Incubo indelebile

Povertà, corruzione, sfruttamento;
classe dirigente contraddittoria e opportunista…
C’è chi rimpiange il regime di Pol Pot.

Ricordo ancora la prima volta che visitai Phnom Penh, verso la metà degli anni ’80: la città contava meno di centomila abitanti, mentre 10 anni prima vi si assiepavano quasi 3 milioni di persone, metà dell’intera popolazione del paese.
Le strade erano deserte, animate solo da rari passanti; i più fortunati arrancavano pedalando su biciclette arrugginite. Il mercato centrale raccoglieva il poco che la nazione potesse offrire: chi vendeva un casco di banane, chi un paio di papaye, chi un copertone d’auto completamente liso; alcuni mettevano in mostra semplici fili di ferro, altri rarissime penne o matite; i più fortunati avevano uno o due chili di riso raggranellati chissà dove.
Il baratto era l’unica forma di commercio accettata; la moneta, introdotta pochi mesi dopo la caduta del regime di Pol Pot, si svalutava di ora in ora e nessuno si sentiva sicuro con quei pezzi di carta che avrebbero potuto trasformarsi in combustibile, come era accaduto il 17 aprile 1975.
Gli edifici della città erano per lo più abbandonati, lasciati all’incuria e alla mercé della vegetazione. Di notte, poi, la capitale era incredibile a vedersi: il buio più completo la avvolgeva; il silenzio, rotto da qualche generatore diesel che alimentava poche fioche luci di lampadine, che variavano continuamente la loro intensità luminosa, contribuiva a creare un’atmosfera irreale.
Lungo le strade deserte le lantee rischiaravano appena i volti di famiglie sedute in circolo a consumare ciò che una giornata di lavoro era riuscita a offrire loro: una manciata di riso, qualche verdura e frutto.
DEMOCRAZIA DEGLI «EX»
Oggi, a 20 anni di distanza, Boulevard Norodom è intasato di macchine e motorini, che strombazzano all’ombra di enormi cartelloni pubblicitari, affiancati da negozi che espongono tutto ciò che il mercato internazionale mette a disposizione.
I bambini, probabilmente figli degli stessi ragazzini che tempo fa avevo visto assaporare con tanto languore pochi chicchi di riso, corrono a piedi nudi sull’asfalto cotto dal sole. I più fortunati leccano un gelato, altri sorseggiano una Mirinda, la Fanta del Sud Est Asiatico. Il mercato centrale, tornato agli antichi splendori, è affollato all’inverosimile.
Si paga in riel: il baratto, almeno qui in città, non è più accettato. Poco distante, i pullman aspettano di riempire gli ultimi posti per poi sfrecciare verso ogni angolo di un paese che, dopo più di tre decenni, non è ancora riuscito a scrollarsi di dosso l’incubo del suo passato: le ferite da questo inferte al popolo sono ancora troppo evidenti e presenti nella vita quotidiana.
La zoppicante democratizzazione della vita politica, iniziata nel 1993 con le elezioni, volute dalle Nazioni Unite e parzialmente fallite per l’opposizione dei khmer rossi, è continuata attraverso altre due consultazioni generali, l’ultima nel giugno scorso: in tutte il leader del Partito del popolo cambogiano, Hun Sen, ha ottenuto schiaccianti vittorie, grazie più alla sfiducia espressa dagli elettori verso i suoi inetti oppositori, che per la fiducia che infonde il premier.
Troppi, infatti, sono i prefissi «ex» che si possono affibbiare alla carriera politica di Hun Sen, perché le sue promesse possano ritenersi attendibili: ex khmer rosso, ex filovietnamita, ex comunista.
Per anni il potere di Hun Sen e la Cambogia stessa non sono crollati solo grazie alla fragile impalcatura di un tacito consenso politico in funzione anti Pol Pot: ai khmer rossi veniva imputato tutto quanto di negativo accadeva nel paese: assassini politici, difficile decollo economico, instabilità, povertà delle campagne, brogli elettorali, burocrazia, inefficienza delle strutture pubbliche, alta percentuale di handicappati fisici e mentali e, dulcis in fundo, il golpe del 1997.
Il dito era immancabilmente puntato verso di loro. «I khmer rossi dominano ancora il paese e le divisioni politiche all’interno del parlamento non fanno che rafforzarli. È ora che la Cambogia abbia un solo leader, capace di far fronte alla barbarie» mi aveva detto Hun Sen subito dopo il putsch del 5 luglio 1997, cercando di giustificare il suo operato. Poi ha aggiunto: «Io ho salvato la Cambogia da un secondo massacro: l’accordo stipulato tra il Funcinpec di Norodom Ranariddh e la dirigenza dei khmer rossi, spianava la strada dalle giungle di Anlong Veng a Phnom Penh per Pol Pot e la sua cricca. Avremmo avuto altri killing fields. Era questo che i cambogiani volevano? Non penso. Ho quindi deciso di agire».
Ma questa facciata di Hun Sen salvatore della patria non regge. Tutti qui ricordano che è stato lui a opporsi energicamente a un eventuale giudizio in tribunale della dirigenza di Kampuchea Democratica; è stato ancora lui a concedere grazia e immunità a Ieng Sary, l’ex ministro degli esteri e «fratello numero tre» di Kampuchea Democratica, cognato di Pol Pot, in cambio di una sottomissione al governo di Phnom Penh.
Oggi Pailin, la regione più ricca della Cambogia grazie alle sue miniere di rubini, è un’entità semiautonoma, amministrata dai transfughi khmer rossi, dove gli emissari governativi non hanno alcun potere. Lì vivono, oltre a Ieng Sary e sua moglie Ieng Thirith, Noun Chea, «fratello numero due» di Kampuchea Democratica, Khieu Samphan e altri dirigenti, scampati alla cattura nel 1998, quando anche l’ultima roccaforte rossa, quella di Anlong Veng, venne occupata dall’esercito governativo.
MORALE DA EX… ROSSI
Mi reco a Pailin, dove riesco a incontrare Ieng Sary. Lui, come tutti i suoi compagni, circola liberamente senza scorta per le vie del villaggio. La gente lo venera, non per paura, ma perché vede in quest’uomo una figura carismatica che vive tra loro, ride con loro, mangia nei loro ristorantini. Insomma, è uno di loro.
Ogni giorno, davanti alla sua casa ci sono numerose persone che chiedono il suo aiuto o il suo consiglio per dirimere contenziosi. La sua parola è legge e tutti l’accettano. «Noi, ex dirigenti di Kampuchea Democratica, ci siamo ritirati da tempo dalla politica. Ci siamo accorti che la nostra politica non si poteva adattare alla società cambogiana, perché gli obiettivi che ci eravamo prefissi a quel tempo erano troppo ambiziosi e noi non potevamo raggiungerli con i mezzi che avevamo. Era solo un sogno, un sogno che non poteva divenire realtà». Quindi, ci si è adattati al nuovo sistema.
La posizione strategica di Pailin, a pochi chilometri dal confine thailandese e il continuo andirivieni di compratori di pietre preziose, hanno indotto Ieng Sary a concedere al magnate cambogiano Theng Bunma di costruire il primo casinò della Cambogia post-khmer rossi, in cambio di una cospicua fetta dei profitti.
Esprimo a Ieng le mie perplessità sulla degradazione morale che locali come questo possono creare nella comunità: per assai molto meno, migliaia di cambogiani erano stati accusati dal suo stesso governo di aver ceduto ai vizi del capitalismo e, per questo, uccisi. Lui capisce e condivide; ma afferma che il casinò servirà per costruire e migliorare le infrastrutture pubbliche della regione.
SFRUTTAMENTO INCONTRASTATO
La decadenza etica della società cambogiana è uno dei problemi principali che chiese e Ong cercano di contrastare. L’arrivo in massa di soldati dell’Onu negli anni ’90, seguiti da agenti di organizzazioni inteazionali e turismo di massa, hanno contribuito ad alimentare l’industria della prostituzione, principalmente infantile.
A Tuol Kork, quartiere periferico di Phnom Penh, ragazze dai 10-12 anni in su, nascoste dietro maschere di trucco, si offrono a chiunque per denaro. La maggioranza viene dalle campagne; altre sono state vendute dalle famiglie; altre ancora provengono dal Vietnam o Laos, attirate dalla promessa di un lavoro decente.
«I khmer rossi hanno creato una nazione in cui corruzione e prostituzione erano virtualmente assenti e questo ha contribuito a creare nei giovani una sorta di mito di purezza che i politici nostrani, con i loro inconcepibili comportamenti, contribuiscono ad alimentare» mi spiega George Ingram, direttore della «Coalizione per l’educazione di base», un’organizzazione formata da sedici Ong statunitensi che lottano per contrastare la diffusione dell’Aids nel paese. Con il 2,8% della popolazione affetta da Hiv, la Cambogia è la nazione del Sud Est Asiatico con la percentuale più alta di sieropositivi.
Ma anche chi riesce a non farsi inghiottire dal racket della prostituzione, non ha vita più facile: da Taiwan, Thailandia, Malesia, Cina, arrivano imprenditori attirati dalla completa mancanza di regole nel campo del lavoro. Nelle fabbriche, soprattutto tessili, si lavora ininterrottamente per 12-14 ore al giorno, per 30 dollari al mese e senza alcun diritto.
Le rappresentanze sindacali, quando esistono, sono messe a tacere con ricatti o con violenza; gli abusi sessuali nei confronti delle donne e dei bambini sono oramai all’ordine del giorno. Sam Rainsy, il politico più anticomunista del parlamento cambogiano e leader dell’omonimo partito, ha avviato una campagna di difesa dei lavoratori e contadini: «Lo sviluppo economico deve andare di pari passo alla giustizia sociale, ma dobbiamo considerare anche i costi sociali e ambientali che dovremmo pagare; abbiamo il dovere di proteggere le nostre risorse naturali e difendere i diritti dei poveri e dei deboli. La Cambogia ha bisogno di investitori stranieri; ma essi devono rispettare i diritti dei lavoratori».
CONTRADDIZIONI E OPPORTUNISMI
Belle parole; ma si scontrano con le difese offerte dallo stesso Rainsy agli imprenditori, quando questi si trovano in conflitto col governo, segno di quanto sia contraddittoria e opportunista la classe politica del paese.
Nella sua campagna elettorale, Rainsy, che dopo aver vissuto 27 anni in Francia è tornato in Cambogia con l’intenzione di trasformare la società seguendo il modello occidentale, ha più volte alimentato l’odio storico esistente tra khmer e viet, usando violente espressioni antivietnamite proprie del vocabolario khmer rosso, come «governo fantoccio del Vietnam»; «strategia dei vietnamiti nel vietnamizzare l’Indocina»… Slogan pericolosi, usati per giustificare mobilitazioni e assalti alle ambasciate del Vietnam o Thailandia, o per incitare veri e propri pogrom contro le etnie minoritarie.
E quando la violenza khmer si scatena, neppure gli appelli del re Sihanouk possono fermarla. Paul Mus, studioso della società cambogiana scriveva: «Si crede che i cambogiani siano miti. Diffidate di questa fama. Conoscete dei miti che hanno costruito qualcosa di altrettanto formidabile di Angkor? Appena le circostanze vi si presenteranno, scoppierà la loro violenza».
Quanta ragione aveva Paul Mus! E allora non è un caso che il personaggio pubblico più longevo del paese sia proprio il più indecifrabile e ambiguo di tutti: re Sihanouk, che oggi occupa il tempo a scrivere canzoni inascoltabili. Anti-tutto e al tempo stesso pro-tutto, Sihanouk è sopravvissuto a se stesso: dopo il fallimento del Sangkum negli anni ’60, è scampato al colpo di stato di Lon Nol, alla furia dei khmer rossi, all’odio dei vietnamiti e di Hun Sen, giungendo sano e salvo al 2004 senza dover rendere conto a nessuno delle sue inconcepibili prese di posizione.
Suo figlio Ranariddh, politico più per raccomandazione che per capacità, non è mai riuscito ad affermarsi sul piano personale, offuscato dalla figura patea nella corte reale e dal rivale Hun Sen in parlamento. Tutte le mosse per conquistarsi una fetta di potere si sono dimostrate disastrose e i suoi sostenitori lo hanno abbandonato in massa.
NOSTALGIE PERICOLOSE
Di fronte a questa disfatta politica, non è una sorpresa giungere ad Anlong Veng e trovare la tomba di Pol Pot coperta da ex-voto e costantemente visitata da cambogiani che rendono omaggio a un leader condannato dall’umanità intera, ma che il suo popolo non ha ancora ricusato.
«Pol Pot è stato un leader esemplare per tutti noi. È vissuto con noi; è morto come noi» mi dice un contadino. Una ragazza lamenta che, con l’arrivo delle autorità di Phnom Penh, le infrastrutture agricole, tanto efficienti sotto i khmer rossi, sono state abbandonate e la regione, una delle più fiorenti della Cambogia prima del 1998, ora sta rapidamente degenerando.
«Ora ci rimangono solo due possibilità – conclude una vedova, madre di quattro figli – trasferirci a Pailin, sotto Ieng Sary, Noun Chea e Khieu Samphan, o andare in Thailandia».•

Piergiorgio Pescali




Le mine continueranno ad azzoppare

Battambang è una sonnolenta e graziosa cittadina in stile coloniale, adagiata tra risaie e attraversata dal fiume Sangker, in cui i bambini si divertono a nuotare, schiamazzando e inseguendo le imbarcazioni dei commercianti vietnamiti che, dal Tonlé Sap, giungono fin qui a rivendere il pesce.
Ma accanto a questo spaccato di tradizionale vita asiatica, se ne contrappone un altro meno rassicurante: la città si trova al centro di una delle regioni più devastate dalla guerra civile, che per quasi 20 anni ha visto contrapporre tra loro l’Esercito reale di Hun Sen e i khmer rossi di Ieng Sary, arroccati a Pailin, un villaggio al confine con la Thailandia, nei cui dintorni vi sono ricchi giacimenti di rubini e zaffiri.
L’accordo, siglato tra i due leaders nell’agosto 1996, ha sancito, almeno formalmente, la fine del conflitto, ma non ha impedito che gli strascichi della lunga guerra mietano ancora oggi numerose vittime a causa delle mine disseminate dall’una e dall’altra fazione per tutta la provincia.
Dal cassone del pick-up, che in poco più di due ore mi porta a Pailin, osservo i villaggi che si allineano lungo la strada, attorniati da campi che per chilometri e chilometri il Cmag (Cambodian Mines Advisory Group), il corpo speciale dell’esercito cambogiano preposto allo sminamento, ha recintato con nastri rossi per avvertire la popolazione della presenza dei minuscoli ma micidiali ordigni.
«Non delle grandi cose bisogna aver paura, ma delle piccole» mi diceva un fotografo del National Geographic, conosciuto in Laos l’anno scorso. La frase mi torna in mente ora che vedo bambini, uomini e donne menomati per sempre a causa delle mine. E ogni giorno, proprio qui, nella provincia di Battambang, qualche carica seminata nella fertile terra, che per natura dovrebbe offrire cibo alla popolazione, miete altre vittime.

P er aiutare queste persone, Emergency, l’organizzazione non governativa fondata da Gino Strada, nel 1998 ha aperto un ospedale a Battambang: vi lavorano 125 cambogiani e 10 volontari europei, guidati da uno dei chirurghi di guerra più famosi al mondo: il belga Gustavs Questiaux.
Il centro, dedicato a Ilaria Alpi, ha riscontrato subito la fiducia dei locali, abituati a farsi curare e operare negli ospedali della città, dove non esiste igiene e personale specializzato.
«In tutta la nazione vi sono solo 32 infermiere diplomate; a Battambang la chirurgia è affidata a équipes mediche inesperte, che spesso peggiorano la situazione degli assistiti» lamenta Gino Strada; e porta come esempio un giovane, curato in un ospedale statale, al quale si è dovuto tagliare totalmente una gamba perché incancrenitasi.
In condizioni di tale emergenza i medici dell’Ong hanno deciso di dedicare parte del loro tempo all’insegnamento di tecniche chirurgiche ai colleghi cambogiani, in modo che, nel giro di tre anni, siano pronti a gestire da soli l’intero progetto.
Accanto alla pratica, per Emergency è altrettanto importante l’approccio con cui il personale si propone al paziente. In un paese come la Cambogia, dove la società è oramai priva di fulcri ideologici e valori, l’uomo viene valutato a seconda del prestigio che occupa nella complessa gerarchia sociale.
La filosofia proposta da Emergency vuole, invece, far prevalere il paziente, visto esclusivamente come essere umano, con tutti i diritti al rispetto, cura e assistenza a esso dovuti. Un bel salto di qualità, che costringerà i dipendenti a un drastico cambio di mentalità. «È questa la vera sfida a cui Emergency è chiamata a rispondere» concorda Gino Strada.
Questa riscoperta etica della medicina ha anche richiamato volontari come Donaldo Ciresi, che, dopo anni di lavoro in un famoso ospedale di Milano, ha deciso di imbarcarsi nel volontariato: «Ero stanco di vedere medici lavorare solo per guadagnare il più possibile. Ho studiato medicina per cercare di salvare vite, non per spremere portafogli. Qui, finalmente, ho ritrovato l’etica imposta da Ippocrate e sul cui testamento ho giurato» mi confida entusiasta.

M a vi è un’altra grossa scommessa da vincere: visitando la nazione, non può sfuggire l’alta percentuale di vittime a cui si è dovuto amputare la gamba sino all’altezza dell’anca. «È a causa della quantità di tritolo contenuto nelle mine: in Cambogia essa supera spesso la soglia dei 3 grammi, ritenuta il limite, oltre la quale il danno provocato dalle schegge è tale da costringere l’amputazione totale dell’arto o degli arti» spiega Roberto Bottura.
Questo significa che la preparazione dei chirurghi dovrà essere di qualità più elevata rispetto ad altri paesi che soffrono del medesimo problema.
Chiedo a Gino se, oltre alla riabilitazione fisica garantita dal centro, ne sia contemplata anche una psicologica, per reinserire le vittime nella loro comunità. «In questo paese, dove in media una persona su 200 mila ha subito il trauma dell’esplosione da mine, l’handicap fisico non è un tabù, che esclude chi lo subisce. Non vi è, quindi, una necessità estrema di seguire il paziente nel campo psicologico» mi risponde, peccando forse di ottimismo.

N on sarà un tabù, ma di certo la presenza di persone menomate ripropone in modo costante ed evidente il problema delle mine che, a differenza degli scontri a fuoco tra eserciti, continua a ripercuotersi sulla società anche a distanza di decadi dopo la fine della guerra.
In questo campo sono di poco conforto le statistiche raccolte all’ufficio Unicef di Phnom Penh, le quali notano una diminuzione delle persone che ogni anno incappano nelle mine; e ciò grazie alla mappatura dei terreni effettuata dal Cmag.
E mentre il pick-up sobbalza nelle pozzanghere della strada, osservo la popolazione dei villaggi che coltiva anche le risaie recintate dal fatidico nastro rosso, col rischio di far saltare qualche decagrammo di tritolo.
Lo sminamento, che dovrebbe far seguito alla delimitazione dei terreni, al ritmo attuale durerà decenni: i contadini, già provati dalla guerra, non possono permettersi il lusso di abbandonare le risaie e lasciare l’intera famiglia con lo spettro della fame.
Così rischiano. Quotidianamente.

P.P.




RICORDANDO I MISSIONARI MARTIRI

«Il più grande omaggio che le chiese possono presentare
a Cristo è la dimostrazione dell’onnipresenza
del Redentore, mediante i frutti di fede, speranza e carità, in uomini e donne di tante lingue e razze… È importante ricordare i testimoni della fede che, anche nel
nostro tempo, per essa soffrirono e vissero pienamente
nella verità del Cristo».

Giovanni Paolo II

«Questi nostri fratelli aggiungono all’albo dei vincitori
una pagina, allo stesso tempo tragica e gloriosa».

Paolo VI

Morire insieme per la fede
Mozambico: i 24 martiri di Guiúa

Dieci anni fa, un tragico fatto di sangue
nel Mozambico ancora in guerra.
Il racconto, semplice e drammatico,
di una vicenda, che ci riporta
al tempo dei primi testimoni del vangelo.

I l 24 marzo, che ricorda i missionari
martiri, diventa un’occasione
propizia per non dimenticare
anche altri martiri,
frutto del loro lavoro apostolico.
È il caso di 24 catechisti mozambicani:
hanno testimoniato la loro
fede, prima nel servizio alle comunità
e poi nel martirio, subìto la
notte del 22 marzo 1992, a Guiúa
(Inhambane), mentre si trovavano
nel Centro pastorale per un
corso di formazione.
Il loro sacrificio e quello di tanti
altri (i cui nomi sono nascosti nel
cuore di Dio) diventano per noi
segno e inizio di tempi nuovi, che
affondano le radici nei valori autentici
della cultura e del vangelo.
Questa è la loro storia…

UN CENTRO
PER «PROMUOVERE» L’UOMO

Dopo il Concilio ecumenico vaticano
II, abbiamo assistito ad un
rinnovamento profondo della chiesa
e della sua presenza nel mondo
d’oggi.
In questo rinnovamento, che ha
scosso anche il Mozambico, si colloca
la creazione di tre Centri catechistici:
il Centro «Paolo VI» ad Anchilo
(Nampula) per le diocesi del
nord; il Centro di formazione di Nazaré
(Beira) per le diocesi del centro;
il Centro di promozione umana
di Guiúa (Inhambane) per le diocesi
del sud.
Il Centro del Guiúa fu inaugurato
il 9 gennaio del 1972 e il primo mandato
missionario ai catechisti avvenne
il 30 dicembre 1973. Il nome
«Centro di promozione umana» fu
ispirato dall’enciclica di Paolo VI, Populorum
Progressio, dove leggiamo:
«È necessario promuovere un umanesimo
totale. E che cos’è se non lo
sviluppo integrale di tutto l’uomo e
di tutti gli uomini? Non esiste, perciò,
vero umanesimo se non aperto
all’Assoluto, riconoscendo una vocazione
che esprime l’idea esatta di ciò
che è la vita umana» (n. 42).
Il Centro comprende un insieme di
modeste strutture: 31 casette destinate
alla residenza dei catechisti e
rispettive famiglie; 10 edifici adibiti
ad aule per incontri, uffici e cap-
pella; una residenza per i formatori;
un centro sanitario, una scuola elementare
e campi agricoli. Il tutto per
accogliere varie famiglie, in un periodo
di due anni, con l’obiettivo di
un’intensa formazione sociale, culturale
e religiosa.

LA GUERRA IN CASA
Tra il 1976 e il 1992 il Mozambico
attraversò uno dei periodi più tragici
della sua storia. Il paese fu devastato
dalla guerra: una guerra civile
atroce tra il governo, guidato dal
Frelimo (Fronte di liberazione del
Mozambico), e il movimento controrivoluzionario
della Renamo (Resistenza
nazionale mozambicana).
A combattersi furono gli stessi
membri della nazione mozambicana,
i figli della medesima terra, fratelli
contro fratelli. Fu una guerra in
cui l’uomo guardava al suo prossimo
senza pietà, uccidendolo.
Alla base del conflitto c’erano due
ideologie contrapposte: rivoluzione
marxista e controrivoluzione borghese;
due modi differenti di vedere
e organizzare la vita. Gli effetti sono
stati devastanti: oltre un milione
di morti, un milione e mezzo di rifugiati
nei paesi vicini e più di nove
milioni di sfollati interni, che hanno
abbandonato o perduto casa e proprietà.
Sono stati distrutti beni e infrastrutture
essenziali alla vita e allo
sviluppo del paese: rete commerciale,
scolastica e sanitaria.
Gli spostamenti su strade erano
impossibili; i profughi affollavano le
città e cittadine più importanti, essendo
fuggiti dall’insicurezza della
campagna. L’abbandono dei campi
interruppe ogni produzione, provocando
miseria permanente e dipendenza
assoluta dai paesi stranieri.
In questo dramma la chiesa non ha
mai cessato di ammonire che la guerra
non era la soluzione dei problemi
del paese, affermando la necessità di
far tacere le armi e aprire la via del
dialogo per risolvere i conflitti… come
facevano gli antenati.
In «Un appello alla pace» (gennaio
1983), per esempio, i vescovi invitavano
la gente a prendere coscienza
della situazione di guerra, denunciavano
i belligeranti per aver scelto
la violenza come strumento per risolvere
il conflitto e indicavano la
promozione della vita e il dialogo
quali strumenti ineludibili per promuovere
il bene della nazione.
Il ruolo della chiesa fu determinante
nel processo che pose fine alla
guerra con l’Accordo generale di pace,
firmato a Roma il 4 ottobre 1992.
Fu da questo impegno per la pace,
nella fedeltà alla missione della
chiesa, che l’Assemblea diocesana
della pastorale, tenutasi a Inhambane
il 19-20 novembre 1991, denunciò
la violenza nella scuola, la
violenza per sopravvivere, la violenza
giustizialista e distruttiva di sentimenti.
Nello stesso incontro si avvertì
l’esigenza di assumere un atteggiamento
nuovo per promuovere
la riconciliazione in Mozambico, potenziando
il Centro di Guiúa.
Rivolgendosi alle comunità, dopo
il massacro del Guiúa, il vescovo di
Inhambane, Alberto Setele, scriveva:
«Dove le forze belligeranti si avvicendano,
le popolazioni non possono
contare su nessuno. Dipendono
solo dalla misericordia di coloro
che sono armati. È diabolico! Non si
rispetta nulla, tutto è paralizzato. Si
bruciano villaggi; vengono fatti deragliare
treni; si distruggono botteghe,
scuole e ambulatori; le ragazze
vengono violentate, i giovani accoltellati,
i bambini trucidati, le donne
assassinate, i vecchi decapitati…».
In una precedente dichiarazione
si leggeva: «Davanti a queste situazioni
di violenza, ci appelliamo agli
uomini di governo di qualsiasi livello,
ai responsabili della sicurezza e
a tutte le autorità, perché esercitino
con responsabilità e umanità il
ruolo che compete loro. Riflettere su
questa inaccettabile situazione e interpretarla
alla luce della fede è dovere
di ogni cristiano: bisogna aprire
occhi e coscienza».

LA PRIMA VITTIMA
L’insicurezza dominava la provincia
di Inhambane, come tutto il paese.
Anche il Centro di promozione
umana di Guiúa, in più occasioni,
ebbe a soffrire le conseguenze della
guerra. Il fatto più grave accadde il
13 settembre 1987.
Quell’anno il corso di formazione
era frequentato da 24 famiglie, 150
persone. Quando il Centro fu assalito
dai guerriglieri, molti dei presenti
riuscirono a fuggire tra pallottole
e minacce. Ma 36 persone rimasero
prigioniere degli assalitori, mentre il
catechista Manuel Peres, della diocesi
di Beira, fu ucciso con un colpo di
fucile.
Padre Luis Ferraz scrisse:
«Erano le 4.50 quando incominciai a
sentire raffiche di mitragliatrici. Pochi
minuti dopo, il Centro fu invaso
da una settantina di guerriglieri, che
saccheggiarono la casa delle suore e
le abitazioni dei catechisti e rapirono
la maggior parte delle persone del
Centro. In una casa un catechista
giaceva in un lago di sangue: era Manuel
Peres. Fu la prima morte. La costeazione
era generale.
Poi venimmo a sapere che Manuel,
avvisato dai vicini, era corso a casa
per aiutare la famiglia a fuggire. Ma
era troppo tardi: i guerriglieri si trovavano
già sul posto. Tentò di opporsi,
perché la famiglia non fosse
rapita; ma essi non usarono mezze
misure: gli spararono a bruciapelo.
Colpito alla schiena, le pallottole
uscirono dal petto e si conficcarono
in una parete della stanza. Fu sepolto
il giorno successivo, 14 settembre
1987, nel cimitero di Nhaposa».
Mons. Alberto Setele aggiunse:
«Durante la fuga, i rapitori si resero
colpevoli anche della morte di un
bimbo. La mamma fu costretta ad
abbandonarlo nella foresta, per trasportare
vettovaglie e armi dei guerriglieri.
Per convincerla a tale gesto,
le dissero che il bambino sarebbe
stato raccolto da quelli che seguivano;
essi non potevano attardarsi,
poiché dovevano fuggire per non essere
raggiunti dai soldati dell’esercito
regolare. Nei giorni seguenti, ai
cristiani furono chieste informazioni
sul bambino; ma di lui non si ebbero
più notizie. Si pensa che sia
morto di stenti».
A partire dal 1988, a causa dell’aumento
dei pericoli della guerra,
le attività del Centro di Guiúa diminuirono
drasticamente. Furono sospesi
i corsi biennali di formazione e
ne vennero organizzati di più brevi
(15 giorni o una settimana), secondo
le necessità più urgenti delle comunità
diocesane. Data la situazione,
i partecipanti non erano più famiglie,
ma singoli individui.

VOGLIA DI RICOMINCIARE
Tertulliano (160-220 d.C.) scrisse
che «il sangue dei martiri è il seme
dei cristiani». Parafrasando l’affermazione,
possiamo dire che il sangue
del martire Manuel Peres è stata
la semente che ha fatto rinascere
il Centro catechistico di Guiúa.
Nei giorni 19 e 20 novembre 1991
si tenne, a Inhambane, l’Assemblea
diocesana annuale di pastorale; il
quarto punto dell’agenda rimetteva
in discussione la «formazione dei
laici». Dopo aver valutato il lavoro
realizzato, fu costatata la necessità
di riprendere l’attività con periodi
più lunghi e furono programmati
corsi di un anno per coppie. Perduravano
insicurezza e paura. Il giorno
della pace era ancora lontano; ma
non si poteva più attendere.
Si consultarono i laici: la loro parola
sarebbe stata decisiva. Nonostante
i pericoli evidenti, la risposta
fu: «È meglio non indugiare e,
pur correndo rischi, continuare la
formazione».
L’équipe formativa si mise al lavoro
per programmare il nuovo corso di
formazione, mentre le comunità sceglievano
le famiglie da inviare. Nella
prima metà di marzo 1992 il Centro
di Guiúa accolse i partecipanti:
15 famiglie provenienti da ambienti
rurali di varie missioni, tutte fortemente
provate dalla guerra. Famiglie
laboriose e moralmente solide: godevano
la fiducia della loro comunità;
avevano più di un figlio e, tra
i bambini, c’erano anche lattanti.
Tutto era pronto. Il 23 marzo si sarebbe
aperto l’anno formativo, con
una solenne celebrazione eucaristi-
ca. Invece il vescovo Setele dovette
presiedere il funerale di 24 vittime
della violenza. Nell’omilia raccontò
il tragico evento, in controluce con
la passione e morte di Cristo.

IL MARTIRIO
«Gesù non aveva ancora finito di
parlare che arrivò Giuda con una truppa
armata di spade e bastoni, mandata
dagli alti funzionari del tempio
e dai notabili del popolo».
Sabato, 21 marzo 1992, ore 15. Si
udirono spari di armi leggere, ai quali
nessuno diede importanza; in strada,
a quell’ora, potevano esserci attacchi
a qualche auto di passaggio o
spari di militari che, divertendosi col
tiro al bersaglio, facevano sentire la
loro presenza. La vita del Centro
continuò normalmente.
«Ma essi insistevano chiedendo a
gran voce che Gesù fosse crocifisso; e
le loro grida crescevano».
Poco prima delle 24, i padri Andrea
Brevi e John Njoroge, missionari
della Consolata, e le suore francescane
Lucia, Elisa, Teresa e Lurdes,
dalle rispettive residenze, sentirono
voci concitate provenienti dalle abitazioni
dei catechisti.
Il Centro era circondato da uomini
armati che organizzavano per
saccheggiare, rapinare, massacrare:
tra essi c’erano ragazzi di 10-15 anni
con le armi in pugno. Parlavano
xitshwa, gitonga, changane e portoghese.
Uno dei comandanti si chiamava
Antonio.
«Gesù, ricordati di me quando sarai
nel tuo regno. Egli rispose: oggi sarai
con me in paradiso».
Mentre per tutta l’area del Centro
riecheggiavano spari, si udirono colpi
alle porte e finestre delle residenze
dei catechisti: «Apri! Esci!».
Furono uccisi i catechisti Faustino
Cuamba e Carlos Mukwanane, che
avevano tentato la fuga attraverso i
campi di manioca e arachidi.
Il recinto fu accerchiato e invaso.
Gli assalitori, strappate le reti dalle
finestre e rotti i vetri, entrarono nelle
case gridando: «Prendiamo questi
uomini! Togli quel fardello! Carica
questo sacco!». Minacciavano chiunque
incontravano, puntando loro le
armi alla testa.
«Vicino alla croce di Gesù stavano
la madre e la sorella di sua madre,
Maria, moglie di Cleofa, e Maria di
Magdala».
Gli assalitori si divisero in tre
gruppi, uno dei quali si diresse con
tutti gli ostaggi verso la residenza
delle suore. Abbandonarono per terra
una bimba, Candida, figlia del catechista
Armando Duzenta. La piccola
fu ritrovata più tardi, ancora viva.
Gli aggressori chiamarono per nome
due suore, minacciandole di morte.
Poi si scagliarono contro la porta
della casa, che tuttavia resistette.
Proprio in quel momento i soldati
dell’esercito regolare spararono due
colpi di mortaio dall’acquedotto di
Inhambane, poco lontano dal Centro.
I mortai fecero un rumore assordante
e le case tremarono.
«Non sei anche tu uno dei suoi discepoli?
».
Il secondo gruppo di guerriglieri
rimase presso le abitazioni, mentre
il terzo attraversò il ruscello Guiúa,
alla ricerca dei soldati che avevano
sparato con l’intento di procurarsi
armi e munizioni. Non trovando nessuno,
ritornarono sui loro passi; passando
davanti all’ambulatorio, sequestrarono
Madalena, che si era rifugiata
sotto una tettornia.
«Padre, nelle tue mani affido il mio
spirito».
Dopo il saccheggio, i guerriglieri
si riunirono nel recinto della scuola
primaria; raggrupparono tutte le
persone prese prigioniere e percorsero
circa 500 metri, fermandosi vicino
ad una capanna: qui incominciarono
a torturare i rapiti.
Prima interrogarono le donne e
poi fu la volta degli uomini: volevano
sapere luogo di provenienza,
professione e finalità della loro presenza
nel Centro. Chiesero informazioni
sull’esercito regolare e sulla
strada non minata per entrare
nell’area protetta.

«TANTO MORIRAI!»
Interrogatorio al catechista superstite
Paulo Saieta Kuniane, marito
della martire Veronica Sambula.
– Da dove venite?
– Non siamo di qui. Veniamo da varie
missioni: Vilankulo, Massinga…
– Che cosa fate qua?
– Siamo catechisti. Siamo qui per
studiare la bibbia e imparare il lavoro
di animazione nelle comunità cristiane.
– Dov’è il cibo?
– Siamo poveri, come tutto il popolo.
Non abbiamo magazzini. Ci arrangiamo
ogni giorno come possiamo.
– Dov’è il comando del Frelimo? Dove
sono le mine?
– Non lo sappiamo. Non siamo di qui.
Siamo arrivati da pochi giorni e non
conosciamo il posto. Sappiamo che
è proprietà della chiesa; è una missione
cattolica e un centro di formazione
per catechisti.
– Voi siete padri missionari?
– No, siamo catechisti.
– Quanti anni resterete qui?
– Un anno intero.
– Dove sono i padri?
– Nella loro casa. L’abitazione si trova
al centro degli edifici e vicino alla
chiesa.
– Che tu abbia risposto bene o male,
poco importa. Tanto morirai!
«Chi mi interrogava – raccontò
ancora il catechista Paulo – mi diede
uno spintone. Caddi a terra e ricevetti
un calcio in testa..». È una
testimonianza degna dei martirolo-
gi romani. Come ai primi secoli della
chiesa, i catechisti confessarono
la loro fede, l’attività apostolica
e il fine altamente religioso che
li aveva spinti al Guiúa. Confessarono
e non negarono.
«Vedendo che albeggiava e innervositi
per la mancanza di collaborazione
da parte dei rapiti – continuò
il catechista -, gli aggressori decisero
di lasciare l’abitato e di inoltrarsi
nel bosco. Approfittando del trambusto
e dell’oscurità, due catechisti
si nascosero fra i cespugli e fuggirono.
Appena nel bosco, i banditi uccisero
una ragazza per spaventare gli
altri.
Quando si furono allontanati alcuni
chilometri dal Guiúa, si appartarono
per decidere il da farsi. Scelsero
dieci ragazzi: questi dovevano seguire
i guerriglieri nelle loro basi.
Verso gli altri furono di una crudeltà
bestiale. Con arroganza selvaggia ordinarono
ad un bambino di sei anni:
“Corri alla missione e di’ ai padri che
stiamo uccidendo tutti. Se vogliono,
possono venire con i soldati quanto
prima”.
I carnefici si riunirono, ciascuno
con un catechista in mezzo a loro.
Ogni guerrigliero uccise a sangue
freddo la persona che aveva in custodia.
Davanti ai primi morti, alcuni
catechisti dissero: “Preghiamo!
Ora sappiamo qual è l’intento di questi
uomini e quale sarà la fine del nostro
popolo. Preghiamo! È arrivato il
nostro giorno”. E pregammo…».

«PROCLAMIAMO
LA LORO RISURREZIONE…»

Domenica, 22 marzo, ore 8.30. Due
soldati in sosta nella comunità cristiana,
terrorizzati, accettarono di
accompagnare i cristiani che, insieme
ai missionari, si recarono a recuperare
i cadaveri. Trovarono 20 persone
uccise a colpi di baionetta.
Una ragazza di 15 anni piangeva e
due neonati feriti strillavano disperatamente
tra i cadaveri. Uno di essi
morì durante il viaggio verso l’ospedale.
L’adolescente e l’altro neonato
furono operati e si salvarono.
La ragazza aveva una profonda ferita
all’addome e aveva perduto molto
sangue.
Il bilancio totale fu di 24 morti.
Missionari, suore e alcuni cristiani
partirono dal Centro di Guiúa con tre
auto e raccolsero i cadaveri nella brughiera,
con la costante minaccia del
ritorno dei guerriglieri. Benché il luogo
del massacro fosse abbastanza vicino,
impiegarono molto tempo, perché
non c’erano strade di accesso.
Al ritorno, i corpi furono deposti
sotto la tettornia dell’ambulatorio,
dietro la chiesa: furono lavati e composti.
Nel pomeriggio un forte acquazzone
attenuò il caldo, permise
di recuperare un po’ le forze e lavò la
terra dal sangue versato… La pioggia
rovinò la farina e quant’altro i
banditi avevano rubato. «Siamo stati
castigati, perché abbiamo ucciso i
figli di Dio» dissero tra loro gli assassini.
La comunità incominciò a costruire
le bare dei martiri. Molti falegnami
prestarono generosamente la loro
opera.
Il giorno seguente, 23 marzo, alle
ore 11, nella chiesa parrocchiale di
Guiúa fu celebrata l’eucaristia. «Signore,
annunciamo la loro morte e
proclamiamo la loro risurrezione».

Francisco Lerma




Tante gocce fanno l’oceano

Storie di laici impegnati per la missione

Il volontariato costituisce
una delle più belle e nobili realtà
del nostro tempo, anche
nel mondo missionario.
Ed è un contributo fondamentale.
In patria o nei paesi del terzo mondo, molti impegnano
il tempo libero, alcuni mesi e anni,
altri tutta la vita, per dare speranza ai più infelici e disperati.
A gocce o a brocche, poco importa:
tutto contribuisce ad alimentare
il mare dell’amore.

a cura di Bendetto Bellesi




Dossier – Kamikaze dell’amore

Un piccolo esercito di «addestrati speciali»,
nei luoghi più difficili della capitale kenyana,
lotta, senza clamore, per ridare speranza
e portare consolazione.

S entendo le tristi notizie dei kamikaze della violenza che, come martiri, si sacrificano per il loro dio causando morte a gente innocente, mi consolo nel pensare a centinaia di migliaia di «kamikaze dell’amore».
Sono gente normale che spende tutto per gli altri, sacrificando la vita goccia a goccia. Nei miei tre anni spesi nella periferia di Nairobi ne ho incontrati tanti, di origini diverse, pronti a tutto per sconfiggere miseria e donare dignità ai due milioni di persone che languiscono nelle baraccopoli. Ogni mese, i missionari operatori di questi slums si trovavano per un giorno di ritiro spirituale e scambio di esperienze.
la visita di DIO
Siamo ospiti nel cuore della baraccopoli più popolosa di Nairobi, Kibera 3 (circa mezzo milione di abitanti). La parrocchia Christ the King è retta da un missionario colombiano, dei Guadalupe Fathers. È una sorta di porto di mare per tanti naufraghi, diui e nottui. Con un drappello di laici kenyani, hanno iniziato un centro educativo, dove i bambini ricevono cibo e sapere.
Il dispensario, diretto da suore, è diventato un luogo di consolazione di giorno e anche per le vittime delle violenze nottue. Qui i bambini possono venire a scuola, giocare, essere curati; i giovani hanno il loro posto di ritrovo, senza alcornol e droga, e gli adulti, desiderosi di progredire, possono imparare l’abc.
Ho visto nel volto dei laici kenyani di Kibera lo zelo per la loro gente, che si accalca in poco più di un chilometro quadrato, senza acqua, luce e strade. Da loro ho saputo delle «tornilette volanti»: molta gente, non avendo gabinetti a sufficienza, affida… al vento gli escrementi, avvolti in cellophane.
Si discutevano le strategie di intervento nell’inferno della periferia: gli europei sono affiancati da kenyani, gli statunitensi si mischiano con sudamericani e indiani. Siamo più di cento.
Padre Franco Cellana, ci informa che in una valletta, lasciata libera fra le ville dei commercianti indiani, erano sorti due nuovi slums. Ha combattuto le ire dei benestanti che vedevano inquinato il loro territorio, per difendere i nuovi insediati. Keleleshua e White Ridge, due rioni della ricca Westlands, hanno così il loro «bubbone». La parrocchia della Consolata accoglie i nuovi arrivati con un abbraccio universale. Un laboratorio, finanziato da benefattori, è diventato segno di speranza per i giovani: i sandali di stile masai sono il prodotto che tira di più.
Dalla baraccopoli di Kaiole, una laica kenyana ci illustra la strategia che ha usato per fondare una cornoperativa: «Se siamo uniti, potremo ottenere dal comune di Nairobi un appezzamento di terreno per famiglia nel territorio abusivo – ha detto con fiducia -. Il cammino è lungo, ma sembra che qualcosa si muova».
Il gruppo canta: «Benedetto il Signore, che ha visitato e redento il suo popolo». Ancora oggi Dio visita il suo popolo nella schiavitù e manda i suoi «kamikaze» imbottiti di amore e dedizione: esplosivi che risalgono a Gesù Cristo ed estremamente efficaci anche oggi.
Soweto è un nome ereditato dal Sudafrica. Dalla baraccopoli si scorgono le colline con campi di caffè. Le residenze della nuova classe media di Nairobi si moltiplicano.
Massimo, che opera in questo slum, tira fuori dallo zaino la bibbia. Si legge la parola di Dio. Gli agenti antiterrorismo non lo hanno ancora fermato, nonostante il suo zaino possa destare qualche sospetto, insieme alla barba stile Osama Bin Laden. Gli manca solo il turbante per fare il quadro completo.
Massimo, come un san Francesco, gira assieme a dei giovani con un sacco di yuta sulle spalle, raccogliendo tra le immondizie materiale per il riciclaggio. Vuole insegnare ai ragazzi del quartiere a sopravvivere, visto che l’occupazione è di là da venire. Ha tentato altri esperimenti, come allevamento di conigli, coltivazione di verdure, produzione di sapone.
Nel cuore di Soweto, Massimo fa comunità con Andrea. Sono due pionieri della comunità Papa Giovanni xxiii, fondata dall’«imam» cattolico don Benzi, famoso in Italia per avere istituito centinaia di case-famiglia, dove trovano rifugio tutti quelli che vogliono ridare un senso alla propria vita: prostitute, drogati, emarginati…
Andrea, belga, oltre al francese parla bene l’italiano e si arrangia in inglese, intuisce swahili e kikuyu. Ha sempre un nugolo di bambini attorno, che captano al volo il linguaggio dell’amore. Sta sperimentando l’iniziativa di dare un minicredito ad alcune famiglie più bisognose, non prima, però, di aver impartito loro una formazione adeguata su come gestirli.
giovani, suore e dottori
La missione di Kahawa West, cominciata 10 anni fa, fa da cerniera tra la base e la cima della scala economica. Gli abitanti sono già 35 mila, ma ogni giorno ne arrivano altri, con nel cuore la speranza di una nuova frontiera. Qui, più che mai, necessitano i kamikaze.
Suor Mercy e il suo drappello di suore dell’Immacolata (una congregazione fondata da mons. Perlo, all’inizio del secolo) si sono insediate nei dintorni otto anni fa. Sono sette suore africane che dirigono una scuola di mille alunni, cominciata da zero. Sono pronte a tutto, anche ai cambiamenti repentini, perché vengono spostate dalle superiore per altre imprese più… urgenti. Traggono la forza in una cappellina, nella casa provvisoria. Le loro preghiere sono segnate dal ritmo dei tamburi e da cembali africani.
L’anno scorso, con un colpo ben riuscito, hanno costruito un collegio per ragazzi e ragazze di strada. Questi bambini ormai cento, sembrano già «normali»: gli stracci che indossavano prima sono stati bruciati e dimenticati.
Andrea, un dentista che da molti anni passa le sue ferie in Kenya curando le carie africane, si porta con sé un drappello di colleghi. Due rimangono a Kahawa e sono sommersi da una marea di pazienti, tra cui i ragazzi della scuola della baraccopoli di Soweto e Kamae. Tutti ricordano il «dagetari ya meno» (dentista) Massimo da Piacenza, l’assistente Veglia da Varese, Gianalberto da Monza e Serena da Torino. Li aspettano ancora il prossimo anno.
A Kamae opera un altro gruppo, pronto a tutto, dotato anche di… un campo di addestramento, chiamato noviziato. Si chiamano Elisabettine dal nome della loro fondatrice padovana. Suor Wamuyu (kenyana) e suor Paola (italiana) sono le responsabili della scuola di recupero nella baraccopoli di Soweto. Il nemico da combattere è l’analfabetismo, che cresce ogni giorno per la miseria e le malattie, causa di tanti bimbi orfani.
A dicembre dell’anno scorso, ho assistito al giuramento di due ragazze del Kenya, formate nel noviziato. I genitori hanno versato lacrime di dolore, sapendole perse per la famiglia; ma la gioia del dono è scoppiata in canti e danze e le responsabili della congregazione pensano di utilizzarle per «missioni speciali». Suor Rosa (padovana) e suor Veronica (kenyana) hanno in mano il dispensario. Di recente, dall’Italia è arrivata la macchina dei raggi x e lo scunner.
Sulla collina, a ovest, padre Alex Signorelli ha costruito, a nome dei missionari della Consolata, un villaggio per i ragazzi di strada. Lo chiamano «Familia ya Ufariji», famiglia della consolazione. Lo stato gli ha dato in affido 80 maschietti, raccolti nelle strade di Nairobi. Ha generato figli, già pronti per l’asilo e le prime classi elementari.
Le missionarie della Consolata sono presenti a Kahawa e, al momento, due di loro formano le nuove generazioni alla cristianità. Le altre due sono a fianco dei miserabili delle baraccopoli: tutti le chiamano «mama». Suor Carmelangela ha spento l’altro giorno 50 candeline di presenza in Africa. Nell’agosto scorso, Laura da Milano, Massimo, Antonella e Paolo da Torino hanno organizzato il Grest (tipo la nostra «estate ragazzi») per elementari e medie, aiutati da un gruppo di giovani cattolici della parrocchia. La nuova generazione si forma con l’esempio della dedizione. Nei ranghi della chiesa cattolica, Kahawa West è considerata «missione speciale», come tutte le parrocchie sorte nella periferia di Nairobi.

In tutto il Kenya, i kamikaze locali sono circa 700, affiancati da altrettanti stranieri. Dovendo partire, ho consegnato il testimone a padre Peter, ugandese. Pochi giorni dopo, vicino alla baraccopoli di Kamae, in pieno giorno, è stato… ripulito di tutto, mentre controllava i lavori di una scuola. È stato il battesimo per lui, che vuole vivere e donarsi dentro questa realtà. Gli è rimasto l’entusiasmo di rimanere e di spendersi tutto: fino all’ultima goccia! •

Alex Moreschi




Dossier – Nel fango di Kilbera

«Qui la polizia entra solo per controllare le birrerie clandestine».
«E lo credo bene», verrebbe spontaneo rispondere, se il degrado che ci sta davanti non riguardasse appartenenti al genere umano, costretti a vivere dove sarebbe difficile per fauna suina.
Kibera è uno dei tanti slums (baraccopoli) di Nairobi. Il più grande. E stiamo entrando dopo una nottata di pioggia intensa. Ruscelli larghi mezzo metro e profondi altrettanto a far da vicoli. Meglio sorvolare sul contenuto. Ci razzolano solo cani spelacchiati e bambini piccoli.
Si procede sullo strettissimo bordo a ridosso delle baracche. Scivoloso come una pista da bob. Spesso con la stessa pendenza. I pali sporgono dalle baracche come appigli, confidando nella buona tenuta. Attenzione identica da equilibristi su una corda tesa sopra un canyon. Una scivolata equivarrebbe a sprofondare fino al ginocchio in melma, di cui il fango è solo componente minoritaria.
E qui vive gente. Tanta. Troppa. Un milione, dicono. In continuo aumento. Nuove baracche crescono come funghi. Appiccicate una all’altra. Casotti fatiscenti di sassi e fango. Lamiera ondulata come tetto. Paletti (rami tagliati) per rinforzare la struttura. Misere abitazioni affittate a povere famiglie, attirate dal miraggio della grande città. Canoni non certo equi: 10 euro al mese, contro stipendi (quando c’è lavoro) di 50-60. Fogne a cielo aperto, davanti all’entrata, che quando piove si confondono con ciò che dovrebbero essere i vicoli. Un’asse come passerella per entrare.

«Q ui la polizia entra solo per controllare le birrerie clandestine. Il quartiere non è affatto violento. Tutt’al più qualche ubriaco di troppo. La birra costa pochissimo».
È Fred che ci accompagna. Lui Kibera la conosce benissimo. Ci è nato. E, da come ne parla, non l’ha ripudiata. Il padre e alcuni fratelli abitano ancora qui. Lui si ritiene un privilegiato. Voleva studiare e ha incontrato le persone giuste per poterlo fare. Con moglie e figli ora abita alla Shalom House, la casa-albergo voluta da padre Kizito. Chi meglio di lui, quindi, può illustrarci la realtà di questo enorme slum, dove anche di notte vivono con la porta aperta. Dove, come ci dice Fred, c’è molta solidarietà. Dove la gente si fa spesso carico dei problemi degli altri.
Ma ciò che è sotto i nostri occhi non è tollerabile. Non è accettabile nel terzo millennio. Analfabetismo a livelli altissimi. Prostituzione idem (spesso unica possibilità offerta a una donna per guadagnare qualcosa). Aids che si trasmette come il morbillo in un asilo.
«Nessuna forma di sanità riconosciuta. Chi non ha i soldi, può morire». La cosa suona ancora più tragica, se detta da un padre, amico di Fred: senza l’aiuto di un’organizzazione umanitaria rischiava di perdere un bimbo di due anni.
La gente che incontriamo è, tuttavia, affabile. Certamente la presenza di Fred contribuisce. I bambini ci salutano e rispondono come un’eco alle nostre voci. Alle nostre forme di saluto. Non ci lasciano l’ultimo suono.
Da una finestrella, alcuni bimbi guardano con curiosità le nostre facce scolorite. Non è mercanzia che circola spesso da queste parti. Una signora gentilissima ci invita a entrare. È una scuola matea. Un’iniziativa della chiesa pentecostale. Un raggio di speranza in quel mare di fango.

Mario Beltrami




Dossier – Pioggia di… solidarietà

Le catapecchie sono arrivate anche nella zona residenziale di Westlands, territorio della parrocchia-santuario della Consolata. Borghesi e commercianti le bruciano, perché non vogliono poveri tra i piedi. Padre Franco Cellana ha mobilitato parrocchiani e vari gruppi di amici italiani che, donando cuore e tempo, hanno reso possibile un’infinità di iniziative per il recupero materiale, sociale e spirituale di tanti sfortunati.

Il primo incontro con padre Franco Cellana avvenne nel 1985, sotto il cielo africano di Iringa (Tanzania), assieme a memorabili missionari, come Giovanni Borra, Aldo Pellizzari, recentemente scomparso, Sergio Antonucci e tanti altri. Da allora non ci siamo più persi di vista. Il nostro è un legame profondo e prezioso, fatto di condivisione di valori e intenti, giornie, sofferenze e speranze.
Sono tre anni che non ci vediamo. Benché in questo triennio, mio marito Andrea, la figlia Alessia e io lo abbiamo seguito passo passo, non vediamo l’ora di sentire da lui i particolari della sua esperienza nella contrastante, cruenta, spasmodica Nairobi. Sarà cambiato?
Lo incontriamo al suo paese, in Trentino, dove è tornato per una breve vacanza. All’arrivo abbiamo immediata la risposta. È in forma smagliante. Intonse la carica vitale, l’energia, la luce degli occhi e del sorriso. In un abbraccio commosso si sciolgono tutti i nodi dei dubbi e nostalgie per la lunga lontananza. È subito casa, subito famiglia nella gioia di ritrovarci. Ed è subito dialogo e storia vissuta.
Luci e ombre a Nairobi…
«Sappiamo del tuo arrivo a Nairobi, dei primi passi in quell’ambiente così diverso e contrastante, delle tue attività e iniziative. Dopo tre anni e mezzo in quella città, hai qualcosa di speciale da comunicarci?».
La risposta è immediata, solida, fluidificante, come lo scorrere delle immagini in un film. «Intanto ti dico che dopo tre anni a Nairobi, nel santuario della Consolata, mi sento diverso, arricchito umanamente e spiritualmente. La pastorale urbana nelle metropoli africane è una sfida enorme. Catechesi, liturgia, servizio sacramentale, dimensione di giustizia e pace vanno rivedute e corrette.
All’inizio è stato un apprendistato di contatti e conoscenze, un girovagare fra grattacieli e supermercati, un circolare tra le potenti macchine Toyota, Mercedes e Pajero, fino a scoprire che la nostra comunità era composta da ricchi e benestanti, da professionisti e lavoratori, da una larga fetta di poverissimi, relegati nelle baraccopoli o sulle strade. A questi in particolare ho diretto la mia attenzione e cura, cercando di coinvolgere anche tutte le altre forze pastorali. “I poveri li avrete sempre con voi” ha detto il Signore.
Volete che vi conduca in uno slum? Ce ne sono ben 130 di questi insediamenti informali a Nairobi. Ebbene, immaginate un alveare di capanne di lamiera, fango o cartone e plastica. Qui manca tutto: luce, acqua, servizi igienici, strade. Al suo interno crudezza e degrado, emarginazione e miseria. Lo stato di denutrizione per molti è permanente, con una infinità di malattie, molte delle quali endemiche: tifo, malaria, colera, Aids, infezioni intestinali, scabbie ecc. Atmosfera infeale, odori indescrivibili di liquami nauseabondi. Là si nasce nella precarietà, si vive su limo infido, si muore senza formalità. La gente vive in uno stress fisico e psicologico, senza valori né vita familiare, nella paura e nella violenza. Lì ho trovato una umanità che soffriva senza alcun sollievo.
Poi ho scoperto i ragazzi di strada, una miriade. Piccoli e grandi, sporchi, stracciati, allucinati dalla colla-benzina, la loro droga povera. Cielo come tetto, erba o marciapiede come materasso. Vita improvvisata, alla giornata, senza futuro. Questo il mio inizio. Primo impatto, primo desiderio: intervenire per un recupero materiale, sociale, morale e spirituale di tutti loro».
Il miracolo della solidarietà
Ho bisogno di una spiegazione. «Come hai fatto a programmare, organizzare e portare avanti questi ideali di promozione umana, recupero delle coscienze e dignità?». La riflessione di padre Franco diventa tagliente, coinvolgente e chiara.
«Assieme alla comunità parrocchiale, sono partito con semplicità e con l’intento primario di essere segno di speranza e consolazione per tutti. L’imperativo? Non è lecito annunciare il vangelo senza metterlo in pratica. L’asso nella manica? Confidare nella provvidenza, dalla quale non sono mai stato deluso.
C’è stato subito bisogno di intervenire per ricostruire le baracche bruciate con petrolio, da qualcuno che non accetta questi insediamenti umani, o rifare quelle di cartone e sacchi di plastica. Occorreva qualche intervento rapido: acqua pulita per i tre villaggi, asilo per i bambini, toelette e docce, assistenza medica di prima necessità, un laboratorio per i giovani e donne senza lavoro, cibo e vestiti per i ragazzi di strada.
Ecco allora la provvidenza! Amici e conoscenti hanno aperto il loro cuore: alcuni hanno donato il proprio tempo, risparmi e frutto del loro lavoro e sacrificio. Sì, tutto questo si è potuto realizzare solo con la condivisione. La mia famiglia e gli amici delle valli trentine, il gruppo degli Amici di Tione di Trento (Africa Rafiki), quello di Roma (Africa Sì), amici di Torino e di altre parti di Italia, come voi del Mugello, tutti insieme siete stati una vera provvidenza.
Vorrei elencarli uno per uno questi uomini e donne, famiglie, alunni che, uscendo dal torpore del qualunquismo e in mezzo ai loro affanni ordinari, hanno trasformato l’indifferenza in attenzione e la passività in azione. Alcuni in particolare sono stati, straordinari; ma sottolineo l’importanza di ognuno di loro: qualcuno è una goccia, qualcun altro una brocca, ma insieme formano un mare di bene e di amore.
volontariato: risorsa umana
Mi viene spontanea una domanda, quasi una sfida: «Padre Franco, tu sai quanto noi crediamo nella grande risorsa del volontariato; riteniamo che, per cambiare le coscienze e il corso della storia del nostro tempo, occorra partire da una vita esperienziale e non di sole parole. Abbiamo bisogno di modelli, di testimoni. Avendolo sperimentato di persona, sappiamo quanto affonda nel cuore l’esperienza missionaria, il contatto diretto con una realtà religiosa, culturale e sociale diversa. Ritieni che sia importante uscire dallo stereotipo di “sostenitore economico” a favore di una più attiva collaborazione e condivisione dell’attività apostolica e missionaria?».
«È bella e attuale la domanda che mi fai. Tento di rispondere attraverso la mia stessa esperienza degli anni di missione. Fin dal 1986, per esempio, ho avuto modo di sperimentare in Tanzania la validità della presenza del gruppo missionario Alto Garda e Ledro. Da allora i suoi volontari, con efficienza, serietà professionale e spirito cristiano, non sono mai mancati per offrire validamente la loro opera di sostegno allo sviluppo e alla promozione umana nelle comunità più bisognose.
Il coinvolgimento e la solidarietà verso il mondo missionario sono una vera benedizione. È la nostra stessa vocazione cristiana che ce lo chiede, per questo hanno un’importanza vitale per l’attuazione del messaggio evangelico che ci fa essere tutti missionari gli uni verso gli altri. Io sono d’accordo in un maggior coinvolgimento attivo al nostro fianco e nel mezzo delle comunità locali. L’appoggio economico è il frutto di questa presenza. Prego che in ognuno sgorghi il coraggio della missione e io sono felice di poter essere uno strumento e un’opportunità perché ciò avvenga.
Chi è andato in Tanzania o è venuto negli slums di Nairobi ha potuto condividere con la gente disagi, fatiche e speranze. Queste persone hanno saputo dare tanto; hanno lasciato le loro famiglie e passatempi, si sono giocate le ferie senza nessun tornaconto, mossi soltanto dal desiderio di fare il bene. Non è missione questa? Non è missione la testimonianza che portano a casa, coinvolgendo altri? Così diventano protagonisti: gente che crede nell’uomo, nella giustizia, nella pace e s’impegna a tessere la storia di Dio in un modo diretto, facendosi trama del tessuto…».
Padre Franco si sofferma a ringraziare tutti a piene mani. Ringrazia per l’acqua pulita, per le toelette, per le casette rifatte, per l’asilo dei bambini, per l’aiuto alle famiglie e ai ragazzi di strada, per l’assistenza medica, per le adozioni dei bambini e degli alunni delle scuole, per i laboratori artigianali delle donne e dei giovani, per la pastorale sociale che si è sviluppata così abbondantemente nella sua parrocchia.
Sì, ringrazia; ma si sa che ognuno che ritorna da quel mondo così diverso ha il cuore pieno di gratitudine con un grande «asante sana» (grazie infinite) per ciò che ha ricevuto, che è infinitamente di più di ciò che ha dato.
Questo vale anche per me, che dal 1985 vivo ancora di rendita. La condivisione con i più diseredati ci riporta alla giusta dimensione sociale e ci fa riprendere coscienza della nostra umanità. È un dato di fatto che chi ha fatto questo tipo di esperienza è accomunato dalle stesse sensazioni: siamo come contagiati dallo stesso virus, abbiamo subito la stessa metamorfosi e vorremmo dirlo a tutto il mondo. Cominciamo a dirlo ai nostri figli, ai nostri amici, ai nostri vicini.
Sull’esempio e sulla scia di padre Franco e di altri missionari, diveniamo fiaccole accese di verità, braci che scatenano fuochi di solidarietà, pioggia sottile che fa rinverdire i deserti dell’abbandono, facendo terra di missione ogni persona, paese e luogo. Non è forse vedendo lui, là a Nairobi, stanziale e non di passaggio, nell’incognita e nel rischio, in mezzo a violenze e malattie, instancabile ma inevitabilmente stanco, tenace ma inevitabilmente scoraggiato, forte ma inevitabilmente provato che ci è venuta la voglia di imitarlo e aiutarlo? Uomini come lui, solari, universali, affascinano per la loro dedizione, per il loro coraggio e coerenza. Di questi uomini veri c’è bisogno, uomini con gli uomini, ma con la luce di Dio.
«Ma è stato fatto tantissimo!», concludo esterrefatta.
«Certo – risponde di rimando -. Grazie al gruppo di Africa Rafiki e Africa Sì e altri, che sono intervenuti a nome di tutti, sono state fatte cose molto significative e le comunità degli slums ne sono felici».
«Allora c’è speranza che anch’io e Andrea e la nostra Alessia di 14 anni troveremo qualcosa di cui occuparci e da condividere con la tua comunità?».
Padre Franco ci guarda sorridendo: «Vi aspetta un mare su cui navigare, venite e con voi invito tanti altri. La famiglia di Dio è vasta e manca di importanti valori da scoprire e da condividere».

A pieni polmoni mi gusto questa ossigenata trentina: profumo di pini e abeti, aria di malga fine e rarefatta, che inebria e rivitalizza le membra assopite dall’apatia della nostra società. Un bel respiro e… via! L’Africa ci attende! •

Antonella Bertaccini




Dossier – Bisturi miracoloso

È il primo volontario laico che ha legato la sua vita a quella dei missionari e missionarie della Consolata, spendendosi a favore degli africani.
A 50 anni dalla morte, la sua memoria è sempre viva tra la gente del Kenya, non solo per la sua professionalità, ma soprattutto per la grande umanità e profonda fede cristiana che hanno animato la sua scelta.

«Ho l’onore di incontrarmi con il medico più famoso del Kenya e il più grande amico degli africani»; così Jomo Kenyata, in visita all’ospedale della Consolata di Nyeri, salutava il dottore Paolo Chiono, nel 1950, mentre il leader kenyano percorreva il paese arringando le folle contro il potere coloniale.
Il dottore non fece caso alla prima definizione, ma si compiacque della seconda: era quello che voleva essere e tale si sentiva, grande amico degli africani.
«dottore buono»
Era nato a Castellamonte (Torino), il 20 agosto 1909, da famiglia benestante. Frequentò il liceo Botta di Ivrea; quindi s’iscrisse alla facoltà di medicina dell’Università di Torino, dove conseguì la laurea nel 1933 e fu assunto come assistente volontario presso la clinica chirurgica all’ospedale «San Giovanni». In breve tempo acquisì notevolissime capacità professionali, specialmente in campo chirurgico e urologico.
Scoppiata la guerra in Etiopia, nel 1935, chiese e ottenne di parteciparvi come sottotenente medico. L’anno seguente sbarcò a Massaua e proseguì verso il cuore dell’altopiano etiopico, al seguito dell’esercito. Negli scontri con i soldati etiopici i feriti erano così numerosi da dovere operare notte e giorno. Senza risparmiarsi, il dottor Chiono curava tutti, sia italiani che etiopici. Nei momenti tranquilli si dedicava all’ambulatorio degli indigeni.
Da Addis Abeba così scriveva alla zia Antonietta: «La mia vita qui è piena di lavoro senza soddisfazione. Però il maggiore medico ora non muove un dito senza chiedermi consiglio. Il lavoro è enorme; e tu sai che se io lavoro, non faccio le cose a metà. Ne ho da mattina a sera».
Alla fine del 1937 si fece trasferire all’ospedale militare di Lechemti, nel Wollega, 400 km a ovest della capitale, perché «stanco di stare sotto padrone – scriveva alla zia -. Volevo essere libero di fare a modo mio per i pochi mesi che rimangono da trascorrere ancora in Africa».
Fare a modo suo significava non concedersi un momento di riposo, fino a soffrire di esaurimento e inappetenza: operava nell’ospedale, prestava servizio presso l’ambulatorio della missione dei padri e suore della Consolata, visitava i malati a domicilio, si spingeva nei villaggi più sperduti, curava i più poveri e dimenticati, fino a distribuire loro corredo e stipendio. A una suora che gli faceva osservare come in una settimana la busta paga era già vuota, rispose con un sorriso: «Che m’importa di avere più quattrini o meno? Quando ne ho a sufficienza per vestirmi e nutrirmi, mi basta».
Gli africani lo definirono subito «il grande medico che vuole bene agli africani». Il tam tam della brughiera ne sparse la fama di dottore prodigioso, che curava le malattie inguaribili: i pazienti affluivano dalle regioni più lontane.
All’inizio del 1938 fu chiamato in Italia al capezzale del padre. La popolazione di Lechemti e dintorni salutò l’akimi garidà (il dottore buono) piangendo e accompagnandolo per 4 km; anche lui si commosse fino alle lacrime.
medico e missionario
A Torino il dottor Chiono riprese l’attività nella clinica chirurgica dell’Università; si iscrisse a corsi di specializzazione in chirurgia e urologia; vinse due concorsi per un posto in ospedale ad Aosta e Savona, ma vi rinunciò. Amici e colleghi gli prospettavano una brillantissima carriera professionale e accademica, ma nulla riusciva a renderlo felice.
L’esperienza etiopica, la povertà degli africani e i loro bisogni in campo medico, il contatto con i missionari e missionarie della Consolata lo avevano cambiato. Ancor prima di tornare in patria, aveva ventilato l’idea di spendere la vita a servizio dei poveri in qualche paese africano, dove sarebbe stato più utile che in Italia. Ma come? Non esistevano organizzazioni inteazionali a cui appoggiarsi.
L’idea del dottor Chiono era giunta, tramite le suore, nella missione di Nyeri (Kenya), dove l’ospedale appena costruito era alla ricerca disperata di un medico. Nel maggio 1939 mons. Carlo Re, vicario apostolico di Nyeri, di passaggio in Italia, propose al dottore di recarsi nella sua diocesi per dirigere i servizi sanitari come medico missionario. La proposta fu per lui come un invito a nozze; seduta stante rispose: «Sarò medico missionario».
Per evitare che il lento distacco diventasse un’agonia, tenne nascosta la sua scelta ad amici e colleghi: diede loro l’addio per telefono, da Messina, prima d’imbarcarsi sulla nave Rosandra. Era il 23 ottobre 1939. «È fatto, padre! Sono missionario come voi» disse a uno dei missionari che lo accompagnavano, appena la nave uscì dal porto.
Giunto a Nyeri, ancora vestito da viaggio, fu chiamato per un difficile intervento su una partoriente: il laborioso taglio cesareo salvò madre e figlio. E subito, come capita in Africa, si sparse la voce che alla missione era arrivato un medico «giovane e buono» che si sarebbe preso cura degli africani.
In poco tempo organizzò l’attività dell’ospedale con tutti i suoi servizi e visite periodiche ai dispensari delle altre missioni. Di notte scriveva articoli su elementari norme di igiene, da pubblicare in lingua kikuyu sul mensile Wathiomo Mukinyu (L’amico vero). Insisteva nel dire che non bastava curare le malattie, ma bisogna cogliere ogni occasione per istruire ed educare.
Per otto mesi si prodigò come era suo stile, prendendosi uno svago e riposo mentale, in qualche fine settimana, andando a caccia. Al ritorno, distribuiva di persona la carne alle varie cucine della missione.
tra i reticolati
Ma arrivò il fatidico 10 giugno 1940: l’Italia entrò in guerra e tutti i missionari italiani, lui compreso, furono arrestati e inteati, prima a Kabete, presso Nairobi, poi a Koffiefontein (Sudafrica), dove rimase per tre anni, insieme a un migliaio di altri prigionieri civili e militari.
Anche qui il dottor Chiono continuò la sua opera di medico e di missionario: fu soprattutto grazie a lui che il 98% degli inteati ritornarono alla pratica religiosa.
A metà agosto del 1943, dottore e missionari furono riportati nel campo di Kabete. Dopo un anno di trattative diplomatiche, i padri poterono tornare nelle loro missioni, mentre il dottore, sospettato per i suoi trascorsi in Etiopia, fu trattenuto ancora un anno, «il più terribile della mia vita» racconterà più tardi.
«La mia anima è piena di mestizia – scriveva ai familiari – e cerco disperatamente rifugio in Chi solo può tutto». Nonostante godesse di grande prestigio presso i compagni di sventura e le autorità, tanto da essere chiamato per i casi più difficili a operare nell’ospedale civile di Nairobi, solo la preghiera e le notizie provenienti da Nyeri riuscivano a fargli superare lo stato di tristezza.
I missionari tentarono tutte le strade, fuori e dentro la colonia, per liberarlo dalla prigionia, finché si rivolsero al «Consiglio indigeno» di Nyeri: l’assemblea di cattolici e protestanti inviò una petizione alle autorità coloniali, illustrando come l’opera del dottore era indispensabile ai kikuyu. E fu liberato finalmente.
«da paolo non si muore»
Nel settembre 1945 il dottor Chiono fece ritorno al suo ospedale e riprese il lavoro con entusiasmo e dinamismo, come se volesse recuperare i cinque anni perduti in prigionia. Anzitutto istituì un corso per infermiere africane, per avere personale locale specializzato sia in ospedale che negli ambulatori delle varie missioni: tre di essi furono affidati a suore indigene. «La loro formazione – scriveva – mi è costata enormi sacrifici, se pensiamo alla poca istruzione avuta in precedenza, ma sono felice di averli fatti, vedendo gli ottimi risultati».
Alcune operazioni chirurgiche e conseguenti guarigioni avevano del miracoloso agli occhi degli africani, che pensarono a diffondee la fama in tutto il Kenya. Il suo nome era diventato una leggenda. «Kwa Paulo gutikuaguo» (da Paolo non si muore) dicevano con uno slogan che passava di bocca in bocca.
Ma la fama moltiplicava il numero dei pazienti, obbligando il dottore a orari massacranti, interrotti soltanto dal tempo dedicato alla preghiera e all’hobby della caccia e pesca.
Ben presto arrivarono i riconoscimenti ufficiali: nel 1950 Kenyata lo definiva «il più grande amico degli africani»; le autorità coloniali lo additavano ad esempio; lo stesso anno, dal Vaticano, arrivò la nomina a Cavaliere dell’Ordine di san Gregorio Magno. L’anno seguente scoppiò improvvisa la rivolta dei mau mau contro il governo coloniale inglese. Il dottor Chiono curava tutti, feriti ribelli e loro vittime, senza chiedere da che parte stessero, guadagnandosi il rispetto dei guerriglieri, che gli fecero pervenire questo messaggio: «Uccideremo tutti i bianchi, te no!». Avvalendosi di tale garanzia, si spingeva nei posti più pericolosi per soccorrere i feriti.
bisturi e rosario
«Mi sono creato un piccolo mondo e me lo vivo» scriveva alla sorella Nella. L’ospedale, curato nei minimi dettagli, portato da 20 a 100 posti letto, aggiornato con laboratori e attrezzature sempre più modee ed efficienti, e poi la formazione del personale, la ricerca scientifica sulle patologie tropicali, medicine vegetali, cura e prevenzione di malattie dovute a situazioni sociali, ambientali e culturali… erano il suo mondo, in cui si sentiva pienamente realizzato.
La chirurgia, soprattutto, era per lui un’arte bella: dopo certi interventi provava la soddisfazione che ha un artista davanti alle sue opere migliori. «Ho meditato sul mio bisturi – confessava un giorno a suor Giulietta, sua aiutante -. Più lo medito e più comprendo che grande cosa abbia fatto il Signore, quando diede all’uomo la capacità e la scienza di usarlo: quante vite si può salvare!».
Ma il dottor Chiono non si attribuiva il merito dei suoi successi, come aveva scritto in un foglietto, conservato nel suo libro di preghiere: «Sono io che taglio, ma chi fa tutto il resto e guarisce è il Padre Eteo: che cosa potrei fare io se Egli non mi aiutasse?».
In gioventù egli aveva ostentato un certo snobismo da libero pensatore; ma durante l’esperienza etiopica ritoò con fervore alla pratica religiosa; negli anni seguenti, preghiera e meditazione furono la spina dorsale della sua vita di medico e missionario. «Credi alle mie parole – scriveva al cognato dottor Pesando -, conosco la vita, gli uomini e le cose. La mia conoscenza è stata affinata da anni di sofferenza e di solitudine, solo rallegrata dalla parola scritta dai Grandi, che sono gli unici miei amici».
Prima di ogni intervento pregava e faceva pregare assistenti e pazienti. Il rosario, soprattutto, era la preghiera preferita. In auto era sempre lui a invitare i compagni di viaggio, missionari compresi, a recitarlo, dicendo «che quello era il migliore preventivo contro il mal di schiena».
Un giorno smarrì il suo rosario; lo trovò la mattina seguente su un tavolo dell’ospedale: lo prese con un sospiro di sollievo, dicendo: «L’ho cercato fino a mezzanotte».
«Con le scarpe ai piedi»
Impegnato senza riserve per la salute altrui, il dottor Chiono non ebbe altrettanta sollecitudine per quella propria. Nel 1951 fu colpito da malaria cerebrale, che superò con un periodo di vacanze al mare di Mombasa. L’anno seguente ebbe un secondo attacco: ancora convalescente riprese il suo lavoro all’ospedale.
Era cosciente della gravità della sua situazione; ma a chi gli consigliava di tornare in Italia per rimettersi in sesto, un giorno rispose: «Vorrei morire con le scarpe ai piedi, come un soldato sul campo di battaglia: morire in sala operatoria, con il bisturi in mano». E fu così.
Il 3 luglio 1953, visitò tutti i pazienti e preparò strumenti e libri per andare a sostituire un collega nell’ospedale di Nkubu; ma durante la notte fu colpito dal terzo attacco di malaria e fu fatale. Spirò la mattina del 6 luglio, assistito dai missionari e dal vescovo mons. Carlo Cavallera, dopo aver cercato di dare un ultimo bacio al crocifisso.
Fu sepolto nel cimitero della missione e, dieci anni dopo, i suoi resti furono trasferiti all’interno stesso del suo ospedale, vicino alla cappella, ove si trovano tutt’ora. Accanto alla tomba è stato di recente inaugurato il reparto di oculistica, ad opera della Fondazione Paolo Chiono, creata dall’omonimo nipote dell’illustre medico missionario.
Ancora oggi in Kenya la sua figura è ricordata con grande venerazione, non solo per la professionalità, ma soprattutto per i valori umani e cristiani profusi a favore degli africani, come testimonia pure il suo testamento: «Ho amato i kikuyu senza misura né limite, come del resto loro sanno; e auguro loro da questo letto la elevazione e la redenzione completa e sollecita». •

Benedetto Bellesi




Dossier – All’ombra del baobab

Vivono in un piccolo villaggio, in uno dei paesi più poveri del mondo. Cercano di conoscere la gente, ma ci vuole tempo e adattamento.
Il loro piano finanziario: la provvidenza.

Siamo in piena savana africana, nel centro del Burkina Faso in Africa Occidentale. Nella lista delle Nazioni Unite circa l’indice di sviluppo umano, questo paese ha lo strano primato di essere da anni il terzultimo, dopo altri 173 paesi che in teoria «stanno meglio».
Intoo è tutto secco in questa stagione: da ottobre a inizio giugno la terra non vede una sola goccia d’acqua. L’erba è gialla; i pochi alberi riducono al minimo il metabolismo. Gli statuari e imponenti baobab, alberi magici da queste parti, perdono le minuscole foglie, in attesa delle prossime piogge.
In questa regione, non lontano dalla città di Kupela, vivono in prevalenza popolazioni di etnia mossì (maggioritaria nel paese), coltivatori, e gli onnipresenti allevatori peul. Ci avviciniamo al villaggio di Kanougou, che in lingua moore (parlata dai mossì) significa «senza mani». La gente vive in gruppi di case famigliari, fatte di fango essiccato e con tetti di paglia.
Oltre a mossì e peul, da circa un anno e mezzo a Kanougou vivono due italiani: Paolo e Caterina. Paolo Turini, «Turpa» per gli amici, capelli sempre cortissimi, forte accento toscano, corporatura robusta, è di Montevarchi (diocesi di Fiesole). Caterina, minuta, lunghi capelli neri, parlata tranquilla, è sarda di Bolotana (Nuoro).
Li incontriamo nel cortile di una famiglia del villaggio. Stanno facendo un giro di visite ai presepi realizzati dai bambini. L’Africa, e il Burkina in particolare, ha avuto un peso decisivo nella loro vita, innanzitutto perché li ha fatti incontrare.
Tutto per caso …

Alcuni anni fa, Paolo era capo scout a Montevarchi. Gli capitò di assistere alla presentazione di un missionario in Bolivia; nacque in lui l’idea di un viaggio di conoscenza. «Lo chiesi a don Gabriele Marchesi, allora responsabile diocesano per le missioni; mi spiegò che avrei dovuto seguire un corso per poi sperare di partire d’estate».
Il sacerdote disse a Paolo che cercava qualcuno per piastrellare un dispensario di una missione africana, perché la persona che doveva andare aveva rinunciato. «Non sapevo fare quel lavoro – spiega Paolo -, ma avevo un amico che mi avrebbe potuto insegnare. Feci la proposta a don Gabriele. Egli era dubbioso; voleva un esperto, ma accettò la sfida».
Paolo si fece insegnare i rudimenti del mestiere durante i fine settimana; poi riuscì a prendere un mese di aspettativa dal lavoro; nel dicembre 1994 partiva per l’Africa. Era la prima volta e proprio a Kanougou svolse il suo primo servizio.
Qui conobbe don Carlo Donati, anche lui della diocesi di Fiesole, responsabile dell’associazione «Campo di lavoro del santo Natale», che da anni segue progetti e organizza scambi con il Burkina Faso.
Tornato in Italia, Paolo decise di lasciare gli scout e investì le sue energie nella creazione del centro missionario di Montevarchi, organizzando concerti, serate, sensibilizzazioni a favore dei missionari della diocesi.
Il suo impegno crebbe e, con esso, anche la voglia di ripartire. «Da quell’anno, tutte le mie ferie sono state dedicate a viaggi di servizio in Burkina e il mio tempo libero in Italia ad attività di appoggio alla missione».
Caterina, infermiera professionale, arriva in Burkina anche lei un po’ per caso. «Lavoravo a Nuoro e mi capitò di assistere un’infermiera in pensione, che aveva lavorato due anni in Burkina Faso – racconta -. Avevo sempre avuto un desiderio nascosto di andare in Africa, ma non avevo mai avuto occasione».
Caterina insiste perché l’anziana l’accompagni in un viaggio di conoscenza e di servizio. Così, alla fine del 1996, si ritrova al dispensario di Kupela, gestito dalle suore camilliane.
Sotto la Croce del Sud
È nel centro diocesano di accoglienza di Kupela, a 140 chilometri dalla capitale Ouagadougou, che Paolo e Caterina s’incontrano per la prima volta. «Qui transitano molti volontari, legati a missionari o a diocesi italiane che collaborano con quella di Kupela – racconta Paolo -. Quella sera di dicembre, qualcuno ci disse che in questo cielo si può vedere la Croce del Sud, ma solo in certe stagioni e di mattino presto».
Un gruppo di italiani, impegnati su diversi progetti, che casualmente si trovavano al centro, decise di darsi appuntamento alle cinque del mattino, per uscire in savana a contemplare la costellazione. «Io mi svegliai – dice Paolo – andai a chiamare gli altri. Ma solo Caterina si alzò. Fu così che iniziammo a conoscerci».
Rientrati in Italia, i contatti tra Nuoro e Montevarchi si intensificano, anche per attività di animazione missionaria; ma la distanza è grande. Paolo vola a Nuoro per una testimonianza; Caterina organizza una visita a Firenze. Nel frattempo Paolo, che ha iniziato a lavorare alle ferrovie, chiede e ottiene il part time «verticale» (15 giorni di lavoro al mese), che gli permette di dedicare molto tempo libero alla «sua» Africa.
Sono fidanzati, quando alla fine del 1998, decidono di partire per due mesi e mezzo in Burkina. I missionari li destinano a missioni diverse, piuttosto lontane tra loro: «Ci vedevamo e sentivamo meno che in Italia – scherza Paolo -. Verso la fine di quel periodo, insieme, incontrammo una persona che è ancor oggi il nostro ispiratore: fratel Silvestro Pia, religioso della Sacra Famiglia, in Burkina da oltre 40 anni, deceduto nel gennaio 2003».
La guida
«Ci siamo sposati il 2 ottobre del ‘99 e abbiamo chiesto un anno di aspettativa, per sperimentare una presenza più lunga in Burkina – racconta Caterina -. Dieci giorni dopo eravamo sull’aereo».
Raggiunto fratel Silvestro a Kudougou, Paolo è impegnato nella formazione professionale, Caterina in un centro nutrizionale. Il religioso li fa riflettere sulla possibilità di dedicarsi totalmente ai burkinabé, per un impegno di lunga durata nel paese. Chiede a Paolo di continuare l’attività nell’insegnamento dei mestieri, dato che è molto abile in falegnameria, costruzioni metalliche e altre attività tecniche.
«Silvestro è stato per noi guida spirituale e punto di riferimento – spiega Paolo -. È l’unico che ci ha incoraggiati a lasciare tutto e partire. Diceva “Se voi lavorate per il Signore, troverete sempre la soluzione”. Ci ha tranquillizzati sul futuro».
Continua Caterina con un po’ di emozione: «Disse che ci avrebbe seguiti anche se fossimo andati a realizzare l’opera lontano…».
Ma l’anno di aspettativa termina in fretta; bisogna scegliere: rientrare o fare una scelta ancora più radicale. «A questo punto abbiamo capito che potevamo farcela: abbiamo deciso di licenziarci, per impostare una nostra presenza qui senza limiti temporali» racconta Caterina.
«La nostra idea – continua Paolo – è la possibilità di mettere i nostri talenti al servizio degli altri. Questo può avvenire anche in Italia; ma lì io li usavo per me, mentre qui riesco ad aiutare qualcun altro a crescere».
«Dopo tante esperienze in pochi mesi, abbiamo capito che per avere più frutti occorre seguirli da vicino» conclude Caterina.
I Lion’s e gli altri
Dopo un periodo con i camilliani a Ouagadougou, nel centro per i malati di Aids, arriva una proposta allettante: realizzare un centro di formazione professionale nella diocesi di Kupela. «Sono i Lion’s di Montevarchi a proporsi come finanziatori – spiega animatamente Paolo -. Era l’occasione che aspettavamo. Insieme a don Gabriele e al vescovo di Kupela, mons. Sérafin Ruamba, abbiamo studiato il progetto nei dettagli».
Si trasferiscono a Kanougou, villaggio già noto a Paolo, e organizzano i preliminari. Ma qualcosa nei Lion’s non funziona: «Avevamo già acquistato il terreno, quando ci fanno sapere che i principali donatori erano falliti e non ci daranno una lira». Sembra il crollo di tutto, ma i due non demordono. Si affidano alla «provvidenza», dichiarano più volte. E la loro fiducia viene premiata.
«Si può dire che è la provvidenza, perché sono molte le persone, alcune appena conosciute, che hanno reso possibile il progetto». I centri missionari di Montevarchi e Nuoro, organizzando serate e concerti, riescono a raccogliere i soldi per la cisterna; un dottore, conosciuto in Burkina, mobilita amici per pagare la perforazione di un pozzo per l’acqua potabile; una donatrice di Catania, la sorella di Paolo, ex colleghi mettono insieme oltre 16 mila euro per pagare la costruzione di due laboratori. «Pensate, una signora di Chieti vende presepi per finanziarci e noi non l’abbiamo mai incontrata!».
«E il vostro budget per il 2004?».
«È ancora “la provvidenza”, che si concretizza in due conti bancari, uno in Italia e l’altro in Burkina, dove versano vari donatori».
Vita di villaggio
Occorre del tempo per abituarsi a vivere in un villaggio della savana burkinabé; è tutt’altra cosa che vivere in città. Paolo, con la sua abilità, adatta due stanze del dispensario delle suore come abitazione essenziale. Occorre procurarsi l’acqua, che proviene da una perforazione, mentre l’elettricità è prodotta da un impianto solare, dono di un amico.
Allo stesso tempo inizia i lavori di costruzione del centro di formazione, che prevede falegnameria, saldatura e riparazione di biciclette.
Caterina si occupa di animare i giovani del villaggio, per iniziare a coinvolgerli in diverse attività, come la produzione di statuette di gesso, che saranno vendute nella capitale. «Stiamo iniziando a conoscere la gente – racconta Caterina – e non è una cosa rapida. Per esempio, riusciamo a coinvolgere un gruppo di giovani di un quartiere; ma ci accorgiamo che non chiamano quelli di altri quartieri, a causa di piccole rivalità. Quindi siamo noi che li andiamo a cercare».
I problemi sono tanti. Il clima: in aprile e maggio la temperatura supera anche i 45 grandi all’ombra. Le malattie: qui occorre proteggersi costantemente dalla malaria, parassiti e infezioni alimentari.
Ma le vere difficoltà sono altre. «Spesso, mi spiace dirlo, abbiamo avuto incomprensioni nella collaborazione con i religiosi italiani – spiega Paolo -. Altro fattore importante è la gelosia tra la gente. Dobbiamo stare attenti a non creare squilibri; occorre consultare sempre le figure di riferimento del villaggio: il capo, i responsabili culturali. E poi i tempi, che non sono i nostri e rischiamo, con le nostre programmazioni, di turbare le persone».
Il loro orizzonte temporale: «Finché c’è la salute, pensiamo ai primi dieci anni».
Gli chiediamo se si sentono laici missionari. «Eh! Missionario è una parola grossa. Siamo “amici degli africani”. Abbiamo un ideale: fede e povertà».

Marco Bello




Un unico grido: noi esistiamo

Roraima / Brasile:
campagna internazionale Nós existimos
indios, agricoltori ed emarginati della città
uniti per la vita contro la violenza e l’impunità

È la prima volta che indigeni,
agricoltori ed esclusi della città
si uniscono insieme nella solidarietà, per cercare la soluzione
ai problemi che devono affrontare…
«Presidente Lula, vogliamo aiutarti
a vincere la battaglia per il rispetto
dei diritti umani.
Facci credere che ne vale la pena…».

Silvia Zaccaria e Silvano Sabatini