Introduzione – Noi ci siamo e contiamo

N egli ultimi 25 anni, per i lettori di «Missioni Consolata», lo stato di Roraima (Brasile) è divenuto quasi un sinonimo di «campagne». Tutte a favore degli indios. Ricordiamo le principali.
p La campagna per gli indios Yanomami del 1979-80. Promossa dai missionari della Consolata, si svolse soprattutto in Italia. Dal nostro paese partirono circa 700.000 lettere e/o cartoline, con oltre un milione di firme, che sollecitavano il presidente della repubblica del Brasile a creare il parco per gli indios Yanomami. Dopo altee vicende, l’obiettivo fu raggiunto nel 1991, allorché il parco fu demarcato e omologato.
p La campagna indios/Roraima, realizzata nel 1988-89 ancora dai missionari della Consolata (a livello europeo), si proponeva la raccolta di firme, da presentare al segretario dell’Onu, per il riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni dello stato; le firme consegnate furono circa 400.000. Inoltre la campagna lanciò il progetto una mucca per l’indio in favore dei Macuxi, Wapichana, ecc., che si concretizzò in 10.000 capi di bestiame (oggi 42.000).
p Ma la caserma no! È la campagna del 2001: si opponeva ad un insediamento militare nel villaggio macuxi di Uiramutã. Purtroppo la caserma fu costruita. Ma gli indios non si sono demoralizzati: incoraggiati anche da oltre 17 mila firme raccolte in Italia (in un solo mese), hanno pressato il presidente Lula per l’omologazione in area continua della regione «Raposa Serra do Sol». Il 28 novembre 2003 Lula ha assicurato che l’area sarà omologata, ma «senza fretta». Tuttavia, il 19 dicembre, c’è stata una doccia fredda: la Commissione «relazioni estere e difesa nazionale» della Camera dei deputati ha approvato il disegno di legge, che consente la costruzione di nuove caserme nelle aree indigene di Roraima. Un passo avanti e due indietro?
p Nós existimos è la campagna in corso, ma con tre novità rispetto alle precedenti. La prima: la campagna è nata e cornordinata in Brasile da realtà locali (diocesi di Roraima, missionari e missionarie della Consolata, Consiglio indigenista missionario, Consiglio indigeno di Roraima, ecc.). Seconda novità: la campagna è «globale», perché investe non solo i popoli indigeni, ma anche i piccoli contadini e i lavoratori emarginati della città; insomma tutti i poveri. La terza novità è, a nostro parere, sorprendente: è una campagna che sta diventando «movimento». Un movimento che continuerà anche quando la campagna chiuderà i battenti.

P er anni abbiamo sentito i popoli indigeni di Roraima affermare: «Vogliamo vivere!». È stato un grido di fronte ad una costante minaccia di morte.
Oggi tutti i poveri dello stato ostentano con giusto orgoglio il fatto di esistere. «Nós existimos e… resistiamo. L’unione di indigeni, lavoratori rurali ed emarginati della città è un segno di cambiamento» dichiarano con forza gli interessati.
E in altre parole: «Noi ci siamo, eccome! Ma soprattutto contiamo. E vogliamo contare sempre di più nella vita del nostro paese».

Francesco Beardi




Una svolta per mutare la storia

Poveri sono gli indigeni,
ma anche i piccoli contadini
e gli emarginati della città.
Tutti bisognosi di terra e lavoro,
di riconoscimento dei loro sacrosanti diritti,
di fronte a politici che, invece, privilegiano
la «Brancocell» (industria della cellulosa
con capitale svizzero-canadese)
o la giapponese «Mitsubishi».
I «piccoli» si arrenderanno ai «grandi»?
«L’unione fa la forza» recita un adagio.
Vale anche per le formiche.

Nelle mire della globalizzazione
Roraima (Brasile) per gli indigeni Macuxi, Wapichana, Ingarikó, Patamona e Taurepang, che abitano questa terra da tempi immemorabili, è la «madre dei venti», la montagna sacra da cui il dio Macunaima fece sgorgare tutti i fiumi che danno vita e alimento. Per i non-indios, che arrivano dal sertão (le zone desertiche dell’interno), Roraima è il «Nuovo Eldorado», uno spazio vergine da colonizzare e occupare, dove trovare acqua e sostentamento per i propri figli. Inoltre, per latifondisti, forze armate e multinazionali, è terra di conquista, l’ultima frontiera da sfruttare, da integrare al resto del paese e «globalizzare».
Secondo Flamarion Portela, attuale governatore dello stato più settentrionale del Brasile, il Roraima rappresenta una fonte ancora non sfruttata di opportunità per tutti, migranti ed imprenditori, soprattutto stranieri.
Con un linguaggio da spot pubblicitario, Portela ritrae Roraima come il luogo dove «il sole splende due ore in più che in qualsiasi altra regione del Brasile; per tale motivo il metabolismo delle piante si accelera e permette, nel caso della soia, di guadagnare circa 19 giorni, tra semina e raccolto, rispetto al centro-ovest e al sud». Ancora, trovandosi nell’emisfero nord, lo stato è capace di produrre soia quando il sud si trova in piena stagione delle piogge, permettendo così una produzione continua.
Soia, parola magica in Brasile, da quando il colosso sudamericano è diventato il primo esportatore al mondo. Soia in parte transgenica, allorché il governo del presidente Luis Ignacio Lula Da Silva (detto Lula) ha varato, soprattutto per le pressioni di Blairo Maggi, governatore dello stato del Mato Grosso (grande imprenditore di soia) e della multinazionale americana Cargill, una misura provvisoria che ne prevede la liberalizzazione in Brasile e l’esportazione.
L’inaspettata (e sofferta) decisione del «compagno» Lula ha scioccato la ministra dell’Ambiente, Marina Silva. Secondo alcuni giornali, Silva in lacrime avrebbe reagito alla notizia così: «Sono costretta ad ingoiare il transgenico, però, se mettono le mani sulle terre indigene, mi dimetto».
A parte il transgenico, Silva non deve avere gradito nemmeno i suoi nuovi compagni di partito, tra cui in primis il governatore di Roraima Flamarion Portela, grande fan del transgenico e degli investimenti di capitale internazionale.
È il caso della Brancocell, industria della cellulosa a capitale svizzero-canadese, che produrrà carta digitale ricavata da 150.000 ettari di acacia mangiun, in mano (anche questi) ad uno svizzero. La produzione, prevista per il 2006, dovrebbe generare 6.000 posti di lavoro ed investimenti per circa 300 milioni di dollari.
Il progetto della Brancocell prevede l’acquisto, da parte dello stato di Roraima (e dei suoi contribuenti), di energia elettrica dal Venezuela, da destinarsi al funzionamento della fabbrica, con acacie capaci di produrre carta di ottima qualità.
Secondo i politici locali, l’industria cambierà profondamente la fisionomia economica di Roraima. Con un investimento di 300 milioni di dollari, l’impresa ha dichiarato che produrrà, nel 2004, 800 tonnellate di carta al giorno; questa sarà esportata verso il mercato europeo ed americano per un fatturato di 120 milioni di dollari. Grazie a ciò, il Pil di Roraima dovrebbe salire del 17%. «Saremo un polo di attrazione per altri investimenti nello stato» ha affermato il direttore della Brancocell.
Il prossimo gruppo ad approdare in Roraima (questa volta per la coltivazione di soia nel lavrado) sarà, con molta probabilità, la giapponese Mitsubishi, con la quale l’ex governatore Neudo Campos aveva avuto frequenti contatti. Secondo Portela, la realizzazione di tale impresa dipende dal trasferimento di terre dall’Incra (Istituto nazionale per la riforma agraria) allo stato di Roraima.
Infine sette grandi produttori di riso (tra cui Luiz Afonso Faccio di Riso Acostumado, considerato il primo nello stato) espandono senza limiti le proprie coltivazioni, fino ad invadere le aree indigene.
Così si incoraggiano monocolture estremamente dispendiose per la produttività del suolo e si danno incentivi fiscali per investimenti stranieri, con possibilità limitate di assorbire manodopera locale, ma con beneficio dei pochissimi todos poderosos di sempre.
Invece, per la popolazione roraimense, non si realizza nello stato alcun programma di sostegno all’agricoltura familiare e di tutela e assistenza dei piccoli agricoltori. Questi migrano senza posa in Roraima, in cerca di un pezzo di terra da coltivare e di una vita più degna.
La terra promessa
Da circa 30 anni il Roraima è invaso da ondate di migranti provenienti da tutto il Brasile, specialmente dal Maranhão, lo stato più povero del nord-est. Gli effetti di tale invasione (circa 1.000 persone al mese) sono preoccupanti.
Secondo l’ex presidente della repubblica, Feando Henrique Cardoso, l’Amazzonia rappresenta tuttora la valvola di sfogo delle tensioni sociali presenti in altre regioni, come dimostra la localizzazione nello stato di Roraima della maggioranza dei lotti di terra distribuiti nell’ambito della riforma agraria da lui proposta.
In verità queste migrazioni forzate evitano oggi, come 40 anni fa, il varo di una vera riforma agraria che elimini, una volta per tutte, lo scandalo del latifondo.
Fino a qualche tempo fa era facile trovare maranhensi al lavoro, come tante piccole formiche, nei garimpos (miniere all’aperto) di Serra Pelada, nello stato del Pará, o nella terra yanomami. Adesso sono loro i migranti per eccellenza del Brasile. Secondo l’Istituto brasiliano di geografia (Ibge), negli anni ’90 circa 700.000 persone hanno abbandonato il Maranhão. La mancanza di incentivi governativi all’agricoltura familiare e il dilagare del latifondo hanno spinto i contadini a lasciare le campagne, trasformandosi in potenziali portatori di conflitti sociali, una volta giunti a destinazione.
Molti agricoltori sono stati cornoptati, con false promesse, nelle stesse terre d’origine e attratti verso il Roraima con l’unico scopo di aumentare i «serbatorni» elettorali del governo locale, e poi abbandonati al proprio destino in insediamenti improvvisati in mezzo alla foresta.
Delle 15.000 famiglie stanziate dal governo Cardoso, 11.000 hanno già abbandonato i lotti che erano stati loro assegnati e sono andate ad allargare le favelas della periferia di Boa Vista. I municipi più distanti dalla capitale si svuotano, determinando una forte concentrazione urbana.
Le ragioni di questo esodo rurale vanno ricercate nella mancanza di assistenza, sostegno e incentivi economici per le comunità stanziate nei lotti; per quanto riguarda il sud dello stato, nelle pressioni dei grileiros (invasori illegali di terre dell’Unione, destinate a progetti di riforma agraria), che minacciano ed espropriano le famiglie, determinando la riconcentrazione della terra nelle mani di pochi.
Verso il
«nuovo eldorado»
Dunque, mentre nel nord-est prosperava l’industria della siccità, nel Roraima emergeva quella dell’immigrato.
Scopo ultimo era quello di riempire un territorio disabitato (siamo nei primi anni ‘80), attirando migranti, principalmente dal sertão nordestino verso il «Nuovo Eldorado» e creare così serbatorni elettorali per i coroneis, appartenenti a grandi famiglie di proprietari terrieri che, trasferitisi in Roraima dal nord-est, avevano creato una nuova élite politica, conservatrice, corrotta e fortemente anti-indigena.
Nel 1991, quando Roraima si trasformava da «territorio» in «stato», la popolazione passava dai 70.000 abitanti del 1980 a 217.000. Così i politici locali disponevano di un elettorato stabile attraverso la costante importazione di miserabili, soprattutto contadini senza terra, posseiros e garimpeiros del nord-est. Intanto questo si spopola, mentre il latifondo avanza.
Da qualche tempo, tale tattica è utilizzata anche nel Roraima. I beneficiari dei lotti di terra nei municipi dell’interno, abbandonati al loro destino, senza incentivi e la minima assistenza sanitaria, lasciano le terre concesse e raggiungono la famiglia rimasta in città, nei quartieri periferici, che per questo motivo crescono a vista d’occhio.
I lavoratori rurali sono stati trasferiti in Roraima con la promessa di denaro facile, terra fertile e appoggio alla produzione.
I lavoratori urbani (ex operatori rurali costretti ad abbandonare lotti e garimpos) e gli indios (che hanno lasciato le loro malocas per vivere in città) sono vittime dell’esclusione sociale; subiscono la violenza della polizia (risultato dell’impunità), le conseguenze dello squilibrio causato dal sovraffollamento nelle città, la disoccupazione, la fame, la mancanza di opportunità e di una politica seria per i migranti.
Molti di loro hanno paura di parlare e si trincerano, pertanto, in una umiliante omertà.
Però… da oltre un anno tutte le sfere tradizionalmente escluse dalla società roraimense (popoli indigeni, piccoli agricoltori ed emarginati urbani) si sono unite nella campagna Nós existimos (Noi esistiamo), per tentare di invertire il quadro di ingiustizia sociale e di costanti violazioni dei diritti umani, combattendo l’impunità di cui godono i criminali e la corruzione che prolifera in ogni sfera della società.
Lo scandalo «cavallette»

È di qualche tempo fa la denuncia della grande truffa conosciuta come «lo scandalo delle cavallette».
La truffa fu architettata dalle massime autorità politiche, amministrative e giudiziarie del Roraima, con la partecipazione di vari signorotti dei municipi più isolati, ai danni delle casse dello stato. Alcune persone (le «cavallette» appunto) entravano in rapporto, grazie a procure, con funzionari veri o fantasma (ne sarebbero stati identificati circa 5.500), inseriti nelle liste di pagamento dello stato, per ritirare in loro vece il salario, che poi avrebbero ripassato al loro «padrone» per avere protezione, una percentuale in denaro e una posizione nel caso di vittoria elettorale.
Le «cavallette», in verità, sono anch’esse delle vittime: persone molto semplici, semi-analfabete, sfruttate da vari politici artefici della truffa, che rimangono con più del 95% dei salari «mangiati» dalle loro «cavallette».
Maria Ivanilde Arruda era una di loro. All’inizio del 2002 aveva chiesto aiuto ad un deputato statale. Per ottenere l’appoggio richiesto, si era dovuta recare presso un notaio, accompagnata dagli assessori del deputato, e aveva firmato una procura a loro nome. Alla fine del mese questi ritiravano il salario di Ivanilde, di 300 euro, lasciandole appena tra i 30 e 60 euro.
L’operazione «cavallette» avrebbe sviato finora 100 milioni di euro dalle casse dello stato. Tra i principali imputati dello scandalo c’è l’attuale governatore, Flamarion Portela, che rischia di perdere l’incarico per impeachment. Gli subentrerebbe Ottomar Pinto, il brigadiere già due volte governatore del Roraima e noto nemico dei popoli indigeni.
Un’alleanza per cambiare la storia
L’alleanza dei tre segmenti, tradizionalmente esclusi dalle politiche economico-sociali dello stato di Roraima, fu ufficializzata al 3° Forum sociale mondiale di Porto Alegre nel gennaio 2003. Tuttavia le sue basi furono gettate attraverso alcuni incontri fra le stesse realtà realizzati nel corso dei mesi precedenti.
Ora gli incontri hanno cadenza fissa (ogni due mesi) e prevedono una rotazione fra le tre realtà ospitanti (indigena, rurale e urbana), nonché uno scambio di esperienze attraverso la visita e la permanenza (di durata variabile) di membri di un gruppo presso la realtà dell’altro.
Il primo incontro ufficiale fra le tre entità fu realizzato alla fine di marzo 2003 nella maloca di Maturuca, in area indigena macuxi.
Qui emergeva subito una novità nei rapporti tra indios e non-indios: la sorpresa e poi la coscienza, da parte dei primi, di avere degli alleati all’interno del loro stesso stato. Fino a quel momento, infatti, i popoli indigeni pensavano che i loro alleati fossero solo gente estea: singoli cittadini e/o organizzazioni straniere di difesa dei diritti umani.
Fino a quel momento, gli indios avevano considerato la società roraimense e tutto il popolo locale fortemente anti-indigeni. Di fronte alla scoperta della solidarietà nei loro confronti da parte di un gruppo abbastanza consistente di non-indios, interno a quella stessa società, gli indios si scusarono con i loro nuovi alleati: «Ci scusiamo per aver parlato male dei bianchi. Ma noi non parliamo male di voi presenti. Parliamo male dei bianchi che hanno interessi nelle aree indigene, che invadono la nostra terra, che ci maltrattano e ci uccidono». Infatti l’incontro avveniva appena due mesi dopo l’assassinio del macuxi Aldo da Mota.
Nel gennaio 2003 Aldo fu brutalmente giustiziato dai jagunços della fazenda Retiro, appartenente al politico Chico das Chagas (conosciuto come Chico Trippa), che nascosero il cadavere in una fossa. Dopo una settimana, gli indios della regione, attirati da avvoltorni, ritrovarono il corpo in uno stato di avanzata decomposizione.
Visto che l’Istituto medico legale di Boa Vista affermava che Aldo era morto per causa «naturale indeterminata», il Consiglio indigeno di Roraima (Cir) e la Fondazione nazionale dell’indio (Funai), non convinti dell’autopsia, mandarono il corpo a Brasilia, dove i periti dell’Istituto di medicina legale indicarono che Aldo era stato assassinato con un colpo di pistola, mentre era con le braccia alzate. I presunti colpevoli dell’esecuzione, arrestati e poi rilasciati senza essere identificati, sono ancora a piede libero.
Aldo è uno dei 24 indigeni uccisi nei primi mesi del governo Lula. Solo in un paio di casi gli esecutori sono stati arrestati, mentre i mandanti sono tutti in libertà.
La percezione della nascita di un qualcosa assolutamente nuovo nei rapporti tra indios e non-indios, nel Roraima, fu avvertita anche da Paulo, leader degli agricoltori presente a Maturuca: «Esco da questo incontro con la consapevolezza che esiste un movimento ben organizzato in Roraima. E questo è il movimento indigeno, che ha molto da insegnare ai non-indios. La stampa e una parte dell’opinione pubblica roraimense ritraggono sovente gli indios come inetti, indolenti e incapaci; ora che li abbiamo conosciuti da vicino sappiamo che non è così; anzi, abbiamo capito che possiamo imparare molto da loro».
Gli indios, a loro volta, affermavano di avere molto da imparare dai non-indios.
Altri importanti incontri
A quello di Maturuca fece seguito, nell’aprile 2003, un secondo incontro nell’area rurale dell’Apiaù, che rafforzava ulteriormente la solidarietà creatasi nella prima assemblea. La solidarietà tra indios e contadini si basa su una rivendicazione comune: il diritto alla terra e ad una vita dignitosa, attraverso opportuni progetti di sviluppo economico sostenibile.
Le relazioni con i lavoratori urbani sono, invece, di natura diversa, in quanto le loro rivendicazioni vertono più che altro sulla ricerca di un impiego e la lotta alla corruzione.
Il terzo incontro si tenne a Boa Vista in maggio. I temi di discussione furono: l’installazione della fabbrica di cellulosa della Brancocell, attraverso lo sfruttamento di 150.000 ettari di piantagioni di acacia; i costi in termini di impatto ambientale ed economico per la popolazione; l’iscrizione al Partito dei lavoratori (PT) del governatore Flamarion Portela, sul quale pesano le denunce di partecipazione allo «scandalo delle cavallette». L’incontro terminava con una marcia contro la corruzione per le strade della città.
Il quarto incontro avvenne in settembre nel municipio di Rorainopolis, una cittadina attraversata dalla strada Br-174 che lega Manaus a Boa Vista, al quale parteciparono 21 leader indigeni, 21 agricoltori e 21 rappresentanti dei lavoratori urbani.
L’incontro verté sul bisogno di raggiungere, sulla base del dialogo e dell’ascolto dei problemi di ciascuna realtà, una convivenza armoniosa e di costruire una proposta comune, con nuove strategie di azione finalizzate ad una maggiore partecipazione alle politiche statali, ma anche federali.
Attraverso tale partecipazione, è necessario realizzare un graduale mutamento nell’inclusione dei settori esclusi, nel rispetto dei diritti umani dei popoli indigeni e nei diritti al lavoro degli agricoltori e del proletariato urbano e, infine, nella «moralizzazione» degli apparati amministrativi, giudiziari e politici dello stato, di fronte ad una situazione di corruzione estesa a tutti i livelli, e di impunità tanto radicata da apparire come la regola per l’intera società.
Nell’incontro di Rorainopolis i tre gruppi poterono verificare con i loro occhi, nei politici dello stato, la totale indifferenza al benessere della popolazione: una città costruita senza alcun progetto e costituita per il 90% da famiglie immigrate dal nord-est; alcune opere incompiute, per le quali il governo aveva stanziato più di 1.300.000 euro, nonché un sistema di fognature inoperante, a causa della mancanza di allacciamenti alle abitazioni (per cui fu speso inutilmente oltre 1 milione di euro) e, infine, attrezzature per l’ospedale, costate più di 300.000 euro, non funzionanti.
Quello di Rorainopolis, comunque, non è un caso isolato: i municipi dell’interno abbondano di opere pubbliche-fantasma.
Rompere il monopolio
Dai vari incontri, da quello di Maturuca a quello di Rorainopolis, i partecipanti uscirono con la consapevolezza di aver combattuto, fino a quel momento, una guerra voluta da poteri a loro opposti.
Era una vera e propria guerra tra poveri, orchestrata secondo il principio divide et impera, dove le parti in lizza, ignare l’una dei problemi e ragioni dell’altra, nonché dei possibili punti di incontro, si affrontavano alla cieca, spinte dal sospetto reciproco inculcato soprattutto attraverso la propaganda dei mezzi di informazione, completamente nelle mani del potere locale.
Gli incontri, quindi, si sono proposti e si propongono di ridurre la distanza e la tradizionale contrapposizione fra le tre componenti, e di giungere all’elaborazione di proposte comuni.
Particolarmente interessante e rivoluzionaria è l’idea della creazione di una banca di solidarietà: un’agenzia finanziaria che, a partire da un fondo comune, possa appoggiare delle iniziative nell’area della produzione; ad esempio la coltivazione di riso, alternativa a quella dei sette grandi produttori dello stato. Nascerebbe un sistema in cui indios e agricoltori potrebbero commercializzare liberamente i prodotti tra loro e, inoltre, venderli all’esterno senza che i primi siano più costretti a comprarli dal latifondista, che ha invaso le loro terre, e senza che i secondi siano costretti a lavorare per i loro tradizionali sfruttatori.
È necessario generare una domanda estea che incoraggi la produzione indigena e degli agricoltori familiari, rompendo così il monopolio che li soffoca, e creare una rete alternativa di commercializzazione dei prodotti. Le proposte mirano a liberare gruppi potenzialmente produttivi dalle strutture di potere da cui dipendono e dalle false promesse da cui troppo spesso sono allettati.
Avere creato una sinergia tra indios, lavoratori rurali e urbani significa, come ha dichiarato nel corso di un incontro un agricoltore, cambiare la storia di Roraima.
Significa che indios e non-indios decidono di abbandonare le loro armi tradizionali (frecce e fucili) e la reciproca diffidenza, per combattere finalmente contro il loro vero nemico: i todos poderosos, i potenti di sempre, e la loro cultura di sfruttamento, violenza e ingiustizia. Il tutto garantita dall’impunità.

Silvia Zaccaria




Perché camminare non basta

L’intervistato è il cornordinatore
della campagna «Nós existimos» a Roraima,
il quale fa il punto della situazione.
Si sofferma sugli incontri fra indios, agricoltori
ed emarginati della città:
a Maturuca, Apiaú, Boa Vista e Rorainopolis.
La volontà di non demordere di fronte a potenti
e prepotenti si accompagna alla speranza
nella solidarietà degli amici italiani,
che appoggiano la campagna.

Da Rorainopolis quattro proposte

Signor Vasconcelos, ci descriva l’ultimo incontro fra indios e non-indios avvenuto nella cittadina di Rorainopolis nel settembre scorso.

All’incontro, nel sud dello stato di Roraima, hanno partecipato 21 leader indigeni, 21 agricoltori e 21 rappresentanti dei lavoratori emarginati delle città. Sono stati accolti dalla comunità locale, da famiglie che li hanno ospitati e si sono dimostrate interessate.
L’incontro ha affrontato la necessità di formulare una proposta che unisse indios, agricoltori e lavoratori emarginati delle città alla ricerca di una maggiore dignità fra loro. In tale senso, tutti gli incontri di «interscambio» che si realizzano sono molto interessanti. Sono incontri di solidarietà, cui partecipano le tre componenti dello stato di Roraima, e fanno parte della strategia della campagna Nós Existimos.
Noi non vogliamo che la diocesi di Roraima ci presenti qualcosa di già preconfezionato, ma, a partire dal dialogo e dall’ascolto reciproco, vogliamo raggiungere una convivenza armoniosa tra indios, lavoratori rurali ed emarginati delle città, e costruire quindi nuove strategie e alternative di lotta.

Cosa si è detto a Rorainopolis delle situazioni «non normali»?

I precedenti tre incontri, nel primo semestre del 2003, sono stati di pura conoscenza; nell’ultimo invece, di Rorainopolis, abbiamo cercato di essere dinamici e concreti. La campagna si propone di interagire meglio fra i tre gruppi e di offrire prospettive alternative.
Rorainopolis è un caso lampante di disattenzione dello stato verso la popolazione. Vi sono opere pubbliche incompiute, che sono già costate al governo federale 1.330.000 euro. E noi le abbiamo esaminate.

Può portare qualche esempio?

Il sistema fognario non è finito: si sono già spesi circa 660.000 euro, e tuttora mancano gli allacciamenti alle abitazioni. La stessa cosa è successa ad un ospedale: le installazioni sono costate 330.000 euro, ma l’opera non funziona e per mancanza di personale e perché è stata costruita in forma inadeguata: non si può neppure installare una apparecchiatura per raggi X o altri strumenti.
Un’altra opera incompiuta è la casa per la produzione di farina di manioca, realizzata con l’intervento di un deputato. Inaugurata oltre due anni fa, non funziona, perché nessuno si è preoccupato di produrre la manioca con cui ottenere la farina. Si è costruita una casa abbastanza esuberante, ma non è utilizzabile.
Poi abbiamo visitato un mercato comunitario (anch’esso non terminato, che non risponde alle aspettative della comunità), un campo sportivo, una palestra all’aperto costata 33.000 euro, di cui esiste solamente la struttura metallica… In totale abbiamo visto sette opere che non rispondono agli obiettivi per i quali erano stati stanziati i soldi.
L’esperienza di visitare opere pubbliche (e quindi di interagire con la realtà locale) è stata molto elogiata. Le persone si rendono conto che non possono più accettare una situazione imposta, ma debbono cercare nuove strade, che richiedono riflessione e dibattito.

È vero che qualcuno voleva impedirvi di fotografare le opere visitate?
È vero. Un giovane wapichana stava filmando le fognature non finite ed è stato fermato dalla polizia. Poi è arrivato il gruppo dei partecipanti all’incontro (60 persone), e la polizia non ha più potuto impedire le riprese.
Io, come giornalista, non ero lì, perché impegnato in una riunione con la Cut (Centrale unica dei lavoratori). Mi trovavo con 11 sindacalisti, che hanno un’esperienza maggiore dei contadini sul come affrontare la polizia. Quando sono arrivato, ho cercato di forzare un po’ la situazione. Gli indios hanno commentato l’episodio dicendo che, se fossero stati in territorio indigeno, avrebbero sequestrato i poliziotti; però, essendo in territorio bianco, hanno rispettato l’azione dei leader bianchi.
Questa dichiarazione è bella: dimostra che, se i bianchi avessero deciso di affrontare la polizia, gli indios si sarebbero schierati dalla loro parte. Un’esperienza molto interessante.

Quali sono stati i tratti salienti dell’incontro di Rorainopolis?
Oltre alla visita delle opere pubbliche non finite, importante è stato stabilire rapporti di solidarietà con la popolazione.
Nell’incontro di Maturuca si è creata una forte solidarietà tra agricoltori e indios, perché le lotte sono simili: per esempio la lotta per il diritto alla terra. Con gli emarginati urbani i rapporti sono diversi, perché la città ha una realtà più complessa, e le lotte vertono soprattutto sulla ricerca di un impiego e contro la corruzione. L’incontro in area Apiaú ha segnato la vita di quella comunità. Il terzo incontro, a Boa Vista, è terminato con una marcia per le strade contro la corruzione.
Nel quarto incontro, a Rorainopolis, abbiamo fatto un’altra marcia; e, poiché la città è più piccola, ha avuto un impatto maggiore rispetto a Boa Vista. Molte persone si sono aggregate, sebbene non avessero partecipato agli incontri anteriori. Abbiamo dimostrato che la gente non è soddisfatta.
È stata una marcia contro la corruzione, ma anche a favore degli indios della Raposa Serra do Sol, dell’agricoltura familiare, degli incentivi agricoli, della creazione di nuovi impieghi. Siamo passati, marciando, davanti alle opere incompiute, ed è stato un momento di formazione per la popolazione locale. Si è proposta l’analisi della realtà. Questo non è ben visto da chi ha il potere.
Dopo la marcia, l’incontro è continuato. È stata importante la discussione per trovare proposte concrete di azione.

Quali sono state le proposte emerse?
Le proposte possono essere divise in quattro aree.
1. Necessità di informazione.
Nelle zone rurali arriva solo la radio del governo, internet non esiste, non c’è tivù (esiste solo in città). Si avverte l’urgenza di scambiare informazioni che portino ad una conoscenza migliore. Se indios, agricoltori e lavoratori delle città non si sono uniti prima, ciò è dovuto in parte alla non conoscenza delle problematiche di ciascuno. Esiste fra loro contrapposizione, favorita dal governo locale, che gli incontri si propongono di ridurre. Al riguardo, è importante fare un giornale popolare.
2. Formazione e interazione.
Gli enti che hanno lanciato la campagna Nós existimos offrono già una formazione ai loro dirigenti. I leader indigeni si incontrano sovente; gli agricoltori, attraverso la Cut la Pastorale della terra, realizzano diversi programmi; in città la Cut ha un costante processo di formazione. Però manca l’interazione tra queste realtà: ecco ciò che proponiamo. La formazione di ogni settore è importante, così pure la socializzazione. Noi non proponiamo programmi alternativi, ma all’interno di quelli già esistenti consigliamo una metodologia, affinché ogni gruppo non discuta solo di se stesso, ma interagisca con tutti. Questo è il lavoro che stiamo iniziando. Per ora sono coinvolte 60 persone. Noi vogliamo interagire con tutti quelli che già si occupano di indios, agricoltori, emarginati delle città. Con le strutture già esistenti, possiamo coinvolgere circa 3 mila persone.
3. Una banca di solidarietà.
Si tratta di organizzare un’agenzia finanziaria che sostenga, a partire dai fondi (limitati) esistenti, iniziative nel campo della produzione economica. L’idea è nuova, audace e rivoluzionaria. L’obiettivo ha bisogno di studio; il dibattito è incentrato sul come liberare le persone dalle strutture di potere da cui dipendono, dalle false promesse elettorali.
4. Commercializzazione dei prodotti.
L’efficacia di Nós existimos passa, anche, per l’autonomia economica. Esistono oggi in Brasile i mediatori, che speculano e guadagnano su ciò che noi produciamo. La ricerca di un commercio di giustizia è affascinante. Bisogna fare in modo che indios e agricoltori possano commercializzare tra loro i prodotti, perché l’indio non deve comprare riso dal latifondista (che ha invaso le sue terre) e l’agricoltore non può smettere di coltivare riso o fagioli solo perché i latifondisti già lo fanno. Occorre generare una domanda che rompa la struttura di monopolio, che soffoca la popolazione. Bisogna costruire un interscambio tale che tutti possano guadagnare.
I politici corrotti approfittano della situazione: ad esempio, nel settore dei trasporti, dove i contadini sono alla mercé dei politici; se gli agricoltori non sono d’accordo con loro, non hanno la possibilità di commercializzare i prodotti, perché viene loro negato il trasporto.
L’idea è di creare una commercializzazione giusta dei prodotti, per arrivare all’autonomia economica e politica. Si possono organizzare delle cornoperative che trasportino direttamente le merci in città.

Questi obiettivi, dall’inizio della campagna ad oggi, sono cresciuti? Esiste maggiore presa di coscienza?
Un agricoltore, leader sindacale, durante l’ultimo incontro ha detto: «Dobbiamo essere prudenti, perché il nostro progetto è audace, e non dobbiamo commettere sbagli nell’esecuzione. Il governo locale, sebbene corrotto, può attaccarci con i suoi avvocati, perché rompere la dipendenza economico-politica e costruire una sinergia tra indios, agricoltori ed emarginati delle città significa cambiare la storia di Roraima». Questo intervento è stato appoggiato da tutti.
Noi abbiamo la coscienza che la campagna destruttura il potere locale. Esiste la consapevolezza della necessità di costruire una proposta economico-politica alternativa, ma non possiamo risolvere la situazione da un momento all’altro.

Altre osservazioni sull’incontro di Rorainopolis?
Rorainopolis è una città costruita senza alcun progetto; più del 90% della gente è immigrata o di famiglie immigrate: lavora, è onesta, lotta. Ma è senza protezione. Vive in una condizione di miseria e sfruttamento estremo; proviene già dalla povertà del nord-est brasiliano, alla ricerca di una terra promessa, perché qui c’è acqua e terra fertile. È uscita da una vita di fame e siccità, e oggi incomincia a capire che vuol dire essere cittadini. Non si accontenta più delle «briciole» dei politici. Con un po’ di organizzazione, sta prendendo coscienza dei propri diritti.
Gli incontri ad Apiaú, maturuca e Boa Vista
Parliamo anche degli altri incontri, come quello dell’Apiaú (aprile 2003).
Nel 1999 alcuni agricoltori dell’Apiaú parteciparono ad un incontro di animatori pastorali a São Luis de Anauá. Uno di loro, nel 1953, abitava dove esisteva una maloca indigena. Lo feci notare. Egli mi aggredì: «È tutto falso. Non ci sono mai stati indios in quest’area». Risposi: «Vuoi che ti mostri centinaia di fotografie che attestano il contrario?». Rispose urlando: «Voi, preti, siete solidali solo con gli indios…».
L’incontro dell’Apiaú ha fatto capire che cosa si può fare in futuro. La proposta di incontrarci a Rorainopolis è venuta proprio dall’Apiaú. Qui prevale il mondo agricolo; non è molto diverso dagli altri mondi, ma ha la sua peculiarità. Apiaú è più vicina a Boa Vista, ha avuto un processo di colonizzazione recente, una organizzazione più forte dei lavoratori. Apiaú è vicina agli indios yanomami (con terre strappate a loro), c’è più consapevolezza di abitare vicino ad un’area indigena.
Nell’Apiaù si sfrutta il legname, ma, diversamente da Rorainopolis, non ci sono segherie. Rorainopolis è esplosa demograficamente negli ultimi 6-7 anni, da quando è divenuta municipio. È città piccola, ma con un grande caos sociale: droga, avventurieri, violenza, assassini, prostituzione femminile e infantile…
L’incontro di Rorainopolis, rispetto a quello dell’Apiaú, è stato più intenso. Il confronto con la realtà è stato maggiore. Abbiamo capito come l’organizzazione popolare possa cambiare i cammini della storia.

E in area indigena? Cosa c’è stato di importante nell’incontro di Maturuca di marzo-aprile?
L’incontro di Maturuca è stato il primo, ed è emersa la novità di Nós existimos. La sorpresa di capire, da parte degli indios, di avere degli alleati. I popoli indigeni, nel corso di questi anni, pensavano che i loro alleati fossero solo fuori dello stato di Roraima: cittadini stranieri e organizzazioni in difesa dei diritti umani. Gli indios hanno sempre considerato il popolo di Roraima anti-indigeno. A Maturuca gli indios hanno anche chiesto scusa per avere parlato male dei bianchi.
Gli indios hanno un grande rispetto per la chiesa, ma anche per la Cut. Si sono interessati per capire che cos’è il sindacato, la Commissione pastorale della terra, il Centro di difesa dei diritti umani e le altre organizzazioni della campagna. Paolo, leader degli agricoltori, dopo l’incontro di Maturuca, ha detto: «Ho la consapevolezza che esiste un movimento bene organizzato in Roraima. È il movimento indigeno, che ha tanto da insegnare ai non indios». E gli indios hanno risposto che hanno molto da imparare dai bianchi.

Nell’incontro di Boa Vista (1-2 maggio), con i lavoratori urbani, quali novità sono emerse?
C’erano 124 persone, mentre se ne aspettavano 60. Il tema principale è stato la corruzione nel pubblico impiego. Il problema grosso per i lavoratori urbani è il lavoro, per gli indios la terra e per gli agricoltori ancora la terra con una agricoltura familiare sostenibile.
Si è discusso dell’installazione di una fabbrica di cellulosa a Boa Vista e sul suo impatto ambientale. Una fabbrica che, secondo dati governativi, dovrebbe generare 634 posti di lavoro che lo stato presenta come la salvezza di Roraima. Ma la fabbrica causa un grande inquinamento; 634 posti di lavoro sono insignificanti, ma il governo li presenta come il toccasana e offre incentivi fiscali per favorire l’azienda. Noi consumatori pagheremo l’impatto ambientale, ma anche il costo in dollari dell’energia importata dal Venezuela, necessaria alla fabbrica. Una fabbrica, proprietà di un gruppo svizzero-canadese, che produrrà cellulosa su 150.000 ettari di acacia mangium. Ecco l’impatto ambientale disastroso.
Si è discusso pure del governatore di Roraima che ha aderito al Partito dei lavoratori. Il governatore, su cui pesano denunce di corruzione, è stato invitato ad entrare nel partito del presidente Lula, quando tutti sanno che Lula appoggia il movimento sociale della sinistra. È un problema inquietante.
la campagna diventa «movimento»
Parliamo della Cut, delle caratteristiche e prospettive di questo grande sindacato.
La Cut è entrata subito in Nós existimos. Quando abbiamo lanciato la campagna nel Forum mondiale sociale di Porto Alegre, per esempio, l’abbiamo fatto nella sede dei sindacalisti della Cut.
C’è stata una reazione violenta del governo di Roraima contro la Cut, la quale voleva realizzare il proprio congresso nell’area indigena Raposa Serra do Sol. C’è stata la reazione dura di alcuni leader della Cut, legati al governo di Roraima, i quali sono intervenuti contro la realizzazione del congresso.

Chi sono questi sindacalisti della Cut legati al governo?
C’è il sindacato della scuola, dei lavoratori rurali e alcuni segmenti del sindacalismo pubblico; c’è un deputato del Partito dei lavoratori di Roraima, che ha subìto l’influsso del governo locale ed è intervenuto perché la Cut abbandoni la campagna. L’opposizione dura del governo è avvenuta allorché la Cut ha deciso di riunirsi in area indigena, invitando persino alcuni indios.

Non è rivoluzionario ciò che è successo?
La partecipazione della Cut è fondamentale per la campagna, perché è un’istituzione molto rappresentativa. La Cut di Roraima è molto giovane e piccola; però la sua alleanza con il mondo indigeno è molto importante; se si alleasse con il governo di Roraima, sarebbe un disastro per tutti noi. È necessaria una proposta politica che coinvolga la Cut, il cui gruppo dirigente è ottimo. Ma ha bisogno di autonomia.
È un processo nuovo anche per i sindacalisti, che prima non conoscevano gli indios; la campagna permette l’integrazione tra sindacato e indigeni. La direzione della Cut, per tutto il 2004, non si lascerà comprare e farà gli interessi dei lavoratori. Crediamo che questa Cut sarà solidale con tutti.

Dagli incontri è emersa anche un’«azione estea» al Brasile, che potrebbe avere una finalità economica ricercando aiuti all’estero. Come giudica, per la campagna, l’aiuto finanziario esterno?
Gli amici stranieri sono preoccupati non solo per la nostra situazione economica, ma sono anche coinvolti nelle loro realtà con azioni politiche. Dobbiamo interagire di più con chi appoggia la campagna. Siamo giunti alla proposta di incontrare, qui a Roraima, i nostri alleati per chiarire cosa noi possiamo loro offrire e cosa essi possono darci. Siamo coscienti del lavoro che ci aspetta, a partire dagli scambi culturali e politici tra le varie entità della campagna.
È importante chiarire che noi siamo un piccolo gruppo di persone. C’è una sola persona che lavora a tempo pieno nella campagna. Io ne sono il cornordinatore, ma lavoro anche come giornalista nel Consiglio indigeno di Roraima. È difficile avere altri professionisti.
Ho incontrato una ragazza, di origine palestinese; le ho proposto di lavorare con noi, visto che sta finendo il corso universitario di giornalismo. Si è detta interessata, ma due giorni dopo ha dichiarato che non è possibile. Sicuramente c’è stata la pressione dei genitori, perché qui è pericoloso lavorare con gli indios e nella campagna.

Non pensa che il progetto economico, come l’avete elaborato, vi costringa a impegnarvi oltre le vostre possibilità?
Il progetto economico è nato dopo molta riflessione. Siamo in difficoltà per mancanza di professionisti (avvocati, giornalisti) che assumano il lavoro. Se li inviate dall’Italia, noi li accettiamo!

Senza professionisti, la campagna è ancora possibile a Roraima?
Mah, potrebbe esserlo! Noi facciamo tutto il possibile, ma siamo al limite. Stiamo affrontando necessità estreme. La speranza è di trovare persone che programmino, proprio per uscire dalla logica dell’urgenza. Noi non siamo il potere politico, però abbiamo quello della giustizia, della verità, della conoscenza, della lotta. Affrontare il potere politico è difficile, ma è anche entusiasmante.
Però, senza un’équipe di lavoro, ci sarà un momento di stallo. Allora diremo: l’idea è buona, ma non possiamo realizzarla.

Intanto però lavorate nella campagna.
Gli indios lottano per l’affermazione dei loro diritti, così gli agricoltori e gli emarginati delle città.
Noi, della campagna, nelle quattro domeniche di ottobre, abbiamo organizzato marce di protesta contro l’impunità e la corruzione, contro la centrale idroelettrica di Cotingo, perché in area indigena. Il nostro lavoro ha creato così numerose aspettative; a tal punto che, invece di una campagna, dovremmo parlare di un movimento permanente «Nós existimos». Come fare?
Le proposte che abbiamo presentato hanno ottenuto molti consensi; siamo stati invitati, per esempio, ad una conferenza sull’ambiente organizzata dall’università. Siamo invitati a numerose iniziative promosse a Roraima dal governo federale; però non sempre abbiamo la possibilità di presenza.
Ciò vuol dire che, invece di organizzare la festa per l’omologazione della terra indigena Raposa Serra do Sol, forse finiremo per organizzare il funerale di… André!
Recuperare il tempo perduto
André, lo so, tu sei un cornordinatore senza cornordinati. (Ndr: improvvisamente l’intervistatore ricorre al «tu», abbandonando il «lei»).
Mi auguro che tu abbia anche persone da cornordinare. I nostri gruppi in Italia capiranno che i loro aiuti sono essenziali perché possiate continuare la campagna.
Noi porteremo avanti il nostro progetto con o senza appoggi finanziari estei. Parlo del progetto ideale della campagna. È un cambiamento strutturale, e abbiamo una responsabilità enorme.
Noi vorremo fare, in un anno o poco più, il cammino perso nei 10 anni precedenti. Dal 1991, quando Roraima diventò stato, i politici hanno rubato il denaro del popolo. Ora dobbiamo rifare uno stato, recuperando 10 anni. C’è anche una pesante eredità storica di circa 300 anni, quando arrivarono i primi colonizzatori a Roraima con la convinzione che l’indio dovesse essere sempre schiavo. Dobbiamo convincere i «bianchi comuni» che sono stati sfruttati, come lo sono stati gli indios, e che devono organizzarsi, come hanno fatto gli indios.
E capire che gli indios non sono esseri inferiori o incapaci.
Abbiamo bisogno di correre contro il tempo.

Tu puoi correre, André, perché hai solo 27 anni.
Lei, padre Silvano, è più vecchio e, quindi, conosce meglio le fasi difficili della crescita: agricoltori in aree indigene, strade aperte in terre degli indios, loro stermini intenzionali, come ha documentato nel suo libro «Massacre» (Ndr: traduzione italiana «Sangue nell’Amazzonia»).
Io sono di un’altra generazione. Negli anni ‘80 ero ragazzino, ma ho visto che l’élite di Roraima si è appropriata di tutte le ricchezze, dimenticando i cittadini.

Il vostro è un lavoro ottimo. Potete contare sul nostro appoggio, non solo economico. Faremo in modo che non sia il ricco che dà al povero, ma uno sforzo di solidarietà.
Noi desideriamo proprio questo. Chi lavora con lei in Italia è preoccupato per l’ingiustizia presente anche da voi, così come noi lo siamo qui. È così che nasce la consapevolezza di aiutarci tra fratelli…
Grazie, padre Silvano, di averci dato ascolto.

La redazione ringrazia vivamente
Roberto Giacone e Paolo Guglielminetti,
che hanno sbobinato e tradotto dal portoghese l’intervista.

a cura di Silvano Sabatini




Brasile, indios Yanomami: nos existimos!

Uniti per la vita,
contro la violenza
e l’impunità.

Il manifesto della campagna internazionale
degli indigeni, dei contadini
e degli emarginati della città
(Roraima – Brasile).

N oi popoli indigeni, piccoli agricoltori e lavoratori emarginati della città, per la prima volta ci uniamo nella solidarietà per formare l’alleanza degli oppressi nello stato di Roraima (Brasile).
Insieme vogliamo affrontare l’esclusione sociale cui siamo sottomessi, quale conseguenza di progetti politici che favoriscono latifondi, monocolture e aggressioni all’ambiente, che occultano trame di corruzione e che negano i nostri diritti di cittadini.
Noi, popoli indigeni brasiliani di Roraima, subiamo aggressioni fisiche, psicologiche e culturali. Viviamo sotto la minaccia costante di essere invasi da latifondisti, risicoltori, garimpeiros (cercatori d’oro), industriali del legname e delle miniere (nazionali e multinazionali): sono questi i maggiori responsabili della distruzione dell’ambiente e della nostra sopravvivenza.
Inoltre si costruiscono caserme (Uiramutã, Surucucús e Auarís) vicino ai nostri villaggi; le donne sono vittime di abusi sessuali e gli amici assassinati; ci è negato il diritto alla terra, contemplato dalla Costituzione federale, soprattutto nell’area Raposa Serra do Sol. La classe politica locale e i mezzi di informazione fomentano razzismo e discriminazione, seminano odio contro di noi e ci accusano di interferire nello sviluppo dello stato.

N oi, piccoli agricoltori, siamo stati attirati in Roraima dalla promessa di possibilità economiche, di terre fertili, di sostegni alla produzione agricola. Oggi sappiamo di essere stati ingannati e usati dai politici locali per i loro interessi.
Siamo abbandonati nei nostri campi senza titoli di proprietà della terra che lavoriamo, senza strade, senza scuole, senza strutture sanitarie. In tale situazione, spesso, i nostri parenti si vedono costretti ad emigrare in città, alla ricerca di migliori condizioni di vita.
Mentre l’abbandono si aggrava e generalizza, il governo statale favorisce i latifondisti, e precisamente: sette grandi risicoltori, un gruppo svizzero-canadese (coltiva acacia mangium) e la multinazionale Mitsubishi (intende piantare soia nella savana). Tali monocolture causano gravi danni ambientali.

N oi, lavoratori emarginati della città, siamo veramente tali. Abbiamo dovuto abbandonare i campi, i garimpos (siti minerari all’aperto) e le malocas (villaggi indigeni) per venire a vivere in città.
Oggi subiamo ogni violenza della polizia (compresa quella sessuale sulle nostre donne), risultato dell’impunità e dello squilibrio sociale causato dallo sviluppo disordinato nelle città, dalla disoccupazione, dalla fame e mancanza di opportunità.
Non esiste una politica per gli emigrati in città.
Molti hanno paura di parlare, di denunciare, perché qui trova lavoro solo chi sta zitto o si umilia davanti ai politici. Stiamo ancora aspettando la restituzione dei fondi pubblici, sottratti illegalmente da politici corrotti, come nel caso della Lista dos Gafanhotos (pagamento di salari a funzionari pubblici fantomatici per fini elettorali).
Il fatto è stato denunciato pure dalla stampa nazionale.

N oi esistiamo, resistiamo e lottiamo per i nostri diritti. L’unione di indigeni, agricoltori e lavoratori urbani emarginati è un segno di grandi cambiamenti.
Chiediamo a voi, amici ed alleati in Europa, di partecipare alla campagna «Noi esistiamo». Tutti insieme costituiamo una vasta mobilitazione locale, nazionale e internazionale a favore della popolazione di Roraima.
Vi chiediamo di sottoscrivere
le seguenti rivendicazioni:
• Regolarizzazione fondiaria e concessione dei titoli di proprietà delle terre urbane e rurali di Roraima, rilasciando la documentazione anche alle donne lavoratrici.
• Approvazione del nuovo Statuto dei popoli indigeni, da 10 anni bloccato nel Congresso Nazionale di Brasilia, e regolamentazione della presenza dei militari nelle terre indigene di frontiera.
• Riconoscimento legale di tutte le terre indigene e protezione delle terre già demarcate, come esige la Costituzione federale, impedendo la deforestazione, l’inquinamento, lo sfruttamento minerario (a scapito dei diritti costituzionali indigeni) e le altre forme di aggressione all’ambiente e ai popoli indigeni.
• Immediata omologazione, come area continua, della terra indigena Raposa Serra do Sol e allontanamento degli invasori.
• Incentivi economici prioritari all’agricoltura familiare, con investimenti in infrastrutture basilari nelle zone rurali, e «stop» agli incentivi fiscali ai latifondisti: risicoltori e piantatori di acacia mangium o soia.
• Creazione di posti di lavoro per i lavoratori urbani e «stop» agli incentivi fiscali e all’installazione di una fabbrica di cellulosa a Boa Vista, dato l’altissimo costo sociale e ambientale.
• Combattere la violenza, l’impunità e la corruzione a tutti i livelli, con indagini e pene comminate agli implicati (a cominciare, per esempio, dalla Lista dos Gafanhotos) e la restituzione dei fondi sviati.
• Regolamentazione della presenza militare nelle aree indigene di frontiera.
I promotori di Nós existimos
– Diocesi di Roraima
– Missionari e missionarie della Consolata / Brasile
– Centri di difesa dei diritti umani / Roraima
– Pastorale urbana / Roraima
– Pastorale indigenista / Roraima
– Consiglio indigenista missionario (Cimi) / Brasile
– Consiglio indigenista di Roraima (Cir)
– Commissione pastorale della terra / Roraima
– Centrale unica dei lavoratori / Roraima (Cut)
1. Sottoscrivendo questo testo ed inviandolo per posta ad uno dei seguenti recapiti:

n Missioni Consolata (signora Gloriana)
Corso Ferrucci 14 – 10138 Torino
n Co.Ro. (Comitato Roraima) presso Barone
Via Tolmino 67 – 10141 Torino
n Movimondo (Vincenzo Pira)
Via di Vigna Fabbri 39 – 00179 Roma
2. Collegandosi al sito www.giemmegi.org/nos1.htm
(adesione via informatica). Da questo sito è possibile scaricare dei moduli che, sottoscritti, potranno essere spediti per posta ad uno dei suddetti recapiti.
3. Partecipando ai progetti di solidarietà della campagna con offerte di denaro. Si può servirsi del conto corrente postale numero 33.40.51.35,
intestato a Missioni Consolata Onlus,
Corso Ferrucci 14 – 10138 Torino.
Specificare la causale del versamento
con «Nós existimos».

aa.vv.




Cipro – Il dialogo che non c’è

Sono tutti concordi: tra ortodossi, cattolici, maroniti, musulmani non esiste inimicizia; si rispettano e, a volte, si dicono amici, ma il dialogo è un’altra cosa.
L’entrata di Cipro nell’Unione Europea è l’occasione per rompere il ghiaccio.

Boutros Gemayel,
arcivescovo maronita
La prima cosa che mi fa visitare è il piccolo museo di icone. «Le abbiamo portate dal nord senza troppa “pubblicità” quando la regione è stata occupata dai turchi» mi dice.
Sino all’invasione turca (1974) la maggior parte dei maroniti vivevano senza grossi problemi nei villaggi agricoli, quattro dei quali erano al nord. Due sono stati occupati dai militari, che ne hanno trasferito la popolazione; in un altro, parte degli abitanti è rimasta e parte si è trasferita al sud: a Kormakiti, il villaggio più grande con più di 2 mila persone, rimaneva il 40% degli abitanti, che piano piano sono passati al sud per lavorare: oggi ne rimangono poco più di un centinaio.
Quella dei maroniti è l’unica comunità cipriota che ha sempre avuto la possibilità di attraversare la linea verde piuttosto liberamente per visitare i parenti rimasti nei villaggi natii e fermarsi per 3-4 giorni. Il fatto è significativo sull’importanza che la piccola comunità cristiana potrà avere in un futuro dialogo con islamici e ortodossi, una volta ristabilita l’unità dell’isola.

Dopo questo esodo, la comunità ha mantenuto la propria unità?
«Purtroppo no. Sono gruppi sparsi. Solo recentemente abbiamo potuto avere una scuola maronita. Prima i nostri figli erano obbligati a frequentare le scuole pubbliche, dove gli alunni sono in maggioranza ortodossi. Ciò ha promosso la mutua conoscenza fra i giovani, ma favorito anche matrimoni misti: erano arrivati al 70%; oggi sono scesi al 50%».

In un paese diviso, dove si cerca d’instaurare un clima di dialogo, senla parlare di pericolo in questo contesto, mi sconcerta.
«Il pericolo è l’assimilazione: in una famiglia dove la madre è ortodossa e la fede molto sentita, i bambini seguiranno la religione della madre. Quando i maroniti abitavano nei loro villaggi, i matrimoni misti erano pochissimi. Noi abbiamo cercato di fondare centri di aggregazione, con scuole, centri sociali, casa per gli anziani, chiesa. Aspettiamo la soluzione, che permetta ai nostri maroniti di tornare ai villaggi, magari anche lavorando a Nicosia. Il piano di Annan, riconoscendo solo due grandi comunità cipriote, quella greca e quella turca, ha sottoposto i villaggi maroniti sotto l’autorità politica greca. Siamo felici di essere nella parte greca».

Perché?
«Perché sono cristiani come noi: con i greci i maroniti lavorano; con i turchi abbiamo religione, usi e costumi differenti».

Come sono i rapporti con i turchi e le autorità islamiche?
«Buoni. A natale ho celebrato la messa a Kormakiti: due importanti ufficiali turchi, assieme al responsabile religioso, sono venuti ad augurarmi un buon natale. Non abbiamo inimicizia né attriti, ma ci sentiamo parte della comunità greca».

Come vede l’entrata di Cipro in Europa?
«La sto guardando con molto interesse: come chiesa, io sarò cipriota e anche europeo e libanese. Potremo essere il ponte tra Europa, chiesa e Medio Oriente. Piuttosto, abbiamo alcuni problemi con i giovani, che, come in tutto il mondo, non sono molto vicini alla chiesa. Ma con la soluzione del problema di Cipro, potremmo essere più ottimisti, dato che un ritorno ai villaggi significherebbe anche un ritorno alla fede dei padri, alle chiese, alla casa, alla famiglia e potremo di nuovo riunirci».

E con la chiesa ortodossa?
«Abbiamo buone relazioni. Siamo cattolici, né uniati né latini: per gli ortodossi questo è importante. Noi maroniti siamo una chiesa a parte, tutti cattolici della chiesa di Antiochia; abbiamo le nostre tradizioni e relazioni sociali e umane con ortodossi; non siamo occidentali, ma orientali; quindi non siamo visti implicati nelle crociate. È per questo che abbiamo buone relazioni umane e tanti amici tra gli ortodossi».
Seyh Nazim Kibrisi,
leader musulmano
È la più importante guida sufi del mondo islamico. Ultraottantenne, vive in un paesino nella parte cipriota sotto occupazione turca, dove riceve visite di fedeli di tutto il mondo ed esponenti del sufismo internazionale.

La riunificazione dell’isola in una confederazione sembra a un passo: cristiani e islamici saranno di nuovo uniti e interagiranno insieme? Come vede questa nuova unione? Vi sentite pronti?
«Toerà tutto come prima. Dal punto di vista politico Cipro Nord ha una legislazione basata esclusivamente sul nazionalismo, senza alcun attributo islamico. Siamo turchi e la Turchia è uno stato secolare, così come lo è Cipro Nord».

L’islam non è solo una religione, ma anche un modo di vita. È possibile scindere le due fasi?
«Questo governo lo ha reso possibile. Ma sono fortemente critico nei suoi confronti e nella politica che sta attuando».

I politici di Cipro Nord dicono di essere pronti a entrare nella Unione Europea: cosa significa per voi, islamici, unirsi a una Comunità principalmente fondata su valori cristiani?
«È vero che l’Unione Europea è quella che io definisco un «club» cristiano. Nella storia turca abbiamo avuto i cosiddetti «nuovi ottomani». La loro idea di secolarizzazione è ancora viva. I «nuovi ottomani», che ora governano Turchia e Cipro Nord, sono pronti ad abiurare la loro religione e farsi cristiani pur di essere accettati nell’Unione Europea».

Ne è sicuro? Mi sembra un paradosso troppo estremo…
«Si, ne sono sicuro. Ma non lo fanno, perché hanno vergogna. Con il dominio ottomano si è formata una nuova idea di nazione, di leggi, di ordine mondiale ed essi pensano che essere con gli europei significa raggiungere il culmine della civiltà. Io non lo accetto questo».

Lei è contro anche alla globalizzazione dell’economia, che taglia ogni autosufficienza locale.
«Certamente. Sono anche contro quella grande associazione dell’Europa unita, che fa perdere ai singoli paesi identità e cultura originaria».

Nel 2004 una parte di Cipro, quella cristiana, aderirà all’Unione Europea: secondo lei perderà la propria identità?
«No, perché noi non siamo realmente in Europa. Siamo un’isola nel Mediterraneo e siamo indipendenti. Cipro chiede di aderire all’Unione solo per benefici economici e politici; oggi Cipro è un ricco paese, che può competere con qualsiasi nazione europea, sia dal punto di vista economico che politico. Se Cipro non fosse ammesso nella Comunità, non cambierebbe nulla. In realtà, oggi, c’è una grande voglia di non diventare cosmopolita, ma di mantenere la propria identità. E io non penso che questa Unione avrà lunga vita».

Lei critica l’Unione Europea perché cristiana e cosmopolita, la Turchia e Cipro Nord perché secolari: esiste un paese che definirebbe islamico?
«No, e non sa quanto mi dispiace rispondere alla sua domanda in modo negativo! Tra quelli che conosco, forse la Siria è quello che più si avvicina all’ideale islamico”.

Il problema è che l’islam non ha un leader riconosciuto, così ogni capo di comunità interpreta a piacimento ogni parola del Corano.
«La partizione non è una cosa positiva per l’islam. Il mondo islamico si è parcellizzato dopo la prima guerra mondiale, con il collasso dell’impero ottomano: è crollato con il califfo di Costantinopoli, che univa l’islam e dettava le leggi; così l’islam non ha più avuto un leader da seguire e ogni paese e territorio si è erto a giudice per la propria popolazione.
Anche i cristiani sono divisi: cattolici, protestanti, ortodossi. Per anni si sono combattuti. Oggi anche noi combattiamo tra noi stessi. Personalmente sono contro ogni tipo di fondamentalismo nell’islam».
Umberto Barato,
vicario del nunzio apostolico
a Cipro
Francescano, colmo di esuberante simpatia, Umberto Barato è la figura più in vista della chiesa cattolica latina a Cipro. La sua dimora lambisce la linea verde nel punto più caldo di Nicosia. Nella sacrestia della cattedrale la porticina che dà sulla parte turca è sigillata dal 1974.
Impossibilitato a dialogare con gli islamici, domando a che punto è quello con i cristiani ortodossi. La risposta è categorica: «Inesistente. Ci sono buoni rapporti, nel senso che ci si parla e non c’è alcuna inimicizia; ma non si può definire dialogo».

Come mai? Sono loro a chiudere le porte o entrambi?
«Non siamo pronti. Mi sembra che loro non si interessino per nulla della nostra chiesa. Nel passato c’era completa indifferenza; ma la situazione sta migliorando: l’apertura fatta dalla chiesa cattolica certamente facilita le cose.
Tre anni fa, in occasione della visita del papa in Grecia e Siria, sulle orme di san Paolo, abbiamo pensato a uno scalo a Cipro, poi andato a monte per ragioni diplomatiche e di tempo; ma quando si sparse la voce, un vescovo ortodosso disse che il papa avrebbe “attirato l’ira di Dio sulle loro teste”».

Nessuno lo ha smentito?
«Naturalmente quel vescovo fu preso in giro perfino dall’arcivescovo ortodosso di Cipro; ma è significativo che tale frase sia stata pronunciata. Anche tra alcuni fedeli ortodossi il pensiero verso la chiesa cattolica non è benevolo, anche se non è duro come in Grecia. Più che dalla chiesa, è dall’ambiente ortodosso che deriva tale malevolenza. L’unione tra le chiese dovrà esserci, ma per ora vedo tanti piccoli elementi che indicano che siamo molto distanti.
Personalmente penso che l’arcivescovo ortodosso abbia stima del papa e della chiesa cattolica, ma altri metropoliti lasciano un poco a desiderare«.

Tale diffidenza è riconducibile ad un preciso periodo storico?
«È certo eredità dei secoli passati. Fino a poco tempo fa trattavamo i greco-ortodossi come scismatici, che, a loro volta, ci consideravano esempio del male. Ci rinfacciano ancora l’occupazione di Costantinopoli, come se fosse tutta colpa della chiesa; ma io domando loro se turchi e arabi non abbiano fatto mai niente di male. Dopo Maometto, con le guerre sante, hanno occupato regioni asiatiche e l’Africa del nord, distruggendo chiese e costringendo i cristiani a convertirsi. Molti turchi convertiti una volta erano greci: lo afferma lo stesso arcivescovo ortodosso di Cipro. I crociati hanno commesso dei soprusi, non lo nego; ma i musulmani che hanno fatto? Scopo principale delle crociate, anche se poi sono degenerate, era proteggere i luoghi santi, perché i pellegrini venivano molestati e costretti a pagare una tassa. Ben diverso era il fine dei musulmani che volevano conquistare e convertire».

Per le due amministrazioni, turca e greca, la soluzione di Cipro sarebbe vicina: siete pronti per l’apertura e dialogo con l’islam?
«Con il governo Erdogan, la Turchia sembra avere un atteggiamento positivo e spera, attraverso Cipro, di entrare in Europa. Noi comunque siamo pronti. I contrasti potrebbero venire con la chiesa ortodossa: ufficialmente ha rifiutato «unanimemente» il piano di riunificazione, anche se non so quanto valga tale unanimità. Oramai non si può tornare indietro. Spero che non ci siano violenze, poiché non c’è solo l’ideale dell’unione; ma sono in ballo interessi economici, politici, strategici, personali, case, terreni e altre proprietà».

L’eventuale soluzione del problema di Cipro non cambierà molto per la chiesa cattolica, dal momento che la quasi totalità del lavoro si svolge nella parte greca.
«Sarà più facile andare al nord, anche se già mi reco due volte al mese a Kormakiti, dove lavorano tre suore, e a Kyrenia, dove abbiamo una chiesa e celebro la messa con una ventina di pensionati inglesi che vivono nell’isola.
Anche nella parte sud la chiesa cattolica è «straniera», in quanto composta da srilankesi, indiani, filippini. La chiesa latina, stabilitasi con le crociate, è vecchia di secoli; abbiamo una comunità locale cipriota che però sta diminuendo, anche perché i latini, sposandosi con greci ortodossi, si sono assimilati con gli ortodossi. Adesso abbiamo 400 persone, tutti stranieri. Un prete dello Sri Lanka è venuto ad aiutarci e segue la comunità cingalese. Così Cipro diventa un campo di apostolato che ci apre nuove prospettive per l’Asia».

Piergiorgio Pescali




Cipro – Unione dimezzata – Intervista a George Vassilou

Tra i più accreditati leader politici ciprioti, George Vassiliou ha condotto i colloqui per l’ammissione della Repubblica di Cipro all’Unione Europea: un passo importante per la soluzione della riunificazione dell’isola.

L’1 maggio 2004 la Repubblica di Cipro entrerà a far parte dell’Unione Europea: sarà una festa riuscita a metà, data l’intransigenza turca nel trovare una soluzione alla divisione dell’isola?
«La Repubblica di Cipro è stata già accettata nell’Ue, mentre la Turchia deve ancora dimostrare di aver raggiunto alcuni traguardi. Alla Tv turca ho dichiarato che, se la Turchia ottempererà alle richieste europee, nessuno stato dell’Unione si opporrà alla sua candidatura. Dopo il vertice di Copenaghen (2002), è chiaro che la decisione di entrare o meno in Europa è solo nelle mani della Turchia. Spero, anche per il bene della nostra regione, che Ankara prenda la decisione giusta e si muova verso quella direzione».

Più volte Denktash ha dichiarato che, se la Repubblica di Cipro entrerà nell’Ue, la parte nord chiederà l’integrazione alla Turchia. Pensa che la minaccia sia reale?
«Non c’è una possibilità su un milione che la parte turco-cipriota raggiunga l’integrazione o venga annessa alla Turchia: sarebbe la fine per le aspirazioni turche di entrare nell’Ue. Principi dell’Unione sono la pace e cooperazione amichevole tra tutti i paesi, piccoli o grandi. Tale minaccia non è una novità: Denktash non ha mai voluto una soluzione del problema Cipro e ha cercato di sabotae i colloqui di ammissione. Le cose cambieranno in un prossimo futuro: ho grande speranza nelle azioni di Erodgan, presidente della Turchia, che sta cercando di creare le condizioni per la soluzione del problema di Cipro».

L’entrata di Cipro in Europa faciliterà, secondo lei, i negoziati tra le due parti cipriote?
«Certamente. Le grandi manifestazioni contro Denktash dimostrano chiaramente che i turco-ciprioti esigono una soluzione definitiva del problema dell’isola. Noi pensiamo che, con la coice della Unione Europea, questa prospettiva è assicurata. Vede, se non ci fosse stata la candidatura di Cipro, la soluzione federale prospettata per l’isola sarebbe stata difficile da raggiungere, a causa dei reciproci sospetti tra le due comunità. L’ammissione sta creando le condizioni per una soluzione federale».

Riusciranno i turco-ciprioti a fare cambiare atteggiamento a Denktash e il governo?
«Spero che Denktash non riesca a sopravvivere senza l’appoggio del popolo. Ma non dimentichiamo che nella zona occupata ci sono quasi 40 mila soldati e almeno 100 mila immigrati turchi, portati da Ankara sull’isola, che prendono ordini dalla Turchia. Il nuovo governo turco non ha ancora stabilito radici nel paese e sta ancora cercando di assestarsi; ciò si riflette anche su Cipro: stiamo quindi a vedere cosa accade ad Ankara».

Per la prima volta, l’Ue confinerà con una regione a maggioranza islamica, un confine religioso tra mondo cristiano e islamico: potrebbe essere un’occasione per riaprire un dialogo tra le due religioni, ma anche un innesco per rinvigorire focolai. È preoccupato?
«Personalmente non ho mai creduto che l’Ue sia un club cristiano. Non dobbiamo dimenticare che la cristianità è forse una, ma ci sono molti conflitti tra le stesse comunità cristiane, come nell’Irlanda del nord. È vero che in Europa la maggioranza della popolazione è cristiana e, forse, la metà è cattolica: ma questo, nella mia opinione, è garanzia di stabilità. L’Europa, inoltre, come entità, garantisce la libertà di religione. Per me, poi, ogni persona, sia essa cattolica, protestante, ortodossa, islamica, è uguale in quanto essere umano. Quello che combatto è il fondamentalismo, che non esiste solo tra i musulmani. Noi dobbiamo appoggiare qualsiasi stato non integralista e la Turchia è un paese a maggioranza islamica, ma che si riconosce secolare. L’esclusione della Turchia per ragioni religiose, sarebbe un regalo al fondamentalismo islamico, e questo porterebbe enormi problemi anche per il futuro dell’Europa».

Cipro ha una certa nomea per le banche compiacenti che riciclano i soldi sporchi della mafia russa, traffico di armi e droga: uno degli ostacoli per l’ammissione nell’Ue. Qual è la situazione oggi?
«Varie équipes di ispettori inviati dall’Ue hanno esaminato il settore finanziario e il modo con cui veniva gestito: è stato stabilito che Cipro ha un sistema finanziario ben organizzato, che non ricicla assolutamente denaro sporco. Nei paesi europei, lo dico con sicurezza, si ricicla molto più denaro sporco che a Cipro».

Molte bandiere greche, qui a Cipro, sventolano non solo su chiese e monasteri, ma anche negli edifici pubblici, come le scuole: ho l’impressione che l’enosis sia ancora viva nei greco-ciprioti.
«No! assolutamente no! L’enosis è morta tempo fa. Non c’è alcuna idea di enosis. La bandiera greca è conseguenza naturale dell’ellenismo, dell’esser greco-ciprioti. È un simbolo di identificazione etnica e culturale. Negli Usa le bandiere greche sono accanto a quelle statunitensi. Inoltre, non bisogna dimenticare che 40 anni fa Cipro era una colonia britannica e la bandiera greca era esposta per sottolineare la propria identità.
Ora che diverremo europei, i ciprioti saranno europei, ma continueranno a essere ciprioti: greco ciprioti e turco-ciprioti».

Piergiorgio Pescali




Cipro – La Breccia

L’1 maggio 2004, entreranno in Europa 620 mila greco-ciprioti; 180 mila abitanti di origine turca dovranno attendere ancora.
Ma nel muro, che da 30 anni li divide, si è aperto uno spiraglio di speranza.

Sta crollando l’ultima vergogna dell’Europa? Nel muro, che dal 1974 divide l’isola di Cipro e le etnie greca e turca, è stata aperta una prima breccia, permettendo alle due comunità di visitare le zone prima a loro proibite. La storica decisione presa da Rauf Denktash, presidente dell’autonominata Repubblica Turca di Cipro Nord (riconosciuta solo dalla Turchia) «potrebbe essere un passo decisivo verso la soluzione del problema dell’isola» ha dichiarato Walter Schwimmer, segretario generale del Consiglio d’Europa.
Ma Kypros Chrisostomides, portavoce del governo della Repubblica di Cipro, ha subito raggelato gli entusiasmi, affermando che «la decisione (di Denktash) è illegale; è un tentativo di sviare l’attenzione della comunità internazionale sulla illegittimità dell’occupazione turca nella parte settentrionale dell’isola. Il muro non sta cadendo e questo non è il modo per risolvere i problemi di Cipro».
Tali problemi sono la presenza di 40 mila soldati turchi e 100 mila coloni immigrati dalla Turchia, stanziatisi nel nord dell’isola dopo il 1974, occupando case e terreni appartenenti ai greco-ciprioti fuggiti al sud. Le forze di destra greco-cipriote si sono scagliate contro l’apertura e hanno sconsigliato i greco-ciprioti di entrare al nord, mentre il quotidiano in lingua greca Phileleftheros ha chiesto al governo di adottare misure di sicurezza, per prevenire infiltrazioni di agenti turchi al sud, definendo criminale il regime turco-cipriota.
Al di là della retorica del dialogo, la mossa di Denktash è stata dettata dalla necessità di recuperare la fiducia di migliaia di turco-ciprioti, scesi in piazza chiedendo le sue dimissioni, dopo il suo rifiuto al piano di Kofi Annan. Proposto nel marzo 2003, tale piano prevede un modello di confederazione simile a quello svizzero.
Inoltre, la decisione di tale apertura è giunta una settimana dopo la visita del primo ministro greco Costas Simitis, che sanciva la firma dell’ammissione della Repubblica di Cipro alla comunità nel 2004.

A tal proposito, Simitis ha parlato di «enosis di Cipro all’Ue», suscitando vivaci proteste da parte turca: nell’isola la parola enosis (unione) è storicamente intesa come annessione alla Grecia. La gaffe di Simitis ha riproposto il problema dell’indipendenza nazionale, anche se George Vassiliou, capo delegazione cipriota per i colloqui d’integrazione, in un’intervista rilasciataci in esclusiva (vedi pag. 38), ha affermato che «a Cipro non esiste alcuna idea di enosis, come non c’è nessuna possibilità che la parte turco-cipriota raggiunga l’integrazione con la Turchia».
La preoccupazione del presidente greco-cipriota, Tassos Papadopouls, è soprattutto diplomatica: le migliaia di greco-ciprioti che, incuranti delle raccomandazioni del governo, si sono riversati al nord devono mostrare alle autorità della parte settentrionale il proprio passaporto, come se stessero entrando in un paese straniero; mentre la polizia greco-cipriota richiede ai turco-ciprioti diretti al sud l’esibizione della sola carta d’identità.
Ma la libera circolazione della popolazione ha avuto anche un effetto boomerang imprevisto per le autorità turche: approfittando della possibilità di varcare il muro, molti abitanti della parte settentrionale hanno richiesto il passaporto della Repubblica di Cipro, che permetterebbe loro di circolare liberamente in Europa e nel mondo intero.
La cicatrice che sfregia l’isola di Cipro sembra abbia finalmente iniziato a rimarginarsi. L’Onu, che da anni preme affinché le due parti riescano a trovare un accordo che ponga fine alla costosa presenza del contingente di 1.400 persone dell’Unificyp (45,6 milioni di dollari Usa annui), non deve lasciarsi sfuggire questa occasione, per riabilitarsi di fronte alla comunità internazionale dopo il disastro iracheno.

Piergiorgio Pescali




Cipro – Andando per conventi

Natura e mito, storia e religioni fanno dell’isola più bella del Mediterraneo un crogiolo di culture e di contrasti. Nel profondo dell’anima rimane indelebile l’impronta impressa da secoli di monachesimo.

L a spuma prodotta dalle onde, che da millenni si infrangono contro lo scoglio di Petra tou Romiou, ripropone all’infinito l’atto di nascita di Afrodite, la dea della bellezza, della sensualità e dell’amore, che a Cipro trovò il suo regno. E l’amore, Afrodite, lo ha sempre elargito generosamente. Fu la dea a dar vita al freddo marmo con cui Pigmalione scolpì Galatea, la statua di cui si innamorò; ma fu ancora lei che sedusse e fu sedotta da Ares, il dio della guerra, tradendo il marito Efesto, per segnare così l’indissolubile legame degli opposti: mare e terra, bellezza e devastazione, bene e male, amore e guerra.
Ecco, il contrasto è forse il sostantivo che più si addice a Cipro, ai suoi abitanti e a chi intende carpie l’anima. Dal mito alla storia, dalla natura umana a quella morfologica, per terminare con la religione, Cipro sembra creata apposta per ricordare all’uomo che è il dualismo a regolare il mondo terreno e, spesso, in modo drammatico.
INTRECCIO DI STORIA E RELIGIONE
La posizione geografica dell’isola, situata sulle rotte commerciali tra Europa e Vicino Oriente e tra cristianesimo e islamismo, ha fatto sì che fin dagli albori della sua storia, gli eserciti conquistatori ritenessero di vitale importanza il suo controllo. Portaerei naturale dell’antichità, a Cipro regnarono greci, fenici, assiri, egiziani, arabi, francesi, veneziani, turco-ottomani, britannici, e ciascuna di queste civiltà ha lasciato qualche testimonianza che ancora oggi è facile riscontrare nell’isola.
Storia e religione qui si attorcigliano, compenetrando l’una nell’altra, proprio come Afrodite e Ares. Già nel 45 d.C., il governatore romano Sergio Paolo, dopo aver fatto sferzare san Paolo con trentanove scudisciate, si convertì al cristianesimo assieme alla maggioranza della popolazione. La colonna a cui l’apostolo di Cristo fu incatenato e frustato è ancora oggi meta di pellegrinaggi nel sito archeologico di Chrysopolitissa, a Pafos, sulla costa occidentale.
Il vangelo portato dalla violenza della frusta, fu causa di ben altra violenza mille anni più tardi, quando lo slancio fideistico dei crociati mise a ferro e a fuoco i correligionari ciprioti, rei di aver abbracciato l’ortodossia. Come accade di frequente, sono proprio i compagni di partito, che militano in un’altra fazione, ad essere l’oggetto delle più feroci angherie. Così per i cristiani.
La spartizione dell’Impero romano, avvenuta nel iv secolo, precorre ciò che noi abbiamo solo riscoperto di recente con la caduta del muro di Berlino: più che le frontiere politiche, sono i confini linguistici e quelli religiosi ad essi legati, a caratterizzare l’Europa del futuro.
La divisione del mondo cristiano tra l’Occidente latino, che rompe ogni legame col passato per ricrearsi una nuova cultura, tradizione, lingua, arroccandosi attorno alla chiesa di Roma, e l’Oriente bizantino, che rappresenta la continuazione del passato, è sancita dallo scisma d’Oriente del 1054.
Ma è la terribile profanazione del trono di Bisanzio, nel 1204, da parte dei condottieri della iv crociata, che misero sul trono di Santa Sofia una prostituta, a essere ricordata dagli ortodossi come la causa della definitiva scissione tra chiesa cattolica romana e chiesa ortodossa.
Quegli anni, fatti di eccidi in nome dello stesso «Dio, buono e misericordioso» bruciano ancora nel mondo greco e slavo. Padre Umberto Barato, vicario del nunzio apostolico di Nicosia, mi dice che ricorderà per tutta la vita il giorno in cui un giovane ortodosso rinfacciò ai cattolici di aver causato il crollo della capitale bizantina e la divisione del mondo cristiano (vedi pag. 37).
Altri ricordano la devastazione portata da Riccardo Cuor di Leone nel 1191 e quella dei templari subito dopo. La famosa Bulla cipria, emanata da papa Alessandro iv nel 1260, che dava alla chiesa cattolica il dominio di Cipro, viene tuttoggi citata dai greco-ciprioti come esempio dell’arroganza di Roma nei loro confronti. Poco sorprende, quindi, che la cacciata dei veneziani da Famagosta e dall’intera isola da parte dei turchi, nel 1571, sia stata salutata con favore dai cristiani ortodossi locali.
I PRIMI «NO GLOBAL»
In questo periodo di oscurantismo religioso, per scampare alle persecuzioni cattoliche, molti pope rimasti fedeli alla chiesa di Bisanzio cominciarono a fuggire nell’interno dell’isola, inerpicandosi lungo i monti Troodos, costruendovi piccoli eremi.
Il monachesimo, una delle peculiarità che all’inizio hanno differenziato le due chiese cristiane, è per la fede ortodossa il principale protagonista della vita spirituale.
Il turista che con i modei mezzi di trasporto raggiunge le piccole chiesette isolate, di pietre rozzamente squadrate, dovrebbe sempre aver presente l’isolamento cui si erano volontariamente relegati i primi mistici ortodossi. Tragitti che oggi si compiono in poche ore, allora richiedevano giorni di cammino. Dove sorgono ristoranti, hotels e piscine, c’erano poche casupole di pastori che, durante l’inverno, tornavano sulla costa. Persino i monasteri e le chiesette più antiche all’inizio erano poco più che una cella di nuda pietra.
La devozione che il popolo tributava ai monaci portò, dopo la morte di chi le abitava, a erigere santuari e chiese che andavano a inglobare le primitive casupole. Sorsero così le centinaia di cappelle disseminate come semi di grano un poco ovunque a Cipro. A volte si sceglie un luogo particolarmente suggestivo, in cima a una rupe o una scogliera; altre volte, invece, si preferiscono siti più oculati, all’interno di un bosco o vicino a grotte. Tutte, però, sono situate lontano dalle arterie principali e, soprattutto, dalle rotte commerciali, a voler rafforzare la scelta di distacco dal mondo terreno.
«I monaci eremiti sono stati i primo no-global della storia» mi dice scherzando il pope di Panagia tou Arakou. Anche oggi, per gustare la vera atmosfera cipriota, davanti a un buon bicchiere di vino e ottimo halloumi (formaggio arrostito alla griglia), occorre salire fin quassù, lontano dai McDonalds e dalle anonime vetrine zeppe di vestiti firmati.
CERCATORI DI QUIETE E DI DIO
Lontano anche dalla calca dei turisti. Gli incerti raggi del sole appena sorto accarezzano la roccia di Petra tou Romiou e la minuscola spiaggia sassosa che le fa da contorno. La calma, per ora, è assoluta; ma so che questa fetta di paradiso, ritagliata rubando ore al sonno, durerà poco, giusto il tempo perché i pullman scarichino orde di turisti vocianti, interrompendo quell’atmosfera mistica che solo la solitudine e la quiete riescono a creare.
In greco solitudine e quiete si traducono con una sola parola: hesychia, da cui deriva il termine «esicasmo»: il movimento ascetico e monastico, rivalutato nella chiesa ortodossa, che si sforza di raggiungere la comunione con Dio.
E così, abbandonando frettolosamente Petra tou Romiou e la costa, cartina alla mano, vado alla ricerca dei monasteri e, per non subire un distacco troppo repentino tra dei greci e Dio cristiano, inizio dal più pagano di tutti: quello di Agios Nikolaos ton gaton (San Nicola dei gatti). Qui decine di gatti trovano pace e rifugio grazie a Sant’Elena, madre dell’imperatore Costantino, la quale introdusse questi felini a Cipro per liberare l’isola dai serpenti.
A mano a mano che mi addentro tra le pinete dei monti Troodos, comprendo la volontà degli eremiti di allontanarsi dal bailamme della costa. Essi erano in fuga dalle truppe militari e dai mercanti, io da altri tipi di eserciti, spesso non meno devastanti e prevaricatori: quelli dei turisti, che nel xiii secolo erano certo meno invadenti.
Fu in quel periodo che Gregorio Palamàs, monaco del Monte Athos e poi arcivescovo di Tessalonica, elaborò la prassi teologica dell’eremitaggio, che ben presto divenne un dogma nella chiesa ortodossa.
MADONNA DELLA TENEREZZA
Mi dirigo al monastero di Kykkos, il più importante di Cipro, passando per il monte Olimpo. I paesaggi si susseguono incantevoli uno dopo l’altro e alla fine giungo alle porte del monastero, costruito nel xii secolo per volontà dell’imperatore bizantino Alessio Comnenus.
Qui il futuro primo presidente di Cipro, l’arcivescovo Makarios iii, passò il suo noviziato e poco lontano la sua tomba domina simbolicamente l’intera isola.
I monaci di Kykkos, come altri confratelli greco-ortodossi sparsi negli altri monasteri, favorirono apertamente la lotta dell’Eoka, l’organizzazione filogreca che negli anni ’50 contrastò la colonizzazione britannica. Non è certo un caso che lo sguardo della mastodontica statua bronzea di Makarios iii, di fronte al palazzo arcivescovile di Nicosia, si posa sul monumento alla libertà, dedicato ai combattenti dell’Eoka.
Ma la notorietà di Kykkos travalica il mero significato politico. La fama del monastero si è espansa in tutto il mondo slavo e greco, grazie alla Panagia Eleousa, l’icona della Madonna della Misericordia, venerata da Mosca a Lalibela (Etiopia).
Entro nella cappella dove è custodita la sacra immagine; un monaco legge passi dell’Antico Testamento proprio sotto la Vergine, che nel suo braccio destro culla Gesù Cristo ancora bambino. La tradizione vuole che sia stato l’evangelista Luca a dipingere il quadro, ritraendo la Madonna così come la ricordava.
Vera o falsa che sia la leggenda, l’icona infonde serenità e profonda spiritualità, grazie allo sguardo e la postura dei due protagonisti. Se pare impossibile che sia stato realmente Luca a dipingee le fattezze, è difficile comprendere come il vero pittore abbia potuto infondere ai soggetti tali cariche spirituali senza averli conosciuti di persona.
ARTE E FEDE
Per un paio di giorni girovago tra i monti Troodos visitando chiese, monasteri, santuari. Alcuni sono dei veri e propri conventi ristrutturati e abitati da decine di monaci, come quello di Trooditissa; altri, invece, e sono quelle che più preferisco, sono piccole cappelle poco illuminate, affrescate di motivi tratti dai vangeli: ultima cena, entrata di Gesù a Gerusalemme, assunzione della Vergine, ritratti di santi.
Nove di queste chiese sono state iscritte nel patrimonio artistico mondiale dell’Unesco: Agios Nikolaos tis Stegis (xi secolo), Agios Ioannis Lambadhistis (xi secolo), Panayia Phorviotissa tou Asinou (xii secolo), Panagia tou Arakou (xii secolo), chiesa della Vergine di Moutoullas (xiii-xiv secolo), di San Michele Arcangelo (xv secolo), di Timios Stavros (xiii-xv secolo), Panagia tis Podhithou (xvi secolo), chiesa di Stavros Ayiasmati (xv secolo) e di Ayia Sotira tou Soteros (xvi secolo).
Nella bellissima e isolata Agios Nikolaos tis Stegis osservo un affresco raffigurante la resurrezione di Lazzaro, uno dei miracoli di Cristo che più hanno colpito l’immaginazione di noi bambini quando, per la prima volta, lo sentimmo raccontare.
Mi reco a Laaca, dove Lazzaro si trasferì e morì. Nella chiesa dedicata al santo, c’è ancora la sua tomba, venerata in tutta la cristianità. Anche qui, rimango in contemplazione degli stupendi affreschi che oano le facciate intee e delle icone raffiguranti san Lazzaro e la Madonna con Bambino.
Rapito dal loro fascino, visito il Museo bizantino di Nicosia, che ne espone un’intera collezione, proprio dietro la stupenda cattedrale di San Giovanni e il palazzo arcivescovile.
Le icone (dal greco eikòn, effige), assieme al canto, divennero ben presto oggetto di devozione presso il popolo. Ma l’affermarsi di questa arte, che caratterizza ancora oggi la fede ortodossa, non è stata così lineare come potrebbe sembrare. L’imperatore bizantino Leone iii cominciò l’iconoclastia (distruzione delle icone); il successore Costantino v, 30 anni dopo radunò il «conciliabolo» di Hiereia (754), in cui fu stabilito che solo l’eucaristia poteva rappresentare l’immagine di Cristo; finché il Concilio ecumenico di Nicea ii (787) riammise il culto delle immagini.
Il movimento iconoclasta, che imperversò con violenza tra l’viii e il ix secolo e che voleva riportare in auge l’aniconismo del cristianesimo originario (quando Cristo era rappresentato solo da un pesce), a Cipro non raggiunse mai gli eccessi che ebbe nel continente. Forse per questo l’arte dell’icona nell’isola raggiunse livelli elevatissimi.
SFIDA ECUMENICA
Mi dicono che presso il monastero di Stavrovouni, il primo edificato a Cipro, continua a esistere una comunità di monaci che ha proseguito la tradizione. Decido di andarla a trovare, ma le regole che ritmano la vita ecclesiale sono ferree: l’ingresso è vietato alle donne; per noi maschietti le visite sono permesse solo in determinati orari, per non disturbare la preghiera e la meditazione quotidiana. È un modo per preservare antichi rituali.
Padre Kallinikos, un vispo ottuagenario, mi accoglie nel suo stupendo studiolo, dalle pareti ricoperte di icone, libri, pennelli, tempere prodotte a mano. Parliamo a lungo del significato delle icone e delle diversità di vedute tra cattolici e ortodossi. «Dovremmo iniziare a parlarci iniziando dalle cose che abbiamo in comune» mi dice mostrandomi col dito un’icona della Madonna col Bambino dipinta da lui.
Abbandono la hesychia di Stavrovouni per rituffarmi nelle strade affollate di Nicosia. Seduto in un caffè, di fronte alla Linea Verde che divide la zona greco-cipriota da quella turco-cipriota, mi tornano in mente le parole riferitemi dal pope del monastero di Kykkos: «Cipro potrebbe essere un grande esempio ecumenico per tutta l’umanità e rappresentare il futuro dell’Europa: qui vivono latini, maroniti, greco-ortodossi, islamici, anglicani. La sua divisione, politica e religiosa, rappresenta il vero dramma dell’incomunicabilità del nostro tempo».

Piergiorgio Pescali




Cari Amici italiani noi vi scriviamo…

Questo dossier nasce grazie alla sensibilità e disponibilità della redazione di Missioni Consolata e ha due intenti:

1) Non dimenticare quei bambini che, essendo nati dalla parte bollata come «cattiva», negli ultimi dieci anni di guerre «umanitarie» e ormai infinite, non hanno mai ricevuto dai vari organismi e Ong inteazionali, che una solidarietà infinitamente ridotta, spesso sottoposta a precise clausole discriminanti.
L’Associazione «Sos Jugoslavia» ha fatto fin da subito una scelta precisa: aiutare e solidarizzare, senza guardare il luogo di nascita, con i bambini serbi e jugoslavi, perché bombardati dalla Nato e per anni sottoposti a embarghi e sanzioni, armi di devastazione e annichilimento di popoli e genti, in particolare di bambini e anziani.

2) Facendo parlare e testimoniare questi bambini, forse per la prima volta in Italia, e tramite le loro storie e speranze, fare un’opera di sensibilizzazione e sostegno ai progetti di solidarietà con alcune realtà di bambini in Serbia e in Kosovo Methoija.

N ei nostri periodici viaggi di solidarietà, abbiamo raccolto brani di lettere, poesie, pensieri, disegni, che ci trasmettono sentimenti, sofferenze e desideri più profondi di questi bambini. Le presentiamo con una sintetica descrizione delle realtà sociali in cui vivono quotidianamente.

Sono tre realtà che rappresentano lo spaccato sociale, simbolo della odiea società serba ed ex jugoslava del dopoguerra. E sono anche le realtà dove la nostra Associazione ha tre dei suoi progetti di solidarietà:
– quella dei figli dei lavoratori disoccupati della Zastava;
– quella dei bambini profughi dal Kosovo Methoija;
– quella dei bambini assediati nelle enclavi serbe dello stesso Kosovo Methoija.

La scelta di privilegiare l’impegno verso i bambini è legato a dati di fatto: essi rappresentano l’anello più debole e indifeso degli eventi, quindi i più bisognosi; in essi vive una potenzialità costruttiva positiva; soprattutto i bambini rappresentano in ogni società la speranza ed il futuro.

Per quei paesi e popoli che hanno vissuto e vivono sulla loro pelle cosa significano guerre «umanitarie», proiettili democratici all’uranio impoverito e terapie di miglioramenti sociali, fondati su bombardamenti dei civili per motivi «etici», la necessità di ritrovare anche solo un brandello che possano ridare frammenti di speranza in un futuro migliore, in un mondo più giusto e di pace per tutti, passa necessariamente attraverso le generazioni che devono venire; e i bambini, anche nelle situazioni più drammatiche e di miseria, rappresentano e sono gioia e sorrisi in ogni famiglia.
E per fermare i mercanti di morte e i propugnatori delle guerre «infinite», sarà necessario un forte protagonismo e coinvolgimento delle nuove generazioni, anche e soprattutto nel nostro paese.

Enrico Vigna




Scende la notte, si sente la sirena antiaerea

I bambini dell’ex Jugoslavia raccontano i loro sogni, ancora popolati
dagli incubi della guerra passata, le difficoltà dell’esistenza presente, le speranze
di un futuro di pace e di amicizia.
La solidarietà dell’Associazione «Sos Jugoslavia» vuole che questa speranza
non muoia.

Fino al 1999 la Zastava era la più grande fabbrica dei Balcani: produceva 220 mila vetture l’anno e impiegava 36 mila lavoratori di 34 etnie diverse. Oggi, ufficialmente, i dipendenti sono 17 mila; ma impiegati a rotazione, con tui di 4-5 mila al mese. Quando lavorano percepiscono un salario medio di 165 euro mensili; quando non lavorano 70/80 euro.

Secondo i dati ufficiali, oggi, in Serbia, i due terzi della popolazione spende meno di 1 euro al giorno pro capite, quando il paniere dei soli generi di primissima necessità per una famiglia di 4 persone è di 250 euro.
Essendo privatizzati o in fase di privatizzazione i servizi sociali, la scuola sta diventando un lusso, mentre prima erano praticamente garantiti dallo stato. Buona parte delle famiglie non ha più acqua, luce, riscaldamento, perché non possono pagare le bollette. Occorre ricordare che in inverno le temperature possono toccare i 20 gradi sotto zero.

Mentre dilagano le malattie, dovute sia ai 10 anni di embargo, sanzioni e guerre, sia ai bombardamenti all’uranio, che cominciano a emergere massicciamente (tumori, leucemie e malattie cutanee), la stragrande maggioranza delle famiglie non può curarsi e comprare i medicinali.

In queste condizioni vivono i bambini di cui riportiamo alcuni pensieri.

«… Adesso farò la terza media. La vita qui è dura: dobbiamo vivere in cinque con la pensione di vedova della mamma, che riceve 70 euro mensili, ma è difficile arrivare a fine mese. Senza il vostro aiuto sarebbe anche peggio… Tutti abbiamo grave stress; non riesco a esprimere cosa proviamo».

(Aleksandar T., 15 anni)

«Spero che tutto passi presto e riavere la nostra infanzia rubata. Siamo diventati grandi troppo in fretta: ragioniamo diversamente dai nostri coetanei che non hanno conosciuto la guerra… Scrivimi di te; sapere che ci sono bambini che vivono bene mi fa stare un po’ meglio e mi aiuta a sopportare le nostre sofferenze».

(Ana C., 12 anni)

«Caro amico, tu la notte riesci a dormire? Io sogno e sento sempre il suono degli aerei e delle bombe. Sogno di camminare in mezzo a rovine, tanti animali soli davanti alle case distrutte e tutto brucia. Tanti fantasmi mi stanno intorno… Grazie delle tue lettere, soprattutto perché ti ricordi di me… Anche a me piacciono le stelle: ogni sera le guardo e mi chiedo cosa starai facendo… Ho pensato di regalarti qualcosa: ho solo una penna; se te la regalo, non so più come scriverti».

(Boba K., 10 anni)

«Caro amico, mio padre è tornato dalla guerra su una carrozzella, non ha più le gambe. Perché gli hanno fatto questo? Lui è sempre stato buono, sul suo viso c’era sempre un sorriso per noi. Ora, a volte, lo vedo piangere da solo; ma con noi si sforza sempre di sorridere. Mio padre era un operaio della Zastava, ora passa la vita sulla carrozzella e non può più lavorare… Eravamo una famiglia allegra, contenti di quello che avevamo, ora non abbiamo più nulla. La mamma è sempre triste e piange… Viviamo con la pensione di papà, 60 euro in quattro; una o due volte al mese la mamma trova da andare a fare le pulizie; allora torna con qualche cioccolatino per me e mia sorella e per qualche momento tutto sembra come era prima… Voglio crescere e diventare grande presto, così farò il soldato e andrò a cercare quelli della Nato, anche fino in America, per punirli di ciò che hanno fatto alla nostra famiglia. Anche se mio padre non vuole e mi dice che bisogna avere pazienza… Amico mio, vorrei conoscere altri bambini italiani per diventare amici e un giorno raccontarci tante cose. Di questo sarei felice».

(Radko M., 12 anni)

Alle tragedie e sofferenze che i profughi si portano dentro e che, specie per la psiche dei bambini, spesso non sono superabili, si aggiungono quelle della vita quotidiana, legata alla mancanza di condizioni minime di sopravvivenza: casa, lavoro fisso, relazioni sociali minime, impossibilità di un proprio decoro, progettualità e prospettive future.

Dalle lettere dei bambini che sono al Centro collettivo profughi di Kragujevac, emerge la realtà di vita delle famiglie che vivono in questi centri di fortuna. Uno di questi era un supermercato, dove sono state messe delle pareti di compensato, ottenendo stanze di circa 6 metri quadrati, alcune senza finestre; le condizioni igieniche sono al minimo, nonostante una autoregolamentazione rigida e funzionale: ogni nucleo familiare può fare la doccia ogni 12/15 giorni; per andare al bagno occorre aspettare il proprio tuo; così pure per lavare piatti e vestiario. Non esiste riscaldamento e topi e scarafaggi convivono normalmente con i bambini.

Alienazione e disperazione favoriscono alcornolismo, malattie e disturbi nervosi, anche nei bambini. Dopo i bombardamenti della Nato, secondo studi e ricerche fatte da pediatri e psichiatri, risulta che circa il 71% dei bambini e adolescenti della Repubblica Serba hanno disturbi psichici di vario genere.

Un dato mai evidenziato è che molte migliaia di queste famiglie e bambini hanno vissuto la condizione di profughi due volte in pochi anni: esse sono parte di quei 650 mila profughi mai menzionati, che erano scappati dalle varie pulizie etniche delle guerre in Croazia e Bosnia.

Nonostante tutto questo, chi viene a conoscere direttamente la loro situazione sono colpiti dal senso profondo di grande dignità e orgoglio di questi profughi.

«… come avete visto, la stanza del Centro profughi, in cui viviamo in cinque, è piccola; ma almeno la nostra vita è più serena: abbiamo una porta solo per noi; possiamo andare a letto e svegliarci quando vogliamo… Lei è stata la prima persona che è venuta a conoscere la nostra famiglia… Grazie perché ci aiuta e perché siamo amici… siamo felicissimi di potervi offrire la nostra amicizia, i nostri sorrisi e tanto affetto… altro non abbiamo».

(Dragana N., 8 anni)

«… avevamo una vita serena; con i bombardamenti della Nato sono cominciate le nostre disgrazie: hanno distrutto i nostri sogni, i nostri sorrisi, le nostre allegrie. Continuo a chiedere ai miei genitori: «Perché?», ma non riescono a spiegarmi; mi dicono solo che così hanno voluto dei signori stranieri ricchi e potenti… Nella piccola testa ricordo sempre il paese dove sono nata, la piccola casa con i fiori, i campi intorno con l’erba, dove giocavo con gli amichetti; l’altalena costruita da papà e io sopra che ridevo, ridevo… Penso al cagnolino Lesi, che stava sempre con me felice… E poi piango; sento ancora il rumore degli aerei; rivedo le fiamme che restavano, fumo e tanti che piangevano… Finita la guerra e i bombardamenti, siamo dovuti scappare dalla nostra piccola felicità; siamo venuti a Kragujevac, in mezzo a tanta gente sconosciuta, ma ora ho tanti nuovi amichetti… Vorrei tornare nella nostra casa… ritrovare il mio cane, che forse ha fame e sete e sarà triste perché pensa che l’ho abbandonato; anche se sono passati quattro anni, sono sicura che non mi ha dimenticato… La invito a visitarci ancora… la nostra stanza è piccola, non siamo ricchi, ma vedrà che insieme a noi starà bene».

(Ndt: il padre non ha ancora trovato la forza di dirgli che la casa è stata bruciata e il cane Lesi è stato impiccato a un albero).

(Tjana D., 9 anni)

«… nel Kosovo avevamo una casa con la terra e animali: eravamo felici. Ma qualcuno ha deciso di distruggere la nostra felicità e la nostra vita. Non scorderò mai più il 20 giugno 1999: sono venuti i vicini piangenti; hanno detto ai miei genitori di prepararsi per scappare, perché stava arrivando l’Uck. Ma non avevamo un’auto e siamo rimasti solo noi della zona… poi è arrivato mio zio con la macchina a prenderci. Piangevamo tutti: abbiamo baciato la porta della nostra casa e siamo venuti via con alcune borse e un po’ di cibo per il viaggio. Io ho dovuto lasciare tutti i miei giocattoli e i miei ricordi. Tutti e cinque siamo saliti sulla macchina e siamo partiti, senza conoscere la destinazione. Siamo poi arrivati a Kragujevac e abbiamo trovato posto al Centro profughi, in un grande camerone, dove ci hanno dato 4 letti e 4 coperte militari e nient’altro… Io e i miei fratellini continuavamo a piangere e chiedere di tornare a casa; poi i genitori ci hanno detto che la nostra casa era stata bruciata dai terroristi. Dopo quattro anni piango ancora, anche nella notte, quando ricordo».

(Danica P., 10 anni)

«… in famiglia parliamo spesso di lei, della sua umanità e amicizia. Voi siete stati i primi a offrirci l’amicizia… Io sono rimasta colpita al vedere le sue lacrime, mi hanno fatto pensare che non sono sola e la nostra famiglia non è più sola: questo ci scalda tanto il cuore di speranza… Come ha potuto vedere, pur essendo in 6 in questa piccola stanza, siamo riusciti lo stesso a stare anche in otto, insieme a voi… Io e i miei fratellini abbiamo tanti desideri: avere una piccola casa nostra, dei giocattoli, dei dolci e un po’ di serenità e gioia. Un po’ di tutte queste cose ce l’avete regalate voi… Per noi ora è più facile e continuiamo a domandare quando toerete… Ogni volta che toerete, vi regaleremo il nostro affetto e i nostri sorrisi, so che è poco ma state sicuri che saranno sempre grandi».

(Ivana A., 8 anni)

Queste sono le cifre ufficiali di un anno di bombardamenti, dal giugno 1999 al giugno 2003: 350 mila profughi di tutte le etnie, in maggioranza serbi e rom, fuggiti in Serbia; 1.138 scomparsi; 1.194 assassinati.

Solo poche migliaia di non albanesi non sono scappate dalla pulizia etnica dell’Uck. Essi vivono barricati in piccolissime aree, spesso recintate col filo spinato, circondate dalle forze militari della Kfor, o assediati dentro gli ultimi monasteri ortodossi rimasti: 140 sono stati attaccati; 92 totalmente distrutti.che cosa posso portargli? >>. D ‘improvviso esclama <>

Durante le settimane successive per ogni preghiera e opera buona pose nel vaso una pietra lucente. Quando il vaso fu colmo il sant’uomo si affrettd su per la montagna, dove aveva appuntamento con Dio. Arrivd in vetta e non vedeva nessuno. All ‘improvviso udi una voce: >

E il sant’uomo, sorpreso: <>.

E Dio disse: <>

(liberamente tratto da P. Ribes
Ascolta questa…, Paoline 1997, pp. 40-42)

Queste enclavi del Kosovo sono vere e proprie prigioni a cielo aperto dell’apartheid etnico nel cuore dell’Europa. In esse si vive una vita quasi surreale: tutto ciò che accade è precostituito, dall’attesa degli alimenti e ogni bene materiale portati da fuori, alle modalità dei giochi che si possono fare solo se possibili e sicuri, alla vita scolastica, che è affidata alla volontarietà dei maestri e insegnanti rimasti. Tali «riserve indiane» sono un incubo a cielo aperto per i bambini serbi e di altre minoranze, quotidianamente minacciati e assassinati, se vengono trovati fuori dalle enclavi. Ne sono una tragica conferma gli eventi accaduti il 13 agosto scorso nell’enclave di Goradzevac, ultima isola multietnica del Kosovo occidentale, dove sopravvivono circa 700 persone. Un gruppo di ragazzi serbi decise di «evadere» per bagnarsi nel fiume Bistric, che scorre poche centinaia di metri fuori dell’enclave: due ragazzi di 11 anni e 18 anni vennero uccisi da colpi di fucile; un altro di 15 anni è in coma; altri due furono feriti gravemente e rimarranno invalidi a vita.

Le lettere dei bambini parlano di questa «normalità», risultato della guerra «umanitaria» che doveva portare pace, serenità e progresso in una terra dove, fino al 1999, convivevano 17 etnie diverse. Non era un paradiso terrestre; ma era un luogo dove chi uccideva un bambino o una persona, solo perché appartenente a un’altra etnia, era «normalmente» condannato all’ergastolo.

«… con la primavera, lentamente torna tutto ciò che se ne era andato in autunno, ma non tornano i miei amici e amiche, i miei fratelli e sorelle, che sono fuggiti, non a causa del freddo e dell’inverno, ma perché li hanno cacciati dalle loro dimore. Le loro case sono state incendiate; i loro nidi sono distrutti per sempre. Nei loro giardini l’erba non cresce, non diventa verde, perché è stata distrutta fino alle radici. Anche gli alberi sono stati distrutti e quelli nuovi non hanno il coraggio di crescere, perché hanno paura di essere abbattuti anche loro».

(Sladana V., 11 anni)

«… la mia infanzia trascorre circondata dal filo spinato. Ho 12 anni, ma da quattro anni non ho ciò che hanno tutti i bambini del mondo: la libertà. Vorrei che tutte le fabbriche di filo spinato si trasformassero in fabbriche di giocattoli e fiori, così ci sarebbero giocattoli e fiori per tutti i bambini del mondo».

(Dusan M., 12 anni)

«Scende la notte. Si sente la sirena antiaerea. Ancora non credo che qualcosa di terribile possa accadere. Si sentono gli aerei e poi esplosioni che fanno scoppiare i vetri delle finestre. Panico, urla, latrati di cani, fragore di persone nelle strade. Sto sognando? Avrei voluto che fosse un sogno! Avrei voluto svegliarmi e dimenticare, ma purtroppo questa è la mia realtà…».

(Bojan M., 14 anni)

«… ora viviamo come in gabbia, prigionieri: ma gli stranieri dicono che siamo liberi…».

(Jovan R., 10 anni)

«… quando fu sera ci sedemmo in cantina. Tutta la notte mi chiesi: cosa sarà di noi domani? Dopo alcuni giorni passati in cantina, uscii in cortile, ma tutto era impazzito: nel cielo, al posto del sole c’erano aerei ed elicotteri. Dopo alcuni minuti il tuono annunciò il pericolo. Quando tornai in cantina, guardai la piccola Jovana che dormiva e mi chiesi: perché la piccola Jovana deve sognare in cantina?».

(Ivana V. 9 anni)

«Il bombardamento che ho subito ha lasciato in me forti tracce e profonde cicatrici: sul mio viso si legge la tristezza, come incisa dalla lama di un coltello; gli occhi sono più cupi per le lacrime; la mia anima soffre per l’immenso dolore… A volte desidero andarmene da qualche parte, dove possa essere solo. Desidero essere completamente solo e dimenticare questi tremendi avvenimenti per sempre».

(Ratko L., 14 anni)

«… la guerra non è una canzone, che si può dimenticare
la guerra è una favola funesta,
che ogni giorno si manifesta…».

(Milena N., 12 anni)

«… il sole non sa che i miei occhi sono felici, come tutta la natura; ma il mio cuore è triste per tutto ciò che accade intorno a me. Saltellerei anch’io allegramente e canticchierei per i tanti boschi e radure, ma non posso. Non posso per le persone, non posso per le mine e non posso per le tante cose che stanno in agguato a ogni mio passo. Non tanto lontano da me, solo una decina di metri, sento il rumore allegro dei bambini, i colpi del pallone, canzoni che si svolgono dietro allegre altalene; ma io posso solo osservare tutto ciò. Perché non posso anch’io giocare, cantare e rallegrarmi della primavera con i miei coetanei? Che colpa abbiamo commesso, perché da quattro anni aspettiamo la primavera con il cuore di ghiaccio?».

(Milica S., 12 anni)

Non lasciar morire la speranza
Questi bambini non hanno subito solo danni fisici, ma anche devastazioni emotive e comportamentali: balbuzie, tic nervosi, disfunzioni, esaurimenti nervosi e alterazioni psichiche. Sirene di allarmi, rumore di aerei e scoppi di bombe… hanno innalzato del 19% il tasso di suicidi e atti autolesivi, di cui il 40% riguarda bambini e adolescenti.

La Convenzione dell’Onu del 1989 riconosce il diritto all’uguaglianza per tutti i bambini del mondo, senza discriminazioni di «razza, colore, sesso, lingua, religione, origine etnica» (art 2). Perché nel Kosovo Methoija, conclamato come «liberato», essere bambini serbi, rom, montenegrini, goranci, egiziani, turchi… non dà diritto neanche alla vita?

Oltre alle sofferenze e privazioni, i bambini parlano di sogni, desideri di serenità, ricerca di legami di amicizia con coetanei: una ricerca di «ponti» per andare al di là del fiume di orrori, violenze e crudeltà passate e quotidiane.

Gettare «ponti» di solidarietà è il senso del nostro modesto ma caparbio lavoro nell’Associazione «Sos Jugoslavia»; al tempo stesso vogliamo essere «voce» di chi non ha più voce nei nostri giornali, Tv, mass media, dibattiti, tranne rarissime eccezioni.
Ci viene richiesta non elemosina, ma solidarietà (vedi riquadro). Essa è spesso l’unica arma che possiedono i deboli e gli oppressi e fa parte del patrimonio migliore nella storia dei popoli. Solidarizzare e sostenere delle vittime di una guerra non voluta è anche lotta per la pace.

Vogliamo aiutare a non far morire il sentimento della speranza per questi bambini e forse anche per noi.

«Non so se c’è un tempo della fine,
ma so che c’è sempre la speranza.
La speranza come coscienza
e la coscienza come lotta
per la vita…
Senza fine…».

Enrico Vigna