Terrore rosso

Sono rare le interviste rilasciate da Pol Pot;
questa fu concessa nel dicembre 1997, quattro mesi prima di morire. Il «fratello numero uno», come si faceva chiamare l’uomo forte di Phnom Penh, si assume le proprie responsabilità, spiega il suo operato e afferma che lo rifarebbe.

E ro stato varie volte nelle zone occupate dai khmer rossi e ad Anlong Veng, loro quartier generale. Avevo avuto modo di conoscere Khieu Samphan e altri dirigenti del movimento, ma Pol Pot continuava a rimanere inavvicinabile.
Alla metà del 1997 successe qualcosa di decisivo. Nel maggio 1998 erano previste nuove elezioni generali in Cambogia e i khmer rossi, oramai isolati politicamente e finanziariamente, sentivano la necessità di rientrare nella politica nazionale, ma la parte ideologicamente più pura e dura, quella impersonificata da Pol Pot, era assolutamente contraria. L’unica soluzione, per il leader comunista, era la continuazione della lotta armata per raggiungere il potere senza compromessi.
Dalla parte opposta stava la fazione più pragmatica, guidata da Son Sen e Ta Mok, che avevano già avuto contatti con esponenti del Funcinpec (Fronte nazionale unito per una Cambogia indipendente, neutrale, pacifica e cornoperativa), il partito del figlio di Sihanouk, Ranariddh, che dal 1993 divideva il posto di primo ministro con il rivale Hun Sen, presidente del Partito del popolo cambogiano.
Il 4 luglio 1997 Funcinpec e khmer rossi firmarono un documento di alleanza in funzione anti Hun Sen; ma questi, il giorno dopo destituì il co-primo ministro Ranariddh, dando inizio a una cruenta faida tra raggruppamenti rivali.
Infine, il 25 luglio, Pol Pot fu processato dagli stessi compagni e condannato all’ergastolo; il suo posto fu preso da Ta Mok.
In due soli mesi la situazione politica dell’intera regione venne sconvolta, ma Hun Sen aveva calcolato tutto: sapeva bene che non si sarebbe ripetuta la ridda di critiche inteazionali che avevano accompagnato la presa di potere nel gennaio 1979, con l’invasione vietnamita. Né l’Onu, né Washington gli rimproverarono il colpo di stato. Gli Usa si limitavano a controllare che la situazione della regione non degenerasse; non se la sentivano di appoggiare un Ranariddh alleato dei khmer rossi.
L’Asean (Associazione delle nazioni del Sud-Est Asiatico), che, più per forma che per reale condanna, aveva rifiutato l’ammissione cambogiana nell’organizzazione, prevista per la fine di luglio, poteva permettersi di prolungare più di tanto l’estromissione della Cambogia. Il suo peso politico e strategico all’interno dello scacchiere internazionale sarebbe stato mutilato pesantemente proprio nel momento in cui l’economia dei suoi paesi fondatori traballava pericolosamente.
Chi poteva trarre maggior profitto dalla nuova instabilità cambogiana era la Cina, che stava tentando faticosamente di riacquistare peso politico nel continente e di colmare il vuoto lasciato da Washington. Ma aveva altri problemi interni e con i paesi vicini a cui badare.
Da parte sua, tagliando i legami con Taiwan, Phnom Penh cercò di disinnescare ogni tensione con Pechino e, soprattutto, di intercedere presso re Sihanouk, da anni rifugiatosi in Cina: dal monarca, infatti, dipendeva la legittimazione del nuovo regime cambogiano.
L’operazione riuscì: alla fine di agosto Hun Sen poté incontrare Sihanouk, che si disse disponibile a rientrare nel suo regno appena la salute glielo avrebbe permesso.

Q uesta, in breve, è la situazione che mi ha permesso di intervistare Pol Pot: i khmer rossi erano preoccupati per la piega che la situazione aveva assunto dopo il colpo di mano di luglio 1997 e cercavano appoggi inteazionali. Volevano mostrare al mondo intero che l’era di Pol Pot era definitivamente tramontata e che la democratizzazione del movimento era una realtà.
Il Pol Pot che trovai era assai differente dalla figura che mi ero immaginato leggendo i resoconti di coloro che lo avevano conosciuto: era un vecchio, il respiro affannoso, gli occhi spenti, i gesti lenti e attentamente studiati. Una bombola provvedeva ad aiutare a rigenerare l’ossigeno che i polmoni affaticati non riuscivano oramai più a rimpiazzare.
Era difficile immaginare che quest’uomo, dall’aspetto più simile a un contadino cambogiano che a un politico, per 3 anni e 8 mesi sia stata la persona più potente della Cambogia.
Per 18 anni le grandi agenzie giornalistiche in cerca di scornop erano arrivate ad offrire sino a 400 mila dollari per una sua intervista. Ma solo nell’agosto del 1997, il corrispondente della Far Easte Economic Review, Nate Thayer, sfruttando il rimpasto di potere avvenuto all’interno dei khmer rossi, riuscì ad avvicinare Pol Pot e a intervistarlo per la prima volta dal 1979.

Come preferisce essere chiamato, col nome di nascita, Saloth Sar, o con quello di battaglia, Pol Pot?
Dato che ho speso gli ultimi 45 anni della mia vita a combattere per il mio paese e per il popolo, preferisco essere chiamato con il nome di battaglia, Pol Pot.
Questo significa che ha dimenticato la sua famiglia?
Affatto! Durante tutti questi anni ho sempre pensato alla mia famiglia.
Però da quando si è dato alla lotta armata, non ha mai voluto incontrare alcuno dei suoi parenti. Anzi, alcuni di loro, tra cui anche suoi fratelli e sorelle, sono morti proprio per le dure condizioni di lavoro a cui erano stati sottoposti.
Ci sono due condizioni storiche e politiche da tener conto: la prima è che subito dopo la liberazione del paese, si era nel caos più completo. Dovevamo procurare il cibo per 5 milioni di cambogiani e 2 di questi erano ammassati a Phnom Penh. L’immediato trasferimento nelle campagne, perché anche loro lavorassero nelle risaie, era una condizione necessaria per la sopravvivenza di tutti. Inoltre c’era sempre il pericolo di bombardamenti da parte americana.
In secondo luogo, cosa avrebbe detto il popolo, se avessi ordinato che i miei parenti ricevessero un trattamento di riguardo? Avrebbe pensato che erano cambiati gli uomini al potere, ma il modo di gestirlo era rimasto identico.
A 22 anni di distanza, analizzando il periodo di potere khmer rosso, ammette di aver commesso degli errori macroscopici?
Sono d’accordo sul fatto che abbiamo commesso degli errori, dovuti soprattutto all’inesperienza. Del resto, chi non ne ha compiuti? Abbiamo basato e costruito la nostra politica continuando a pensare e operare secondo l’esperienza della lotta rivoluzionaria, senza passare alla fase post-rivoluzionaria, che ci avrebbe permesso di accelerare lo sviluppo della Cambogia. Ma considerando tutto, penso che il nostro governo sia stato positivo per il popolo. Penso che rispetto alla Cambogia di oggi, Kampuchea Democratica era molto più libera, democratica, indipendente e progredita.
Quindi non rigetta nulla di ciò che ha fatto.
E perché dovrei?
La maggior parte dei suoi ex compagni, da Ieng Sary a Khieu Samphan, l’ha fatto.
Sono scelte loro. Posso solo dire che la storia non può essere cancellata negando le scelte e le azioni compiute.
Lei però continua a negare la responsabilità della morte di centinaia di migliaia di cambogiani e la stessa esistenza della S-21, dei cosiddetti killing fields…
Come ho detto prima, non nego nulla di quanto mi ritengo responsabile. Non nego che durante il periodo in cui siamo stati al governo abbia personalmente commesso degli errori; ma le cifre che ha appena citato sono decisamente esagerate. Della S-21 non ne ho mai avuto notizia: è stata una messa in scena della propaganda vietnamita per giustificare la loro invasione di Kampuchea Democratica, così come i fantomatici killing fields, invenzione cinematografica di grande effetto.
Mi permetta, però, di ricordarle che gli stessi suoi ex compagni di governo oggi ammettono che tra il 17 aprile 1975 e il 7 gennaio 1979 in Cambogia si era instaurato un clima di terrore di cui lei, come primo ministro e segretario di partito, è stato il solo responsabile.
Posso solo dire che anche loro occupavano, assieme a me, posti di alta responsabilità. È logico che dopo il cambiamento di rotta politica all’interno del movimento tentino di riproporsi in una nuova prospettiva. Ma vorrei evitare di continuare a parlare di questi argomenti.
Quindi, se lei potesse tornare al potere, attuerebbe la stessa politica intrapresa durante il periodo tra il 1975 e il 1978?
Lo ripeto: non ho nulla di cui rimproverarmi. Penso che la nostra linea era giusta allora e lo sarebbe anche oggi. Naturalmente i tempi sono cambiati, ma anche nel 1978 stavamo gradualmente introducendo delle importanti riforme in Kampuchea Democratica.
Quali?
Reintroduzione del denaro, possibilità di gestire mercati privati, apertura delle frontiere, ritorno dei monaci nelle loro pagode. Ma il Vietnam non voleva tutto questo e ha deciso di invadere il nostro paese.
Come giustifica la sua avversione per il Vietnam?
Non è una mia avversione, ma quella di tutto il popolo khmer verso la minaccia youn.
A quanto ho potuto capire, è un contrasto che ha radici più storiche che razziali.
Esattamente. Il Vietnam si è annesso, nei secoli precedenti, la regione del Delta del Mekong, che apparteneva culturalmente, storicamente e etnicamente ai khmer. Nel 1975 si preparava ad annettere il resto della Cambogia. Abbiamo le prove di questo. Ma non avevano previsto la nostra vittoria, e si sono così trovati nell’impossibilità di compiere i loro piani di conquista.
Dice di avere le prove del piano di annessione della Cambogia al Vietnam. Quali sarebbero?
Discorsi all’interno del Partito dei lavoratori del Vietnam, lettere, preparativi militari, attacchi e provocazioni alle frontiere, spostamenti massicci di popolazioni verso il confine cambogiano, per occupare le terre che appartengono ai khmer e, soprattutto, infiltrazioni di elementi vietnamiti nel nostro partito.
Le purghe effettuate durante il suo governo sono quindi da addebitarsi alla politica di purificazione dall’elemento vietnamita all’interno dell’amministrazione di Kampuchea Democratica, per assicurare l’integrità della nazione?
Certamente. E la conferma è che oggi a Phnom Penh c’è una marionetta infiltrata dai vietnamiti nel nostro partito.
C’è oggi un paese che indicherebbe come esempio di modello sociale?
Ogni paese ha una storia e una situazione politica, sociale, culturale propria. Ultimamente non ho viaggiato molto, (ride, nda) quindi non ho diretta esperienza di sistemi sociali in atto…
Si sente ancora marxista?
Non nel senso che voi occidentali date a questo termine. Ho trovato nell’idea marxista degli spunti per condurre la lotta politica in Cambogia. Ma li ho trovati anche leggendo Rousseau, Gandhi, Voltaire.
Leninista?
Lenin ha avuto un ruolo storico d’avanguardia nel dimostrare che le idee di Marx potevano divenire realtà. È stato un grande maestro e grande personaggio storico per tutti, a prescindere dalle idee politiche.
Maoista?
Mao è stato un grande politico e un grande amico. La lotta condotta dal popolo khmer è per molti versi simile a quella condotta dal popolo cinese. Inoltre, la situazione culturale e politica della Cambogia è più assimilabile a quella cinese che a quella europea e sovietica: cinesi e khmer vivono e sono prosperati nelle risaie.
Lei è una sorta di dr. Jeckill e mr. Hyde: estremamente affettuoso e premuroso con la sua famiglia e con i suoi ospiti, ma duro e spietato in politica.
(Pol Pot compie un gesto di stizza e rimane muto nda).
Come si spiega che è più odiato all’estero che in Cambogia?
Perché i cambogiani mi conoscono meglio che all’estero.
Sa che in Occidente viene spesso paragonato a Hitler?
Non vedo alcun nesso tra me e Hitler. Hitler era un pazzo che ha sterminato milioni di ebrei e ha portato il mondo alla ii guerra mondiale.
Ma secondo gli studiosi, anche lei ha sterminato milioni di cambogiani: per l’opinione pubblica occidentale anche lei è un pazzo…
(Pol Pot si altera a tal punto che gli viene meno il respiro. Si porta la maschera d’ossigeno alla bocca. Il medico, allarmato, mi chiede di non continuare a porre altre domande del genere).
Cosa ritiene che sia essenziale in un uomo?
La volontà sincera e profonda di lottare per il bene del proprio popolo, mettendo in secondo piano gli interessi personali.
E lei pensa di aver rappresentato queste qualità?
Non sta a me giudicare. Sono comunque sereno.
Come vorrebbe essere ricordato dai suoi connazionali?
Come un uomo giusto e onesto; come un uomo che ha lottato sino all’ultimo per difendere la Cambogia dalla distruzione a opera dei vietnamiti.

Piergiorgio Pescali




L’amore di Kambu e Mera vince ancora

L’AMORE DI KAMBU E MERA
VINCE ANCORA

L a leggenda che descrive la nascita della razza khmer è uno dei più interessanti racconti della letteratura del Sud-Est Asiatico: in essa si mescolano armoniosamente etnologia e storia , sincretismo religioso e surrealismo orientale.
L’unione del mitico indiano Kambu, con la meravigliosa danzatrice Mera, rispetta, pur nella concezione fantastica, la realtà di due popoli che, incontrandosi pacificamente, si conglobano tra loro, dando vita a un’unica razza e cultura.
L’influenza che il subcontinente indiano ha esercitato nei secoli passati è visibile ancora oggi nella vita delle popolazioni indocinesi; in quella khmer si rende addirittura tangibile: musica e danza sono le arti che meglio rispecchiano queste peculiarità e sono inscindibili dalle più comuni faccende quotidiane. I bambini vengono educati all’arte della danza sin dalla più tenera età.
La famosa «scala celeste» trova nei musicisti khmer gli ultimi esecutori: le vibranti note catturano lo spirito dei più attenti ascoltatori, avvicinandoli gradatamente alle sfere celesti e, ultimo stadio, al nirvana.
Negli spettacoli popolari, la musica è sempre accompagnata dalla danza: nessuna delle due potrebbe sopravvivere senza il reciproco supporto.
La capacità espressiva e la sinuosa gestualità degli arti, mani e piedi, sembrano doti talmente naturali nel cambogiano, che non si può evitare di rimandare il pensiero alla leggendaria capostipite: Mera che, appunto, era danzatrice essa stessa.
In tali rappresentazioni tutto ha sapore di regalità: l’abbigliamento, sempre sfarzoso, colorato e tempestato da pietre policrome; il viso di danzatori e danzatrici, truccato al massimo, per rispecchiare gli stati d’animo dei personaggi rievocati; la mitra, dalla tradizionale forma appuntita, che arricchisce la coreografia di solennità; le dita delle danzatrici, affusolate e con unghie lunghe e colorate…
Di solito gli spettacoli si svolgono sullo scenario di Angkor Wat e trattano temi di carattere sentimentale, con evidenti influssi religiosi e animisti. Sono sempre presenti i demoni della cosmologia prebuddista, che, di volta in volta, si scontrano o si alleano con altri esseri ultraterreni, secondo regole incomprensibili ai profani.
La finale è scontata: le forze maligne sono sconfitte; trionfa il bene, personificato dai due amanti, che coronano il loro sogno d’amore, come quello di Kambu e Mera.

P.P.




Vita di Pol Pot

VITA DI POL POT

E ra nato nel 1925 a Sbauv, nella provincia di Kompong Thom con il nome di Saloth Sar. Grazie alla cugina, concubina del re della Cambogia, e al fratello, impiegato presso la corte reale, fu mandato a studiare nel prestigioso Liceo Sisowath di Phnom Penh e poi in Francia (1949), dove iniziò a frequentare circoli di sinistra e a formarsi politicamente.
Tornato a Phnom Penh senza aver completato gli studi, entrò nel Partito comunista Indocinese e poi nel Pracheachon (Partito del popolo). Nel 1960 fu tra i fondatori del Pc cambogiano di cui divenne segretario (1963), alla morte di Tou Samouth.
Nel 1968 un colpo di stato depose Sihanouk e la guerriglia cambogiana, sino ad allora debole, diventò più popolare, sino a trionfare il 17 aprile 1975, quando conquistò il potere e Pol Pot divenne l’uomo forte di Phnom Penh. Per 3 anni e 8 mesi i khmer rossi attuarono una politica di comunismo radicale, causando la morte di 1-2 milioni di cambogiani.
Nel gennaio 1979 il Vietnam invase la Cambogia e Pol Pot si rifugiò nella giungla e capeggiò la sanguinosa guerriglia. La sua leadership fu scossa prima nel 1996, quando Ieng Sary, capo dei khmer rossi di Pailin, disertò a favore di Phnom Penh, poi nel giugno del 1997, quando Ta Mok lo destituì dopo un drammatico gioco di forza, concluso con un processo popolare, che lo allontanò definitivamente dalla dirigenza e lo pose agli arresti domiciliari.
Ta Mok, divenuto nuovo leader, non riesce però ad evitare il crollo del movimento guerrigliero. La morte di Pol Pot, avvenuta nell’aprile 1998, ha segnato la fine di un’epoca. Poche settimane dopo l’esercito governativo di Phnom Penh occupò l’ultima roccaforte dei khmer rossi, Anlong Veng, catturando Ta Mok, oggi in attesa di processo a Phnom Penh.

P.P.




Il processo può attendere

N ell’intervista concessami nel dicembre 1997, l’ultima rilasciata a un giornalista, Pol Pot mi confidò di voler essere ricordato «come un uomo giusto e onesto; un uomo che ha lottato sino all’ultimo per difendere la Cambogia dalla distruzione ad opera dei vietnamiti».
Queste parole mi tornano in mente quando, quest’anno, in una Cambogia devastata da corruzione, violenza, povertà e miseria morale, ho visitato la tomba in cui furono tumulate le sue ceneri. Non ho faticato a trovarla: ogni giorno piccole folle di pellegrini si radunano attorno al luogo di sepoltura, lasciando piccole offerte ed ex voto. Prima di andarsene, tutti fanno il sompieh, saluto a mani giunte chinando la testa fino a toccare terra.
Mentre in tutto il mondo il nome di Pol Pot è associato a massacri di massa, i nuovi politici cambogiani sono riusciti, con la loro inefficienza e inettitudine, a creare attorno a Pol Pot e ai khmer rossi un alone di benevolenza, trasformatasi in una sorta di santificazione.
«I khmer rossi, e Pol Pot in particolare, sono visti come esempio di onestà e, paradossalmente, di giustizia: Pol Pot non si è arricchito ed è morto in povertà, come gli stessi sudditi che trucidava» mi dice David P. Chandler, il più insigne studioso della figura del leader khmer e autore di Brother Number One: A Political Biography of Pol Pot.
La maggioranza dei cambogiani è nata dopo il crollo del regime di Pol Pot e non conosce gli orrori da lui perpetrati, perché chi li ha subiti, genitori o nonni, ne sono ancora talmente scioccati che si rifiutano di parlarne. Ma sentono affermare, da chi ha vissuto e visitato le aree controllate dal movimento dopo gli anni ’80, che la qualità della vita e le strutture agricole erano migliori di quelle che trovano nella Cambogia attuale, governata da un altro ex khmer rosso: Hun Sen.

L a morte di Pol Pot (1998) ha inferto un colpo forse mortale a chi si batte affinché si istituisca un tribunale internazionale che giudichi i crimini commessi dai khmer rossi.
Ma sono in molti, a Phnom Penh e nel mondo politico internazionale, a rallegrarsene in segreto. L’inchiesta che ne seguirebbe porterebbe a svelare gravi responsabilità di quegli stessi elementi che oggi sbraitano contro le colpe commesse tra il 1975 e il 1979. Primi tra tutti Hun Sen e Chea Sim che, dopo essere convolati tra le braccia del Vietnam, oggi spadroneggiano e tiranneggiano il paese.
Ma la stessa famiglia reale è coinvolta nell’opera di Pol Pot: Sihanouk è stato capo di stato di Kampuchea Democratica e ne ha difeso all’Onu il seggio, all’indomani dell’invasione vietnamita, mentre suo figlio Ranariddh ha tessuto legami con la dirigenza guerrigliera.
Inoltre, che dire della Francia, il cui colonialismo si è dimostrato ottimo fertilizzante per la nascente guerriglia, o degli Usa, la cui ottusa politica, culminata con il colpo di stato di Lon Nol (1970), ha spianato la strada al potere dei khmer rossi?
E poi la Thailandia, da sempre principale sostenitrice finanziaria di Pol Pot, la Cina, foitrice di armi, la Gran Bretagna, che ha spedito i suoi soldati ad addestrare la guerriglia cambogiana, completano solo la parte più evidente della rosa di complicità, che un processo equo e giusto ai danni dei khmer rossi dovrebbe coinvolgere.
Non è certo un caso che quasi tutto quanto è stato scritto sui khmer rossi è frutto di conoscenza superficiale della situazione storica indocinese, così come ciò che è stato scritto di Pol Pot è spesso irriflessivo e avventato, come i parallelismi con Hitler e Stalin.
«Per capire l’uomo e quello che è accaduto in Kampuchea Democratica è cruciale recuperare il contesto cambogiano e le influenze che ha avuto dall’esterno. Tutti noi ci dobbiamo mettere in discussione» afferma David P. Chandler. Ma abbiamo il coraggio di farlo?

P.P.




Incubo indelebile

Povertà, corruzione, sfruttamento;
classe dirigente contraddittoria e opportunista…
C’è chi rimpiange il regime di Pol Pot.

Ricordo ancora la prima volta che visitai Phnom Penh, verso la metà degli anni ’80: la città contava meno di centomila abitanti, mentre 10 anni prima vi si assiepavano quasi 3 milioni di persone, metà dell’intera popolazione del paese.
Le strade erano deserte, animate solo da rari passanti; i più fortunati arrancavano pedalando su biciclette arrugginite. Il mercato centrale raccoglieva il poco che la nazione potesse offrire: chi vendeva un casco di banane, chi un paio di papaye, chi un copertone d’auto completamente liso; alcuni mettevano in mostra semplici fili di ferro, altri rarissime penne o matite; i più fortunati avevano uno o due chili di riso raggranellati chissà dove.
Il baratto era l’unica forma di commercio accettata; la moneta, introdotta pochi mesi dopo la caduta del regime di Pol Pot, si svalutava di ora in ora e nessuno si sentiva sicuro con quei pezzi di carta che avrebbero potuto trasformarsi in combustibile, come era accaduto il 17 aprile 1975.
Gli edifici della città erano per lo più abbandonati, lasciati all’incuria e alla mercé della vegetazione. Di notte, poi, la capitale era incredibile a vedersi: il buio più completo la avvolgeva; il silenzio, rotto da qualche generatore diesel che alimentava poche fioche luci di lampadine, che variavano continuamente la loro intensità luminosa, contribuiva a creare un’atmosfera irreale.
Lungo le strade deserte le lantee rischiaravano appena i volti di famiglie sedute in circolo a consumare ciò che una giornata di lavoro era riuscita a offrire loro: una manciata di riso, qualche verdura e frutto.
DEMOCRAZIA DEGLI «EX»
Oggi, a 20 anni di distanza, Boulevard Norodom è intasato di macchine e motorini, che strombazzano all’ombra di enormi cartelloni pubblicitari, affiancati da negozi che espongono tutto ciò che il mercato internazionale mette a disposizione.
I bambini, probabilmente figli degli stessi ragazzini che tempo fa avevo visto assaporare con tanto languore pochi chicchi di riso, corrono a piedi nudi sull’asfalto cotto dal sole. I più fortunati leccano un gelato, altri sorseggiano una Mirinda, la Fanta del Sud Est Asiatico. Il mercato centrale, tornato agli antichi splendori, è affollato all’inverosimile.
Si paga in riel: il baratto, almeno qui in città, non è più accettato. Poco distante, i pullman aspettano di riempire gli ultimi posti per poi sfrecciare verso ogni angolo di un paese che, dopo più di tre decenni, non è ancora riuscito a scrollarsi di dosso l’incubo del suo passato: le ferite da questo inferte al popolo sono ancora troppo evidenti e presenti nella vita quotidiana.
La zoppicante democratizzazione della vita politica, iniziata nel 1993 con le elezioni, volute dalle Nazioni Unite e parzialmente fallite per l’opposizione dei khmer rossi, è continuata attraverso altre due consultazioni generali, l’ultima nel giugno scorso: in tutte il leader del Partito del popolo cambogiano, Hun Sen, ha ottenuto schiaccianti vittorie, grazie più alla sfiducia espressa dagli elettori verso i suoi inetti oppositori, che per la fiducia che infonde il premier.
Troppi, infatti, sono i prefissi «ex» che si possono affibbiare alla carriera politica di Hun Sen, perché le sue promesse possano ritenersi attendibili: ex khmer rosso, ex filovietnamita, ex comunista.
Per anni il potere di Hun Sen e la Cambogia stessa non sono crollati solo grazie alla fragile impalcatura di un tacito consenso politico in funzione anti Pol Pot: ai khmer rossi veniva imputato tutto quanto di negativo accadeva nel paese: assassini politici, difficile decollo economico, instabilità, povertà delle campagne, brogli elettorali, burocrazia, inefficienza delle strutture pubbliche, alta percentuale di handicappati fisici e mentali e, dulcis in fundo, il golpe del 1997.
Il dito era immancabilmente puntato verso di loro. «I khmer rossi dominano ancora il paese e le divisioni politiche all’interno del parlamento non fanno che rafforzarli. È ora che la Cambogia abbia un solo leader, capace di far fronte alla barbarie» mi aveva detto Hun Sen subito dopo il putsch del 5 luglio 1997, cercando di giustificare il suo operato. Poi ha aggiunto: «Io ho salvato la Cambogia da un secondo massacro: l’accordo stipulato tra il Funcinpec di Norodom Ranariddh e la dirigenza dei khmer rossi, spianava la strada dalle giungle di Anlong Veng a Phnom Penh per Pol Pot e la sua cricca. Avremmo avuto altri killing fields. Era questo che i cambogiani volevano? Non penso. Ho quindi deciso di agire».
Ma questa facciata di Hun Sen salvatore della patria non regge. Tutti qui ricordano che è stato lui a opporsi energicamente a un eventuale giudizio in tribunale della dirigenza di Kampuchea Democratica; è stato ancora lui a concedere grazia e immunità a Ieng Sary, l’ex ministro degli esteri e «fratello numero tre» di Kampuchea Democratica, cognato di Pol Pot, in cambio di una sottomissione al governo di Phnom Penh.
Oggi Pailin, la regione più ricca della Cambogia grazie alle sue miniere di rubini, è un’entità semiautonoma, amministrata dai transfughi khmer rossi, dove gli emissari governativi non hanno alcun potere. Lì vivono, oltre a Ieng Sary e sua moglie Ieng Thirith, Noun Chea, «fratello numero due» di Kampuchea Democratica, Khieu Samphan e altri dirigenti, scampati alla cattura nel 1998, quando anche l’ultima roccaforte rossa, quella di Anlong Veng, venne occupata dall’esercito governativo.
MORALE DA EX… ROSSI
Mi reco a Pailin, dove riesco a incontrare Ieng Sary. Lui, come tutti i suoi compagni, circola liberamente senza scorta per le vie del villaggio. La gente lo venera, non per paura, ma perché vede in quest’uomo una figura carismatica che vive tra loro, ride con loro, mangia nei loro ristorantini. Insomma, è uno di loro.
Ogni giorno, davanti alla sua casa ci sono numerose persone che chiedono il suo aiuto o il suo consiglio per dirimere contenziosi. La sua parola è legge e tutti l’accettano. «Noi, ex dirigenti di Kampuchea Democratica, ci siamo ritirati da tempo dalla politica. Ci siamo accorti che la nostra politica non si poteva adattare alla società cambogiana, perché gli obiettivi che ci eravamo prefissi a quel tempo erano troppo ambiziosi e noi non potevamo raggiungerli con i mezzi che avevamo. Era solo un sogno, un sogno che non poteva divenire realtà». Quindi, ci si è adattati al nuovo sistema.
La posizione strategica di Pailin, a pochi chilometri dal confine thailandese e il continuo andirivieni di compratori di pietre preziose, hanno indotto Ieng Sary a concedere al magnate cambogiano Theng Bunma di costruire il primo casinò della Cambogia post-khmer rossi, in cambio di una cospicua fetta dei profitti.
Esprimo a Ieng le mie perplessità sulla degradazione morale che locali come questo possono creare nella comunità: per assai molto meno, migliaia di cambogiani erano stati accusati dal suo stesso governo di aver ceduto ai vizi del capitalismo e, per questo, uccisi. Lui capisce e condivide; ma afferma che il casinò servirà per costruire e migliorare le infrastrutture pubbliche della regione.
SFRUTTAMENTO INCONTRASTATO
La decadenza etica della società cambogiana è uno dei problemi principali che chiese e Ong cercano di contrastare. L’arrivo in massa di soldati dell’Onu negli anni ’90, seguiti da agenti di organizzazioni inteazionali e turismo di massa, hanno contribuito ad alimentare l’industria della prostituzione, principalmente infantile.
A Tuol Kork, quartiere periferico di Phnom Penh, ragazze dai 10-12 anni in su, nascoste dietro maschere di trucco, si offrono a chiunque per denaro. La maggioranza viene dalle campagne; altre sono state vendute dalle famiglie; altre ancora provengono dal Vietnam o Laos, attirate dalla promessa di un lavoro decente.
«I khmer rossi hanno creato una nazione in cui corruzione e prostituzione erano virtualmente assenti e questo ha contribuito a creare nei giovani una sorta di mito di purezza che i politici nostrani, con i loro inconcepibili comportamenti, contribuiscono ad alimentare» mi spiega George Ingram, direttore della «Coalizione per l’educazione di base», un’organizzazione formata da sedici Ong statunitensi che lottano per contrastare la diffusione dell’Aids nel paese. Con il 2,8% della popolazione affetta da Hiv, la Cambogia è la nazione del Sud Est Asiatico con la percentuale più alta di sieropositivi.
Ma anche chi riesce a non farsi inghiottire dal racket della prostituzione, non ha vita più facile: da Taiwan, Thailandia, Malesia, Cina, arrivano imprenditori attirati dalla completa mancanza di regole nel campo del lavoro. Nelle fabbriche, soprattutto tessili, si lavora ininterrottamente per 12-14 ore al giorno, per 30 dollari al mese e senza alcun diritto.
Le rappresentanze sindacali, quando esistono, sono messe a tacere con ricatti o con violenza; gli abusi sessuali nei confronti delle donne e dei bambini sono oramai all’ordine del giorno. Sam Rainsy, il politico più anticomunista del parlamento cambogiano e leader dell’omonimo partito, ha avviato una campagna di difesa dei lavoratori e contadini: «Lo sviluppo economico deve andare di pari passo alla giustizia sociale, ma dobbiamo considerare anche i costi sociali e ambientali che dovremmo pagare; abbiamo il dovere di proteggere le nostre risorse naturali e difendere i diritti dei poveri e dei deboli. La Cambogia ha bisogno di investitori stranieri; ma essi devono rispettare i diritti dei lavoratori».
CONTRADDIZIONI E OPPORTUNISMI
Belle parole; ma si scontrano con le difese offerte dallo stesso Rainsy agli imprenditori, quando questi si trovano in conflitto col governo, segno di quanto sia contraddittoria e opportunista la classe politica del paese.
Nella sua campagna elettorale, Rainsy, che dopo aver vissuto 27 anni in Francia è tornato in Cambogia con l’intenzione di trasformare la società seguendo il modello occidentale, ha più volte alimentato l’odio storico esistente tra khmer e viet, usando violente espressioni antivietnamite proprie del vocabolario khmer rosso, come «governo fantoccio del Vietnam»; «strategia dei vietnamiti nel vietnamizzare l’Indocina»… Slogan pericolosi, usati per giustificare mobilitazioni e assalti alle ambasciate del Vietnam o Thailandia, o per incitare veri e propri pogrom contro le etnie minoritarie.
E quando la violenza khmer si scatena, neppure gli appelli del re Sihanouk possono fermarla. Paul Mus, studioso della società cambogiana scriveva: «Si crede che i cambogiani siano miti. Diffidate di questa fama. Conoscete dei miti che hanno costruito qualcosa di altrettanto formidabile di Angkor? Appena le circostanze vi si presenteranno, scoppierà la loro violenza».
Quanta ragione aveva Paul Mus! E allora non è un caso che il personaggio pubblico più longevo del paese sia proprio il più indecifrabile e ambiguo di tutti: re Sihanouk, che oggi occupa il tempo a scrivere canzoni inascoltabili. Anti-tutto e al tempo stesso pro-tutto, Sihanouk è sopravvissuto a se stesso: dopo il fallimento del Sangkum negli anni ’60, è scampato al colpo di stato di Lon Nol, alla furia dei khmer rossi, all’odio dei vietnamiti e di Hun Sen, giungendo sano e salvo al 2004 senza dover rendere conto a nessuno delle sue inconcepibili prese di posizione.
Suo figlio Ranariddh, politico più per raccomandazione che per capacità, non è mai riuscito ad affermarsi sul piano personale, offuscato dalla figura patea nella corte reale e dal rivale Hun Sen in parlamento. Tutte le mosse per conquistarsi una fetta di potere si sono dimostrate disastrose e i suoi sostenitori lo hanno abbandonato in massa.
NOSTALGIE PERICOLOSE
Di fronte a questa disfatta politica, non è una sorpresa giungere ad Anlong Veng e trovare la tomba di Pol Pot coperta da ex-voto e costantemente visitata da cambogiani che rendono omaggio a un leader condannato dall’umanità intera, ma che il suo popolo non ha ancora ricusato.
«Pol Pot è stato un leader esemplare per tutti noi. È vissuto con noi; è morto come noi» mi dice un contadino. Una ragazza lamenta che, con l’arrivo delle autorità di Phnom Penh, le infrastrutture agricole, tanto efficienti sotto i khmer rossi, sono state abbandonate e la regione, una delle più fiorenti della Cambogia prima del 1998, ora sta rapidamente degenerando.
«Ora ci rimangono solo due possibilità – conclude una vedova, madre di quattro figli – trasferirci a Pailin, sotto Ieng Sary, Noun Chea e Khieu Samphan, o andare in Thailandia».•

Piergiorgio Pescali




Le mine continueranno ad azzoppare

Battambang è una sonnolenta e graziosa cittadina in stile coloniale, adagiata tra risaie e attraversata dal fiume Sangker, in cui i bambini si divertono a nuotare, schiamazzando e inseguendo le imbarcazioni dei commercianti vietnamiti che, dal Tonlé Sap, giungono fin qui a rivendere il pesce.
Ma accanto a questo spaccato di tradizionale vita asiatica, se ne contrappone un altro meno rassicurante: la città si trova al centro di una delle regioni più devastate dalla guerra civile, che per quasi 20 anni ha visto contrapporre tra loro l’Esercito reale di Hun Sen e i khmer rossi di Ieng Sary, arroccati a Pailin, un villaggio al confine con la Thailandia, nei cui dintorni vi sono ricchi giacimenti di rubini e zaffiri.
L’accordo, siglato tra i due leaders nell’agosto 1996, ha sancito, almeno formalmente, la fine del conflitto, ma non ha impedito che gli strascichi della lunga guerra mietano ancora oggi numerose vittime a causa delle mine disseminate dall’una e dall’altra fazione per tutta la provincia.
Dal cassone del pick-up, che in poco più di due ore mi porta a Pailin, osservo i villaggi che si allineano lungo la strada, attorniati da campi che per chilometri e chilometri il Cmag (Cambodian Mines Advisory Group), il corpo speciale dell’esercito cambogiano preposto allo sminamento, ha recintato con nastri rossi per avvertire la popolazione della presenza dei minuscoli ma micidiali ordigni.
«Non delle grandi cose bisogna aver paura, ma delle piccole» mi diceva un fotografo del National Geographic, conosciuto in Laos l’anno scorso. La frase mi torna in mente ora che vedo bambini, uomini e donne menomati per sempre a causa delle mine. E ogni giorno, proprio qui, nella provincia di Battambang, qualche carica seminata nella fertile terra, che per natura dovrebbe offrire cibo alla popolazione, miete altre vittime.

P er aiutare queste persone, Emergency, l’organizzazione non governativa fondata da Gino Strada, nel 1998 ha aperto un ospedale a Battambang: vi lavorano 125 cambogiani e 10 volontari europei, guidati da uno dei chirurghi di guerra più famosi al mondo: il belga Gustavs Questiaux.
Il centro, dedicato a Ilaria Alpi, ha riscontrato subito la fiducia dei locali, abituati a farsi curare e operare negli ospedali della città, dove non esiste igiene e personale specializzato.
«In tutta la nazione vi sono solo 32 infermiere diplomate; a Battambang la chirurgia è affidata a équipes mediche inesperte, che spesso peggiorano la situazione degli assistiti» lamenta Gino Strada; e porta come esempio un giovane, curato in un ospedale statale, al quale si è dovuto tagliare totalmente una gamba perché incancrenitasi.
In condizioni di tale emergenza i medici dell’Ong hanno deciso di dedicare parte del loro tempo all’insegnamento di tecniche chirurgiche ai colleghi cambogiani, in modo che, nel giro di tre anni, siano pronti a gestire da soli l’intero progetto.
Accanto alla pratica, per Emergency è altrettanto importante l’approccio con cui il personale si propone al paziente. In un paese come la Cambogia, dove la società è oramai priva di fulcri ideologici e valori, l’uomo viene valutato a seconda del prestigio che occupa nella complessa gerarchia sociale.
La filosofia proposta da Emergency vuole, invece, far prevalere il paziente, visto esclusivamente come essere umano, con tutti i diritti al rispetto, cura e assistenza a esso dovuti. Un bel salto di qualità, che costringerà i dipendenti a un drastico cambio di mentalità. «È questa la vera sfida a cui Emergency è chiamata a rispondere» concorda Gino Strada.
Questa riscoperta etica della medicina ha anche richiamato volontari come Donaldo Ciresi, che, dopo anni di lavoro in un famoso ospedale di Milano, ha deciso di imbarcarsi nel volontariato: «Ero stanco di vedere medici lavorare solo per guadagnare il più possibile. Ho studiato medicina per cercare di salvare vite, non per spremere portafogli. Qui, finalmente, ho ritrovato l’etica imposta da Ippocrate e sul cui testamento ho giurato» mi confida entusiasta.

M a vi è un’altra grossa scommessa da vincere: visitando la nazione, non può sfuggire l’alta percentuale di vittime a cui si è dovuto amputare la gamba sino all’altezza dell’anca. «È a causa della quantità di tritolo contenuto nelle mine: in Cambogia essa supera spesso la soglia dei 3 grammi, ritenuta il limite, oltre la quale il danno provocato dalle schegge è tale da costringere l’amputazione totale dell’arto o degli arti» spiega Roberto Bottura.
Questo significa che la preparazione dei chirurghi dovrà essere di qualità più elevata rispetto ad altri paesi che soffrono del medesimo problema.
Chiedo a Gino se, oltre alla riabilitazione fisica garantita dal centro, ne sia contemplata anche una psicologica, per reinserire le vittime nella loro comunità. «In questo paese, dove in media una persona su 200 mila ha subito il trauma dell’esplosione da mine, l’handicap fisico non è un tabù, che esclude chi lo subisce. Non vi è, quindi, una necessità estrema di seguire il paziente nel campo psicologico» mi risponde, peccando forse di ottimismo.

N on sarà un tabù, ma di certo la presenza di persone menomate ripropone in modo costante ed evidente il problema delle mine che, a differenza degli scontri a fuoco tra eserciti, continua a ripercuotersi sulla società anche a distanza di decadi dopo la fine della guerra.
In questo campo sono di poco conforto le statistiche raccolte all’ufficio Unicef di Phnom Penh, le quali notano una diminuzione delle persone che ogni anno incappano nelle mine; e ciò grazie alla mappatura dei terreni effettuata dal Cmag.
E mentre il pick-up sobbalza nelle pozzanghere della strada, osservo la popolazione dei villaggi che coltiva anche le risaie recintate dal fatidico nastro rosso, col rischio di far saltare qualche decagrammo di tritolo.
Lo sminamento, che dovrebbe far seguito alla delimitazione dei terreni, al ritmo attuale durerà decenni: i contadini, già provati dalla guerra, non possono permettersi il lusso di abbandonare le risaie e lasciare l’intera famiglia con lo spettro della fame.
Così rischiano. Quotidianamente.

P.P.




RICORDANDO I MISSIONARI MARTIRI

«Il più grande omaggio che le chiese possono presentare
a Cristo è la dimostrazione dell’onnipresenza
del Redentore, mediante i frutti di fede, speranza e carità, in uomini e donne di tante lingue e razze… È importante ricordare i testimoni della fede che, anche nel
nostro tempo, per essa soffrirono e vissero pienamente
nella verità del Cristo».

Giovanni Paolo II

«Questi nostri fratelli aggiungono all’albo dei vincitori
una pagina, allo stesso tempo tragica e gloriosa».

Paolo VI

Morire insieme per la fede
Mozambico: i 24 martiri di Guiúa

Dieci anni fa, un tragico fatto di sangue
nel Mozambico ancora in guerra.
Il racconto, semplice e drammatico,
di una vicenda, che ci riporta
al tempo dei primi testimoni del vangelo.

I l 24 marzo, che ricorda i missionari
martiri, diventa un’occasione
propizia per non dimenticare
anche altri martiri,
frutto del loro lavoro apostolico.
È il caso di 24 catechisti mozambicani:
hanno testimoniato la loro
fede, prima nel servizio alle comunità
e poi nel martirio, subìto la
notte del 22 marzo 1992, a Guiúa
(Inhambane), mentre si trovavano
nel Centro pastorale per un
corso di formazione.
Il loro sacrificio e quello di tanti
altri (i cui nomi sono nascosti nel
cuore di Dio) diventano per noi
segno e inizio di tempi nuovi, che
affondano le radici nei valori autentici
della cultura e del vangelo.
Questa è la loro storia…

UN CENTRO
PER «PROMUOVERE» L’UOMO

Dopo il Concilio ecumenico vaticano
II, abbiamo assistito ad un
rinnovamento profondo della chiesa
e della sua presenza nel mondo
d’oggi.
In questo rinnovamento, che ha
scosso anche il Mozambico, si colloca
la creazione di tre Centri catechistici:
il Centro «Paolo VI» ad Anchilo
(Nampula) per le diocesi del
nord; il Centro di formazione di Nazaré
(Beira) per le diocesi del centro;
il Centro di promozione umana
di Guiúa (Inhambane) per le diocesi
del sud.
Il Centro del Guiúa fu inaugurato
il 9 gennaio del 1972 e il primo mandato
missionario ai catechisti avvenne
il 30 dicembre 1973. Il nome
«Centro di promozione umana» fu
ispirato dall’enciclica di Paolo VI, Populorum
Progressio, dove leggiamo:
«È necessario promuovere un umanesimo
totale. E che cos’è se non lo
sviluppo integrale di tutto l’uomo e
di tutti gli uomini? Non esiste, perciò,
vero umanesimo se non aperto
all’Assoluto, riconoscendo una vocazione
che esprime l’idea esatta di ciò
che è la vita umana» (n. 42).
Il Centro comprende un insieme di
modeste strutture: 31 casette destinate
alla residenza dei catechisti e
rispettive famiglie; 10 edifici adibiti
ad aule per incontri, uffici e cap-
pella; una residenza per i formatori;
un centro sanitario, una scuola elementare
e campi agricoli. Il tutto per
accogliere varie famiglie, in un periodo
di due anni, con l’obiettivo di
un’intensa formazione sociale, culturale
e religiosa.

LA GUERRA IN CASA
Tra il 1976 e il 1992 il Mozambico
attraversò uno dei periodi più tragici
della sua storia. Il paese fu devastato
dalla guerra: una guerra civile
atroce tra il governo, guidato dal
Frelimo (Fronte di liberazione del
Mozambico), e il movimento controrivoluzionario
della Renamo (Resistenza
nazionale mozambicana).
A combattersi furono gli stessi
membri della nazione mozambicana,
i figli della medesima terra, fratelli
contro fratelli. Fu una guerra in
cui l’uomo guardava al suo prossimo
senza pietà, uccidendolo.
Alla base del conflitto c’erano due
ideologie contrapposte: rivoluzione
marxista e controrivoluzione borghese;
due modi differenti di vedere
e organizzare la vita. Gli effetti sono
stati devastanti: oltre un milione
di morti, un milione e mezzo di rifugiati
nei paesi vicini e più di nove
milioni di sfollati interni, che hanno
abbandonato o perduto casa e proprietà.
Sono stati distrutti beni e infrastrutture
essenziali alla vita e allo
sviluppo del paese: rete commerciale,
scolastica e sanitaria.
Gli spostamenti su strade erano
impossibili; i profughi affollavano le
città e cittadine più importanti, essendo
fuggiti dall’insicurezza della
campagna. L’abbandono dei campi
interruppe ogni produzione, provocando
miseria permanente e dipendenza
assoluta dai paesi stranieri.
In questo dramma la chiesa non ha
mai cessato di ammonire che la guerra
non era la soluzione dei problemi
del paese, affermando la necessità di
far tacere le armi e aprire la via del
dialogo per risolvere i conflitti… come
facevano gli antenati.
In «Un appello alla pace» (gennaio
1983), per esempio, i vescovi invitavano
la gente a prendere coscienza
della situazione di guerra, denunciavano
i belligeranti per aver scelto
la violenza come strumento per risolvere
il conflitto e indicavano la
promozione della vita e il dialogo
quali strumenti ineludibili per promuovere
il bene della nazione.
Il ruolo della chiesa fu determinante
nel processo che pose fine alla
guerra con l’Accordo generale di pace,
firmato a Roma il 4 ottobre 1992.
Fu da questo impegno per la pace,
nella fedeltà alla missione della
chiesa, che l’Assemblea diocesana
della pastorale, tenutasi a Inhambane
il 19-20 novembre 1991, denunciò
la violenza nella scuola, la
violenza per sopravvivere, la violenza
giustizialista e distruttiva di sentimenti.
Nello stesso incontro si avvertì
l’esigenza di assumere un atteggiamento
nuovo per promuovere
la riconciliazione in Mozambico, potenziando
il Centro di Guiúa.
Rivolgendosi alle comunità, dopo
il massacro del Guiúa, il vescovo di
Inhambane, Alberto Setele, scriveva:
«Dove le forze belligeranti si avvicendano,
le popolazioni non possono
contare su nessuno. Dipendono
solo dalla misericordia di coloro
che sono armati. È diabolico! Non si
rispetta nulla, tutto è paralizzato. Si
bruciano villaggi; vengono fatti deragliare
treni; si distruggono botteghe,
scuole e ambulatori; le ragazze
vengono violentate, i giovani accoltellati,
i bambini trucidati, le donne
assassinate, i vecchi decapitati…».
In una precedente dichiarazione
si leggeva: «Davanti a queste situazioni
di violenza, ci appelliamo agli
uomini di governo di qualsiasi livello,
ai responsabili della sicurezza e
a tutte le autorità, perché esercitino
con responsabilità e umanità il
ruolo che compete loro. Riflettere su
questa inaccettabile situazione e interpretarla
alla luce della fede è dovere
di ogni cristiano: bisogna aprire
occhi e coscienza».

LA PRIMA VITTIMA
L’insicurezza dominava la provincia
di Inhambane, come tutto il paese.
Anche il Centro di promozione
umana di Guiúa, in più occasioni,
ebbe a soffrire le conseguenze della
guerra. Il fatto più grave accadde il
13 settembre 1987.
Quell’anno il corso di formazione
era frequentato da 24 famiglie, 150
persone. Quando il Centro fu assalito
dai guerriglieri, molti dei presenti
riuscirono a fuggire tra pallottole
e minacce. Ma 36 persone rimasero
prigioniere degli assalitori, mentre il
catechista Manuel Peres, della diocesi
di Beira, fu ucciso con un colpo di
fucile.
Padre Luis Ferraz scrisse:
«Erano le 4.50 quando incominciai a
sentire raffiche di mitragliatrici. Pochi
minuti dopo, il Centro fu invaso
da una settantina di guerriglieri, che
saccheggiarono la casa delle suore e
le abitazioni dei catechisti e rapirono
la maggior parte delle persone del
Centro. In una casa un catechista
giaceva in un lago di sangue: era Manuel
Peres. Fu la prima morte. La costeazione
era generale.
Poi venimmo a sapere che Manuel,
avvisato dai vicini, era corso a casa
per aiutare la famiglia a fuggire. Ma
era troppo tardi: i guerriglieri si trovavano
già sul posto. Tentò di opporsi,
perché la famiglia non fosse
rapita; ma essi non usarono mezze
misure: gli spararono a bruciapelo.
Colpito alla schiena, le pallottole
uscirono dal petto e si conficcarono
in una parete della stanza. Fu sepolto
il giorno successivo, 14 settembre
1987, nel cimitero di Nhaposa».
Mons. Alberto Setele aggiunse:
«Durante la fuga, i rapitori si resero
colpevoli anche della morte di un
bimbo. La mamma fu costretta ad
abbandonarlo nella foresta, per trasportare
vettovaglie e armi dei guerriglieri.
Per convincerla a tale gesto,
le dissero che il bambino sarebbe
stato raccolto da quelli che seguivano;
essi non potevano attardarsi,
poiché dovevano fuggire per non essere
raggiunti dai soldati dell’esercito
regolare. Nei giorni seguenti, ai
cristiani furono chieste informazioni
sul bambino; ma di lui non si ebbero
più notizie. Si pensa che sia
morto di stenti».
A partire dal 1988, a causa dell’aumento
dei pericoli della guerra,
le attività del Centro di Guiúa diminuirono
drasticamente. Furono sospesi
i corsi biennali di formazione e
ne vennero organizzati di più brevi
(15 giorni o una settimana), secondo
le necessità più urgenti delle comunità
diocesane. Data la situazione,
i partecipanti non erano più famiglie,
ma singoli individui.

VOGLIA DI RICOMINCIARE
Tertulliano (160-220 d.C.) scrisse
che «il sangue dei martiri è il seme
dei cristiani». Parafrasando l’affermazione,
possiamo dire che il sangue
del martire Manuel Peres è stata
la semente che ha fatto rinascere
il Centro catechistico di Guiúa.
Nei giorni 19 e 20 novembre 1991
si tenne, a Inhambane, l’Assemblea
diocesana annuale di pastorale; il
quarto punto dell’agenda rimetteva
in discussione la «formazione dei
laici». Dopo aver valutato il lavoro
realizzato, fu costatata la necessità
di riprendere l’attività con periodi
più lunghi e furono programmati
corsi di un anno per coppie. Perduravano
insicurezza e paura. Il giorno
della pace era ancora lontano; ma
non si poteva più attendere.
Si consultarono i laici: la loro parola
sarebbe stata decisiva. Nonostante
i pericoli evidenti, la risposta
fu: «È meglio non indugiare e,
pur correndo rischi, continuare la
formazione».
L’équipe formativa si mise al lavoro
per programmare il nuovo corso di
formazione, mentre le comunità sceglievano
le famiglie da inviare. Nella
prima metà di marzo 1992 il Centro
di Guiúa accolse i partecipanti:
15 famiglie provenienti da ambienti
rurali di varie missioni, tutte fortemente
provate dalla guerra. Famiglie
laboriose e moralmente solide: godevano
la fiducia della loro comunità;
avevano più di un figlio e, tra
i bambini, c’erano anche lattanti.
Tutto era pronto. Il 23 marzo si sarebbe
aperto l’anno formativo, con
una solenne celebrazione eucaristi-
ca. Invece il vescovo Setele dovette
presiedere il funerale di 24 vittime
della violenza. Nell’omilia raccontò
il tragico evento, in controluce con
la passione e morte di Cristo.

IL MARTIRIO
«Gesù non aveva ancora finito di
parlare che arrivò Giuda con una truppa
armata di spade e bastoni, mandata
dagli alti funzionari del tempio
e dai notabili del popolo».
Sabato, 21 marzo 1992, ore 15. Si
udirono spari di armi leggere, ai quali
nessuno diede importanza; in strada,
a quell’ora, potevano esserci attacchi
a qualche auto di passaggio o
spari di militari che, divertendosi col
tiro al bersaglio, facevano sentire la
loro presenza. La vita del Centro
continuò normalmente.
«Ma essi insistevano chiedendo a
gran voce che Gesù fosse crocifisso; e
le loro grida crescevano».
Poco prima delle 24, i padri Andrea
Brevi e John Njoroge, missionari
della Consolata, e le suore francescane
Lucia, Elisa, Teresa e Lurdes,
dalle rispettive residenze, sentirono
voci concitate provenienti dalle abitazioni
dei catechisti.
Il Centro era circondato da uomini
armati che organizzavano per
saccheggiare, rapinare, massacrare:
tra essi c’erano ragazzi di 10-15 anni
con le armi in pugno. Parlavano
xitshwa, gitonga, changane e portoghese.
Uno dei comandanti si chiamava
Antonio.
«Gesù, ricordati di me quando sarai
nel tuo regno. Egli rispose: oggi sarai
con me in paradiso».
Mentre per tutta l’area del Centro
riecheggiavano spari, si udirono colpi
alle porte e finestre delle residenze
dei catechisti: «Apri! Esci!».
Furono uccisi i catechisti Faustino
Cuamba e Carlos Mukwanane, che
avevano tentato la fuga attraverso i
campi di manioca e arachidi.
Il recinto fu accerchiato e invaso.
Gli assalitori, strappate le reti dalle
finestre e rotti i vetri, entrarono nelle
case gridando: «Prendiamo questi
uomini! Togli quel fardello! Carica
questo sacco!». Minacciavano chiunque
incontravano, puntando loro le
armi alla testa.
«Vicino alla croce di Gesù stavano
la madre e la sorella di sua madre,
Maria, moglie di Cleofa, e Maria di
Magdala».
Gli assalitori si divisero in tre
gruppi, uno dei quali si diresse con
tutti gli ostaggi verso la residenza
delle suore. Abbandonarono per terra
una bimba, Candida, figlia del catechista
Armando Duzenta. La piccola
fu ritrovata più tardi, ancora viva.
Gli aggressori chiamarono per nome
due suore, minacciandole di morte.
Poi si scagliarono contro la porta
della casa, che tuttavia resistette.
Proprio in quel momento i soldati
dell’esercito regolare spararono due
colpi di mortaio dall’acquedotto di
Inhambane, poco lontano dal Centro.
I mortai fecero un rumore assordante
e le case tremarono.
«Non sei anche tu uno dei suoi discepoli?
».
Il secondo gruppo di guerriglieri
rimase presso le abitazioni, mentre
il terzo attraversò il ruscello Guiúa,
alla ricerca dei soldati che avevano
sparato con l’intento di procurarsi
armi e munizioni. Non trovando nessuno,
ritornarono sui loro passi; passando
davanti all’ambulatorio, sequestrarono
Madalena, che si era rifugiata
sotto una tettornia.
«Padre, nelle tue mani affido il mio
spirito».
Dopo il saccheggio, i guerriglieri
si riunirono nel recinto della scuola
primaria; raggrupparono tutte le
persone prese prigioniere e percorsero
circa 500 metri, fermandosi vicino
ad una capanna: qui incominciarono
a torturare i rapiti.
Prima interrogarono le donne e
poi fu la volta degli uomini: volevano
sapere luogo di provenienza,
professione e finalità della loro presenza
nel Centro. Chiesero informazioni
sull’esercito regolare e sulla
strada non minata per entrare
nell’area protetta.

«TANTO MORIRAI!»
Interrogatorio al catechista superstite
Paulo Saieta Kuniane, marito
della martire Veronica Sambula.
– Da dove venite?
– Non siamo di qui. Veniamo da varie
missioni: Vilankulo, Massinga…
– Che cosa fate qua?
– Siamo catechisti. Siamo qui per
studiare la bibbia e imparare il lavoro
di animazione nelle comunità cristiane.
– Dov’è il cibo?
– Siamo poveri, come tutto il popolo.
Non abbiamo magazzini. Ci arrangiamo
ogni giorno come possiamo.
– Dov’è il comando del Frelimo? Dove
sono le mine?
– Non lo sappiamo. Non siamo di qui.
Siamo arrivati da pochi giorni e non
conosciamo il posto. Sappiamo che
è proprietà della chiesa; è una missione
cattolica e un centro di formazione
per catechisti.
– Voi siete padri missionari?
– No, siamo catechisti.
– Quanti anni resterete qui?
– Un anno intero.
– Dove sono i padri?
– Nella loro casa. L’abitazione si trova
al centro degli edifici e vicino alla
chiesa.
– Che tu abbia risposto bene o male,
poco importa. Tanto morirai!
«Chi mi interrogava – raccontò
ancora il catechista Paulo – mi diede
uno spintone. Caddi a terra e ricevetti
un calcio in testa..». È una
testimonianza degna dei martirolo-
gi romani. Come ai primi secoli della
chiesa, i catechisti confessarono
la loro fede, l’attività apostolica
e il fine altamente religioso che
li aveva spinti al Guiúa. Confessarono
e non negarono.
«Vedendo che albeggiava e innervositi
per la mancanza di collaborazione
da parte dei rapiti – continuò
il catechista -, gli aggressori decisero
di lasciare l’abitato e di inoltrarsi
nel bosco. Approfittando del trambusto
e dell’oscurità, due catechisti
si nascosero fra i cespugli e fuggirono.
Appena nel bosco, i banditi uccisero
una ragazza per spaventare gli
altri.
Quando si furono allontanati alcuni
chilometri dal Guiúa, si appartarono
per decidere il da farsi. Scelsero
dieci ragazzi: questi dovevano seguire
i guerriglieri nelle loro basi.
Verso gli altri furono di una crudeltà
bestiale. Con arroganza selvaggia ordinarono
ad un bambino di sei anni:
“Corri alla missione e di’ ai padri che
stiamo uccidendo tutti. Se vogliono,
possono venire con i soldati quanto
prima”.
I carnefici si riunirono, ciascuno
con un catechista in mezzo a loro.
Ogni guerrigliero uccise a sangue
freddo la persona che aveva in custodia.
Davanti ai primi morti, alcuni
catechisti dissero: “Preghiamo!
Ora sappiamo qual è l’intento di questi
uomini e quale sarà la fine del nostro
popolo. Preghiamo! È arrivato il
nostro giorno”. E pregammo…».

«PROCLAMIAMO
LA LORO RISURREZIONE…»

Domenica, 22 marzo, ore 8.30. Due
soldati in sosta nella comunità cristiana,
terrorizzati, accettarono di
accompagnare i cristiani che, insieme
ai missionari, si recarono a recuperare
i cadaveri. Trovarono 20 persone
uccise a colpi di baionetta.
Una ragazza di 15 anni piangeva e
due neonati feriti strillavano disperatamente
tra i cadaveri. Uno di essi
morì durante il viaggio verso l’ospedale.
L’adolescente e l’altro neonato
furono operati e si salvarono.
La ragazza aveva una profonda ferita
all’addome e aveva perduto molto
sangue.
Il bilancio totale fu di 24 morti.
Missionari, suore e alcuni cristiani
partirono dal Centro di Guiúa con tre
auto e raccolsero i cadaveri nella brughiera,
con la costante minaccia del
ritorno dei guerriglieri. Benché il luogo
del massacro fosse abbastanza vicino,
impiegarono molto tempo, perché
non c’erano strade di accesso.
Al ritorno, i corpi furono deposti
sotto la tettornia dell’ambulatorio,
dietro la chiesa: furono lavati e composti.
Nel pomeriggio un forte acquazzone
attenuò il caldo, permise
di recuperare un po’ le forze e lavò la
terra dal sangue versato… La pioggia
rovinò la farina e quant’altro i
banditi avevano rubato. «Siamo stati
castigati, perché abbiamo ucciso i
figli di Dio» dissero tra loro gli assassini.
La comunità incominciò a costruire
le bare dei martiri. Molti falegnami
prestarono generosamente la loro
opera.
Il giorno seguente, 23 marzo, alle
ore 11, nella chiesa parrocchiale di
Guiúa fu celebrata l’eucaristia. «Signore,
annunciamo la loro morte e
proclamiamo la loro risurrezione».

Francisco Lerma




Tante gocce fanno l’oceano

Storie di laici impegnati per la missione

Il volontariato costituisce
una delle più belle e nobili realtà
del nostro tempo, anche
nel mondo missionario.
Ed è un contributo fondamentale.
In patria o nei paesi del terzo mondo, molti impegnano
il tempo libero, alcuni mesi e anni,
altri tutta la vita, per dare speranza ai più infelici e disperati.
A gocce o a brocche, poco importa:
tutto contribuisce ad alimentare
il mare dell’amore.

a cura di Bendetto Bellesi




Dossier – Kamikaze dell’amore

Un piccolo esercito di «addestrati speciali»,
nei luoghi più difficili della capitale kenyana,
lotta, senza clamore, per ridare speranza
e portare consolazione.

S entendo le tristi notizie dei kamikaze della violenza che, come martiri, si sacrificano per il loro dio causando morte a gente innocente, mi consolo nel pensare a centinaia di migliaia di «kamikaze dell’amore».
Sono gente normale che spende tutto per gli altri, sacrificando la vita goccia a goccia. Nei miei tre anni spesi nella periferia di Nairobi ne ho incontrati tanti, di origini diverse, pronti a tutto per sconfiggere miseria e donare dignità ai due milioni di persone che languiscono nelle baraccopoli. Ogni mese, i missionari operatori di questi slums si trovavano per un giorno di ritiro spirituale e scambio di esperienze.
la visita di DIO
Siamo ospiti nel cuore della baraccopoli più popolosa di Nairobi, Kibera 3 (circa mezzo milione di abitanti). La parrocchia Christ the King è retta da un missionario colombiano, dei Guadalupe Fathers. È una sorta di porto di mare per tanti naufraghi, diui e nottui. Con un drappello di laici kenyani, hanno iniziato un centro educativo, dove i bambini ricevono cibo e sapere.
Il dispensario, diretto da suore, è diventato un luogo di consolazione di giorno e anche per le vittime delle violenze nottue. Qui i bambini possono venire a scuola, giocare, essere curati; i giovani hanno il loro posto di ritrovo, senza alcornol e droga, e gli adulti, desiderosi di progredire, possono imparare l’abc.
Ho visto nel volto dei laici kenyani di Kibera lo zelo per la loro gente, che si accalca in poco più di un chilometro quadrato, senza acqua, luce e strade. Da loro ho saputo delle «tornilette volanti»: molta gente, non avendo gabinetti a sufficienza, affida… al vento gli escrementi, avvolti in cellophane.
Si discutevano le strategie di intervento nell’inferno della periferia: gli europei sono affiancati da kenyani, gli statunitensi si mischiano con sudamericani e indiani. Siamo più di cento.
Padre Franco Cellana, ci informa che in una valletta, lasciata libera fra le ville dei commercianti indiani, erano sorti due nuovi slums. Ha combattuto le ire dei benestanti che vedevano inquinato il loro territorio, per difendere i nuovi insediati. Keleleshua e White Ridge, due rioni della ricca Westlands, hanno così il loro «bubbone». La parrocchia della Consolata accoglie i nuovi arrivati con un abbraccio universale. Un laboratorio, finanziato da benefattori, è diventato segno di speranza per i giovani: i sandali di stile masai sono il prodotto che tira di più.
Dalla baraccopoli di Kaiole, una laica kenyana ci illustra la strategia che ha usato per fondare una cornoperativa: «Se siamo uniti, potremo ottenere dal comune di Nairobi un appezzamento di terreno per famiglia nel territorio abusivo – ha detto con fiducia -. Il cammino è lungo, ma sembra che qualcosa si muova».
Il gruppo canta: «Benedetto il Signore, che ha visitato e redento il suo popolo». Ancora oggi Dio visita il suo popolo nella schiavitù e manda i suoi «kamikaze» imbottiti di amore e dedizione: esplosivi che risalgono a Gesù Cristo ed estremamente efficaci anche oggi.
Soweto è un nome ereditato dal Sudafrica. Dalla baraccopoli si scorgono le colline con campi di caffè. Le residenze della nuova classe media di Nairobi si moltiplicano.
Massimo, che opera in questo slum, tira fuori dallo zaino la bibbia. Si legge la parola di Dio. Gli agenti antiterrorismo non lo hanno ancora fermato, nonostante il suo zaino possa destare qualche sospetto, insieme alla barba stile Osama Bin Laden. Gli manca solo il turbante per fare il quadro completo.
Massimo, come un san Francesco, gira assieme a dei giovani con un sacco di yuta sulle spalle, raccogliendo tra le immondizie materiale per il riciclaggio. Vuole insegnare ai ragazzi del quartiere a sopravvivere, visto che l’occupazione è di là da venire. Ha tentato altri esperimenti, come allevamento di conigli, coltivazione di verdure, produzione di sapone.
Nel cuore di Soweto, Massimo fa comunità con Andrea. Sono due pionieri della comunità Papa Giovanni xxiii, fondata dall’«imam» cattolico don Benzi, famoso in Italia per avere istituito centinaia di case-famiglia, dove trovano rifugio tutti quelli che vogliono ridare un senso alla propria vita: prostitute, drogati, emarginati…
Andrea, belga, oltre al francese parla bene l’italiano e si arrangia in inglese, intuisce swahili e kikuyu. Ha sempre un nugolo di bambini attorno, che captano al volo il linguaggio dell’amore. Sta sperimentando l’iniziativa di dare un minicredito ad alcune famiglie più bisognose, non prima, però, di aver impartito loro una formazione adeguata su come gestirli.
giovani, suore e dottori
La missione di Kahawa West, cominciata 10 anni fa, fa da cerniera tra la base e la cima della scala economica. Gli abitanti sono già 35 mila, ma ogni giorno ne arrivano altri, con nel cuore la speranza di una nuova frontiera. Qui, più che mai, necessitano i kamikaze.
Suor Mercy e il suo drappello di suore dell’Immacolata (una congregazione fondata da mons. Perlo, all’inizio del secolo) si sono insediate nei dintorni otto anni fa. Sono sette suore africane che dirigono una scuola di mille alunni, cominciata da zero. Sono pronte a tutto, anche ai cambiamenti repentini, perché vengono spostate dalle superiore per altre imprese più… urgenti. Traggono la forza in una cappellina, nella casa provvisoria. Le loro preghiere sono segnate dal ritmo dei tamburi e da cembali africani.
L’anno scorso, con un colpo ben riuscito, hanno costruito un collegio per ragazzi e ragazze di strada. Questi bambini ormai cento, sembrano già «normali»: gli stracci che indossavano prima sono stati bruciati e dimenticati.
Andrea, un dentista che da molti anni passa le sue ferie in Kenya curando le carie africane, si porta con sé un drappello di colleghi. Due rimangono a Kahawa e sono sommersi da una marea di pazienti, tra cui i ragazzi della scuola della baraccopoli di Soweto e Kamae. Tutti ricordano il «dagetari ya meno» (dentista) Massimo da Piacenza, l’assistente Veglia da Varese, Gianalberto da Monza e Serena da Torino. Li aspettano ancora il prossimo anno.
A Kamae opera un altro gruppo, pronto a tutto, dotato anche di… un campo di addestramento, chiamato noviziato. Si chiamano Elisabettine dal nome della loro fondatrice padovana. Suor Wamuyu (kenyana) e suor Paola (italiana) sono le responsabili della scuola di recupero nella baraccopoli di Soweto. Il nemico da combattere è l’analfabetismo, che cresce ogni giorno per la miseria e le malattie, causa di tanti bimbi orfani.
A dicembre dell’anno scorso, ho assistito al giuramento di due ragazze del Kenya, formate nel noviziato. I genitori hanno versato lacrime di dolore, sapendole perse per la famiglia; ma la gioia del dono è scoppiata in canti e danze e le responsabili della congregazione pensano di utilizzarle per «missioni speciali». Suor Rosa (padovana) e suor Veronica (kenyana) hanno in mano il dispensario. Di recente, dall’Italia è arrivata la macchina dei raggi x e lo scunner.
Sulla collina, a ovest, padre Alex Signorelli ha costruito, a nome dei missionari della Consolata, un villaggio per i ragazzi di strada. Lo chiamano «Familia ya Ufariji», famiglia della consolazione. Lo stato gli ha dato in affido 80 maschietti, raccolti nelle strade di Nairobi. Ha generato figli, già pronti per l’asilo e le prime classi elementari.
Le missionarie della Consolata sono presenti a Kahawa e, al momento, due di loro formano le nuove generazioni alla cristianità. Le altre due sono a fianco dei miserabili delle baraccopoli: tutti le chiamano «mama». Suor Carmelangela ha spento l’altro giorno 50 candeline di presenza in Africa. Nell’agosto scorso, Laura da Milano, Massimo, Antonella e Paolo da Torino hanno organizzato il Grest (tipo la nostra «estate ragazzi») per elementari e medie, aiutati da un gruppo di giovani cattolici della parrocchia. La nuova generazione si forma con l’esempio della dedizione. Nei ranghi della chiesa cattolica, Kahawa West è considerata «missione speciale», come tutte le parrocchie sorte nella periferia di Nairobi.

In tutto il Kenya, i kamikaze locali sono circa 700, affiancati da altrettanti stranieri. Dovendo partire, ho consegnato il testimone a padre Peter, ugandese. Pochi giorni dopo, vicino alla baraccopoli di Kamae, in pieno giorno, è stato… ripulito di tutto, mentre controllava i lavori di una scuola. È stato il battesimo per lui, che vuole vivere e donarsi dentro questa realtà. Gli è rimasto l’entusiasmo di rimanere e di spendersi tutto: fino all’ultima goccia! •

Alex Moreschi




Dossier – Nel fango di Kilbera

«Qui la polizia entra solo per controllare le birrerie clandestine».
«E lo credo bene», verrebbe spontaneo rispondere, se il degrado che ci sta davanti non riguardasse appartenenti al genere umano, costretti a vivere dove sarebbe difficile per fauna suina.
Kibera è uno dei tanti slums (baraccopoli) di Nairobi. Il più grande. E stiamo entrando dopo una nottata di pioggia intensa. Ruscelli larghi mezzo metro e profondi altrettanto a far da vicoli. Meglio sorvolare sul contenuto. Ci razzolano solo cani spelacchiati e bambini piccoli.
Si procede sullo strettissimo bordo a ridosso delle baracche. Scivoloso come una pista da bob. Spesso con la stessa pendenza. I pali sporgono dalle baracche come appigli, confidando nella buona tenuta. Attenzione identica da equilibristi su una corda tesa sopra un canyon. Una scivolata equivarrebbe a sprofondare fino al ginocchio in melma, di cui il fango è solo componente minoritaria.
E qui vive gente. Tanta. Troppa. Un milione, dicono. In continuo aumento. Nuove baracche crescono come funghi. Appiccicate una all’altra. Casotti fatiscenti di sassi e fango. Lamiera ondulata come tetto. Paletti (rami tagliati) per rinforzare la struttura. Misere abitazioni affittate a povere famiglie, attirate dal miraggio della grande città. Canoni non certo equi: 10 euro al mese, contro stipendi (quando c’è lavoro) di 50-60. Fogne a cielo aperto, davanti all’entrata, che quando piove si confondono con ciò che dovrebbero essere i vicoli. Un’asse come passerella per entrare.

«Q ui la polizia entra solo per controllare le birrerie clandestine. Il quartiere non è affatto violento. Tutt’al più qualche ubriaco di troppo. La birra costa pochissimo».
È Fred che ci accompagna. Lui Kibera la conosce benissimo. Ci è nato. E, da come ne parla, non l’ha ripudiata. Il padre e alcuni fratelli abitano ancora qui. Lui si ritiene un privilegiato. Voleva studiare e ha incontrato le persone giuste per poterlo fare. Con moglie e figli ora abita alla Shalom House, la casa-albergo voluta da padre Kizito. Chi meglio di lui, quindi, può illustrarci la realtà di questo enorme slum, dove anche di notte vivono con la porta aperta. Dove, come ci dice Fred, c’è molta solidarietà. Dove la gente si fa spesso carico dei problemi degli altri.
Ma ciò che è sotto i nostri occhi non è tollerabile. Non è accettabile nel terzo millennio. Analfabetismo a livelli altissimi. Prostituzione idem (spesso unica possibilità offerta a una donna per guadagnare qualcosa). Aids che si trasmette come il morbillo in un asilo.
«Nessuna forma di sanità riconosciuta. Chi non ha i soldi, può morire». La cosa suona ancora più tragica, se detta da un padre, amico di Fred: senza l’aiuto di un’organizzazione umanitaria rischiava di perdere un bimbo di due anni.
La gente che incontriamo è, tuttavia, affabile. Certamente la presenza di Fred contribuisce. I bambini ci salutano e rispondono come un’eco alle nostre voci. Alle nostre forme di saluto. Non ci lasciano l’ultimo suono.
Da una finestrella, alcuni bimbi guardano con curiosità le nostre facce scolorite. Non è mercanzia che circola spesso da queste parti. Una signora gentilissima ci invita a entrare. È una scuola matea. Un’iniziativa della chiesa pentecostale. Un raggio di speranza in quel mare di fango.

Mario Beltrami