pellegrini che, da
regioni lontane, si recavano
in quei luoghi
impervi per raccogliere,
magari dopo giorni
di silenzio e dopo aver
invocato quei solitari
a dire loro anche solo
una parola – dic mihi
verbum – che servisse da programma
di vita.
Questi detti sono brillanti, di gustosa
sapienza, e anche pieni di humour
(vedi riquadro).
In seguito il monachesimo si sviluppò
nelle forme più svariate, con
una fantasia imprevedibile. Vita monastica
e vita religiosa non vanno ridotte
a «dottrina»: sono fenomenistorici.
«Non ci sarebbe l’Europa – ebbe
a dire Massimo Cacciari – senza il
monachesimo»; e neppure l’espansione
missionaria.

CRISTIANO O CICERONIANO?
Tra le figure più simpatiche del cattolicesimo,
incontro Girolamo. Ormai
lontano da Roma e monaco a Betlemme,
nel 383-384 scrisse, alquanto
irritato, una lunghissima lettera a
una dama romana, Eustochio, per invitarla
al distacco dal mondo, poiché
«nessuno può camminare tranquillo
in mezzo a vipere e scorpioni».
In questa lettera citazioni bibliche
e principi ascetici s’intrecciano con
bozzetti spassosi di vita vissuta di un
tempo lontano. C’è, ad esempio, questa
descrizione di certi preti e monaci
nella Roma di papa Damaso (+
384): «Mettono ogni cura nel vestirsi
bene e profumarsi; il loro piede non
deve ballare in una scarpa troppo larga;
i capelli arricciati di fresco col ferro;
le dita scintillano di anelli; quando
camminano, per evitare che il fango
inzaccheri le scarpe, vanno in
punta di piedi».
Girolamo è un monaco colto. Ed eccolo
alle prese con se stesso. Si chiede:
«Che c’entra Orazio col salterio,
Virgilio col vangelo, Cicerone con gli
apostoli? A proposito ti voglio raccontare
un episodio della mia dolorosa
esistenza. Ne è passato del tempo
da allora!
Casa, padre e madre, sorella, parenti,
e – questo m’era più difficile –
l’abitudine a lauti pranzi: tutto avevo
tagliato via per il regno dei cieli,
e me n’ero andato a Gerusalemme
a militare per Cristo.
Ma dalla mia biblioteca,
messa insieme a Roma con
tanto amore e tanta fatica,
proprio non avevo saputo
staccarmi.
Povero me! (miser
ego!). Digiunavo e poi
andavo a leggere Cicerone.
Dopo molte notti
trascorse vegliando,
dopo aver magari versato
fiumi di lacrime al
ricordo dei peccati
d’un tempo, prendevo
in mano Plauto. Se talvolta, rientrando in me stesso, aprivo
i libri dei profeti, il loro stile disadorno
mi dava nausea. Era la mia
cecità a impedirmi di vedere la luce,
e m’illudevo che la colpa non fosse
dei miei occhi, ma del sole! (non oculorum
putabam culpam esse, sed solis).
A mezza quaresima, una febbre
acutissima mi penetra nelle ossa. Già
mi preparano i funerali. Tutto il corpo
è agghiacciato. Solo il povero
cuore, tiepido appena, dà ancor qualche
palpito, come se là si sia rifugiato
l’ultimo soffio di vita. D’un tratto
ho come un rapimento spirituale. Mi
sento trascinato davanti al tribunale
del Giudice e mi vengo a trovare tra
un tale sfolgorio di luce che irradia
da ogni parte, che io, sbattuto a terra,
non oso levare in alto lo sguardo.
Mi chiede chi sono. “Un cristiano!”
rispondo. Ma il Giudice dal suo trono
esclama: “Bugiardo! Sei ciceroniano
tu, non cristiano”. Resto di colpo senza
parole. Sotto le vergate (il Giudice
aveva dato ordine di battermi) mi sento
lacerare ancor più dal rimorso della
coscienza.
A lungo ho portato le lividure sulle
spalle. Da quel giorno mi sono
messo a leggere la scrittura con un
ardore che mai ne avevo messo l’eguale
nelle letture pagane».
A riguardo della natura di questo
sogno si è discusso a lungo.
Tra le tante lettere di Girolamo ve
n’è una che riprendo spesso in mano.
È indirizzata a Eliodoro, un amico
che, dopo averlo seguito, abbandona
l’eremo. Girolamo lo prega insistentemente a ritornare, dipingendogli le
giornie spirituali della solitudine: «Ma
che cosa fai nel secolo, fratello mio?
Tu sei più grande del mondo! E fino a
quando ti debbono pesare sul capo le
ombre dei tetti? E fino a quando vuoi
rimanere chiuso nella prigione delle
affumicate città? Credi a me: qui dove
sono io, vedo un non so che più di
luce. E mi pare, quasi deposto il peso
del corpo, di volarmene verso il puro
splendore del cielo. Alzati col pensiero
a passeggiare per il paradiso!».
Eliodoro non ritoerà al deserto.
Diventerà vescovo. Girolamo però l’aveva
ammonito: «Non tutti i vescovi
sono vescovi (non omnes episcopi,
episcopi sunt); non è la dignità ecclesiastica
che fa l’uomo cristiano».
Quale ricchezza in questo monaco
che con i suoi scritti ha attraversato
i secoli. E anche quanta capacità di
affetto e di poesia! La lettera a Eliodoro
così iniziava: «Con quanto amore
e con quanta premura mi sono adoprato
perché potessimo rimanercene
insieme all’eremo, lo sa il mio cuore.
Con quale lamento, poi, con quale dolore
e quali sospiri io ti abbia accompagnato
nella tua partenza, te lo attesta
questa mia lettera, che tu vedi
qua e là cancellata dalle lacrime (quas
lacrimis ceis interlitas)».

SGUARDO ALL’INFINITO
Non è solo pensando a Girolamo,
ma anche ad Agostino (354-430) che
mi sento tanto volentieri cattolico.
Chi infatti volesse comprendere la
chiesa e dare uno sguardo complessivo
al cristianesimo cattolico deve
comprendere Agostino.
Anche se in lui ci sono delle ombre,
rimane una pietra miliare. Difficile
descriverne la personalità e l’influsso;
più difficile ancora sintetizzae
il pensiero.
Mi attrae la frase di chiusura della
Città di Dio, sull’ottavo giorno della
creazione, che è al di là della storia:
«Là avremo finito di lavorare e vedremo,
vedremo e ameremo, ameremo
e loderemo. Ecco ciò che sarà alla
fine senza fine. Infatti, che cos’altro
è per noi la fine se non giungere
al regno, che è senza fine?».
Un interrogativo, quello di Agostino,
che il fiume immenso del monachesimo
mormora di continuo a chi
lo vede scorrere anche solo dalla riva.
Personaggi stupendi: Benedetto,
Domenico, Francesco, Beardo… che
hanno lasciato impronte indelebili
nella storia.
Per la conquista della Bretania, Cesare
impiegò sei legioni. Gregorio lo
fece solo con 40 monaci (596). Una
volta evangelizzati, i monaci irlandesi
e britannici diventarono evangelizzatori
di buona parte del continente
europeo.

SANTI… UMANISSIMI
Domenico pregava anche per i dannati
(ad in inferno damnatos extendebat
caritatem suam). Francesco raccomandava
al frate ortolano di «non
riempire tutto lo spazio di verdure
commestibili, ma di lasciare libera
una parte di terra, perché crescessero
le erbe spontanee, per produrre a
tempo debito i fratelli fiori»: preludio
al Cantico di frate sole, alla natura bella
e benefica.
E che dire della lettera che Francesco,
pochi giorni prima di morire,
dettò per donna Jacopa dei Settesogli,
ricca e nobile matrona romana,
alla quale Francesco era legato da
particolare stima: «A donna Jacopa,
serva dell’Altissimo, frate Francesco,
poverello di Cristo, salute nel Signore
e unione dello Spirito Santo. Sappi,
carissima, che Iddio, per grazia,
mi rivelò che la fine della mia vita è
ormai prossima. Perciò se vuoi trovarmi
vivo, ricevuta questa lettera,
affrettati a venire a Santa Maria degli
Angeli. Se non verrai prima di sabato,
non mi potrai trovare vivo. E
porta con te un panno scuro, in cui
tu possa avvolgere il mio corpo, e i
ceri per la sepoltura».
Dopo il panno nero e i ceri, ci si
aspetterebbe chissà quale altra cosa
importante o altamente spirituale,
come un testamento. Invece: «Ti
prego anche di portarmi quei mostaccioli
(dolci) che eri solita darmi
quando mi trovavo malato a Roma».
Passano i secoli e nella chiesa appare
Ignazio di Loyola (1491-1556).
Erano necessarie forze nuove e metodi
nuovi: fonda la Compagnia in funzione
dell’apostolato, anche missionario.
Uomo certamente di ferro, ma
per nulla tetro, freddo e senza cuore,
ma sorridente, sereno, tenero e affettuoso,
capace d’intrattenere rapporti
«cordiali e cortesi». La Compagnia
è nata così, dall’amicizia.
«Amenemhet contempla la bellezza
del sole» si legge sulla stele del faraone
egiziano. A Roma Ignazio si alzava
presto per contemplare in silenzio,
in piedi e scoprendosi il capo,
il sorgere del sole.
Dopo Ignazio, Vincenzo de’ Paoli
(1585-1660); anch’egli un uomo
nuovo, dalla carità benevola verso i
poveri, che parlava bene di tutti,
«persino del diavolo». Alle sue suore
diceva: «Avrete per monastero la
camera dei malati, per cella la chiesa
parrocchiale, per chiostro le strade
della città, per clausura l’obbedienza,
per grata il timor di Dio, per
velo la santa modestia». «La carità –
aggiungeva – è una gran signora, bisogna
fare quello che comanda». «Se
dovete lasciare l’orazione per andare
da un malato, fatelo. Il vostro dovere
è di lasciare tutto per il servizio dei
poveri».
Fino ai giorni nostri.

L’ALTRA METÀ…
Un capitolo a parte meritano le donne, cristiane e cattoliche. Non solo pensando
a Chiara, Scolastica, Caterina da Siena o Teresa di Gesù, ma a moltissime
altre: a quelle immortalate, come simbolo, dai Dialoghi delle Carmelitane; a Edith
Stein… Donne anche di pensiero.
Non posso dimenticare Ipazia. Siamo ad Alessandria d’Egitto, dove nel 412 inizia
il suo ministero patriarcale san Cirillo: ma comincia in modo caotico, spalleggiato
da partigiani ambigui, monaci turbolenti e dai paraboloni. Quest’ultimi, veri fanatici,
specie di infermieri, accanto ai cantori, fossori e amministratori vari, svolgevano
la funzione di assistenza nella chiesa di Alessandria.
Nel 415 alcuni di questi fanatici trascinano a forza in una chiesa la celebre Ipazia:
le strappano le vesti, la dilaniano con grosse conchiglie taglienti, la fanno a pezzi e
ne bruciano i resti.
Ipazia possedeva una cultura vastissima. Alla morte del padre ne aveva ereditata
la cattedra, per divenire una singolarissima docente di scienze, matematica e filosofia.
Figura d’un candore abbagliante,
bellissima e coerente fino al martirio.
In città era universalmente consultata: «Di
gran lunga superiore a tutti i filosofi del
tempo; perciò tutti gli studiosi di filosofia
da ogni parte correvano a lei» scrive un
certo Socrate, avvocato cristiano, nato a
Costantinopoli nel 408.
Un discepolo della Libia, divenuto poi vescovo
e che mantenne con lei una fitta
corrispondenza, le scriveva: «Possa tu riceverla
(questa lettera) in buona salute,
madre, sorella, maestra».
Poiché Ipazia era in ottimi rapporti con il
prefetto della città, un certo Oreste, la si
riteneva responsabile dell’opposizione
che il prefetto faceva al patriarca Cirillo.
Un fattaccio, che l’imperatore lasciò impunito,
ma che getta ombre nere su Cirillo
stesso.

Sono contento di essere cattolico perché…
Innestato
in Cristo
Molto si è discusso, e si discute ancora, sull’essenza del
cristianesimo: nella teologia cattolica sono affascinato
dalla centralità del Cristo e dal suo «mistero».

Non solo in questi gloriosi e indimenticabili
compagni sta il motivo
più importante del sentirmi tanto
contento di essere cattolico.
Tanto meno ponendomi sulla scia
di quegli autori di metà ‘800 in avanti,
in genere tedeschi, razionali, ipercritici
o anche atei, che dall’alto delle
cattedre universitarie iniziarono a
dissertare sulla vita di Cristo, preoccupati
di scartare quanto non ritenevano
storico.
AUTORI CHE FANNO LE BUCCE
Loro intento era giungere all’essenza
del cristianesimo, solo percorrendo
la via della storia, per individuare,
una volta per tutte, ciò che era
da ritenersi «valido e durevole», il
«nucleo» (ke), distinto dalla «scorza» (schale).
Già nel 1841 Lugwig Andreas Feuerbach
(1804-1872) uscì con un’opera
dal titolo L’essenza del cristianesimo.
Vi tentò in modo più serio Adolf von
Haack (1851-1930). Nel trimestre
invernale 1899-1900, tenne un ciclo
di 16 lezioni a 600 studenti su L’essenza
del cristianesimo, pubblicate
con lo stesso titolo e tradotto in 14
lingue. Secondo Haack, Gesù non
aveva predicato se stesso, né aveva
pensato a una chiesa: unico oggetto
della sua predicazione fu di presentare
Dio come «padre».
Entrò in lizza anche il cattolico Karl
Adam con L’essenza del cattolicesimo
(1924). Come intermezzo, nel 1903,
Est Troeltsch (1865-1923) intervenne
con un altro volume per chiedersi
che cosa si doveva intendere
per «essenza del cristianesimo». Cosa
fosse solo facciata e cosa vera sostanza,
cosa semplice costume e cosa
autentica convinzione. Eventualmente
riducendo tutto a mito.
Si può essere critici verso i critici a
oltranza: Anatole France (1844-
1924), spirito scettico, nel seguire le
lezioni di Loisy, tracciava delle caricature
in margine alle dispense del
corso: in una di esse aveva raffigurato
il Loisy che, a cavallo di un ramo,
menava colpi d’ascia alla radice dell’albero
dei vangeli e un fumetto diceva:
«Ne lascerò sempre a sufficienza
per tenermi».
C’è anche la critica marxista e razionalista:
conosce bene la società
cristiana, ma ignora chi sia Cristo.

CRISTO AL CENTRO
François Mauriac, un romanziere,
nel 1937 scrisse una vita di Cristo,
dove dice: «Leggendo i vangeli, ho
sentito il Cristo respirare e tento di
descrivere il Cristo “interiore”, visto
non con gli occhi della carne, ma con
quelli dello spirito».
Il centro attorno al quale ruota e si
struttura il cristianesimo, e il cristianesimo
cattolico, è Cristo risorto e Signore:
«Se nel tuo cuore credi che
Dio ha risuscitato Gesù dai morti e
con la tua voce dichiari che Gesù è il
Signore, sarai salvato» (Rom. 10,9).
In modo molto icastico, Paolo afferma:
«Mihi vivere Christus est», per
me il vivere è Cristo (Fil 1,21). Per incontrarlo,
l’autore del De imitatione
Christi suggerisce: «Chiudi sopra di te
la tua porta e chiama a te il tuo diletto.
E rimani con lui nella tua cella,
perché non troverai altrove una
pace così grande» (I, 20,8).
Per molte persone è bastato un
semplice versetto del vangelo per impostare
la vita in modo nuovo. Antonio
abate (251-357), poco più che
ventenne, sentì leggere: «Se vuoi essere
perfetto, vai, vendi quello che
possiedi e donalo ai poveri; poi vieni
e seguimi» (Mt 19,21). E lo fece.
Elisabetta della Trinità, per dare un
contenuto al nome che portava, imposta
la sua vita sul versetto di Paolo:
«Perché noi fossimo lode della sua
gloria» (Ef 1,12) e si firma Laudem
Gloriae.
Molti altri si ispirarono a qualche
aspetto della vita di Cristo, dalla nascita
a Betlemme, alla croce. Charles
de Foucauld scrisse: «Guardiamo i
santi, ma non attardiamoci nella loro
contemplazione. Contempliamo
con essi colui la cui contemplazione
ha riempito la loro vita. Approfittiamo
del loro esempio, ma senza fermarci
a lungo, né prendere per modello
questo o quel santo, ma prendendo
da ciascuno chi solo è vero
modello, servendoci così dei loro
esempi, non per imitare essi, ma per
meglio imitare Gesù».

PROSOPAGNOSIA
È una malattia molto brutta: consiste
nel non riconoscere (agnosia) una
persona (prosopon) per quello che è.
Paolo in 2 Cor. 3,17 scrive: «Il Signore
è lo Spirito» (dominus autem
spiritus est). Gesù Cristo, dopo la risurrezione,
è signore e spirito. Per
cui la prosopagnosia consiste nel non
riconoscere Cristo come «signore» e
come «spirito». E si tratta della malattia
più grave in cui possa cadere
un cristiano.
Questo pericolo esiste perché Cristo
è un «mistero».

L’INFINITO NEL FINITO
Il termine mistero è una delle parole
più usate dai cattolici; basta
aprire il Messale della liturgia romana.
Ma è pure una delle parole più inflazionate
e ingarbugliate. Sinonimi
come arcano, problema, enigma, cosa
oscura, inesplicabile, incomprensibile,
segreta… non sempre aiutano
a chiarire.
I vocaboli che più si avvicinano al
significato cristiano di mistero sono
invece segno, sacramento, simbolo.
Al punto che abbiamo un mistero, un
segno, un sacramento, un simbolo
tutte le volte, e ciò avviene quasi
sempre, che abbiamo una forma visibile
di una realtà invisibile (interiore,
spirituale, divina…).
Primo mistero, segno, sacramento,
simbolo è l’uomo stesso, essendo costituzionalmente,
e sotto tutti i punti
di vista, una forma visibile per la
sua corporeità di una realtà invisibile,
che è la sua interiorità, la sua anima,
spirito, dignità, comunque la si
voglia chiamare.
Ugualmente mistero, segno, sacramento,
simbolo sono le parole che
pronunciamo. Lo è il mazzo di fiori o
un dono che offriamo. Lo è la bibbia,
la chiesa, i sette sacramenti. Lo è soprattutto
Cristo, per essere un uomo
con la sua interiorità e il rapporto singolare
e unico con Dio (Uomo-Dio).
Usando una felice definizione di
Agostino, si può dire che il mistero è
«una cosa grande nascosta dentro
una piccola». Il mistero è un nascondiglio.
È l’infinito nel finito, l’assoluto
o il tutto nel frammento, il
santo tra i peccatori, l’amore nel dono
di un fiore, la vita nella morte.
Gesù è mistero quando dice: «Chi
vede me vede il Padre» (Gv 19,9), il
«figlio di Dio» nel «figlio dell’uomo».
Per questo Gesù è il vero padrone di
casa, che estrae dal suo tesoro cose
nuove e cose antiche (Mt 13,52). Come
tale sul monte poté trasfigurarsi,
mostrando quanto di grande ci fosse
in quell’uomo sofferente. La morte fisica
può essere constatata e descritta,
ma l’offrire la vita per… è un’intenzione
e un mistero per l’appunto.

SUPERARE I 4 «SOLUS»
I protestanti insistono sull’aggettivo
«solus». Lo ripetono almeno
quattro volte. Anzitutto Christus solus,
nel senso che Cristo, come afferma
san Paolo, è l’unico «mediatore»
(1 Tim 2,5); anche nel senso che la
Madonna e i santi possono essere ricordati,
ma quanto a invocarli la
scrittura non dice nulla.
Eppure tutto ci dice che Cristo è,
sì, l’unico mediatore, ma che non è
mai da solo, sia perché come «capo»
lo è di un corpo formato da molte
membra, le quali a qualcosa devono
pur servire; infatti formano la Comunione
dei Santi, comunque la si voglia
intendere.
Il secondo solus è riferito alla fede:
sola fides; il terzo riguarda la grazia:
sola gratia. Certamente nel senso che
a venirci incontro, senza alcun nostro
merito, è la misericordia di Dio.
Ma anche qui, grazia e misericordia
di Dio, provvidenza e salvezza
non ci giungono mai allo «stato puro
», ma attraverso la parte estea
che dobbiamo saper aprire e accettare
mediante la chiave o l’apriscatola
della fede.
Il quarto solus è riferito alla scrittura:
sola scriptura, specie il vangelo.
Ed è giusto. Ma anche la scrittura
non è sempre facile da capire.
Inoltre è noto che presso i popoli antichi,
compreso quello ebraico, il
mezzo ordinario di trasmissione non
era la scrittura o il libro, ma la trasmissione
orale. Gli antichi trasmettevano
i fondamenti della propria
cultura con una garanzia di sicurezza
non minore dei documenti scritti.
Tutto sommato a Lutero, come cattolico,
preferisco Erasmo, suo contemporaneo.
Anche se Lutero ed Erasmo
fecero la stessa diagnosi sui mali
del tempo, diversa è però la
terapia: «A chi ha un braccio rotto –
diceva Erasmo a Lutero – per guarirlo
non gli rompi anche l’altro». A Lutero
che diceva: «Dio è Dio», Erasmo
rispondeva: «Dio è buono».

«CONSEGNÒ LO SPIRITO»
Unamuno aveva osservato con sofferenza:
«Terribilmente tragici sono
i nostri crocifissi, i Cristi spagnoli,
morti per sempre, che non risorgono
». Ma dovette ricredersi, contemplando
il Crocifisso del Velazquez (vedi
riquadro).
Osservandolo attentamente scoprì
che, se per il protestante la base è la
giustificazione (come passaggio dal
peccato alla grazia), per il cattolico
è, invece, l’immortalità e la risurrezione
(come passaggio dalla terra alla
vita senza fine). E il poeta spagnolo
conclude il suo libro su Don
Chisciotte con questa profonda intuizione:
«Se la vita è un sogno, lascia
che io la sogni immortale».
La costituzione conciliare Lumen
Gentium non dice che «luce delle
genti» è la chiesa, ma Cristo: «Lumen
gentium cum sit Christus».
Gli evangelisti scrivono che Cristo,
morendo sulla croce spirò: cioè esalò,
diede lo spirito. Solo Giovanni al riguardo
è teologicamente più raffinato:
«E chinato il capo spirò» (Gv
19,30). Ma, a differenza degli altri
evangelisti, usa un verbo particolare,
che in latino è stato espresso con
tradidit spiritum: è il verbo greco paradidomi,
che significa: dare, donare,
consegnare, rimettere. Giovanni
direbbe che Gesù, morendo, fece dono
dello Spirito (Santo), del suo Spirito.
Tutto infatti sarebbe sterile se
così non fosse.
Anzi, stando alla espressione usata
da Paolo, già sopra ricordata (2 Cor
3,17), sulla croce Cristo non solo si
sarebbe trasformato in «luce», ma
sarebbe diventato «spirito». Paolo
scrive: «Il Signore è lo Spirito». In
greco i due sostantivi sono preceduti
dall’articolo e la parola «Spirito»
può essere scritta con l’iniziale maiuscola,
come fa la traduzione ufficiale
della CEI.
Con la morte e risurrezione Cristo è
divenuto non solo un «essere spirituale»,
ma è «lo Spirito». Egli si è
aperto, mostrando la sua vera realtà,
come incenso che bruciando si trasforma
in «profumo». Lo dice ancora
Paolo: «Si è offerto a Dio in sacrificio
di soave profumo» (Ef 5,2). Infatti
in ebraico la radice della parola
ruah-spirito è la stessa della parola
reah, che significa profumo.
Spirito è far cadere sugli uomini
qualcosa che assomiglia a un canto
gregoriano, scrisse Antornine de Saint-
Exupéry. Spirito è la chiave che apre
tutti i misteri, anche quello di Dio.
Sta qui il motivo principale della
mia preferenza per il cattolicesimo,
per questa evaporazione profumata
del Cristo che, come «spirito», può
espandersi più facilmente di un libro
o di qualsiasi proclama.
Lo dice molto bene san Paolo per
me: «Ci sono cose che occhio non vide,
né orecchio udì… Ma a noi Dio le
ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo
Spirito infatti scruta ogni cosa anche
le profondità di Dio. Come è lo spirito
dell’uomo – il nostro spirito – che
ci permette di conoscere le cose più
segrete che ci riguardano, così anche
i segreti di Dio nessuno li ha potuti
conoscere se non lo Spirito di Dio»
(1Cor 2,9ss).
Ed è Cristo che ci ha fatto dono
dello Spirito di Dio e del suo Spirito.
Per cui possediamo Dio in Cristo e
Cristo in Dio, perché tutto è stato ridotto
a Spirito.

STORIA DI UN INNESTO
Possedere o sentire Cristo come
Spirito costituisce per me il punto
centrale del cattolicesimo, la finestra
che mi permette non di tutto capire,
ma di tutto intravedere.
Due esempi, più di tante parole,
possono esprimere questa soddisfazione
del sentirmi cattolico.
Il primo è di uno scrittore greco,
Elias Venezis: racconta come Giuseppe,
un vecchio contadino mezzo cieco,
mostra a un bambino (l’autore) la
delicata operazione dell’innesto.
«Arrivammo sul posto. Giuseppe
posò a terra il fascio di rametti. Prese
a palpare l’arbusto selvatico, per
trovare il punto più adatto per l’innesto.
Trovatolo, levò gli occhi al sole,
fece tre volte il segno della croce,
mormorando una segreta preghiera.
Poi, ormai calmo e sicuro, riportò lo
sguardo all’arbusto da innestare. Con
mano salda intagliò un rametto, togliendone
un pezzo di scorza in forma
di anello. Incise la scorza del rametto
da innestare, lo unì al ramo
dell’arbusto selvatico, lo legò strettamente.
Volse di nuovo lo sguardo al sole e,
tutto tremante, riprese a pregare: “Ti
ringrazio, mio Dio, di avermi permesso
ancora quest’anno di innestare
gli alberi”. Poi, rivolgendosi a me,
mi dice: “Ecco, ragazzo mio, ti consegno
il tuo albero. Amalo come una
cosa che viene da Dio”.
Si trattava solo di un innesto, pensavo;
un pezzo di scorza, un bastoncino,
attaccato a un tronco selvatico:
tutto qui!
Indovinando il mio pensiero, il vecchio
contadino mi dice: “Appoggia
l’orecchio al tronco dell’albero”. Appoggiai
la testa al tronco e lui pure.
I nostri occhi erano così vicini da toccarsi.
Cominciò a sbattere le palpebre,
come se sprofondasse in estasi.
Poi chiuse gli occhi completamente.
– Senti qualcosa? – mi domandò.
– No! Non sento niente.
– Io invece sì! – mormorò lui con
gioia trionfante -. Io però sento… –
toò a ripetermi.
Poi mi spiegò di aver sentito il sangue
(la linfa) del rametto colare lentamente
nel sangue del tronco e mescolarsi
ad esso, che così cominciava
a realizzarsi il miracolo della
trasformazione del tronco selvatico».
Questo racconto è anche la storia
che ogni missionario potrebbe narrare:
poggiando le orecchie al tronco
dell’etnia trasformata in chiesa,
potrebbe sentire che nel vecchio
tronco è colata una linfa nuova.
Il secondo esempio spiega come
sia possibile la trasfusione di una vita
in un’altra; trasfusione non solo di
idee, ma di persona a persona.
Nel romanzo I fratelli Karamazov di
Dostoevskij c’è quella meravigliosa
scena del vecchio staretz Zosimo, visto
ai raggi obliqui del sole che tramonta.
Aveva un fratello, Markel,
morto giovane. Ecco il suo racconto
di quando aveva otto anni.
«Ricordo che una volta entrai da
solo nella camera di mio fratello
(ammalato), mentre non c’era nessuno.
Era una limpida sera; il sole
tramontava e illuminava con un
raggio obliquo tutta la stanza. Vedendomi,
mi fece un cenno; io mi
accostai; egli mi prese per le spalle
con le mani; mi guardò soltanto così
per un minuto: “Su via – disse –
adesso vai a giocare, vivi per me. Io
allora uscii e andai a giocare. Mille
volte, poi, nella vita ricordai tra le
lacrime come egli mi avesse ordinato
di vivere per lui».
È quanto fece Gesù dalla croce e
poco dopo nel cenacolo; alitando sugli
apostoli disse: «Ricevete lo Spirito,
andate…», cioè vivete per me.

Sono contento di essere cattolico…
Anche se…
Una storia seminata di «piaghe» e tradimenti…
Eppure la chiesa rimane sempre il luogo dove,
a furia di «giocare ai santi», lo si diventa per davvero.

Nella storia plurimillenaria della
chiesa cattolica certe cose sono
difficili da digerire: scismi ed eresie,
caccia alle streghe, schiavismo, inquisizione,
colonialismo… Un libro
recentissimo, dedicato a questi crimini,
conclude: «Il sangue scorre a
fiumi nella storia del cristianesimo».
Tra il 1832-1848, Antonio Rosmini
scrisse Delle cinque piaghe della chiesa,
messo all’indice nel 1849. Di tale
condanna, l’arcivescovo di Torino,
mons. Michele Pellegrino, in un Concilio
ormai agli sgoccioli, disse: «È
stata recentemente tolta la condanna
che ha gravato per oltre un secolo
su quel libro di Rosmini. È lecito
domandarsi: se quell’opera fosse circolata
liberamente, non avrebbe
contribuito alla guarigione
di piaghe di cui la
chiesa ha per troppo
tempo dolorosamente
sofferto?».
Stessa cosa si
potrebbe ripetere
per la condanna
del
romanzo Il
santo di Antonio Fogazzaro, uscito
nel 1905 e messo all’indice nel 1906.
In esso il romanziere faceva dire al
«santo», in un confronto drammatico
con il papa, che quattro spiriti maligni
erano entrati nel corpo della
chiesa: spirito di menzogna, spirito
di dominazione del clero, spirito di
avarizia, spirito di immobilità.
Inutile negare o stemperare queste
eventuali colpe. Piuttosto gioverebbe
ambientarle.
Una certa Patricia, dopo una buona
preparazione filosofica, si
laurea in teologia. Si era permessa di
servire la messa. Le
venne assolutamente
proibito
di farlo.
Volle, però, che le dicessero i motivi
veri di questa proibizione. Le venne
detto che in seguito a una riunione
pastorale (a che livello?) si era concluso
che le donne sono «impure»,
perciò devono essere allontanate
dall’altare.
Un’amica della giovane teologa le
chiede: «Ma dopo un fatto del genere
come puoi avere la fede?». Rispose:
«La mia fede sussiste solo nella
certezza che il cristianesimo è qui
tradito da qualcuno!».
La chiesa ha le sue stagioni: è scontato
che siano possibili stasi, involuzioni,
regressi. Nel 1947 l’arcivescovo
di Parigi, card. Emanuele Suhard,
scrisse una lettera pastorale dal titolo
Agonia della chiesa? Il titolo originale
francese è senza punto interrogativo:
Essor ou déclin de l’église.
Abbassamenti di tono o anche
peggio sono sempre possibili. Paolo
VI affermava nei suoi discorsi che il
Concilio Vaticano II non aveva inteso
essere un «uragano» travolgente
né una rivoluzione. Tuttavia avvertiva
che il corpo della chiesa era percorso
qua e là da inquietudine, da
qualche linea di febbre e un po’ da
«spirito di vertigine».
Per amare la mia chiesa, anche
se…, mi è utile riferire la parabola
di Erasmo di Rotterdam (1469-
1536), che Pierre Mesnard traduce in
linguaggio moderno, per meglio indicare
la differenza con Lutero.
«Dai fianchi della sacra Montagna
scaturisce una fonte (termale), così
pura e così salutare che i pregi di tutte
le altre si commisurano soltanto
sulla salubrità di questa. Fontana
unica della salute, da secoli essa ha
attinto sulle rive milioni di pellegrini,
bramosi di ritrovare, grazie ai suoi
effetti miracolosi, la vita autentica.
Ed essi avrebbero senza dubbio rovinato
nel loro entusiasmo tutta la valle,
se una società appaltatrice accreditata,
con tutte le carte in regola, la
chiesa, non avesse fin dall’inizio assunta
la distribuzione e l’impiego terapeutico
delle acque miracolose.
Essa ha captato la sorgente, costruito
uno stabilimento termale,
edificato complessi alberghieri, fatto
venire in numero sufficiente medici
termali, tanto che in cambio di
una modesta decima, i malati sono
ormai accolti e trattati secondo metodi
collaudati.
Ma, durante questi ultimi secoli (è
il rimprovero di Lutero) sembra che
l’istituzione sia un po’ degenerata e
che la compagnia appaltatrice abusi,
per cui i protestanti denunciano la
decadenza radicale della società generante,
reclamano la soppressione
del corpo medico, il diritto di ciascuno
di accedere direttamente alla
sorgente, di bagnarsi a piacere e di
bee fino all’ebbrezza spirituale.
Va da sé che l’assenza di disciplina
trasformerebbe presto la sorgente in
pantano, per non dire peggio…» (P.
MESNARD, Erasmo, la vita, il pensiero,
i testi esemplari, Milano 1971, p.
262).
F accio mio quanto, in modo ugualmente
fantastico, disse il romanziere
Georges Beanos (1888-1948)
in una conferenza tenuta in Algeria
alle piccole sorelle di Charles de Foucauld
nell’autunno del 1947: «Ci sono
bambini che giocano agli adulti.
Potrebbe darsi che a furia di
“giocare ai santi” si finisca col
diventarlo? È buona questa
ricetta? (Beanos riporta
l’esempio di santa Teresa
del Bambino Gesù) come
quello di un ragazzino
che, a furia di far girare un
trenino meccanico, diventa,
quasi senza
pensarci, ingegnere
delle ferrovie o, anche
più semplicemente,
capostazione.
Permettetemi per
un momento che mi
fermi su questo paragone
delle ferrovie. In fondo non lo trovo
così sciocco… Possiamo senz’altro
immaginare la chiesa come una vasta
impresa di trasporti; di trasporti
in Paradiso, perché no? Ebbene, mi
chiedo: che cosa diventeremo noi
senza i santi che organizzano il traffico?
Certo, da duemila anni, questa
compagnia di trasporti ha avuto non
poche catastrofi: arianesimo, nestorianesimo,
pelagianesimo, grande
scisma d’Oriente, Lutero…, per ricordare
solo deragliamenti e scontri
più noti.
Ma senza i santi, ve lo dico io, la
cristianità sarebbe un gigantesco
ammasso di locomotive capovolte,
carrozze incendiate, rotaie contorte
e ferraglia che finisce di arrugginirsi
sotto la pioggia. Nessun treno circolerebbe
più sulla strada ferrata invasa
dall’erba».
In definitiva, prosegue Beanos,
«la chiesa è una casa di famiglia, una
casa patea (Beanos aveva avuto
sei figli, ndr); nelle case di famiglia
c’è sempre un po’ di disordine; le sedie
talvolta mancano di una gamba;
i tavoli sono macchiati d’inchiostro;
le scatole di marmellata si svuotano
da sole nelle dispense».
Nel Diario di un curato di campagna
Beanos è ancora più realista: «Una
parrocchia è forzatamente sporca.
Una cristianità è ancora più sporca.
La chiesa dev’essere una buona massaia,
solida e ragionevole. Ha un
gregge, un vero gregge. È un bestiame
né troppo buono né troppo cattivo:
buoi, asini, bestie da tiro e da lavoro.
E anche caproni. Caproni e pecore.
Il padrone vuole che gli
rendiamo ogni bestia in buono stato».
Èquesta la mia casa di famiglia, di
tutti i giorni, con una moltitudine
di amici e cari ricordi appesi alle
pareti. E poi, come è scritto sull’architrave
di un vecchio palazzo: «Beati
i nostalgici, perché rivedranno le
loro case».
L’Apocalisse ipotizza l’esistenza di
un vangelo eterno, portato da un angelo
e da annunciare agli abitanti
della terra e a ogni nazione, razza,
lingua e popoli (Ap 14,6). Perché
«eterno»? Perché con pagine bianche,
senza figure e senza immagini?
Eteo unicamente se sarà quello che
è, cioè «evangelo» e «buona notizia
». Infatti «alla sera della vita saremo
giudicati unicamente sull’amore
» (CEI, Comunicare il vangelo in un
mondo che cambia, n. 30).

Padre IGINO TUBALDO, missionario
della Consolata, professore in vari
seminari dell’Istituto e diocesani,
è autore di molte pubblicazioni in
campo teologico e storico.

Igino Tubaldo




Reportage dall’Iraq di Saddam

GLOSSARIO DI GUERRA

risoluzione Onu

La risoluzione è una deliberazione
del Consiglio di sicurezza (15 membri, di cui 5 permanenti e con diritto
di veto: Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia) delle Nazioni
Unite. Molte le risoluzioni contro l’Iraq, ma molte di più quelle contro
Israele, che tuttavia le ha sempre rifiutate, a partire dalla 242 del 1967
(si veda il saggio di Xavier Baron, I palestinesi, Baldini&Castoldi 2002).

guerra preventiva

Secondo la dottrina sulla
sicurezza nazionale («The National Security Strategy of the United
States») presentata da George W. Bush lo scorso 20 settembre, il governo
di Washington punterà a «difendere gli Stati Uniti, i cittadini americani
e i nostri interessi in patria e all’estero, identificando e distruggendo
la minaccia prima che raggiunga i nostri confini».

embargo

«Le risposte degli stati alle
violazioni di diritti umani, alle minacce alla pace internazionale e
all’illegittimo sostegno a tali minacce, quando vengono realizzate in
termini di embarghi e sanzioni, finiscono per colpire sempre stati ai
margini della comunità internazionale. Inoltre, immancabilmente, finiscono
per essere controproducenti» (Dizionario della globalizzazione, Zelig
Editore 2002). Oltre all’Iraq, tra gli embarghi più noti ci sono gli
embarghi statunitensi nei confronti di Cuba, Libia ed Iran.

terrorismo

«Il terrorismo è il sintomo, non
la malattia. Il terrorismo non ha paese. È transnazionale, un’impresa
globale come la Coca, la Pepsi o la Nike. Al primo segnale di pericolo, i
terroristi possono fare fagotto e trasferire le loro “fabbriche” di paese
in paese alla ricerca di un trattamento migliore. Proprio come le
multinazionali» (Arundhati Roy, Guerra è pace, Guanda 2002).

libertà duratura / Enduring
freedom

Sotto questa sigla, gli Stati
Uniti comprendono tutte le operazioni (soprattutto militari) finalizzate
alla lotta al terrorismo internazionale. Prima operazione di «Enduring
freedom» è stata la guerra in Afghanistan.

stato canaglia / rogue state

Definizione coniata dal presidente
statunitense George W. Bush per indicare tutti gli stati che, secondo gli
Usa, appoggerebbero il terrorismo internazionale. Nella lista sono
inclusi: Iraq, Iran, Corea del Nord, Libia e l’ex Afghanistan dei
talebani.

armi di distruzione di massa

Tutte le armi a cui non si può
attribuire l’aggettivo «leggere». Pertanto, rientrano nell’accezione le
armi biologiche e batteriologiche (batteri, virus, funghi), le armi
chimiche (gas e tossine di vario tipo), le armi nucleari.

uranio impoverito / depleted
uranium

Utilizzato per migliorare la
capacità perforante dei missili, l’uranio impoverito è responsabile di
gravi danni alla salute delle persone (civili e militari) in Iraq e in
Kosovo (e in tutti i paesi dove è stato utilizzato segretamente).

sindrome del Golfo

Con questo termine si intende quel
complesso di malattie gravi e misteriose nella loro eziologia che ha
colpito i veterani statunitensi impegnati nella prima guerra del Golfo. I
casi di sindrome denunciati sono circa 90.000. Oltre alle malattie dei
veterani, molto gravi e sempre più numerosi sono i fenomeni di
malformazioni genetiche tra i loro figli (occhi, orecchie o arti mancanti,
sviluppo abnorme di alcuni organi interni ecc.), che rientrano tra le
possibili conseguenze dell’uranio impoverito sulla salute.

linfoma di Hodgkin

O linfogranuloma maligno.
«Malattia del reticolo dei gangli linfatici, del midollo osseo, della
milza, caratterizzata dall’associazione di un granuloma dall’aspetto
infiammatorio con cellule tumorali» (dizionario medico Larousse). Tra le
persone venute a contatto con l’uranio impoverito (nei Balcani, in Iraq) è
stato accertato un rilevante incremento dei casi di linfoma di Hodgkin.

Paolo Moiola




Reportage dall’Iraq di Saddam

HOTEL PALESTINA

Fino al 1990 l’Iraq era un paese ricco.
Oggi la quasi totalità della popolazione vive nella miseria, pur
conservando una grande dignità. L’embargo produce conseguenze devastanti.
Come quando impedisce l’importazione di cloro (che servirebbe
per depurare
l’acqua) o di sostanze disinfettanti.

 

A 12 anni dall’embargo si può
volare verso Baghdad solo dalla Giordania e dalla Siria, ma i costi sono
alti e i voli solo nottui e non frequenti. Per questo preferiamo
percorrere in macchina i 985 km di deserto che dividono Amman da Baghdad.

Si viaggia di notte per evitare il
caldo e si arriva in genere al mattino, giusto il tempo di fare una
doccia, cambiarsi, disfare i bagagli e pranzare fuori, magari in quel
piccolo ristorante davanti all’albergo, frequentato spesso solo da
iracheni, ma dove ormai il proprietario ci riconosce.

È strana Baghdad. In quel
ristorante, come altrove, la gente si ricorda di noi. È vero, la città non
ospita tanti occidentali quanto altre città arabe, ma ciò che stupisce è
«come» le persone ti salutano: noi siamo gli amici italiani che ogni anno
si rivedono. Persino l’anno scorso, quando arrivammo a Baghdad una
settimana dopo i fatti di New York, o quest’anno in cui le minacce di una
seconda guerra del Golfo hanno accompagnato il nostro soggiorno.

Il nostro albergo è il Falastin,
l’ex Meridien, che come tutti gli alberghi ha ora un nome arabo:
Palestina. Una volta era un cinque stelle: 15 piani di camere, bar
panoramico, ristoranti e sale per riunioni e ricevimenti. C’è ancora
tutto, ma non è più un cinque stelle. Dodici anni di embargo si vedono
anche in questo: la moquette lisa, qualche specchio rotto, molte lampadine
bruciate. Eppure la direzione cerca di fare del proprio meglio: in
mancanza di pezzi di ricambio e di soldi per rinnovare gli arredi, hanno
«smontato» le camere di alcuni piani per rifornire le altre. Magari vecchi
e fuori moda, in nessuna camera però mancano televisore, frigo e impianto
di aria condizionata per sopravvivere all’atroce caldo dell’estate
irachena.

Ci sono alberghi più belli, ma noi
siamo abituati al Falastin. Ci sentiamo a casa e sappiamo, per esempio,
che a settembre conviene chiedere una camera vista strada. C’è traffico a
Baghdad, ma le camere che danno sul giardino sono più rumorose. Ogni anno,
infatti, a fine settembre si tiene il Festival di Babilonia, un festival
internazionale di musica e danza folkloristica, e tutti i gruppi nazionali
che vi partecipano ripetono gli spettacoli nei giardini degli alberghi in
città.

Se a ciò aggiungiamo che negli
alberghi spesso si tengono i ricevimenti di nozze del giovedì sera, giorno
prefestivo islamico, il conto è presto fatto: un po’ di traffico è senza
dubbio più conciliante per il sonno.

QUELLE FESTE DI
MATRIMONIO

I ricevimenti di nozze a Baghdad
sono uno spettacolo da non perdere. Una volta, ci raccontano, quasi ogni
iracheno era in grado di fare la luna di miele all’estero. Ora la
situazione è cambiata: guerre ed embargo hanno schiacciato l’economia del
paese, ed anche i matrimoni ne hanno risentito, sebbene non nel numero.
Per incentivare le giovani coppie a sposarsi, il governo, una volta
all’anno fa celebrare delle nozze di massa, regalando agli sposi gli abiti
per la cerimonia e offrendo la prima notte di nozze in uno dei cinque
migliori alberghi della città. Sono matrimoni poveri e a volte, a
giudicare dall’espressione della donna (magari a fianco di un neo marito
molto più vecchio di lei), dal futuro neanche molto felice.

La sposa, in abito bianco di
foggia occidentale di dubbia qualità (pieno di paillettes, volants e
trine), di solito arriva in albergo accompagnata dalla sua famiglia. Le
donne, vestite modestamente, scortano la sposa fino in camera stringendosi
attorno: molte col capo velato, e le anziane con l’abbaya (il tradizionale
lenzuolo nero che le copre dalla testa ai piedi). Gli uomini suonano
pifferi e tamburi ed accompagnano la sposa improvvisando danze popolari.
Improvvisamente l’albergo si riempie di gente, che sciama verso gli
ascensori e poi, alla spicciolata, se ne va per lasciare finalmente soli
gli sposi.

Una notte al Falastin è tutto
quello che molti iracheni possono permettersi. Una notte per dimenticare
che l’indomani ricomincia la solita vita, la lotta per sopravvivere
all’embargo.

A volte ci sono matrimoni di sposi
più abbienti. In quel caso i veli lasciano spazio ad acconciature
importanti e trucchi pesanti, le abbaye ad abiti con gonne al ginocchio e
spalle scoperte, la musica popolare a serate passate a ballare nel
giardino dell’albergo col sottofondo di musica americana. Oggi però questi
matrimoni sono un’esigua minoranza.

DIGNITÀ E
ORGOGLIO

Fino al 1990 l’Iraq era un paese
ricco, la cui popolazione apparteneva in gran parte alla classe media
abbiente, ora questa classe sociale è sparita ed il paese si divide tra
pochissimi ricchi ed una maggioranza di poverissimi. Questo stravolgimento
sociale è una delle conseguenze dell’embargo: chi è già ricco
difficilmente perde i suoi privilegi, molti fanno fortuna con il mercato
nero, ma la maggior parte della gente sprofonda nella povertà.

Questo contrasto non è
immediatamente evidente. Si deve aver voglia di vederlo, di cercarlo. Il
popolo iracheno è dignitoso, qualcuno dice addirittura superbo. Per
esempio: rispetto ad altre città del mondo, a Baghdad i bambini raramente
chiedono l’elemosina, e quei pochi che lo fanno non sono quasi mai
insistenti, conservando la dignità di chi questua non già per abitudine,
ma per vera necessità della quale in fondo si vergogna.

Un giorno in Rashid Street, la via
principale della Baghdad coloniale, eravamo andati a trovare un amico nel
suo negozio di scarpe. Davanti alla vetrina si fermò una donna coperta
dall’abbaya e con il viso completamente nascosto da un velo nero: un burka
praticamente. Fummo sorpresi, sebbene negli ultimi anni il numero delle
donne che indossano il velo a coprire i capelli sia notevolmente
aumentato. Mai ci era capitato di vedere un viso coperto. La donna inoltre
non faceva cenno di muoversi: era lì fuori, immobile.

Il nostro amico si alzò e, aperta
la porta del negozio, le diede dei soldi. I movimenti furono così rapidi
che quasi non ci accorgemmo: come se entrambi avessero voluto tenere la
cosa nascosta. Chiedemmo spiegazioni: chi era quella donna, perché portava
un burka. L’amico ci rispose che era una vecchia signora del quartiere,
vedova e molto povera, e che se velava il viso era perché si vergognava a
dover chiedere l’elemosina.

Se in alcuni quartieri di Baghdad
la povertà è celata da grande dignità, in altri invece è tangibile:
colpisce vista e odorato. È la povertà dei quartieri antichi (come Baghdad
vecchia) e dei quartieri nuovi (come Saddam City). Vicoli e strade invasi
da liquami, dove giocano bambini seminudi, ormai più abituati alla fame
che alla sazietà, alla mancanza di tutto ciò che altrove è considerato il
minimo necessario, all’odore nauseabondo delle fogne a cielo aperto.

Le condutture e gli impianti
fognari e di depurazione furono tra i primi obiettivi «intelligentemente»
colpiti dalla coalizione anti-irachena, in aperta violazione delle
convenzioni inteazionali perché indispensabili alla popolazione civile.
Anche il ripararli fu ed è difficile. Di molti materiali necessari (il
cloro ad esempio) l’importazione è vietata, perché potrebbero essere
utilizzati per costruire armi di distruzione di massa. Senza tener conto
che negare ad un paese, per di più arido, l’acqua potabile, altro non è
che un’arma di distruzione di massa!

Bisogna andare a visitare gli
ospedali per rendersi conto di ciò, bisogna parlare con i medici, leggere
nei loro occhi la rassegnazione dell’impotente.

LO SCANDALO DEI
MEDICINALI PROIBITI

Prima della guerra l’Iraq aveva il
miglior sistema sanitario del Medio Oriente arabo. Gli ospedali
abbondavano, le attrezzature erano ciò che di meglio l’industria mondiale
del settore produceva, i medici avevano specializzazioni conseguite
all’estero e il rapporto numerico posti letto-pazienti era buono. Dal 1990
la situazione ha cominciato a deteriorarsi, sia per i divieti di
importazione di medicinali, attrezzature e pezzi di ricambio, sia per
l’enorme aumento dei malati e delle patologie. Molte di queste (per
esempio, quelle legate alla mancanza di acqua potabile) sono curabili
altrove, ma qui, rafforzate da una malnutrizione diffusa, diventano
letali.

Dal 1997 la situazione è
migliorata, anche se è ancora lontana dall’essere conforme agli standards
del periodo ante-guerra. Quell’anno, visitando i reparti dell’Ospedale
pediatrico «Saddam Hussein» di Baghdad vedemmo attrezzature a pezzi,
armadi di medicinali sconsolatamente vuoti e sporcizia. Sentimmo l’intenso
odore di petrolio, usato per lavare i pavimenti ed anche i ferri
chirurgici, dato che pure i disinfettanti (generici e specifici)
ricadevano nelle sostanze pericolose di cui era vietata l’importazione.

Ora le cose vanno un po’ meglio.
Le medicine, grazie agli introiti che il governo ricava dal piano «oil for
food» (petrolio in cambio di cibo), cominciano ad arrivare agli ospedali,
anche se con numerose limitazioni. È vietata, per esempio, l’importazione
di tanti farmaci che, pur ricadendo nella categoria dei salva-vita,
potrebbero essere usati dall’industria militare biologica e chimica. Di
altri farmaci permessi, l’importazione è discontinua, dipendendo
dall’approvazione di un comitato delle Nazioni Unite, e mette quindi a
rischio gli ammalati cronici.

Ciò che negli ospedali non cambia
mai è lo sguardo rassegnato delle madri che, accoccolate sui letti,
assistono i figli cercando di consolarli e di tener lontane le mosche. Ai
loro occhi noi occidentali dovremmo rappresentare quel mondo «civile» che
ha scaricato sull’Iraq tonnellate di bombe, anche radioattive, e che lo ha
condannato ad un embargo riconosciuto come il più duro della storia.
Eppure in quegli sguardi non c’è rancore, non c’è odio, c’è qualcosa di
diverso, forse peggiore: la mancanza di speranza.

Mai in questi anni gli iracheni ci
hanno fatto pesare l’essere occidentali. Ovunque: nelle case, nei locali,
per strada, nei mercati, siamo stati ben accolti da un popolo che, con
parole o sguardi, ha dimostrato di apprezzare il nostro essere lì.

Per gli italiani poi ci è sembrato
di riconoscere una simpatia particolare. Sarà perché tutti conoscono la
pizza (che diventa «bizza»), perché frequentemente «italiano» viene
associato a Baggio o perché molti iracheni per studio o lavoro hanno
soggiornato nel nostro paese. È il caso di quell’autista di taxi abusivo
che un giorno ci raccolse, sfiniti dal caldo, davanti al mercato di Bab
Ash-Shargi e che, chiestoci in perfetto inglese di dove fossimo, alla
risposta «Italia» volle sapere di dove esattamente. «Torino» rispondemmo,
venendo così a sapere che, una volta laureatosi in ingegneria a Baghdad,
si era specializzato al Politecnico della nostra città.

Quell’ingegnere-autista
rappresenta benissimo la situazione attuale dell’Iraq. Gli stipendi
statali sono insufficienti a vivere, anche se integrati dalla
distribuzione da parte del governo di cibo a prezzi calmierati. Così
chiunque può svolgere un secondo lavoro: autista, cameriere, fattorino,
qualsiasi cosa. Gli iracheni, come tutti, hanno sicuramente dei difetti,
ma non la pigrizia. Tutti cercano di darsi da fare, non aspettano la manna
dal cielo, né si abbandonano all’inazione. Forse anche per questo li si
conosceva come «gli svizzeri del Medio Oriente».

 L’ALTRA
BAGHDAD

Così non è strano trovare un
medico che, lasciato il camice, indossi la divisa di cameriere in un
ristorante della città. Una volta il massimo del lusso era mangiare in Abu
Nawas, il lungo fiume. Da un paio d’anni la nuova zona di moda per
ristoranti e gelaterie è in A’rasat al-Indìa, dove è più facile vedere gli
ultimi modelli di Mercedes e Land Rover che le macchine dai vetri rotti e
i sedili sfondati tipici di altre zone.  Qui i locali abbondano: c’è
quello illuminato solo da candele e frequentato anche da ragazzi e ragazze
che, a dispetto delle regole islamiche, cercano nella penombra un po’ di
intimità; c’è la gelateria di tre piani dove campeggia una macchina
italiana per fare il gelato; c’è il Castello, in italiano, una specie di
castelletto medievale le cui torrette e merli sono evidenziati da file di
lucine colorate.

Questa è la Baghdad che ha meno
problemi, la città della minoranza che può spendere in una sera ciò che la
maggior parte delle persone guadagna in un mese: la città delle ragazze
con i capelli al vento ed i jeans stretti, e dei ragazzi con il walkman
alle orecchie; la città permissiva, in passato frequentata dai ricchi
sceicchi del Golfo, rispettosissimi delle regole islamiche in patria, ma
pronti a dimenticarle all’estero.

A ben guardare, di questa Baghdad
c’è ancora tutto, anche se in modo meno evidente. Ci sono i teatri; i
cinema dove proiettano, sebbene tagliati in rispetto alle regole
dell’islam, anche film di produzione americana; c’è la musica nei tanti
negozi che vendono cd con gli ultimi successi arabi e inteazionali e
strumenti musicali; c’è persino l’alcornol che, seppure bandito in
osservanza alla «Campagna di fede» lanciata dal governo alcuni anni fa,
viene venduto in appositi negozi gestiti da cristiani.

CONVIVENZA

 L’Iraq è anche un paese che,
sebbene a netta maggioranza musulmana, vede vivere fianco a fianco
cristiani e musulmani.

A Baghdad, ma soprattutto a Mosul,
nel nord del paese, non è difficile scorgere tra le case la croce di una
chiesa. Per la maggior parte dei cristiani e dei musulmani la religione è
un fatto personale e non impedisce di stabilire buoni rapporti.

Se la migliore amica di Samira,
una dottoressa musulmana di 25 anni, è cristiana, una signora di mezz’età
ci ha confessato ridendo che ogni tanto, dopo essere stata in moschea il
venerdì, entra in una chiesa e accende una candela.

Quando le abbiamo chiesto perché,
la sua risposta è stata: «Dio è uno: che differenza fa pregarlo in moschea
o in chiesa?».

Luigia Storti




Reportage dall’Iraq di Saddam

ASSE DEL MALE O ASSE DEL PETROLIO?

Tony Blair, il più
fedele alleato di George W. Bush, ha presentato alla camera dei comuni un
dossier per avvalorare la pericolosità di Saddam. Ma il primo ministro
inglese non ha convinto, confermando indirettamente l’opinione di
Condoleezza Rice secondo la quale non c’è bisogno di provare la
colpevolezza dell’Iraq.
Non si sbaglia. Per giustificare una guerra contro Saddam, è sufficiente
sapere  che Baghdad possiede la seconda riserva di petrolio della terra
dopo l’Arabia Saudita. Intanto,

un ex ispettore
dell’Onu ha svelato che…

 

Quasi sempre si dimentica che il
groviglio di tragiche contraddizioni che lacerano oggi il Medio Oriente è
la conseguenza di due secoli di imperialismo francese, inglese ed
americano.

Interpretare la storia e
l’attualità del Medio Oriente trascurando l’esistenza del petrolio è come
voler scrivere la storia di Torino dimenticando l’influenza decisiva della
Fiat negli eventi della città. Come scrisse anni or sono Filippo Gaja:
«Tutta la legalità del Medio Oriente è stata costruita con l’illegalità,
la prevaricazione e la violenza. Le frontiere non sono che righe
immaginarie che attraversano il deserto, tracciate dopo estenuanti
mercanteggiamenti e continue cancellazioni con riga, compasso e matita, in
base a imperativi arbitrari dettati da calcoli economici, totalmente
estranei agli interessi dei popoli (che, del resto, nessuno si è mai
sognato di interpellare). L’inchiostro con cui questa storia tragica è
stata scritta negli ultimi cento anni è il petrolio».

 Oggi, invece, ci spiegano che
l’intervento armato contro l’Iraq è necessario perché Saddam Hussein,
occultando pericolose armi non convenzionali, costituisce un pericolo per
il mondo intero e perché occorre finalmente portare la democrazia al
popolo iracheno e, a seguire, in tutto il Medio Oriente. 

Anche se le motivazioni sinora
addotte per giustificare l’attacco non si discostano poi molto da quelle
che in passato i regimi liberali e fascisti usavano per legittimare le
imprese coloniali, è interessante notare che questo nuovo diritto
dell’Occidente all’ingerenza democratica è invocato per i paesi del Medio
Oriente, proprio mentre nei paesi del Nord del mondo assistiamo ad uno
straordinario attacco alle libertà e ai diritti democratici fondamentali
in nome della globalizzazione, della governabilità, dei parametri di
Maastricht, del pericolo terrorista, ecc.  

SADDAM, BIN
LADEN E LA «GUERRA INFINITA»

La guerra in Afghanistan ed il
completo fallimento del dichiarato proposito di catturare vivi o morti Bin
Laden ed il fantomatico mullah Omar, hanno reso ancora più evidente che
l’obiettivo delle operazioni militari progettate dagli Usa sotto il nome
di Enduring freedom non ha nulla a che vedere con la guerra al terrorismo
internazionale.

Come il presidente Clinton con i
bombardamenti sull’Iraq riusciva a sviare l’attenzione dell’opinione
pubblica americana dalle sue «prestazioni extra politiche» e ad evitare
l’impeachment (dicembre 1998), così Bush jr., agitando tempestivamente gli
spauracchi di Bin Laden e di Saddam Hussein, riesce a garantire enormi
flussi di denaro all’industria bellica statunitense e tenta di far passare
in secondo piano gli scandali finanziari in cui membri autorevoli della
sua amministrazione sono ampiamente coinvolti.

La «guerra infinita» che Bush ha
garantito al mondo, non è però solo l’ennesimo stratagemma per coprire
difficoltà di politica intea e per tentare di risollevare l’economia
americana da una ormai cronica recessione.

Non è un caso che due degli «stati
canaglia» nel mirino degli Usa, Iraq e Iran (bollati da Bush nel suo
discorso del 29 gennaio scorso sullo «stato dell’Unione», come «asse del
male») siano anche importanti paesi produttori di petrolio.

Si diceva una volta che chi
controlla il Golfo, controlla il mondo. Oggi, il dominio delle risorse
energetiche dell’Asia Centrale, che con quelle del Medio Oriente
rappresentano circa i due terzi delle risorse del nostro pianeta, è un
obiettivo imprescindibile per chi come gli Usa vogliono che il XXI secolo
sia ancora un secolo americano.

Per un paese che aspira alla
«dittatura globale», l’intervento in Afghanistan era perciò necessario,
non solo per insediare un fedelissimo come Karzai al governo del paese, ma
soprattutto per piazzare per la prima volta alcune basi militari nelle
repubbliche ex-sovietiche dell’Asia Centrale che, oltre ad essere una
spina nel fianco di Iran e Cina, potrebbero diventare utilissime per un
attacco all’Iraq, nel caso probabile di un rifiuto di paesi arabi amici di
offrire le loro basi per tale operazione.

Gli eventi dell’11 settembre 2001
e ciò che n’è seguito, il diritto alla legittima difesa, il diritto alla
rappresaglia da tutti riconosciuti ed approvati (persino dall’Onu con
risoluzione 1368 del 12 settembre), sono serviti da pretesto per fornire
una parvenza di legittimità ad un nuovo capitolo della vecchia e mai
dismessa politica delle cannoniere.

Esemplari a tale proposito le
affermazioni del consigliere per la sicurezza nazionale Condoleezza Rice:
«Per l’Iraq non c’è bisogno di prove: Saddam è un individuo pericoloso».

Se per l’Iran si sta ancora
battendo la via diplomatica, per l’Iraq, gli Usa hanno ormai scelto quella
militare.

RAFFREDDARE IL
CONFLITTO PALESTINESE

Nell’editoriale del 22 aprile il
Washington Post si rammaricava che gli Usa non possano attaccare a loro
piacimento l’Iraq senza avere alle spalle il consenso di tutti gli arabi.

Certamente per gli Stati Uniti è
difficile dare, contemporaneamente, una «lezione» a due popoli arabi,
quello palestinese e quello iracheno, senza creare tensioni irreparabili
tra le masse popolari di quei paesi arabi come Egitto, Arabia Saudita e
Giordania, cosiddetti moderati solo perché asserviti agli interessi
occidentali.

Gli Usa non hanno nulla da offrire
se non un temporaneo raffreddamento del conflitto mediorientale, giusto il
tempo occorrente per una guerra che porti ad un cambiamento di regime in
Iraq. Una volta neutralizzato Saddam, potranno delegare nuovamente a
Sharon, Netanyahu o Peres la soluzione del problema palestinese.

La ricerca di alleati interni ed
estei all’Iraq, la scelta all’interno dell’inconsistente e litigiosa
opposizione irachena di una «testa di legno» che garantisca in futuro gli
interessi nordamericani, la risistemazione territoriale del Medio Oriente
e il consenso dell’opinione pubblica americana e mondiale a questa nuova
«operazione di polizia coloniale», sono tutte questioni che gli Usa
debbono definire prima dell’intervento armato.

Per mascherare una divisione del
paese in tre piccoli stati più controllabili e più deboli economicamente e
militarmente, per il dopo-Saddam si prospetta una soluzione federalista,
che permetta «alle etnie sciite, sunnite e kurde di vivere insieme senza
la prevaricazione di una di esse, evitando però che l’autonomia si
trasformi in indipendenza, il che nel caso dei kurdi potrebbe
compromettere un aiuto militare turco», come spiega l’ex segretario di
stato Henry Kissinger.

In realtà si vuole evitare che in
futuro l’Iraq possa tornare ad essere una potenza regionale concorrenziale
ed ostile ad Israele. Perciò tra gli aspiranti alla guida del futuro Iraq
federale troviamo tale Al-Sharif Ali Bin Al-Hussein, parente del re di
Giordania ed esponente hascemita. Ciò di quella monarchia che goveò
l’Iraq con una politica completamente subalterna agli interessi britannici
sino al 14 luglio 1958, quando tutto il popolo iracheno insorse, fucilò la
famiglia reale, linciò il ministro Nuri Said (considerato più inglese
degli inglesi) e proclamò la repubblica.

LA
«CROCIATA» MASS-MEDIATICA                           

L’amministrazione Bush è divisa al
suo interno fra coloro che intendono attaccare (infischiandosene
dell’opinione degli alleati) e quanti ritengono che si debba ricercare il
consenso più ampio, soprattutto fra i governi europei. Questi però,
consapevoli della contrarietà alla guerra della maggioranza dell’opinione
pubblica, si nascondono dietro una risoluzione dell’Onu che avalli
l’intervento armato contro l’Iraq.

 Non esistendo al momento la prova
del coinvolgimento iracheno negli eventi dell’11 settembre, né tanto meno
un collegamento con Al Qaeda, per convincere l’opinione pubblica
dell’urgente necessità della guerra contro l’Iraq, è iniziata una
martellante «crociata mass-mediatica», consistente nella quotidiana
scoperta di fabbriche e depositi di sostanze chimiche, batteriologiche e
nucleari pronte per essere usate contro tutto l’Occidente.

Il copione che si sta realizzando
è quasi simile a quello che portò all’intervento della Nato in Jugoslavia:
il 15 gennaio 1999 venne confezionato dall’Uck l’eccidio di Racak, che
provocò la generale indignazione dell’opinione pubblica la quale diventò
favorevole all’intervento armato. Il 6 febbraio si mise in scena la farsa
dei colloqui di pace di Rambouillet con condizioni talmente vessatorie ed
inaccettabili per la Serbia, che in pratica equivalsero ad una
dichiarazione di guerra.

ALLA
RICERCA  DI UN «CASUS BELLI»

Per l’Iraq si sta costruendo il
casus belli. La richiesta di ispezioni incondizionate corrisponde già alla
farsa di Rambouillet.

È opportuno ricordare che, verso
la fine dell’ottobre 1997, il governo iracheno bloccò alcune ispezioni dei
commissari dell’Unscom (United nations special commission) ai palazzi
presidenziali e alla sede dei servizi segreti (peraltro già perquisiti più
volte), avendo il sospetto che l’obiettivo delle visite non rispecchiasse
gli scopi della risoluzione 687, ma che fosse quello di scoprire il
sistema di sicurezza a protezione del presidente dell’Iraq. Il governo di
Baghdad, nel riconfermare l’intenzione di continuare a collaborare con
l’Onu, richiese però l’allontanamento degli ispettori di nazionalità
americana.

Nei mesi successivi gli Usa fecero
pressioni sui loro alleati per trovare consenso e collaborazione per
risolvere militarmente la controversia; quando ormai la guerra sembrava
inevitabile, il segretario dell’Onu Kofi Annan, su pressione di molti
governi, il 22 febbraio 1998 volò a Baghdad e strappò in extremis un
accordo. Alcune richieste irachene (come quella di iniziare a discutere
una data certa per la fine dell’embargo) vennero prese in considerazione e
si stabilì la continuazione delle ispezioni dell’Unscom, accompagnate da
diplomatici di varie nazionalità, nominati direttamente da Kofi Annan.

Due mesi dopo, gli ispettori più
sensibili alle esigenze degli Usa accusarono i diplomatici nominati dal
segretario dell’Onu di intralciare le ispezioni e in taluni casi di
sostenere addirittura il punto di vista delle autorità irachene.

Nell’agosto 1998, l’Iraq sospese
nuovamente la collaborazione con gli ispettori reclamando una discussione
sulla fine dell’embargo. A fine mese, le tensioni all’interno dell’Unscom
sfociarono nelle dimissioni del più discusso tra gli ispettori: il
colonnello dei marines William Scott Ritter (vedere scheda). Nel corso di
una trasmissione televisiva, Ritter rivelò che gran parte della
commissione, compreso il capo degli ispettori, l’australiano Richard
Butler, lavoravano per la Cia ed Israele. Paradossalmente l’Iraq, cui
competevano le spese delle ispezioni, pagava per essere spiato!

Nel dicembre 1998 gli ispettori di
Butler lasciarono definitivamente Baghdad, sostituiti dai bombardieri
anglo-americani e la questione delle ispezioni è rimasta a tutt’oggi nella
medesima situazione di allora.

L’Iraq chiede di affrontare non
solo il problema delle armi, ma anche quello della durata dell’embargo,
del ripristino della sovranità su tutto il paese e dell’eliminazione delle
no-fly-zones. Gli Stati Uniti puntano solo all’intervento militare per
ripristinare quel dominio sul  petrolio arabo che le nazionalizzazioni dei
primi anni Settanta gli avevano tolto.

Prossima fermata, Teheran.

 


Sfogliando s’impara…
Punire gli innocenti

«“Però – mi si dice – è lecito
castigare un singolo malfattore; dunque sarà lecito anche punire una
collettività con la guerra”. Una replica troppo prolissa esigerebbe
questa obiezione. Mi limiterò a osservare che c’è questa differenza:
nelle azioni giudiziarie il reo convinto paga la colpa secondo la
legge, nella guerra ognuna delle due parti accusa l’altra. Lì il
castigo tocca solo al colpevole, l’esempio arriva a tutti; qui la più
gran parte delle sventure ricade su coloro che meno ne sono
meritevoli, su contadini, vecchi, donne, orfani, fanciulle».

Erasmo da Rotterdam, Adagia,
1508

 Giustizia
Infinita

«Sapete bene ciò che dice la
bibbia: “Occhio per occhio, dente per dente”. Ma io vi dico: non
vendicatevi contro chi vi fa del male. Se uno ti dà uno schiaffo sulla
guancia destra, tu presentagli anche l’altra. Se uno vuol farti un
processo per prenderti la tunica, tu lasciagli anche il mantello. Se
uno ti costringe ad accompagnarlo per un chilometro, tu va’ con lui
per due chilometri».

vangelo secondo Matteo, 5,
38-41

 

«NOT IN OUR
NAME»

«Che non si dica che i
cittadini degli Stati Uniti non hanno fatto nulla quando il loro
governo dichiarava una guerra senza limiti e approvava nuove, dure
misure di repressione.

I firmatari di questa
dichiarazione fanno appello al popolo degli Stati Uniti affinché si
opponga alle politiche e all’orientamento politico generale emersi
dopo l’11 settembre 2001 e che rappresentano gravi pericoli per i
popoli del mondo. (…)

Crediamo che i popoli e le
nazioni abbiano il diritto di determinare il loro destino, al di fuori
della coercizione militare delle grandi potenze. (…)

Crediamo che perplessità,
critiche e dissenso vadano valorizzati e tutelati. (…)

Per questo facciamo appello a
tutti gli americani affinché si oppongano alla guerra e alla
repressione scatenata nel mondo dell’amministrazione Bush. È ingiusta,
immorale e illegittima. Scegliamo di fare causa comune con i popoli
della terra.

Il presidente Bush ha
dichiarato: “Siete con noi o contro di noi”. Ecco la nostra risposta:
ci rifiutiamo di consentirvi di parlare a nome di tutti gli americani.
Non abbiamo intenzione di rinunciare al nostro diritto di porre
domande. Non consegneremo le nostre coscienze in cambio di una vuota
promessa di sicurezza. Diciamo “non a nome nostro”. Ci rifiutiamo di
prendere parte a queste guerre e respingiamo qualunque affermazione
secondo la quale verrebbero  combattute a nome nostro e per il nostro
bene». (…)

appello firmato da 4.000
personalità statunitensi e pubblicato sul

«New York Times», settembre
2002

 

ALLA
RICERCA DI UN PRETESTO

«Oggi come ieri, ciò che la
Casa bianca ricerca non è il ritorno degli ispettori in Iraq: bensì un
pretesto per un’avventura militare che rischia di approfondire il
fossato tra il mondo musulmano e l’Occidente. Chi può sapere quali
sarebbero le conseguenze di una tale impresa su una regione già
sconquassata dall’offensiva del governo israeliano contro i
palestinesi?».

Alain Gresh

su «Le Monde
Diplomatique»settembre 2002

 

 


QUANTI BARILI?

 La classifica dei paesi con
le maggiori riserve di petrolio (in miliardi di barili al gennaio
2002):

 Arabia Saudita   261,75
    Iraq        112,50
    Emirati Arabi        97,80
    Kuwait     96,50
    Iran          89,70

A distanza seguono Venezuela
(77,69) e Russia (48,57). 

 

 

BILANCIO
MILITARE DEGLI STATI UNITI

 –  bilancio militare per il
2003 (*):

355,5 miliardi di dollari, con
un incremento del 37% rispetto al 2002
–  debito pubblico degli Usa: 6.280 miliardi di dollari al 16 nov.
2002

 (*)  ovvero stanziamenti
pubblici per il Pentagono

 

 


ANTIAMERICANO? RILEGGIAMO
IL VANGELO DI MATTEO…

Un amico cui ho fatto leggere
in anteprima queste riflessioni mi ha fatto notare che manca un
giudizio sul comportamento di Saddam Hussein e del governo iracheno.

Abitualmente succede che colui
il quale vuole biasimare l’operato degli Usa, per non passare per un
vetero-comunista antiamericano e filo Saddam, deve prima elencare
tutte le malefatte del dittatore iracheno.

Per fortuna, nella mia vita ho
quasi sempre potuto esprimere il mio pensiero senza che ciò implicasse
la perdita del posto di lavoro o ritorsioni e quindi posso
tranquillamente  affermare che nessuna nefandezza al mondo è
paragonabile o può giustificare il crimine di genocidio del popolo
iracheno, perpetrato dagli Usa attraverso l’embargo che, dal 1990 ad
oggi, ha procurato almeno 1.500.000 vittime. Tutto ciò, con la servile
complicità degli altri governi occidentali, di centro-destra e di
centro-sinistra, e con l’avallo dell’Onu.

Credo allora sia opportuno
ricordare quel consiglio del vangelo secondo Matteo (Mt 7,3-5) che
recita: «Perché osservi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello,
mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio? Come potrai
dire al tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza dal tuo occhio,
mentre nell’occhio tuo c’è la trave? Ipocrita, togli prima la trave
dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza
dall’occhio del tuo fratello».

Cesare Allara




Reportage dall’Iraq di Saddam

LA «CONVERSIONE» DI SADDAM

Sulla bandiera del paese si staglia
«Allah Akbar». Da tempo il presidente iracheno ha capito che la religione
può aiutarlo. E così ha deciso di ergersi a paladino dell’islam. Stretti
tra sciiti e sunniti, i cristiani sono circa il 3% della popolazione,


la maggioranza dei quali cattolici caldei, che…

In Iraq la religione di stato è
l’islam.
Ma l’articolo 25 della Costituzione riconosce la libertà di culto per le
altre religioni. Per questa ragione, in un paese a netta prevalenza
islamica (65% sciiti e 32% sunniti) vengono riconosciute dal governo altre
14 professioni di fede tra cattoliche, ortodosse e protestanti.

I cristiani in Iraq rappresentano
circa il 3% della popolazione, una stima non certa visto che non esistono
dati ufficiali recenti. A questa mancanza di precisione si deve aggiungere
l’emigrazione di molti cristiani (specialmente negli Stati Uniti
d’America), il cui numero è sconosciuto.

Il 70% dei cristiani iracheni
appartiene alla Chiesa cattolica caldea, una chiesa «uniate» (in comunione
con Roma) di rito orientale, che ha la massima espressione gerarchica nel
patriarca Raphael Bidaweed I, la cui sede è a Baghdad, che conta circa 100
tra chiese e conventi in tutto il paese, di cui 25 parrocchie nella sola
capitale.

Capire le condizioni in cui questa
comunità vive non è facile. Certo, se si pensa alla situazione dei non
musulmani nei paesi vicini, come l’Arabia Saudita o gli Emirati Arabi
Uniti, ci si deve rallegrare della sua stessa sopravvivenza. L’impressione
è che, se ci sono dei problemi, questi non riguardano le persone, ma
alcune politiche di governo.

L’Iraq, retto dal 1968 dal partito
Baath, si distingueva per essere un paese laico, anche se a maggioranza
musulmana, in un’area intensamente permeata dallo spirito dell’islam.
Però, da qualche tempo, sembra che le cose stiano cambiando.

A Saddam Hussein viene comunemente
attribuito il desiderio di diventare un nuovo Nasser, un leader capace di
riunire sotto di sé tutto il mondo arabo; e la religione, prima relegata
alla sola sfera privata, sembra essere un buon mezzo per raccogliere i
consensi di quel mondo: Saddam Hussein paladino della lotta per la
riconquista della Palestina contro l’invasore ebreo; Saddam Hussein eroe
dei popoli che percepiscono gli attacchi e le guerre del mondo occidentale
non musulmano non in senso politico-economico, ma religioso: il mondo
contro l’islam.

Questo avvicinamento all’islam,
legato alla nuova immagine di capo religioso in un paese musulmano, che
Saddam vuole sia percepito (sia in patria che all’estero), ben si confà
anche agli iracheni che, come tutti i popoli in disgrazia, trovano l’unico
conforto nella religione.

Ecco quindi comparire sulla
bandiera irachena «Allah Akbar» (Allah il più grande); ecco che ogni anno,
in occasione del compleanno del presidente, si inaugura una nuova moschea
e, contestualmente, si posa la prima pietra di un’altra.

A Baghdad è in costruzione la
moschea più grande del mondo, Saddam Grand Mosque, il cui progetto prevede
8 minareti, di cui 4 alti 280 metri. Nel 2000 fu terminata la moschea di
Um al-Maarik, dedicata alla «madre di tutte le battaglie» come venne
chiamata in Iraq la guerra del Golfo, anch’essa con 8 minareti: 4 hanno la
forma di canne di mitragliatrice, con il colpo innestato, e 4 di rampe di
lancio dei missili scud, che nel 1991 caddero su Israele e Arabia Saudita.
E un chiaro messaggio del legame religione-potere-guerra, che non passa
inosservato.

Dal 1997 (anno del nostro primo
viaggio) al 2001, il numero delle donne che per le strade di Baghdad
indossano il velo che copre il capo è aumentato notevolmente; a Mosul, una
delle vie principali, è quasi impossibile trovare una donna per strada dal
tramonto in poi.

Il ricorso alla religione (ultima
risorsa per chi non ne ha più) è favorito dal governo. Questo, grazie ad
una politica accorta, cerca di deviare l’attenzione verso un elemento che
può consolare e amalgamare, nel nome dell’islam, le aspirazioni delle due
grandi componenti religiose: i sunniti (minoritari, ma al potere) e gli
sciiti (maggioritari, ma con scarsa rilevanza politica ed economica).

QUEL CALDEO DI
TAREQ AZIZ

In questa situazione come vivono i
cristiani? La questione deve essere esaminata da due punti di vista:
quello delle fonti di informazioni e, poi, quello dell’analisi delle
informazioni stesse.

Le fonti informative sono due: i
cristiani che vivono in Iraq e quelli che l’hanno abbandonato e risiedono
all’estero. Le fonti intee parlano di convivenza non problematica nella
maggioranza dei casi; spesso, quando si tocca l’argomento, si fa notare
che il vice primo ministro, Tareq Aziz, è cristiano caldeo.

Circa la vita di tutti i giorni,
noi stessi abbiamo assistito ad una cerimonia in una chiesa caldea di
Baghdad, dove a suonare l’organo ed intonare i canti era un musulmano,
Mohammed. E le stazioni della Via Crucis della chiesa dell’Assunzione a
Baghdad furono scolpite dal musulmano Ghani, uno dei maggiori scultori
iracheni viventi.

Una situazione idilliaca quindi?
Secondo fonti estere non si direbbe. I cristiani (per esempio nella ricca
zona petrolifera di Kirkuk) sarebbero sottoposti alla ricollocazione
forzata in altre zone, compiuta dal governo che vorrebbe «arabizzare»
un’area di interesse economico e strategico, essendo Kirkuk vicinissima
(ma fuori) della no fly zone controllata da americani ed inglesi e, di
conseguenza, importantissima, in vista di un’eventuale invasione di truppe
dal nord curdo. La ricollocazione riguarda pure i kurdi, i turkmeni e gli
yazidi.

Un altro problema investe
l’identità dei cristiani che, pur dichiarandosi discendenti degli assiri,
sono costretti a «dimenticare» la loro origine per assumere quella
dell’etnia maggioritaria della zona in cui abitano. Le etnie riconosciute
in Iraq sono solo l’araba e kurda.

Inoltre un recente decreto
governativo stabilisce che non è più possibile dare ai nuovi nati nomi non
arabi, iracheni o islamici, con un chiaro richiamo alla religione
maggioritaria. La ragione è di porre fine all’abitudine dei cristiani di
dare ai figli nomi stranieri. Pertanto, se è possibile riferirsi a nomi
biblici, questi devono avere sempre la forma araba: non più Maria o Mary,
ma Mariam. È solo un nazionalismo un po’ esasperato? I cristiani giudicano
il decreto un tentativo di «arabizzarli»; ma, pur adeguandosi «obtorto
collo», nella vita privata Mariam continua a essere Maria.

Più grave è la conferma dataci da
mons. Shlemoun Warduni, patriarca vicario dei caldei, dell’inizio di
applicazione di un nuovo decreto. Esso impone, nei documenti di identità,
di dichiararsi o musulmano o non musulmano. Libertà religiosa a parte, il
decreto è potenzialmente pericoloso dal punto di vista legale. Oggi l’Iraq
è ancora uno stato laico; però, se le cose dovessero mutare, i cristiani
potrebbero non godere più della protezione prevista dal corano per le
«genti del libro» (ebrei e cristiani, in quanto depositari di un messaggio
divino) e ricadere nella categoria di popoli atei, non meritevoli di
protezione.

IL MINISTERO
DEGLI AFFARI RELIGIOSI

Molto delicato è il problema della
libertà religiosa. In Iraq esiste il reato di apostasia (la conversione di
un fedele ad un’altra religione). Ma un cristiano che diventa musulmano
non rischia nulla; anzi, probabilmente, dalla sua conversione trarrebbe i
vantaggi che di solito appartengono alla maggioranza. Invece il musulmano
che volesse farsi cristiano non avrebbe vita facile: sebbene
(fortunatamente) non venga più applicata la pena di morte, lo aspetterebbe
tuttavia la «morte civile», la perdita del lavoro, dei beni, del diritto
ereditario e, addirittura, della moglie e dei figli da cui sarebbe
forzatamente separato.

Le possibilità di conversioni
dall’islam al cristianesimo non appaiono grandi, perché i cristiani non
possono fare proselitismo al di fuori dei loro edifici di culto e studio.
Lo stesso insegnamento della religione cristiana a scuola va scomparendo.
Sembra infatti che, contestualmente all’obbligo dello studio del corano in
tutte le scuole del paese (compresi gli orfanotrofi cattolici frequentati
solo da cattolici), gli istituti dove si insegna il cristianesimo siano
sempre meno.

Stando ad un decreto del 1972,
l’insegnamento di tale materia è obbligatorio solo nelle scuole in cui il
numero degli alunni cristiani raggiunge il 25%. Secondo fonti estere ed
intee, sarebbero sempre più numerosi i direttori scolastici che, per non
gravare sul bilancio con lo stipendio di un insegnante di religione
cristiana, rifiuterebbero l’ammissione di alunni che porterebbero la
percentuale della presenza al 25%.

Da questi esempi si capisce che le
informazioni sulla condizione dei cristiani sono molto diverse, a seconda
della fonte di provenienza. Molti definiscono «troppo allarmistiche» le
notizie provenienti dall’estero. In realtà esse poggiano su una base di
verità.

Resterebbe da capire la ragione
della disparità di tono nella denuncia. Nel caso delle prudenti fonti
intee, un’ipotesi potrebbe essere il desiderio di non scontentare il
governo e quello, comune a molte minoranze, di tenere un basso profilo,
che favorirebbe di più la sopravvivenza.

Nel caso delle fonti estee
(quasi tutte nordamericane), i giudizi negativi potrebbero nascere da una
volontà di denuncia sincera, rafforzata dall’essere ormai fisicamente
lontani da qualsiasi eventuale conseguenza. Inoltre ci potrebbe essere la
complicità (diretta o indiretta, cosciente o meno) di tali fonti con i
governi che, da 12 anni (e con nuovo impeto dopo l’«11 settembre»), hanno
iniziato e continuato la campagna di demonizzazione dell’Iraq, capro
espiatorio della volontà egemonica di quei governi nell’area
mediorientale.

L’Iraq è un paese in cui non è
facilissimo avere delle informazioni; per esempio, ogni aspetto della
religiosità, musulmana o cristiana, viene filtrato, esaminato e ricondotto
al ministero degli Affari religiosi, in totale controllo dei musulmani.

Per capire la situazione dei
cristiani, è necessario raccogliere tutte le informazioni possibili, da
ogni fonte, e cercare di ricostruire un quadro globale.

Ci augureremmo che la situazione
fosse quella di pacifica convivenza, sbandierata sia dai cristiani sia dai
musulmani che vivono nel paese. Se così non fosse, le speranze di
sopravvivenza della comunità cristiana sarebbero veramente ridotte: spinti
all’emigrazione da guerre, condizioni minoritarie, tragica situazione
economica, i cristiani potrebbero scegliere di abbandonare quei luoghi nei
quali, con San Tommaso, la cristianità arrivò ben sei secoli prima
dell’islam.

Gli eventi dal
1990 al 2002

GUERRA, EMBARGO,
DISTRUZIONE, MORTE

1990:
invasione del Kuwait 2 agosto: risoluzione 660

Il Consiglio di Sicurezza
dell’Onu (Cds) condanna l’invasione e ordina all’Iraq di ritirarsi dal
Kuwait.

6 agosto: risoluzione 661
Il CDS dell’Onu impone l’embargo totale.

25 agosto: risoluzione 665
L’Onu autorizza l’uso della forza per assicurare l’attuazione
dell’embargo.

29 novembre: risoluzione 678
Ultimatum: «gli stati membri dell’Onu sono autorizzati ad usare tutti
i mezzi necessari per far attuare le precedenti risoluzioni a partire
dal 15 gennaio 1991».

1991:
«guerra del Golfo»

16/17 gennaio Inizia la
«guerra del Golfo».

28
febbraio L’Iraq si ritira dal Kuwait: fine della «guerra del Golfo».

3 aprile: risoluzione 687

Il Cds proroga le sanzioni
fino alla distruzione completa di tutte le armi non convenzionali da
parte dell’Iraq. Il disarmo nucleare è sottoposto al controllo
dell’Aiea (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica), mentre per
il controllo e la distruzione delle armi chimiche e batteriologiche
viene creata una commissione internazionale speciale detta Unscom.

giugno
Francia, Usa e Gran Bretagna istituiscono le «no-fly zones» che
vietano all’aviazione irachena il sorvolo delle zone Nord e Sud
dell’Iraq. Ciò al fine di proteggere dalla guerra i kurdi al nord e
gli sciiti al sud.

11 ottobre: risoluzione 715
Gli ispettori dell’Unscom vengono autorizzati ad ispezionare senza
limiti qualsiasi luogo dell’Iraq.

1992: Mig
2 ottobre: risoluzione 778

Congelamento dei beni iracheni
all’estero.

27 dicembre
Un caccia F-16 abbatte un Mig iracheno nella «no-fly zone»
meridionale.

1993: bombardamenti

gennaio:
Bombardieri Usa martellano per giorni «obiettivi militari» iracheni in
risposta ad asserite violazioni del cessate il fuoco.

giugno
Presunto complotto di Saddam Hussein per uccidere l’ex presidente Bush
in visita nel Kuwait. In conseguenza di ciò le navi Usa presenti nel
Golfo sparano 23 missili cruise sul quartier generale dei servizi
segreti iracheni a Baghdad uccidendo 6 persone.

1994:
Kuwait riconosciuto

10 novembre
Il Consiglio del Comando della Rivoluzione e l’Assemblea Nazionale
Irachena riconoscono la sovranità, l’integrità territoriale,
l’inviolabilità dei confini e l’indipendenza politica del Kuwait, come
stabilito dalla commissione Onu nell’anno precedente.

1995: «oil for food»

aprile: risoluzione 986
La mancanza di cibo e medicinali provoca, secondo l’Unicef e la Cri,
la morte di 4.500 bambini al mese. Vista la grave situazione
alimentare e sanitaria venutasi a creare a causa dell’embargo l’Onu
elabora la risoluzione detta «oil for food» che permetterebbe all’Iraq
di esportare ogni 6 mesi 2 miliardi di dollari di petrolio in cambio
di cibo e medicinali. Il governo iracheno rifiuta la risoluzione e
chiede la fine immediata dell’embargo.

1996: kurdi

20 maggio
L’Iraq, dopo trattative con il Segretario generale dell’Onu, accetta
l’applicazione della 986.

31 agosto: lotte tra kurdi
Il presidente Clinton decide di intervenire militarmente contro l’Iraq
dopo che il Partito Democratico del Kurdistan (Pdk) di Barzani,
appoggiato dall’esercito iracheno, ha cacciato i rivali kurdi del Puk
di Talabani dalla città di Erbil.

31 ottobre
Con la mediazione Usa termina il conflitto tra Puk e Pdk.

dicembre
Inizia l’operatività della «oil for food»: dal ricavato della vendita
del petrolio il 50% serve per pagare i danni di guerra, per le spese
di distruzione degli armamenti e convenzionali, per le spese degli
ispettori dell’Onu e per il sussidio ai kurdi del nord.

1997: ispettori

27 ottobre
L’Assemblea nazionale irachena raccomanda la sospensione della
collaborazione con gli ispettori Onu, fino a quando non saranno
definiti tempi certi per la revoca dell’embargo.

29 ottobre
Il vice premier iracheno Tareq Aziz, in una lettera al Cds, denuncia
che gli ispettori dell’Unscom non puntano a realizzare il mandato
della commissione ma a rilevare i sistemi di sicurezza dell’Iraq.
L’Iraq esige perciò che gli ispettori americani, considerati spie, se
ne vadano entro una settimana.

13 novembre
L’Iraq ordina l’espulsione degli ispettori Usa. Dopo intense
trattative, con la mediazione russa, gli ispettori ritornano a
Baghdad.

dicembre
Gli iracheni vietano agli ispettori dell’Unscom ulteriore accesso ai
siti presidenziali.

1998: ancora «problemi»

gennaio
Gli Usa preparano una nuova guerra contro l’Iraq, senza però trovare
l’appoggio dei paesi arabi.

febbraio
Una proposta di mediazione russa, che prevede la formazione di una
speciale commissione molto allargata (composta da esperti dei 5 paesi
membri del Cds e da quelli dei 21 paesi membri dell’Unscom), che possa
visitare gli 8 siti presidenziali sospetti, viene accettata da
Baghdad, ma respinta da Washington.

23 febbraio
Kofi Annan, dietro pressioni europee e arabe, vola a Baghdad e in
extremis riesce a strappare un accordo che, riprendendo in larga parte
la proposta russa, impedisce l’intervento Usa e regolamenta le
ispezioni Onu ai palazzi presidenziali.

3 aprile
Si concludono le ispezioni ai palazzi presidenziali, senza che in essi
siano stati trovati i laboratori per la fabbricazione di armi chimiche
e batteriologiche.

10 aprile
Il capo degli ispettori dell’Unscom, l’australiano Richard Butler e
gli ispettori Usa accusano gli esperti nominati da Kofi Annan di
intralciare le ispezioni e di sostenere il punto di vista delle
autorità irachene.

14 aprile
L’Aeia annuncia che l’Iraq ha completamente smantellato il programma
nucleare.

19 maggio
Tareq Aziz in visita a Roma invita il papa in Iraq.

23 giugno
Butler accusa Baghdad di produrre gas nervino per i missili.

30 giugno
Dopo che un F-16 Usa ha colpito con un missile Harm una «postazione
radar» nella zona di non volo vicino a Bassora, l’Iraq chiede
l’abolizione delle «no-fly zones» decise, senza l’approvazione
dell’Onu, da Usa, Gran Bretagna e Francia.

3 agosto
Le autorità irachene accusano Butler di trovare sempre nuove scuse per
non riconoscere l’avvenuto disarmo iracheno e per mantenere in vita
l’embargo come vogliono gli Usa.

4 agosto
Richard Butler se ne va da Baghdad.

5 agosto
Nonostante i talebani siano pronti a consegnare Bin Laden, gli Usa
bombardano per rappresaglia il campo di addestramento di Hakrat in
Afghanistan e una fabbrica di medicinali alla periferia di Karthum in
Sudan che produceva e vendeva medicinali anche all’Iraq.

27 agosto
Il colonnello dei marines William Scott Ritter, il più discusso tra
gli ispettori dell’Unscom, si dimette.

1° settembre
In una intervista ad una televisione nordamericana Scott Ritter rivela
che gran parte della Commissione, compreso il capo degli ispettori,
l’australiano Richard Butler, lavorano per la Cia ed il Mossad
israeliano.

1° ottobre
Dennis Halliday, cornordinatore per l’Onu del programma umanitario in
Iraq, si dimette per protesta contro l’embargo Onu.

5 novembre
L’Onu condanna l’Iraq per non collaborazione con gli ispettori
dell’Unscom. Gli Usa preparano l’intervento militare.

11 novembre
Ultimatum Usa a Baghdad: gli ispettori lasciano precipitosamente
l’Iraq.

14 novembre
Su pressione dei Kofi Annan l’Iraq accetta il ritorno degli ispettori.

17 novembre
Gli ispettori appena giunti a Baghdad chiedono alle autorità irachene
di consegnare documenti su ipotetici programmi batteriologici e
chimici che Butler ritiene esistenti: l’Iraq rifiuta.

9 dicembre
Butler accusa l’Iraq di aver bloccato un’ispezione al quartier
generale del partito Baath.

16 dicembre
Gli ispettori fuggono da Baghdad. Alle 22.50 improvviso attacco
missilistico Usa contro Baghdad.

17/20 dicembre
In 4 giorni di bombardamenti vengono lanciati più missili di quanti ne
furono impiegati durante tutta la guerra del Golfo del 1991. Colpiti
anche ospedali, università e fabbriche. Si stimano 1.600 morti. Gli
attacchi missilistici proseguiranno quasi quotidianamente fino ai
giorni nostri.

1999: incursioni aeree

17 dicembre: risoluzione 1284
Il Consiglio di sicurezza dell’Onu istituisce l’Unmovic che
sostituisce l’Unscom e promette che le sanzioni verranno sospese, se
l’Iraq collaborerà con gli ispettori «sotto tutti gli aspetti».

Secondo il ministero della
Difesa iracheno, nel 1999, le incursioni aeree anglo-americane sono
state 16.848 ed hanno causato più di 150 morti e quasi 400 feriti in
grande maggioranza civili.

2000: l’embargo non perdona

14 febbraio
Con le identiche motivazioni di Dennis Halliday si dimettono in pochi
giorni il tedesco Hans Von Sponeck, cornordinatore del programma
umanitario Onu per l’Iraq, e la sua connazionale Jutta Burghart,
responsabile del «World Food Program».

1° marzo
Hans Blix è nominato capo dell’Unmovic.

agosto
Secondo il ministero della sanità iracheno, l’embargo ha provocato dal
1990 ad oggi 1.273.000 vittime.

settembre
L’Iraq respinge nuovamente gli ispettori dell’Onu che dovevano
riprendere i controlli sul disarmo non convenzionale.

novembre
L’Iraq decide di eliminare il dollaro e di adottare l’euro come moneta
per il commercio estero.

2001: l’anno dell’«11
settembre»

16 febbraio
L’Iraq sfida le «no-fly zones» e ripristina i collegamenti aerei
civili tra Mosul, Baghdad e Bassora.

maggio: arriva Bush figlio
Appena insediato, il nuovo presidente Bush jr. bombarda Baghdad: non
accadeva dal natale 1998.

giugno
Riapertura della linea ferroviaria di collegamento con la Turchia,
interrotta nel 1981.

11 settembre: attentati di New
York
Dopo la tragedia delle Torri gemelle, George W. Bush guarda
all’Afghanistan dei talebani e all’Iraq di Saddam.

2002: l’era della guerra
preventiva?

23 settembre: la dottrina di
Bush
George W. Bush presenta al Congresso statunitense e al mondo la sua
dottrina nel «The National Security Strategy of the United States».
Inizia l’era della «guerra preventiva».

24 settembre: il dossier di
Blair
Il primo ministro inglese Tony Blair, principale alleato di Bush,
presenta alla camera dei comuni un dossier dei servizi segreti
sull’Iraq. Ma le prove non convincono. Pochi giorni dopo (28
settembre) Londra ospita una grande manifestazione contro la guerra.

24 settembre:

«Vade retro» Germania!

A Varsavia, il ministro della
difesa statunitense, Donald Rumsfeld (con Condoleezza Rice, un
«superfalco» dell’amministrazione Bush), si rifiuta di stringere la
mano al collega tedesco Peter Struck, ministro del cancelliere Gerhard
Schroder, appena riconfermato dagli elettori anche per il suo «no»
alla guerra contro l’Iraq.

1 ottobre: gli Usa contro gli
ispettori
A Vienna si trova un accordo: gli ispettori dell’Onu possono tornare a
Baghdad. Ma gli Usa (spalleggiati dalla Gran Bretagna) si oppongono.
Vogliono una nuova risoluzione, che preveda l’utilizzo della forza.

10 ottobre: sì di Camera e
Senato
La Camera e il Senato degli Stati Uniti autorizzano «il presidente a
usare le forze armate, come ritiene necessario e appropriato, al fine
di difendere la sicurezza nazionale degli Usa contro la minaccia
continua posta dall’Iraq».

26 ottobre: contro la guerra

A Washington e a San Francisco sfilano i pacifisti statunitensi. Sono
le più grandi manifestazioni dai tempi della guerra del Vietnam.

5 novembre: vince Bush
Nelle elezioni di medio termine vincono i repubblicani del presidente
Bush.

8 novembre: risoluzione Onu

Il Consiglio di sicurezza approva all’unanimità la risoluzione 1441,
che sancisce la ripresa delle ispezioni in Iraq. In caso di mancata
collaborazione, Baghdad rischia «gravi conseguenze».

13 novembre: Baghdad accetta

L’ambasciatore iracheno presso le Nazioni Unite consegna a Kofi Annan
una lettera in cui si dice che «l’Iraq accetta senza condizioni il
ritorno degli ispettori» .

18 novembre: arrivano gli
ispettori
Hans Blix guida il primo gruppo di ispettori (30 persone). Lo svedese
annuncia che anche un semplice ritardo di 30 minuti nell’apertura di
un sito sarà considerato una violazione seria.

Luigia Storti




KENYA, AMORE NOSTRO

«Il 28 giugno 1902, ottava della
festa della Consolata, alle ore
4,30 ho la santa soddisfazione
di celebrare la prima messa che si sia
detta in questa parte del Kikuyu.
Consacro alla Consolata queste povere
anime, supplicandola che ci ottenga
dal suo Divin Figlio di poter presto
raccogliere frutti abbondanti di vita
eterna». Così scrisse padre Filippo
Perlo, da Tuthu, fra i KIKUYU. Con lui
c’erano padre Tommaso Gays e i fratelli
coadiutori Celeste Lusso e Luigi Falda.
Iniziava dunque, 100 ANNI FA,
l’evangelizzazione dei missionari
della Consolata in Kenya,
neo colonia britannica.
Un’«avventura» tutta in salita.
Perché?

«MA NOI NON SIAMO COME LORO»
Uno scozzese che rapava le donne, e non solo.
I bianchi che comandavano
e i neri che obbedivano, e non solo.
Mentre i missionari ne risentivano negativamente.

IL RICORDO NEFASTO
DI BOYES

Gli europei che, dal 1895 e con
vari intenti, misero piede nel Kenya
dei kikuyu lasciarono negli abitanti
un ricordo ostile. Lo confermò il
capo locale Karuri, che commentò
il primo incontro con il bianco: «Ne
ebbi paura. Credetti di vedere un
dio e, appena a casa, prima di entrare
nel villaggio, presi un montone
per fae un sacrificio a quel dio
bianco, affinché non mi seguisse in
casa mia» (cfr. «Fonti»).
La figura che, all’inizio e più di
ogni altra, riscosse una deplorevole
nomea, fu J. Boyes. Questo scozzese,
accompagnato da 60 askari senza
scrupoli, terrorizzò Tuthu e dintorni,
al punto che la gente emigrava
in massa nell’eventualità di un
suo insediamento nel villaggio.
Era un commerciante e predatore
di bestiame, che fece strage
di elefanti incamerando
enormi quantità di avorio.
Non risparmiò le donne; se
qualcuna non gli andava a
genio, la esponeva al pub-
blico scherno, dopo averla rapata a
zero, legata ad un albero e, magari,
fucilata. L’esperienza con quell’europeo
rese i kikuyu molto circospetti:
ogni bianco era un possibile
Boyes.
I missionari della Consolata subirono
in modo negativo l’accostamento
all’avventuriero. «In qualche
villaggio – scrissero – trovammo un
po’ di diffidenza, e la causa è questa:
circa un anno fa venne qui un
certo Boyes. L’arrivo dei bianchi in
questi luoghi fu da qualcuno creduto
un ritorno di Boyes e dei suoi
metodi».
A Nyeri, fino al 1907, gli anziani
si domandavano chi fosse il patri
(padre) e rispondevano: «È un indiano
che viene a vendere cotonate
o un forestiero che compra ragazze
». Bastava addentrarsi nei villaggi
per cogliere la diffidenza.

CAROVANE, TASSE, MACCHINE
I britannici «pacificarono» la colonia
del Kenya dal 1899 al 1902.
Per salvaguardare l’occupazione, le
truppe militari si spostavano da una
regione all’altra continuamente;
gli spostamenti
erano affiancati
da carovane di portatori, che assicuravano
viveri e munizioni. A tale
scopo furono ingaggiati, con la forza,
anche uomini e donne dei territori
sottomessi.
Nacque allora la frase «andare in
carovana», che alludeva ad un grave
pericolo di vita. Infatti numerosi
portatori, durante il tragitto, soccombevano
per mancanza di assistenza
sanitaria, eccessiva fatica ed
attacchi di guerriglia.
Anche il missionario, appena arrivato,
organizzò carovane. Fu questo
l’unico mezzo a disposizione per
aprire e dislocare i suoi centri di influenza.
Una strategia rischiosa, dato
l’esempio negativo del regime coloniale.
Il potere della Corona inglese divenne
effettivo, tra l’altro, con l’imposizione
della tassa sulle case. La
quota fu di due rupie, poi tre e, infine,
sei. Quando scattarono gli aumenti,
parecchi kikuyu, colti alla
sprovvista, si riversarono nella missione
cattolica in cerca di lavoro.
Spesso gli operai del patri furono costretti
a chiedergli un anticipo di stipendio,
altrimenti l’ufficiale del governo
avrebbe razziato loro il bestiame
o bruciato la capanna o
sequestrato le donne.
Il comportamento dell’amministrazione
coloniale fu osservato con
attenzione dal missionario, che temette
una ritorsione del malumore
generale anche nei suoi confronti.
Un detto significativo, che misurava
la diffidenza kikuyu verso lo
straniero, era: «Il bianco ci ha conciati
per le feste». Tali parole, oltre
che ricalcare avversione, erano pregne
pure di magico terrore.
I bianchi apparvero ai kikuyu fra
lo scoppiettio di fucili e il frastuono
di treni, dall’alto di ponti e carri o
comodamente seduti in case di pietra.
Per i nativi tutto ciò sconfinava
nell’incomprensibile, per non dire
diabolico. Un anziano riferì ad un
padre: «Voi bianchi siete padroni
dell’ngoma [spirito malvagio]. Non
c’è un ngoma in quelle cose che voi
chiamate macchine? Vedi, noi ci intendiamo
di ferro e facciamo molti
lavori con esso, ma non abbiamo
mai visto il ferro andare da sé, parlare
e poi uccidere da lontano, sputando
fuoco su chi vuole».
Anche il missionario fu coinvolto
in questo giudizio di timore. Egli sarebbe
stato «un figlio del sole».
Quando correva in bicicletta o metteva
mano all’aratro, tirato da buoi,
la gente esclamava: «Costui è Dio».
L’ultimo atto dell’occupazione, il
più odiato, fu l’espropriazione delle
terre. L’azione fu condotta in vista
delle fattorie da assegnarsi ai coloni,
che avrebbero consolidato la supremazia
bianca in Kenya.
Il missionario accettò il sistema,
ritenendolo un male necessario affinché
la popolazione approdasse al
progresso. Egli diede per scontato il
lavoro come via allo sviluppo.
Ma i kikuyu stentarono a capire:
a cogliere, per esempio, la diversità
di azione dei bianchi del governo rispetto a quelli della missione. Occorse
del tempo per comprendere
che i primi erano una cosa e i secondi
un’altra.

DISTINGUERSI
DAI COLONIALISTI

All’inizio i rapporti fra la missione
cattolica e l’amministrazione coloniale
furono improntati a vicendevole
simpatia.
Tuttavia il missionario non tardò
a comprendere che, battendo quella
via, avrebbe compromesso la sua
opera. Era dunque urgente mutare
rotta. Accorgendosi che il proprio
comportamento era attentamente
studiato dai kikuyu, colse la palla al
balzo per prendere le distanze dal
colonialista: evidenziò la sua identità
facendosi chiamare patri o mundu
wa Ngai (uomo di Dio).
Un altro elemento differenziatore
fu la scorta armata. Era quasi una
regola che il bianco circolasse per il
paese circondato da 30-40 askari. Il
missionario intuì che la presenza di
soldati alle calcagna lo avrebbe accomunato
ai conquistatori. E rifiutò
la scorta fra lo stupore generale.
Esisteva un’altra tentazione: costruire
le missioni, sfruttando la mano
d’opera gratuita degli africani.
Dopo «le spedizioni punitive», il
governo, per scoraggiare nuove ribellioni,
obbligava 100-200 uomini
di ogni tribù a lavorare gratis per le
sue strutture coloniali (strade, fortezze,
abitazioni di askari, ecc.). Il
potere avrebbe avallato il sistema
anche per il missionario cattolico,
che però declinò l’offerta.
Bisognava non dar adito ad alcuna
illazione di connivenza fra i due
poteri: «Tanto più – commentavano
i missionari – che ripetiamo sempre
che qualsiasi lavoro fatto per noi viene
ricompensato. Una tale idea di
giustizia fa molto effetto sugli indigeni,
assuefatti a vedere nei bianchi
soltanto degli usurpatori».
Questa citazione indica un aspetto
importante per diversificare il
missionario dal colonialista: il lavoro
retribuito. I kikuyu ben presto
acquistarono la certezza che, lavorando
con il patri, erano subito pagati
in contanti, e non a colpi di kiboko
(staffile), come accadeva nei
lavori forzati del governo.
La notizia di un «bianco diverso»,
che pagava gli operai, si divulgò rapidamente.
«Durante le carovane,
alla fine della giornata, i portatori
cantavano le lodi del padre: la canzone
diceva che essi volevano sempre
lavorare con lui, perché era buono.
Il genere di bontà era specificato
e consisteva nelle rupie con cui
avrebbe pagato il loro lavoro».

LA MEDICINA GRATUITA
Il missionario, per farsi conoscere
ed accettare, camminava ore e ore
per i villaggi kikuyu «senza neppure
chiedere una banana»: e intanto
curava i malati. Egli non lesinò fatiche
in questa attività. Ogni giorno,
per ben sette ore, visitava i villaggi
distribuendo medicine; oppure attendeva
a malati in missione, curando
anche 100 persone.
Così facendo, la fama di questo
uomo bianco speciale si spandeva
ovunque.
Padre Carlo Ciravegna, ricordando
quell’intenso apostolato, scrisse:
«Di uomini bianchi ne passavano
molti sulle strade carovaniere dei
grandi laghi equatoriali: ma questi
venivano a comprare avorio e a conquistare
il paese; si facevano accompagnare
da askari armati. Invece i
padri non facevano commercio, non
avevan fucili… ma passavano facendo
del bene, curando gratuitamente
i malati. Fare del bene a gente sconosciuta
era per questi poveri neri
un fatto inaudito: per la prima volta
essi vedevano spiegarsi davanti ai loro
occhi stupefatti i miracoli della
carità cristiana».
La strategia per rimuovere le remore,
che impedivano al missionario
l’accesso psicosociale ai kikuyu,
trovò una punta di diamante nell’amicizia
con i capi locali. Il piano fu
realizzato con gradualità.
Già esisteva una piattaforma: la
familiarità con la popolazione, specie
con le donne e i bambini. «Come
volentieri le madri cedono ora
alle braccia delle suore i bimbi, e
quanto sono felici quando esse li accarezzano!
Poco alla volta noi riusciamo
a farci kikuyu ed entriamo
ogni giorno di più nella loro vita».
Visitando Murang’a, il missionario
fu accolto con entusiasmo. Gli
andarono incontro un capo famiglia,
le donne e i bambini, offrendogli
i primi posti attorno al fuoco; e
quando il patri parlava, tutti pendevano
dalle sue labbra. Alla fine dell’incontro,
il pater familias si dichiarò
figlio e servo dell’ospite. La
familiarità raggiunta si concretizzò
in scambi di doni: da una parte un
po’ di tembo (bevanda alcornolica),
latte o un montone e, dall’altra, una
coperta colorata.
Un giorno il genitore di un operaio
del centro di Tuthu si recò dal
missionario, che raccontò: «Egli mi
parla all’orecchio: suo figlio d’ora in
poi è anche mio figlio, e come egli è
padre così lo sono anch’io. Se suo figlio
è cattivo con lui, egli lo batte; se
è cattivo con me, io lo devo battere».
Però il missionario mirava più in
alto, cioè al capo villaggio, sperando
che accattivandosi le simpatie e, soprattutto,
convertendolo al cristianesimo,
la popolazione ne avrebbe
seguito l’esempio.
Lo sforzo di perseguire la fiducia
dei capi provocò pure qualche curioso
inconveniente, come quello di
due capi di Metumi, che divennero
gelosi per il reciproco sospetto che
il padre favorisse uno più dell’altro.

SPERANZE DI CONVERSIONE
Il mutato rapporto con la popolazione
fu portato alla ribalta dai missionari
con soddisfazione.
Un anziano pregava Ngai, con le
mani protese verso il cielo, affinché
elargisse al padre «tanta ricchezza e
una casa alta come il Monte Kenya,
che fosse potente come il capo Karuri
e che lo spirito del male non lo
danneggiasse mai».
Al missionario sembrava che tutto
si mettesse per il meglio.

IN AZIONE CON TRE «PUNTE»
Come coniugare in missione
il verbo «convertire»?
«Prova e vedrai! Escluso
il condizionale,
in ogni altro modo
è difficile».
Se ne discute
a Murang’a.

NON MANCAVA L’IRONIA
Il sub-commissioner nella colonia
del Kenya, L.S. Hinde, disse ai missionari
della Consolata: «Gli indigeni
vi conoscono in un modo differente
da quello con cui conoscono
il governo. Voi, viaggiando anche
in zone inesplorate, già siete per fama
conosciuti e chiamati per nome
come amici». Era una lusinga.
Il missionario non tardò ad accorgersi
che i suoi ragionamenti interessavano
poco la gente.
Padre Francesco Cagliero, durante
un catechismo ai suoi operai, chiese
perché egli fosse venuto fra loro e
quanti dèi ci fossero. Un tale rispose:
«Non so perché tu sia venuto nel
mio paese; né so quanto tu vai chiedendo,
ma mi sembra che tu oggi abbia
bevuto molto vino per venir fuori
con queste interrogazioni».
Non fu solo l’ironia ad ostacolare
l’evangelizzazione, bensì la difficoltà
intrinseca dell’argomento affrontato.
Per quanto si ripetesse che Dio
non è come l’uomo, composto di anima
e corpo, ma puro spirito, immancabilmente
l’uditorio ripiegava
su temi più abbordabili, quali: se Dio
avesse la barba, se fosse bianco o nero,
se indossasse sempre tanti vestiti,
se mangiasse ogni giorno carne.

IL BATTESIMO CAUSA MORTE?
I missionari non furono dei battezzatori
frettolosi. Infatti i primi
battesimi risalgono al 1909-1911: e
a Tuthu, la prima sede fra i kikuyu,
addirittura al 1916. Fino a tale data
si battezzò quasi esclusivamente in
punto di morte. Furono di regola
battesimi di anziani, avvicinati dal
missionario nel suo apostolato itinerante.
Divenuti amici della missione,
ne accettarono pure l’insegnamento
religioso e, data l’età avanzata, furono
battezzati di comune accordo
prima che la morte li cogliesse. Lo
stesso dicasi per i bambini moribondi.
Poiché il missionario battezzava
persone che poco dopo sarebbero
morte, i kikuyu dissero che l’acqua
versata in testa, fosse «avvelenata
dagli stranieri» e causasse la morte.
Fu un’insospettata difficoltà per l’evangelizzazione.
Si contestò la diceria discutendola
pubblicamente. Il battesimo fa veramente
morire? Il patri e la mware
sono battezzati: e sono forse morti?
«Anzi, il Signore li ha fatti ricchi e
sapienti, li tiene come suoi figli e li
difende dallo spirito del male, il quale
ha grande paura del battesimo».
Però la diceria doveva essere sfatata
con gesti visibili. Ecco allora che il
missionario, curando gli ammalati,
praticava a tutti abbondanti lavaggi
in fronte.
Non mancò, poi, l’accusa di malocchio.
Se ne avvide, a proprie spese,
suor Faconda. La missionaria voleva
prendersi cura di una bambina,
che deperiva di giorno in giorno. Incontrò
la madre al mercato, con la
bimba sulla schiena. La kikuyu, vedendola,
non esitò a lanciarle l’mbu
(grido di allarme nel pericolo), mettendo
a soqquadro l’ambiente…
Molti kikuyu parteciparono alla
prima guerra mondiale come portatori.
L’esperienza fu deleteria. Religiosamente
parlando, i pochi superstiti
ritornarono a casa scandalizzati
dal comportamento distruttivo ed
omicida dei bianchi (inglesi e tedeschi),
che pure si dicevano cristiani.
Né riportò esempi stimolanti per
abbracciare il cristianesimo chi lavorava
nelle fattorie dei coloni inglesi.
A Gatanga due cristiani furono apostrofati
dal padrone: «Siete asini, sapete
solo credere a ciò che dicono i
preti e le suore». Poi il farmista sputò
per terra con disprezzo.
E che dire della poliginia, l’eterno
scoglio per l’evangelizzazione?

LA FORZA DELLA TRADIZIONE
Tutte le obiezioni dei kikuyu di
fronte al cristianesimo sono riconducibili
ad un unico denominatore
comune: l’attaccamento rigoroso alla
tradizione.
«I kikuyu non distinguono fra vita
sociale, politica, sessuale e individuale,
ma tutte queste vite (per così
dire) formano un unico complesso,
che non si può sezionare e che ha la
sua ragione d’essere nella tradizione
». Chi la ignora automaticamente
si autoespelle dalla comunità e diventa
straniero.
La tradizione è l’anima del popolo:
rafforza il vincolo di parentela,
lo spirito di corpo e la reciproca accoglienza,
senza la quale ci si trova
disorientati. Infrangere o staccarsi
dalla tradizione significa misconoscere
il proprio paese, rinnegare la
religione degli antenati, attirarsi la
vendetta degli spiriti, esporsi all’ostracismo
degli anziani e contaminarsi
del thahu più orribile (impurità
rituale).
Quando si sentenzia «è tradizione
dei kikuyu», si enuncia un dogma,
che è pericoloso abbandonare o
dal quale deflettere. Furono visti figli
di capi, ritornati dall’Inghilterra
con tanto di laurea, riassumere le abitudini
dei genitori, per nulla scalfiti
dall’Europa.
L’attività missionaria cozzò sempre
contro il corpus integrato degli
usi e dei riti della tradizione, ai quali
i kikuyu erano legati con «una gelosia
e testardaggine da montanari».
«Dopo 37 anni di convivenza con
questa gente – scrisse padre Costanzo
Cagnolo -, pur usando la loro lingua
e seguendo da vicino tutte le loro
manifestazioni sociali, familiari e
individuali, più di una volta mi trovo
perplesso sull’esatta comprensione
della loro mentalità» (1).
Padre Giacomo Cavallo annotò:
«Trovo uno spirito eminentemente
conservatore, di cui è imbevuto il
kikuyu, che gli fa rigettare le cose solo
perché sono nuove». Ogni volta
che si prospetta qualcosa di diverso,
arriva puntuale il leitmotiv: «Però i
nostri vecchi non hanno detto, non
hanno fatto così». Le conversioni al
vangelo segnavano il passo.

GRAVE DISAPPUNTO
Convertire è un verbo all’infinito.
Come coniugarlo? «Prova e vedrai!
Escluso il condizionale, in altro modo
è difficile». La citazione, nel suo
problematico umorismo, ritrae bene
lo stato d’incertezza del missionario.
Egli non si trastullava in chimeriche
illusioni. Tuttavia, di tanto
in tanto, non riusciva a celare il proprio
disappunto di fronte agli scacchi
patiti.
Il fatto dovette impressionare abbastanza,
se un vecchio di Limuru
sentì il bisogno di accostare alcune
suore melanconiche per consolarle.
«I giovanetti, i bambini e le ragazze
vi ascoltano e vi capiscono; le donne,
invece, vanno a lavorare e a raccogliere
patate, e non si intendono
di tali cose: chi mai per il passato le
insegnò ad esse? Aspettate, abbiate
pazienza…».
Attendere e pazientare. Il missionario
era una persona di fede e di
questa si caricava per fronteggiare i
momenti di stanchezza e dubbio.

IN DIECI A MURANG’A
Gli storici delle missioni della
Consolata fra i kikuyu ravvisano
nell’1-3 marzo 1904 una data significativa
per l’evangelizzazione dell’etnia.
A Murang’a si ritrovarono
10 missionari per discutere e approvare
un metodo di apostolato.
Nell’incontro, dopo aver preso atto
dei successi ed insuccessi, si prospettò
una strategia d’azione, praticabile
secondo tre direttive.
? Formazione di catechisti: prevedeva
la scelta di alcuni kikuyu intelligenti
e retti, per istruirli e impegnarli
nell’evangelizzazione. Il sistema
fu giudicato buono, ma avrebbe
procrastinato troppo le conversioni.
?¡ Azione sanitaria e scolastica: una
linea che suggeriva di costruire
collegi e ospedali, nella speranza che
i giovani e i malati abbracciassero la
nuova religione. La proposta non riscosse
molte adesioni. Si obiettava
che i genitori dei ragazzi, non ancora
persuasi della necessità dell’istruzione,
avrebbero boicottato la frequenza
scolastica dei figli. Gli ospedali,
poi, esigevano molto denaro,
irreperibile per il missionario.
?¡ Predicazione itinerante, ossia
passare da un villaggio all’altro annunciando
la parola di Dio. Così facendo,
il cardinale Guglielmo Massaia
conseguì buoni risultati fra gli
oromo d’Etiopia (2). Tuttavia il successo
era garantito solo «nei paesi civili
o con una semiciviltà, come l’Abissinia;
ma fra popoli selvaggi e per
indole incostanti e volubili come i
kikuyu, il buon seme inaridirebbe
appena germogliato».
I partecipanti all’incontro di Murang’a
valutarono i pro e i contro di
ogni possibilità. Alla fine optarono
per combinazione delle tre linee d’azione.
Il «metodo misto» fu approvato.

EVANGELIZZAZIONE
GRADUALE

A Murang’a i missionari confrontarono
le loro prime esperienze. Riconosciuto
il pertinace attaccamento
dei kikuyu alla tradizione, convennero
che la missione avrebbe
dovuto procedere con gradualità:
pretendere immediate conversioni
sarebbe stato come «voler far fissare
il pieno sole meridiano a chi fino
allora è stato chiuso in un buio sotterraneo
». Conveniva avanzare con
piedi di piombo e, intanto, spargere
le prime idee evangeliche.
L’evangelizzazione graduale si estrinsecò
nella tolleranza e prudenza
di fronte alla consuetudo locale. A
differenza di varie denominazioni
protestanti (Church Mission Society,
Church of Scotland, Salvation Army,
African Inland Mission, ecc.), si accettò,
per esempio, l’iniziazione.
In un’epoca successiva padre Cagnolo
stigmatizzò la mancanza di
duttilità mentale, scrivendo: «Certi
educatori, che vorrebbero abolire il
corpo delle tradizioni, si creano amare
sorprese, come quando si tenta
di abolire la circoncisione ed altri
usi per sé indifferenti al progresso…
Diamo tempo al tempo». Né si indirono
crociate contro la poliginia.
In conformità alla metodologia esposta,
i primi missionari non si lasciarono
contagiare dalla «malattia
del mattone»: cioè costruire edifici
all’«europea». Scrisse padre Filippo
Perlo: «Non è nostro sistema far le
chiese e poi i cristiani, ma pensiamo
sia metodo migliore l’attendere che
questi sentano il bisogno di quelle».
Per anni la chiesa sarà un capannone
e il campanile si mimetizzerà
con un mugumu (albero sacro), dalla
cui sommità la campana suonerà
a distesa.

L’ALBERO DELLA SFIDA
Di pari passo con l’attendismo,
alcune scelte del missionario indicano
come l’evangelizzazione dovesse
pure sfidare la cultura locale.
Il capo Wambugu (che aveva concesso
al missionario delle agevolazioni
per erigere la sua sede) rispose
picche quando si ventilò l’ipotesi
di abbattere degli alberi sacri, sotto
i quali gli operatori magici compivano
sacrifici per impetrare la pioggia
o la vittoria sugli odiati masai. Il
padre tuttavia, necessitando di un
alto fusto per innalzarvi la campana,
additò proprio un rigoglioso mugumu.
Gli anziani replicarono che, se avesse
toccato l’albero, sarebbe certamente
morto; ma il missionario si
avvicinò alla pianta per incidervi col
coltello una croce. Nello sbigottimento
generale, si rivolse alla gente,
osservando che nulla gli era successo,
perché il «patri è l’uomo di Dio».
Una provocazione per affrettare
l’ora del vangelo.

(1) Padre Costanzo Cagnolo scrisse The
Akikuyu, Mission Printing School, Nyeri
1933 (un’importante monografia sul popolo
in questione, con pregevoli illustrazioni).
(2) Il riferimento al Massaia non è casuale.
I missionari della Consolata intendevano
proseguie l’opera.

ATTENTI ALLO STREGONE!
Nel villaggio tradizionale
lo «stregone» detta legge:
si nasce, si vive e si muore
ai suoi ordini.
E guai a snobbarlo!
Il missionario lo sa e prende
le sue misure.

DAL «MEDICO CONDOTTO»
Non si scherza con la tradizione.
I suoi interpreti sono gli athuuri (anziani).
Essi «formano il gran senato
della nazione; ad essi è dato di conoscere
il bene e il male e, al di sopra
di loro, non v’è che Dio. Dopo
il loro giudizio non c’è appello».
Ma il ruolo degli anziani resta lettera
morta senza il consenso, diretto
o indiretto, del mundu-mugo (medico,
indovino, operatore magico o,
più volgarmente, stregone).
Nel villaggio e nella famiglia l’individuo
nasce, vive e muore ad libitum
del mundu-mugo; nessuna azione, privata o pubblica, sfugge
al suo controllo: «Questi
indigeni non fanno nulla
di importante (o creduto
tale) senza il parere
dello stregone».
Il mundu-mugo dispone
di effettive conoscenze
terapeutiche. Ad un
missionario capitò di
assistere alla medicazione
di una profonda ferita
alla mano; l’arto venne legato
con fili d’erba e poi cucito con lunghe
spine. «Non si può negare che
tutto fosse fatto con una certa cognizione».
Quando però il mundu-mugo affrontava
un male psico-somatico, l’ironia
per il medico e la commiserazione
per il paziente traboccavano.
«Vorrei lo vedeste (lo stregone) nell’esercizio
delle sue funzioni: con
che energia si dà attorno al cliente
per liberarlo dall’ossessione di spiriti,
che gli vogliono fare la pelle. Se
non suda due camicie è solo perché
non ne possiede neanche una…».
Anche i capi si ammalano. E, come
tutti, vengono trattati dal mundumugo.
Ma, al cospetto di un personaggio
influente, lo stregone spesso
annaspa impacciato per una diagnosi
adeguata al paziente. Tuttavia se la
caverà con l’astuzia, asserendo che
«il capo è stato avvelenato da qualche
bestia mentre dormiva; oppure
un rospo gli è entrato in pancia, o
che è stato vittima di imbrogli e filtri
nocivi di qualche nemico».

ALTRE TRE MANSIONI
Il mundu-mugo svolgeva pure altre
importanti funzioni.
?¡ Arbitro di pace. Quando, dopo
un litigio o una guerra, i contendenti
trattavano la pace, si procedeva secondo
un rituale diretto dal mundumugo.
Chi chiedeva la sospensione
delle ostilità offriva i pegni della pace:
una pelle di bue, un fascio d’erba,
uno scranno, una pecora. La controparte
consegnava un montone e
una giovane pecora. Si sgozzavano
gli animali (quelli della controparte);
con il grasso si ungevano sia i pegni
della pace sia le parti che la contraevano.
?¡ Contro ladri e avvelenatori. Un
missionario, durante una visita al villaggio,
dovette sostare, perché si stava
compiendo una cerimonia. «Il
capo e lo stregone… stavano mettendo
una medicina in una piccola
fossa nella strada» e pronunciavano
minacce… Terminata l’operazione e
ricoperta la buca, il padre fu ricevuto
dal capo, che gli spiegò come tutto
ciò avrebbe impedito a qualunque
ladro o avvelenatore di entrare
nel villaggio senza essere visto.
?¡ Maledice e benedice. Fra le maledizioni
primeggiano, per efficacia
e timore, quelle scagliate da genitori
e anziani, specialmente se in punto
di morte… Camminando succedeva
di imbattersi in sentirneri e campi
attraversati da liane, tese a 2 metri
di altezza, oppure contrassegnati da
ramoscelli o pali con appeso un osso
umano. Allora i passanti indietreggiavano,
perché quelli erano segni
di maledizione.
Di fronte a tali segni, ci si rivolgeva
al mundu-mugo. Costui girava a
più riprese attorno al luogo maledetto,
ammonendo che chi lo avesse
violato sarebbe stato destinatario
di disgrazie. Proclamato il divieto,
piantava qua e là dei rami secchi,
ciascuno accompagnato da una maledizione.
«Chi entrerà qui sprofondi
sotto terra, come io vi sprofondo
questo ramo! Chi varca questi confini
inaridisca all’istante come queste
foglie secche».

L’OSTILITÀ DEL MUNDU-MUGO
Per i missionari gli «stregoni» erano
«i sacerdoti del paganesimo»,
i quali a loro volta tolleravano gli
stranieri dalla veste bianca «come
il fumo negli occhi».
Il missionario non mieteva molte
conversioni, ma intanto lavorava. La
sua popolarità, dovuta a dispensari,
scuole e fattorie, cresceva di giorno
in giorno. Il mundu-mugo lanciò l’allarme:
se non si interveniva subito,
quei bianchi avrebbero scalzato la
tradizione e, con essa, il suo potere.
Il patri apparve al mundu-mugo
come un concorrente economico temibile,
capace di rovinargli la piazza
con la cura gratuita dei malati…
mentre lui esigeva bovini e ovini.
Contro la volontà del mundu-mugo
e degli anziani, nel 1907 a Limuru
il missionario riuscì nel difficile
intento di ridurre il tributo di montoni
che i giovani della «classe d’età»
dovevano pagare a quella anteriore
di otto iniziazioni: non più 60 capi
di bestiame, ma due!
Il fatto fu grave, perché provocò
un contrasto fra le generazioni, contrasto
fino allora sconosciuto nella
società kikuyu. Ma questo era quanto
il missionario si riprometteva: disarticolare
il sistema tradizionale per
far spazio al messaggio evangelico.
Il mundu-mugo attaccò il missionario
con accuse precise.
a) Accusa di siccità. Padre Perlo,
fondatore nel 1903 della missione
centrale di Nyeri, all’inizio stabilì la
sua sede sulla collina Niagaitua, in
barba a tutti. Il loro stregone Waweru
lo apostrofò: «Tu ci hai assicurato
che sei venuto in mezzo a noi per
farci del bene, ed ecco che ora ci
porti un gran male, fabbricando la
tua casa su questa collina sacra; Dio
si è offeso, ci nega la pioggia e con la
ostinata siccità annienta i nostri raccolti
e vuol farci morire di fame».
b) Accusa di avvelenamento. Era
morto Wanghengie, un operaio addetto
alla controversa costruzione
della missione sulla collina Niagaitua.
Il mundu-mugo colse la palla al
balzo per diffondere la notizia che il
bianco avvelenava i kikuyu, per pascersi
di notte dei loro corpi. L’accusa,
che mirava ad isolare il missionario,
sortì un certo effetto: «Per
quasi due mesi restammo isolati dalla
gente, per quella specie di blocco
morale di cui gli stregoni, con la loro
infame calunnia, erano riusciti a
circondare la missione».
c) Accusa di sterilità. Il mundumugo
ammoniva incessantemente:
«Chi si fa cristiano non avrà figli in
eterno!». Lo stesso capo Karuri, sul
punto di convertirsi al cristianesimo,
si sentirà minacciare: «Amico, prenditi
guardia! Ti proibiranno di avere
dei figli: vedi un po’ se essi ne hanno!».
Di fronte a tali accuse, il missionario
rispose con l’azione catechetica
e sanitaria. E… qualche mundumugo
mutò atteggiamento.

DA RIVALI AD AMICI
Il primo incontro fra un missionario
e un operatore magico avvenne
il 12 ottobre 1902 (a Tuthu?), per
iniziativa di padre Perlo. Egli intuì
subito l’eccezionalità del personaggio
e, da abile stratega, gli chiese un
appuntamento, come qualsiasi altro
cliente. Al termine il mundu-mugo
pronunciò il responso: favorevole in
tutto.
Padre Rodolfo Bertagna ne cercò
l’abboccamento per un’intervista su
Dio. «Gli chiesi se sapeva così bene
le cose di Dio, come si intendeva
delle sue pecore… Tutto il suo scibile
in materia si riduceva a questo: esservi
due dèi; uno in alto per le cose
al di sopra della superficie terrestre
ed uno in basso, entro terra, da cui
vanno quelli che muoiono. Concluse
la dissertazione con un’aria trionfante,
visto che non l’avevo mai interrotto
né contraddetto».
Diversi missionari strinsero amicizia
con il mundu-mugo. Poteva capitare
che, durante il catechismo, avessero
come uditore lo stesso operatore
magico… L’argomento di una
lezione era l’unità di Dio. Terminata
l’esposizione, il mundu-mugo ap-
provò il maestro, pur stravolgendo
il senso del discorso. «Sentite, uomini,
il padre ha parlato bene. Noi
credemmo sempre che ogni collina
avesse il suo dio, e ci sbagliavamo.
Non ci sono che due dèi: uno per i
bianchi e uno per i neri…».
Il mundu-mugo e padre Antonio
Borda Bossana, una volta conosciutisi,
entrarono in confidenza. «Mi
racconta le istruzioni che ha sentito
dalle suore riguardanti l’eternità dell’anima,
l’unità di Dio, giusto e onnipotente,
e aggiunge che anche lui
ora, quando va a medicare i malati,
fa la preghiera al Dio del patri e insegna
tutto quanto ha sentito di
nuovo. In verità da questi stregoni
non era da aspettarsi così subito un
aiuto tanto prezioso».

LA GRANDE RINUNCIA
Leggiamo in un diario anonimo:
«Ho trovato che i nostri insegnamenti
sono assai diffusi e (per così
dire) inconsciamente assorbiti; tanto
che molti anziani ed anche qualche
stregone mi enunciarono le cose
da noi insegnate riguardo a Dio,
ai suoi attributi, all’anima umana e
alla sua destinazione oltre la tomba,
miste colle loro credenze».
Il testo, del 1905, conferma il mutato
rapporto fra missionario e mundu-
mugo. Non era ancora la conversione,
ma per l’evangelizzatore era
già un consolante risultato. Il salto
di qualità per l’avvicinamento al cristianesimo
fu l’accettazione che i figli
dello stregone si battezzassero.
Karogo aveva cinque mogli e una
stalla che rigurgitava di vacche. Era
un mundu-mugo convinto; per la sua
rettitudine, prudenza e ospitalità era
venerato come un patriarca nell’intera
regione di Tetu e Masera. Acconsentì
che il figlio ventenne Momboy
si convertisse al cristianesimo. A
casa sua strinse un patto di amicizia
con la missione… a scapito di un magnifico
montone!

IL MISSIONARIO NON È…
«Non esiste religione senza il suo
mundu-mugo». Secondo questo proverbio
kikuyu, il missionario fu assimilato
all’operatore magico. Infatti
anch’egli, come il mundu-mugo, curava
gli ammalati, indiceva preghiere
per la pioggia, consigliava.
Padre Gioachino Cravero ascoltò
un dialogo fra un anziano e il capo
Karuri. «Dunque – interruppe il vecchio
– i padri sono anch’essi stregoni?
». «Sicuro – rispose convinto Karuri.
Qual paese e qual popolo non
ha i suoi stregoni? Li hanno i bianchi
in Europa… Perfino Dio in cielo
ha i suoi stregoni, per dare le medicine
a quelli che stanno lassù con lui.
Non è così, patri?».
Padre Cravero non gradì il paragone.
E, tutte le volte che il suo lavoro
era equiparato a quello del presunto
collega, metteva i puntini sulle
«i»: il patri insegnava una verità
certa e traeva la dottrina dalla sapienza
di Dio, mentre il mundu-mugo
si affidava alla divinazione.
Il missionario non accettò di essere
paragonato all’operatore magico
neppure nel campo medico, per
non inficiare il messaggio evangelico
della stessa magia. Che la religione
kikuyu fosse compenetrata di elementi
magici costituiva per lui una
ragione in più per salvaguardare
la propria da una simile affinità, allo
scopo di proporla come un’alternativa
assolutamente nuova.

IL PREZZO DELLA SPOSA
«Intrattenetevi quanto
volete con i neri…
Decantate loro i diritti
delle donne…
Essi vi risponderanno
con il sorriso più fine:
“Ma… la donna
non è un uomo”».

POVERE DONNE!
Il primo impatto del missionario
con la donna lasciò subito una
traccia profonda nel suo cuore. Le
bambine nude, le ragazze rapate,
le madri a seno scoperto o vestite
con una ruvida pelle
imbevuta di grasso misto a ocra
lo impressionarono.
L’impressione si tramutò immediatamente
in «compassione», allorché
apparve la mole di fatica sopportata
dalla donna. «I kikuyu appartengono
ad una bella razza, che
però nelle donne è degenerata a
causa delle eccessive fatiche».
Il missionario dovette aver ritratto
la donna continuamente curva
sotto pesanti carichi, se
scrisse: «In questo paese la
donna è la vera bestia da soma.
Dal mattino alla sera ogni
riposo le è sconosciuto». Il paragone «bestia da
soma» riecheggerà ancora
nel 1954.
Ci si aspetterebbe un po’ di considerazione
per la donna incinta.
Invece… «le donne sono non di
rado, insieme colle loro creature,
vittime innocenti di tanta schiavitù.
Non sono pochi i casi di aborto
(spontaneo), come sono
ancora abbastanza frequenti
le morti di giovani spose nel
momento di dare alla luce il
frutto delle loro viscere».
Che il «sesso debole» svolgesse
mansioni più numerose del «sesso
forte» è fuori discussione. Ecco che,
mentre le mogli sudano nel campo,
i mariti «vanno a zonzo» a tracannare
birra. Ecco che mentre le sorelle
sono impegnate nel trasporto
di un carico, i fratelli guerrieri si allenano
nel canto e nella danza o lucidano
le lance. E mentre le ragazze
collaborano con le missionarie nella
conduzione di orfanotrofi ed asili,
i ragazzi a scuola rifiutano ogni lavoro,
come i genitori maschi.

INFERIORITÀ PARADOSSALE
La donna subiva una paradossale
discriminazione: non solo svolgeva
un’azione economica superiore a
quella dell’uomo, ma l’assolveva in
una inferiorità psicosociale, indotta
e mantenuta dalla nascita alla morte.
Alla nascita di un figlio, la madre
e le sue assistenti emettevano un trillo
di gioia, ripetuto cinque volte se
era maschio e tre se femmina. Il padre,
per celebrare la venuta al mondo
di un nuovo rampollo, tagliava
cinque o tre canne da zucchero: cinque
per un «lui» e tre per una «lei»…
L’iniziazione per i giovani è l’evento
per antonomasia. È una festa
per tutti, specie per i candidati. Trattandosi
tuttavia delle ragazze, i festeggiamenti
si svolgevano in tono
più dimesso rispetto a quelli per i ragazzi:
una minore coreografia di balli
e canti, un’offerta ridotta di cibi e
bevande.
La donna era la massima incarnazione
della forza-lavoro: dissodava
il terreno, seminava, mieteva e
trasportava a casa. Il suo lavoro non
sempre era compensato da un adeguato
raccolto; bastava una breve
siccità per annullare la sua fatica. In
tale caso, all’inizio di una nuova semina,
la donna doveva assoggettarsi
alla purificazione con il sacrificio
di una pecora o una capra, onde rimuovere
il thahu (impurità) che aveva
frustrato il dovuto raccolto.
Quando la donna cadeva ammalata,
rischiava la morte per mancanza
di assistenza: le si prestava un po’
di cura nei primi giorni di malattia;
ma, se non guariva in fretta, era abbandonata
a se stessa. È sorprendente
che quasi tutti i morenti rinvenuti
dai missionari nella brughiera
fossero donne o bambini.
Nel 1930 era ancora imperante,
se padre Ciravegna poté scrivere:
«Intrattenetevi quanto volete con i
neri, anche coi più svegli ed intelligenti.
Decantate loro i diritti delle
donne; spiegate con pazienza le ragioni
buone a persuaderli dell’onore
a cui la donna ha diritto in forza
della sua debolezza e delle sue funzioni
di madre… Essi, scrollando il
capo, vi risponderanno col loro sorriso
più fine: “Ma… la donna non è
un uomo!”».

LA DONNA SPOSATA
Una moglie come si comportava
nel regime poliginico? Alla stregua
del proverbio «due donne insieme
sono due vasi di veleno», ci si aspetterebbe
gelosie e litigi all’ordine del
giorno. Non era escluso: per questo
ogni moglie viveva separata nella sua
capanna.
Tuttavia, non di rado, si assisteva
ad una pacifica convivenza. Fratel
Benedetto Falda rilevò: «Il bisogno
di aiutarsi per i lavori faticosi dei
campi, il taglio della legna, ecc. fa sì
che queste disgraziate, sfiorite dalla
loro giovinezza, conducano una vita
senza sogni, perché non sono considerate
degne di essere consultate
o di condividere col marito l’amministrazione
della famiglia, ma solo riservate
a produrre figli che aumentino
la ricchezza del capo famiglia».
La poliginia, pertanto, diventava una
scappatornia per sgravarsi dal lavoro.
Talora l’insofferenza femminile esplodeva:
la donna fuggiva di casa.
Era un gesto di enorme coraggio,
perché carico di conseguenze. Se la
moglie abbandonava il marito senza
essere stata picchiata, non poteva più
tornarvi se prima non lo avesse pacificato
«con il sacrificio di un montone». Il che costava.
Eppure alcune mogli erano così esasperate
che ne combinavano «di
belle e strane per costringere il marito
a percuoterle».
Altre volte era l’uomo ad assumere
l’iniziativa di cacciare la donna.
Questo avveniva quando la sposa
dimostrava poco amore al lavoro,
oppure era rea di infedeltà coniugale.
Fu il caso di Wangiuku, adultera
e pigra. La donna, cacciata, andò errando
di casa in casa per un po’ di
cibo e un ricovero per la notte. Il figlio
illegittimo trovò rifugio nell’orfanotrofio
della missione, mentre la
madre finì la sua esistenza azzannata
dalla iena.
Nelle liti minori fra marito e moglie,
il missionario interveniva talora
da paciere. «Non di rado la rappacificazione
di mariti e mogli avviene
per i buoni uffici del patri, raggiunta
con soddisfazione delle parti».

ASILI, COLLEGI, CONVENTI
Con il taglio del cordone ombelicale,
madre e figlio incominciano ad
existere separatamente. Chi nasce,
tuttavia, è ben lungi dall’essere autonomo,
in quanto ha estremo bisogno
degli altri e, in caso di allattamento
naturale, della donna in modo
esclusivo.
Le madri kikuyu raramente, durante
il giorno, deponevano i figli
poppanti. Le vedevi al mercato o in
chiesa, mentre sarchiavano o attingevano
acqua, con il bimbo sempre
lì: sulla schiena o attaccato al capezzolo.
E chi attendeva agli altri figli?
Non «lui», ma sempre «lei».
Però agli svezzati si concedeva parecchia
libertà: un’espressione eufemistica
per nascondere l’impossibilità
fisica di curarsi di loro.
Il missionario, osservando quotidianamente
molti ragazzetti abbandonati
a se stessi e affamati, decise
di raccoglierli in asili. Nel 1920 ne esistevano
15. L’iniziativa favorì sia i
figli sia le madri, per ragioni facilmente
intuibili.
In alcune missioni l’affluenza di
bambini all’asilo fu tale che, mancando
del necessario personale di
assistenza, le missionarie furono costrette
ad accettare solo i figli di famiglie
cristiane. «E non potete immaginare
quanto le donne ci prendono
gusto al sollievo che l’asilo loro
apporta; al mattino presto sono già
lì con i loro piccini; mentre alla sera
non compaiono mai a ritirarseli».
Un altro passo mosso dal missionario
per la «liberazione della donna
» si concretizzò nei collegi femminili.
Il primo sorse a Nyeri nel
1911; nel 1921 erano 13, capaci di ospitare
250 ragazze. In questi centri
erano istruite religiosamente, imparavano
a leggere e a scrivere, si esercitavano
in cucito e culinaria. Specialmente
erano avviate al matrimo-
nio cristiano attraverso una capillare
sensibilizzazione ad opporsi alla
poliginia, basata sulla compra-vendita
della donna.
L’unico onore raggiungibile dalla
donna era quello di generare figli. La
sterile era oggetto di scherno. E una
ragazza che, volontariamente, avesse
rinunciato alla mateità, avrebbe
costituito un caso serio aberrante. Il
missionario mirò proprio a questo:
avere delle donne che professassero
la verginità per «vocazione».
Nyeri, 8 dicembre 1929: 10 ragazze
kikuyu emisero il voto di castità
come suore. Quando, due anni
prima, vestirono l’abito, si tenne il
«siku kuu ya airitu» (il grande giorno
delle vergini).
Per i kikuyu «airitu» sono le ragazze
non iniziate che, se rimaste tali,
non sarebbero mai state ritenute
donne. Il fatto che per delle airitu si
organizzasse una festa infliggeva un
colpo severo alla mentalità kikuyu.
All’unico ideale della fecondità-mateità,
condizione imprescindibile
per realizzarsi, si replicava con quello
inedito della verginità… per il regno
dei cieli (cfr. Mt 18, 12).
Ma la verginità o il celibato comportava
per i kikuyu un atto di fede
nell’assurdo. Economicamente e socialmente
si infrangeva l’istituzione
della «ricchezza della sposa»…
Per l’evangelizzatore era pure «la
rivincita del sesso debole»: dopo essere
stato calpestato per secoli con
dicerie e sarcasmi, esso acquistava
dignità e rispetto anche al di fuori
del dogma della tradizione.

RESISTENZE AL MUTAMENTO
Il sistema maschilista reagì prontamente
ai tentativi di mutamento.
Sull’affluenza dei bambini all’asilo
gravarono le solite accuse di cannibalismo
e di avvelenamento, rivolte
al missionario. Ma, con il passare del
tempo, le prevenzioni scomparvero.
Più lungo si rivelò, invece, il contrasto
circa le ragazze che frequentavano
la missione; a tal punto che i
collegi si limitarono ad essere solo
dei dormitori. Si temeva (non a torto)
che le ragazze si convertissero al
cristianesimo.
Nel giugno 1932 a Murang’a il Local
Native Council discusse la proposta
delle missioni cattoliche di aprire
e finanziare un collegio femminile.
Il primo kikuyu che interloquì
sull’argomento aveva fama di essere
progressista; ma sostenne che «la
donna è una schiava, che deve lavorare
soltanto per il marito e che, pertanto,
non deve essere considerata
degna di educazione alcuna». Così
ragionarono anche gli altri membri
del Consiglio, sancendo la fine dell’emancipazione
della donna.
Ancora più tenace fu l’opposizione
alle postulanti della «vita religiosa
». Poiché, mentre le ragazze del
collegio, alla fine si sposavano e la famiglia
percepiva «il prezzo della
sposa», quelle che invece si chiudevano
in convento non procacciavano
il becco di un quattrino.
Per protestare contro il mancato
guadagno, una madre giurò di impiccarsi
ad un albero del monastero.
Vari genitori fecero ricorso al governo
coloniale, che impose al missionario
di restituire le ragazze o di
pagare una somma equivalente al
«prezzo della sposa». Altre furono
rapite mentre lavoravano alla missione,
rinchiuse in una capanna per
parecchi giorni e battute a sangue.
Erano altri tempi.

ECCO IL RE. EVVIVA IL RE!
Il tormentato
cammino di Karuri
verso il battesimo.
Ma che fare delle
50 mogli?
E la conversione
fu libera? Il valore
determinante
del bene.

NELLA LEGGENDA… DA VIVO
Quando a Tuthu, nel 1902, avvenne
il primo incontro fra il capo
Karuri e il missionario, il kikuyu era
all’apice della sua fama. Ricchissimo
di terre e bestiame, di figli e mogli
(ne avrebbe accasato almeno 50!),
Karuri era il «re» più temuto dagli altri
capi e il più rispettato dalla popolazione.
Intelligenza e forza, ambizione
e volontà gli avevano spianato
la strada verso una eccezionale
ascesa sociopolitica. Come se non
bastasse, vantava una storia personale,
che lo proiettò nella leggenda
ancora vivo.
Karuri sarebbe stato gravemente
ammalato. Secondo il costume locale,
fu confinato nella brughiera e,
quando sembrò morto, abbandonato
in pasto alle iene. Ma qualcuno lo
riportò a casa e guarì. L’evento fu il
trampolino di lancio verso il successo.
Era evidente, infatti, che questo
uomo, vincitore della morte, avrebbe
operato grandi cose.
Per spiegare il fatto si ricorreva al
mito della «doppia origine». Sarebbero
esistiti «due» Karuri: il primo,
quello umano, morto nella foresta…
per lasciare posto al secondo, di
provenienza divina. L’idea era così
radicata che qualcuno, dopo avere
perlustrato la cappella dei missionari,
«vista la madre e il figlio di Dio»,
avrebbe domandato: «Karuri
dov’è?». Come se la chiesa, la casa
di Dio, dovesse essere la naturale dimora
del capo.

UNA FIGURA COMPLESSA
Karuri fu anche un mundu-mugo,
«facitore della pioggia». Si sarebbe
pure dato alla divinazione. «I suoi
responsi sono i più stimati. Egli è richiesto
soprattutto quando si ammala
un capo, e ci va con solennità.
Però egli, più furbo, quando non sta
bene, viene da noi (missionari), perché
ha ormai provato che le nostre
medicine, specie se purganti, l’effetto
lo producono con sicurezza».
Commentando la morte di un ragazzo,
avvenuta nonostante il sacrificio
ufficiato da un mundu-mugo,
Karuri esclamò: «Quanto sono ignoranti
i kikuyu!… Correte a fare la cabala
dallo stregone, e intanto la gente
muore. Non sapete che, prima dei
sacrifici dei montoni agli spiriti, bisognano le medicine? E per dare le
medicine adatte soltanto il patri e le
suore non sbagliano».
A Tuthu pioveva troppo e le messi
marcivano sui campi. Karuri, arrabbiato
con i «facitori della pioggia
» per non essere stati capaci di
arrestarla, li radunò tutti, «e ora sono
là, legati al collo, che si sforzano
coi loro gesti a far cessare la pioggia…
Se non ce la faranno, staranno
lì. E quanti colpi di kiboko si sono
già presi!… Di notte si ritirano nella
capanna; però sono proibiti di accendere
il fuoco per scaldarsi».
Un simile comportamento, contraddittorio,
lasciava trasparire una
complessa personalità, capace di
esulare dal canone della tradizione.
Per il missionario era di buon auspicio.

INTESA E FASCINO
Tra l’evangelizzatore e il leader
nacque subito un’intesa. Al primo
giovò molto, per superare la diffidenza
del popolo. Di fronte agli altri
capi ed anziani, «egli (Karuri)
parla di noi (missionari) e ci presenta
ai suoi sudditi. Dice che siamo venuti
non con pensieri cattivi, ma per
far loro del bene, curarli delle malattie,
insegnare a leggere e scrivere,
difenderli dai nemici».
A Karuri interessò soprattutto l’istruzione.
La prima scuola fu aperta
nel 1902, frequentata dallo stesso
capo e dai suoi figli. All’illustre allievo
il missionario riservò un trattamento
speciale con lezioni private.
A volte nel capo albergavano secondi
fini, come quando esigeva dal
bianco qualche regalo (una coperta
colorata, ad esempio). In tali frangenti
il missionario rifuggiva dal patealismo,
scoraggiando il pretendente.
Al pari di tutti, Karuri subì il fascino
del missionario, specie del suo
servizio gratuito. Secondo l’usanza
kikuyu, chi si rivolgeva ad un superiore
per consigli o per risolvere un
problema, gli offriva un montone
quale ricompensa. Ma Karuri, impressionato
dalla generosità del patri,
non fu da meno: soppresse ogni
donativo dovutogli.
Il missionario aspettava Karuri al
«varco». Nel frattempo mise in atto
varie iniziative per accelerae la
conversione.
?¡ Risiedere vicino al capo. La località
dove erigere la missione, oltre
che centrale rispetto alla gente, doveva
soddisfare il requisito di «essere
alle costole di Karuri, per avere
una costante influenza su di lui».
?¡ Catechizzare il capo a tu per tu.
L’efficacia dell’iniziativa consisteva
proprio in quel «a tu per tu».
?¡ Riposo domenicale alla missione.
Scrisse padre Gaudenzio Barlassina:
«Pigliando Karuri in disparte
gli suggerii, poiché imita il bianco,
di imitarlo anche di domenica,
rifiutando la cira (assemblea) e tutto
il suo lavoro; la festa sia per tutti
di Dio e trascorsa con il padre. Accettò
volentieri».

LA DIFFICILE CONVERSIONE
Se le conversioni dei kikuyu al cristianesimo
furono travagliate, quella
di Karuli le superò tutte per difficoltà.
Lo «scandalo dell’apostasia»
dalla tradizione e il timore della conseguente
vendetta degli ngoma pesarono
sull’animo di Karuri come
un incubo. Gli anziani e i capi minori
gli puntavano di continuo il dito
del «non ti è lecito».
Gli sciamani si dimostrarono i più
irriducibili, poiché la defezione del
grande capo avrebbe segnato la loro
parabola discendente. Senza di
lui, come avrebbero potuto conservare
il potere? Secondo gli anziani,
era gravissimo «correr dietro a certe
dottrine dei bianchi», che stavano
mangiandosi tutta la ricchezza
del paese.
Fra le difficoltà affrontate da Karuri,
è da menzionare anche la critica
pretestuosa del protestantesimo
e dell’islam contro il cattolicesimo.
I missionari anglicani inglesi guardavano
in cagnesco quelli cattolici
italiani (e viceversa). «Chi sono gli
italiani? Povera gente in cerca di che
sfamarsi. Figurarsi! Nel loro paese
sono tanto schiavi che sono obbligati
a fare gli askari per niente… I padri
poi ti costringeranno ad adorare
una muiritu, ad inginocchiarti davanti,
vedrai!» (allusione alla Vergine
Maria). Per un kikuyu inginocchiarsi
davanti ad una muiritu, cioè
una ragazza non iniziata, era un’umiliazione.
I musulmani sfruttarono l’opinione
secondo cui l’islam, oltre ad assicurare
un progresso rispetto al culto
tradizionale, sarebbe stata anche
una religione più adatta alla mentalità
kikuyu.
Che dire, poi, della scandalosa incoerenza
degli stessi cristiani con le
loro intee divisioni? Gli ufficiali
dell’Impero britannico, attillati, seri
e potenti, «com’è che non vengono
in chiesa? Perché non sono tutti
cattolici, se la vostra è l’unica vera
religione? E il re d’Uganda, perché
non è cattolico, ma protestante?».
Infine l’ostacolo della poliginia.
Non fu di poco conto per Karuri rinunciare
alle sue 50 mogli. Al di là
della componente affettiva (da non
sottovalutare), quelle donne valevano
centinaia e centinaia di montoni,
dozzine e dozzine di buoi! Con il
battesimo tutto sarebbe svanito.

GIUSEPPE
E MARIA CONSOLATA

Candidata al battesimo c’era pure
Wanjiru, «la regina» delle 50 consorti
di Karuri. Fu lei che il capo
scelse come sposa per il resto della
nuova vita. Le altre furono date in
moglie ad amici e conoscenti, con i
quali Karuri aveva debiti di riconoscenza
per servizi ricevuti.
Il 6 gennaio 1916 Karuri e Wanjiru
furono battezzati con il nome di
Giuseppe e Maria Consolata.
Karuri visse appena 5 mesi da cristiano.
Il missionario, che ne aveva
favorito la conversione fin dal 1902,
vide coronati i propri sforzi dopo 14
anni, quando la vita del capo volgeva
ormai al tramonto.
Quali furono gli effetti dell’avvenimento
per la causa dell’evangelizzazione?
Buoni, secondo padre Perlo.
Qualche missionario credette di
scorgere in tutta la popolazione l’attesa
evoluzione psicologica, favorevole
all’accettazione del battesimo.
Alcuni kikuyu si sarebbero perfino
chiesti: «Karuri si battezza! È dunque
questa la via da seguire?» (*).
Ma la realtà fu diversa. Maria Consolata,
per esempio, la promettente
moglie cristiana di Karuri, morto il
marito il 14 maggio 1916, ridiventò…
Wanjiru. Altrettanto significativo fu
il fatto che nessuno dei figli più influenti
di Karuri si fece cattolico.

PRESSIONE?
Ogni conversione religiosa trascende
la logica umana. Per i missionari
quella di Karuri era da attribuirsi
principalmente all’azione della
«grazia divina».
Questo tuttavia non fuga le perplessità
umane sull’accaduto. Non si
potrà mai stabilire quanto la conversione
del capo sia stata libera e sincera.
Ci si chiede se nel missionario
ci sia stata pressione… In ogni caso la
sua buona fede è fuori discussione.
La ricerca di un’azione adatta al contesto
culturale e, particolarmente, gli
scoraggiamenti e i dubbi dimostrano
che l’evangelizzatore non ebbe altro
scopo che quello religioso e che
operò secondo coscienza.
La buona fede, dimostrata e convalidata
da opere di carità, salvò i
missionari dall’essere accomunati ai
colonialisti. «Il padre non è uno straniero
» osserveranno i kikuyu durante
la lotta dei Mau Mau per l’indipendenza
del Kenya (1950-54).
Ma le stesse opere di carità potrebbero
prestarsi all’accusa: «Così
facendo, voi li comprate alla fede».
Però giova ricordare come i missionari
si siano astenuti da doni inutili
e abbiano proposto la conversione
evangelica nella sua essenza.
Essi hanno operato con dedizione
cristiana, sull’esempio di Gesù
Cristo, «il quale passò facendo del
bene e sanando tutti» (At 10, 38).
(*) Il personaggio fu analizzato da padre
Filippo Perlo nel libro Karoli, Istituto
Missioni Consolata, Torino 1925. Il
sottotitolo «Il Costantino Magno del
Kenya» è eloquente.

Superficie: 582.646 kmq.
Popolazione: 30 milioni (stima 2000).
Capitale: Nairobi (2,5 milioni di abitanti).
Gruppi etnici: kikuyu 17,7%, luhya 12,4%, luo 10,6%,
kamba 9,8%, kisii 6%, meru 5%, mijikenda 5%, kalenjin,
turkana, maasai, pokot, borana, samburu, indo-pakistani
(80 mila), europei (45 mila), arabi (40 mila).
Lingue: kiswahili (ufficiale), inglese e idiomi locali di origine
bantu (luyia, gusii, guria, akamba, kikuyu, embu, meru,
mbere, tharaka, swahili, mijikenda, segeju, pokomo, taita,
taveta), nilotici (maasai, samburu, turkana, teso, njemps,
el molo, kalenjin, nandi, marakwet, pokot, tugen, kipsigis,
elkony, luo) e cusciti (boni, somali, rendille, orma, borana,
gabbra).
Religione: tradizionale 60%; cattolici 26%; protestanti
7%; musulmani 6%.
Ordinamento statale: Repubblica presidenziale; membro
del Commonwealth, Onu, Oua, associato Ue.
Presidente e capo del governo: Daniel Arap Moi dal
1978. Dicembre 2002: elezioni presidenziali senza Moi.
Economia: agricoltura per esportazione: caffè, tè, ananas,
piretro, fiori, cereali; allevamento, specie tra i pastori
nomadi; turismo (377 milioni $ Usa nel 1997).
Indice sviluppo umano: 0,508 (130° su 174 paesi).
Analfabetismo: 17,5%.
Pil pro capite: 350 $ Usa (1998).
Debito estero pro capite: 242 $ Usa (1998).

FONTI CONSULTATE
Tutte le testimonianze e citazioni,
riportate nel presente articolo e
in quelli successivi, sono tratte con
qualche adattamento da: Francesco
Beardi, I MISSIONARI DELLA CONSOLATA
FRA I KIKUYU DEL KENYA, 1902-
1933, Torino 1980.
È una tesi di laurea in antropologia
culturale alla facoltà di Scienze
politiche del capoluogo piemontese,
che si avvale di tutti gli articoli
sui kikuyu pubblicati dalle
riviste mensili «LA CONSOLATA» e
«MISSIONI CONSOLATA» dal 1902 al
1933. La tesi valorizza pure diari
di missionari, non pubblicati, ma
esaminati da: Alberto Trevisiol, I
PRIMI MISSIONARI DELLA CONSOLATA NEL
KENYA, 1902-1905, Università Gregoriana
Editrice, Roma 1983.
Per un’introduzione alla storia e
cultura dei kikuyu fino all’arrivo dei
missionari della Consolata, si legga
il saggio di Francesco Beardi,
I KIKUYU DEL KENYA, in «Il popolo
kikuyu», Edizioni Missioni Consolata,
Roma 2001, pp. 11-30.
Circa l’impatto del cristianesimo
sulla cultura tradizionale kikuyu, si
veda: Silvana Bottignole, UNA CHIESA
AFRICANA SI INTERROGA, Morcelliana,
Brescia 1981.

GLOSSARIO KIKUYU E MERU
– Airitu: ragazze non iniziate
– Areki: sodalizio degli anziani
(meru), meno importante di «njuri»
– Askari (usato da europei): soldati
kenyani alle dipendenze degli
inglesi
– Athuri: classe degli anziani
– Mbu: grido di allarme nel pericolo
– Mugumu: albero sacro
– Mundu-mugo: medico tradizionale,
operatore magico, indovino,
stregone (volgarmente)
– Mungu (swahili): Dio
– Mware: suora missionaria
– Mwareki: singolare di «areki»
– Mwiritu: singolare di «airitu»
– Ngai (kikuyu): Dio
– Ngoma: spirito malvagio di un
defunto
– Njuri: classe degli anziani meru
– Patri: padre missionario
– Thahu: impurità rituale

CHI È II L DEMONIO?
Un punto focale, secondo la metodologia
missionaria di Murang’a,
fu la presentazione del messaggio
cristiano usando le categorie
mentali della cultura locale. Oggi si
parla di inculturazione del vangelo.
I missionari come si atteggiarono
di fronte a questa tematica? Va da sé
che, ai loro tempi, essi si sentirono
latori di una religione che doveva essere
più accettata che proposta. Ma
sorprende come la loro predicazione
si sia incarnata nell’habitat culturale
locale, assumendone talora la dialettica
concettuale.
Ecco un dialogo fra padre Cagliero
e i lavoratori della missione. Il tema
è: «Il diavolo non è l’anima dei
defunti».
– Chi è il diavolo? – chiese il padre.
– Non lo sappiamo. Dillo tu e lo sapremo
anche noi.
– Secondo voi, il diavolo è l’anima
dei morti. È così?
– Sì, padre. Quando uno si ammala,
uccidiamo un montone per offrirlo al
diavolo, dicendo: «Anima di mio padre
cessa di fargli del male».
– Ebbene, questo è errato. Se il demonio
fosse l’anima dei nostri genitori
defunti, come voi dite, come potrebbe
farci del male? Un genitore,
che da vivo ama i figli, morto che sia,
cessa forse di amarli?… Tu, per esempio,
quando sarai morto, maleficherai
i figli che ora ami? «No, mai!»
rispose l’interpellato.
– Allora, perché affermate che il diavolo
è lo spirito dei morti?
– Adesso che conosciamo la verità
non lo diremo più.
Lo stesso missionario si cimentò
con un articolo complesso del credo
cristiano: la divina figlianza adottiva
dell’uomo. «Per spiegarmi, mi servii
di un fatto comune fra i kikuyu.
Un fanciullo, senza genitori e parenti,
viene adottato da un altro nel
modo seguente: l’adottante uccide
un montone alla presenza dell’adottando,
riempie una tazza di sangue
e, dopo avee bevuto alquanto, la
porge da bere al fanciullo, che con
quell’atto diventa suo figlio. Così –
dissi – fa Iddio con gli uomini. Questi,
nascendo macchiati, sono senza
padre in cielo, sono anzi schiavi del
demonio; ma l’acqua del battesimo,
data dal padre, libera dalla schiavitù
del demonio e ci fa figli di Dio».
L’assemblea, attonita ed ammirata,
esclamò: «Costui è sapiente e sa
di tutto: conosce perfino i nostri costumi».
Una missionaria sfruttò la categoria
del thahu per spiegare il
peccato originale: come il primo è una
impurità che contamina, diffondendosi
a macchia d’olio, così il secondo
si trasmette di padre in figlio.
Ma il battesimo purifica tutto.

IL BUONO E IL CATTIIVO
Si è detto che i primi battesimi solenni
di adulti risalgono al 1909-
1911. Non è esatto. Il primo battesimo
fu quello di Waweru, mundumugo
di Murang’a, l’11 giugno 1905.
Mentre era catecumeno, un’epidemia
gli sterminò tutti i montoni. La
moglie l’accusò di essere lui la causa
della moria, perché favorevole alle
«dottrine del bianco», irritando
così gli antenati. Waweru rispondeva:
«No, no: i genitori vogliono sempre
bene ai loro figli, e i nostri vecchi
non hanno cessato di amarci. Iddio
è padrone dei nostri montoni: c’è
dunque da arrabbiarsi se egli dispone
delle cose sue?».
A chi gli consigliava di sacrificare
agli spiriti per placarli, dichiarava:
«Preferisco rivolgermi direttamente
a “Dio padrone”, il quale saprà bene
far cessare i miei infortuni». Fu battezzato
sfidando gli altri stregoni,
che lo tacciarono di tradimento.
Affascinante è la storia di Kagwe,
di Karima. Fabbro trentenne,
impazzì e bruciò la sua officina. Ustionato
in tutto il corpo, guarì, ma
non dalla pazzia. La fantasia popolare
lo circondò presto di un alone
mitico: figlio delle fiere, dormiva con
loro trasformandosi egli stesso in bestia;
si cibava di cadaveri come le iene,
lottava coi leoni. Godeva però di
intervalli di lucidità; anzi, erano
sempre più frequenti.
Un giorno ritoò sulle ceneri della
sua capanna, sotto lo sguardo curioso
di 40 stregoni, che decisero di
guarirlo del tutto e avviarlo alla magia.
Kagwe divenne mundu-mugo, la
cui fama valicò la regione, al punto
da scalzare quella di tutti gli altri 40
messi insieme.
Venuto a diverbio con il capo degli
stregoni, lo infilzò con la lancia
e gli succedette nella medesima dignità.
Uccise pure un soldato indigeno;
e fu sferzato con 20 colpi di kiboko
per 10 giorni consecutivi ed imprigionato
un anno.
Pessimi i rapporti con la missione.
Accusò il padre di aver causato la
meningite che decimò i kikuyu; ma
il missionario, proprio durante il processo
che dibatteva il caso, lo zittì.
Kagwe allora mutò tattica: cercò l’intesa
truccata con il rivale bianco.
E qui il tranello giocò lo stesso artefice,
a tal punto che una sera chiese
al patri il battesimo. «Tu!».
– Sì, io, Kagwe!
– Vedremo…
Quel «vedremo» comportò prove
interminabili. Quando ormai tutto era
pronto, ne arrivò ancora una, l’ultima,
la più ardua. «Kagwe, io ti battezzo,
ma a una condizione…».
– Quale?
– Che tu edifichi la tua casa presso la
missione.
Il mundu-mugo tentennava. L’indomani
disse: «Accetto». Però, sul
punto di costruire la capanna, buttò
via ogni strumento gridando: «No,
non posso!». Il padre escogitò un
compromesso: affidare il lavoro a operai.
L’8 settembre 1919 Kagwe, ex assassino
e mundu-mugo infausto, si
chiamò Giovanni Battista.

Quando lei osò… parlare
A Tetu e a Gikondi alcune ragazze catecumene si ribellarono alla poliginia,
determinando una situazione conflittuale.
Ma l’esempio più clamoroso di «femminismo», che coinvolse anche il missionario,
riguardò Wangare, accasata presso Kemoso. Il marito non aveva
ancora consegnato tutti i montoni pattuiti per «il prezzo della sposa» e,
per giunta, la bastonava.
La donna notificò il fatto al genitore, il quale, in vista del processo, cercò
il sostegno del patri. Al processo Wangare osò prendere la parola opponendosi
a Kemoso, che naturalmente si dichiarava innocente.
«Non l’avesse mai fatto! Esplose tutto l’antifemminismo dei kikuyu, con
l’aggiunta dell’assioma che le donne non hanno voce in capitolo. Ciò che
rovinava tutto era l’atteggiamento nuovo, contrario alla tradizione, di Wangare,
la femminista selvaggia, che non sapeva, non voleva tacere». Con un
gesto espressivo di protesta, gli anziani e il marito abbandonarono il processo.
La donna perse la battaglia e fu condannata, perché il suo intervento nel
processo fu giudicato un affronto al consiglio degli anziani. Fu condannata
perché lei, donna, aveva parlato in «pubblico», mentre le spettava solo
il «privato».

FRANCESCO BERNARDI




KENYA, AMORE NOSTRO

Gli altri popoli dei missionari

Nel «deserto di pietre»
di Marsabit, nel nord
del Kenya, ecco
i pastori seminomadi
SAMBURU, come pure
i TURKANA, i RENDILLE,
gli EL MOLO, i BORANA,
i GABBRA.
Attoo al grande lago Victoria,
vivono i dinamici e numerosi
LUO.
A differenza dei bantu kikuyu
e meru, questi popoli sono
nilotici, cusciti e nilo-camiti.
Altre culture dunque.

SAMBURU
il popolo dalla «schiena dritta»

Viso ovale e altero, corpo robusto
e armonioso come una
statua greca, dritto come un
fuso su una gamba e l’altra sollevata
nella tipica posizione dell’airone, la
destra appoggiata alla lunga lancia, il
guerriero samburu è l’esemplare tipico
dei popoli pastori, che disprezzano
con orgoglio il «lavoro a schiena
curva» dei popoli agricoltori.
Anche la danza tradisce tale orgoglio:
i guerrieri si divertono saltando,
pettoruti e a piedi pari, come canguri,
librandosi nell’aria come farfalle,
per ricadere sugli stessi centimetri di
suolo da cui prendono lo slancio.

ORIGINE
Proprio la farfalla avrebbe dato il
nome ai samburu, per quel senso di
raffinata armonia, sconfinante nell’effeminatezza,
che sprigiona dalla
loro vita (*). Per alcuni tale nome deriverebbe
da «coloro che hanno il
borsellino» (ampur); per altri da «coloro
che vanno in guerra» con la sacca
dei viveri, per fare razzie o combattere
i razziatori.
Un tempo erano conosciuti come
burkineji, corruzione di loibor kineji,
cioè «possessori di capre bianche».
Tra di loro, però, preferiscono chiamarsi
lookop, «possessori della terra
». Di fatto occupano un territorio
di oltre 20.000 kmq a sud del lago
Turkana, costituito dal Distretto
Samburu e alcune frange del Distretto
di Marsabit.
Da dove siano giunti non si sa. Gli
anziani raccontano di provenire da
un luogo chiamato Pagaa, probabilmente
nell’attuale Sudan, spinti da
grave fame e carestia. Una cosa è certa:
i samburu sono cugini stretti dei
masai, dai quali si sono staccati, non
sappiamo quando, formando un
gruppo autonomo e omogeneo: entrambi
i popoli sono nilo-camiti, nomadi
e pastori, parlano la stessa lingua,
hanno usi e costumi assai simili.
Il termine in-kishu per i samburu
significa sia «bestiame» che «persona
»: l’identificazione è totale e sacrale,
vivendo in profonda simbiosi,
sul piano esistenziale e psicologico,
soprattutto col bestiame bovino, il
cui latte e sangue giocano un ruolo
essenziale anche nella simbologia religiosa.
Bovini, capre, pecore e qualche
dromedario costituiscono la base
dell’economia, della sussistenza e del
prestigio familiare. Il bestiame fornisce
cibo e pelli, che servono per
fabbricare oggetti di uso domestico
e ricoprire le abitazioni. La quantità,
più della qualità, oltre a costituire
motivo di orgoglio dell’allevatore, è
strategia di sopravvivenza. Le mandrie,
divise in piccoli nuclei, vengono
dislocate in varie zone del territorio:
sull’altopiano e nelle pianure
orientali, dove abbondano corsi
d’acqua e vegetazione forestale, nella
savana delle pianure occidentali e
nel semideserto delle pianure centrali
ed orientali. Con tale dislocamento
i samburu garantiscono la sopravvivenza,
in caso di grave crisi,
come razzie, epidemie, siccità, di almeno
un piccolo nucleo di animali
da cui ricominciare.
Ovviamente, il bestiame costituisce
la base dell’alimentazione. Ma esso
non è visto in funzione della resa di
carne, che viene consumata solo raramente,
in occasioni di celebrazioni
sociali, rituali e familiari. La dieta è
quella classica dei popoli nomadi: il
saroi, cioè latte unito a sangue.

ORGANIZZAZIONE SOCIALE
Il popolo samburu è diviso in otto
grandi famiglie: cinque sono dirette
discendenti di altrettanti progenitori;
tre sono nate da conflitti e divisioni
tribali. All’interno d’ogni clan
esistono varie segmentazioni, che
rafforzano le relazioni personali, legami
di solidarietà e senso di parità.
Elemento portante dell’organizzazione
sociale e politica sono le classi
di età, con funzioni e mansioni specifiche
simili al modellato dei masai.
Nel sistema samburu tali classi sono
sei. Ma poiché ogni classe è racchiusa
nel ciclo di circa 15 anni e si entra
nella prima all’età di 15-20, le classi
più importanti sono quattro, con rari
superstiti della quinta e sesta, vegliardi
quasi ottuagenari e oltre.
La prima classe di età è formata dai
giovani iniziati e circoncisi durante
lo stesso ciclo di 15 anni: essi sono
chiamati moran, cioè guerrieri. La
loro funzione, infatti, è militare: hanno
il diritto e dovere di difendere il
territorio e gli armenti che vi pascolano;
di iniziativa propria passano all’attacco
per battute di caccia contro
animali predatori o per razzie del bestiame
alle popolazioni vicine. Non
hanno potere decisionale, ma i moran
seniori hanno il compito di comunicare
la loro esperienza ai coscritti
più giovani e ai primi gruppi
di iniziati della classe successiva.
«Non c’è classe di circoncisi senza
il proprio nome» dice un proverbio
samburu. Il nome è importante: conferisce
identità a individui e gruppi.
Per questo tutti gli iniziati di un determinato
ciclo ricevono un nome
speciale, che li distingue dalle classi
precedenti: lkishili sono quelli della
classe iniziata nel 1960; lkiroro dal
1975; lmoli dal 1990.
La seconda classe è formata da uomini
sposati o in procinto di sposarsi.
Essi devono badare alla famiglia e
soprattutto accudire al bestiame, la
cui crescita procura prosperità e prestigio
personale e serve ad avere nuove
mogli e figli. La fortuna economica
e familiare toerà utile per acquistare
più autorità nel passaggio
alla classe successiva.
La terza classe possiede il potere
politico e decisionale. È la classe dei
padri: i loro figli sono ormai entrati
nella prima classe, dei moran, e ne
controllano movimenti e attività militari.
Le decisioni vengono prese nei
consigli degli anziani, cui fanno parte
anche i membri delle classi successive.
Essi hanno uguale potere
politico; ma il prestigio e successo
personale possono essere motivo di
maggiore ascolto ed efficacia persuasiva.
Tali consigli sono locali; ma
ci sono occasioni in cui si richiede un
consiglio unico per tutto il territorio.
La quarta classe, insieme ai superstiti
della quinta e sesta, ha funzione
«religiosa». I suoi membri sono i depositari
della tradizione: rappresentano
il legame vivente tra il passato e
l’aldilà. Il loro compito specifico è di
consulenza e sacerdotale: alcuni riti
e cerimonie richiedono la presenza
di almeno uno di loro.
Benché in tale sistema organizzativo
anzianità e vecchiaia siano altamente
rispettate, non si può definire
l’ordinamento samburu una gerontocrazia.
In tale modello, infatti, il
potere e le varie funzioni (militare, economico,
politico e religioso) sono
distribuiti tra tutti i membri in maniera
diffusa e partecipata, sottraendoli
al dominio del singolo capo o di
un gruppo oligarchico.
Le donne, però, sono escluse dalla
vita politica e dal meccanismo delle
classi di età, dal momento che non
sono destinate a restare nel clan.

INIZIAZIONE
Nei primi 15 anni il samburu non
conta nulla: è un nkerai (bambino) o
layeni (ragazzo-pastorello). Ma con
l’iniziazione entra nella maturità.
L’iniziato, dopo essere stato rasato
e fornito di sandali nuovi, coperto da
una pelle di pecora, spalmata dalla
madre con grasso e polvere di carbone,
viene circonciso davanti alla
porta della propria abitazione, con
l’assistenza di un padrino. In genere
il circoncisore non è un samburu. Il
circonciso non deve mostrare paura
né lamentarsi per il dolore: sarebbe
una vergogna per tutta la famiglia.
Dopo la cerimonia il giovane riceve
regali, cibo e, dal padrino, arco e
frecce. Quindi rimarrà a casa per circa
un mese nell’osservanza di restrizioni
rituali; quindi comincerà ad andare
a caccia di uccelli: un’occupazione
di tre mesi chiamata laibartani.
Quindi raggiunge gli armenti lontani
per dedicarsi al pascolo e alla difesa
del bestiame; per una decina
d’anni intrecciano atti di coraggio a
una vita di vanitosi elegantoni.
Ma per diventare un moran il giovane
deve passare attraverso tre stadi,
con relative cerimonie dette lmugit:
sono riti di passaggio obbligatori
e punti fermi dell’educazione
impartita dagli anziani.
Inizia con il lmugit delle frecce (o
uccelli), durante il quale viene ucciso
un bue: di fronte a sua madre, il
giovane giura di non mangiare più
carne in presenza di donne sposate.
Solo da questo momento diventa
moran e può dipingersi il corpo con
l’ocra rossa.
Segue il lmugit del nome, quando
il giovane ha circa 20 anni. Anche
questo rito è accompagnato dal sacrificio
di un bue, ucciso per soffocamento:
esso non deve cadere a terra,
ma tenuto sollevato dai giovani
per i quali la cerimonia è celebrata.
Il bue dovrà essere mangiato interamente
e le ossa bruciate. Il lmugit del
toro, in cui viene ucciso un altro bue,
chiude praticamente il periodo del
«moranato»: il giovane è pronto per
il matrimonio e passa nella seconda
classe di età.

IL MATRIMONIO
Il cerimoniale del matrimonio è
complesso e suggestivo. Le trattative
con la famiglia della sposa sono condotte
dall’interessato, col sostegno
del padre; ma ogni anziano della parentela
patea o matea può mettere
il veto sulla ragazza scelta, minacciando
di maledire i futuri figli.
Oltre agli otto buoi da consegnare
al suocero, lo sposo deve procurare
vari regali per la sposa (due pelli di
capra, due orecchini di rame, un recipiente
per il latte, una pecora) e vari
capi di bestiame per parenti e affini
e da sacrificare per la festa. La
sposa dovrà procurarsi un grembiule
speciale, orecchini, un pezzo di
pelle di leone da legarsi alla gamba,
perline, sandali, un bastone di pianta
detta nkoita.
Per la data delle nozze, la nuova
luna è la più propizia e i giorni pari
i più adatti. Quel giorno, di primo
mattino, la promessa sposa viene
circoncisa (clitoridectomia). Tre
quarti d’ora dopo giunge lo sposo,
accompagnato dal compare e da altri
che sospingono un bue, una vacca
ed una pecora. La madre della
sposa toglie i paletti che ostruiscono
l’entrata della
capanna ed il
bue viene fatto entrare ed è ucciso.
Con tale sacrificio il matrimonio è
validamente ratificato, anche se la
cerimonia è appena iniziata. Seguono
riti complicati per la divisione
della carne del bue; quindi gli anziani
avviano una litania di benedizioni
sul padre della sposa, deponendo
burro sulla sua testa.
Per tutto il giorno si compiono altri
riti e il mattino la sposa deve recarsi
a piedi fino al villaggio dello
sposo. Il viaggio, spesso lungo e penoso
per la donna appena circoncisa,
termina alla manyatta (capanna)
dello sposo; vi entra passando tra
due file di anziani che benedicono
la nuova coppia. Nella nuova capanna
essa accende il fuoco nuovo,
che deve scaturire da due bastoncini
sfregati: il fuoco non dovrà mai
spegnersi finché la nuova famiglia si
trasferirà altrove.

MONDO DEL SACRO
Fulcro delle credenze religiose, attorno
a cui ruotano preghiere, sacrifici
e la stessa vita, è Nkai, Dio
buono e severo contemporaneamente.
Al di sotto di lui c’è una serie
di spiriti custodi, posseduti da ogni
cosa e persona.
Il termine nkai serve per indicare
anche il cielo e la pioggia; ma il concetto
che i samburu hanno della divinità
è molto chiaro: Dio è unico,
onnipotente, onnipresente, provvido,
ecc. In generale, gli attributi lo
descrivono come essere maschile;
ma alcuni lo descrivono come ente
femminile, quando, per esempio, lo
si prega perché sorregga l’uomo, come
una mamma sostiene i suoi bimbi.
Anche se gli attribuiscono forme
antropomorfiche, i samburu
rifuggono dal compararlo agli uomini:
Nkai è Nkai, dicono.
Benché Dio sia dappertutto, alcuni
luoghi, densi di fascino e meraviglia,
sono ritenuti privilegiati dalla
presenza divina, come i monti Ng’iro,
Marsabit e Kulal, oppure grosse
piante, cave, sorgenti d’acqua. Luoghi
sacri in cui si svolgono i riti più
importanti della vita.
Oltre alle preghiere quotidiane in
cui, in modo assai spontaneo, si invoca
Dio per le necessità dell’etnia,
clan, famiglia o individuo, i samburu
esprimono il loro culto mediante il
sacrificio. Un tempo avevano il lasar,
sacrificio di offerta. Oggi, il sorio, sacrificio
di ringraziamento, è l’atto di
culto fondamentale: ricorre due volte
all’anno. Lo si celebra di sera in ogni
gruppo di capanne e consiste nell’offerta
di una pecora nera, grassa,
non ancora incinta. La carne viene
arrostita e mangiata: la parte destra
dagli uomini e la sinistra dalle donne.
Il sangue, mescolato con l’interno
dello stomaco, viene spalmato
sulle capanne e sugli animali.
Contrapposto a Dio buono, i samburu
credono in uno spirito maligno
chiamato Milika, pressappoco il nostro
demonio.
Al pari di altre etnie africane, anche
i samburu hanno la figura del
mago-guaritore (loiboni), a cui si ricorre
in caso di malattia inguaribile,
sterilità, peste del bestiame, prima di
affrontare il nemico… È retribuito
con buoi e montoni. I suoi strumenti
sono sassolini, cianfrusaglie e radici
contenute in zucchette.
È un personaggio temuto da tutti
e di cui non si parla volentieri. Dal
canto suo, il mago-guaritore non
ama mostrarsi in giro. Egli trasmette
il suo mestiere al figlio più abile,
insegnandogli i segreti di erbe e veleni.
Quando muore viene sepolto
sotto un mucchio di sassi.
Un altro importante personaggio
è il laidetidetani, indovino o sognatore.
Suo compito è interpretare i sogni,
conoscere le stelle, prevedere
l’arrivo della pioggia. Il lais, invece,
è un personaggio dotato del potere
di ritrovare cose perdute, portare
fortuna o iella. Da costui i samburu
stanno volentieri alla larga.

LA MORTE
Anche la morte ha il suo cerimoniale.
In genere i morti non sono seppelliti,
eccetto i personaggi molto anziani
e rinomati e i bimbi di pochi
mesi; questi sono sepolti presso il
fuoco nella capanna, che viene poi
abbandonata. Per questo l’anziano
samburu, quando sente la morte vicina,
prega così: «Dio, fammi un vero
lookop: non permettere che l’erba
mi mangi». Chiede, cioè, di morire
nel suo clan e non lontano dal villaggio;
di avere una sepoltura onorevole
e una tomba riconoscibile, non coperta
dall’anonimato della savana; di
essere sepolto con la faccia rivolta alla
montagna sacra, sede di Dio.
In tal caso, il morto, rasato, viene
adagiato sulla pelle su cui dormiva e
sistemato in modo che la sua faccia
sia rivolta verso la montagna. La
gente deporrà rami intorno dicendo:
«Dormi da solo!». Il luogo verrà ricordato
per un po’ di tempo; chiunque
passerà accanto alla tomba vi
getterà un ramo verde.
(*) Cfr. anche: Achille Da Ros – Virgilio
Pante – Egidio Pedenzini, Proverbi Samburu,
Emi, Bologna (in samburu, inglese
e italiano).

RENDILLE
cultura del cammello

Lo chiamano harab lanugseli,
letteralmente «succhiarsi la
lingua». È un rito che si compie
alla nascita d’un bambino e si
svolge in questo modo: raccolti insieme
otto oggetti tipici del clan, un
uomo picchia leggermente il neonato
ripetute volte; poi altri uomini del
clan sputano sugli stessi oggetti e li
passano sulle labbra del neonato; infine
ognuno gli sputa sulla bocca
gridando: «Idei aleh!», sii come me.
La cerimonia serve a controllare il
potere delle maledizioni (ibire), che
per i rendille sono una cosa seria: ogni
clan ha le sue; vengono tramandate
da una generazione all’altra. Sono
credute e temute anche dai popoli
vicini: qualsiasi cosa strana possa
capitare l’attribuiscono a una maledizione
dei rendille, che spesso sono
invitati a pregare per togliere la iella.

«T’AMO… PIO CAMMELLO»
Circa 600 anni fa, gli antenati dei
rendille vivevano in Somalia: facevano
parte di uno stesso gruppo etnico
cuscita e parlavano la stessa lingua.
Fin d’allora elaborarono una cultura
ruotante attorno al cammello e determinati
riti per ottenere benessere
per sé e per gli animali, seguendo un
duplice calendario, solare e lunare.
Poi l’espansione degli oromo avviò
un grande movimento migratorio
verso sud e ovest, provocando una
differenziazione progressiva e dando
origine agli attuali somali, sakuye,
gabbra, rendille.
Tra i nuovi gruppi etnici, i rendille
sono quelli che si sono spostati più
a sud e hanno mantenuto lingua e
cultura più intatte. Oggi, sono circa
36 mila e vivono nella zona semidesertica
del distretto di Marsabit, circondati
a est dai borana, a nord dai
gabbra, con i quali si guardano in cagnesco
da qualche decennio, a est e
sud dai samburu.
Con questi ultimi, invece, le relazioni
sono ottime. La delimitazione
territoriale è molto elastica, per cui i
samburu entrano nella terra rendille
e viceversa. Pur mantenendo la propria
identità, la vicinanza dei gruppi
ha favorito mutui scambi di elementi
culturali: i rendille imitano gli oamenti
maschili e femminili dei
samburu e hanno metabolizzato varie
cerimonie di iniziazione.
Gelosi della propria identità, i rendille
si definiscono «proprietari di
cammelli»: ma allevano pure bovini,
ovini, caprini e pochi asini. Dal bestiame,
eccetto gli asini (usati solo
come bestie da soma) proviene il cibo,
sotto forma di latte, sangue e raramente
carne; la pelle è adatta a
molteplici usi. Il bestiame compare
nelle feste religiose e profane ed è
motivo d’orgoglio e prestigio per il
proprietario, il cui peso sociale e politico
è determinato dalla grandezza
delle mandrie.
Il cammello, soprattutto, gioca un
ruolo importante nella vita economica
rendille: esso è utilizzato per il
trasporto di attrezzi e strutture degli
accampamenti verso nuove terre da
pasto; o per trasportare l’acqua da
pozzi lontani. Un servizio inestimabile
se si tiene conto che l’animale
può portare fino a 90 chili di peso,
percorrendo 40 km per 6-8 ore al
giorno. Inoltre può restare senza bere
per 10-14 giorni.

CASA MIA, CASA MIA!
La pastorizia è attività comune a
uomini e donne, dall’infanzia al matrimonio;
in seguito le mansioni vengono
distinte: l’uomo l’abbandona
gradualmente per avvicinarsi alla vita
politica e la donna si dedica ai lavori
domestici, tra cui l’approvvigionamento
d’acqua, legna da ardere e
periodica costruzione della casa.
Trenta abitazioni in media formano
un villaggio, che non ha una collocazione
territoriale stabile; ma, secondo
esigenze igieniche e di pascolo,
viene smontato e ricomposto
altrove, rispettando la consuetudine:
la casa del capo al centro e tutte le altre
intorno, in ordine d’importanza
decrescente verso la periferia.
Una siepe di rami spinosi circonda
sempre l’abitato, entro il quale sono
disposti i recinti per il bestiame e
si aprono alcuni spazi che la gente utilizza,
di tanto in tanto, per eseguire
danze o canti corali.
Sotto un albero frondoso, accanto
al villaggio, si riunisce quotidianamente
il consiglio di anziani, per esaminare
i problemi inerenti alla vita
pubblica ed esercitare funzioni di
corte giudiziale, quando occorre.
Ogni famiglia tiene attorno all’accampamento
un piccolo numero di
cammelle, dalle quali le donne mungono
il latte per il fabbisogno quotidiano.
Le mandrie, invece, pascolano
lontano: ragazzi e guerrieri custodiscono
cammelli e bovini; ragazze e
donne non sposate capre e pecore.
I rendille vivono quasi in simbiosi
con il proprio bestiame, legati da vincoli
sacrali; ciò si manifesta soprattutto
durante le lunghe abbeverate:
i pastori, soprattutto le ragazze, chiamano
le bestie per nome, parlano loro
come si fa tra amici; ne cantano le
lodi e ne esaltano le qualità, quasi
fossero membri di famiglia.
Diversamente da molte società africane,
la donna rendille gode di
grande rispetto e considerazione: la
casa è territorio femminile e il marito
non ci mette il becco. Se un uomo
vuole parlare privatamente con altri
uomini, non può mandare via la moglie:
è lui che deve andarsene in un
posto dove non ci sono altre case,
oppure mandare gentilmente la consorte
a fare una commissione. Se un
matrimonio si rompe e non ci sono
figli, la casa rimane alla moglie per
sempre, anche se la rottura avviene
durante le trattative per le nozze.

UNA SPOSA PER 8 CAMMELLI
Due sono i capisaldi dell’organizzazione
sociale e politica dei rendille:
la divisione in 9 clan patrilineari
ed esogamici e il sistema delle classi
d’età. I clan di grandi dimensioni sono
ramificati in varie sezioni; clan e
sezioni sono dispersi in numerosi villaggi
che accolgono, oltre la famiglia,
un certo numero di forestieri.
Ogni clan è caratterizzato da notevole
coesione intea e si distingue
dagli altri per alcuni poteri rituali e
costumi propri. Tra i nove clan ne emergono
due: l’uno è detentore del
potere politico; l’altro di quello religioso,
i cui capi hanno carica ereditaria
e sono riconosciuti come tali da
tutti i rendille.
Le classi d’età conferiscono uguali
diritti e doveri a tutti gli uomini appartenenti
alla stessa leva. La formazione
di una classe ha luogo quasi
contemporaneamente in ogni villaggio
e comporta l’iniziazione di tutti i
giovani il cui padre appartiene alla
terza classe d’età.
In tale circostanza, i candidati, riuniti
in gruppo, sono circoncisi e, subito
dopo, ricevono in dono alcuni
capi di bestiame dai parenti più prossimi.
Durante la cerimonia gli iniziandi
eseguono canti e danze particolari,
che non ripeteranno più per
tutta la vita. Ai festeggiamenti segue
un periodo di reclusione in una capanna
comune appositamente costruita,
in attesa della completa guarigione.
Poi iniziano a svolgere le
mansioni proprie del grado d’età: pascolo
e attività di guerra.
Passati 12 anni, i «guerrieri» possono
sposarsi. Il matrimonio non si
concretizza in un momento particolare,
ma è un processo che avviene
per gradi: una serie di incontri tra i
padri dei futuri sposi stabilisce l’ammontare
della ricchezza della sposa
(in media 8 cammelli); i festeggiamenti
iniziano con la circoncisione
della moglie e durano diversi giorni.
La celebrazione interessa contemporaneamente
diverse coppie della stessa
leva (vedi riquadro).
Col formarsi di una nuova classe,
ogni 14 anni, i guerrieri passano allo
status di anziani, abbandonano le armi
e si dedicano alla famiglia e bestiame.
Successivi passaggi conferiscono
loro prestigio crescente, fino al
grado più alto, il sesto, difficilmente
raggiungibile: i superstiti diventano i
saggi custodi della tradizione.

SENZA ALDILÀ
I rendille credono in un Dio identificato
col cielo, creatore d’ogni cosa
visibile, capace d’influire sugli eventi
terreni, fenomeni naturali e vita
di ciascun individuo.
Il culto, per il quale non esistono
luoghi specifici, si avvale della preghiera,
a volte associata a sacrifici animali
e offerte di latte. L’attività sacerdotale
è svolta occasionalmente
dal padre e quotidianamente da un
anziano che funge da coreuta nelle
preghiere corali del mattino e della
sera.
Viene attribuita notevole importanza
ai cicli lunari e, ogni prima notte
di luna nuova, il «ritorno della luce» è festeggiato dalle donne con apposite
danze.
Non vi è credenza nella vita ultraterrena
e la morte viene spiegata come
un riappropriarsi della vita da
parte di Dio. Subito dopo il decesso,
il capo del defunto viene rasato e il
corpo cosparso di grasso; poi, a sepoltura
avvenuta, la tomba è coperta
da un mucchio di pietre, sulle quali
i parenti di passaggio versano un
po’ di latte in segno di benedizione
e posano qualche foglia di tabacco.

CAPRO ESPIATORIO
TURKANA
orgogliosi di vivere all’«inferno»

«Imigliori guerrieri dell’Africa
orientale; eccezionalmente
impavidi; con una fama di estremo
e rapace eroismo»: così hanno
definito i turkana gli amministratori
coloniali del passato. I primi incontri
non sono incoraggianti, scrive
un missionario che da anni vive insieme
a loro: sono «chiusi, un po’ rozzi
e grossolani, privi delle grazie della
società; impulsivi e attaccabrighe;
fieramente indipendenti, orgogliosi,
arroganti, ma anche giorniosi e felici; ispirano
forti emozioni: chi lavora tra
loro o li ama o li odia; spesso tutte e
due le cose insieme».
Ma è grazie a tale aggressività o reputazione
di essere tali, che sono tanto
numerosi e riescono a vivere in un
ambiente lunare.

SEGUENDO UN BUE RIBELLE
Il nome turkana (*) non dice molto:
forse deriva da aturkan (grotta,
cavea), da cui ngaturkana: uomini
delle cavee. Qualcosa in più si può
ricavare dai loro scarsi miti delle origini.
Inizialmente esisteva il gruppo
etnico dei karamojong: 500 anni fa,
questi emigrarono dall’Etiopia nel
Sudan, per poi ripiegare verso sud,
dividendosi in gruppi autonomi e
prendendo nomi propri: jie, dodos,
turkana, jiye, toposa, teso, donyiro,
kuman. I vecchi raccontano che queste
popolazioni «erano un tempo un
solo territorio, un solo popolo, una
sola famiglia».
Gli etnologi definiscono a grandi
linee questi gruppi come «nilo-camiti
» o «nilotici cuscitizzati». Di fatto,
la loro lingua affonda le radici
nell’intricato sottobosco nilotico, ma
sangue e cultura hanno i colori dei
popoli di lingua camitica (cuscita).
Per quanto riguarda i turkana,
un’antica leggenda narra che essi si
chiamavano jie; ma un giorno si separarono
da essi, seguendo le orme
di un bue capriccioso che, fuggendo,
si tirò dietro molta gente: da quel
momento essa si chiamò turkana; avanzò
verso sud e, sgomitando, assimilando
o cacciando le popolazioni
arrivate prima, diede il proprio nome
alla terra occupata: Turkwen, terra
dei turkana. Il contatto con altre
popolazioni ha arricchito la formazione
delle loro mandrie: ai soliti bovini
hanno aggiunto capre, pecore,
cammelli e asini.

HABITAT INFERNALE
Il Turkwen o, come viene chiamato
dall’amministrazione statale, Distretto
Turkana, misura oltre 61.000
kmq e si trova nella Great Rift Valley:
una lunga fossa a circa 600 metri
s.l.m., caratterizzata da pianure
sabbiose, blocchi rocciosi di 300-400
metri e catene di colline e montagne
di origine vulcanica alte fino a 1.600
metri.
La temperatura minima si ferma a
24° e la massima può raggiungere i
42° nei mesi di gennaio-marzo. Le
precipitazioni sono scarse e imprevedibili,
anche se i turkana continuano
a dividere l’anno in akiporo
(stagione delle piogge, aprile-agosto)
e akamu (stagione secca, settembremarzo).
Nel nord cade 100-300 mm
di pioggia l’anno; nel sud 300-800;
nel centro e nell’est non piove quasi
mai. Turkwell e Kerio sono i fiumi
principali; altri corsi d’acqua stagionali
non sono altro che letti di sabbia,
pietre e detriti. La vegetazione è
quella tipica della savana: acacie spinose,
cactus, sisal, palma dum, specie
lungo i corsi d’acqua, e cespugli
spinosi qua e là tra sassi e sabbia.
In tale ambiente infeale, nulla è
dato gratuitamente; tutto ciò che si
ha, o si vuole avere, deve essere faticosamente
conquistato e difeso, aggredito
e vinto. Altrimenti si soccombe.
Qui i turkana hanno sviluppato
carattere e cultura, orgogliosi
del proprio isolamento, accresciuto
dalla fama di guerrieri spietati che si
portano addosso.
Da sempre, infatti, essi compiono
razzie di bestiame: fa parte del loro
sistema economico, giustificato da
un mito tramandato da una generazione
all’altra: Dio ha dato ai loro antenati,
e solo a loro, tutto il bestiame
domestico esistente nel mondo; per
cui, razziare il bestiame altrui non è
pelle, abbellite da teorie di perline
multicolori.
Famosi sono i fabbri turkana: estraggono
il ferro da una roccia speciale
e modellano armi e utensili. Oltre
alle classiche lance e frecce dei
popoli nomadi, essi fabbricano il
micidiale bracciale: infilato al polso
e coperto da una sottile guaizione
di cuoio, sembra un oamento; ma
liberato da essa, svela il suo vero scopo:
è un’arma che non lascia scampo.
Caratteristici sono pure i loro
bastoni da combattimento: sembrano
comuni canne decorate; ma dovunque
colpiscono le decorazioni
lasciano il segno.
Nei loro oamenti, donne e uomini
rivelano un vasto campionario
d’inventiva, gusti, significati suggestivi
e altro. Le fogge dei capelli
sono totalmente differenti
da quelle samburu;
collane, orecchini, pendenti
e altri oamenti
femminili distinguono le
nubili dalle sposate e indicano
differenti situazioni
familiari: nascite e
lutti, vedovanza e lontananza
del marito. Oltre
alla perforazione dell’orecchio,
è praticata
quella del labbro inferiore,
per inserirvi un
monile metallico.
Armi, utensili, oamenti
e oggetti artigianali
hanno per la gente
un valore puramente
pratico, senza escludere
quello estetico; ma
da quando i bianchi
hanno cominciato ad
apprezzarli come souvenir
turistici, i turkana
hanno fatto un balzo
nell’adattamento alla
«civiltà industriale».

SOCIETÀ DEL BESTIAME
L’intera etnia turkana è divisa in 12
clan, con usi e rituali propri, e 25 sezioni
sparse in tutto il distretto, con
regole esogamiche. Tutti i maschi sono
divisi in due grandi gruppi: ngimoru
(pietre) e ngirisae (leopardi),
distinguibili da segni decorativi in
occasione di feste. L’appartenenza è
alternata tra padre e figli: se il padre
è ngimoru, i figli saranno ngirisae e
viceversa. Col matrimonio le donne
entrano nel clan e gruppo del marito.
Ma clan, sezioni e gruppi non rivestono
particolare significato sul
piano socio-economico, poiché non
posseggono bestiame proprio.
Cuore e centro del sistema sociale
turkana è l’ekal, famiglia estesa:
un nucleo indipendente,
economicamente autosufficiente
e geograficamente
distinun
crimine, ma significa semplicemente
riprendersi ciò che è proprio
per diritto divino e primordiale.
Se a tale giustificazione si aggiunge
il prestigio di uccidere uno o più
nemici, ostentato con speciali decorazioni
e cicatrici sul petto, si comprende
come i turkana si siano guadagnati
la fama di guerrieri coraggiosi
e sanguinari; anche se negli
ultimi anni si sono dati una calmata,
sia per convinzione, sia perché le popolazioni
circostanti si sono rifoite
di armi da fuoco (vedi riquadro).

ADATTARSI O SPARIRE
Dote fondamentale dei turkana,
modellata dalle difficoltà ambientali,
è il grande spirito di adattamento.
Pur conservando vari usi e costumi
del gruppo originario karamojongjie
(modi di vestire, decorazioni e
fogge di capelli, rituali e tipi di alleanze),
i turkana hanno abbandonato
tante pratiche classiche dei popoli
nilotici, come la circoncisione
sia maschile che femminile; le classi
di età, l’importanza dell’autorità degli
anziani e della divisione clanica.
Il rapporto con il bestiame, soprattutto,
è essenzialmente pratico, ben
lontano dalla simbiosi psicologicasacrale
dei samburu.
Quando, per motivi di sopravvivenza,
migrano nelle città o altri territori
tribali, i turkana accettano di
ripristinare la circoncisione o adottano
le tradizioni del nuovo habitat.
Unici tra i pastori nomadi, i turkana
non si vergognano di «piegare la
schiena» per zappare e coltivare la
terra, appena le rare piogge ne offrono
l’opportunità, né di avvantaggiarsi
d’ogni cosa commestibile: uova,
pesce, pollame e carne di animali selvatici,
cibi rigorosamente tabù per le
altre popolazioni pastorali. Fanno eccezione
le cai di cane e iena.
Poiché le difficoltà aguzzano il cervello,
i turkana hanno imparato a usare
tutte le risorse offerte da un ambiente
ostile. Legno, pelli, cuoio, avorio,
metalli, zucche, semi, ossa,
coa, zoccoli, unghie, piume ecc….
nulla è buttato, ma trasformato in utensili,
oamenti e altri oggetti di artigianato.
Solo la tessitura non è praticata,
per mancanza di fibre vegetali.
In compenso, le donne sono abili
nel lavorare il cuoio, con cui confezionano
caratteristiche sottane di
to, formato da padre, moglie (o mogli),
figlie non sposate e figli con relative
mogli e prole; ma può essere estesa
a parenti e affini. Il padre è padrone
assoluto (ekapolon) del
bestiame, che non sarà spartito tra i
figli fino a quando egli è in vita.
Nella vita quotidiana sono importanti
i rapporti di vicinato: differenti
ekal possono aggregarsi, formando
un villaggio sparso, in una comune
area di pascolo, per aiutarsi a
vicenda nella ricerca di acqua, custodia
del bestiame e assistenza reciproca
in ogni eventualità.
Nel vicinato si realizza l’organizzazione
politica dei turkana, dando
vita a un microcosmo di consigli di
anziani, con potere decisionale circa
la soluzione dei problemi che emergono
dalla vita quotidiana. Tali consigli
non sono stabili, poiché un ekapolon
può emigrare dal villaggio in
qualsiasi momento verso altre zone
di pascolo e non incontrare più i vicini
per tutta la vita.
Altra importante struttura organizzativa
è la «società del bestiame»:
è un’alleanza tra uomini discendenti
dallo stesso antenato, parenti, affini
e amici, con l’impegno di procurare,
dare o ricevere animali quando
uno dei soci ha perduto il bestiame
o si trova in qualche grave necessità,
come il matrimonio.

MA QUANTO MI COSTI!
Più delle strutture, sono gli eventi
della vita a ricoprire un ruolo importante
nella vita turkana: iniziazione
e matrimonio, nascita di un figlio
e morte dell’ekapolon.
Bambini e ragazzi hanno il compito
di pascolare e difendere il bestiame
dell’ekal fino al giorno dell’iniziazione
(esapan). Questa avviene all’età
di 15-20 anni, con un gruppo
consistente di candidati, nella stagione
umida, quando il cibo abbonda.
Il rituale è ridotto all’osso: abolita
la circoncisione, esso consiste nel
«sacrificio dell’esapan»: a tuo gli iniziandi
devono uccidere un animale
(toro o caprone) con un colpo di
lancia preciso, per dimostrare la
propria forza e abilità. Poi gli anziani
li spalmano con il contenuto dello
stomaco della vittima e spruzzano
su di loro saliva e acqua, simbolo
di vita e di benedizione.
I rituali proseguono con festeggiamenti e abbuffate di carne. Infine
ogni giovane si reca dal padrino che,
dopo avergli trasmesso il bagaglio
morale, le tradizioni dell’etnia e acconciato
la capigliatura, gli consegna
il necessario di un autentico turkana:
lancia, clava, poggia-testa, braccialecoltello,
anello, sandali nuovi. Ora il
giovane è diventato un guerriero: deve
respingere i nemici, condurre la
mandria in pascoli lontani e partecipare
alle razzie.
Verso i 30 anni, il giovane può sposarsi
e così raggiunge un secondo
grado di maturità. Ma è un processo
lungo e complesso.
Iniziato il corteggiamento e ottenuto
il consenso della ragazza, in genere
ancora adolescente, il giovane
deve ottenere l’approvazione del padre.
Se esso è positivo, il genitore si
reca con gli anziani alla casa della famiglia
della sposa e avvia il contratto
matrimoniale.
È questo il punto cruciale, dove la
«società del bestiame» si rivela provvidenziale.
Il prezzo della sposa, infatti,
può raggiungere i 40-50 capi di
bovini e cammelli, 100-150 di pecore
e capre, un discreto numero di asini
e beni di uso immediato (coperte,
tè, zucchero, tabacco). Domanda
e offerta subiscono sconti durante la
contrattazione; ma la somma rimane
sempre alta; e non è scontato che il
padre sia disposto a sborsarla, specie
se vuole procurarsi un’altra moglie:
da qui la necessità di rivolgersi a zii,
affini e amici.
Raggiunto l’accordo tra le due famiglie
sul prezzo da sborsare, lo sposo
chiama alcuni amici e rapisce la
ragazza. La sposa è consenziente, naturalmente;
ma il rapimento deve avvenire
col maggiore baccano possibile:
la ragazza grida e si divincola
per mostrare l’attaccamento ai genitori;
i rapitori devono fare apparire
che si tratta di un bottino di razzia,
tanto per non smentire la propria fama.
A colpo fatto, gli anziani benedicono
gli sposi, che cominciano a
convivere.
Riprendono le trattative tra le due
famiglie per la consegna del bestiame,
che generalmente viene fatta a rate.
La prima deve essere la più consistente,
perché i parenti della sposa
acconsentano alla cerimonia definitiva:
l’uccisione del bue. Con questa
cerimonia viene sancita la legittimità
del matrimonio a tutti gli effetti, anche
se il pagamento delle altre rate
durerà molti anni o tutta la vita.

RELIGIONE… INTERESSATA
I turkana hanno la certezza di un
Dio chiamato Akuj (cielo): benevolo,
onnipotente, unico (senza mogli
e figli), onnisciente… ma è alquanto
lontano. Presente al tempo delle origini,
non si interessa troppo delle
faccende umane, pur rimanendo
sempre sorgente della vita e del destino
di ogni essere. A volte Dio comunica,
attraverso il sogno, in vista
di necessità collettive, mediante uomini
scelti, come l’emuron, personaggio
fondamentale nella società
turkana, che riveste il ruolo di sacerdote,
mago, medico e divinatore.
I turkana si avvicinano ad Akuj ed
esprimono la loro dipendenza, seppure
raramente, con preghiere e sacrifici,
in caso di calamità collettive,
malattia di anziani e altre circostanze
dettate dalla tradizione. Si ha il
«sacrificio per la pioggia», con l’uccisione
di un bue in caso di siccità
prolungata; si sacrifica un toro (o caprone)
al rientro del bestiame dalle
alture o per scongiurare la moria degli
animali.
Oggetto della preghiera, guidata
dagli anziani o dall’emuron, sono
realtà concrete: pioggia, acqua, cibo,
aumento di figli e bestiame, salute
delle persone; ma anche pace, armonia,
concordia tra gli anziani.
Inoltre, l’universo turkana è popolato
da entità benevoli o malevoli,
da un gran numero di spiriti della
natura e spiriti dei morti. La loro potenza
è limitata, ma è sempre meglio
tenerli a bada con una serie di rituali,
formule di scongiuro, amuleti e talismani,
piccoli gesti di rispetto: un
pizzico di tabacco, libagioni di latte
e acqua.
Infine, accanto all’azione di Akuj
e degli spiriti, i turkana credono in
realtà soprannaturali impersonali,
controllabili dagli specialisti: maghi
e indovini, possessori di poteri positivi
o distruttivi. Ne esistono parecchi,
ma il più popolare, stimato e temuto,
è l’emuron, spesso molto ricco,
grazie al contributo in bestiame
che riceve per le sue prestazioni.
Personaggio caratteristico, presente
in quasi tutti i villaggi, è il «lanciatore
dei sandali»: dalla posizione che
tali aesi assumono in volo e nella ricaduta,
egli diagnostica le cause di
un’anomalia e dà la risposta al problema
che gli viene presentato.
(*) Cfr. anche: Achille Da Ros,
Noi, i Turkana, Emi, Bologna, 1994.

PASSARE TRA LE DITA
EL MOLO
quei «poveri diavoli»

Fisico malsano, endemica debolezza
ossea, labbra macchiate,
denti scoloriti… una trentina di
anni fa gli el molo contavano un centinaio
d’individui, destinati a scomparire
per carenze alimentari e matrimoni
tra consanguinei. Apatia e sregolatezza
facevano il resto: sembrava
che la gente avesse deciso di darsi alla
pazza gioia prima di sparire.
Con la fondazione della missione
di Loyangallani, le cose cominciarono
a cambiare sia dal lato umano che
morale: medicine, igiene e aiuti alimentari
fermarono la moria; i matrimoni
con turkana e samburu hanno
portato un ricambio di sangue e, in
pochi anni, gli el molo sono più che
raddoppiati.

INSEGUITI DALLA SFORTUNA
Per molto tempo gli el molo sono
stati denominati, anche nei censimenti
ufficiali, come ndorobo o dorobo,
storpiatura europea di il torobo,
poveracci: nomignolo con cui i
maasai indicavano una ventina di
gruppetti etnici, el molo compresi,
sprovvisti di armenti e costretti ad arrangiarsi
con altre attività, come caccia
e pesca. La loro vita e attività giornaliera
non potevano essere descritte
con una parola più significativa.
Probabilmente anche il termine
cuscita el molo (o ol molo) significa
la stessa cosa: «pescatori del lago».
Recenti studi etnologici, infatti, li
classificano tra i cusciti e non più nilo-
camiti, come erano ritenuti fino a
pochi anni orsono. Si tratta infatti di
un gruppo cuscita orientale che,
spinto dai somali 500 anni fa, raggiunse
l’estremo nord del Kenya e si
stabilirono lungo la sponda orientale
del lago Turkana.
Attacchi, vessazioni e persecuzioni
da parte di altre etnie circonvicine
continuarono a restringere il loro territorio,
cacciandoli sempre più a sud
e costringendoli a trovare scampo su
minuscole isole. Finché la piccola comunità
sopravvissuta, ritoò a costruire
i loro villaggetti sulla terra ferma,
di fronte alla cosiddetta «isola
delle capre» o più realisticamente «isola
del non ritorno».
Più dei feroci predatori di un
tempo, sembra che sia la natura
ad accanirsi contro gli el
molo. Tutto il territorio, dove
la precipitazione annua
non supera i 50-60 mm,
non offre che pietrame,
con pochi cespugli spinosi
e palme dum. Pur
mitigato da venti che soffiano
notte e giorno, il caldo
raggiunge e supera facilmente
i 45°. Anche per le capre
diventa ardua fatica trovare
qualcosa da brucare. E se le piogge
falliscono, allora è tragedia per gli
animali e per la gente tutta.
Da quando si è cominciato a misurare
regolarmente il livello del lago
Turkana, si è scoperto che esso scende
di 30 cm l’anno: fenomeno preoccupante
per il futuro degli el molo.

ADDIO CULTURA ANTICA
Oggi essi costituiscono una delle
più esigue etnie del Kenya. Secondo
etnologi e missionari, gli el molo puro
sangue sarebbero una quarantina;
quelli con sangue turkana e samburu
oltre 200 individui.
Mescolanza di sangue e contatti
con altre etnie hanno provocato un
processo di acculturazione, specialmente
tra i giovani, in cui è difficile
distinguere gli usi e costumi originari.
Pochi anziani conoscono la lingua
el molo; mentre la gioventù è passata
al samburu o turkana e non capisce
più neppure i canti tradizionali.
I guerrieri samburu, soprattutto,
hanno affascinato i giovani el molo,
almeno nel passato, arruolandosi
nelle loro classi di età e tingendo la
capigliatura con ocra rossa.
Da questa stessa etnia sono copiati
vestiti e abbigliamenti femminili.
Oamenti originali delle ragazze sono
costituiti da dischetti di guscio
d’uovo di struzzo, oppure da rozzi
monili di spine e pinne di pesce. A
volte si fanno collanine di conchiglie,
alle quali è legato un valore sacrale.
Unico capo di vestiario che resiste
è il selah: una specie di gonna aperta
ai fianchi, fatta di funicelle attorcigliate,
indossata da donne e ragazze
specie quando vanno a pescare.
Gli uomini, invece, seguono la moda
turkana, sia nel vestire che nell’acconciatura
dei capelli: parrucca
fatta con peli e pelle di vacca o piume
di struzzo.

CACCIA… A DIO IPPOPOTAMO
Quella degli el molo è essenzialmente
una vita di pescatori: sono abilissimi
nell’uso di arpioni, lenze e
reti o nasse, quanto coraggiosi nello
sfidare le onde del lago, a volte gigantesche,
con una zattera composta
da due tronchi di palma dum, legati
insieme da corde vegetali.
L’arpione è la loro unica arma tipica:
è fatto di un pezzo di ferro, a
cui è fissata una corda vegetale, che
permette di recuperare l’aese e tirare
la preda verso la zattera. Il lungo
manico è ricavato dalla radice di
acacia, raccolta in luoghi esenti da
tabù. D’uso comune sono le reti fatte
con fibre della solita palma dum,
come pure quelle europee, nonché
un tipo di nassa che essi chiamano
«rete dei turkana».
Naturalmente la dieta degli el molo
è basata essenzialmente sul consumo
di pesce, soprattutto pesce
persico e tilapia. Coccodrilli, tartarughe
e ippopotami procurano a volte
un apprezzatissimo cambio nel
menù. Il pesce è di solito arrostito sul
fuoco, oppure viene tagliato a strisce
ed essiccato al sole, per poi essere
rammollito in acqua e bollito in pentolini
di recupero.
Il dattero di palma e bacche di
sokotei costituiscono il secondo nutrimento,
specie per i giovani. Marginale
è il consumo di latte, fornito
dalla modesta quantità di bestiame,
allevato per scambi matrimoniali.
La carne d’ippopotamo è considerata
nutrimento di prima classe e,
quando ne sentono il bisogno, gli el
molo organizzano tutti insieme battute
di caccia in grande stile. È sempre
un’impresa pericolosa, rivestita
di senso mitico: l’ippopotamo è considerato
quasi una divinità, un dio
che dona la sua stessa vita per la buona
salute del «popolo del lago».
L’ippopotamo è al centro di una
speciale cerimonia, detta ngwere, celebrata
ogni due o tre anni a Moite,
65 km dagli usuali accampamenti. In
tale festa vengono ricordati gli antenati
con danze e canti, accompagnati
dallo sbattere di due bastoncini. Il
capo gruppo spiega le parole dei
canti, dato che pochi ormai conoscono
la lingua.
Quando viene aperta la caccia al
pachiderma, i giovanotti vengono
frustati dai vecchi, per stimolarli alla
ricerca dell’animale. Una volta localizzato,
il giovane prescelto deve
lanciarglisi contro con coraggio, se
non vuole buscarsi altre frustate.
L’uccisore dell’ippopotamo diventa
una persona tabù: per tutta la durata
della cerimonia non potrà cibarsi
della carne della vittima; in compenso
è acclamato come eroe della festa
e avrà diritto a fregiarsi di un amuleto
fatto di osso dell’animale, appeso
al lobo dell’orecchio.

VITA SOCIALE
Punti fondamentali della vita sociale
degli el molo sono la circoncisione
maschile e femminile. Quest’ultima
avviene lo stesso giorno del
matrimonio, come tra i samburu, dai
quali probabilmente hanno copiato
il rito.
Una volta, la dote, versata dallo
sposo al suocero o alla parentela della
sposa, ammontava a quattro pali
di palma dum per costruire la zattera,
un arpione da pesca e una rete di
funicelle; attualmente, da quando
sono permessi i matrimoni con
turkana o samburu, tale pagamento
consiste in qualche mucca e capra.
Alla sposa, poi, il giorno del matrimonio,
viene dato un nuovo nome
da parte del marito.
Compito dell’uomo è badare alla
pesca e al pascolo, per chi possiede
bestiame. La donna si occupa della
costruzione della capanna, cura dei
figli, provviste di acqua e quant’altro
concee la misera cucina.
La società el molo è acefala, anche
se si pratica un certo rispetto per
l’anziano, eminente per doti umane
e sacrali.
Ogni nascita è salutata da preghiere
a Wacq (Dio), nell’ambito della
famiglia, senza partecipazione del
clan. A differenza di altri popoli, gli
el molo accettano con gioia i parti gemellari.
La morte è considerata un ritorno
presso Wacq. Gli adulti vengono
sepolti fuori del villaggio, vicino
al lago, e il tumulo è ricoperto di
pietre. Poi tutto il villaggio si sposta
dal luogo dove sorgeva.

GABBRA
pace, pioggia e lunga vita

Pelle color rame, corpi longilinei
e volto dai lineamenti asciutti e
fini non lasciano dubbi: i gabbra
(*) sono uno dei tanti gruppi cusciti
della grande famiglia oromo (Etiopia),
con i quali condividono lingua
e cultura pastorale. Dai somali
hanno attinto elementi arabo-musulmani
e la predilezione per i cammelli,
che assumono rilevante importanza
economica, sociale e rituale.
Abitano a cavallo del Kenya ed Etiopia.
La zona kenyana (35.000
kmq) si estende dalla sponda orientale
del lago Turkana fino al centro abitato
di Marsabit ed è popolata da
oltre 25 mila gabbra, 36 mila cammelli,
9 mila bovini e 360 mila tra pecore
e capre.

VAI DOVE TI PORTA IL VENTO
Il territorio dei gabbra è un immenso
tavolato dove steppe e savane,
disseminate di arbusti spinosi ed
erbe secche, si alternano a deserti di
pietraie e polvere lavica, circondate
da rilievi rocciosi e ammassi morenici
di origine vulcanica, simili a enormi
palle di cannone arrugginite.
Il turista che vi si avventura nella
stagione secca non può sottrarsi all’impressione
di essere capitato in
una solitudine sconfinata, soprattutto
di fronte al deserto del Chalbi, incrostato
di sale, regno assoluto della
fata morgana. Chi invece vi arriva
durante la stagione umida (marzo-aprile
e novembre) e vede scrosciare
le piogge, lo scorrere tumultuoso di
torrenti in piena, lo spuntare rapido
dei fiori, pianura e monti ricoprirsi
di verde, può comprendere perché i
gabbra amino questa terra.
Conservatori come tutti i popoli
pastori, quella dei gabbra è l’etnia
kenyana meno toccata dall’occidentalizzazione.
Cultura e strutture sociali
sono mirabilmente adattate all’habitat,
lasciandolo intatto come è
da millenni. Lavoro e vita sono guidati
dalla natura, dai ritmi lunghi delle
stagioni, gestazioni e crescite.
I gabbra comprano dal fabbro accetta,
lancia, coltello, scalpello per lavorare
il legno; per il resto sono indipendenti
e ricavano quanto occorre
loro da ciò che offrono la natura e
il mondo animale.
Attività principale è la pastorizia,
accompagnata da un semplice artigianato
per uso domestico: sedie, recipienti,
coppe, manici, bastoni, borse,
cordami.
L’abitazione soprattutto rivela lo
spirito di adattamento dei gabbra.
Costruita con materiali vegetali e
pelli, pianta circolare di 3-4 metri di
diametro, struttura a cupola, essa è
facilmente montabile e smontabile,
per essere trasportata quando, alla ricerca
di acqua o nuovi pascoli, essi
migrano liberi e leggeri come il vento,
che corre libero e gagliardo, inebriato
dagli spazi immensi.
La terra appartiene a tutta l’etnia;
il bestiame è proprietà dei capifamiglia.
Tutti hanno diritto di accedere
ai pozzi: la priorità può essere riservata
a chi ha costruito o riparato il
pozzo; gli altri si attengono pazientemente
e rigorosamente ai tui decisi
dagli anziani. Inoltre, prima si abbeverano
le bestie, poi le persone.

ATTÀCCATI AL TRENO!
La famiglia (worra), per lo più monogamica,
è il fondamento della società
dei gabbra. Essi vivono in villaggi
(olla) di una ventina di capanne,
disposte in fila o in semicerchio,
circondate da una siepe di rami spinosi
con due entrate. Accanto alla capanna
ci sono i recinti del bestiame.
In ogni villaggio l’assemblea degli
anziani, raccolta sotto un albero, cura
gli affari di politica, amministrano
la giustizia e dirimono le questioni
comunitarie: ricerca di nuovi pascoli,
migrazioni, dispute, date di celebrazioni,
tui di abbeveramento degli
animali, epidemie, pericoli di attacchi
nemici. Nel consiglio emerge
la figura dell’«abba olla» («padre del
villaggio»), con funzioni di guida,
proporzionate alle doti personali.
Un’unità più vasta raggruppa i discendenti
da un capostipite comune
e non lontano nel tempo. I membri
del lignaggio sono tenuti ad aiutarsi
a vicenda, specie in caso di vedovanza,
razzie subite o carestie.
Il clan o sezione (gosa) è alla base
dell’organizzazione della vita. Sono
cinque: Alganna, Galbo, Gara, Odola
e Sharbanna. Il principio di discendenza
è patrilineare: ogni gabbra
sa fin da fanciullo a quale gosa appartiene
suo padre e quindi egli stesso.
Il ricordo del nome degli antenati
si spinge fino alla 10a generazione.
Ogni clan si organizza come unità
sociopolitica, in molti aspetti autonoma,
con funzioni rituali e costumi
propri, con un gruppo di anziani responsabile
dell’andamento generale
e particolari funzioni giudiziarie, per
dirimere i problemi di difficile soluzione.
Questi anziani risiedono in un
villaggio sacro, detto yaa, dove sono
custoditi gelosamente i simboli sacri
clanici: tamburo, corno e bastoncini
per l’accensione del fuoco.
Ma la struttura socio-politica più
tipica dei gabbra è la classe di età (luba),
uno dei più affascinanti modelli
socio-politici dell’Africa. In tale sistema
ogni generazione assume, via
via, compiti e funzioni dapprima privati
(farsi la propria famiglia), poi sociali,
politici e religiosi (ordinare la
cosa pubblica e celebrazione di riti),
per restringersi, infine, in un gruppo
con funzioni di consiglio e rappresentanza.
Il sistema delle classi di età tra i
gabbra può essere paragonato a un
treno in corsa, composto da 10 vagoni,
in cui viaggiano tutti i membri
dell’etnia, eccetto i ragazzi non ancora
iniziati e le ragazze nubili; in ogni
carrozza ci sono i componenti di
una stessa classe. Ogni 8 anni il treno
si ferma e tutti i passeggeri passano
dal proprio vagone a quello precedente,
lasciando libero l’ultimo,
sul quale salgono i giovani, che cominciano
così il loro cammino nella
vita sociale.
Tale fermata, o passaggio di classe,
viene celebrata con grande enfasi,
specie per gli anziani, ai quali sono
conferiti i poteri rituali, prestigio sociale
e custodia delle tradizioni. La
circoncisione dei giovani, invece, di
solito avviene nell’adolescenza senza
che l’evento sia solennizzato.

PACE E PIOGGIA
I gabbra credono in un unico Dio,
chiamato Waqa, che significa cielo e
fenomeni atmosferici. Egli è signore
della vita e della morte e sanzionatore
del male. La religione è piuttosto
ritualistica, basata sulla natura, ordinata
ai bisogni dell’uomo ed espressa
in riti, cerimonie, sacrifici, feste,
danze, canti e benedizioni.
I gabbra non conoscono altro intervento
di Dio se non quello che egli
compie nella natura e nella vita.
Le sue parole sono pioggia, stagioni,
nascita dei figli, morte, malattie, ritmo
del tempo, prosperare degli uomini
e animali.
In genere si prega per ottenere,
non per glorificare. L’uomo è il centro
di attenzione: si chiede pioggia,
pace, figli, salute. I riti si svolgono in
un’atmosfera di serenità, tanto più
che sono sempre feste sociali. Nelle
preghiere si usa il passato: per invocare
la pioggia si dice: «Qui è piovuto
»; per chiedere la pace: «Noi siamo
uomini di pace» (vedi riquadro).
Pioggia e pace sono due valori fondamentali
della società gabbra, espressione
del modo di porsi in rapporto
con la natura, con Dio e con
gli altri.
Tra i gabbra non c’è parola più ripetuta
del termine nagaya (pace) nel
senso più vasto del termine: armonia,
ordine, sereno compimento del
proprio lavoro, intesa e accordo tra
i membri del villaggio, crescita ordinata
degli animali, celebrazione regolare
di feste e riti, libertà da attacchi
nemici, malattie, carestie.
In un ambiente dove la precipitazione
non supera i 200 mm l’anno e
non è sempre puntuale, la seconda
parola più ricorrente in conversazioni
e preghiere è bokaya, pioggia, attesa
con spasmodica pazienza.
L’attesa è la logica dei gabbra. Non
si tratta di inerzia o fatalismo, ma di
semplice fiducia in Dio, poiché da
lui tutto dipende: da Waqa viene la
pioggia, dalla pioggia l’erba, dall’erba
il latte, dal latte la vita.

L’ISOLA… CHE NON C’È
Pioggia e pace, dunque. Due valori
che potrebbero far pensare alla società
gabbra come un’isola di uomini
felici. In realtà istinto di aggressività
e desiderio di trionfare sul
nemico, difficoltà ambientali, tensioni
provenienti dalla vita quotidiana
e dal contatto con altre culture
creano non pochi problemi.
Essi desiderano e invocano la pace
per la propria etnia; ma diventano
aggressivi e spietati con le tribù
vicine, fatta eccezione per i borana,
loro fratelli e di cui parlano la lingua,
e a volte per i rendille. Nemici tradizionali
sono samburu e shangilla.
L’esaltazione del valore viene espressa
in riti e canti che inneggiano
al coraggio, alla vittoria e vendetta.
L’uccidere un nemico è gloria imperitura
in seno alla società; un grosso
anello d’avorio oa il braccio dell’uccisore;
le donne esaltano il guerriero
e gli mettono al collo una delle
loro collane dicendo: «Ne hai ucciso
uno, uccidine un secondo!».
I gabbra lasciano la caccia di gazzelle
e antilopi ai wata: una classe di
uomini di origine straniera guardata
con un certo disprezzo; mentre provano
coraggio e bravura uccidendo
gli animali più pericolosi: leoni, elefanti,
rinoceronti.
Tale orgoglio viene espresso anche
nel canto:
«Leone solitario!
Hai la criniera come la chioma
di una giovane donna.
Ma quando da lontano
fai sentire la tua voce
chi non ha coraggio dice:
son morto!
Leone solitario,
mi hai irritato.
Sono sceso dalla collina
e t’ho finito».
(*) Cfr. Paolo Tablino, I gabbra del Kenya,
Emi, Bologna 1980.

BORANA
pacifici, ma non pacifisti

«Dio creò l’uomo e un elefante,
li pose in un meraviglioso
giardino; tutti
i giorni passeggiava con loro. Nel
giardino c’era un fiume d’acqua limpida;
ma l’elefante la intorbidiva e
non ascoltava né Dio né l’uomo che
gli dicevano di non farlo. Allora l’uomo
uccise l’elefante. Dio si stizzì per
tale gesto e cacciò l’uomo dal giardino.
Per questo i borana vivono nella
disperata ricerca d’acqua, seminomadi
in un semideserto».
Dal «paradiso perduto» alla dura
realtà presente: il breve mito racchiude
secoli di storia.

RITORNO ALL’INFERNO
In un tempo imprecisato, popolazioni
dell’alto Egitto migrarono nelle
regioni montagnose dell’Etiopia
meridionale. Non era il paradiso, ma
ce n’era quanto bastava per fermarsi
stabilmente, dedicandosi all’agricoltura, ma senza dimenticare l’allevamento
dei bovini. Così nacque l’etnia
cuscita (o camitica) degli oromo.
A partire dal secolo XVI, la crescita
demografica e la diminuzione di terre
produttive causarono frizioni e lotte,
anche sanguinose. Molti oromo si
staccarono dal ceppo originario e ripresero
a migrare, dando origine a
circa 200 gruppi di differente consistenza
numerica, gelosi della propria
autonomia, pur conservando lingua
e tradizioni culturali.
Alcuni si spinsero verso est, ma furono
ricacciati dai somali. Costretti
a migrare verso sud, occuparono le
regioni ai piedi dell’acrocoro etiopico
e continuarono a coniugare agricoltura
e allevamento.
Altri, poi chiamatisi borana, si
sparsero nel semideserto, a cavallo
tra Kenya ed Etiopia: ambiente più
simile all’inferno che al paradiso dei
miti delle origini. Nelle immense distese
di sabbia e pietraie sono tornati
alle antiche abitudini del nomadismo,
con un drastico cambiamento
economico e culturale: all’allevamento
dei bovini hanno aggiunto
quello dei cammelli, una volta disprezzati,
insieme ai loro pastori.
Oggi i borana contano 4-5 milioni
di persone, in maggioranza stanziate
in Etiopia; 90 mila circa vivono in
Kenya, concentrati nei distretti di
Marsabit, Moyale e Isiolo, con altre
comunità sparse fino al fiume Tana e
al distretto di Garissa.
La sopravvivenza nel semideserto
non è facile: a volte la pioggia si fa attendere
per anni; negli ultimi decenni
solo sei volte è caduta in abbondanza.
Ogni anno essi sono costretti
a spostare le loro mandrie di capre,
pecore, bovini e cammelli da un luogo
all’altro, fino a 100 km di distanza,
in cerca di pozzi e nuovi pascoli.
Varie carestie hanno reso i borana
sempre più dipendenti dagli aiuti umanitari,
una situazione aborrita da
questo popolo orgogliosamente abituato
alla propria autosufficienza.

«PACE BORANA»
Il termine borana significa «amico,
persona gentile». Il peggiore rimprovero
a una persona che si comporta
male è: «Non sei borana!».
La coesione etnica è il massimo ideale, che va sotto il nome di nagya
borana: pace borana. Di fatto essi sono
un popolo pacifico: la pace all’interno
dell’etnia è un valore sacrosanto
e inviolabile. Ma anche con le
altre popolazioni del Kenya essi mantengono
rapporti cordiali. Ma in passato
si sono verificati scontri sanguinosi
per difendere i pascoli ed episodi
di reciproche razzie di bestiame.
La gestione delle risorse ambientali
è decisa dagli anziani. Quando i
pascoli e le risorse idriche si esauriscono,
una delegazione si reca nei
villaggi che hanno ancora l’acqua per
chiedere il permesso di accedere. In
quell’occasione vengono concordati
il numero di mandrie e il periodo
nel quale è consentito l’accesso.
I borana hanno un grande senso
comunitario: se un membro della comunità
è in difficoltà, tutti gli altri
sentono il dovere di aiutarlo. Per
questo vige tra loro un’assistenza reciproca
su basi quotidiane. Ne è esempio
l’approvvigionamento d’acqua,
elemento vitale per la gente e gli
animali: un lavoro che a volte richiede
decine di persone.
Il rifoimento avviene ogni mattina
dai cosiddetti «pozzi che cantano
». Scavati in un’arida valle, essi penetrano
verticalmente nel terreno fino
a 4-5 metri. Alcuni uomini
scendono nel fondo del pozzo e, immersi
nel fango fino al torace, raccolgono
l’acqua melmosa in secchi
fatti di pelle di giraffa e li passano agli
uomini in bilico su speroni di roccia
lungo le pareti. Raccolta d’acqua
e passamano di recipienti vuoti e pieni
avvengono con tutto il tempismo
e la destrezza di un gioco di prestigio
e con movimenti sincronici ritmati
dal canto.

VIVA LA DEMOCRAZIA
I borana sono parenti stretti dei
gabbra, tanto da assomigliarsi anche
fisicamente: corporatura longilinea,
pelle bruno-rossiccia e volto
asciutto. Le donne vestono un telo
di cotone avvolto attorno al corpo e
un velo sul capo; dopo il matrimonio
si acconciano i capelli con numerose
treccine. Oamenti in alluminio,
ambra e rame, completano
l’abbigliamento in forma di collane,
bracciali e cavigliere. Gli uomini indossano
larghi pantaloni, un telo
sulle spalle e un turbante, tutti in
cotone bianco.
Nella costruzione dell’abitazione
grabbra e borana si somigliano: capanna
a cupola e pianta cilindrica;
con la differenza che i borana coprono
il tetto con paglia e fango; i
gabbra con pelli di animali. Le due
etnie parlano pure la stessa lingua.
Più case formano un villaggio, che
si sposta in accordo con le esigenze
di pascolo. Alle donne spetta il compito
di smontare e ricostruire la casa
nei vari spostamenti.
La società borana è strutturata in
clan patrilineari ed esogamici e in
classi di età (gada); ma il loro sistema
è più complesso e… democratico di
quello gabbra.
Non il singolo né certi uomini soltanto
curano la cosa pubblica, ma
tutti, a loro tempo, esercitano le loro
responsabilità in gradi e classi, dai
«fanciulli sacri», ritenuti portatori di
benedizioni, a quello degli «anziani
sacri», passando per i gradi dei ragazzi
tenuti in casa, i giovani che vanno
a pascolare lontano, i giovani
guerrieri (cusa), i guerrieri veri e propri
(raba), i dirigenti e gli anziani.
Il passaggio da una classe all’altra
avviene ogni otto anni: due di esse
sono festeggiate in modo solenne:
quelli che segnano l’ingresso al sesto
grado d’età, caratterizzato dall’esercizio
del potere, verso i 40 anni, e
l’ultimo grado, l’entrata nella classe
degli anziani sacri. Per l’occasione
tutti gli interessati si riuniscono in
una data località, sempre la stessa;
costruiscono un grande villaggio semicircolare,
attorno a un recinto, in
cui il bestiame viene temporaneamente
tenuto in comune.
I borana hanno una struttura organizzativa
molto attiva: nonostante
le distanze, le informazioni relative
alle leggi dei borana e alle decisioni
prese dai dirigenti, anziani e abba gada
(punto di riferimento per tutti i
borana) vengono trasmesse da una
fitta rete di comunicazioni verbali,
che mantiene in contatto tra loro i
villaggi, anche quelli oltre il confine.

AUGURI E… FIGLI MASCHI
Nella classe dei raba (guerrieri) si
entra verso i 30 anni e dura una dozzina
d’anni: loro compito è quello
della guerra. Per otto anni non possono
sposarsi né avere figli, per essere
liberi nei loro spostamenti. Qualora
ci fossero, vengono abbandonati.
Passati gli 8 anni possono avere
figli, purché siano maschi; ma vengono
allevati fuori casa, finché il padre
non esca dal grado di raba, e sono
affidati ai wata, un gruppo di persone
che vive tra gabbra e borana con
usi e costumi particolari. Se nascono
femmine, vengono abbandonate.
L’infanticidio è ancora oggi praticato,
anche se tale costume sta cambiando:
il sentimento naturale sta
prevalendo sul costume e la prole,
anziché soppressa viene affidata a
persone di differente etnia.
Negli ultimi anni del raba, il guerriero
deve pensare a formarsi una famiglia:
compie numerose visite alla
famiglia della ragazza prescelta, recando
doni in tabacco, caffè o bestiame.
Prima di ottenere il consenso,
egli viene volutamente fatto attendere
per lungo tempo.
Ottenuto l’ok, viene celebrato il fidanzamento;
dopo breve tempo,
sborsati quattro bovini alla famiglia
di lei, seguono le nozze, che si svolgono
in parte nel villaggio della sposa,
in parte in quello dello sposo. A
celebrazioni concluse, la convivenza
dei coniugi ha inizio nel villaggio del
marito. Questi è tenuto a evitare la
suocera.
I bo

BENEDETTO BELLESI