I bambini dell’ex Jugoslavia raccontano i loro sogni, ancora popolati
dagli incubi della guerra passata, le difficoltà dell’esistenza presente, le speranze
di un futuro di pace e di amicizia.
La solidarietà dell’Associazione «Sos Jugoslavia» vuole che questa speranza
non muoia.
Fino al 1999 la Zastava era la più grande fabbrica dei Balcani: produceva 220 mila vetture l’anno e impiegava 36 mila lavoratori di 34 etnie diverse. Oggi, ufficialmente, i dipendenti sono 17 mila; ma impiegati a rotazione, con tui di 4-5 mila al mese. Quando lavorano percepiscono un salario medio di 165 euro mensili; quando non lavorano 70/80 euro.
Secondo i dati ufficiali, oggi, in Serbia, i due terzi della popolazione spende meno di 1 euro al giorno pro capite, quando il paniere dei soli generi di primissima necessità per una famiglia di 4 persone è di 250 euro.
Essendo privatizzati o in fase di privatizzazione i servizi sociali, la scuola sta diventando un lusso, mentre prima erano praticamente garantiti dallo stato. Buona parte delle famiglie non ha più acqua, luce, riscaldamento, perché non possono pagare le bollette. Occorre ricordare che in inverno le temperature possono toccare i 20 gradi sotto zero.
Mentre dilagano le malattie, dovute sia ai 10 anni di embargo, sanzioni e guerre, sia ai bombardamenti all’uranio, che cominciano a emergere massicciamente (tumori, leucemie e malattie cutanee), la stragrande maggioranza delle famiglie non può curarsi e comprare i medicinali.
In queste condizioni vivono i bambini di cui riportiamo alcuni pensieri.
«… Adesso farò la terza media. La vita qui è dura: dobbiamo vivere in cinque con la pensione di vedova della mamma, che riceve 70 euro mensili, ma è difficile arrivare a fine mese. Senza il vostro aiuto sarebbe anche peggio… Tutti abbiamo grave stress; non riesco a esprimere cosa proviamo».
(Aleksandar T., 15 anni)
«Spero che tutto passi presto e riavere la nostra infanzia rubata. Siamo diventati grandi troppo in fretta: ragioniamo diversamente dai nostri coetanei che non hanno conosciuto la guerra… Scrivimi di te; sapere che ci sono bambini che vivono bene mi fa stare un po’ meglio e mi aiuta a sopportare le nostre sofferenze».
(Ana C., 12 anni)
«Caro amico, tu la notte riesci a dormire? Io sogno e sento sempre il suono degli aerei e delle bombe. Sogno di camminare in mezzo a rovine, tanti animali soli davanti alle case distrutte e tutto brucia. Tanti fantasmi mi stanno intorno… Grazie delle tue lettere, soprattutto perché ti ricordi di me… Anche a me piacciono le stelle: ogni sera le guardo e mi chiedo cosa starai facendo… Ho pensato di regalarti qualcosa: ho solo una penna; se te la regalo, non so più come scriverti».
(Boba K., 10 anni)
«Caro amico, mio padre è tornato dalla guerra su una carrozzella, non ha più le gambe. Perché gli hanno fatto questo? Lui è sempre stato buono, sul suo viso c’era sempre un sorriso per noi. Ora, a volte, lo vedo piangere da solo; ma con noi si sforza sempre di sorridere. Mio padre era un operaio della Zastava, ora passa la vita sulla carrozzella e non può più lavorare… Eravamo una famiglia allegra, contenti di quello che avevamo, ora non abbiamo più nulla. La mamma è sempre triste e piange… Viviamo con la pensione di papà, 60 euro in quattro; una o due volte al mese la mamma trova da andare a fare le pulizie; allora torna con qualche cioccolatino per me e mia sorella e per qualche momento tutto sembra come era prima… Voglio crescere e diventare grande presto, così farò il soldato e andrò a cercare quelli della Nato, anche fino in America, per punirli di ciò che hanno fatto alla nostra famiglia. Anche se mio padre non vuole e mi dice che bisogna avere pazienza… Amico mio, vorrei conoscere altri bambini italiani per diventare amici e un giorno raccontarci tante cose. Di questo sarei felice».
(Radko M., 12 anni)
Alle tragedie e sofferenze che i profughi si portano dentro e che, specie per la psiche dei bambini, spesso non sono superabili, si aggiungono quelle della vita quotidiana, legata alla mancanza di condizioni minime di sopravvivenza: casa, lavoro fisso, relazioni sociali minime, impossibilità di un proprio decoro, progettualità e prospettive future.
Dalle lettere dei bambini che sono al Centro collettivo profughi di Kragujevac, emerge la realtà di vita delle famiglie che vivono in questi centri di fortuna. Uno di questi era un supermercato, dove sono state messe delle pareti di compensato, ottenendo stanze di circa 6 metri quadrati, alcune senza finestre; le condizioni igieniche sono al minimo, nonostante una autoregolamentazione rigida e funzionale: ogni nucleo familiare può fare la doccia ogni 12/15 giorni; per andare al bagno occorre aspettare il proprio tuo; così pure per lavare piatti e vestiario. Non esiste riscaldamento e topi e scarafaggi convivono normalmente con i bambini.
Alienazione e disperazione favoriscono alcornolismo, malattie e disturbi nervosi, anche nei bambini. Dopo i bombardamenti della Nato, secondo studi e ricerche fatte da pediatri e psichiatri, risulta che circa il 71% dei bambini e adolescenti della Repubblica Serba hanno disturbi psichici di vario genere.
Un dato mai evidenziato è che molte migliaia di queste famiglie e bambini hanno vissuto la condizione di profughi due volte in pochi anni: esse sono parte di quei 650 mila profughi mai menzionati, che erano scappati dalle varie pulizie etniche delle guerre in Croazia e Bosnia.
Nonostante tutto questo, chi viene a conoscere direttamente la loro situazione sono colpiti dal senso profondo di grande dignità e orgoglio di questi profughi.
«… come avete visto, la stanza del Centro profughi, in cui viviamo in cinque, è piccola; ma almeno la nostra vita è più serena: abbiamo una porta solo per noi; possiamo andare a letto e svegliarci quando vogliamo… Lei è stata la prima persona che è venuta a conoscere la nostra famiglia… Grazie perché ci aiuta e perché siamo amici… siamo felicissimi di potervi offrire la nostra amicizia, i nostri sorrisi e tanto affetto… altro non abbiamo».
(Dragana N., 8 anni)
«… avevamo una vita serena; con i bombardamenti della Nato sono cominciate le nostre disgrazie: hanno distrutto i nostri sogni, i nostri sorrisi, le nostre allegrie. Continuo a chiedere ai miei genitori: «Perché?», ma non riescono a spiegarmi; mi dicono solo che così hanno voluto dei signori stranieri ricchi e potenti… Nella piccola testa ricordo sempre il paese dove sono nata, la piccola casa con i fiori, i campi intorno con l’erba, dove giocavo con gli amichetti; l’altalena costruita da papà e io sopra che ridevo, ridevo… Penso al cagnolino Lesi, che stava sempre con me felice… E poi piango; sento ancora il rumore degli aerei; rivedo le fiamme che restavano, fumo e tanti che piangevano… Finita la guerra e i bombardamenti, siamo dovuti scappare dalla nostra piccola felicità; siamo venuti a Kragujevac, in mezzo a tanta gente sconosciuta, ma ora ho tanti nuovi amichetti… Vorrei tornare nella nostra casa… ritrovare il mio cane, che forse ha fame e sete e sarà triste perché pensa che l’ho abbandonato; anche se sono passati quattro anni, sono sicura che non mi ha dimenticato… La invito a visitarci ancora… la nostra stanza è piccola, non siamo ricchi, ma vedrà che insieme a noi starà bene».
(Ndt: il padre non ha ancora trovato la forza di dirgli che la casa è stata bruciata e il cane Lesi è stato impiccato a un albero).
(Tjana D., 9 anni)
«… nel Kosovo avevamo una casa con la terra e animali: eravamo felici. Ma qualcuno ha deciso di distruggere la nostra felicità e la nostra vita. Non scorderò mai più il 20 giugno 1999: sono venuti i vicini piangenti; hanno detto ai miei genitori di prepararsi per scappare, perché stava arrivando l’Uck. Ma non avevamo un’auto e siamo rimasti solo noi della zona… poi è arrivato mio zio con la macchina a prenderci. Piangevamo tutti: abbiamo baciato la porta della nostra casa e siamo venuti via con alcune borse e un po’ di cibo per il viaggio. Io ho dovuto lasciare tutti i miei giocattoli e i miei ricordi. Tutti e cinque siamo saliti sulla macchina e siamo partiti, senza conoscere la destinazione. Siamo poi arrivati a Kragujevac e abbiamo trovato posto al Centro profughi, in un grande camerone, dove ci hanno dato 4 letti e 4 coperte militari e nient’altro… Io e i miei fratellini continuavamo a piangere e chiedere di tornare a casa; poi i genitori ci hanno detto che la nostra casa era stata bruciata dai terroristi. Dopo quattro anni piango ancora, anche nella notte, quando ricordo».
(Danica P., 10 anni)
«… in famiglia parliamo spesso di lei, della sua umanità e amicizia. Voi siete stati i primi a offrirci l’amicizia… Io sono rimasta colpita al vedere le sue lacrime, mi hanno fatto pensare che non sono sola e la nostra famiglia non è più sola: questo ci scalda tanto il cuore di speranza… Come ha potuto vedere, pur essendo in 6 in questa piccola stanza, siamo riusciti lo stesso a stare anche in otto, insieme a voi… Io e i miei fratellini abbiamo tanti desideri: avere una piccola casa nostra, dei giocattoli, dei dolci e un po’ di serenità e gioia. Un po’ di tutte queste cose ce l’avete regalate voi… Per noi ora è più facile e continuiamo a domandare quando toerete… Ogni volta che toerete, vi regaleremo il nostro affetto e i nostri sorrisi, so che è poco ma state sicuri che saranno sempre grandi».
(Ivana A., 8 anni)
Queste sono le cifre ufficiali di un anno di bombardamenti, dal giugno 1999 al giugno 2003: 350 mila profughi di tutte le etnie, in maggioranza serbi e rom, fuggiti in Serbia; 1.138 scomparsi; 1.194 assassinati.
Solo poche migliaia di non albanesi non sono scappate dalla pulizia etnica dell’Uck. Essi vivono barricati in piccolissime aree, spesso recintate col filo spinato, circondate dalle forze militari della Kfor, o assediati dentro gli ultimi monasteri ortodossi rimasti: 140 sono stati attaccati; 92 totalmente distrutti.che cosa posso portargli? >>. D ‘improvviso esclama <>
Durante le settimane successive per ogni preghiera e opera buona pose nel vaso una pietra lucente. Quando il vaso fu colmo il sant’uomo si affrettd su per la montagna, dove aveva appuntamento con Dio. Arrivd in vetta e non vedeva nessuno. All ‘improvviso udi una voce: >
E il sant’uomo, sorpreso: <>.
E Dio disse: <>
(liberamente tratto da P. Ribes
Ascolta questa…, Paoline 1997, pp. 40-42)
Queste enclavi del Kosovo sono vere e proprie prigioni a cielo aperto dell’apartheid etnico nel cuore dell’Europa. In esse si vive una vita quasi surreale: tutto ciò che accade è precostituito, dall’attesa degli alimenti e ogni bene materiale portati da fuori, alle modalità dei giochi che si possono fare solo se possibili e sicuri, alla vita scolastica, che è affidata alla volontarietà dei maestri e insegnanti rimasti. Tali «riserve indiane» sono un incubo a cielo aperto per i bambini serbi e di altre minoranze, quotidianamente minacciati e assassinati, se vengono trovati fuori dalle enclavi. Ne sono una tragica conferma gli eventi accaduti il 13 agosto scorso nell’enclave di Goradzevac, ultima isola multietnica del Kosovo occidentale, dove sopravvivono circa 700 persone. Un gruppo di ragazzi serbi decise di «evadere» per bagnarsi nel fiume Bistric, che scorre poche centinaia di metri fuori dell’enclave: due ragazzi di 11 anni e 18 anni vennero uccisi da colpi di fucile; un altro di 15 anni è in coma; altri due furono feriti gravemente e rimarranno invalidi a vita.
Le lettere dei bambini parlano di questa «normalità», risultato della guerra «umanitaria» che doveva portare pace, serenità e progresso in una terra dove, fino al 1999, convivevano 17 etnie diverse. Non era un paradiso terrestre; ma era un luogo dove chi uccideva un bambino o una persona, solo perché appartenente a un’altra etnia, era «normalmente» condannato all’ergastolo.
«… con la primavera, lentamente torna tutto ciò che se ne era andato in autunno, ma non tornano i miei amici e amiche, i miei fratelli e sorelle, che sono fuggiti, non a causa del freddo e dell’inverno, ma perché li hanno cacciati dalle loro dimore. Le loro case sono state incendiate; i loro nidi sono distrutti per sempre. Nei loro giardini l’erba non cresce, non diventa verde, perché è stata distrutta fino alle radici. Anche gli alberi sono stati distrutti e quelli nuovi non hanno il coraggio di crescere, perché hanno paura di essere abbattuti anche loro».
(Sladana V., 11 anni)
«… la mia infanzia trascorre circondata dal filo spinato. Ho 12 anni, ma da quattro anni non ho ciò che hanno tutti i bambini del mondo: la libertà. Vorrei che tutte le fabbriche di filo spinato si trasformassero in fabbriche di giocattoli e fiori, così ci sarebbero giocattoli e fiori per tutti i bambini del mondo».
(Dusan M., 12 anni)
«Scende la notte. Si sente la sirena antiaerea. Ancora non credo che qualcosa di terribile possa accadere. Si sentono gli aerei e poi esplosioni che fanno scoppiare i vetri delle finestre. Panico, urla, latrati di cani, fragore di persone nelle strade. Sto sognando? Avrei voluto che fosse un sogno! Avrei voluto svegliarmi e dimenticare, ma purtroppo questa è la mia realtà…».
(Bojan M., 14 anni)
«… ora viviamo come in gabbia, prigionieri: ma gli stranieri dicono che siamo liberi…».
(Jovan R., 10 anni)
«… quando fu sera ci sedemmo in cantina. Tutta la notte mi chiesi: cosa sarà di noi domani? Dopo alcuni giorni passati in cantina, uscii in cortile, ma tutto era impazzito: nel cielo, al posto del sole c’erano aerei ed elicotteri. Dopo alcuni minuti il tuono annunciò il pericolo. Quando tornai in cantina, guardai la piccola Jovana che dormiva e mi chiesi: perché la piccola Jovana deve sognare in cantina?».
(Ivana V. 9 anni)
«Il bombardamento che ho subito ha lasciato in me forti tracce e profonde cicatrici: sul mio viso si legge la tristezza, come incisa dalla lama di un coltello; gli occhi sono più cupi per le lacrime; la mia anima soffre per l’immenso dolore… A volte desidero andarmene da qualche parte, dove possa essere solo. Desidero essere completamente solo e dimenticare questi tremendi avvenimenti per sempre».
(Ratko L., 14 anni)
«… la guerra non è una canzone, che si può dimenticare
la guerra è una favola funesta,
che ogni giorno si manifesta…».
(Milena N., 12 anni)
«… il sole non sa che i miei occhi sono felici, come tutta la natura; ma il mio cuore è triste per tutto ciò che accade intorno a me. Saltellerei anch’io allegramente e canticchierei per i tanti boschi e radure, ma non posso. Non posso per le persone, non posso per le mine e non posso per le tante cose che stanno in agguato a ogni mio passo. Non tanto lontano da me, solo una decina di metri, sento il rumore allegro dei bambini, i colpi del pallone, canzoni che si svolgono dietro allegre altalene; ma io posso solo osservare tutto ciò. Perché non posso anch’io giocare, cantare e rallegrarmi della primavera con i miei coetanei? Che colpa abbiamo commesso, perché da quattro anni aspettiamo la primavera con il cuore di ghiaccio?».
(Milica S., 12 anni)
Non lasciar morire la speranza
Questi bambini non hanno subito solo danni fisici, ma anche devastazioni emotive e comportamentali: balbuzie, tic nervosi, disfunzioni, esaurimenti nervosi e alterazioni psichiche. Sirene di allarmi, rumore di aerei e scoppi di bombe… hanno innalzato del 19% il tasso di suicidi e atti autolesivi, di cui il 40% riguarda bambini e adolescenti.
La Convenzione dell’Onu del 1989 riconosce il diritto all’uguaglianza per tutti i bambini del mondo, senza discriminazioni di «razza, colore, sesso, lingua, religione, origine etnica» (art 2). Perché nel Kosovo Methoija, conclamato come «liberato», essere bambini serbi, rom, montenegrini, goranci, egiziani, turchi… non dà diritto neanche alla vita?
Oltre alle sofferenze e privazioni, i bambini parlano di sogni, desideri di serenità, ricerca di legami di amicizia con coetanei: una ricerca di «ponti» per andare al di là del fiume di orrori, violenze e crudeltà passate e quotidiane.
Gettare «ponti» di solidarietà è il senso del nostro modesto ma caparbio lavoro nell’Associazione «Sos Jugoslavia»; al tempo stesso vogliamo essere «voce» di chi non ha più voce nei nostri giornali, Tv, mass media, dibattiti, tranne rarissime eccezioni.
Ci viene richiesta non elemosina, ma solidarietà (vedi riquadro). Essa è spesso l’unica arma che possiedono i deboli e gli oppressi e fa parte del patrimonio migliore nella storia dei popoli. Solidarizzare e sostenere delle vittime di una guerra non voluta è anche lotta per la pace.
Vogliamo aiutare a non far morire il sentimento della speranza per questi bambini e forse anche per noi.
«Non so se c’è un tempo della fine,
ma so che c’è sempre la speranza.
La speranza come coscienza
e la coscienza come lotta
per la vita…
Senza fine…».
Enrico Vigna