I miei alunni serbi raccontano…

Io sono una mediatrice interculturale. Il mediatore è una nuova figura professionale, nata con la formazione del nuovo stato europeo e con l’immigrazione. I mediatori interculturali hanno un ruolo nobile: mediare fra diverse culture «costrette» a convivere in uno stato, con l’obiettivo di creare una maggiore comprensione, accettazione e tolleranza verso le diversità etniche, culturali e religiose.

Provengo da uno stato che non esiste più, la Jugoslavia. Sono testimone che le differenze tra le genti possono essere fonte di benessere economico e culturale, come lo furono nel mio paese negli anni Sessanta; ma possono anche diventare uno strumento per chi vuole fare la guerra, come è successo prima nel 1941, poi nel 1991.

Oggi, la «mia» Jugoslavia, multietnica, multiculturale, socialista e progressista, non allineata ed indipendente, si è frantumata in 5 piccoli stati, che si stanno inginocchiando davanti alla Nuova Europa, ricca, potente e prepotente, per diventae parte. Il mio è uno dei molti paesi dai quali sono emigrate migliaia di persone, famiglie intere, che sono scappate dalla guerra o dalla miseria, cercando fortuna in Europa…
Io mi occupo dei bambini di quegli immigrati. Sono i «miei alunni», che lasciai molti anni fa sui banchi delle scuole belgradesi, dove insegnavo il serbo-crornato. I loro genitori, che erano cresciuti in pace e in una società benestante, per dare ai propri figli pace e benessere hanno dovuto privare loro e se stessi della propria patria.

Io mi occupo di quei bambini quando vengono iscritti nella scuola italiana senza sapere una parola d’italiano. Sono per loro e le loro famiglie un punto di riferimento; cerco di essere una persona che ascolta e comprende tutte le loro difficoltà, i problemi, le aspettative e i progetti. Facciamo insieme una parte di strada, quella dei primi mesi nella nuova scuola. Ho conosciuto molti bambini serbi: della Croazia, della Bosnia, della Serbia. Ultimamente mi occupo anche degli alunni di madrelingua macedone.

Molti di questi bambini e ragazzi hanno vissuto la guerra e mi hanno raccontato le loro esperienze. Ho chiesto ad alcuni di scrivere le loro esperienze per «Missioni Consolata». Questi sono i loro racconti.

Snezana Petrovic




E da allora tutto cambiò

La guerra civile era iniziata nel 1991, ma la data che cambiò per sempre la vita
dei popoli della ex Jugoslavia è il 24 marzo 1999, giorno in cui cominciarono i bombardamenti della Nato.

Nelle lettere di questi bambini, costretti a lasciare villaggi, case ed affetti, c’è di tutto: paura e coraggio, poesia e realismo, ma soprattutto rifiuto assoluto della guerra. Parole di «bambini» che molti «grandi» dovrebbero leggere e ripetere ad alta voce.

Milan C`osic`,
Scuola media «D. Chiesa»
di Rovereto, classe II c:
«Ho visto una grande paura negli occhi della gente»

«Quella primavera del ’99 vivevo nel piccolo villaggio di Bioska. Il mio villaggio si trova vicino all’aeroporto militare di Ponikve. La mattina del 24 marzo, noi bambini andavamo a scuola allegri e per strada vedevamo i contadini che aravano i campi, preparando la terra per la semina. Nessuno immaginava cosa sarebbe accaduto.

Quella sera caddero le prime bombe della Nato. La sera prima avevano bombardato il nostro aeroporto. Prima si udivano le sirene e poi cominciava a tremare la terra per le detonazioni. La gente usciva dalle case e correva nei rifugi. Anche noi siamo andati nel rifugio. Ho visto una grande paura negli occhi della gente. Alcune donne piangevano. Anche la mia mamma piangeva. Io e il mio fratello più piccolo, sotto la coperta pregavamo Dio che gli americani smettessero di lanciare le bombe. Poi ci siamo addormentati.
Di mattina arrivavano delle notizie, sempre brutte: un ragazzo della mia scuola era stato ferito dalle schegge, anche una donna era stata ferita all’occhio dalle stesse schegge, una casa del villaggio era stata demolita, nel cortile di un’altra casa era caduta una bomba ma non era esplosa.

Una notte mio padre mi portò fuori dal rifugio. Mi fece vedere la nostra contraerea. Ho visto i nostri aerei, guidati dai nostri coraggiosi piloti, che cacciavano via gli aerei con le bombe. Da quella sera non ebbi più paura».

Nikola Kostic`,
Scuola «L. Negrelli»
di Rovereto, classe III d:
«Da quella sera
non ebbi più paura»

«Io avevo 10 anni e mio fratello 4. Mi ricordo quel giorno come fosse ieri. Giocavo a calcio con i miei compagni, quando abbiamo udito le sirene. Noi non sapevamo perché suonavano, ma abbiamo cominciato a correre verso casa. Quando siamo arrivati, la mamma non c’era. Era al lavoro. Allora io, il mio fratellino, mio zio e mia zia, andammo in cantina. Era tutto buio, perché non c’era energia elettrica. Si sentivano gli aerei sopra la testa e all’improvviso si udì un fragore, come di un tuono. In quel momento mi spaventai moltissimo.
All’inizio di giorno potevamo uscire a giocare, ma dopo cominciarono a bombardare anche nelle ore di luce e non potemmo più uscire. Alcuni bambini uscivano lo stesso, ma la mia mamma non ci lasciava, aveva troppa paura.

Il mio papà era in Italia, noi eravamo soli con la mamma: se ci fosse stato anche lui con noi, io avrei avuto meno paura. Adesso sono felice perché siamo qui in Italia tutti insieme. Vorrei che non si ripetesse mai più quello che abbiamo vissuto quando papà non era con noi».

Dajana Dupkarova,
Scuola media di Ala, classe II:
«La guerra è un gioco
pericoloso dei grandi»

«Io ho portato molti ricordi belli e felici dal mio paese e pochi brutti. Tra questi, l’avvenimento più brutto sono stati i bombardamenti della mia piccola Serbia. Quel periodo della mia vita fu pieno di momenti di paura, tristezza e dolore.

Mi ricordo il 24 marzo del 1999: a scuola, l’ultima ora, c’era ginnastica e la maestra ci portò nel cortile. I ragazzi giocavano a calcio e noi bambine incominciammo a parlare dei vicini bombardamenti in Serbia. Nel bel mezzo del nostro discorso, pieno di confidenze e preoccupazioni per quello che avevamo sentito dagli adulti, si udirono le sirene. Per un attimo pensammo che fosse un errore, ma le sirene aumentarono d’intensità.

«La guerra? Da noi? Le bombe? Cosa faccio adesso?», pensavo terrorizzata. I ragazzi smisero di giocare e ci radunammo intorno alla nostra maestra. Lei cercava di rassicurarci, dicendo che ci avrebbe accompagnato verso il cancello, perché dovevamo tutti andare a casa. Davanti alla scuola c’erano alcuni genitori. Noi di solito andavamo a scuola e tornavamo sempre da soli, anche i bambini piccoli, della prima elementare, ma quel giorno c’erano molti genitori davanti alla scuola, venuti a prendere i figli.

C’era anche mia mamma. Era terrorizzata, mi disse che era cominciata la guerra e che dovevamo andare nel rifugio. Il rifugio era una grande cantina piena di gente di tutte le età. I bebé e i bambini piccoli piangevano e i loro genitori cercavano invano di tranquillizzarli. Dopo circa un’ora, sentimmo nuovamente le sirene che ci avvisavano che il pericolo era passato. Quella prima sera, la mia città, Cacak, fu risparmiata.

Il giorno dopo, verso sera, di nuovo le sirene, il rifugio, la paura. Quella notte sentimmo un bornato che fece tremare la terra e frantumare i vetri delle finestre. Avevano colpito una fabbrica. I miei genitori ascoltavano sempre le notizie alla radio e alla Tv e mi dicevano che presto sarebbe finita. Io non vedevo l’ora. In quel periodo era il mio unico desiderio: non sentire più le sirene, non andare nel rifugio, non sentire le esplosioni che facevano raggelare il sangue dalla paura. Volevo andare liberamente a scuola (che era sospesa per la guerra), giocare con le mie amiche senza paura che ci interrompessero le sirene. Quando finalmente finì, dopo tre mesi circa, tutti eravamo felici.
La guerra è un gioco pericoloso dei grandi che hanno il potere, e che usano questo potere per togliere la gioia ai bambini di crescere nella libertà e nella pace. Nessun bambino al mondo dovrebbe provare quello che ho provato io in quei tre mesi mentre bombardavano il mio paese».

Dragan C`osic`,
Scuola elementare
di Noriglio, classe V:
«Ai signori delle bombe»

«Il 24 marzo 1999 era una giornata come tante altre: andai a scuola e durante l’ora di matematica imparai le sottrazioni; durante l’ora di serbo la maestra c’insegnò le nuove lettere; durante il grande intervallo giocai a pallone con i miei compagni. Toai a casa e non trovai né la mamma né il papà: erano andati dai nonni matei, che abitavano lontano da noi, a Smederevo. Dovevano restare da loro 10 giorni circa per aiutarli in qualche lavoro. Io e mio fratello eravamo rimasti a casa con i nonni patei. Quella sera bombardarono per la prima volta il mio paese e da allora tutto cambiò. La nostra casa si trovava vicino all’aeroporto, e la prima bomba cadde proprio là. Io ero confuso. Non sapevo cosa pensare, vidi un’enorme preoccupazione e paura negli occhi del nonno, anche se lui cercava di nascondere lo sguardo.

Il giorno dopo io e mio fratello andammo a scuola. Tutte le notizie erano sugli attacchi aerei e tutti i giorni si sentivano le sirene. Il loro suono assordante avvisava la gente di andare nei rifugi. Dopo un po’ di tempo, arrivava il rumore degli aerei che, come uno sciame di vespe, passavano sopra il nostro paese scaricando dall’alto le bombe.

Si udivano le esplosioni di giorno e di notte. Ma io in quei momenti non pensavo a noi. Pensavo alla mamma e al papà che erano lontani. Se avessi potuto almeno sentirli al telefono, ma le comunicazioni telefoniche erano interrotte. Io ero spaventato per loro. La paura che potesse succedere qualcosa a loro era più grande della paura delle bombe. Volevo che fossero accanto a me, che potessimo essere insieme, qualsiasi cosa accadesse. Alla fine i miei genitori riuscirono ad arrivare a casa. Non so come, perché non avevano voluto raccontarmelo. Provai un gran sollievo. I miei genitori erano con me e sapevo che mi avrebbero protetto.

Passavano i giorni, ma nessuno dei bambini usciva a giocare. Non andavamo a scuola e i contadini non lavoravano più nei campi. Non c’era neanche la Tv: mi spiegarono che l’avevano bombardata. Eravamo spesso senza luce e non sapevamo quanto sarebbe durato. Nel rifugio la mamma cercava di cantare o di raccontare storie allegre. Voleva distrarci, ma, quando tremava tutto per le esplosioni, il mio cuore cominciava a battere più forte. Di giorno la gente raccontava che cosa avevano visto e i loro racconti mi facevano impressione. Io so che i contadini del mio villaggio non avevano mai fatto del male ai signori che buttavano le bombe. Quelli venivano da lontano e io non capivo perché lo facevano.

Dopo più di due mesi una sirena annunciò che i bombardamenti erano finiti. Per la prima volta ero felice di sentire il suono della sirena. Finalmente potevo di nuovo correre all’aperto e giocare con i miei compagni. Anche se ero piccolo (avevo solo 7 anni), avevo capito quanto è importante essere liberi. Ho capito quanto ho bisogno dei miei genitori. Ho capito che cosa è veramente la paura. Vorrei che nessun bambino provasse quella paura. È difficile dimenticare. Ancora oggi, quando sento il rumore, di un aereo aspetto l’esplosione, ma passerà…

Un giorno non ci saranno più guerre e la gente vivrà insieme in pace, indipendentemente dal colore della pelle e dalla nazionalità. Allora il canto allegro dei bambini felici sarà l’inno di un mondo libero dalle guerre».

Ivana Vasiljevic,
18 anni, Rovereto:
«Ora gli aerei sono
nei cieli di altri paesi»

«Avevo 14 anni. Frequentavo l’ottava elementare (terza media). Tutti i giornali dicevano che la Nato minacciava di bombardare il nostro paese, ma nessuno ci credeva.
Quel martedì sera gli aerei sono partiti dall’Italia verso la Serbia. Siamo rimasti senza energia elettrica, tutta la mia città era nel buio. Abbiamo passato la notte in cantina, al buio, ascoltando dei rumori che arrivavano da fuori, con l’ansia che la bomba potesse cadere sopra la nostra casa. Ma le mete della Nato erano le fabbriche e i ponti.

Dopo alcune notti passate in cantina, la mia mamma ed io decidemmo di dormire in casa, nei nostri letti. Ci addormentammo. Ci svegliò un fortissimo scoppio, la mia camera fu illuminata come da un lampo. Sono saltata dal letto, e non sapendo dove andare, mi sono nascosta sotto il letto e ho cominciato a piangere. Arrivata la mattina sentii il telegiornale e vidi che quella notte era passata senza vittime, solo con la paura. Nelle altre città, invece, molti erano stati feriti dalle schegge.

All’inizio bombardavano solo di notte, e di giorno si poteva vivere quasi normalmente. Ma dopo bombardavano a tutte le ore, anche a Pasqua.
Quando tutto finì, provai un’immensa gioia, passeggiando la sera per le strade di Cacak con le mie amiche. Guardavamo il cielo sereno, i tramonti, le stelle, sapendo che non sarebbero più venuti gli aerei con le bombe.

Adesso quegli aerei si sono spostati sopra i cieli di altri paesi, e seminano lo stesso terrore e le stesse paure che avevo provato io, agli altri bambini. Perché?».

Ivana Tisot,
15 anni di Rovereto:
«Mamma, chi è che spara?»

«Io sono nata a Stivor, un piccolo paesino di trentini emigrati in Bosnia, vicino a Banja Luka, nel lontano 1888. Io, i miei genitori, e i miei nonni, matei e patei, siamo nati in Bosnia e amiamo quel paese.
Se non ci fosse stata la guerra, la nostra piccola comunità trentina sarebbe rimasta per sempre in Bosnia e adesso non sarei qui in Trentino.

Vivevo con i miei genitori, con le mie sorelle più grandi e i miei nonni in una fattoria, e avevamo molti animali, che mi rendevano felice; tutti tranne i tacchini di cui avevo una folle paura, perché mi correvano dietro. Ma una notte d’estate sentii una paura più grande di quella dei tacchini: io e la mia mamma eravamo nell’aia buia, rischiarata di tanto in tanto da moltissimi lampi che cadevano tutt’intorno alla valle illuminando il cielo tetro. La campana della chiesa suonava senza sosta. Insieme a noi c’erano la nonna, le mie sorelle e una zia.

Ricordo che parlavano, commentavano tra loro, e io non capivo cosa si dicevano, ma sentivo che erano spaventate. Allora mi spaventai anch’io e cominciai a piangere. La mamma cercò di calmarmi e io mi addormentai fra le sue braccia. Dopo un po’ mi svegliarono i frequenti spari che si udivano dal bosco.
«Mamma, chi è che spara?», le chiesi e lei mi guardò con occhi pieni d’apprensione. «Ci sono i cacciatori nel bosco», mi disse.

Sentivo che qualcosa stava cambiando: vendemmo le mucche e un po’ alla volta scomparirono anche gli animali. Anche il cane e la gatta scapparono. Il papà non c’era, era andato in Italia (adesso so che era andato lì per evitare di essere richiamato e mandato in guerra).

Un giorno, mia madre, le mie sorelle ed io dovevamo prendere una corriera, che doveva portarci in Italia, da papà. I nonni decisero di rimanere. Avevamo molta fretta e io dimenticai il mio orsacchiotto a casa. Me ne accorsi, mentre la corriera stava arrivando; cominciai a piangere così disperatamente, che la mamma decise di tornare a prendere il mio orsacchiotto, rischiando di perdere la corriera.

Il pullman era pieno di donne e bambini. Il viaggio fu lungo e scomodo, ma finalmente arrivammo in Italia.
Io cominciai a frequentare l’asilo, ma non subito potei giocare con gli altri bambini, perché non sapevo l’italiano: io capivo un dialetto che nel Trentino non si parlava più, e il serbo. All’inizio rimanevo in disparte. Imparai l’italiano velocemente e presto cominciai a correggere i miei genitori nel parlare.

Adesso, dopo 11 anni che sono in Italia, ho dimenticato quasi completamente la mia vecchia lingua e sono diventata una vera trentina, anche se continuo ad amare la mia vecchia patria. In Bosnia ho ancora una nonna e alcuni zii. La maggior parte dei miei parenti sono in Italia, a Strigno. Io vado tutte le estati a trovare mia nonna e i pochi parenti rimasti a Stivor, ma non toerò mai più a viverci. La vita di molti trentini è continuata là dove si era fermata nel 1888».

Snezana Petrovic




Vivere nella società multietnica

PROFUGHI NEL PROPRIO PAESE

Il mio lavoro nelle scuole trentine mi ha fatto tornare anche in quelle serbe, sempre come mediatrice interculturale. In Serbia non ci sono i mediatori, non ci sono neanche bambini stranieri, ma ho fatto la mediatrice interculturale fra i bambini serbi e quelli italiani che così hanno iniziato a scriversi.

A Belgrado mi aspettavano con impazienza e, ogni volta che andavo a visitarli, mi accoglievano con gioia. In accordo con il loro insegnante di serbo avevamo un’ora per i nostri amici italiani, per le nostre lettere, per la nostra conoscenza dell’Italia. Leggevamo ad alta voce tutte le lettere e poi loro facevano le domande, pieni di curiosità. Mi chiedevano della scuola italiana, del mio lavoro, dei bambini stranieri. Le scuole a Belgrado sono degli enormi palazzoni costruiti negli anni Cinquanta e da allora non sono cambiati molto. Le aule sono grandi, luminose, pulite, ma con poco materiale scolastico, piene di bambini chiassosi, ma molto silenziosi e disciplinati durante le lezioni.

Una volta chiesi loro: «Ci sono tra voi bambini venuti da lontano come nella mia città, Rovereto?». Si alzarono alcune mani. Erano bambini profughi, venuti dalla Croazia, dalla Bosnia o dal Kosovo. Anche loro erano «diversi» fra i loro compagni, anche se di stessa nazionalità. Erano i bambini portati via da una casa, da una scuola, dai compagni, con una esperienza dolorosa che nella scuola dovevano affrontare con le loro maestre. Durante i bombardamenti i bambini hanno perso quasi 3 mesi di lezioni.

Alcune maestre hanno in classe circa 35 alunni; molte volte non arriva neppure lo stipendio. I genitori di molti bambini sono in difficoltà economiche, ma la scuola va avanti perché le risorse umane riescono a superare molti ostacoli.

IL NUOVO «MURO DI BERLINO»

I ragazzi e i bambini del mio paese non possono viaggiare, perché per venire in Europa è necessario il visto. Per ottenere il visto servono molto tempo, fatica, soldi, e bisogna soddisfare innumerevoli ed umilianti richieste delle autorità degli stati europei.

Il «Muro di Berlino» non è stato abbattuto: è stato solo spostato. Per scavalcare quel muro, ho avviato una corrispondenza fra i ragazzi serbi e i ragazzi italiani delle scuole elementari, medie e superiori. Scambiando i pensieri, i desideri, i progetti per il futuro, facendo conoscere gli uni agli altri il proprio paese, non dai libri di testo e atlanti, ma come loro lo vedono, come ci vivono e come lo vorrebbero. Sono diventati amici che aspettano con impazienza la risposta dell’amico dall’altra parte del «muro» e quella amicizia tra loro spero riuscirà ad abbattere il muro dell’ignoranza, della diffidenza e del pregiudizio.
Quando è cominciata la guerra in Iraq, i ragazzi italiani avevano chiesto agli amici serbi che cosa si prova mentre ti cadono le bombe addosso, e loro hanno risposto. Abbiamo poi elaborato le testimonianze dei ragazzi serbi nelle varie classi delle scuole elementari, medie, e superiori, insieme agli insegnanti, con l’obiettivo di contribuire ad un’educazione alla pace. Mi ha colpito in modo particolare una frase di un bambino della scuola elementare: «Io so che le bombe che cadevano al mio paese partivano dall’Italia, ma so che i bambini italiani non c’entrano niente. Io voglio diventare tuo amico e aspetto con impazienza la tua risposta».
Queste lettere, dei bambini e ragazzi serbi e quelle degli italiani, per me sono un bene prezioso, perché mi hanno svelato un mondo meraviglioso dell’infanzia, che dà una speranza a questo mondo di cui tutti parliamo male. Mi danno speranza il loro ottimismo, la capacità di sdrammatizzare, di sperare, di perdonare.

LE RADICI DELL’UOMO

Tutti i ragazzi stranieri (in particolare, quelli venuti dal mio paese) sono «i miei alunni», perché tutto il mio lavoro è rivolto a loro: per integrarsi, ma soprattutto per non perdersi, per non perdere l’identità nazionale, la madrelingua, la religione (ortodossa, di solito).
La società multietnica avrà un sapore se gli esseri umani restano quello che sono, come Dio li ha fatti, tutti diversi fra di loro, e non come un miscuglio variopinto di individui, privi dei valori e delle tradizioni, che nonni e genitori si sono tramandati per secoli, ignoranti della propria storia. Senza radici, insomma.

Né la pianta né l’uomo possono durare a lungo senza una radice solida. Uno degli obiettivi di lavoro di un mediatore interculturale è rafforzare le radici, aiutando in questo modo i ragazzi (ma anche gli adulti) a trovare una sana integrazione.

Snezana Petrovic




AFRICA CENTRALE – Pigmei I «piccoli» signori

Ritoo agli albori della nostra umanità

E LA LUNA STAVA
A GUARDARE

Nel sud del Camerun vivono, isolati nella foresta,
i pigmei baka, ma per quanto ancora?
La deforestazione e la prepotente invadenza
dei bantu sta mettendo fine a questo meraviglioso mondo, distruggendo per sempre la cultura
e la storia del più antico popolo dell’Africa.

Gennaio-febbraio 2003.

…I canti cessano e il suono dei tamburi va sempre più affievolendosi fino ad arrestarsi del tutto. Sento dei passi che si allontanano, qualche rumore sordo ed infine cade il silenzio, la festa d’iniziazione è finita. Edjenghi, lo spirito, è ritornato nella foresta.
Mi guardo intorno, tutti si sono ritirati a dormire nelle minuscole capanne, illuminate dai bagliori delle braci. Un senso di pace e di tranquillità mi pervade, anche i lugubri rumori che echeggiano ogni tanto nella foresta, che cinge il minuscolo villaggio, mi sono diventati familiari.

Mi siedo a guardare quel piccolo lembo di cielo stellato, che spunta dalle alte cime degli alberi, e mi ritorna in mente la leggenda: «I padri dei nostri padri vivevano al bordo della grande acqua, dove gli animali erano numerosi. Poi un giorno venne il popolo nero, con lance e scudi di ippopotamo, e dissero che la terra era loro…

I nostri padri dissero: No! Non è vero! La battaglia incominciò e molti morirono.
Allora i nostri padri dissero: fuggiamo!
Le donne con i bambini partirono e i guerrieri li seguirono proteggendoli. I padri dei nostri padri dissero: abiteremo la foresta!».

C osì da più di cinquemila anni i pigmei vivono nella tenebrosa foresta, cacciando, pescando, raccogliendo quanto offre in un connubio armonico di perfetto equilibrio fra le risorse naturali e il solo fabbisogno giornaliero, senza accumuli e sprechi e, devoti al loro mondo-foresta, la ringraziano con danze e canti.
Ma il pericolo che li aveva minacciati migliaia di anni fa si è materializzato nuovamente ancora sotto la forma del «popolo nero», a cui si è aggiunta quella del «popolo bianco»; e questa volta non è rivolto solo alla loro esistenza, ma anche a quella della loro amata foresta.

Giro lo sguardo nel piccolo villaggio e provo un senso di tristezza. Perché deve finire tutto ciò? Perché le cose semplici devono soccombere? Perché non è possibile vivere senza distruggere?
Il pensiero ritorna al primo impatto con la foresta, quando con i miei compagni di viaggio decidiamo di andare a conoscere i baka, i pigmei che vivono nella parte meridionale del Camerun, sotto la riserva di Dija, verso il confine con il Congo.
Mi ricordo che, prima di entrare nella foresta, avevo alzato istintivamente la testa verso le cime degli alberi, e mi ero sentito piccolo, incredibilmente piccolo. I primi passi che mossi all’interno mi diedero la sensazione di oltrepassare un sipario che si apriva lentamente davanti a me, dove, a fatica, riuscivo a mettere a fuoco le cose che mi si paravano davanti, frastornato dalle mille gradazioni di verdi che sembravano velarle.
Provai la netta sensazione di avventurarmi verso l’ignoto e l’istinto mi fece girare di scatto, per fissare almeno il punto da dove ero entrato e avere quindi un riferimento certo; ma tutto era già scomparso: come Alice quando aveva attraversato lo specchio, anch’io ero entrato in un’altra dimensione. Un mondo umido, apparentemente inospitale, dove corsi d’acqua formano acquitrini, paludi, e danno vita a una selva sovrastata da giganteschi alberi, dalle cui cime filtra mollemente la luce del sole o scompare del tutto, lasciando uno stato di isolamento e di solitudine, che permea da tempo immemorabile ogni cosa.

Più mi addentravo e più provavo un senso di oppressione per la pesantezza della natura che mi circondava, oltre all’umidità dell’aria che mi riempiva i polmoni a ogni respiro.

Superato il primo impatto, quando la calma riprese il sopravvento e incominciai a mettere a fuoco le cose, a rilassarmi, a muovermi con più disinvoltura, allora mi resi conto di essere entrato in un mondo affascinante che mi riportava inevitabilmente all’enigmatica materializzazione dell’«altro», che è più o meno in noi: la suggestione del «come eravamo».

Il desiderio di conoscere i baka, «i signori della foresta», ci fa superare ogni ostacolo, ogni fatica, e la stanchezza svanisce davanti all’emozione del primo incontro, quando in una radura naturale, finalmente scorgiamo quattro enkulu, le tipiche casette a forma di igloo, e i loro ospitali e sorpresi abitanti.

Di una mitezza proverbiale, inclini al sorriso, curiosi ma riservati, ci accolgono permettendoci di allestire il campo fra le loro casette, di seguirli nelle loro attività, di condividere con loro la giornata.

I baka, vivono una vita semplice, atavica: la si vede subito dalle loro piccole abitazioni, fatte di rami e ricoperte di foglie impermeabili, che solo all’apparenza sembrano fragili, ma che resistono bene alle forti piogge cui sono sottoposte quasi quotidianamente. All’interno l’arredamento è minimale: un letto di canne, qualche stuoia, pochissime suppellettili, qualche pentola per cucinare ed il fuoco sempre acceso.
L’attività quotidiana degli uomini è la caccia. Lungo piste, a noi invisibili, percorrono la foresta, armati di balestre o lance, alla ricerca delle trappole disseminate, dove ignare finiscono prede come: gazzelle o piccoli caivori che, dopo essere stati affumicati, vengono tagliati a pezzi e racchiusi in larghe foglie.

Durante il loro giro di perlustrazione sono sempre attenti a ciò che li circonda, pronti ad approfittare di ogni occasione. Abilissimi a imitare i suoni da richiamo degli animali, sfruttano questa tecnica per avvicinarli e quindi ucciderli con le loro frecce avvelenate.
Mentre gli uomini si dedicano alla caccia o ad allestire le trappole, le donne, oltre ad accudire ai bambini, si recano nella foresta, con la gerla sulle spalle, a raccogliere tutto quello che trovano di commestibile, conoscendo alla perfezione tutte le proprietà delle piante e come utilizzarle.

Al villaggio le si vede ritornare cariche di radici, tuberi o banane verdi da cuocere e poi, sedute sotto ripari di foglie o davanti alla propria casa, a intrecciare stuoie o preparare la cena, usando grossi machete o pestelli.
La vita sociale, pur essendoci un capo villaggio, è governata da un sistema altamente democratico che si basa principalmente sulla meritocrazia. Non minacciano, non puniscono, non giudicano, perché ogni disputa viene ricomposta partendo dal presupposto che è meglio ristabilire l’armonia per il bene di tutti.

Abituati a vivere sull’essenziale e spostandosi frequentemente nella foresta, rifuggono dai soliti canoni estetici di vanità; unica eccezione è la limatura dei denti che appuntiscono, oltre a qualche piccolo tatuaggio o scarificazione sul volto o, come in alcune donne anziane, un piccolo foro sul labbro superiore segno di appartenenza a un particolare clan. E poi ci sono i canti, i balli, i festeggiamenti per la raccolta, per le iniziazioni.
Q uando i tamburi presero a suonare, fu come un segnale: i primi ad arrivare furono i bambini, poi le donne; gli uomini avevano già preso posto e preparavano gli iniziati.

Si disposero tutti in cerchio e incominciarono a cantare e danzare; il ritmo si fece sempre più frenetico e i canti più alti; poi calarono improvvisamente e restarono solo i tamburi e, da uno spiraglio della foresta, si materializzò Edjenghi lo spirito.

Una grande agitazione pervase i presenti che ripresero i canti e i balli, con gli occhi puntati sulla enorme figura che piroettava nel centro dello spiazzo, alzandosi e abbassandosi ritmicamente.
Mi allontanai e mi sedetti a fianco della mia tenda a osservarli, grato di avermi invitato alla loro festa, ma conscio che solo gli iniziati e la luna potevano partecipare.

Da Omero… al saccheggio della foresta

SCOMPARE UN PEZZO DI UMANITÀ

Piccoli: perché?

A ntropologhi e studiosi di genetica, già nel secolo scorso, cercarono di capire perché i pigmei erano «piccoli». La maggior parte era convinta che fossero privi dell’ormone della crescita. Il fatto si rivelò errato: l’ormone c’è; ciò che è carente, specie durante il periodo della pubertà, è un’altra sostanza biochimica contrassegnata con la sigla IGF-1 (Insuline-like Growth-Factor), peraltro oggetto ancora di studio.
La mescolanza della razza pigmea con quella dei bantu (generalmente sono gli uomini bantu che sposano le donne pigmee e non viceversa) danno vita a figli più alti, creando, se si può dire, una nuova classificazione etnica denominata pigmoide.

Da quanto tempo esistono?

Sono ritenuti fra i primi abitanti dell’Africa. La loro comparsa documentata risale al 3° millennio a.C., in un antico papiro ai tempi del faraone Neferkere, che ne volle uno a corte come ballerino. Coincidenza o no, il dio egizio della danza, Bes, è raffigurato come un nano.
Anche Omero, nel terzo canto dell’Iliade, li descrive nella battaglia con le gru, chiamandoli Pygmaios (alti un cubito). Nelle Metamorfosi di Ovidio, viene descritta la gelosia di Giunone per la regina dei pigmei, che verrà trasformata in gru.
Sempre nella mitologia, anche Ercole, durante le sette famose fatiche, si imbatte sulla costa mediterranea in un esercito di omuncoli. Descrizioni contrastanti e a volte fantasiose sulla esistenza, furono portate da Erodoto, Aristotele, Plinio. Nell’era cristiana sant’Agostino, nella Città di Dio, ammette, se pur vagamente, una loro esistenza.
Dal X secolo fino al XVII secolo si cade nell’oscurantismo della ricerca scientifica, per dare luogo a quella delle dissertazioni accademiche, che arrivano addirittura a equipararli a scimmie o a esseri deformi, che popolano il mondo sconosciuto; tipico il trattato di Giacinto Gimmi intitolato De hominibus et de animalibus fabulosis.
Solo verso la fine del 1800, con le prime esplorazioni nel grande continente africano, ci fu l’incontro «sul campo» con questa sorprendente etnia, uno dei primi fu il naturalista George August Schweinfurth.

Minaccia Continua

R elegati quasi nella preistoria, a volte messa in discussione perfino la loro esistenza, non riconosciuta una loro cultura, vissuti in secoli di isolamento, tutto questo scompare di fronte agli ultimi 50 anni di contatti con il resto dell’umanità.
Tali contatti iniziarono dapprima con i «grandi neri» bantu, sotto forma di baratto: scambiavano selvaggina con sale, tabacco, granaglie e altri beni. Quindi sono caduti nella spirale della dipendenza, foendo manodopera di tipo feudale agli agricoltori neri, in cambio di inutili vestiti e di alcolici, dando via a un inizio di sedentarizzazione non loro congenito.
Inoltre, l’invadenza e vicinanza sempre più soffocanti dei bantu incide profondamente sulla vita spirituale e materiale, tradizioni e libertà di questo piccolo popolo della foresta.
Ma c’è anche l’incontro con il «popolo bianco», interessato a soddisfare i bisogni di pregiato legname per costruire mobili o pavimenti da calpestare. E così incomincia, o meglio, è già in atto la deforestazione, quindi la distruzione del mondo dove vivono, emarginandoli anche fisicamente.

Dio nell’arcobaleno
T utta l’espressione culturale dei pigmei è permeata da una profonda spiritualità, che si manifesta con la danza, i canti e i riti. Essi riconoscono l’esistenza di un Dio creatore di tutte le cose: Komba presso i baka, Nzambe presso i bakola/bayeli, Kmvum per i bambuti. Generalmente Dio si manifesta sotto la forma dell’arcobaleno.
Parallelamente esistono una moltitudine di piccole divinità o spiriti della foresta, ai quali essi si rivolgono per tutte le loro imprese: caccia, pesca, raccolta del miele, danza, musica, riti.

Le aree di distribuzione
O ggi i pigmei vivono nell’immensa foresta tropicale, più precisamente in otto stati dell’Africa: Burundi, Camerun, Congo, Gabon, Guinea Equatoriale, Repubblica Centroafricana, Repubblica Democratica del Congo, Rwanda.
Tale dislocazione contribuisce alla differenziazione di vari aspetti culturali, per cui essi si distinguono in diverse etnie:
– bambuti nel Congo, a loro volta suddivisi a seconda della lingua parlata in aka, afe, awa;
– bongo nel Gabon;
– baka, detti anche babinga, nel Camerun.

Oggi in Camerun si distinguono tre grandi gruppi di pigmei:
– i baka, circa 40 mila, occupano il sud e sud-est del paese;
– bakola o bayeli vivono nella parte sud-ovest e sono stimati in circa 3.000 individui;
– medzam, appena 1.500, sono nella piana di Tikar, nel centro del Camerun.
Tristemente possiamo dire che un nostro stadio di calcio li contiene tutti.

Bruno Bocchi




A Fatou manca la ricetta

Storie di malati e malattie nel Sud del mondo
In un ospedale africano:
«Per favore, dottore, niente anestesia locale.
Io ho i mezzi: mi faccia un’anestesia d’importazione».
(Serge Latouche, La fine del sogno occidentale)

Presentazione
SALUTE?
Dovrebbe essere un diritto universalmente riconosciuto. Non è così.
Nei paesi del Sud si muore di Aids, tubercolosi, malaria,
ma anche di morbillo e altre patologie normalmente curabili.
Intanto, in quelli del Nord…

Nei paesi occidentali il progressivo smantellamento
dei sistemi sanitari pubblici sta producendo
un sistema all’americana: soltanto chi può
permetterselo avrà le cure migliori. Sarah Delaney,
una giornalista statunitense, ha raccontato (1) la vicenda
di un amico riemerso da un coma profondo:
«Adesso, dopo circa un mese di cure dagli esiti incoraggianti,
il suo tempo è scaduto: la sua assicurazione
(privata) ha deciso che 30 giorni potevano bastare
e dall’ospedale l’hanno rispedito a casa. La sua
famiglia non può permettersi di pagare le costose cure
di cui avrebbe bisogno ancora per un anno. (…)
Negli Usa, l’assistenza sanitaria può essere eccellente,
ma solo per chi se la può permettere».
Se al Nord il problema è soprattutto di qualità, al Sud
è ben più grave. Nella quasi totalità dei paesi del Sud,
soprattutto in quelli dell’Africa (ma anche in America
Latina e in Asia), un servizio di sanità pubblica universale
e gratuito non è mai esistito. «Sono stanco di
vedere – ha denunciato James Orbinski di Medici
senza frontiere (2) – donne, bambini e uomini morire,
mentre so che un trattamento efficace esiste e potrebbe
essere alla loro portata. Sono stanco di constatare
come il profitto abbia sempre la meglio sul
diritto alla salute. Non ne posso più della logica per
cui chi non può pagare, muore».
«Mancava – si legge nel libro di Andrea Moiraghi (3)
– solo un’ulteriore tragedia che, puntualmente, è arrivata:
l’Aids. La sindrome da immunodeficienza acquisita
(…) è la nuova malattia dei poveri e sta causando
in Africa la più devastante epidemia che l’umanità
ricordi: il numero dei contagiati è tale che
intere generazioni di africani rischiano di scomparire.
Ma questo in Africa, non nei paesi occidentali, dove
l’infezione è relativamente sotto controllo, grazie
a costosissimi farmaci, inavvicinabili alla stragrande
maggioranza degli africani; tant’è che all’equatore è
nato questo slogan: “Il Nord del mondo produce i farmaci
e il Sud produce Aids”».
Si stima che ogni giorno 15.000 persone contraggano
l’Aids. La Sars, la polmonite atipica individuata
da Carlo Urbani, è a 6.500 casi mondiali in 3 mesi.
Il vaccino non c’è ancora, ma è già guerra (mondiale)
per i brevetti. Avvenne così anche negli anni
Ottanta per il virus Hiv, ma allora la guerra fu circoscritta
a due contendenti: l’équipe dello statunitense
Robert Gallo e l’Istituto Pasteur di Parigi. «L’argomentazione
– scrive Paul Benkimoun (4) – è chiara:
senza brevetti, niente profitti; senza profitti,
niente ricerca e sviluppo. Se non si colloca su un piano
etico, il ragionamento non fa una grinza, anche
se sarebbe necessario dimostrare che le aziende farmaceutiche
compiono effettivamente sforzi considerevoli
per coprire i costi di ricerca e sviluppo. In
realtà, dai bilanci pubblicati dai grandi laboratori
emerge che questi spendono una quantità di denaro
nettamente superiore per il marketing, la pubblicità
e le spese di gestione che per la ricerca e lo sviluppo,
mentre i profitti ammontano a cifre impressionanti».
Chissà cosa avrebbe detto e scritto Carlo Urbani sulla
corsa al deposito dei diritti sulle scoperte che riguardano
la Sars…
Per concludere, mi si conceda un piccolo ricordo
personale. Nel lontano 1988, con Carlo Urbani,
sua moglie Giuliana e altri amici facemmo un viaggio
in India del Nord e Nepal. Al ritorno in Italia Carlo
fu subito ricoverato per febbre tifoide. Già allora
egli aveva la volontà di conoscere luoghi, culture e
soprattutto persone ben al di là del consueto. Fino
al punto di prendersi una malattia tipica del luogo.
In questo dossier ritroverete alcuni vecchi articoli di
Carlo, pubblicati nell’ambito di «COME STA FATOU?»,
la rubrica che MC gli aveva affidato. Ora, in ricordo
dell’amico e collaboratore prematuramente scomparso,
noi abbiamo inventato il «PREMIO GIORNALISTICO
DOTTOR CARLO URBANI» che, al contrario di altri
concorsi, invece di distribuire riconoscimenti in denaro,
manderà i vincitori… a esercitare la loro professione
di medici.
Proprio là, dove l’«assenza di salute» è prassi quotidiana.
PAOLO MOIOLA

(1) Su Internazionale del 27 settembre 2002.
(2) Riportato in «Accesso ai farmaci», dossier di Msf – Italia
(si veda in bibliografia).
(3) Andrea Moiraghi, Pole pole, 2003 (in bibliografia). Segnaliamo
che lo scorso 26 maggio l’Unione europea ha
approvato una nuova regolamentazione che dovrebbe permettere
alle aziende farmaceutiche di vendere nei paesi
poveri i medicinali contro Aids, malaria e tubercolosi a
prezzi inferiori.
(4) Paul Benkimoun, Morti senza ricetta (in bibliografia).

Dove povertà e malattia
si generano a vicenda

di Carlo Urbani
(gennaio 1999)

Nel corso degli ultimi anni
si è assistito ad un
miglioramento globale della
salute delle popolazioni.
Tuttavia resta ancora
elevatissimo il numero di
individui, soprattutto nei
paesi della fascia
intertropicale, che non hanno
accesso alle cure sanitarie, e
lo scarto tra poveri e meno
poveri si è ulteriormente
approfondito.
Secondo l’Organizzazione
Mondiale della Sanità (OMS),
2 miliardi di individui vivono
nella povertà, e di questi 700
milioni vivono in situazioni di
estrema precarietà. Per queste
persone l’accesso a servizi
sanitari e a cure mediche non
è assolutamente assicurato,
quando addirittura
impossibile. La povertà genera
malattie, attraverso la
mancanza di igiene, strutture
sanitarie e adeguati
trattamenti, educazione. Per
questo in
molti paesi
l’attesa di
vita alla
nascita non supera i
50 anni, e sono malnutrizione
e tutta una serie di malattie
tropicali a compiere la
decimazione soprattutto nei
primi anni di vita.
Nel 1977 i governi e l’OMS
nell’Assemblea generale
hanno fissato l’obiettivo di
garantire la salute per tutti i
popoli del mondo entro l’anno
2000. Purtroppo tale
traguardo sembra ancora ben
lontano, e addirittura in
alcune aree si è assistito ad
un deterioramento della
situazione sanitaria e della
qualità della vita.
Per chi vive in un paese
sviluppato è in genere
difficile immaginare la
situazione nella quale la gran
parte dell’umanità vive nei
paesi in via di sviluppo. E di
molte delle
malattie più
diffuse al mondo
si sa quasi nulla,
spesso anche il nome
suona del tutto insignificante,
come avitaminosi,
schistosomiasi, dracunculosi,
dengue, e così via. Si
impiegano nel mondo risorse
enormi per la ricerca sul
cancro, o le cardiopatie, o le
malattie vascolari, ma non
tutti sanno che non è per
queste malattie che la
maggioranza dell’umanità
soffre e muore.
In questa rubrica, attraverso
brevi resoconti di giornate
di lavoro in alcuni paesi
tropicali, ci racconteremo
qualcosa che riguarda la
salute, o meglio l’assenza di
salute, in questo mondo dei
più sfortunati, dove povertà e
malattia si generano a
vicenda.

Pcome parassiti
I PARASSITI DEL MEKONG
Troppi bambini cambogiani hanno la «pancia grossa» o addirittura la
cirrosi epatica. Basterebbero 180 lire contro la schistosomiasi, ma…
Viaggio in un paese stremato dalla guerra civile e dalla povertà.
di Carlo Urbani
(gennaio 1999)

L’ATR72 della «Royal Air
Cambodge» sfiora con il
carrello le cime di alcuni
alberi. Dopo aver posato rumorosamente
le ruote sulla corta pista in
terra battuta, le turbine frenano
con un ruggito la corsa dell’aereo.
Un’ora abbondante di volo ci ha
portati all’aeroporto di Stung
Treng, nel nord-est della CAMBOGIA,
dove il Sesan e il Sekong si versano
nel Mekong, a circa 40 chilometri
dalla frontiera con il Laos.
Pochi minuti prima, seduto vicino
al finestrino, osservavo il paesaggio
sotto di me e, nei varchi tra
i cumuli di condensa tipici di quell’ora,
intorno a mezzogiorno, scorrevano
lentamente risaie, foreste e
fiumi. Il corso del Mekong, visto
dall’alto, lascia immaginare l’imponenza
di questo fiume, che disegna
ampie curve nel verde intenso
della vegetazione. A stento si possono
vedere i piccoli villaggi sulle
sue sponde, giusto una linea di
quadratini di un altro colore, tra
cui è magari identificabile il tetto
variopinto di una pagoda. Ed è difficile
immaginare in questo stupendo
quadro quante incredibili
atrocità siano state consumate, e
quanta sofferenza sia nascosta sotto
quegli alberi. Il verde intenso
della foresta a tratti scompare, per
lasciare il posto ad ampie macchie
grigiastre, testimonianza della
deforestazione selvaggia che incombe
nella regione.
Ora, sbarcati nell’aeroporto di
Stung Treng, ci prepariamo a risalire
un tratto del Sekong, per andare
a visitare gli abitanti di un gruppo
di villaggi più a monte. Poco più
tardi stiamo già scivolando sulle acque
blu e perfettamente lisce del
fiume, tra due pareti di impenetrabile
verde. Con me viaggiano due
medici e due microscopiste cambogiani.
Trasportiamo farmaci e
materiale di laboratorio.
Sulla piroga sventola la bandiera
di Médecins Sans Frontières
(MSF), che dal 1993 cerca di
far fronte in questa regione al grave
problema della schistosomiasi.
Oggi stiamo andando a verificare
la presenza della malattia in una zona
molto remota, ed eventualmente
distribuire il farmaco che trasportavamo,
il praziquantel.
La schistosomiasi è uno dei problemi
sanitari più importanti dei
paesi della fascia intertropicale, e la
forma diffusa lungo il fiume
Mekong è una delle più gravi. In
Cambogia le dimensioni del problema
sono state comprese solo di
recente, grazie all’intervento di
MSF che ne ha identificato l’area
più colpita e ha messo in opera delle
misure di controllo. In molti villaggi
lungo il Mekong i segni della
malattia sono drammaticamente
evidenti.
Gran parte dei bambini soffrono
di dolori addominali cronici, emettono
feci con sangue e muco, il loro
addome si gonfia progressivamente
per l’ingrossamento di milza
e fegato, ed a partire dagli anni
dell’adolescenza sviluppano i primi
sintomi della cirrosi epatica, la
stessa malattia che colpisce gli alcolisti.
Si forma acqua nella pancia
(ascite), si gonfiano le vene sulla superficie
dell’addome e si formano
varici nell’esofago. Negli stadi
avanzati della malattia il soggetto è
estremamente emaciato, sofferente,
con una enorme pancia, gambe
magre ed edematose, fino a che la
rottura delle varici esofagee e la
conseguente emorragia ne causa il
decesso. Coloro che sono infettati
da molti parassiti hanno anche un
arresto della crescita e dello sviluppo
sessuale, così che l’età apparente
trae spesso in inganno e un
ventenne può essere facilmente
preso per un bambino di 11-12 anni.
La schistosomiasi è causata da
un piccolo verme che vive nelle vene
intorno alla parete dell’ultimo
tratto dell’intestino. Se le uova prodotte
con le feci arrivano nelle acque
del fiume, si schiudono e liberano
un piccolo organismo che,
nuotando, viene attirato particolarmente
da un certo mollusco, una
piccola conchiglia che vive nelle
fessure delle rocce semisommerse
nel fiume. All’interno della conchiglia
il parassita matura e forma una
piccola larva. Questa lascia la conchiglia
e si libera nelle acque del
fiume. Se entra in contatto con la
pelle umana, è in grado di perforarla
ed attraversarla. Una volta penetrato
il parassita si lascia trasportare
dal sangue e, dopo un
complicato percorso, raggiunge la
sede definitiva del suo sviluppo,
appunto le vene intorno all’intestino,
per diventare adulto.
Il problema principale è causato
da quelle uova che, prodotte dalla
femmina, non riescono a mescolarsi
alle feci come previsto, ma vengono
portate via dalla corrente sanguigna
nelle piccole vene dove i
vermi vivono. Queste uova finiscono
intrappolate nel fegato, causandone
l’ingrossamento, la fibrosi, e
poi la cirrosi. Questo fa ingrossare
la milza e fa aumentare la pressione
del sangue nella vena porta.
Questa «ipertensione» causa l’ascite
e la formazione di varici esofagee.
Più sono numerosi i vermi adulti,
più grave è la malattia. Ne deriva
che solo i soggetti continuamente
esposti a nuove infezioni sviluppano
gravi sintomi. Essere esposti all’infezione
significa avere molti
contatti con l’acqua del fiume, nelle
zone dove ci sono quelle conchiglie
e dove nelle acque finiscono le
feci umane. In zone disabitate la
trasmissione non può esistere. E
chi ha più contatti con il fiume? Basta
arrivare in un villaggio per capirlo.
La nostra piroga quel pomeriggio
è arrivata a Sdau, un
villaggio di un migliaio di abitanti,
lungo il Sekong. È quasi il tramonto:
i colori del fiume e del cielo
sono stupendi. Spento il motore
dell’imbarcazione per arrivare dolcemente
sulla riva, piombiamo in
un piacevole silenzio, nel quale è facile
sentire le grida dei bambini che
giocano poco lontano, tutti immersi
nell’acqua del fiume… vicino le
rocce dalle quali si tuffano. Ecco il
primo bersaglio della malattia: i
bambini.
Il loro contatto con l’acqua del
fiume è importante. È forse l’unico
gioco disponibile e offre un piacevole
ristoro nell’afa soffocante. E
poi correre nei campi non è, forse,
così raccomandabile… in un paese
con una delle più alte concentrazioni
al mondo di mine antiuomo!
Poco più vicine alla riva le sorelle
più grandi, sedute sulle rocce semiaffioranti,
a lavare i poveri panni
o intente a sciacquare gli umili
utensili domestici: un cesto di
bambù, un mestolo, o qualche ciotola.
E sulla riva qualche bambino
più piccolo, che fa la cacca nel fiume.
Una scena normale lungo un
fiume tropicale, ma è questo il ritratto
della trasmissione della schistosomiasi.
Bambini infetti fanno
la cacca, dove probabilmente ci sono
delle uova di schistosoma. Poco
lontano le rocce ospitano la conchiglia
che fa diventare infettante la
larva, e nella stessa zona altri che
nuotano, ed il cerchio si chiude. Incuriositi
dal nostro arrivo i bambini
escono all’asciutto, mostrando i
loro enormi ventri, costellati di tante
piccole cicatrici. Ci accompagnano
silenziosi lungo il sentirnero
che sale al villaggio.
Girando nelle case, palafitte di legno
o di bambù per i più poveri, incontriamo
altri bambini, quelli che
non hanno abbastanza forza per
andare a schiamazzare nel fiume.
Sono seduti sulla scala che sale al
piano rialzato, con lo sguardo più
triste degli altri, e la pancia ancora
più grossa. Alcuni adulti sanno che
quei bambini sono malati di qualcosa
che ha a che vedere con il fiume,
ma sanno anche che per loro,
gli abitanti di Sdau, come per quelli
di tantissimi altri villaggi in Cambogia,
non ci sono cure. L’ospedale
più vicino è a due ore di piroga,
e poi bisogna pagare le medicine, e
quassù soldi non ce ne sono. Non è
facile avvicinare le persone, tutti
sembrano diffidenti, ed anche un
po’ spaventati. La strategia del terrore
fa ancora sentire il suo alito in
Cambogia. In questi villaggi è facile
morire anche per molto meno:
basta una diarrea o una polmonite,
quando poi non si accanisca su
questa gente una epidemia di febbre
emorragica o di malaria. Le
donne partoriscono nelle loro capanne
senza alcuna assistenza sanitaria
ed in precarie condizioni igieniche.
Ci dicono che a volte i bambini
muoiono vomitando sangue
(la rottura delle varici esofagee).
Nonostante l’evidenza decidiamo
di esaminare alcuni campioni di feci
per confermare la presenza della
malattia.
Intanto do un’occhiata al resto
del villaggio, mentre penso a
cosa servirebbe per restituire la
salute a queste persone. Sono colpito
dalla loro povertà. L’unico bene
che custodiscono in casa è una
piccola riserva di riso e qualche
utensile. Nella «passeggiata» mi accompagna
Huong, silenzioso ragazzino
con una fionda appesa al
collo, un viso pallido e affilato, ed
un enorme ventre che lo obbliga a
camminare con la schiena curvata
indietro, come una donna alla fine
della gravidanza. Mi osserva curioso
e, dal modo di sorridere, sembra
evidente che si aspetta qualcosa da
me.
Passiamo la notte nel villaggio,
rassicurati dagli abitanti che ci mostrano
i loro AK47, con i quali ci difenderebbero
dai khmer rossi. Al
mattino cominciamo a distribuire il
farmaco. Verrebbe voglia di curare
anche tutte le polmoniti, congiuntiviti,
anemie e quanto altro scorre
sotto i nostri occhi. Purtroppo,
quando le risorse sono carenti, occorre
stabilire delle priorità e la
schistosomiasi, per la grave malattia
e la mortalità che ne derivano,
qui a Sdau rappresenta una priorità.
Distribuiamo la dose di praziquantel
ad ogni abitante. In queste
situazioni costa meno trattare tutti
che esaminare tutti e trattare solo le
persone infette. È una delle regole
in simili programmi di sanità pubblica
nei paesi in via di sviluppo.
Huong vuole essere il primo
a ricevere la medicina, e rimane
vicino a noi ad assistere
al trattamento degli altri del
villaggio. Si fa anche fotografare orgoglioso
del suo ventre enorme. La
medicina tradizionale di queste regioni
tratta il dolore addominale facendo
delle piccole bruciature con
dei tizzoni ardenti sulla pelle. Per
questo le pance di chi ha la schistosomiasi
qui sono piene di cicatrici:
sono le bruciature che i bambini
crescendo accumulano, ogni
volta che si lamentano dei loro dolori.
Purtroppo chi è già gravemente
malato non beneficia del
trattamento: la cirrosi del fegato è
una malattia irreversibile.
Trattae i sintomi per allungare
la sopravvivenza è possibile, ma tali
trattamenti sono completamente
fuori della portata di chi vive in villaggi
come Sdau. Dopo due giorni
lasciamo il villaggio, con almeno un
problema in meno, ma allontanandoci
lo immaginiamo sprofondare
di nuovo nell’isolamento e nella
mancanza totale di cure mediche.
In zone come queste la schistosomiasi
interessa anche l’80% dei
bambini, e il trattamento costa 12
centesimi di dollaro: circa 180 lire.
Ma moltiplicare le 180 lire per le decine
di migliaia che aspettano di essere
trattati fa diventare il costo insostenibile
per il paese, e poi la mancanza
di infrastrutture ne rende
difficile la distribuzione, e negli
ospedali non c’è personale formato
per controllare la distribuzione del
farmaco e l’evoluzione della malattia,
e ancora in molte aree l’accesso
è difficile a causa dell’insicurezza:
khmer rossi, banditi, anche gli infermieri
cambogiani hanno paura
ad andare in certe zone. Così un
problema in apparenza semplice diventa
in realtà difficile in paesi (e
non sono pochi) come la Cambogia.
Quando, sei mesi dopo, torniamo
a Sdau, Huong è già
morto, ma in tanti altri l’infezione
è scomparsa. L’infermiere
che ci assisteva sa ora riconoscere
agevolmente i malati attraverso i
sintomi. E la gente è un po’ più fiduciosa.
A piccoli passi il programma sta
dando i suoi frutti. Dopo tre anni
di attività, in molti villaggi le «pance
grosse» stanno scomparendo,
ma ne restano altri in attesa. Di un
po’ di salute e pace. E magari di
una piroga di Msf.

B come bambini
SE I BAMBINI
URINANO ROSSO

Può un’opera idrica aggravare un problema sanitario?
Sì, purtroppo…
Viaggio tra i piccoli malati di uno sconosciuto paese africano.
di Carlo Urbani
(marzo 1999)

Da Nouakchott a Rosso –
Scendiamo verso sud sulla
strada asfaltata che unisce
Nouakchott, capitale della MAURITANIA,
alla frontiera con il Senegal,
segnata dal fiume omonimo. Duecento
chilometri di asfalto, a tratti
completamente inghiottito da alte
dune che si muovono secondo il
vento, sommergendo palmeti e pali
del telegrafo.
Dopo un viaggio di 4 ore si arriva
a Rosso, capoluogo della regione
e posto di frontiera. Qui la sabbia
del deserto, solo punteggiata da
una timida vegetazione di arbusti e
palmeti, incontra le acque del fiume
Senegal. Di Rosso colpisce la
povertà e la desolazione di una
sconfinata bidonville, dove migliaia
di persone vivono (o meglio sopravvivono)
in piccoli ripari di teli
di plastica o sotto latte. In questa
zona negli ultimi 3 anni i medici del
locale ospedale riferiscono un netto
incremento del numero di bambini
che urinano sangue.
Urinare sangue in Africa è sinonimo
di schistosomiasi urinaria,
una varietà dell’infezione dovuta
ad una specie del parassita che vive
nelle vene intorno alla vescica,
causandone alterazioni che portano,
tra l’altro, alla presenza di sangue
nelle urine.
In questa zona fino a 2-3 anni fa
la schistosomiasi urinaria, pur già
presente, non sembrava costituire
un grosso problema. Ora in alcuni
villaggi lungo il fiume pressoché
tutti i bambini urinano rosso, e da
alcuni mesi alcuni hanno anche
sangue e muco nelle feci, un segno
di schistosomiasi intestinale, finora
sconosciuta nella regione.
Sull’altra sponda del fiume, in
Senegal, sta accadendo la stessa cosa
e la situazione sanitaria costituisce
ormai una seria emergenza. Cosa
sta succedendo? Da circa 8 anni
è entrata in funzione una grossa diga
poco più a valle di Rosso. Le
modificazioni chimico-fisiche delle
acque del fiume hanno notevolmente
favorito la diffusione dell’infezione,
agevolando lo sviluppo
della conchiglia necessaria al parassita
per maturare.
Questa conchiglia vive attaccata
ad alcune piante acquatiche, che
proliferano semi-sommerse sulle
sponde dei corsi di acque dolci in
ambiente tropicale. Prima della diga,
quando il livello del fiume, seguendo
l’alternarsi delle stagioni,
variava notevolmente tra stagione
secca e piogge, queste piante non
avevano vita facile e, in genere, seccavano
nei mesi in cui il livello dell’acqua
del fiume scendeva.
Ora, invece, si è creato un nuovo
variegato e diffuso ambiente favorevole
al loro sviluppo. Infatti il fiume,
alzandosi di livello, ha portato
l’acqua nei canali o piccoli laghetti
di ogni villaggio, formando piscine
naturali usate per lavare, lavarsi e
soprattutto giocare. Ora il livello è
costante per 12 mesi l’anno e la vegetazione
cresce rigogliosa. Così in
queste acque la trasmissione del
parassita è ormai altissima e l’infezione
si è diffusa raggiungendo livelli
impressionanti.
Andiamo a visitare una scuola
a Rosso. Spiegata agli insegnanti
la ragione della visita,
questi ci accompagnano a incontrare
una classe. La scena è
comune alle migliaia di scuole dei
paesi più poveri dell’Africa subsahariana.
I bambini sono ordinatamente
seduti in terra, perfettamente allineati,
con una piccola lavagna sulle
gambe e un gessetto per scrivere.
La parete di fronte, tinteggiata di
nero, è piena di scritte e disegni
esplicativi. Chiediamo ai bambini
chi di loro ha visto la propria pipì
di colore rosso. Una buona metà,
dopo le prime esitazioni, alza la mano
con un timido sorriso. Il maestro,
non soddisfatto, insiste, dicendo
che la pipì rossa non costituisce
motivo di vergogna. Così un
altro gruppetto si unisce ai primi.
Restiamo a lavorare nella scuola
per tutta la giornata. Dopo aver
esaminato con una tecnica di filtrazione
ed esame al microscopio
campioni di urine di tutti i bambini,
confermiamo l’allarmante dato.
In un villaggio poco lontano da
Rosso, Boghè, troviamo una zona
dove tutti i bambini hanno ematuria
(sangue nelle urine) e, poiché ce
l’hanno tutti, nessuno si ritiene malato.
Considerando che i bambini
iniziano ad infettarsi quando passano
parte del loro tempo a giocare
nell’acqua, quindi verso i 5-6 anni,
e che la malattia impiega qualche
anno prima di determinare
sintomi importanti, è intorno alla
pubertà che i bambini cominciano
a sviluppare una ematuria visibile
ad occhio nudo. Questo fa sì che
molti, nelle popolazioni residenti
nelle aree endemiche, ritengano
che le urine rosse siano un segno
della avvenuta o incipiente maturità
sessuale, un po’ l’equivalente
delle mestruazioni nelle femmine!
Ma purtroppo non si tratta solo di
una questione di colore.
Anzitutto la perdita di sangue
contribuisce all’anemia. In queste
regioni la malnutrizione, la malaria,
ed alcuni vermi intestinali costituiscono
già importanti fattori di rischio
per l’anemia, e il sanguinamento
dovuto alla schistosomiasi
non fa che aggravare il quadro clinico.
Ricordo di aver visto bambini
seduti in un’aula scolastica (che
qui significa sul pavimento) risultare
avere 4 gr. di emoglobina per
decilitro di sangue (i valori normali sono tra 12 e 14, e l’OMS giudica
anemico un bambino quando il
livello scende ad 11). Un’anemia
così grave costituisce una seria malattia,
mettendo in pericolo la vita
stessa.
Ci spostiamo a Tonguene,
un piccolo villaggio
che vive prevalentemente
della
coltivazione della
menta, richiestissima
al mercato di
Rosso per la preparazione
del tipico
thè mauro, e di ortaggi,
prevalentemente
pomodori, melanzane, patate
e okra.
Il villaggio è costituito da un
grappolo di casupole addossate su
un dolce pendio ad anfiteatro. Nella
piccola valle centrale, un tempo
terreno sabbioso dove pascolavano
le capre, ora si è formato un laghetto,
in connessione con il
bacino del fiume aumentato
di livello per la costruzione
della diga.
Questo marigot è considerato
dagli abitanti
una vera miniera: con
l’acqua trasportata nei
catini sul capo delle
donne si innaffiano gli
orti, si cucina e tutti i bambini passano
interminabili ore a sguazzare
felici nelle sue acque.
La sera al tramonto, sotto due
fromagers che si protendono sulle
sue acque, le donne si raggruppano
per lavare le vesti, i bambini più
piccoli e loro stesse. Tutto sembra
andare per il verso giusto, sennonché
da alcuni mesi sono sempre più
numerose le donne di Tonguene
che si recano a piedi all’ospedale di
Rosso, per portare i loro figli stanchi,
inappetenti, che lamentano talvolta
bruciore a urinare. La diagnosi
è facile: è sufficiente guardare
il colore delle loro urine.
Così capita che un anziano del
villaggio guardi con preoccupazione
quel laghetto e dica che «tutto
questo progresso» lo riempie di
preoccupazioni!
Come porre rimedio al problema
della schistosomiasi in
Mauritania? Occorre formare
il personale sanitario per metterlo
in condizione di conoscere la
malattia e saperla trattare, ed educare
la popolazione riguardo ai sintomi
e alle possibilità di guarigione,
qualora sia assunto un determinato
farmaco. Nelle scuole si deve insegnare
ai bambini a non urinare
nel fiume: meglio in brousse, nella
savana, se non ci sono latrine. E poi
altre strategie, ormai sperimentate
e certamente efficaci nel controllare,
se non l’infezione, almeno la
malattia.
Il problema è sempre lo stesso,
un ritornello noioso che interrompe
spesso i progetti di sviluppo a
queste latitudini: la mancanza di
danaro.
In Mauritania problemi come la
schistosomiasi sembrano insormontabili,
e solo il supporto di un
donatore esterno (in genere, organizzazioni
inteazionali o un governo
o una Ong) può permettee
la gestione. Proprio in queste
settimane nella regione di Rosso,
compreso il villaggio di Tonguene,
grazie al supporto di una fondazione
tedesca e dell’OMS, è iniziata la
distribuzione di praziquantel, un
farmaco efficacissimo nel curare
l’infezione. Ma per molti altri villaggi
in altre regioni o paesi le urine
resteranno rosse a tempo indeterminato.

F come farmaci
PRIMA IL PROFITTO,
POI LA SALUTE

Le multinazionali farmaceutiche investono nei settori dove maggiore
è la possibilità di guadagnare, indipendentemente dai bisogni.
I brevetti sono ostacoli insormontabili. Insomma, i farmaci sono
trattati alla stregua di un qualsiasi altro prodotto.
Questa politica comporta gravi conseguenze per una larga fetta
dell’umanità.
Carlo Urbani

(febbraio 2000)

Un pomeriggio di ottobre del
1999, nella Cambogia nordorientale.
Stiamo percorrendo
una pista che costeggia il fiume
Mekong, risalendone il corso.
Andiamo a verificare lo svolgimento
di un programma di controllo
delle malattie parassitarie, gestito
dal ministero della sanità con
il nostro supporto tecnico. Il programma
sembra andar bene, e siamo
orgogliosi di aver abbattuto i
tassi di mortalità per queste malattie
nella regione.
Decidiamo di concederci una sosta
per sgranchirci un po’ e bere
dell’acqua. Ci fermiamo in un grazioso
villaggio, affacciato su una
bella insenatura del grandioso fiume.
L’aria è pulita e profumata, e la
luce dell’imminente tramonto colora
di violetto le acque del fiume, incoiciato
dal verde della esplosiva
vegetazione. Mi allontano un po’
dalla Toyota, e mi fermo sotto una
delle casupole, tutte uguali, tutte
estremamente precarie: un pavimento
di bambù su quattro alti pali
(le case sono così, anche per proteggersi
dalle inondazioni), quattro
pareti di foglie di palma intrecciate
e un tetto, anch’esso di foglie. Una
bambina sorridente sta appoggiata
alla ripida scala che conduce all’interno,
e in alto sua madre – così credo
– è seduta intenta a eliminare le
scorie da una manciata di riso. Mi
sorride. Così mi tolgo le scarpe e
salgo.
Seduta sul pavimento, la donna
ha sulle gambe un fagotto, che si
muove ritmicamente. Lei sposta un
lembo degli stracci e scopre un bimbetto
(10-12 mesi) ansimante, viso
affilato, occhi spalancati e una colata
di muco dal naso. Chiamo l’interprete,
per avere notizie di quel
piccolo visibilmente sofferente. È
così, mi dicono, da 3-4 giorni; ha anche
smesso di succhiare il seno. Lo
tocco: è bollente. Avvicino un orecchio
al suo dorso: polmonite. Non
si lamenta mentre lo esamino, continua
solo ad ansimare rumorosamente.
Apro la borsa per vedere cosa abbiamo
di utile in quella condizione:
trovo delle compresse di ampicillina
e di paracetamolo. Dovrebbero
andare. Poi l’interprete spiega alla
mamma come fare: bollire dell’acqua, schiacciare una compressa in
una ciotola, scioglierla e dae un
cucchiaio al bimbo ogni 8 ore; poi
reidratarlo con acqua, zucchero e
sale, poi il paracetamolo… cose banali
insomma, una serie apparentemente
semplice di istruzioni.
Ma la preoccupazione sul volto
della mamma sembra indicare tutto
il contrario: manovre complicate,
quasi impossibili, gesti del tutto
estranei alla quotidianità della sua
vita. Ci allontaniamo dalla casupola
lasciando il rantolo del bambino
con la polmonite alle nostre spalle.
L’indomani, sulla via del ritorno,
ci fermiamo di nuovo. La mamma
in lacrime ci dice che la sera prima
il bimbo ha chiuso gli occhi dopo il
tramonto e durante la notte ha
smesso di respirare.
Cosa ha di particolare questa
storia? Nulla, assolutamente
nulla. Rivela semplicemente
quanto accade ogni giorno, in migliaia
di villaggi, per milioni di bambini.
Ricordo la prima volta che misi
piede in Africa, fresco di studi di
medicina tropicale. Aspettavo con
ansia di vedere malati affetti da quei
misteriosi e «affascinanti» morbi
esotici. Rimasi quasi deluso quando,
nella prima giornata di consultazioni
mediche, vidi solo bambini
gravemente malati o prossimi al decesso
per banali infezioni.
Diarrea, infezioni delle vie respiratorie:
sono queste le prime cause
di morte nei paesi in via di sviluppo.
Il 95% dei decessi sono dovuti
a malattie infettive, per le quali
esistono efficaci trattamenti. Ma un
terzo della popolazione mondiale
non ha accesso ai farmaci basici.
Gran parte di queste malattie sarebbero
facilmente curabili; però,
proprio là dove più servono, i farmaci
relativi non sono disponibili,
spesso perché troppo costosi.
La causa di questa discrepanza
tra bisogni
e offerta risiede in
rigide leggi di mercato,
in base alle
quali i prezzi dei farmaci,
protetti da
brevetto, sono fissati
sulla disponibilità a
pagarli nei mercati
dei paesi industrializzati.
Alla base di gran parte dei disastri
sanitari, dell’impossibilità a
gestire epidemie o endemie, a prevenirle,
a impedire la morte per banali
infezioni, alla base di tutto possiamo
affermare oggi con certezza
che c’è un problema di farmaci. Vediamo
di capire di cosa si tratta.
Anzitutto mancano nuovi farmaci
utili in medicina tropicale, che
siano poco tossici, a basso costo ed
efficaci per debellare le malattie
(parassitarie, ad esempio), causa di
sofferenza e morte.
Basta un dato: negli ultimi 20 anni,
tra i 1.233 nuovi farmaci offerti
dal mercato internazionale, solo 11
avevano come indicazione malattie
tropicali, e di questi 7 venivano dalla
ricerca veterinaria. Per cui appena
lo 0,3% della ricerca farmaceutica
contemporanea è indirizzata alle
malattie ai vertici di ogni classifica
mondiale di morbosità e mortalità.
Perché? Semplice, perché queste
malattie imperversano in mercati
poco remunerativi. Le priorità sono,
quindi, più di ordine economico-
commerciale che medico.
Da un lato fiumi di miliardi vengono
investiti sulla ricerca di nuove
pillole contro l’obesità e l’impotenza,
dall’altro quasi niente per malattie
tropicali. Se poi talvolta (e c’è
l’evidenza) una multinazionale farmaceutica giunge a sintetizzare un
farmaco attivo su una malattia tropicale,
spesso il fabbricante decide
di non commercializzarlo, poiché la
sua vendita sarebbe poco remunerativa
nei paesi dove i pazienti interessati
sono concentrati.
A volte, per le stesse ragioni, farmaci
già disponibili, efficaci e semplici
da somministrare scompaiono
improvvisamente, come è stato il caso
della sospensione oleosa di cloramfenicolo,
usata per trattare la
meningite meningococcica (malattia
capace di uccidere in 24 ore). Tale
farmaco era l’alternativa al trattamento
con ampicillina, che richiede
4 infusioni endovenose al giorno,
contro un paio di iniezioni intramuscolari
in tre giorni per il cloramfenicolo.
Una bella differenza,
per trattare pazienti in strutture sanitarie
carenti di materiale e igiene.
Altro esempio, quello della efloitina.
Questo farmaco serve per
trattare lo stadio avanzato della tripanosomiasi,
più conosciuta come
malattia del sonno (trasmessa dalla
famosa mosca tse-tse). Bene, mentre
il vecchio farmaco usato (un derivato
dell’arsenico estremamente
tossico e somministrabile in dolorose
iniezioni) diveniva anche inefficace
per l’insorgenza di ceppi di
parassiti resistenti, appare questo
nuovo ritrovato. Sfortunatamente
due anni fa la ditta produttrice, detentrice
del brevetto, ha deciso di
sospendee la produzione per motivi
commerciali. E i circa 300 mila
malati si vedono rioffrire il vecchio
melarsoprol.
Questo è quanto accade, in questo
mercato globalizzato.
Uno dei problemi principali è
causato dal brevetto che
protegge il farmaco. Il brevetto
rappresenta un diritto sacrosanto
dell’industria per salvaguardare
i frutti dei suoi investimenti in
sperimentazioni. Accade però che
i brevetti si tramutino in micidiali
armi che limitano l’accesso ai farmaci.
Esistono paesi definiti in via di
sviluppo, ma in realtà detentori di
tecnologie sufficienti per una produzione
farmaceutica. Nazioni come
India, Thailandia, Sudafrica o
Brasile sono in grado di produrre
farmaci utili per le loro popolazioni
e quindi rivenderli a prezzi accessibili.
Il prezzo di farmaci come
il fluconazolo, efficace in gravi infezioni
fungine, crolla così dai 20
dollari al giorno per un trattamento
in Kenya, dove è importato, a
meno di un dollaro al giorno in
Thailandia, dove è prodotto da una
azienda nazionale.
Questo è reso possibile da una
norma che si chiama compulsory licensing,
o licenza obbligatoria.
A questo punto, la domanda che
sorge è: etica e sviluppo economico
del settore farmaceutico sono obiettivi
incompatibili?
Le più autorevoli riviste mediche
inteazionali (ad esempio, British
Medical Joual e JAMA) sostengono
che l’etica è compatibile con l’economia.
Per questo i medici, che
operano in questi contesti, sono
stanchi di dover pensare, di fronte
all’ennesima morte di un loro paziente:
«Mi spiace. Stai morendo a
causa di una inadeguatezza del mercato».
Il caso dell’Aids mostra poi cifre
apocalittiche. Il 95% dei malati di
Aids nel mondo non ha accesso a
farmaci efficaci per restituire salute
e dignità. Ma (fatto ancor più
grave) i trattamenti per ridurre significativamente
la trasmissione
verticale dell’infezione da madre
sieropositiva a figlio al momento
del parto non sono disponibili proprio
nei paesi dove questa modalità
di trasmissione sta segnando le
nuove generazioni, condannando a
morte entro 5-8 anni un bambino
già al momento della sua nascita.
Farmaci come l’Azt o la nevirapina,
efficaci anche se somministrati
per solo 4 settimane intorno alla data
del parto, sono vittime delle stesse
regole di mercato. Spietati brevetti
ne permettono la vendita a
prezzi proibitivi e ne impediscono
la produzione da parte di altre
aziende. Se è vero, si può sempre
applicare la licenza obbligatoria. Ci
ha provato la Thailandia iniziando
a produrre Azt per le sue donne
(tantissime) incinte e sieropositive.
Il farmaco ha avuto il costo abbattuto
del 7000%.
La reazione degli Usa, dove risiede
la ditta detentrice del brevetto, è
stata: non possiamo impedirtelo,
ma possiamo però ridurre le importazioni
dalla Thailandia… Cosa
questa insostenibile in questo momento
di crisi economica.
Ecco come vanno le cose.
Farmaci che ci sono, ma costano
troppo; farmaci che esistono,
ma non vengono prodotti,
germi che divengono resistenti ai
comuni trattamenti (Tbc, leismaniosi,
tripanosomiasi, ecc.), ma la ricerca
farmaceutica ha altri obiettivi…
e le cifre di morte e malattia
continuano ad avere parecchi zeri
nei paesi dei poveri del mondo.
Quello che basterebbe è esigere un
«diritto alla salute per tutti».
Già sentito?

SUGGERIMENTI
BIBLIOGRAFICI

ESPERIENZE
Andrea Moiraghi,
Pole pole.
Dentisti volontari in Africa,
Edizioni Camilliane, Torino 2003
CRITICHE AL SISTEMA
Paul Benkimoun,
Morti senza ricetta.
La salute come merce,
Edizioni Elèuthera, Milano 2002
Medici senza frontiere (Msf)
Accesso ai farmaci:
la malattia del profitto,
Dossier di Msf-Italia, Roma 2001
SANITÀ ITALIANA
Paolo Coaglia-Ferraris,
Camici e pigiami,
Editori Laterza, Roma 1999
Paolo Coaglia-Ferraris,
Pigiami e camici,
Editori Laterza, Roma 2000
Informatore anonimo,
La mala-ricetta,
Fratelli Frilli Editori, Genova 2000
SITI INTERNET
• Medici senza frontiere: www.msf.it
• Organizzazione mondiale
della sanità: www.who.org
Tutti i libri sono acquistabili
od ordinabili presso la
«Libreria Missioni Consolata»,
via Cialdini 2/a, Torino;
tel./fax 011.4476695,
e-mail: libmisco@tin.it.

Carlo Urbani (a cura di Paolo Moiola)




Storie di barboni e volontari

BARTOLOMEO NON HA LE CHIAVI

ERA UNA SERA D’INVERNO
Alcolisti, malati di mente, ex-carcerati, malati di Aids e da qualche anno anche tossici e immigrati. Il mondo dei «senzafissadimora», meglio conosciuti come «barboni», è sempre più popolato. E sempre più difficile da gestire.

QUANDO ESMERALDA URLAVA
Sul finire degli anni ’70 appartenevo
a una parrocchia che gestiva
una mensa in cui andavano a mangiare
i poveri. Lì mi occupavo di anziani
e malati. Un giorno, andando
in Fiat (dove lavoravo come operatore
sociale), mi imbattei in una
donna. Era sporca, vestita malamente,
scalza, scarmigliata e urlante.
E la gente, vedendola, scappava.
Quello che più mi colpì non era
tanto lo stato della donna, ma proprio
il vedere che la gente scappava.
E allora, mi chiesi, dovrei scappare
anch’io? Mi avvicinai sorridendole.
Lei smise di gridare. Disse di
chiamarsi Esmeralda. Le domandai
perché gridasse e lei mi rispose in
piemontese: «Grido al mondo la
mia disperazione». L’accompagnai
in un bar a mangiare qualcosa e mi
raccontò la sua storia di donna dimessa
da un ospedale psichiatrico.
Poi, assieme, facemmo uno strano
itinerario: dalla stazione di Porta
Nuova alla mensa del Cottolengo,
dove incontrammo tante persone
come Esmeralda.

BARTOLOMEO
AVEVA 54 ANNI

L’associazione «Bartolomeo &
C.» è nata 23 anni fa, precisamente
in una notte d’inverno del 1980. Andavamo
in giro a fare la ronda, cioè
a cercare i nostri amici barboni e
perché non gelassero portavamo loro
panini, coperte e roba calda.
Quella sera non trovammo Bartolomeo
al suo solito posto, nella
stazione di via Fiocchetto. Così cominciammo
a cercarlo, fino a che
arrivammo nel centro storico di Torino
in via Conte Verde, vicino al
Duomo, dove sorgeva una casa diroccata
nella quale Bartolomeo
qualche volta si rifugiava.
A un certo punto inciampai in un
mucchio di cartoni e nylon e, mentre
cercavo di rialzarmi, vidi spuntare
un piede. Allora chiamai i ragazzi,
togliemmo i cartoni e sotto
trovammo il cadavere assiderato di
Bartolomeo. Bartolomeo aveva 54
anni. Noi che non avevamo ancora
scelto un nome per il nostro gruppo,
quella notte decidemmo di chiamarci
«Bartolomeo & Compagni».
Quell’evento fece definitivamente
maturare in noi la scelta di continuare
a cercare queste persone
chiamate popolarmente «barboni»,
aiutandoli in primis conquistando
la loro fiducia e poi elaborando dei
programmi per loro. Ad esempio la
reiscrizione anagrafica, in modo tale
che potessero riacquistare un’identità,
visto che molti di loro erano
stati «cancellati» dall’anagrafe e
vivevano nel totale anonimato.
Chiedemmo alla polizia ferroviaria
il permesso di transitare in stazione,
per contattare la gente che di
lì transita. Aprimmo un ufficio all’interno
della stazione centrale, poi
affittammo alcune stanze, dove collocammo
i malati di mente e successivamente
i malati di Aids.
All’epoca a Torino i dormitori
erano molto pochi, alcuni in situazioni
davvero allucinanti. La città
allora non garantiva quasi niente e
quindi cominciammo a rompere le
scatole al sindaco del tempo, Diego
Novelli, che si rivelò sensibile a
queste problematiche, tanto che mi
chiamò ad andare a lavorare all’ufficio
per i «senzafissadimora», nato
nel 1981. Poi venne aperta la casa
di accoglienza di via Marsigli a cui
fecero seguito tanti altri interventi
sul territorio.

L’AUMENTO
DEI «NUOVI POVERI»

Nel 2001 alla porta della Bartolomeo
& C. hanno bussato 220 nuovi
casi. La stragrande parte sono
maschi (90,53%), l’85,26% disoccupati,
il 3,16% occupati e l’11,58
pensionati. Sono malati di mente,
malati di Aids, immigrati, alcolisti,
ex-carcerati, qualche transessuale.
Il 52,41% sono single, circa il 30%
divorziati o separati, ma il 10% è
sposato. Gli analfabeti sono solo
l’11%, mentre il 45% ha fatto la
scuola media e il 15,26% le superiori.
Sotto il profilo dell’età prevale
la fascia che va dai 30 ai 60 anni
(circa il 60%) ma stanno crescendo
i giovanissimi e gli anziani.
Soprattutto i nuovi poveri hanno
poco a che vedere con i barboni tradizionali.
Il panorama è molto cambiato.
Il barbone tradizionale, il
classico «clochard», è quello che dà
meno problemi, ma sono rimasti
davvero in pochi. In questi ultimi
anni ci troviamo di fronte a persone
molto più giovani e sempre più
«sballate» psicologicamente. Tossici
molto più cattivi, arrabbiati; gente
carente di valori, che ammazza
per un nonnulla. Assistiamo all’aumento
dei sieropositivi, dei tossicodipendenti,
di quelli che abusano di
droga e alcornol.
Troviamo residui di vecchia immigrazione
meridionale che si associano
agli extracomunitari, delinquono
insieme, danno vita a
clan. I vecchi barboni vivono sempre
peggio, spiazzati dai nuovi poveri,
che magari rubano loro il sacco
a pelo e le scarpe. La caratteristica
di questa nuova povertà è
proprio l’assoluta mancanza di valori:
vogliono tutto subito.
C’è gente davvero difficile, magari
con più problemi: buca, batte
e beve. Poi c’è il problema dei malati
sieropositivi e quelli in Aids
conclamato. Casi cronici in cui la
prevenzione non serve più ed è
molto difficile fare capire loro la
necessità di seguire una serie di
norme.

PRECIPITARE
NELLA POVERTÀ

Abbiamo persone che vivono da
barbone ma senza esserlo, persone
che provengono da famiglie disgregate;
e poi immigrati. Decine e
decine di casi di persone normali
precipitate nella povertà. Le cause
sono molteplici, spesso disgregazione
familiare. Gente di buona famiglia,
che però in famiglia non si
ritrova più.
Abbiamo incontrato un ragazzo
di 16 anni che diceva di non sentirsi
giovane: «A casa nessuno mi parla,
nessuno mi vede e nessuno mi
ascolta». Il padre sempre in giro
per lavoro, la madre pure lei assente,
impegnatissima tra bingo, canasta
e amiche. E lui che fa? Non sta
in casa, è pieno di problemi, i genitori
gli danno tanti soldi, ma non sa
come usarli e così viene da noi ad
elemosinare la merenda per poter
parlare.
C’è un signore di mezza età, che
faceva l’agente di scorta a un importante
uomo politico, poi un
giorno molla tutto, lavoro e famiglia,
per approdare a Torino a fare
il barbone. Ora è stato recuperato,
è diventato un operatore della Bartolomeo
& C.. Fa le commissioni e
aiuta me e i volontari.
Esistono anche i poveri da usura.
C’è una donna di sessant’anni, che
faceva la manager e aveva parecchi
attici. Poi l’usura l’ha devastata fino
a condurla sul lastrico. L’esaurimento,
l’insorgere di problemi
mentali, il baratro. Oggi è riuscita
ad avere una casa popolare. Si è rimessa
in quadro, ma vive sempre
con il terrore di rincontrare i suoi
ricattatori. Ci siamo sempre occupati
non solo di assistenza, ma di
promozione. I risultati li abbiamo
avuti grazie a interventi efficaci che
hanno permesso a queste persone
di ristabilirsi psicologicamente e
che adesso ci aiutano a lavorare con
gli altri.
Noi pratichiamo la filosofia del
«dare la canna da pesca e non il pesce». Ai nostri assistiti offriamo dei
lavoretti e, quando hanno qualche
soldo, li accompagniamo in banca
per aprire un conto, imparare a gestirsi,
non spendere più di quello
che hanno, ecc… Hanno bisogno di
essere supportati e seguiti. Hanno
difficoltà ad alzarsi al mattino, a rispettare
i tempi. Ma se una persona
ha problemi di mente, non può
stare nei tempi perché è fuori del
tempo.
Quando vediamo che una persona
ha delle potenzialità, allora la
collochiamo nelle case e, quando
sono in grado di gestirsi da soli, allora
li aiutiamo ad ottenere una casa
popolare, il lavoro se si può, in
modo tale da conquistare una certa
autonomia.

QUEL CADAVERE
NELLA CELLA FRIGORIFERA

Alla vigilia di Natale del 2001 fui
chiamata dall’ispettore di un commissariato
di zona, perché avevano
in frigo una persona da 12 giorni e
non sapevano chi fosse. Così andai
alle celle mortuarie dell’ospedale
delle Molinette.
Aveva 35-40 anni. Lo avevano
trovato morto d’infarto davanti al
supermarket delle Molinette e ancora
non erano riusciti a dargli un’identità.
Colpisce vedere che in una
città pullulante di fermenti positivi,
si possa morire nell’anonimato. C’è
gente che se ne va, in silenzio. Sono
tutti «caduti» sul fronte della nostra
indifferenza.
A Torino ci vuole una casa di
pronta accoglienza, aperta 24 ore su
24, gestita dal Comune e dai volontari
insieme. Un luogo che possa essere
un punto di riferimento per
tutti quelli che di giorno e di notte,
se hanno freddo, possano stare lì a
giocare a carte, a farsi la barba, ad
usufruire di una certa rete di servizi.
Questo posto oggi non esiste.
Le persone continuano a girare da
un dormitorio all’altro. C’è gente
che non ha un luogo dove andare
per cambiarsi e lavarsi. Uno dei nostri
va a stendersi le mutande nel reparto
dialisi dell’ospedale Mauriziano!
E poi non c’è continuità sui
casi.
Se una persona viene accolta dal
Comune o dai servizi per l’emergenza
freddo, dopo tre mesi questa
va fuori e più nessuno la segue. Se
non è in grado di pagarsi una pensione
per dormire o se non è in grado
di comprarsi da mangiare, come
fa? L’intervento oggi non è adeguato
ai bisogni delle persone.

DALLA PARTE
DEGLI «ULTIMI»

A queste persone manca la casa e
il lavoro, ma anche tutta una vita
di relazione: non sanno come vivere
il tempo «libero» e, quando sono
in crisi di identità più profonda,
mancano dei referenti che siano in
grado di gestire questi momenti,
aiutandoli ad avere ancora voglia
di vivere, curarsi, riacquistare
un’autonomia. Troppe volte queste
persone non trovano risposte.
Ogni giorno alla «Bartolomeo &
C.» arrivano persone che ci interpellano
come pugni sullo stomaco.
Penso allora a tutti coloro che riempiono
le sedi dei partiti, delle chiese,
delle associazioni e mi chiedo come
mai così tanti tra loro sono prigionieri
di chiusure mentali e
pregiudizi. Penso a quanto disagio
in meno ci potrebbe
essere, se ci fosse meno
burocrazia nell’applicazione
delle leggi.
Oggi si parla molto di
qualità della vita, ma attorno
a noi si respira
ancora troppa intolleranza
verso i problemi
degli «ultimi». Non è
solo colpa dello stato.
Ogni cittadino dovrebbe
avere il coraggio di
guardare in faccia la realtà,
perché tutti siamo in colpa
se il disagio aumenta. E come
aumenta!

NON RIMANERE
SPETTATORI

Non bastano le scelte politiche,
sociali, culturali, se
non c’è la scelta e una risposta
dentro noi stessi.
Non fare da spettatori, ma
chiedersi cosa stiamo facendo
concretamente per gli altri. Il
nostro è un tentativo quotidiano
fatto di limiti, ma anche di
atti concreti di condivisione.
Che cosa ha fatto Cristo per
gli emarginati? Cristo nasce
da emarginato, le prime persone
che incontra sono i pastori,
non i re. Chiude la sua
vita tra i ladroni.
Noi che lo vogliamo seguire
dobbiamo vederlo e scoprirlo
negli altri. Signore, quando ti
abbiamo visto? Tu eri nell’alcolista,
nel malato di mente,
in quell’amico che si buca…
Se il nostro fratello non ce
la fa da solo a portare la
croce, noi abbiamo il dovere
di aiutarlo.
È ora di smetterla di essere
spettatori. Occorre
diventare protagonisti attraverso
il nostro impegno
concreto e quotidiano.

UN RIPARO, UNA PANCHINA, UN BICCHIERE DI VINO
di Enrica, volontaria della «Bartolomeo & C.»
Al mattino Bartolomeo viene svegliato da svariati
fattori: la voce di un passante, la pioggia
che s’insinua tra le sue coperte, un clacson di
un’auto, l’abbaiare di un cane. Per lui le operazioni
del risveglio sono velocissime. È sufficiente alzarsi
in piedi e sistemare le proprie cose, preparandosi
a… spostarsi.
Bartolomeo difficilmente ha un luogo di lavoro da
raggiungere, raramente delle occasioni fisse d’incontro
con altri. Bartolomeo non ha bisogno di portare
un orologio al polso.
La sua giornata ha come sole tappe costanti i pasti.
Bartolomeo sa che, per poter fare colazione, può
recarsi dalle suore o in altro luogo ove viene somministrata
tra le 8 e le 9. Per avere un piatto di pasta
bisogna andare invece in corso «buonappetito»
tra le 12 e le 13, mentre la tazza di latte serale viene
servita in via «buonanotte» dalle 19 alle 20.30.
Se ha fame, si recherà in quei posti a quelle ore. Se
non ci andrà nessuno se la prenderà con lui.
Durante il resto della giornata Bartolomeo vaga
per la città. Gli incontri con i compagni di strada
sono solitamente casuali. Bartolomeo si reca ai
giardini, perché sa che lì può trovare
il suo amico e bere insieme un bicchiere
di vino di poco costo, comprato
nel supermercato. Se non c’è
da bere, forse potranno fumarsi una
sigaretta. Tuttavia, se quel giorno
Bartolomeo non andrà ai giardini,
nessuno lo cercherà né si preoccuperà.
Nel suo girovagare egli può trovare
un quotidiano abbandonato su una
panchina e trascorre un po’ di tempo
nella lettura. Se è fortunato, può
commentare le vicende politiche
con un’altra persona, appena conosciuta
su quella stessa panchina.
Qualche volta, se ha contatti con i
servizi sociali, Bartolomeo va dall’assistente
sociale. Nella sua mente
le cose pratiche occupano uno
spazio piccolissimo. Tutto il resto è
lasciato… a che cosa? Proviamo ad
immaginare. Bartolomeo osserva le
cose che capitano: la lite tra due
persone, l’incidente stradale. Dentro
di sé le commenta.
Bartolomeo ricorda il suo passato,
forse ha trascorso anni diversi, nei
quali la sua giornata era simile a
quella di una persona «normale»,
con una casa e un lavoro. Forse li
rimpiange, forse no.
Bartolomeo presta una grande attenzione
al cielo, ai mutamenti meternorologici.
Per lui è importante che
non piova.
Èsera ormai. Bartolomeo stende
le sue coperte in un luogo riparato.
Se fa molto freddo deve bere
del vino, forse molto vino, altrimenti
per lui è impossibile prendere
sonno. Riesce a crearsi un suo
spazio, con le sue cose tutte ammassate
attorno a lui e alla fine …
si addormenta.

Lia Varesio




Storie di barboni e volontari

COSÌ VICINI, COSÌ LONTANI
Incontrare, conoscere e aiutare i «senzafissadimora»
non è facile. La loro realtà è fatta di fame, freddo,
malattia, solitudine. Ma quando l’obiettivo è raggiunto,
la soddisfazione è veramente irripetibile.

LA SOLIDARIETÀ
COME DENOMINATORE

Svolgo l’attività di volontaria alla
«Bartolomeo & C.» da parecchi
mesi, ed è un’esperienza meravigliosa
dal punto di vista umano.
Grazie ad un’introduzione graduale
ed attenta, non ho avuto esperienze
traumatizzanti. Sicuramente
sto imparando a conoscere realtà a
me sconosciute, anche se vecchie
come il mondo e più diffuse di
quanto non si creda.
Sono venuta in contatto con un
mondo fisicamente così vicino al
nostro, eppure così lontano. È vicino
perché lo incontriamo nelle stesse
strade del centro dove ci rechiamo
a fare shopping, al cinema o al
ristorante; al tempo stesso è così
lontano, perché presenta problemi
di fame, freddo, malattia e solitudine,
che neppure immaginiamo.
Essere volontari alla «Bartolomeo
& C.» è un’esperienza di amicizia e
scoperta reciproca, sia nei rapporti
con gli altri volontari che in quelli
con gli utenti. I rapporti con gli altri
volontari sono improntati alla disponibilità
e all’avere un denominatore
comune: la solidarietà. Il rapporto
con gli utenti è segnato in
prima battuta dalla curiosità reciproca
e subito dopo dall’affetto, dal
sentire che siamo importanti gli uni
per gli altri. E come tutte le esperienze
di volontariato, si riceve molto
di più di quello che si dà. Alle volte
un sorriso ed uno sguardo ripagano
la levataccia al «Bivacco»
(nome della casa di accoglienza,
ndr), la domenica mattina: ci si è alzati
presto ma ne valeva la pena.
Ho conosciuto G. al pranzo organizzato
a Foo di Coazze il
giorno di Pasqua. Ero seduta a tavola
con lui. Mi ha confidato di essere
un ex-alcolista, e per questa sua
condizione di «ex», che aveva faticosamente
raggiunto dopo molto
tempo, non avrebbe toccato il vino
a tavola.
Mentre G. mi parlava delle sue
esperienze, mi ha confidato di aver
scritto un libro di poesie, durante
gli anni bui trascorsi in manicomio.
Alla fine della giornata, quando ci
siamo salutati, mi ha promesso che
mi avrebbe regalato una copia del
suo libro. Il sabato successivo è arrivato
in via Sacchi con il libro impacchettato
in una carta a fiori con
un nastro rosa, e un bigliettino di
accompagnamento: un’immagine
che non dimenticherò mai.
Nel libro ci sono i momenti più
bui di quegli anni della sua vita:
paure, amori non ricambiati e tanta
solitudine. Poi, quando gli si è dischiuso
davanti un mondo diverso,
fatto di amicizia e solidarietà, è stato
come un raggio di sole in una
giornata scura.
Per quanto mi riguarda, ancora
una volta, ho avuto la dimostrazione
che facendo volontariato si riceve
più di quello che si dà. Come l’affetto
di una persona quasi sconosciuta.
PAOLA C.

PRIMO: NON GIUDICARE
Nella nostra società orientata al
successo, al profitto, ai risultati immediati,
esistono persone (e non sono
poche) che lottano per ottenere
una brandina in un dormitorio, un
piatto di pasta in una mensa, un
paio di scarpe e un paio di pantaloni
usati in un centro di accoglienza.
In questi anni di volontariato alla
Bartolomeo ho scoperto un mondo
nuovo, quello sopradescritto, composto
dagli ultimi, dai dimenticati,
dagli emarginati, da coloro che possono
contenere tutti i loro beni materiali
in una borsa di plastica.
Come ogni realtà nuova va scoperta,
non guardandola furtivamente
dall’esterno, ma immergendosi
in essa: parlando con i senzafissadimora,
mangiando con loro,
ascoltandoli.
Dal contatto con loro ti accorgi
che dietro al degrado fisico, all’abbandono
delle convenzioni sociali,
si nasconde una persona, con le sue
emozioni, le sue giornie, i suoi dolori,
i suoi desideri, la sua capacità di
sorridere, di riflettere, di entusiasmarsi.
In una parola, la sua voglia
e volontà di vivere.
Forse la vita con loro è stata dura
o forse sono stati loro eccessivamente
duri con la vita: comprendere
ciò è difficile, il più delle volte impossibile.
In ogni caso non è nostro
compito giudicarli per quello che
hanno fatto, ma accoglierli per
quello che sono.
È così che può uscire una carica
inesauribile di umanità, uno stimolo
alla vita che raramente si trova altrove.
PIERO
RESTITUIRE SPAZIO E TEMPO
Tra le molteplici attività della
«Bartolomeo & C.», esperienza
fondamentale è l’ospitalità nottua
presso il «Bivacco», casa di accoglienza
dotata di 20 posti letto
destinati ad un’utenza maschile. Si
tratta di una struttura privata, gestita
unicamente da volontari. Gli
ospiti, dopo un colloquio preliminare,
sono inseriti in un ambiente
dove possono ricevere un ricovero
notturno, provvedere all’igiene personale,
consumare il pasto serale e
la colazione, cambiare e lavare gli
abiti, ricevere la visita di un medico
e seguire le terapie necessarie, lasciare
in deposito un numero limitato
di bagagli, accedere a sale provviste
di attrezzature ricreative dove
incontrare gli altri utenti e trascorrere
in loro compagnia la serata.
Il Bivacco, tuttavia, non rappresenta
solo un indispensabile servizio
finalizzato all’emergenza, ma un
primo passo verso la ricostruzione
di un’identità personale, perduta
nella deriva sociale di cui la persona
senzafissadimora è stata protagonista.
La mancanza di un reddito,
l’esclusione sociale, l’estraneità
agli stili comportamentali della cultura
dominante hanno infatti come
conseguenza non solo l’assenza o la
perdita di una casa intesa come edificio
fisico o materiale (protezione
da agenti estei, punto di rifoimento,
luogo di reperibilità), ma il
venire meno della propria identità
nello spazio e nel tempo.
Nel procedere verso l’emarginazione,
lo spazio urbano vissuto dal
senzafissadimora si limita alla mappa
dei luoghi anonimi ed impersonali
dove egli mangia, riposa o
aspetta un aiuto. Ciò produce una
capacità di orientamento dettata
unicamente dalla ricerca di una sopravvivenza
minimale, ma contemporaneamente
costituisce nel territorio
cittadino un punto di riferimento
residuale o alternativo all’abitazione.
Anche la prospettiva temporale si
contrae. L’unica dimensione disponibile
è il presente, l’unico margine
d’azione è la reazione immediata alle
provocazioni del momento, il futuro
non è altro che il susseguirsi di
situazioni alla cui costruzione il soggetto
non si sente chiamato a partecipare.
Il Bivacco diventa allora un luogo
concreto dove la persona può
sperimentare ruoli o relazioni altre
rispetto a quelle della strada, recuperare
la propria storia in un ambiente
disposto all’ascolto, frequentare
uno spazio di socializzazione
contrapposto alla misantropia
od al ripiegamento su di sé, riavvicinarsi
agli affetti spesso soffocati
dalla diffidenza o dall’opportunismo
che caratterizzano la sua esistenza
quotidiana.
L’accoglienza al Bivacco è quindi
centrale, perché ci offre la possibilità
di non limitare il nostro intervento
alla distribuzione di beni o a
prestazioni di tipo assistenziale; essa
pone le basi di una progettualità
che possa aprire ai nostri amici la
dimensione del futuro, a loro troppo
spesso negata.
PAOLA O.

Una testimonianza da Volgograd (Russia)
LE PATATE DI MIKAIL, IL FUNERALE DI NINA
Storie di barboni raccontate da un volontario della «Giovanni XXIII».
di Marco Giovannetti
Volgograd. È la veglia della notte di pasqua. La
chiesa è quasi piena e alla fine di ogni lettura il
sacerdote invita i fedeli a testimoniare come Dio sia
presente nella loro vita. Fino a quel momento solo
qualche timido tentativo, forse banale e scontato.
Mi giro, guardo Mikail che mi strizza l’occhio. Poi
si alza e comincia a parlare.
È un giorno qualunque e Mikail sta per andare al
lavoro, ma una telefonata di un amico gli comunica
che c’è la possibilità di avere delle patate. Mikail
è confuso, pensa e ripensa. La sua famiglia ha bisogno
di quelle patate, ma il rischio è quello di tardare
al lavoro. Mikail decide di mettere al primo
posto il bisogno della sua famiglia, di suo figlio, di
sua moglie, ma non sa che questo lo stato non glielo
perdonerà. Così si avvia in auto, a fianco la moglie,
dietro il figlio e lo zio, davanti a sé la tragedia.
Mikail ha un incidente, i passeggeri muoiono tutti.
Mikail è l’unico a rimanere vivo; sarà poi lo stato
ad ucciderlo.
Mikail non è colpevole, l’incidente è casuale, ma
questo allo stato non interessa. Sarà giudicato per
il ritardo al lavoro. La condanna: 15 anni di prigione.
Mikail ha perso tutto. Scontato il carcere, si reca
dai genitori, l’unico legame familiare rimasto, ma
nel corso di quei 15 anni sono morti e nessuno si
era mai preso l’incarico di comunicarglielo. Da quel
momento in poi la sua vita sarà sulla strada.
Non ha più nulla, né affetti, né casa. Ha perso la dignità
e la fede. Mikail non crede più in Dio: se Dio
esistesse, non permetterebbe tanta sofferenza; è
impossibile, non può essere. Mikail è sicuro: Dio
non esiste.
In chiesa, il silenzio. Mikail ripete che Dio non esiste
e davanti a questa storia nessuno si permette
di ribattere. Forse anche il sacerdote si rende conto
che dire a Mikail «Dio ti ama», non basta.
Mikail continua il suo discorso. Parla del nostro incontro
ed io mi commuovo. Non ce la faccio a trattenermi.
Parla della dignità ritrovata, della famiglia,
del rispetto, della speranza… Guarda dritto
il Cristo inchiodato e dice: «Ora so che Dio esiste».
È questa la pasqua qui a Volgograd, nel
sud della Russia, dove sono tre anni che
vivo come volontario della «Comunità
papa Giovanni XXIII».
Quante storie, quanti volti, ognuno
importante, unico, irripetibile.
Sguardi, sorrisi, pianti, lutti, speranza,
impotenza, tutto custodito nel profondo
del cuore, come una ricchezza inestimabile.
Ho il ricordo nitido di ogni incontro anche
se è durato pochi minuti, intensi, forti…
come un pugno allo stomaco. Ho visto
tanti amici morire. Molte volte il pezzo
di strada fatto insieme è stato verso la morte.
La fatica di sopportare quei momenti di silenzio,
fatti solo di uno sguardo in cui ti dici tutto. Per certe
cose le parole non servono, come con Nina.
Quante volte ci siamo guardati ed io ho capito che
tu non avevi più voglia di lottare, ma mi chiedevi di
accompagnarti verso la morte, in maniera dignitosa,
da essere umano.
Che fatica, cara Nina. Che fatica accettare la tua
rassegnazione, che male mi ha fatto pensare che
forse era ormai troppo tardi. Proprio tu che sbandieravi
il tuo essere «barbona» con orgoglio davanti
a tutti; tu che accostavi quella condizione a parole
come libertà, scelta, felicità. Sempre accompagnata
dalla tua amica bottiglia, che però non è
stata in grado di farti sentire amata, ma ti ha aiutato
a dimenticare, a non pensare che tu, quella vita,
non l’avresti mai scelta.
Ricordo il giorno del tuo funerale. Eri bellissima, ti
avevamo vestita come a te piaceva e non solo, per
te si sono aperti quei cancelli che ti hanno visto viverci
davanti per 15 anni. Mai ti avevano permesso
di entrare in chiesa: a te era vietato, non ne eri
degna.
Ma forse, nel giorno più bello della tua vita, il Signore
ha fatto capire a tutti che siete voi ad aprirci
il Regno ed io l’ho capito nel momento in cui eravamo
dentro alla chiesa ortodossa, cattolici e ortodossi
vicini, insieme, uniti da te, angelo di Dio,
dalle ali sporche e l’abito stracciato.
Veglia su di noi, cara Nina, insieme a tutti coloro
che ora vestiti di Luce, ci guardano da Lassù.
Sono questi gli incontri qui a Volgograd, quando
andiamo in strada a portare un panino con un
thé caldo e a condividere la vita di persone emarginate,
sbattute fuori dalle mura di questa società.
La nostra casa, che si trova fuori città, in un quartiere
povero, non ha mura che dividono. Al contrario,
accoglie chi vuole condividere con noi un
po’ della propria esistenza.
Ora siamo in 8 e la nostra vita è
molto semplice. Siamo una famiglia
un po’ particolare, ma ci vogliamo
bene. I nostri passi sono
molto lenti. Per noi il ritorno ad
una vita «normale» è lungo: l’uso
del sapone, del bagno, rispettare
gli orari. Ma ciò di cui
siamo veramente fieri è che ci
abbracciamo, ci chiamiamo
per nome, ci prendiamo per
mano e camminiamo insieme
con la speranza di arrivare, prima
o poi, a varcare i confini di
una terra dove regni la giustizia
e dove ogni cuore si possa
sentire accolto e riscaldato.

Lia Varesio




Inchiesta sui nomadi: giudizi, pregiudizi, realtà

«VIA DI QUI SPORCHI ZINGARI!»
Probabilmente sono ancora meno sopportati degli «extra-comunitari». Sono gli zingari, una popolazione dalla storia misteriosa e affascinante, che a causa
delle proprie modalità di vita non ha mai avuto un’esistenza facile. Disprezzati, rifiutati, guardati con sospetto.

Torino, campo nomadi dell’Arrivore.
È quasi l’alba del
17 gennaio 2003. Il campo è
immerso nel silenzio della notte, fa
freddo. Tutto è buio quando ad un
tratto irrompono i fari delle macchine
dei vigili urbani. Sanno già
dove andare e cosa fare.
Da giorni stanno pedinando la famiglia
di Romeo e Asnnia Ahmetovic
per procedere all’arresto.
Da giorni questa gente non dorme
al campo, ma qua o là, per le vie
della città, immersi nel gelo invernale.
Stanotte si erano concessi una
pausa che gli è stata fatale.
Colpevoli! Di che? Colpevoli di
nulla, ma senza documenti di riconoscimento,
quindi anche privi del
permesso di soggiorno. Eppure sono
una tranquilla famiglia rom: madre,
padre e cinque figli. Profughi
scappati dalla Bosnia a causa della
guerra. Vivono di elemosine o rivendendo
al Balón (un noto mercatino
di Torino, ndr) oggetti che recuperano
dalle nostre immondizie.
La loro vita sta tutta in quel carretto
contenente povere cose che
permettono loro di tirare a campare.
Sono quindi vittime due volte.
Vittime della guerra e vittime di
un’altra guerra più silenziosa e strisciante:
quella che la legge Bossi-Fini
ha scatenato sul territorio italiano.
Al campo si diffonde la voce:
– Li hanno presi.
– Sì, li hanno proprio portati via.
– Cosa ne faranno?
Prima sosta in questura. Ventiquattro
ore dopo escono con la loro
condanna: 5 giorni di tempo per
uscire dall’Italia.
Se li «ribeccano» il loro destino è:
il «Centro di detenzione temporanea
» di corso Brunelleschi, poi l’estradizione.
Mentre per i figli minorenni
è previsto l’inserimento in
una comunità, cioè la separazione
dal nucleo familiare (un modo molto
strano di difendere i diritti dei
bambini).
Tutto questo senza un’accusa valida,
senza aver commesso alcun
reato. Non hanno né rubato, né ucciso.
Papà e mamma vogliono bene
ai loro figli come qualsiasi altro genitore.
Ma questa è la legge. Questa
è la legge Bossi-Fini (e questo, nell’opinione
di chi scrive, è razzismo…).
D’ora in avanti gli episodi di questo
genere saranno sempre più numerosi.
Naturalmente avvolti nel silenzio
di chi non sa o non vuole né
sapere né vedere.
Il campo dell’Arrivore si trova alla
periferia di Torino, nei pressi
della località «basse di Stura».
Un terreno assolato, con pochi alberi
dove d’inverno fa molto freddo
e d’estate troppo caldo.
I torinesi per lo più ignorano la
presenza di queste persone; nei casi
peggiori manifestano nei loro
confronti aperta ostilità.
«Gli zingari sono sporchi, puzzano,
non lavorano, rubano». O, addirittura,
«ci danno fastidio per il
fatto stesso di esistere». Luoghi comuni
o mezze verità?
Per arrivare al campo, si percorre
una strada tutta buche. Alla fine,
dopo una curva, ecco comparire
tante «casette» e roulottes. Tutt’intorno
c’è fango, mentre spessi e
densi fumi circondano le abitazioni.
Questo è un campo-laboratorio:
gli uomini si guadagnano da vivere
con lavori di demolizione (per fare
questo spesso è necessario bruciare
dei metalli). Le donne, invece, con
l’aiuto di assistenti sociali, hanno
organizzato in un container un micro-
nido. Qui, in cambio di un piccolo
compenso, guardano i bambini
anche di quelle tra loro che hanno
trovato un’occupazione (magari
attraverso le «borse-lavoro» del comune)
in città.
Nel campo vivono circa 60 famiglie
rom, per lo più profughe dalla
Bosnia a causa della guerra.
La prima cosa che vedi recandoti
là sono i bambini che spuntano
immediatamente, come dal nulla,
appena ti vedono comparire.
«Chi sei?» subito ti domandano.
«Sono un’amica di Carla e Rita» (le
due sorelle suore che condividono
la loro vita, abitando lì in una roulotte;
vedi articolo successivo). Questo
li rassicura. Così ti dicono dove
lasciare la macchina, poi ti danno
l’ok e ti trotterellano intorno per
farti mille domande e raccontarti di
loro.
«Guarda cosa so fare» dice la più
piccoletta ed ecco una capriola dopo
l’altra. Poi ti mostra le caramelle
che ha in mano: «Ma se me ne dai
una delle tue è ancora meglio».
Ecco, i bambini rom sono così:
spontanei, giorniosi, sorridenti, socievoli.
Sono i più piccoli, perché i
grandi sono a scuola, tra breve
giungeranno con il pulmino. È un
servizio del comune per favorire la
scolarizzazione (alcuni giovani nomadi
ora svolgono il lavoro di accompagnatori
dei bambini o di mediatori
tra la scuola e le famiglie).
Eccoli, infatti. «La scuola non mi
piace – dice la più grande -. Un po’
ci vado, un po’ non ci vado perché
è tutto chiuso, si lavora sempre, non
si va mai fuori in giardino». «A
scuola manca l’aria…» aggiunge
un’altra.
Più difficile è avvicinare gli adulti:
sfuggono agli estranei o ti trattano
con opportuna cortesia.
«Tu qui – sembrano dirti – sei
un’estranea» e per un breve arco di
tempo vivi ribaltata la loro condizione.
Mi aggiro per il campo. Le donne
si affacciano curiose dalle loro
abitazioni. Tra loro c’è chi tiene
molto alla tradizione: è Fatima.
Mi concede di varcare
la soglia della
sua casa tenendo
le scarpe (loro
le lasciano
sempre fuori
dalla porta perché solitamente le
abitazioni sono rivestite di tappeti).
Sono giustificata perché sono estranea
alle loro abitudini ed ospite.
Entrando sorge spontaneo un senso
di riverenza.
La sua abitazione è «sontuosa»,
rivestita di drappi colorati e tappeti,
sullo sfondo s’intravede anche un
altarino di padre Pio. Con il suo
abito tradizionale e i suoi giornielli Fatima
sembra una regina. Sta preparando
un pollo per la cena: un’operazione
semplice e apparentemente
rude, eppure tutti i suoi gesti
denotano una signorilità non comune.
Il campo dell’Arrivore è stato
inizialmente scelto (erano gli
anni ’70) come area abitativa
per poche famiglie, circa una
decina.
In seguito il campo si è ingrandito:
sono arrivate nuove
famiglie, in particolare a
seguito della guerra nella
ex-Jugoslavia. Molti rom
hanno dovuto fuggire e
sono giunti qui in Italia
senza avere un posto
dove stare, senza cittadinanza.
Il campo andrebbe
migliorato: occorrerebbe
apportare
modifiche al terreno,
risistemare i
servizi igienici, ridare
nuova dignità
al luogo.
Tuttavia, esso è
situato sulle rive
del fiume Stura
dove un ambizioso
progetto
di riqualificazione
del quartiere,
situato
tra corso Giulio
Cesare e
corso Vercelli,
prevede: zone alberate, piste
ciclabili, nonché la realizzazione di
un parco fluviale. Questo progetto
quindi non prevede la permanenza
abitativa dei rom nel campo dell’Arrivore.
Per risolvere il problema
una delibera del 1999 ha individuato
un’area ad hoc per loro, in via
Germagnano.
Il progetto prevede la costruzione
di circa 16 casette bifamiliari in
muratura dotate di servizi, con un
po’ di terreno intorno e anche, come
«fiore all’occhiello», una costruzione
più ampia per le feste.
Allora c’è da chiedersi: dove sta il
«piccolo neo» di questo progetto?
Il problema è… il luogo. Un luogo
in cui nessun altro vorrebbe abitare.
L’area di via Germagnano, infatti,
si trova al centro di una zona
in cui stanno la tangenziale (quindi
i gas di scarico saranno tutti per i
nomadi), la ferrovia, due canili
(questo significa latrati continui
giorno e notte). Ma non basta.
Davanti all’ingresso del campo
una strada a scorrimento continuo
ha indotto i rom a chiedere una recinzione
per tutelare i loro bambini.
E, ciliegina sulla torta, ad appena
1 km di distanza c’è la discarica
dalla quale si sprigionano fumi e gas
tossici.
Neanche il canile voleva venisse
costruita quest’area in quanto ciò
avrebbe limitato lo spazio accessibile
ai cani e, in difesa del medesimo,
è stato detto (con involontaria
ironia) che «quella zona non è adeguata
nemmeno per i cani».
Inoltre, la costruzione del campo
crea tensioni fra gli abitanti della zona,
già scontenti di dover convivere
con il campo dei sinti di via Lega.
Visitandolo inoltre ci si rende
conto che le casette sono di piccole
dimensioni, se pensiamo che una
famiglia nomade di solito è assai numerosa.
Lo spazio circostante risulta
assai limitato.
Il problema sembra senza possibilità
di soluzione in quanto il progetto
è già stato deliberato ed è in
corso di attuazione. L’area si prevede
ultimata per il novembre
2003. Quindi, per il 2004 i rom verranno
effettivamente trasferiti qui
(se, nel frattempo, l’applicazione
della legge Bossi-Fini non avrà già
attuato per molti di loro l’estradizione…).

Il caso di Torino è emblematico
per capire la condizione dei nomadi.
Per riflettere su quanto sia
necessario fare per raddrizzare la
rotta e favorire l’integrazione e la
convivenza con queste persone.
I diritti proclamati dalla Dichiarazione
universale di Ginevra del
10 dicembre 1948 parlano chiaro
(diritto alla vita, alla salute , al cibo,
all’abitazione, alla dignità…) e sono
rivolti a tutti gli esseri umani
«senza distinzioni di razza, sesso,
età, religione…» (articolo 1 e 2 della
Dichiarazione). Questa proclamazione,
che è stata un grande
evento storico, è allo stesso tempo
una conquista continua per la quale
tutti quanti noi dobbiamo lottare
al fine di promuovere e rendere
effettivi tali diritti per ciascun essere
umano. Anche per chi, come i
nomadi, non vuole omologarsi al
nostro stile di vita e per questo è disprezzato, rifiutato o comunque
guardato con sospetto. Questo è il
nocciolo della questione zingari: la
difficile convivenza con il resto della
popolazione che non li vuole, li
rifiuta. Per questo spesso le politiche
dell’ente locale, nel vano tentativo
di accontentare tutti, finiscono
per operare scelte che vanno, ancora
una volta, a scapito dei più deboli,
di chi non ha voce, di chi non
è rappresentato da nessuno.
Non si può non sottolineare che,
nel linguaggio corrente, «zingaro»
è una parola razzista come «negro»,
«vù cumprà», «barbaro», ecc.
Spesso nel parlare quotidiano si
usano espressioni del tipo: «una casa
di zingari», per dire che è disordinata;
«essere come uno zingaro»,
cioè vestito male e sporco; «ti faccio
portare via dagli zingari», per
dire che sono cattivi (come l’«uomo
nero»).

UN POPOLO
SENZA VINCOLI,
«PADRONI»
E AMICI

DALL’INDIA ALL’EUROPA (1400)
Qualcuno li ha chiamati i «figli del vento»
perché il popolo zingaro è un popolo che
non ha vincoli né confini riconosciuti (stato,
caste sacerdotali, norme giuridiche, tribunali).
Vive della sua libertà e nella sua concezione
del tempo che è principalmente basato
sul presente e fortemente condizionato
dal nomadismo.
La loro cultura è sempre e solo stata trasmessa
oralmente da una generazione all’altra
attraverso leggende, consuetudini
che si svolgono durante le veglie intorno
al fuoco, come abitualmente le varie famiglie
sono solite fare, specie nei momenti
di festa.
La loro è una storia principalmente scritta
da altri, avvolta nel mistero, un rompicapo
anche per storici e studiosi.
L’origine del nome «zingaro» (o «zigano») deriva
probabilmente dal termine greco «athingano» cioè
«intoccabile» attribuito ad una sètta proveniente dalla
Frigia (regione storica dell’Asia minore), oltre che
a maghi ed indovini.
Le origini geografiche degli zingari sono state individuate
nel nord dell’India. Da qui si spostarono verso
la Grecia e l’Europa sud-orientale intorno all’anno
1000 d.C., si presume a causa dell’espansione islamica
o forse per una carestia. La loro lunga
migrazione attraverso l’Asia e l’Europa si svolse con
una lunga sosta in Persia (circa due secoli): dalle lingue
di questi paesi acquisirono i tratti della loro lingua,
il romanés. L’arrivo in Europa e in seguito nei
vari paesi europei si ebbe intorno al 1400.

PERSEGUITATI
Proprio il carattere sfuggente e misterioso di questo
popolo ha dato origine a pregiudizi, atteggiamenti
di ostilità e rifiuto che sono confluiti anche in vere e
proprie persecuzioni. Tutti i paesi europei adottarono
nei loro confronti, come minimo, bandi di
espulsione. In Francia vennero pressoché estinti. Di
fatto il nomadismo divenne una perenne fuga.
Nel secolo XVII li troviamo nelle Americhe deportati
come schiavi. Durante la seconda guerra mondiale
l’opera di sterminio di Hitler li condannò (come
gli ebrei) al genocidio (non meno di 500 mila zingari
vennero ammazzati).
Il loro principale torto è sempre stato quello di non
costituire uno stato, non avere una rappresentanza
diplomatica, non fare riferimento ad una terra chiusa
da confini.
Così essi sono divenuti nell’immaginario collettivo
dei «gagè» (termine con cui gli zingari definiscono
coloro che non appartengono al loro popolo) degli
untori, propagatori di malattie, ma anche degli inafferrabili,
primitivi, trasgressivi, ladri, delinquenti,
fattucchieri.
Non si riesce quindi a distinguere se queste opinioni
siano il frutto di uno stile di vita corrispondente a
questi termini oppure se gli zingari abbiano finito col
comportarsi ed agire nel modo con il quale essi venivano
identificati.
Una ricerca condotta in Inghilterra su un campionario
di letteratura per ragazzi (libri scritti negli ultimi
170 anni) rileva che in essa gli zingari sono rappresentati
come figure disprezzate, e si confermano
i pregiudizi ricorrenti. Così pure raramente la letteratura
ed il cinema deviano da questa visione stereotipata.
Recentemente il regista Emir Kusturica ci ha proposto
alcuni film («Gatto nero gatto bianco» e «Il
tempo dei gitani») in cui si evidenzia il mondo colorato,
fantastico e «fuori dagli schemi» dei gitani, trasmettendoci
la loro cultura fatta di: sogni, sangue,
barbare passioni che lasciano intravedere una umanità
ricca di vitalità.

IL RUOLO CENTRALE DELLA FAMIGLIA
Tratto culturale che accomuna e caratterizza tutti gli
zingari è il non riconoscimento della gerarchia salvo
quella che deriva dall’anzianità, dall’essere padre o
madre di famiglia o dall’essere reputato saggio.
La vita degli zingari è incentrata sulla famiglia allargata
attorno alla quale si organizza la vita comunitaria
ed è con essa che vengono prese le decisioni più
importanti quali spostamenti o insediamenti.
Attualmente si sta verificando una sempre maggiore
sedentarizzazione nei campi sosta, questo crea a
volte divisioni e smembramento del gruppo familiare
modificando così l’organizzazione tradizionale.
La famiglia singola ha un’importanza minore, anche
se è il matrimonio che segna l’ingresso nella comunità
degli adulti.
All’interno della famiglia esiste una divisione netta
dei ruoli tra uomini e donne ed è la famiglia che si
occupa principalmente dell’educazione dei figli con
ritmi e modalità propri.
La scuola è vista come un qualcosa di esterno ed
estraneo e per quanto le amministrazioni comunali
e le organizzazioni di volontariato si adoperino da
diversi anni ai fini di favorire al massimo l’integrazione
scolastica di questi bambini, essa resta un luogo
frequentato in modo discontinuo e talvolta conflittuale.

ROM, SINTI, CAMMINANTI
Il popolo zingaro o nomade (come impropriamente
viene chiamato in quanto il nomadismo è ormai assai
limitato: quasi tutti questi gruppi vivono da anni
in campi di sosta stabili) si suddivide a sua volta in
diversi sottogruppi di cui i principali sono: sinti, rom,
camminanti.
Gli zingari chiamano sé stessi «rom» che significa
uomo o anche marito (plurale «roma»). Donna si dice
«romnì» (plurale «romnia»). Attualmente la popolazione
zingara è stimata intorno ai 10-12 milioni
di individui sparsi nel mondo (6 milioni in Europa).
In Italia ci sono attualmente 100 mila zingari: 70 mila
di cittadinanza italiana e 30 mila di provenienza
jugoslava.
SINTI
I sinti sono il gruppo di gran lunga maggioritario. Sono
presenti in Piemonte fin dal XV secolo. I mestieri
sono incentrati da sempre sullo spettacolo viaggiante
(circhi, giostre, acrobati, giocolieri, musicanti) e altre
forme di lavoro meno diffuse quali la fabbricazione di
cesti in vimini, impagliatura di sedie, vendita porta a
porta, lettura della mano, questua.
ROM
I rom sono divisi in numerosi gruppi con caratteristiche
anche molto diverse tra loro. Provengono dall’Europa
centro-orientale: Romania e regioni della ex-
Jugoslavia (Macedonia, Montenegro, Bosnia, Serbia).
Con molta approssimazione possiamo dire che i rom
si dividono in due grandi gruppi: «karakhané» di religione
musulmana, «daxikané» di religione cristiana-
ortodossa.
In questi ultimi anni, sono aumentati i rom «profughi» a causa della guerra nelle regioni della ex-Jugoslavia.
Inoltre, vi è stato un consistente arrivo di
rom rumeni dal 1998.
CAMMINANTI
È una popolazione nomade per gran parte dell’anno,
principalmente insediata in Sicilia. Esercitano
piccoli commerci ed offerte di prestazioni artigianali
a sostegno dell’economia domestica.
Hanno le origini e la residenza nella Sicilia orientale,
in particolare nelle città e province di Siracusa,
Messina, Catania; cospicuo il gruppo che si autodefinisce
«camminanti di Noto».
Sostengono di avere sangue zingaro nelle vene. Riconoscono
di avere «origini sinte», ma ci tengono a
distinguersi dagli altri zingari in quanto il nomadismo
è praticato solo nella buona stagione, mentre in
autunno – inverno vivono in luoghi in cui hanno edificato
case confortevoli.

FONTE DI DISTURBO E DI CONFLITTO
L’impatto tra la cultura di questo variegato popolo
e la società attuale, dominata dal modello tecnologico,
ha dato origine ad una forte crisi d’identità.
Gli zingari presenti alla periferia delle nostre città finiscono
per essere vissuti come fonte di disturbo e
di conflitto sociale. L’attuale bisogno di sicurezza da
parte dei cittadini accentua questi problemi così essi
divengono spesso il capro espiatorio dei problemi
esistenti.
Spesso anche le amministrazioni comunali più attente
ai loro problemi non riescono a fornire risposte
adeguate e soddisfacenti, rispettose delle esigenze
di vita del popolo zingaro. Per questo è fondamentale
il ruolo assunto da diverse organizzazioni di
volontariato che svolgono, in modo difficile e delicato,
un ruolo di mediazione ai fini di favorie l’integrazione.
Tuttavia, mai come ora l’esistenza degli zingari è in
pericolo. Sono un popolo sempre più emarginato,
deprivato della propria identità e ridotto in condizioni
degradanti anche a causa delle rapide trasformazioni
sociali le quali non consentono di adeguare
alle nuove esigenze i moduli tradizionali della loro
cultura.

Silvana Vergnano




Inchiesta sui nomadi: giudizi, pregiudizi, realtà

SUORE, SORELLE, ZINGARE
Vivono in una roulotte in un campo alla periferia di Torino. Con i nomadi condividono
i problemi della quotidianità e della sopravvivenza. Questa è la storia di due sorelle
che dal 1979 hanno scelto di mettere la loro vita di donne e suore al servizio di gente
che non conta e che anzi viene considerata inferiore, deviante, fuorilegge.

«Condividere la vita degli
ultimi, dei più poveri,
della gente comune».
Questa è stata la spinta iniziale che
ha condotto due sorelle, Carla e Rita,
suore della congregazione di san
Luigi di Alba, ad abbandonare la
vita abituale per dare sempre più
concretezza alla loro vocazione.
Dal 1979 vivono in una roulotte
alla periferia di Torino. Acqua e
servizi sono rigorosamente fuori, al
freddo. Il calore lo produce una
stufa (per la quale occorre procurarsi
gioalmente la legna), ma anche
i tanti visi allegri e sorridenti
dei bambini, che ogni attimo si affacciano
alla porta e irrompono
dentro: per avere una carezza, parlare
un po’, mangiare un dolce, vedere
chi c’è.
Mitezza, cordialità, fratellanza è
quanto avverti incontrandole. Se ti
fermi a parlare con loro un gran
senso di pace e serenità ti inondano,
perché questo è il loro abituale
stato d’animo che emerge anche
nei momenti difficili.
Queste due semplici suore hanno
compiuto una scelta coraggiosa,
non facile e, spesso, impopolare,
che motivano così.
«La ragione profonda della
nostra vita con i rom e
i sinti, sta nell’incarnazione
di Gesù, in tutto simile a noi
fino alla morte; sta nella parola di
Dio.
Nella lettera ai Filippesi è scritto:
“Cristo Gesù, pur essendo di
natura divina, non considerò un tesoro
geloso la sua uguaglianza con
Dio, ma spogliò sé stesso assumendo
la condizione di servo e divenendo
simile agli uomini…”.
È la parola di Dio che ha ispirato
l’inizio del nostro cammino, che
si è fatta carne nella nostra quotidianità,
e ancora oggi ci sostiene
specie quando la resistenza nel
quotidiano si fa più pesante, incomprensibile
e assurda anche a
noi stesse; quando verrebbe voglia
di tentare altrove, questa parola ci
fa sentire più forte il legame con il
nostro popolo, un legame che non
si può spezzare facilmente.
Noi crediamo fermamente che la
vita religiosa non è un ruolo, né
principalmente un ministero, ma
un carisma, un dono che Dio fa alla
sua chiesa, e come tale lo vogliamo
accogliere senza etichette o apparati
che di fatto separano dalla
gente.
Vita religiosa come profezia, suppone
una scelta di luogo, di persone,
di stile. Abbiamo scelto rom e
sinti e le persone legate alla loro vita;
i campi sosta, le strade talvolta
le cose e i luoghi in cui queste persone
vivono. Ci poniamo lì come
un poco di lievito che nel silenzio e
nel segreto fermenta la pasta.
Come in punta dei piedi condividiamo
la loro vita, ci accogliamo
e ci stimiamo vicendevolmente con
simpatia. La nostra vita non è fatta
di grandi attività e impegni pastorali.
I problemi e gli impegni sono
quelli della quotidianità e della sopravvivenza.
Una quotidianità fragile, imprevedibile
e semplice, ma nello stesso
tempo solenne e festosa come
non è facile trovare nella nostra cultura
fatta più di concetti e idee
astratte.
Potrà sembrare una perdita di
tempo lo stare in accampamento
più silenziose che loquaci, più titubanti
che sicure, più discepole che
maestre; essere lì non come benefattrici,
ma come sorelle, quasi come
bambini che apprendono la lezione
della vita, dell’ospitalità proprio
da persone da molti
considerate inferiori, devianti, fuorilegge.
Pensiamo che non si parli solo
con la parola, ma anche ascoltando
la parola che sta all’interno del silenzio,
che ci insegna a porgere l’orecchio,
ad aprire gli occhi per vedere
ciò che sale dal basso e riconoscere
nei gesti concreti della vita,

tanti luoghi in cui Dio opera e si rivela,
e scoprire anche e soprattutto
l’acqua viva che disseta.
Si impara in questo lento e lungo
ascolto a non fare di nessuno, nemmeno
dei poveri, un mito (cogliendo
tutto senza spirito critico), ma
viceversa a vedere il bello e il meno
bello come parte costitutiva della
natura umana.
Così, cammin facendo, siamo
state condotte dalla vita allo stile
della debolezza, di chi “non fa udire
in piazza la sua voce e non spegne
il lucignolo fumigante”, di chi
si china per adorare e anche per
raccogliere i “semi del Verbo”
sparsi anche nella cultura rom, per
scoprire i germogli che crescono:
come donne ci sentiamo particolarmente
chiamate a raccogliere la
vita in tutte le sue espressioni e a
proteggerla, coltivarla e celebrarla.
Partendo da una posizione di
piccolezza e fragilità, imparando a
riconoscere la nostra debolezza,
possiamo accettare anche quella
delle nostre amiche e amici per farla
nostra come ha fatto il Cristo,
perché la trasformi in storia di misericordia
e di salvezza.
Questo diventa per noi un linguaggio
per dire l’amore di Dio ed
il suo sogno di fare del mondo una
famiglia più fratea e più giusta;
tutto questo, poco a poco, produce
in noi dei solchi profondi che ci
fanno intravedere un Dio un po’
diverso da quello che pensavamo
di conoscere, e ci fa anche meno sicuri
sul luogo in cui è nascosto il tesoro
di cui parla il vangelo.
Il Dio che si incontra in questo
luogo non è più il Signore onnipotente
e forte, ma piuttosto il Dio
dell’incarnazione, della passione e
della resurrezione.
E anche il nostro cammino spirituale
è debole e fragile così come si
presenta la vita di coloro che non
contano e sono ai margini.
Ci accorgiamo ogni giorno che è
necessario cambiare i nostri schemi
mentali, lasciarci convertire e
porci in un continuo atteggiamento
di preghiera, di supplica, di perdono,
di pace e di ringraziamento
per averci fatto dono di stare qui.
Lo stare davanti a Dio con loro e
anche a nome loro, è quanto di più
grande possiamo fare. Questo è il
nostro stile: quello di sederci accanto,
di camminare insieme, con
la nostra umanità, e vedere nell’umanità
il luogo della presenza di
Dio e i frutti dello Spirito».
ATorino la questione del momento
è lo spostamento del
campo nomadi dall’Arrivore
a via Germagnano. Carla e Rita
mi dicono che anche loro hanno
cercato di far capire l’inadeguatezza
del nuovo campo.
Secondo le due suore luigine sarebbe
meglio risistemare il campo
dell’Arrivore dove i rom sono già
abituati a vivere. Pensano che occorra
partire da loro, rispettare le
loro scelte; al tempo stesso, è assai
importante responsabilizzarli, richiedere
il loro impegno (per
esempio, nella cura e mantenimento
del campo).
Occorre cercare (come in parte
si sta facendo) di dar loro gli strumenti
adeguati ai fini di favorie
l’integrazione. Le borse-lavoro, ad
esempio, sono una soluzione parziale
spesso utilizzata principalmente
per ottenere il permesso di
soggiorno.
Le istituzioni pubbliche dovrebbero
andare maggiormente ad incentivare
le reali potenzialità di
queste persone. Ad esempio, puntando
a favorire lavori che facciano
leva sulle loro capacità artigianali.
Anche l’idea di far vivere gli zingari
all’interno delle case popolari
a Carla e Rita (che al campo continuano
a vivere) appare come una
scelta pilotata o un po’ forzata.
Spesso le persone obbediscono
per paura che il campo venga
sgomberato e poi non si sappia più
dove andare.
L’ipotesi, già proposta anni fa, di
consentire l’abitazione in vecchie
cascine potrebbe essere la soluzione
ideale in quanto rappresenta
una via intermedia fra l’alloggio vero
e proprio e il campo. La cascina,
infatti, consente di mantenere la vita
comunitaria del clan (accendere
il fuoco la sera, fare le feste, le cene
comuni, ecc.) e permette di sentire
ancora vivo quel senso di libertà
che è insito nello spirito nomade.

«PER LORO ESISTE L’OGGI»
Incontro con il professor Secondo Massano,
responsabile dell’«Opera nomadi» di Torino.

Ex preside, oggi in pensione, il professor Secondo
Massano a riposo non lo è affatto, essendo
impegnato quotidianamente nella sede dell’Opera
nomadi di Torino.
Il suo impegno è rivolto non solo a raccogliere e documentare
la storia e la cultura zingara, ma soprattutto
a schierarsi in prima persona per difendere
i diritti di questa gente.
Ha iniziato ad essere loro amico dai tempi della
scuola, girovagando per strade, mercati, campi sosta
con l’intento di convincere le famiglie zingare
sull’importanza di mandare i loro figli a scuola. Ancora
oggi continua a spendere molte energie per
realizzare un servizio di mediazione e integrazione
dei bambini zingari nelle scuole.
Nelle giornate di lavoro presso la sede dell’associazione
il compito principale del professor Massano
è quello di ascoltare i nomadi quando vengono
ad esporre i loro problemi. Per
tutti ha un gesto affettuoso, un incoraggiamento
paterno, foendo
quando occorre anche un piccolo aiuto
materiale.
Conosce bene queste persone e ne sa
distinguere i lati positivi, ma al tempo
stesso non nega i loro difetti.
Sul problema dei luoghi dove accogliere
i nomadi, il professor
Massano risponde: «Noi come Opera
nomadi avevamo cercato di portare
avanti la possibilità di consentire l’insediamento
dei nomadi in vecchie cascine.
Purtroppo, il progetto si è perso
per strada.
Una soluzione al problema credo sia
favorire la scelta di andare a vivere nelle case popolari.
Ormai molte famiglie ne fanno richiesta e
già diverse hanno fatto questa scelta.
Senza dubbio non è facile per loro che amano vivere
liberi, in grandi spazi, a stretto contatto con il
resto del clan. Naturalmente la scelta delle case
popolari implica tutta una serie di responsabilità
cui queste persone sono poco avvezze: avere un lavoro
fisso, rispettare le regole, tempi di pagamento,
avere un minimo d’istruzione.
I nomadi infatti tendono a vivere nel presente, al
massimo c’è un passato. Per loro esiste l’oggi, forse
il domani. Non pensano al futuro, non sono abituati
a programmarlo, ad organizzarsi in funzione
di esso. Per questo è fondamentale continuare l’opera
di mediazione, seguirli, affiancarli, responsabilizzarli.
Per anni la nostra città ha rappresentato un modello
sia per quanto riguarda la gestione dei campi,
sia per l’integrazione scolastica dei nomadi».
Al responsabile dell’Opera nomadi chiediamo un
parere anche sul problema della diserzione scolastica
provocata dall’entrata in vigore della legge
Bossi-Fini.
«Il comune di Torino – risponde Massano – ha fatto
e fa molto per loro tramite l’Ufficio stranieri e l’Ufficio
mondialità in particolare per quel che riguarda
l’educazione ed integrazione dei bambini nelle
scuole.
L’alfabetizzazione dei nomadi è importante anche
al fine di tutelae la storia e la cultura. Diversamente
esse rischiano di perdersi poiché fino ad ora
sono state tramandate solo oralmente.
Si spendono tanti soldi per mandare i bambini nomadi
a scuola e da metà gennaio si sta registrando
un netto calo delle presenze nelle scuole. Che vergogna
essere in questa situazione a causa di una
legge!».

«LASCIATECI VIVERE!»
Non hanno molte esigenze. Si accontentano di avere un posto in un campo della
periferia. Spesso sono sporchi perché fanno lavori che gli italiani non vogliono fare. Oggi molti zingari non dormono più nelle loro abitazioni. Hanno paura che vengano a portarli via. Con la legge Bossi-Fini, la vita è diventata una fuga quotidiana. Dicono: «Lasciateci vivere!». Ma per vivere è necessario il… «permesso di soggiorno».

«Sono una profuga – racconta
Fadila -, arrivata a Torino da Banja
Luca. Dopo aver abitato al campo
dell’Arrivore, sono passata nelle
case popolari. Sono senza lavoro e
per mangiare vado a vendere robe
vecchie nei mercatini. Oggi, purtroppo,
molti di noi debbono scappare
perché sono senza il permesso
di soggiorno».
VOIKAN
«Stiamo scappando da troppo
tempo – dice Voikan -. Credo sia
giunto il momento di dire “Basta!”.
Usciamo sulle strade e ci definiscono
“zingari”. Senza guardare da
dove veniamo, di quale cultura siamo
portatori, quale religione abbiamo.
Io ho sbagliato a suo tempo a non
sostenere la proposta di legge che
mirava a riconoscere il nostro popolo
come minoranza etnica (dicembre
’92; la proposta di legge
presentata da Rifondazione comunista
non ha mai avuto seguito,
ndr)».
FRANCESCO
«Io sono sinto – racconta Francesco
-. C’è un nostro campo sul
Sangone. È lì da trent’anni, ma non
risulta inserito in nessun piano regolatore.
Si pensa che tanto noi
possiamo vivere comunque.
Non è così. Noi siamo persone
come le altre: viviamo e respiriamo
come voi. Per questo vi chiedo:
“Lasciateci vivere! Lasciateci abitare
dove stiamo. Siamo tutti nomadi
a questo mondo».
JONKO JOVANOVICIL
«Mio figlio – racconta Jonko, vicepresidente
dell’associazione Aizo
– è nato nel 1981; non conosce i
furti; ha fatto le scuole e pratica
sport. Ora, dopo i 18 anni, non può
più giocare al calcio perché è straniero.
Ma che cosa sono i nostri figli?
Senza diritti, anche se sono nati
qui. Il lavoro? Ma come posso trovare
un lavoro se lo stanno togliendo
anche agli operai della Fiat?
Noi siamo a Collegno e possiamo
affermare con orgoglio che ogni famiglia
ha dato il suo contributo per
il campo. Paghiamo i servizi come
tutti.
Quando vediamo arrivare una
pattuglia di vigili, ci tocca abbassare
la testa, perché non abbiamo il
permesso di soggiorno. Io sono entrato
in Italia con documenti validi
e ora mi tocca vivere così. Con paura
e vergogna».
PATRIZIA
«Mi piacerebbe vivere in una casa,
perché è pulita e confortevole.
Non occorrerebbe più spaccare la
legna per scaldarsi.
Provengo dalla ex-Jugoslavia, ma
sono nata qui. Ho il permesso di
soggiorno, ma molti altri non ce
l’hanno. Così scappano. Scappano
quando arrivano i vigili. Scappano
mattina e sera. Con i bambini. Vanno
a dormire nelle macchine.
Così è la nostra vita. Solo scappare.
Marisa e Franco hanno fatto la
carta come apolidi, ma secondo me
hanno fatto male perché così non
sono più di nessuna nazionalità.
Hanno fatto questa scelta, perché
era un mese che scappavano.
Qui al campo dell’Arrivore è bello
perché attorno ci sono i prati. Se
soltanto sistemassero i bagni, staremmo
bene. Se tutto fosse a posto,
io preferirei restare qua dove sono
nata».
ZAIM
«Io abito in una casa, ma non sono
contento. Quando l’ho vista, ho
detto: “Non la voglio”. I funzionari
mi hanno risposto: “La devi
prendere per forza, altrimenti ti togliamo
il permesso di soggiorno”.
Mi hanno messo in una casa per
forza. Adesso vengo al campo di
giorno a lavorare. Nella casa vado
solo di notte, per dormire. Perché
non mi piace? Perché io sono cresciuto
qui in mezzo ai campi.
Con questa scusa dei permessi di
soggiorno, ci fanno scappare via.
Così più persone scappano meno
persone hanno da sistemare…».
GIULIANA
«Non è giusto dare il permesso di
soggiorno soltanto ad alcuni, escludendo
altri.
Se tu vieni qui la sera vedi bambini
scalzi, nudi. Non mangiano
più pasti caldi. Scappano in continuazione.
Non dormono da 20
giorni nelle loro abitazioni. Scappano
per le strade. Scappano dai
vigili e dalla polizia. Non è giusto.
Se siamo nati qui almeno lasciateci
stare. Io sono nata in Italia, a Brescia.
Sono 27 anni che sono qui all’Arrivore
e ho quattro figli.
Lavoro come le altre donne tenendo
i micro-nidi. Aiutate da assistenti
sociali, guardiamo i bambini
delle altre donne quando queste
vanno a chiedere l’elemosina o a lavorare
e non possono portarsi i
bambini con sé. Lavoriamo in un
container. Ma ora purtroppo
questo lavoro non c’è più
perché sono tutti scappati».
FATIMA
«Non vogliamo ritornare nel nostro
paese, dato che là non abbiamo
più niente: né terra, né casa, né cibo.
Io ho il permesso di soggiorno,
ma tanti qui sono senza. Gli italiani
disoccupati non lo sono per colpa
degli zingari. Gli zingari si occupano
di cose che agli italiani non interessano.
Qui, ad esempio, gli uomini
lavorano il ferro e il rame. È un
lavoro che gli italiani non fanno
perché ci si sporca sempre. Ci sono
60 famiglie in questo campo. Io è 16
anni che sono ferma qui, ma altri lo
sono da più tempo: 20-27 anni. Noi
paghiamo tutto: luce, acqua. Non
paghiamo il terreno, ma se ci chiedono
di pagarlo per rimanere qui lo
facciamo. Io ho quattro figli, che lavorano
nella demolizione. Hanno la
licenza e pagano le tasse. Cosa chiediamo?
Solo una cosa: vivere».

SPARITI!
Scuola / Gli «effetti collaterali» della legge Bossi-Fini

Sì, da circa metà gennaio i bambini nomadi della mia scuola
(circoscrizione 6 di Torino) sono spariti. Strano. Infatti
è proprio in inverno che noi insegnanti ne rileviamo la
maggiore frequenza. Come si spiega questo fenomeno?
I bambini non sono rintracciabili ai soliti recapiti. Anche i responsabili
del servizio di cornordinamento non ne sanno nulla. È
però facile immaginare che non frequentano più la scuola perché
le loro famiglie sono prive del permesso di soggiorno e pertanto
cercano di rendersi irreperibili per evitare di essere prese
e cacciate dall’Italia. Questo è un grave «effetto collaterale»
prodotto dall’applicazione della legge Bossi-Fini.
Il dispiacere circola tra tutti noi – insegnanti, educatori e volontari
-, che abbiamo lavorato per favorire l’inserimento nelle
strutture educative del popolo nomade.
In questi anni si era fatto molto per l’integrazione scolastica e
come insegnante debbo ammettere con piacere che il servizio
funzionava piuttosto bene.
COME FUNZIONA (O FUNZIONAVA)
I bambini vengono accompagnati a scuola da mediatori. L’Ufficio
mondialità funge da supporto e cornordinamento del servizio
ed è a disposizione delle scuole per ogni richiesta d’informazioni,
chiarimenti, accertamenti.
Nella mia scuola inizialmente non è stato
facile far accettare la presenza dei
bambini nomadi. In partenza vi erano
forti rigidità sia da parte del personale,
che dei genitori. Talvolta anche da alcuni
insegnanti.
I pregiudizi, i timori sono spesso più forti
della nostra stessa volontà di superarli
e ci condizionano. Gradualmente però
le divergenze si sono appianate e vi è stata
un’accettazione affettuosa di questi
bambini da parte di tutta la comunità
educante.
Questa è la riprova che sono i nostri pregiudizi
a bloccarci. Il contatto a tu per tu
fa scoprire il diverso come altro da sé, ma
allo stesso tempo uguale, quindi portatore
come noi di bisogni, ma anche di ricchezze.
Specialmente gli operatori, incaricati della
cura di questi bambini dal punto di vista
igienico, hanno progressivamente superato
le loro paure e istintivamente sono
scattati in loro atteggiamenti matei
e protettivi.
E i bambini tra loro? Questo ostacolo è
stato uno dei primi ad essere superato.
Anche perché i bambini non posseggono
ancora (per fortuna) tutte le sovrastrutture
mentali di noi adulti.
C’è stata qualche difficoltà iniziale: i
bambini si guardavano quasi a scrutarsi,
avvertivano istintivamente qualcosa di
diverso da loro e si evitavano. Poi la simpatia,
la giovialità e giocosità nomade
hanno favorito l’integrazione. Così anche
Patrizia e Bruno sono diventati parte
del gruppo. Noi insegnanti fatichiamo sempre un po’ a far
comprendere le regole della vita scolastica ai bambini nomadi,
abituati ad una vita molto libera e all’aria aperta, ma debbo dire
che le nostre fatiche sono state ampiamente ripagate dai risultati.
DOV’È FINITA PATRIZIA?
Patrizia, ad esempio, si è inserita molto bene ed ha interiorizzato
meglio di altri bambini i comportamenti positivi, le regole
della vita comunitaria, ed esige da noi insegnanti che nulla ci
sfugga di tutte quelle cose che la fanno sentire uguale ai compagni
(grembiulino, bavagliolo, pantofole, capelli in ordine…).
Ha acquisito il concetto di ordine, un comportamento corretto
a tavola, esprime interesse ed iniziativa creativa durante le attività
didattiche.
Ora che stava per avviarsi alla scuola elementare si mostrava
desiderosa di apprendere la scrittura. Scrivo al passato perché
Patrizia non è più presente a scuola e non sappiamo nulla di lei.
È forte il dispiacere che proviamo noi insegnanti nel vedere interrotto
un lavoro educativo che avrebbe certamente favorito
un inserimento positivo e costruttivo di questi bambini in una
società che sarà sempre più multietnica.

Silvana Vergnano




Attraversando l’isola-continente dell’Australia

SOTTO LO SGUARDO DEI CANGURI
«Vagando in solitudine
ho conversato
con me stesso,
e queste sono
le mie parole»
(da una ballata australiana).

Un paese di compagni (o quasi)
Gli aborigeni vi risiedono da circa 40 mila anni.
Ma alla fine del 1700 la loro esistenza viene sconvolta per sempre.
L’Australia diventa specialmente bianca, grazie allo sbarco
di alcune centinaia di galeotti e soldati agli ordini del re d’Inghilterra.
Oggi le cose stanno mutando:
primo, perché ai pronipoti dei criminali si sono aggiunti nuovi immigrati;
secondo, perché gli aborigeni dicono: «Questa terra è innanzitutto nostra!».

È un’isola-continente… In un articolo
corposo apparso su Time
(25 settembre 2000), in occasione
delle olimpiadi di Sydney, lo
scrittore e critico d’arte Robert Hughes,
australiano, residente da circa
30 anni negli Stati Uniti, ha evocato
i pregi e difetti dell’Australia come
soltanto un nativo può fare.
Contrariamente a quanto tutti hanno
pensato, i giochi olimpici non sono
stati per gli australiani l’occasione
per richiamare l’attenzione su di
essi, un evento per diventare sempre
di più come gli americani. Nonostante
la forte tradizione sportiva, l’importanza
dei giochi è stata inferiore
a quella di altri avvenimenti.
Non esiste per gli australiani, sia
realisti sia idealisti, il coinvolgimento
nella teoria dell’«eccezionale».

LAICI E «PAGANI»
La colonizzazione dell’Australia
iniziò con lo scarico di criminali britannici.
La differenza con la colonizzazione
americana fu profonda, perché
l’avventura nelle terre degli indios
si tramutò quasi in un’impresa
religiosa, una missione per liberare il
mondo dal peccato e creare il paese
di Dio. Invece, di fronte agli «australiani
», non c’era alcuna aspettativa
morale, ma nemmeno un‘angosciosa
delusione.
Ancora oggi gli australiani tendono
ad essere «pagani»: accentuano
l’etica del piacere in ogni
aspetto della vita; lo fanno, forse,
perché favoriti dalla natura, dal delizioso
clima delle coste (dove vive il
90% della popolazione), da una cucina
raffinata e da superbi vini; sono
esaltati dalla possibilità di praticare
sport in condizioni ottimali (lo spettacolo
della sabbia dorata e dei surf
che battono le onde è seducente).
La cultura è estremamente laica.
L’istruzione statale è eccellente e
nessun sussidio è dato alle scuole
confessionali. La predicazione sulla
«vita eterna» è debole e inascoltata,
malgrado qualche piccolo
effetto sui giovani a causa dell’influenza
culturale americana… Le
elezioni politiche costano pochissimo,
e non è necessario essere ricchi
per finanziarsi la campagna elettorale.
Non esistono scandali che rivelino
l’ipocrisia di apparire in pubblico
diversi dal privato.
Il maschio australiano, come il protagonista
del film Crocodile Dundee
(l’uomo della selva, con il tipico cappello
in testa, il volto abbronzato e
spesso deturpato dal melanoma, provocato
dall’eccessiva esposizione all’ultravioletto),
non coincide con la
realtà. L’«australiano tipo» è un giovanottone,
buon lavoratore (ma senza
stress), con moglie e due figli, un
mutuo per pagare il bungalow di mattoni
(il più vicino possibile alla spiaggia),
il tosaerba, il computer. I bambini
incontrano il canguro solo allo
zoo, o come vittima della strada.

AMICI SENZA DIFFERENZE
Alcune caratteristiche dell’australiano
moderno derivano dal suo passato,
quando i nonni vivevano nella
foresta e i bisnonni erano galeotti deportati
dall’Inghilterra.
Il valore riposto nell’amicizia, per
esempio, ebbe inizio nel duro mondo
delle colonie penali, continuò nel faticoso
lavoro in foresta come allevatori,
pastori, tosatori. Avere un amico
significava sopravvivere e tradirlo
essere meno di un uomo: questo era
il teorema della vita coloniale. Le sue
tracce sono ancora molto vive oggi.
Mate (compagno) è la parola più
comune; gli australiani riescono a ficcarla
in ogni situazione, e per questo
tutto il mondo li prende in giro. Tuttavia
è bello sapere che esiste un
continente dove il termine più usato
è «compagno», perché sottintende
uno stile di vita rilassato e aperto,
degno di essere esportato ovunque.
Un’altra espressione comune
è no worries
(non c’è problema).
La gente la
usa pure per dire
«prego».
Il rovescio
della medaglia
è costituito
dall’avversione
ad ogni forma
di élite: un’avversione
che è
pregiudizio, assurda
negazione dell’abilità,
intelligenza e competenza
incluse nel funzionamento
di ogni società.
In Australia le classi esistono (anche
se spesso si afferma il contrario)
fin da quando i «nati liberi» si sono
opposti ad abbandonare la loro posizione
di superiorità sugli ex condannati
e i loro figli. Però una sorta di
miopia intellettuale produce un’indifferenza
(che sovente rasenta il disprezzo)
verso chi si distingue per i
risultati raggiunti. Unica eccezione è
lo sport, vera religione dell’isola-continente.
Di conseguenza l’Australia non ha
mai onorato i suoi scrittori, pittori,
musicisti e intellettuali, che sono per
lo più sconosciuti all’estero. Soltanto
l’arte aborigena contemporanea
suscita qualche attenzione
oltremare; ma questo è da
inserire nel fenomeno della
rivalutazione di ogni «arte
tipica», da tempo comune
a tutto il mondo.
I sofisticati milionari di
Inteet di oggi non sono
molto diversi dai loro
antenati, minatori, nella
corsa all’oro di Ballarat del
1851. Lo stile di produrre
ricchezza contiene la convinzione
che la superiorità è fortuna,
e il gioco ne è la metafora
perfetta. Gli australiani,
infatti,
sono fra i più accaniti
giocatori
del mondo.

LA REGINA,
NONOSTANTE TUTTO

Oltre che culturalmente, l’Australia
è oscura anche politicamente: raramente
occupa spazi di rilievo sui quotidiani
stranieri. In definitiva gli australiani
si comportano abbastanza
bene, non hanno avuto guerre civili,
non sono stati invasi (però ci sono
solo andati vicino durante la seconda
guerra mondiale a causa dei giapponesi),
sono carenti di scandali politici
e corruzione, non costituiscono
una minaccia per alcuno, né sconvolgono
il mondo economico con i loro
interessi.
Non provano risentimento verso la
Gran Bretagna, colonialista, che li ha
costretti ad esportare lana e grano a
basso costo, e hanno pagato un pesante
pedaggio di uomini durante la
prima guerra mondiale: il più alto di
tutti gli alleati sia in proporzione ai
soldati che alla popolazione.
Capo di stato è il sovrano d’Inghilterra,
appartenente ad una ricca casata
anglo-germanica conosciuta come
Windsor. Il re governa tramite il
governatore generale, non eletto dal
popolo, che può abolire qualsiasi legge
emanata dal governo australiano,
addirittura dimetterlo e indire nuove
elezioni (avvenne nel 1975).
Nonostante tale anacronistico regime
di tipo coloniale, il referendum
del 1999 si è pronunciato a favore
della monarchia inglese, contro ogni
pronostico (si prevedeva il 70% per
la repubblica). Una logica strana ha
portato il 54% dei votanti a ritenere
più vantaggioso e democratico avere
come capo un ricco sovrano straniero
e ritenere, al contrario, insicuro un
presidente australiano sostenuto da
un governo eletto dalla base: e questo
sempre per la scarsa considerazione
nei riguardi dei «migliori».
I monarchici hanno vinto non perché
gli australiani siano particolarmente
devoti alla regina, ma perché
fra i repubblicani hanno prevalso le
divisioni e non vi è stato accordo sul
tipo di repubblica da appoggiare e
sulle modalità del sistema elettorale.
L’Australia è inoltre povera di simboli.
Si vorrebbe cambiare la bandiera
nazionale, eliminando da essa
il jack dell’Unione, ma non c’è accordo su un nuovo stemma. Le stesse
mascottes delle olimpiadi sono state
banali. A parte il canguro o il koala,
l’Ayers Rock (la più straordinaria
pietra del mondo), la barriera corallina,
l’Opera House di Sydney e
l’Harbour Bridge, si stenta molto a
fissare un’identità culturale.
Eppure gli australiani, così antielitari,
vogliono personaggi da ammirare.
«Se non abbiamo la regina, chi
possiamo rispettare?…»: si ripeteva
nella campagna elettorale del 1999.
Però un decreto del 1986 definì
la Gran Bretagna «paese straniero» e i vincoli economici con questo
paese, seppure non trascurabili, stanno
perdendo importanza rispetto a
quelli con il vicino nord-asiatico.
È dunque questione di tempo: la
monarchia in Australia finirà, come
la stessa Elisabetta II ha ammesso
durante la sua ultima visita all’indomani
del referendum pro o contro la
monarchia. L’anglo-australiano, leale
verso il re, ha tenuto fino a mezzo
secolo fa, quando il 90% degli australiani
era di discendenza inglese.

IMMIGRATI E ABORIGENI
L’infausto provvedimento, secondo
il quale nessun asiatico o discendente
da neri poteva stabilirsi in Australia,
fu abbandonato nel 1960.
Ora l’immigrazione fa il suo corso
e interi sobborghi di Sydney sono enclaves
del sud-est asiatico. Superata
l’iniziale xenofobia e il disagio per le
mescolanze etniche, nel paese si sta
affermando l’idea di multiculturalità
in versione australiana. Sono soprattutto
i più giovani a concretizzare tale
parola, altrove fonte di fumosi discorsi.
Essi capiscono, in modo istintivo,
che il desiderio di avere uguali
possibilità di affermazione riguarda
anche gli immigrati, compresi quelli
di colore diverso.
Fin dagli anni ’50 nella politica australiana
lo spettro era il comunismo:
si temeva un sovvertimento; il «pericolo
rosso» era efficacemente agitato
dai politici conservatori a proprio
beneficio. Oggi anche questo è passato,
e l’Australia sta affrontando un
altro tema scottante: l’identità e i diritti
degli aborigeni, nonché il dovere
di rievocare una storia cupa e crudele.
Circa il 2% dei cittadini è aborigeno:
390 mila persone su 20 milioni;
una piccola minoranza senza
poteri economici, politici e culturali.
Non ci sono aborigeni ricchi, proprietari
di giornali o a capo di compagnie.
Su 224 membri del parlamento
di Camberra, solo uno è negrito.
L’influenza aborigena viene
esercitata (soprattutto attraverso comitati
e tribunali) con l’aiuto di
bianchi illuminati.
Questo è un fatto notevole, considerato
che i bianchi, dal momento in
cui si stabilirono colà nel 1788, iniziarono
una guerra non dichiarata di
conquista e, contemporaneamente,
negarono agli aborigeni ogni diritto.
Furono cacciati dalle terre dei loro
antenati dai coloni, e uccisi se opponevano
resistenza; molti altri morirono
di malattia o di dolore.
Ma le previsioni sulla loro totale
estinzione furono disattese. Allora la
politica fu diretta, con ogni mezzo,
verso l’assimilazione al potere dominante.
Gli aborigeni furono raccolti
in missioni, rette per lo più da pastori
protestanti, dove veniva loro insegnato
il vangelo e le abitudini dei
bianchi per prepararli a lavori umili,
soprattutto come domestici.
Nel 1910 fu introdotta una vergognosa
politica: sottrarre i bambini
aborigeni alle loro madri per assimilarli,
come orfani, nella società bianca,
privandoli del nome e della possibilità
di rivedere i genitori.
Gli aborigeni non furono citati nella
costituzione australiana del 1901
e, fino al 1962, non ebbero diritto di
voto nelle elezioni federali. Oggi diversi
australiani considerano ancora
gli aborigeni un branco di ladri fannulloni
e rifiutano di ricordare quanto
hanno sofferto nel passato, affermando
che gli australiani odiei non
hanno alcuna responsabilità.

QUARANTAMILA ANNI FA
Gli aborigeni sono un popolo antichissimo.
I loro antenati colonizzarono
l’Australia del nord, arrivando
dal mare circa 40 mila anni or sono.
Al tempo dei primi contatti coi bianchi,
nel 18° secolo, erano circa 500
mila, divisi in tante tribù. Seminomadi,
raccoglitori e cacciatori, conoscevano
il fuoco, usavano bastoni,
pietre e poco altro, con uno sviluppo
tecnologico inferiore a quello dell’Africa
o dell’America Latina.
Ma la loro cultura orale tradizionale
è straordinaria. I loro miti sono stati
tramandati per millenni con sorprendente
continuità e coerenza, come
è documentato dalle loro pitture
murali, simili a quelle di altre grotte
(Altamira, per esempio), ma di decine
di migliaia di anni più antiche. Tali
immagini mostrano come lo spirito
della morte è continuamente assorbito
dalla terra per riciclarsi in nuovi
esseri.
La terra, quindi, per gli aborigeni
è assai di più di un appezzamento
di terreno; la terra è teologia e
identità; non possedee significa
essere nessuno; la terra è l’elemento
chiave nella lotta per i loro diritti.
È occorso molto tempo per portare
i tribunali e il governo ad ammettere
che gli aborigeni possedevano la
loro terra prima dell’arrivo dei bianchi
e che la teoria della terra nullius
non era legalmente valida. Ciò è avvenuto
nel 1992, quando un membro
del clan Merian, nel nord, ha sostenuto
con successo di fronte alla
corte suprema che la sua gente era
là prima dei bianchi e che gli antichi
diritti di proprietà non erano mai venuti
meno.
Le conseguenze sono state immediate
ed esplosive, perché ingenti giacimenti
di minerali (compresi i ricchi
depositi di uranio dell’emisfero sud)
giacciono nel loro territorio. Quasi un
migliaio di rivendicazioni di terra, che
coprono il 50% della superficie dell’isola-
continente, aspettano la decisione
dei tribunali, mentre ogni giorno
ne vengono presentate altre. Questa
valanga di richieste ha causato
una paralisi burocratica. Pochi gruppi
aborigeni accettano mediazioni da
bianchi.
Inoltre non c’è accordo fra loro sull’uso
della terra; alcuni gruppi ritengono
che le terre tribali sono sacre e
non devono essere sfruttate; altri sono
favorevoli allo sfruttamento delle
miniere senza condizioni. Poi c’è il
problema di dimostrare l’originaria
proprietà, poiché solo in rarissimi casi
esiste un documento stilato dopo
che iniziarono le registrazioni. Spesso
la rivendicazione è una semplice
affermazione (autocertificazione),
fatta da aborigeni che addirittura vivono
in un’area completamente diversa.
Questo fa infuriare gli allevatori
australiani, i cui ranches sorgono su
terre di cui non hanno la proprietà,
ma solo la concessione dalla corona
britannica. Infatti la sola esistenza
di una debole rivendicazione di terra,
da parte di un aborigeno, può vanificare
un prestito dalle banche e limitare,
quindi, le possibilità finanziarie.
Perché allora non dare credito
ai bianchi che rivendicano un loro
spirito di unione alla terra, proprio
come gli aborigeni?
Questi ed altri problemi, nonostante
la moderazione dei leaders
aborigeni e la buona volontà
di tanti bianchi, sono lontani
dall’essere risolti. È il compito dell’Australia
nel nuovo millennio, per
diventare definitivamente una grande
nazione.

Anni significativi
1788: giungono i primi britannici e stabiliscono una colonia
penitenziaria a Botany Bay. Gli aborigeni, che popolano
il territorio da circa 40 mila anni, vengono espropriati
delle terre e ridotti in schiavitù.
1830: sono circa 60 mila i galeotti deportati in Australia
(ladri, marinai disertori, oppositori irlandesi, ecc.); devono
lavorare per i proprietari terrieri europei. Le colonie
penali sono anche valvole di sfogo per le tensioni sociali,
generate dalla rivoluzione industriale in Gran Bretagna.
1890-1900: l’urbanizzazione è coronata da uno sviluppo
industriale accentuato, specie a Sydney e Melboue.
I flussi immigratori cambiano la società: nascono una classe
media rurale e una ricca borghesia.
1901: sei colonie britanniche (Nuovo Galles del sud, Victoria,
Australia meridionale, Australia occidentale, Queensland
e Tasmania) si costituiscono in stati indipendenti.
1911: dall’unione delle colonie indipendenti e da altri territori
nasce l’Australia odiea con il nome di «Commonwealth
of Australia». Segue un periodo di prosperità
economica.
1939-45: durante la seconda guerra mondiale cadono
circa 30 mila australiani e 65 mila sono feriti. I rapporti
con il Regno Unito si indeboliscono. Garanti della sicurezza
diventano gli Stati Uniti.
1951: alleanza tra Australia e Stati Uniti, che negli anni
’70 coinvolge il paese nella guerra del Viet Nam danneggiandone
l’immagine a livello internazionale.
1967: referendum che riconosce agli aborigeni il diritto
di cittadinanza. Ma restano sempre discriminati.
Anni ’80: su 100 mila abitanti, i carcerati bianchi sono
67 e gli aborigeni 775, di cui due al mese muoiono. Amnesty
Inteational conferma (1987).
1983: le compagnie minerarie (interessate a diamanti e
uranio) lanciano una campagna contro gli aborigeni; i loro
diritti sulla terra lederebbero gli interessi della nazione.
1995: test nucleari francesi sull’atollo di Mururoa. L’Australia
interrompe i rapporti diplomatici con la Francia.
1999: un referendum popolare decide, con la maggioranza
del 54%, di mantenere la regina Elisabetta d’Inghilterra
a capo dell’Australia… Il paese guida le forze dell’Onu
per pacificare Timor Est.
2000: in occasione delle olimpiadi gli aborigeni protestano
per i soprusi patiti nei secoli. Molti australiani auspicano
una riconciliazione nazionale.
2002: dopo il rifiuto del governo conservatore di John
Howard di accogliere 400 naufraghi afghani (settembre
2001), le Nazioni Unite aprono un’indagine.

Il paese oggi
Superficie: 7.741.220 chilometri quadrati. È il gigante
del continente Oceania.
Popolazione: 20 milioni. I due terzi sono discendenti di
britannici e un terzo è costituito da immigrati asiatici, latinoamericani
ed europei. Gli aborigeni sono circa 390
mila e sono trattati come cittadini di serie B.
Capitale: Camberra (350 mila abitanti). Economicamente
le città più importanti sono Sydney e Melboue,
entrambe con oltre 3 milioni di persone.
Ordinamento dello stato: monarchia parlamentare, con
un governatore generale (designato dal re d’Inghilterra) e
un primo ministro. Due i maggiori partiti: conservatore e
laburista.
Lingua: inglese.
Risorse economiche: ingenti in ogni settore.
?¡ Settore primario: abbondanti i cereali, specie frumento.
Si segnalano anche canna da zucchero e cotone. Importante
l’allevamento di ovini (il paese è il primo produttore
al mondo di lana).
?¡ Settore secondario: il sottosuolo è ricco di minerali (oro,
petrolio, carbone, ferro, lignite, piombo, rame, ecc.). Tra
i «minerali strategici» c’è l’uranio.
?¡ Settore terziario: si esportano prodotti
industriali e agricoli (il paese è il primo
esportatore di carbone, il secondo di lana,
il terzo di frumento).
Il turismo è incoraggiato da convenienti
tariffe aeree e da una buona organizzazione.
Indicatori sociali: l’istruzione è obbligatoria
da 6 a 15 anni; previdenza e assistenza
medica sono gratuite; il servizio
militare (con uomini e donne) è facoltativo.
Reddito annuo pro capite: 20.950 $
USA, inflazione 1,5%; disoccupazione
7,2% (dati del 1999).
Religioni: prevale il cristianesimo, con i
protestanti pari al 42% e i cattolici al
28%. Minoritari sono i cristiani ortodossi,
buddisti, musulmani, ebrei.

NATA SULLA ROCCIA
Le origini dell’Australia dei bianchi

Verso la fine del 1700 l’impero britannico fondò una colonia penale
nel Nuovo Galles del sud, per risolvere il problema del sovraffollamento
delle carceri in patria. Nel gennaio 1788, dopo otto mesi di difficile
navigazione, una flotta di 11 navi gettò l’ancora nella baia di Sydney,
così chiamata dal nome del segretario britannico per le colonie, lord Sydney.
Un gruppo di 1.200 persone (galeotti e soldati con famiglie al seguito)
costituì il primo insediamento bianco del paese. I primi edifici in legno
sorsero lungo alcune sporgenze rocciose naturali e per questo furono
chiamati «The Rocks».
Nel giro di qualche decennio, mentre le deportazioni penali diminuivano,
lo sviluppo rapidissimo dell’allevamento delle pecore (con il conseguente
ricco commercio della lana) incominciò a richiamare anche coloni
liberi.
Nel 1829 fu nominato un governatore, ed ebbe inizio anche la vita
politica. Presto si incominciò ad usare la locale pietra arenaria e sorsero
edifici commerciali, ritrovi ed altre abitazioni. Per oltre un secolo «The
Rocks» furono il crocevia di mescolanze di umanità, ricchi e poveri, galeotti,
militari e coloni provenienti soprattutto da Inghilterra, Irlanda e altri
stati europei, ma anche da Cina ed Estremo Oriente.
Con il crescere della popolazione si diffusero anche il crimine e le malattie.
Nel 1900 la peste bubbonica colpì l’insediamento. Un’altra
minaccia si profilò negli anni ’60 da parte di gruppi di costruttori-speculatori,
che avevano progettato di cambiare per sempre l’aspetto de «The
Rocks» innalzando edifici a molti piani. La protesta popolare, che difendeva
l’importanza dello storico sito, prevalse. Oggi a Sydney la gente del
posto e i visitatori possono godere di un affascinante spazio vivibile in
una delle baie più belle del mondo.
I siti storici come il Cadman’s Cottage (la prima residenza bianca fissa
di tutta l’Australia, che ospita ora un piccolo museo), i magazzini Argyle,
la casa del mercante, il palazzo del governatore… sono stati magnificamente
restaurati e ospitano eleganti negozi di artigianato, piccole gallerie
d’arte e musei, caffè e ristoranti.
Passeggiando attraverso vicoli tranquilli o entrando in vecchi cortili,
mentre si scoprono ad ogni angolo scorci del passato, è possibile ascoltare
gratis ogni giorno jazz dal vivo e assistere alle esibizioni di artisti del
teatro di strada o a deliziosi spettacoli e attività per bambini.
Un monumento in pietra arenaria, costituito da tre personaggi in un
unico blocco (colono, militare e galeotto), ricorda la singolare nascita di
questo popolo, mentre girando lo sguardo si profila a pochi passi la sagoma
dell’Opera House, dell’Harbour Brigde e dei modeissimi grattacieli
delle compagnie multinazionali più importanti del mondo.

Silvia Perotti