DOSSIER TRANSIBERIANA (2):”Quando si stava peggio”

10 mila km di rimpianti e umori contrastanti

Vecchi e nuovi poveri, delusioni del presente e nostalgie del passato, camaleonti e profittatori di tuo, fobie e degrado ambientale… corrono lungo i binari della Transiberiana.

Afferma Evgenij Evtusenko che «per quanto brutto possa essere il presente, un ritorno al passato sarebbe peggiore». Forse non tutto è così logico in Russia. Durante il tragitto abbiamo incontrato molta più gente che rimpiangeva il kasermensozialismus (socialismo da caserma), come Karl Kautsky aveva definito l’Unione Sovietica, rispetto alla dikayasizn (vita selvaggia), cioè il capitalismo, che pure apprezzava.
E la demokratija? Una parola che viene associata a der’mokratija, dove der’mo in russo significa merda.

TRADIMENTO E RIMPIANTI
Solo a Mosca abbiamo trovato una certa disponibilità per il nuovo corso politico; ma le ferite, impresse da una liberalizzazione senza briglie, sono tuttora aperte e sanguinanti, testimoniate dalle numerose persone che tendono la mano in cerca di qualche copeco. Non solo disoccupati, barboni, ma anche lavoratori che non riescono ad arrivare a fine mese, pensionati che hanno visto i loro introiti volatilizzarsi nel giro di poche settimane.
Ciò che i russi oggi rimpiangono, non è tanto l’ideologia comunista, quanto il sistema sociale da essa creato, che permetteva a tutti di sopravvivere in un «secondo mondo» in cui non esistevano i lussi sfrenati del primo, ma neppure le miserie del terzo.
L’Unione Sovietica dissoltasi nel 1991 era oramai solo l’ombra di quella creata il 30 dicembre 1922 come figlia legittima della rivoluzione d’ottobre. I funzionari del Pcus, trasformatisi da rivoluzionari in burocrati, erano ben lontani dall’idea di incarnare l’esempio di purezza, dedizione e sobrietà lanciato da Lenin e da Trockij. Al contrario, entrare a far parte del Partito comunista era divenuto per molti l’unico modo per emergere dalla vita spartana condotta dai comuni cittadini.
È anche per questo tradimento che molti russi, rimpiangendo l’idea incarnata da Lenin, continuano a far la fila per visitare la salma mummificata nella Krasnaja Ploscad, il cui nome non rispecchia un colore politico, bensì l’antica etimologia slava, per cui krasnaja significa al tempo stesso «bello» e «rosso», perché il rosso era considerato il colore più bello.
A Perm’, 1.300 chilometri da Mosca e prima tappa del nostro viaggio, troviamo parecchie coppie di sposi che, dopo essersi scambiata fedeltà reciproca, vengono ai giardini pubblici Komsomolsky a deporre mazzi di fiori ai piedi della statua di Lenin. Un omaggio che vedremo ripetersi costantemente in tutte le soste successive.
Il pope della cattedrale Petropavlovsky, il primo edificio in mattoni della città, allarga le braccia: «Settant’anni di comunismo pesano ancora sui russi. Ci vorranno ancora due o tre generazioni affinché rinasca la fede».
Girovaghiamo per i quartieri cittadini, che ci mostrano come gli effetti della liberalizzazione, sommati al torpore economico e sociale dell’era brezneviana, abbiano sconvolto la vita dei russi. Attraverso le stradine fangose, ci inoltriamo in questo spaccato di inferno dickensiano, formato da casupole di legno i cui interni, illuminati dalla fioca luce di lampadine a bassa intensità, nascondono drammi umani e storie di emarginazione, testimoniati dalle numerose bottiglie vuote di vodka e birra abbandonate per le vie.
Per molti russi, l’alcolismo è l’unica via di fuga da una società che, nel giro di pochi mesi, ha sostituito le esaltazioni delle conquiste socialiste con i McBurger, le cucine Berloni, la Coca Cola.
Chi si è adattato più facilmente a questa nuova società, sono gli adolescenti. Ne incontriamo alcuni sulla Mockba 69, la motonave che, durante il periodo estivo, compie crociere risalendo il fiume Kama per qualche chilometro. Sono studenti delle secondarie, quasi tutti appartenenti a famiglie benestanti: «Altrimenti come farebbero a pagare libri, rette, gite, mensa e tutti gli altri servizi che prima erano gratuiti?» sentenzia una professoressa. Anziché interessarsi al paesaggio, si dimenano sul ponte dell’imbarcazione al ritmo di musiche rock.
«Che ne è dei canti patriottici e rivoluzionari?» chiedo alla stessa insegnante.
«Quasi scomparsi. Dopo l’indigestione, ci si disintossica con i nuovi gruppi rockettari russi, ma anche con i vostri Eros Ramazzotti, Adriano Celentano, Al Bano e Romina Power, che qui sono un’istituzione».
Il nuovo è meglio del vecchio? In campo musicale lascio trasparire chiaramente i miei dubbi all’educatrice, che si limita a ridere divertita.

RITORNO ALLA FALCE E MARTELLO
Ci congediamo da Perm’ dopo aver fatto provviste di cibarie al mercatino rionale situato in periferia. Qui, ogni giorno, arrivano dalle campagne circostanti decine di contadini con i loro prodotti: frutti di bosco, verdure, mele, pere, carne.
Daigo, mio figlio, ne approfitta per fare incetta di lamponi, fragole, more, mirtilli. Una babuska cerca di intrattenere una conversazione con le poche parole di inglese che conosce, incoraggiata dalle altre compagne. La vita, a quanto ci dice, non è affatto migliorata dopo il dissolvimento di molti kolchoz e sovchoz.
In parte questo peggioramento è dovuto alle rivalità personali tra le varie famiglie, ma è da attribuirsi anche, anzi soprattutto, alla mancanza di iniziativa individuale, ammazzata da decenni di decisioni calate immancabilmente dall’alto, e per la riluttanza dello stato a concedere incentivi e sussidi economici.
Così la falce, scomparsa assieme al martello dagli emblemi nazionali, è tornata nei campi al posto delle mietitrebbiatrici, dei trattori e della meccanizzazione.
È un paradosso, ma i contadini, considerati da tutti i rivoluzionari bolscevichi una classe nemica e per questo i più colpiti da carestie e purghe, si sono rivelati i più ferventi sostenitori dell’economia socialista.

CITTÀ DELLA BACCHETTA MAGICA
A Novosibirsk, che significa Nuova Siberia e della Siberia ne è la capitale, incontriamo padre Corrado Trabucchi, un francescano che nel 1991 è stato tra i primi sacerdoti stranieri a ottenere un visto per la Russia. Con lui abbandoniamo la bella e ricca parte centrale della città, per immergerci nella zona povera, che sorge «al di là» del fiume Ob.
All’improvviso è come essere catapultati in un altro mondo: casermoni fatiscenti, accanto a tuguri costruiti alla bell’e meglio; persino i giochi dei parchi pubblici sono abbandonati; il comune preferisce spendere i pochi soldi a disposizione per rispolverare le parti del centro visitate dai turisti e delegazioni commerciali che intendono investire i loro capitali nella regione.
Insomma, una copertina patinata di rivista che, sfogliandola, rivela le brutture di un sistema andato a catafascio ancora prima di nascere.
«Prima del 1991 i servizi funzionavano, a singhiozzo, ma funzionavano per tutti» dice padre Corrado; poi continua: «Ora, se non ci fossero le organizzazioni di assistenza socio-umanitaria, queste persone sarebbero totalmente abbandonate a se stesse». I francescani, assieme alle suore di Madre Teresa, hanno fondato una scuola per sopperire alle necessità educative delle famiglie più povere del quartiere.
Nell’era sovietica la città era additata come modello culturale e formativo non solo nell’Urss, ma in tutto il mondo. La celeberrima Akademgorogod, la cittadella universitaria, fucina del mondo scientifico e umanistico del paese, ora è solo l’ombra di quella che era 20-30 anni fa.
Ci aggiriamo tra le erbacce e gli edifici abbandonati, ricordando che, proprio tra queste mura, sono state ideate e progettate la perestroijka e la glasnost. Sembrava che Abel Aganbegjian e Tat’iana Zaslavskaja, i teorici del nuovo corso varato da Gorbacev, avessero trovato la zelionaja palochka, la bacchetta magica, che Lev Tolstoj cercava da bambino per donare felicità agli uomini.
Così non è stato, almeno per la stragrande maggioranza dei russi, ma per pochissimi di loro il mondo del bengodi è oggi divenuto una realtà.
Ce ne accorgiamo a Krasnojarsk, all’apparenza città anonima e poco attraente, ma che troviamo invasa da turisti giapponesi, statunitensi e russi, che dal porto fluviale si imbarcano sulle navi che risalgono lo Jeniseij fino a Dudinka, ai limiti del Circolo polare artico russo. Durante le crociere, tra un giro di valzer e l’altro, sgranocchiando tartine ricolme di caviale: i nuovi ricchi russi concludono affari da milioni di euro proprio nei luoghi dove, qualche decennio prima, Lenin e la Krupskaja, esiliati dal regime zarista, pianificavano il futuro di una Russia socialista, che sembrava ancora lontanissima da realizzare.
Assieme a Maxim Popov, primo siberiano «doc» ordinato prete dopo la rivoluzione d’ottobre, visitiamo la città. Dall’alto della collina che la sovrasta, Maxim ci indica alcuni quartieri storici: gli ultimi rimasti dopo che l’amministrazione ha svenduto intere aree, per far posto a lussuosi rioni residenziali.
Oggi anche questa ultima fetta di passato rischia di scomparire, nonostante gli abitanti delle case si siano riuniti e abbiano formato un’associazione per sensibilizzare la città di ciò che sta accadendo. «La crisi economica ha creato ben altri problemi – mi dice sconsolato Maxim -. Centinaia di famiglie rischiano di perdere il loro unico introito, dopo che il partner americano ha ritirato i propri capitali dalla joint-venture con i russi, e ora molti operai verranno licenziati dal kombinat di alluminio, l’industria più importante della zona».
La litania dei licenziamenti continua anche a Irkutsk, dove alloggiamo in un bell’appartamento che appartiene a una coppia di anziani, Valentina e Aleksandr Croitskyi: 4 ampie stanze, zeppe di ricordi e fotografie. Aleksandr era un dirigente delle ferrovie e ha viaggiato per anni per tutta l’Unione Sovietica, continuando a farlo anche dopo il pensionamento, fino a quando la rendita statale si è talmente assottigliata da «imprigionarlo» a Irkutsk.
Lo sgretolamento del sistema socialista e dell’Urss, gli ha rubato quegli unici valori su cui aveva basato la sua esistenza e da allora passa le giornate disteso sul letto, sentendo la radio e aspettando pazientemente che la morte ponga fine alle sue delusioni.

SENZA REGOLE
Da Irkutsk a Listvianka, sul lago Baikal. Lontani migliaia di chilometri dal mare, questo immenso bacino naturale, lungo 630 km, che si inabissa per 1.800 metri nel ventre della terra (il lago più profondo al mondo), è il luogo di villeggiatura preferito dai russi della regione. Peccato che è praticamente impossibile bagnarsi nelle sue acque, che non superano mai i 10 gradi, neppure nei periodi più caldi della breve estate siberiana.
Fatichiamo non poco a trattenere Daigo, che vorrebbe tuffarsi comunque, seguendo l’esempio di pochissimi temerari i quali, dopo essersi imbottiti di vodka, sfidano il gelido lago, nella speranza che si avveri la leggenda, secondo cui, chi si tuffa completamente guadagnerà 25 anni di vita. Noi preferiamo trascorrere la nostra esistenza con qualche raffreddore in meno.
Non ci fidiamo neppure di imitare Nikolai, il capitano del peschereccio che, dopo aver accettato di accompagnarci nel minuscolo villaggio di Bolshoi Koti, preleva direttamente dal Baikal un bicchiere di acqua, trangugiandolo d’un fiato.
Il lago è rinomato per la purezza delle sue acque, tra le meno inquinate al mondo, ma Marina Soboleva, ricercatrice presso la Stazione biomarina locale, non è troppo ottimista sul suo futuro: «Il Baikal ha un tasso di inquinamento inferiore alla media nazionale, ma in alcuni punti abbiamo registrato livelli in forte aumento, nonostante numerose industrie lungo le sue sponde siano state chiuse per improduttività. La Russia è un paese privo di leggi, quindi, ognuno può fare ciò che vuole senza alcun controllo. Solo lo scorso mese abbiamo scoperto una fabbrica che scaricava liquami chimici direttamente nel lago. Il proprietario ci ha assicurato che si è trattato di un errore, ma non ci facciamo illusioni: una volta terminata l’ispezione in corso riprenderà a far defluire i suoi rifiuti».
La mancanza di regole ecologiche è una grande attrazione per chiunque voglia produrre a basso costo e la regione di Irkutsk ha beneficiato di queste «leggerezze». Sergei Kuklin, capo dell’Ufficio stampa per la Russia Centrale, mi sviolina una serie di successi ottenuti dal nuovo governatore della provincia: con la produzione industriale in forte aumento e la disoccupazione in calo, il benessere sociale è in aumento.
Rispondendo alla mia obiezione sul crescente numero di persone che vorrebbero un ritorno al passato, Sergei dice: «Sono solo due tipi di persone che ricordano con nostalgia il passato regime: vecchi e poveri».
Il problema è che il miglioramento della vita per i pochi noviye bogatiye, nuovi ricchi, viene realizzato a scapito dell’ambiente. Le infrastrutture industriali ereditate dall’Urss, già poco rispettose dell’ecosistema, sono oggi una fonte di inquinamento per le foreste siberiane.
Sul treno che da Irkutsk ci porta a Khabarovsk, notiamo che almeno il 10-20% degli alberi presentano evidenti segni di bruciature da piogge acide e la deforestazione avanza a ritmo preoccupante, anche perché nelle campagne la legna è il solo combustibile disponibile per scaldare le isbe nei lunghi e freddi mesi invernali.

OCCHIO AI CINESI!
È Svetlana, ragazza di 22 anni, che ci ospita nella sua casa, a svelarci un’incredibile «verità», in base alla quale tutti i problemi che attanagliano oggi la Russia hanno una sola origine: la Cina. L’influenza cinese è chiaramente presente in questa città posta a soli 25 km dal confine. Numerosi immigrati («per la maggior parte illegali» aggiunge Svetlana), soggioano in città.
In tutti i paesi del mondo c’è una componente xenofoba e razzista, che tende a incolpare un certo gruppo etnico per qualunque cosa accada: in Italia ne fanno le spese i «marocchini», in Giappone i coreani, in Cambogia i vietnamiti. In Russia vengono generalmente presi di mira gli ebrei. A Khabarovsk, in mancanza di ebrei, si preferiscono i cinesi.
La droga? Importata dai cinesi. L’inquinamento dell’Amur? Colpa delle industrie cinesi. Le dispute territoriali ancora in atto? Provocazioni cinesi. L’alcornolismo? Se non ci fossero i cinesi a fabbricare vodka scadente rivendendola a basso prezzo…
Yuri Gubkin, 67 anni, una vita spesa nel Pcus a cercare di far carriera, oggi si è rifatto la fedina politica entrando a far parte dell’amministrazione locale: «Occorre essere chiari: dobbiamo impedire la sinizzazione dell’Estremo Oriente russo. Secondo le statistiche, fra una o due generazioni i russi saranno un’infima minoranza e la Cina pretenderà di inglobare il territorio, come ha già fatto nel 1968. Non vogliamo né essere comandati da Pechino, né ritornare sotto l’ideologia comunista».
Gubkin è la stessa persona che una quindicina di anni fa, durante la fase di distensione tra Urss e Cina, parlava di legami di amicizia indissolubili tra i due popoli.
Ha ragione Evgenij Evtusenko quando scrive che in Russia «non vinceranno né i boia imperialisti, né i conigli liberali; ma i camaleonti».
Nella stupenda e, a prima vista, cosmopolita Vladivostok la fobia dei cinesi sale al parossismo. Yulia, la responsabile del piano dell’hotel in cui alloggio, mi dice: «Qui a Vladivostok tutti odiano i cinesi; ma sappiamo troppo bene che sono loro a portare i soldi. Li odiamo, ma non possiamo fare a meno di loro, per questo può sembrarti che la città abbia un volto cosmopolita che in realtà non ha».
Da parte loro i turisti cinesi non amano i russi: «Troppo villani, maleducati, arroganti. Si capisce fin troppo bene che l’unica cosa a cui sono interessati sono i nostri soldi», afferma Nina, una guida turistica di Pechino, che sta accompagnando un gruppo di 25 connazionali.
Ma li capisco, questi russi. Dopo 7 decenni di propaganda, in cui si metteva in risalto i successi sociali ed economici raggiunti, all’improvviso si sono visti dire che erano stati raggirati e che la vera ricchezza si poteva raggiungere solo seguendo la via capitalista. E loro, da buoni sudditi, si sono riconvertiti, per ritrovarsi, però, invasi da cinesi comunisti, armati di videocamere digitali, vestiti alla moda italiana, alloggiati in alberghi di lusso da 100 dollari a notte.
«Eppure, quando eravamo comunisti anche noi, i cinesi erano i nostri fratelli poveri – commenta sconsolato Sasa, studente in medicina, che sta cercando disperatamente di avviare uno studio privato -. Li vedevo arrivare, comprare tutto ciò che potevano razziare, per poi rivenderlo al di là del confine. Mi facevano pena. Oggi quando vedo un cinese mi vergogno. Penso che siano loro a provar pena per noi. In cosa sbagliamo?».

PANTANO ECONOMICO
Non so cosa rispondere, ma mi viene in mente una frase che mi ha detto padre Myron Effings, primo prete cattolico straniero che nel 1991 ha messo piede nell’Estremo Oriente russo: «Per i russi democrazia significa far ciò che si vuole».
La dimostrazione è la forzata privatizzazione di numerose industrie adibite a servire la popolazione: anzichè migliorare i servizi, è servita a far accumulare profitti. Poco importa se l’industria del gas, svenduta dalla regione a una cordata di neoindustriali russi, abbia improvvisamente interrotto l’erogazione all’intera cittadinanza, perché il comune di Vladivostok non riusciva a pagare gli arretrati. Così in pieno inverno con temperature vicine ai trenta gradi sotto zero, due milioni di persone si sono trovati senza riscaldamento.
«La caduta del comunismo si è portata con sé anche gli ultimi residui di solidarietà umana esistenti nella società» riflette il sudcoreano Lee Jung-hoon, capitano della sezione locale dell’Esercito della Salvezza.
Ed è in questo pantano economico, di cui l’Occidente e gli Stati Uniti in particolare hanno la loro buona parte di colpe, per aver spinto una transizione troppo accelerata, senza preparare le basi su cui poggiare le fondamenta della nuova società, che la Russia sta cercando di non affondare.

Piergiorgio Pescali




DOSSIER TRANSIBERIANA (3):”Tutti in carrozza”

Vastità di orizzonti, familiarità con i viaggiatori, diversità di caratteri… le esperienze umane della traversata da occidente a oriente sono indimenticabili

L’ idea è giunta senza pensarci troppo, prendendo come pretesto il periodico rientro in Giappone di mia moglie Yasuko e nostro figlio Daigo. Così abbiamo deciso di raggiungere il Sol Levante via terra, percorrendo la Transiberiana e spezzando il tragitto in diverse tappe per non affaticare troppo Daigo.
Una volta appreso il nostro piano, amici e conoscenti hanno reagito in modi contrastanti: alcuni, scuotendo la testa, ci ponevano di fronte rischi e incognite a cui andavamo incontro, attraversando da ovest a est un paese imprevedibile come la Russia, arrivando a definirci incoscienti disgraziati nel voler infliggere una «tortura» simile a un bambino innocente. Altri, viceversa, manifestavano entusiasmo, interesse, e un pizzico di bonaria invidia verso noi tre, «coraggiosi» esploratori di mondi tanto diversi e sconosciuti.
E così eccoci qui, nella sconfinata Madre Russia: una definizione che solo chi ne percorre almeno parte del territorio può comprendere nella sua accezione più completa. Percorrere i 10 mila km della Transiberiana non comporta particolari esigenze, se non adattarsi alle lunghe percorrenze su treni che, del resto, sono piuttosto comodi e puliti.
L’intero percorso da Mosca a Vladivostok, lo abbiamo compiuto in sei tappe, fermandoci a Perm’, Novosibirsk, Krasnoyarsk, Irkutsk, Khabarovsk e Vladivostok.
La grande varietà di gente incontrata è sicuramente l’esperienza più interessante e ricca del viaggio e la presenza di bambini, anziché un handicap, si è rivelata una fonte preziosa di conoscenza reciproca.

S ul treno che da Mosca ci porta a Perm’, le famiglie che viaggiano sulla stessa nostra carrozza ci offrono cibo e bevande; molti hanno portato della vodka, ma debbono fare attenzione a non eccedere, perché la provodnik, la conduttrice, Elena Stanislavovna, ha avvertito tutti: «Chi si ubriaca, biglietto o non biglietto, scende immediatamente dal treno!».
Elena si dimostra comunque gentile, nulla a che vedere con le colleghe megere che controllano le entrate della metropolitana di Mosca, città che abbiamo lasciato più che volentieri alle nostre spalle.
Soprattutto, Elena Stanislavovna è una dipendente dello stato e come tale rispetta e fa rispettare il regolamento del Dipartimento dei Trasporti: così, ogni giorno, pulisce le cabine una volta, il corridoio tre volte, il corrimano due volte, quattro volte tira le tendine delle finestre (che noi regolarmente spostiamo per osservare il paesaggio). Infine, per la felicità di Yasuko, mia moglie, pulisce regolarmente i gabinetti.

S ul successivo convoglio che ci ospita, il treno 318 Perm’-Novosibirsk, la provodnik Anna, una ragazza sui 30 anni, magra, tutta nervi e vigore, si è subito dimostrata molto più rude e introversa della collega Elena. E se è vero che è possibile capire dalle sue conduttrici la qualità del treno su cui si viaggia, Anna ne è l’esempio più lampante: capelli biondi raccolti alla bell’e meglio attorno alla nuca, camicetta macchiata, aperta a metà, sino a lasciar intravedere il reggiseno, gonna nera male stirata.
La nostra cabina è una sorta di riflesso di Anna: lenzuola sgualcite e rattoppate, tavolino rotto, specchi scheggiati, vetri sporchi.
Quando ci presentiamo con i biglietti in mano, Anna mostra tutto il suo imbarazzo; guarda e riguarda i nostri documenti, confronta i dati con quelli segnati sui biglietti e alla fine si deve arrendere: sì, tutto in regola, siamo destinati a salire proprio sulla sua carrozza. «Di solito il treno 318 non viene assegnato agli stranieri» ci dirà poi una sua collega.
Il tempo di deporre i bagagli e Daigo è già scomparso; lo troviamo assieme a un gruppo di bambini che fanno a gara nell’offrirgli biscotti, noci, caramelle, susine, sotto lo sguardo divertito dei loro genitori.
Presto anche Anna si addolcisce: i suoi due figli, poco più grandi del nostro, viaggiano assieme a lei e al marito: Daigo diviene assiduo frequentatore del loro scompartimento.
«L’asilo del quartiere dove abitiamo a Mosca ha chiuso e il nuovo, che lo ha sostituito, è troppo caro per noi, così siamo costretti a portarci Volodia e Yulia con noi, avanti e indietro da Mosca a Ulan Ude e viceversa» mi confida, in un momento di calma, aggiungendo che il suo stipendio è comunque tra i più alti che un dipendente statale può sperare di ottenere.
Difficile non rimpiangere i tempi passati, quando si è costretti a vivere in queste condizioni.
Quando arriviamo a Novosibirsk, tutta la carrozza si raduna per salutarci, aiutandoci a portare i bagagli e regalandoci cibarie di vario genere. Anche Anna, la dura, che si è infatuata di Daichan, si lascia andare in un momento di commozione e bacia nostro figlio regalandogli un giocattolino.

A Irkutsk riesco finalmente a salire sul Rossija! Percorrere la Transiberiana senza salire almeno una volta sul leggendario treno rosso, bianco e blu (i colori della bandiera russa), equivarrebbe ad andare a Roma senza vedere il Colosseo o il Vaticano.
Rispetto ai treni presi in precedenza, questo guadagna in pulizia e cura. Inoltre Svetlana Victorovna, la provodnik, sembra già avvezza alle richieste dei turisti stranieri e si dimostra sempre disponibile a esaudirle. Non ha però dimenticato i suoi doveri e passa periodicamente a chiudere le tendine dei finestrini che, altrettanto puntualmente, noi apriamo per osservare il paesaggio.
La Siberia è ormai alle nostre spalle e ha lasciato il posto all’Estremo Oriente russo. La vicinanza del confine cinese si riflette chiaramente nelle facce dei venditori, che incontriamo nelle diverse stazioni e nei prodotti da loro offerti.
Prima di arrivare a Khabarovsk attraversiamo la Regione autonoma ebrea, creata nel 1928 da Stalin, che voleva raggiungere due scopi: dare ai giudei russi una sorta di terra promessa, in cui iniziare una nuova vita, e contrarli entro un’area ben definita, così da poterli facilmente controllare.
Oggi la maggior parte è emigrata in Israele e ciò che rimane a testimoniare la loro presenza sono i caratteri yiddish alla stazione di Birobidzhan, il capoluogo della regione.

L’ ultimo tratto ferroviario, da Khabarovsk a Vladivostok, lo percorriamo sull’Okean, il treno che percorre gli ultimi 760 chilometri di strada ferrata in dodici ore.
Ed eccoci giunti alla fine di questo viaggio lungo la Transiberiana, a 9.289 chilometri da Mosca. Ci allontaniamo osservando con molto rimpianto la magnifica stazione ferroviaria di Vladivostok, fronteggiata dalla più brutta statua di Lenin che abbiamo mai visto. •

Piergiorgio Pescali




110 anni di missione, fedeli cambiando / Asia

Asia

Fino agli estremi confini (orientali) del mondo

Profetizzata dal beato Allamano: «Io non lo vedrò, ma forse andrete nel Giappone, nella Cina, nel Tibet», l’apertura ufficiale di una missione della Consolata in Asia dovette essere attesa per qualche decennio. Fu il VII Capitolo Generale (1981) ad iniziare a coltivare il sogno asiatico dell’Istituto che vide l’approvazione definitiva sei anni più tardi, nel Capitolo del 1987. La destinazione non fu il Giappone, né tanto meno la Cina o il Tibet, ma la Corea del Sud, alla volta della quale i primi quattro missionari, tutti giovanissimi (il più “anziano” aveva solo 35 anni) e provenienti da aree culturali diverse, partirono il 18 gennaio 1988. Inutile dire che dietro l’apertura in Corea aleggiava il sogno missionario della Cina, un desiderio destinato a rimanere tale fino ad oggi a causa degli insormontabili problemi di ordine politico e burocratico.
L’avventura asiatica rappresentava per l’Istituto una nuova frontiera missionaria dopo quella africana (a partire dal 1902, in Kenya) e, dal dopoguerra, latinoamericana. Come le due precedenti esperienze anche questa in Estremo Oriente era caratterizzata da alcuni tratti distintivi che individuavano l’originalità della nuova missione. Innanzitutto la dimensione di dialogo e di incontro. Avvicinarsi al mondo culturale asiatico significava farsi prossimi di tradizioni religiose molto più antiche della nostra e, quindi, da trattare con assoluto rispetto e con profondo atteggiamento di ascolto. In Corea si è voluto seguire questo stile di missione, dedicando anni di studio alla difficile (per noi) lingua e alla cultura del posto, un periodo di ambientamento che ha messo a dura prova la pazienza e la resistenza di molti missionari che hanno seguito negli anni le orme dei primi quattro pionieri.
A partire dal 2003, la nostra presenza in Asia si è impreziosita e completata con l’apertura della missione in Mongolia, pensata e concretizzata in collaborazione con le missionarie della Consolata. L’opzione di andare in un paese grande cinque volte l’Italia e con una popolazione complessiva di circa tre milioni di abitanti (di cui poco meno di un terzo vivono nella capitale Ulaan Baatar), a grande maggioranza buddista, va esattamente nella stessa direzione della precedente esperienza coreana.
Ciò che l’Asia grida a gran voce oggi all’Istituto è un qualcosa che appartiene al nostro Dna, ma che sovente tendiamo a dimenticare: noi siamo per i non cristiani. Così ci ha voluti il fondatore, ma così deve essere in ogni caso chiunque si professa missionario ad gentes. Attraverso la loro esperienza quotidiana, fatta spesso di testimonianza isolata e silenziosa, i nostri missionari ci richiamano all’essenza della nostra vocazione.
Vivere la novità
Ciò ha fatto sì che oggi in Asia si punti a proporre uno stile differente di missione, che non sia centrata soprattutto sulle opere, quanto sull’incontro con le persone. È la gente, soprattutto i poveri, con la sua quotidianità e le sue esigenze, a dare il passo e il tempo della nostra presenza là. Più che le strutture vengono favoriti i momenti di incontro, accoglienza e scambio vicendevole di doni culturali. L’ospitalità e l’ascolto diventano allora le parole chiave di una missione che vuole essere nuova.
Inutile dire che questo stile di evangelizzazione fondato su ciò che è piccolo e fragile, come può esserlo il nostro esporci al dialogo con l’altro, richiama anche un altro punto fondante del nostro carisma: la santità di vita. La missione in Asia passa oggi attraverso la scelta di una spiritualità forte come via preferenziale della missione, nell’essere, in altri termini, dei veri contemplativi in azione.
Dietro l’angolo il sogno cinese continua a fare capolino. Sono i nostri stessi confratelli impegnati in Asia a invitare con fermezza l’Istituto a fare una scelta radicale per il continente dove più numerosi sono i non-cristiani. La Cina, col suo miliardo e mezzo di abitanti rappresenta una frontiera che non può non essere presa in considerazione. Il Capitolo dovrà quindi avere tanto coraggio e anche molto equilibrio nel valutare le possibilità che il nostro Istituto ha di lanciarsi in una nuova missione di questo calibro. A prima vista, in un’analisi della realtà basata rigidamente su calcoli di natura umana, molto consiglierebbe di lasciare perdere. Bisogna però lasciare che lo Spirito soffi, è lui che da sempre spinge i missionari ad andare a dissotterrare tesori che lui stesso ha precedentemente seminato nel cuore delle culture. E allora, con la preghiera si vedrà!

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Matassa imbrogliata

Perché ebrei e palestinesi si scannano a vicenda senza alcuna pietà?
Perché, mentre si uccide e massacra, s’invoca il nome di Dio? Quale Dio?
È una guerra di religione, talmente sporca, che il fango raggiunge anche la soglia del cielo? Gli stessi contendenti fanno fatica a venie a capo.

di Paolo Farinella*

Ho vissuto quattro interi anni (1998-2002) a Gerusalemme est, tra il villaggio di Betfage e Abu-Dis, dove ora passa parte del muro dell’ignominia, che come un serpente sguscia sulla terra di Palestina per dividere ancora di più popoli e terra. Nel progetto israeliano, Abu-Dis dovrebbe diventare la capitale palestinese col nome di Gerusalemme, in arabo Al-Qudsh (La Santa).
Nel natale 2002 sono rientrato in Italia. Le notizie passate da tutti i tg erano costruite per dare una disinformazione totale della «reale» realtà. Sintetizzando, si aveva questo schema: «Terrorista palestinese si fa saltare in un bar (autobus o strada), facendo strage di innocenti israeliani». Senza alcuna riflessione di analisi, il messaggio immediato era: i palestinesi sono terroristi, gli israeliani innocenti.
Le dichiarazioni dei politici erano l’abisso nell’abisso: ognuno rifletteva la propria ideologia e nessuno cercava di capire ragioni e verità. Nulla importava delle stragi o distruzioni, scatenate dall’inferno nella terra che ci ostiniamo a chiamare «santa»; erano dichiarazioni di schieramento per interessi interni, rafforzare alleanze estee o, peggio, per interessi osceni di bottega partitica.
La situazione in Palestina, oggi, è aggravata dalle conseguenze degli ultimi sei anni di distruzione e odio. Ma non se ne parla più, salvo quando scoppia qualche nuovo kamikaze. Punto e a capo.
Seduti sulle macerie della Cisgiordania e in cima al terrore che abita le anime degli israeliani, oggi possiamo riflettere più pacatamente, guardare oltre le apparenze, cercare di capire ragioni e speranze e tendere, se c’è, a una soluzione che inglobi diritto e pacificazione.
Davanti agli occhi di tutti resta la realtà: dopo 4 anni di occupazione israeliana e 2 anni in cui giovani palestinesi sono indotti alla morte con l’inganno «religioso» del paradiso, dopo una teoria infinita di morti, giovani morti, speranza e futuro dell’una e dell’altra parte, dopo la sbornia di sangue e vendetta, la follia arabo-israeliana è al punto di partenza. Nessun problema è risolto; quelli precedenti sono tutti aggravati: l’economia è distrutta; l’odio è alimentato fino a settanta volte sette.
Perché? Proviamo a scorrere i passaggi storici recenti e lontani, senza i quali non si può capire la ragione del conflitto.

CONTESTO PROSSIMO

Giovedì 28 settembre 2000. Il premier d’Israele, Ehud Barak, autorizza la scorta militare di 1.000 (sic!) soldati ad Ariel Sharon, allora semplice deputato del partito conservatore Likud, per visitare la spianata delle moschee, amministrata dall’autorità musulmana con proprio servizio d’ordine. La spianata sta immediatamente sopra il muro occidentale del tempio (volgarmente detto muro del pianto).
La visita di Sharon è una provocazione, perché intende affermare che non esiste in Palestina alcun territorio, per quanto sacro, su cui Israele non possa vantare un diritto di presenza e possesso. In base al principio giuridico israeliano dell’eretz Israel (terra d’Israele), nessuno è proprietario della terra, una e indivisa, perché Dio l’ha data al popolo d’Israele, non ai singoli individui. Per cui tutti in Israele sono provvisori, tranne «il popolo eletto».
Venerdì 29 settembre 2000, giorno di preghiera per i musulmani. Mentre una fiumana di arabi, uomini, donne e bambini invadono i vicoli di Gerusalemme vecchia per andare alla moschea di Omar, l’esercito israeliano, su direttiva del governo, invade la spianata con la scusa di prevenire il disordine.
Per i musulmani è l’ultima goccia che fa traboccare ogni limite di pazienza: alcuni giovani si affacciano sul muro sottostante e cominciano a lanciare sassi sugli ebrei che stanno pregando e contro i militari e jeep che presidiano la spianata. È la scintilla della seconda intifada (rivolta).
A sera giacciono a terra 100 palestinesi morti, compresi 30 bambini, e più di 200 feriti. Quanti siamo a Gerusalemme capiamo che è stata lanciata una dichiarazione di guerra. Celebriamo l’eucaristia perché ad Abramo sia risparmiata la seconda prova: vedere scannarsi tra loro i suoi stessi figli.

CONTESTO REMOTO

64 a.C.-313 d.C. la Giudea è dominata dall’impero romano. Scoppiano due rivolte: la prima si conclude con la repressione e distruzione di Gerusalemme e del tempio; la seconda (131-135), guidata da Simon Bar Kokba (Figlio della stella, da alcuni ritenuto messia), sfocia in un bagno di sangue: il territorio è ribattezzato Syria Palaestina, Gerusalemme diventa Aelia Capitolina; sulle rovine del tempio viene eretta la statua di Giove, sul Golgota il tempio di Venere. La profanazione è totale. Agli ebrei è proibito risiedere in Gerusalemme e Giudea: inizia la «diaspora», la dispersione senza fine dei figli d’Israele.
Dal 638, dopo la conquista araba di tutto il Medio Oriente, tranne brevi parentesi durante le crociate, Gerusalemme e Palestina restano sotto dominio o influsso arabo. I piccoli gruppi di ebrei rimasti in Palestina vivono frateamente con la maggioranza araba e musulmana, spesso negli stessi villaggi, condividendo le stesse paure e speranze. Dopo un secolo di dominazione araba, molti ebrei (e cristiani) diventano liberamente musulmani. Solo pochi restano fedeli alle loro origini.
Dal 1517 al 1918 la Palestina è governata dai mamelucchi (turchi), che la dividono in distretti amministrati da palestinesi. Alle comunità ebree e cristiane è concessa notevole autonomia.
Nel xix secolo, interessi economici, strategici, espansionistici, portano sulla scena mediorientale le potenze europee, che stimolano uno sviluppo economico e sociale affrettato e non ancora compatibile con la mentalità feudale orientale. È la prima e più grave violenza che gli occidentali operano in Palestina.
Nel 1917-1918 gli inglesi sottraggono la Palestina ai turchi ottomani, giocando sporco su tre tavoli: siglano un patto di spartizione con Francia e Russia (1916); promettono l’indipendenza agli arabi e un «focolare» agli ebrei (1917), ma senza dire agli uni le promesse fatte agli altri. Sono le premesse di tutte le guerre future.
Nel 1922 le Nazioni Unite conferiscono agli inglesi il protettorato sulla Palestina. Gli arabi definiscono il 1922 «anno della catastrofe».
Dal 1936 al 1939, dalla Germania nazionalsocialista molti ebrei riprendono la strada verso la Palestina: circa 165 mila riescono nell’impresa. Ne erano già arrivati 35 mila dalla Russia, 60 mila dalla Polonia.
Questi arrivi massicci scatenano una serie di rivolte tra ebrei immigrati e palestinesi residenti. La tensione diventa insostenibile dopo il 1945: l’afflusso di scampati dalla shoah aumenta in modo incontrollabile, anche illegalmente; la situazione diventa così ingovernabile che la Gran Bretagna rinuncia unilateralmente al suo mandato e delega il problema all’Onu (aprile 1947), lasciando nell’olio bollente sia ebrei (senza focolare) che arabi, ai quali aveva promesso che mai avrebbe concesso un focolare agli ebrei.
Luglio 1947. La sgangherata nave americana President Warfield, ribattezzata Exodus, tenta di introdurre in Israele 24 mila ebrei scappati dalla furia nazista. Giunta nel porto di Haifa, gli inglesi la prendono a cannonate. La nave ritorna ad Amburgo; tutti gli ebrei sono inteati nei campi di concentramento.
30 novembre 1947: l’assemblea generale delle Nazioni Unite approva con 33 voti favorevoli, 13 contrari e 10 astensioni il piano per la spartizione della Palestina. Il punto 3 della risoluzione parla di due «stati indipendenti, arabo ed ebraico», con confini definiti dall’Onu.
1948. La proposta dell’Onu dei due stati è rifiutata dagli arabi, ma accolta dagli ebrei, che si affrettano a occupare non solo la zona loro assegnata, ma anche ampie aree che avrebbero dovuto costituire lo stato arabo. Interi villaggi sono occupati con i carri armati, altri rasi al suolo, la gente espulsa, con questa giustificazione: «quel» villaggio appartiene agli ebrei per diritto divino e gli arabi sono occupanti illegali.
14 maggio 1948: gli ebrei proclamano unilateralmente la nascita dello stato d’Israele, scatenando la reazione degli stati arabi. È la prima guerra, conclusa con la vittoria degli israeliani, che occupano quasi tutto il territorio destinato ai palestinesi, eccetto Cisgiordania e Gerusalemme est, in mano alla Giordania, e striscia di Gaza, occupata dall’Egitto.
Oltre 780 mila palestinesi esulano nei paesi vicini, dove mantengono la propria identità nazionale e il desiderio di tornare in patria, anche perché i paesi che li ospitano negano loro ogni diritto civile. I profughi vivono in campi disumani da allora fino a oggi: solo in Giordania ce ne sono 3 milioni e mezzo.
Nel 1964 i movimenti nazionalistici palestinesi, nati in esilio, danno vita all’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) sotto il comando di Yasser Arafat. Inizia un periodo di terrorismo strisciante sia da parte dell’Olp che da quella israeliana: gli uni e gli altri credono ancora di potere espellere l’altro con la forza e strategia del terrore. I morti non si contano.
Nel 1967 scoppia la guerra dei «6 giorni»: Israele sconfigge la coalizione degli stati arabi e occupa anche Cisgiordania, Gaza e penisola del Sinai: Israele controlla l’intero territorio della Palestina.
Nel 1973, approfittando della festa ebraica dello yom kippur (giorno del perdono), Siria e Egitto attaccano Israele, distruggendo parte dell’aviazione e rioccupando simbolici scampoli di terra, quanto basta per rialzare l’orgoglio ferito degli arabi. La reazione d’Israele e internazionale è furibonda, isolando ancora più gli stati confinanti con Israele.
Nel settembre del 1993, dopo decenni di reciproco terrore, Yasser Arafat e Yitzhak Rabin, premier israeliano, firmano negli Usa la dichiarazione già concordata a Oslo (Patto di Oslo), che stabilisce tempi e modi per il raggiungimento dell’autonomia palestinese nei territori occupati da Israele, a cominciare da Gaza e Gerico, fino al raggiungimento di uno status definitivo dei territori. L’autorità palestinese inizia ad amministrare questi territori nel maggio del 1994.
Nel 1995 un fanatico israeliano assassina Rabin mentre spiega al suo popolo, in un raduno di massa, la necessità della pace con gli arabi.
Sale al potere il Likud, partito di destra capeggiato da Benjamin Netanyahu, che di fatto rinnega gli accordi di Oslo e dà il via alla rioccupazione dei territori attraverso gli insediamenti, protetti dall’esercito.
Frustrate definitivamente attese e speranze, riprende l’attività armata delle organizzazioni palestinesi, già contrarie all’accordo sottoscritto da Arafat. Sono le stesse che non vogliono alcuna pace con Israele, ma che gli stessi israeliani hanno usato per contrastare la politica di Arafat.
Ora esse si ritrovano agguerrite e armate non solo di armi, ma anche di giovani kamikaze, votati alla morte, dopo una formazione di spersonalizzazione, basata su elementi religiosi, sentimenti nazionalisti e impulso di eroismo negativo.
Siamo ai giorni nostri, figli di questa lunga storia e padri della storia futura, che resta avvolta nella nebbia della vendetta e dell’odio. Ora esiste una sola alternativa: o la guerra finale o la pace definitiva. Si spera nella seconda, la più difficile: esige coraggio e uomini di governo che sappiano vedere con lungimiranza i sogni futuri dei propri figli. Ma i padri di oggi sono ciechi e sordi: non possono «vedere» il futuro, perché non sanno leggere nemmeno il loro passato.

DIRITTO E GIUSTIZIA

Amo il popolo ebraico perché le mie radici sono ebraiche: Gesù, la Madonna, gli apostoli, i primi cristiani sono tutti ebrei. Amo il popolo palestinese, perché gli antenati di Gesù, sua madre, apostoli e primi cristiani non possono essere che palestinesi, i quali non hanno mai abbandonato quelle terre.
Non sono filo-palestinese professionista, né filo-israeliano per opportunità; né antisemita solo perché critico la politica di alcuni governi israeliani. Sono solo un uomo del mio tempo, che ha avuto la tragica gioia di vivere per 4 anni dentro questo conflitto, che gli ha lacerato l’anima, fino allo spasimo. Non ho posizioni da difendere, né una tesi precostituita, ma solo un desiderio di coerenza nella verità, che vorrei solo capire almeno in parte. Qual è la verità da ristabilire tra ebrei e palestinesi?
Gli ebrei sono espulsi dai romani; i palestinesi non hanno colpa se da sempre abitano la Palestina, che è e resta per sempre la loro madre terra. Israele aveva diritto a ritornare in Israele: diritto sancito al massimo livello internazionale (Onu).
Ma dal 1948 Israele ha preteso tutto senza ragionevolezza, senso della misura e della storia. Lo stesso Ben Gurion, inizialmente, non vuole occupare la Cisgiordania, ma intende stabilire il nuovo stato nel disabitato deserto del Neghev, per trasformarlo in un giardino, come aveva profetizzato Isaia (32,15; 51,3). Vincono i falchi e la colomba si adatta.
Oggi si fronteggiano due popoli in lotta per la stessa terra e ciascuno la vuole tutta per sé; tutti e due portano le medesime giustificazioni: il diritto naturale.
I palestinesi in esilio inventano il nuovo rito della chiave: dal 1948 a oggi, ogni padre che muore lascia in eredità al figlio primogenito la chiave della propria casa espropriata in Palestina e che non esiste più. Quella chiave che passa di generazione in generazione è il silenzioso rituale di un diritto che prima o poi dovrà essere riconosciuto, almeno simbolicamente. Tutti gli esuli hanno diritto alla loro aliàh (ritorno), come gli ebrei, e stare nella terra dove sono nati, che da sempre hanno lavorato e custodito, anche per gli ebrei che oggi vi abitano.
La pace è una parola vuota di significato, slogan per pacifisti di professione, senza il suo fondamento, che sono il diritto e la giustizia (Is 32,17; Sal 35,27), il riconoscimento dell’altro come soggetto giuridico, nello stesso modo e forme che ciascuno, come Israele, pretende per sé.

GERUSALEMME E’ LA QUESTIONE

In tutti questi anni, a mano a mano che la situazione va incancrenendo in uno statu quo da inferno, le motivazioni politiche e sociali si sintetizzano in forme simboliche, che trovano nella religione il collante emotivo e viscerale di comodo.
La questione dei due stati si trasforma nel problema di Gerusalemme. Nome evocativo, emotivo, che scuote le viscere di chiunque la conosce: «Se ti dimenticassi, Gerusalemme, si paralizzi la mia destra; s’attacchi al palato la mia lingua, se non mi ricordassi di te; se non ponessi Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia» (Sal 137,5-6).
L’atto fondativo ebraico sancisce che Gerusalemme è la capitale una e indivisa dello stato d’Israele. Per i palestinesi è la capitale religiosa e politica, una e indivisa del futuro stato palestinese. Gerusalemme diventa «la» questione: non tutta, ma solo la città vecchia, che a stento raggiunge il mezzo chilometro quadrato.
Gli ebrei rivendicano il diritto di erigere il terzo tempio dove sorgeva il secondo, quello dell’epoca di Gesù, costruito da Erode. Ma per far questo bisogna distruggere la moschea di Al-Aqsa e di Omar (o Cupola della Roccia), da cui, secondo la tradizione araba, Maometto è stato rapito al cielo e su cui, secondo la tradizione ebraica, Isacco stava per essere sacrificato dal padre Abramo.
Gli ebrei hanno già pronto tutto il necessario: abiti sacerdotali, suppellettili sacre per i sacrifici, menorah (candelabro a 7 bracci), le stesse pietre, squadrate e numerate…
Gli arabi temono che gli ebrei facciano crollare la moschea (magari con un terremoto pilotato) e operino il colpo di mano. Sotto la moschea vi è il muro occidentale (ciò che resta del tempio di Erode), dove gli ebrei svolgono le funzioni religiose più significative.
Sia gli uni che gli altri si appellano a Dio, che invocano come garante del loro odio e propositi omicidi. Si odiano in nome di Dio. La vendetta che procede con sviluppo esponenziale: un torto si lava con due torti, una morte con due morti; per rispondere adeguatamente, torti e morti diventano quattro… e così via. Senza fine.
I figli sono concepiti nell’odio del nemico, cresciuti ed educati nelle scuole a odiare l’arabo o l’israeliano; gli stessi giochi sono improntati a questa pedagogia di distruzione. Vi sono straordinarie eccezioni, che restano solo segni di possibilità.
In Gerusalemme tutto è separato: la città nuova è solo israeliana e gli arabi non possono accedervi; la città vecchia è abitata da musulmani, cristiani, armeni ed ebrei, ma ognuno nel suo quartiere; la zona araba, sotto amministrazione israeliana, è priva di ogni servizio: ognuno si arrangia come può, senza regole, tranne le leggi militari.
L’ordine è mantenuto dalla polizia militarizzata; le angherie sono all’ordine del giorno, secondo l’umore del singolo soldato di tuo. Quante volte ho assistito alla atroce scena di vedere strappare permessi di lavoro o documenti personali ai palestinesi: per riaverli bisogna rivolgersi alla mafia, sborsare tanti soldi e sprecare molto tempo.
Da una parte Israele si ghettizza da solo in una morsa di paura e fragilità; dall’altra i palestinesi sono incapaci di organizzarsi e tendere ad essere nazione. Bruciano la bandiera israeliana, ma trafficano la moneta israeliana; contestano l’America, mentre vestono jeans e scarpe Nike.
L’unico collante che unisce i palestinesi è il sentimento religioso musulmano, viscerale ed emotivo, non il senso dello stato, che non hanno mai avuto, tanto meno il desiderio di avee uno proprio. Il giorno in cui sarà costituito il loro stato, i palestinesi che potranno scapperanno sotto il dominio israeliano, preferendo essere gli ultimi tra i primi (economicamente) che i primi tra gli ultimi.
Israele si è spesso servito delle organizzazioni terroristiche (Hamas, Jihad, Erzbollah) per contrapporle ad Arafat, fomentando la divisione tra palestinesi. Li ha armati, pagati, diffuso droga per dominare i giovani; oggi gli si sollevano contro e diventano nemici da distruggere, perché portatori di terrore.
A Israele le armi vengono foite dall’America che qui sperimenta armamenti nuovi; ai palestinesi e gruppi estremisti (e anche a Israele) sono vendute dai paesi europei (Italia compresa), Egitto, Siria… La strada che salva la coscienza amorale è la solita: le si vendono a uno, che le rivende a un terzo, questi a un quarto… finché arrivano a destinazione.
cristiani nel mirino
Da nessuna parte ho sentito, non dico la condanna, ma almeno la segnalazione, la notizia che Israele tra il 2001 e il 2002 ha sradicato più di 500 mila alberi da frutti, uliveti e bananeti compresi, di proprietà palestinese. Fa parte di una strategia che, insieme alla distruzione delle case, vuole distruggere non solo il presente, ma anche il futuro. In Oriente un albero da frutto spesso è il solo patrimonio di una famiglia: un ulivo la mantiene per generazioni.
In tale distruzione gli israeliani hanno preso di mira i cristiani. Con la scusa che dentro le loro case si nascondono terroristi, abbattono le loro abitazioni prima ancora di quelle dei musulmani, per costringerli ad abbandonare la Palestina.
Temono che i cristiani, per la risonanza mondiale che hanno, come ha dimostrato l’occupazione della basilica della Natività a Betlemme, possono essere quella coscienza critica che Israele teme più di ogni altra cosa. Non vuole testimoni.

FIGLI MOSTRI E VIOLENZA CIECA

La caratteristica nefasta della seconda intifada è la comparsa di kamikaze: suicidi per uccidere indiscriminatamente più israeliani possibile. Non è più guerra tra eserciti, ma genocidio di disperati. Sparare nel mucchio non è solo immorale, ma un crimine contro l’umanità.
I capi dei gruppi estremisti, atei di fatto, ma religiosi di facciata, strumentalizzano il nome di Dio per manipolare e indurre ignari ragazzi a compiere suicidi-omicidi in suo nome, sapendo di compiere un’aberrazione davanti a Dio. I capi che li alimentano, fomentano e armano, ne dovranno rispondere al tribunale della storia e di Dio.
La maggior parte di questi giovani sono manovrabili, fragili psicologicamente, provenienti da famiglie a cui Israele ha tolto tutto, anche la speranza del domani. Prima di essere esplosivi viventi, sono bombe cariche di odio, che vince anche l’istinto della sopravvivenza.
Ogni famiglia di kamikaze riceve un indennizzo di dollari con cui può vivere per molto tempo. Figli mandati ad ammazzare altri figli. Chi uccide i suoi stessi figli, ha già ucciso il proprio popolo; il futuro uccide il futuro, prima ancora che nasca.
Eppure questi scellerati, accecati da odio e vendetta, non sono nati all’improvviso, ma sono il frutto di uno stupro costante e continuativo sulla popolazione palestinese: condizione di apartheid in cui vive la quasi totalità dei villaggi, campi profughi ancora esistenti dal 1948, sistematico impedimento alla circolazione di persone e beni, impossibilità di potersi ricongiungere con familiari separati da fili spinati e muraglie, innalzate anche all’interno dello stesso villaggio, odissea quotidiana della ricerca di un lavoro con ore di attesa ai check-point (quando si riesce a passare), inesistenza di assistenza medica, terrore di non potere nemmeno andare in ospedale per partorire, impossibilità di frequentare le migliori università del paese, umiliazione quotidiana della propria dignità, rifiuto sprezzante d’Israele di osservare anche una sola risoluzione dell’Onu, violazione di ogni diritto, anche elementare, consapevolezza di essere e sentirsi abbandonati da tutti, corruzione tra i governanti palestinesi, che succhia sangue su sangue, addossando sulle spalle dei poveri sempre più tasse per ogni nonnulla… questo e altro ancora hanno lentamente preparato la nascita e la crescita dei kamikaze che credono di spendere in anticipo il loro futuro per anticipare la fine di un inferno senza nome e senza fine.
Chi non ha mai visitato un villaggio arabo sotto dominazione israeliana non può rendersi conto né capire. Non giustifico minimamente l’orrore dei kamikaze; ma dico che essi sono figli-mostri, generati dalla violenza di stato che Israele consapevolmente e strategicamente ha messo in atto in questi anni, con la mal celata speranza di espellere tutti i non ebrei dalla Palestina.
Utopia? Semplicemente miopia! La vendetta chiama vendetta; violenza semina e miete violenza, in un circolo fatale senza scampo né soluzioni. I kamikaze sono la risposta disumana agli attacchi dell’aviazione israeliana, omicidi mirati o distruzione dissennata e indiscriminata di case e popolazione palestinesi.
È un’esercitazione teorica senza senso domandarsi chi ha cominciato prima: violenza di stato e violenza dei kamikaze sono figlie gemelle della volontà di non volere trovare una soluzione che preveda due stati e una capitale.
I palestinesi hanno diritto ad avere uno stato proprio con confini certi e continui, dentro i quali possono organizzarsi o distruggersi come loro aggrada, nel rispetto totale della loro autonomia. Israele ha diritto a vivere nella terra da cui fu scacciato duemila anni fa, ma convivendo alla pari con gli altri stati, condividendo con essi le risorse primarie, specialmente l’acqua, che è la condizione essenziale di vita.
Anche il problema delle sorgenti è una delle cause della guerra infinita: possederle significa avere la chiave del giardino dell’Eden e Israele non vuole dividerle con alcuno.

IL FUTURO NELLE MANI DI DIO

Quale futuro per Israele? Quale futuro per i palestinesi? Da un punto di vista umano, non si vede alcun futuro; da quello religioso, sembra che Dio abbia abbandonato i due popoli alla loro pazzia distruttiva.
Gerusalemme oggi è la città che vede morire i suoi figli e non sa cosa fare. In Israele il 10% della gioventù è suicida perché abitata dall’insicurezza interiore e paura. Non si può vivere una vita nella dimensione della guerra e del nemico, andando sempre e ovunque armati. Si finisce per distruggere se stessi.
Per la prima volta in Israele nasce il problema dell’obiezione di coscienza. In due anni, almeno 500 militari si sono rifiutati di combattere nei territori, ritenendo immorali gli ordini ricevuti. Alcuni soldati sono stati giudicati dalla corte marziale e puniti; la frana è inarrestabile.
Dopo che sarà finita la guerra con i palestinesi, Israele dovrà fare i conti con una guerra civile: deve scegliere se essere uno stato teocratico, governato dalla Torah di Mosè, per cui si battono i religiosi ortodossi e i fondamentalisti, o uno stato laico. Le due anime si fronteggiano già, ma quel giorno sarà una guerra all’ultimo sangue.
I palestinesi hanno tre livelli: quelli che vivono nell’indotto israeliano e vorrebbero essere israeliani, anche di seconda e terza categoria, per i benefici economici che possono avee; quelli che gravitano su Israele per il lavoro: non saranno mai cittadini con documento israeliano, ma accetteranno di essere i paria dei ricchi, pur di avere un minimo di vita occidentale. Infine i palestinesi sotto l’autorità di Arafat: questi sono i veri poveri, coloro che nessuno difende, che saranno sacrificati sempre, sotto Israele e sotto Arafat, che vivono da sempre nei campi profughi, che gli stessi arabi rifiutano. In uno stato palestinese autonomo saranno i dannati del nuovo inferno, sfruttati da una amministrazione corrotta e senza speranza.

LA PACE PASSA PER GERUSALEMME

Quale futuro? Uno solo: che ebrei e musulmani si convertano veramente a quel Dio in cui dicono di credere, che partano sul serio dalle loro sacre scritture, prendano atto dell’esistenza dell’altro, rinuncino alla pretesa impossibile e irrazionale di riuscire a espellerlo dalla terra di Palestina, che è la terra non di questo o di quello, ma la terra di Dio.
Non penso che questa generazione perversa vedrà la pace e nemmeno la prossima. In oltre 50 anni si è accumulato tanto odio da fare scoppiare settanta volte sette non solo l’intera regione, ma il mondo intero: poiché la pace nel mondo passa attraverso la pace tra le mura di Gerusalemme.
Tutto questo odio non può esaurirsi in una dichiarazione d’intenti. Bisogna ristabilire il diritto negato: Israele deve riconoscere, almeno a un gruppetto simbolico di esuli, il diritto di ritornare alla terra e alle case da cui furono strappati; agli altri, esuli figli di esuli, riconoscere un indennizzo economico adeguato, di cui potrebbe farsi carico, in parte, la comunità internazionale.
Bisogna che Israele ricostruisca i villaggi distrutti e ripristini gli alberi sradicati; abbatta il muro della vergogna, con cui sta violentando ancora una volta la carne viva della terra di Palestina, terra a vocazione mondiale. La storia non insegna proprio nulla, se, appena caduto un muro, se ne costruisce un altro, per dividere due popoli che storia e religione condannano a vivere insieme.
Bisogna ricominciare dalla scuola: costruire classi miste di ebrei e musulmani (e cristiani), farli studiare sugli stessi libri, crescere insieme, aprendoli alla conoscenza vera della storia, cultura e religione dell’altro.
Durante la sua visita, il papa compì un gesto altamente simbolico: a Gerusalemme piantò un albero di ulivo, innaffiato da tre caraffe portate da tre bambini, un ebreo, un arabo e un cristiano. Acqua ebraica, acqua araba e acqua cristiana mescolate insieme, per fare crescere un solo ulivo, simbolo della nuova Palestina.
In questo nuovo contesto, Gerusalemme, capitale d’Israele, capitale dei palestinesi, capitale cristiana, sarebbe governata con uno statuto speciale da una commissione mista di garanzia, perché è la città di Dio e per questo a vocazione universale, aperta a quanti vogliono adorare Iddio in spirito e verità (Gv 4,23).
«Possa tu, Gerusalemme, vedere i figli dei tuoi figli. Pace su Israele!» (Sal 128,6). Pace sulla Palestina! «Sia pace fra le tue mura, Gerusalemme» (Sal 122,7), sgabello della gloria di Dio. •

Paolo Farinella




Il muro della vergogna

Studente palestinese, 23 anni, fisico prestante, Ibrahim ogni giorno scavalca il muro per frequentare la facoltà di ingegneria edile all’Al Quds University di Gerusalemme. È una fatica più mentale che fisica: una rapida occhiata per assicurarsi che non ci siano pattuglie di soldati israeliani, un salto e si trova a un metro dall’entrata dell’università.
Potrebbe passare dal check point; ma bisogna fare code estenuanti, sotto il sole che picchia duro; a volte i soldati hanno ordini di non far passare nessuno; poi, è troppo umiliante ripetere ogni giorno il perché e il percome si voglia raggiungere quella che un tempo era la propria terra.
In questo luogo il muro di separazione tra Israele e i Territori occupati è alto poco più di due metri e corre all’interno di Gerusalemme, isolando il quartiere di Abu-Dis, dove si trova l’Al Quds Jerusalem University, una delle più importanti della Palestina.
Essa conta 6 mila studenti, molti dei quali provenienti da varie nazioni. Fu fondata nel 1984 e terminata nel 1994, periodo nel quale il processo di pace allora in corso portò a notevoli progressi sociali, soprattutto in Palestina, vogliosa di lasciarsi alle spalle decenni di battaglie e lutti.
Campus all’americana, con ampi spazi e vialetti alberati, grandi aule accoglienti, biblioteca con migliaia di volumi e buona tecnologia informatica, l’università offre corsi di laurea in scienze, medicina, legge e ingegneria. Qui si sta formando la futura classe dirigente palestinese.
Si dice che la cultura è un mezzo per avvicinare i popoli e smussare divergenze. Tutto vero, ma tutto inutile, se, per avere una cultura, devi scavalcare una barriera di cemento: ogni salto è una goccia di odio che si aggiunge.

S i rimane interdetti nel vedere docenti universitari affannarsi in gesti ginnici ormai non consoni a persone di cinquanta, sessant’anni. Ma la vita dei palestinesi, donne, bambini, vecchi, giovani, ha dovuto affrontare l’imposizione di una barriera e si è adeguata. Cassette di frutta, agnelli squartati, vestiti, mercanzia varia, anche essi «saltano».
Si assiste a scene grottesche e incomprensibili, come soldati israeliani che, ai piedi del muro, aspettano anziane donne nerovestite, che arrancano nel tentativo di scavalcare, muovendosi come lumache, con i vestiti che rendono i movimenti difficoltosi e spesso s’impigliano nel filo spinato; arrivate a terra i soldati controllano i documenti e le lasciano andare. Ma per avere casi come questi occorre la combinazione migliore: soldato intelligente e donna anziana. Altrimenti può accadere qualsiasi cosa: dall’arresto alla sparatoria.
Ibrahim è un ottimo studente, ma non ha nessun amico tra gli israeliani. Come moltissimi altri, forse tutti, ammira la resistenza armata. Di fatto, oltre a dividere fisicamente, il muro sta creando una barriera d’odio: questa davvero insuperabile, poiché nessuno vuol fare, non già un salto, ma un solo passo per avvicinarsi all’altro. Svastiche e stelle di Davide sono disegnate a profusione lungo il muro: tutte promettono vendetta.

A d Al Qalqiljia, circa 100 mila abitanti, nel nord della Cisgiordania, la «barriera difensiva», come la chiamano gli israeliani, circonda tutta la città, lasciando un unico passaggio, controllato dal check point. È alta otto metri, con ferro spinato e torrette, dalle quali i soldati controllano che nessuno si avvicini, per fare cosa non si sa, dato che è impossibile scalarla.
Hassian, come altri abitanti di questa città, aveva dei terreni agricoli particolarmente pregiati, fertili e non sassosi: sono rimasti dall’altra parte del muro e inglobati nel territorio israeliano.
«Vogliono la terra, ma non le persone» dice Hassian, sconsolato per la situazione in cui si ritrova: la sua casa, a un passo dal muro, è oggetto di frequenti incursioni da parte dei soldati di pattugliamento.
Al danno si aggiunge la beffa: in teoria, per le terre espropriate sono previsti dei rimborsi; ma la riscossione è vietata dall’Anp (Autorità nazionale palestinese, cioè il governo), che non vuole legittimare in alcun modo esproprio e costruzione del muro.

«V ogliamo solo difenderci dagli attacchi dei terroristi palestinesi, che si fanno esplodere nel nostro territorio, uccidendo civili inermi – sostengono i ragazzi israeliani conosciuti a Gerusalemme ovest -. Non è una reazione esagerata la nostra: tutti i giorni rischiamo di venire uccisi».
Teorizzato nel novembre del 2000, dal governo presieduto da Ehud Barak, il muro ha avuto la definitiva approvazione nel giugno del 2002 dal governo Sharon, tuttora in carica. Il progetto completo prevede una lunghezza di circa 350 km; attualmente ne sono stati costruiti 145; i restanti 200 sono stati definitivamente approvati e finanziati l’1 ottobre 2003.
La costruzione ha incontrato forte opposizione da tutta la comunità internazionale, esclusi gli Stati Uniti che, insieme a Israele e due minuscoli stati satelliti Usa, non hanno votato la risoluzione Onu, che condanna la costruzione del muro difensivo.
Nonostante le polemiche, Israele rilancia e propone un muro divisorio anche lungo il confine con la Giordania.

S pesso il muro corre all’interno della «linea verde», lo pseudo confine che dovrebbe dividere Palestina e Israele; a tratti entra all’interno della Cisgiordania per 7 km. A opera compiuta, il 2,9% di territorio palestinese verrà annesso a Israele; 102 mila palestinesi, distribuiti in 45 villaggi, vivranno isolati in enclaves a ovest della barriera, mentre 200 mila residenti di Gerusalemme est saranno divisi dal resto della West Bank; 71 comunità rurali saranno separate dai loro terreni agricoli.
Tale illegale usurpazione di terreno non rispetta la risoluzione Onu 242 del 1968 e ridisegna la carta geografica: le colonie, anch’esse illegali, vengono a trovarsi non più in Palestina, ma in Israele. Più che proteggere, la barriera divisoria esaspera gli animi e alimenta odi eterni.
Ad Al Qalqiljia nessuno si azzarda a scrivere la propria rabbia sul muro: è troppo pericoloso. Ma durante le manifestazioni di protesta, le uniche permesse, con la presenza di osservatori inteazionali, la rabbia trova sfogo, disegnando sul muro bandiere palestinesi scritte in inglese contro la vergogna del muro.
Esso ha spezzato la vita sociale e familiare di molti palestinesi. «Ho due fratelli che abitano al di là della barriera: come faccio a raggiungerli?» si domanda Ali. «Per andare al posto di lavoro devo fare tutti i giorni ore di coda al check point; prima mi bastavano cinque minuti a piedi» racconta un operaio. «Per fare la registrazione presso la segreteria dell’università siamo costretti a scavalcare il muro, mentre prima bastava attraversare la strada» lamentano gli amici di Ibrahim.
Così la vita continua, ognuno con la sua storia e, soprattutto, con la voglia di vendetta che sale giorno dopo giorno.

N on sono solo i palestinesi a criticare il muro e le ingiustizie derivanti da questa guerra assurda. A B’Tselem c’è un centro studi israeliano, che monitora la situazione dei diritti umani in Palestina. Ci tengono a sottolineare che non sono un movimento pacifista. Composto da ricercatori, intellettuali, politici, studenti, è il punto di riferimento per ogni studio di tipo statistico riguardante il conflitto israele-palestinese: territori occupati, colonie, coprifuoco, demolizioni, omicidi…
Tacciati di collaborazionismo da buona parte della società israeliana, i loro studi non sono mai stati smentiti.

Maurizio Pagliassotti

Maurizio Pagliassotti




Pietre… vive

Sono circa 200 mila i cristiani in Terra Santa:
una presenza a rischio estinzione.
Senza testimoni della risurrezione, i luoghi santi diventano musei di pietre… morte.

In molte parti del mondo i cristiani sono una minoranza contrastata e penalizzata nei propri diritti. Ma quando questo accade dove i cristiani sono nati, nella Terra di Gesù e nostra Terra Santa, la situazione suona più scandalosa e chiede un’attenzione particolare al cuore di ogni credente.
L’ho visitata più volte durante questa seconda intifada; l’ultima, lo scorso gennaio, con un gruppo di giovani musicisti torinesi: abbiamo incontrato la gente e pregato con loro. Al ritorno ci siamo fatti voce di quanti abitano e custodiscono per noi i luoghi della nostra fede.

STIMATI, MA EMARGINATI

I numeri, da soli, sono eloquenti: mezzo secolo fa, la popolazione cristiana della Terra Santa (Israele e Territori Palestinesi) era pari al 20% del totale, 35 anni fa era scesa al 13%; oggi supera di poco il 2%, pari a circa 200 mila anime. A Gerusalemme, nel 1922, il 51% degli abitanti era formato da cristiani; oggi sono il 2%. Negli anni ’60, Betlemme era cristiana al 90%; oggi lo è al 30%: nel solo 2003 ha perso oltre 2 mila cristiani.
Chi sono? In Terra Santa colpisce la varietà di espressioni cristiane: troviamo cattolici, ortodossi, fedeli di rito armeno, copto, greco, siriaco e cattolici di lingua ebraica.
Questi ultimi in particolare sono una comunità molto interessante, di recente formazione, nata in un contesto ebraico israeliano, con l’originalità e difficoltà che comporta professare una fede «altra» rispetto alle regole di vita e tradizione ebraica.
È una comunità che si fa strada e che, oggi, ha anche un suo vescovo israelita, il primo nella terra di Gesù dai tempi apostolici: è mons. Jean-Baptiste Gurion, monaco benedettino di origine sefardita.
Voci diverse, dunque, del nostro unico credo, che talvolta sembrano sovrapporsi nella difesa dei propri spazi, anche durante la liturgia nei santuari; ma voci che sanno parlare all’unisono per difendere il diritto dei cristiani nella terra in cui essi sono sempre più discriminati.
I cristiani cattolici, in particolare, sono prevalentemente di etnia araba e con gli arabi condividono le imposizioni del governo israeliano. Soprattutto a Gerusalemme e nei Territori occupati, dove, ad esempio, non hanno pieni diritti civili e politici, non possiedono passaporto, non possono acquistare case, né affittarle facilmente, hanno accessi limitati alle università e pubblica amministrazione; oggi, in più, subiscono le conseguenze del «muro» che separa, isola, impedisce di raggiungere la scuola, il posto di lavoro, la parrocchia…
Non solo. I cristiani subiscono anche i tentativi di espansione, proselitismo, condizionamento sociale e culturale da parte degli arabi musulmani. Alcuni esempi. Per l’ostinata pressione e l’esodo di tanti giovani cristiani, sono sempre di più le donne cristiane che accettano di sposare i musulmani, con la conseguenza di essere mogli di secondo grado in famiglie poligamiche; chiese e scuole cristiane sono spesso fronteggiate e disturbate da analoghi centri religiosi o scolastici musulmani; nella crisi occupazionale, i dipendenti cristiani sono i primi ad essere licenziati dagli imprenditori musulmani…
Vita difficile, quindi, per i cristiani in Terra Santa, anche se sono stimati per la loro serietà, coerenza e correttezza da entrambi i popoli di maggioranza. Le scuole cristiane, per esempio, sono riconosciute per la qualità dell’insegnamento e la proposta educativa, rispettosa di ogni tradizione, e sono frequentate da un gran numero di studenti musulmani.

GERUSALEMME: SPOPOLATA

Come vivono oggi i cristiani in Terra Santa? Male! Oggi più di ieri. Lo abbiamo visto per le strade semideserte (se confrontate con gli anni passati) e ascoltato dalla bocca della gente, che ci ha accolti come una benedizione. Soprattutto, lo abbiamo chiesto ad alcuni responsabili delle comunità locali.
«A Gerusalemme c’è una sola parrocchia di circa 4.500 anime – spiega padre Giorgio Abuasen -. Tra queste, 350 famiglie sono isolate dai blocchi dei check point. Nella città santa, i cristiani, in quanto arabi, non sono considerati cittadini, ma semplicemente residenti: hanno solo un permesso di soggiorno, non estendibile in caso di matrimonio.
Ma il problema maggiore è la disoccupazione, da quando si è fermata l’attività turistica, che rappresentava la loro pressoché unica risorsa.
L’attività pastorale comprende amministrazione dei sacramenti, formazione religiosa e, soprattutto, educazione alla convivenza pacifica tra fedi diverse: è quanto cerchiamo di trasmettere nelle nostre scuole, dove studiano insieme ragazzi cristiani e musulmani.
Poi ci sono le opere di carità, realizzabili con i contributi che la Custodia riceve dai cristiani di tutto il mondo. Poiché per gli arabo-cristiani non esiste diritto alla proprietà di case ed è difficile averle in affitto, abbiamo costruito alloggi per 475 famiglie; inoltre provvediamo ogni anno borse di studio per circa 120 studenti, perché possano studiare nelle università locali e frenare così l’emigrazione dei nostri giovani».

BETLEMME: TRA DUE FUOCHI

A Betlemme la situazione è ancora più tragica, afferma padre Ibrahim Faltas, passato alla storia come «fra telefonino»: tenne i contatti col resto del mondo per 39 giorni (2 aprile – 10 maggio 2002), quando la basilica della Natività fu occupata da 240 miliziani palestinesi e assediata dai militari israeliani.
«A Betlemme viviamo il dramma del muro che isola alcune famiglie, espropria le loro proprietà, danneggia le coltivazioni, annulla le già critiche attività di artigianato: alcune fabbriche di presepi sono state costrette a chiudere. Siamo sempre sotto il controllo del check point israeliano alle porte della città.
Ma anche da parte araba siamo costantemente presi di mira. Una volta Betlemme era abitata quasi completamente da cristiani; ora essi sono una minoranza, perché molti sono emigrati e i musulmani tendono a prendere terreno, nel vero senso della parola: stanno per costruire una loro scuola proprio di fronte al Terra Santa College; inoltre, forte è la pressione psicologica sulla comunità cristiana, sulle donne in particolare, affinché si sposino con musulmani.
Eppure noi cerchiamo di mantenerci in equilibrio, rispettosi di entrambi i popoli e delle autorità che li rappresentano, come abbiamo dimostrato nei giorni dell’occupazione e dell’assedio della basilica della Natività. Continuiamo a dialogare con ebrei e musulmani, forti della nostra fede e della nostra missione a custodia di questa terra».

MADRE FERITA E SOFFERENTE

Il custode di Terra Santa, padre Giovanni Battistelli, ci accoglie commosso e ci affida un messaggio: «Prima di questa intifada, quando venivano numerosi gruppi di pellegrini, dicevo loro di amare la Terra Santa, perché tutti siamo nati qui, è la nostra terra: qui c’è la radice della nostra fede. Ora ricordo che questa terra ha bisogno di loro, ha bisogno di voi: la Terra madre è ferita e sofferente.
Per i cristiani locali ci sono poche prospettive e hanno cominciato a emigrare; così noi francescani rischiamo di diventare custodi di pietre e non già di una comunità viva.
Durante il periodo dell’occupazione della Natività di Betlemme, abbiamo sentito forte la vicinanza di tutto il mondo; ma da quando i riflettori su quel tragico evento si sono spenti, ci sembra che la nostra chiesa si faccia meno presente. A nome dei cristiani di Terra Santa dico che abbiamo urgente bisogno di sentire la vicinanza, non solo spirituale, dei cristiani del mondo.
Dove sono i pellegrini, ora che il pellegrinaggio avrebbe un senso ancor più profondo e veramente fraterno? Se non riprende il turismo religioso, è il collasso dell’economia di questa gente, specie dei cristiani. La nostra speranza siete voi e quanti decideranno di venirci a visitare».
Non ci vuole un coraggio da leoni, oggi, per andare in Terra Santa: gli itinerari dei pellegrini sono fuori dalle aree ad alta tensione e la stessa Gerusalemme vecchia, cuore di ogni pellegrinaggio, è sicura nelle sue mura. Il visitatore può muoversi tranquillamente a piedi, sostare nei luoghi più sacri della nostra fede, incontrare la poca gente che ancora vi abita, percorrere le strade come ai tempi di Gesù… Un viaggio che oggi aggiunge al gusto della scoperta e dell’esperienza di fede il sapore intenso della solidarietà.

GERICO: CITTÀ DIMENTICATA

Venerdì, ultimo giorno del nostro viaggio. Avremmo la giornata libera per lo shopping tra le viuzze del suk di Gerusalemme, ma veniamo a sapere che la comunità cristiana di Gerico è in seria difficoltà. Isolata dal cordone di sicurezza dell’esercito israeliano, non riceve neanche la solidarietà dei gruppi di pellegrini, che preferiscono visitare altri luoghi, anche se conserva tracce di storia antica ed echi evangelici: il buon samaritano passava proprio di qui!
Informati che al check point i turisti passano facilmente, decidiamo di partire. Infatti, troviamo una lunga fila di macchine, ma per i turisti i controlli sono sbrigativi. Entriamo in una città deserta e desolata: strade spopolate, case abbandonate, negozi chiusi o semichiusi, campi incolti e… silenzio.
Raggiungiamo la scuola cristiana adiacente alla parrocchia, dove la suora responsabile sgrana tanto d’occhi a vedere un gruppo di venti giovani pellegrini da quelle parti. Ci apre le porte della scuola, dove vediamo tracce di speranza nei disegni dei bambini e nei residui degli addobbi natalizi.
Ci viene raccontato che a Gerico, oggi, la crisi è acuta per tutti, ma per i cristiani è drammatica: essi sono i primi a essere licenziati dai posti di lavoro nelle aziende agricole dei musulmani; per di più, i check point rendono impossibile raggiungere la sede lavorativa fuori città.
A Gerico non si produce più: non si coltivano più i campi intorno alla città, perché i soldati spesso negano l’accesso; si consumano prodotti d’importazione, sempre che l’esercito li lasci passare e, soprattutto, si abbia denaro per comprarli.
A scuola i ragazzi vanno senza più pagare la retta e gli insegnanti lavorano con uno stipendio sempre più precario. Nessun governo li aiuta.
La suora non ci nasconde la sua disperazione: lei, nata in quella terra, fatica a vedere prospettive di vita migliore e ripete che tra i due popoli in lotta sono proprio i cristiani ad essere più penalizzati e a dipendere unicamente dagli aiuti estei.
Quali aiuti? La suorina andrebbe in capo al mondo pur di trovare qualche risorsa per tenere aperta la scuola. Le lasciamo il frutto di una colletta improvvisata sul momento e le assicuriamo di non dimenticarci di loro.
Prima di andarcene cogliamo una nota di speranza, un incontro che può continuare e aiutare a credere nella pace: arriva una bambina per esercitarsi al pianoforte in vista del prossimo saggio musicale. Benché intimidita a vederci tutti insieme, accetta di far scorrere le dita sulle note di un nostro canto tipico: Tu scendi dalle stelle. La musica ci rende ancora più vicini! Le lasciamo il nostro spartito, insieme alla promessa di fare qualcosa per lei e gli altri bambini della scuola.

Chiara Tamagno




Parola delle pietre

I luoghi santi parlano del Dio-con-noi: bisogna ascoltarli, insieme alle comunità di cristiani, ebrei e arabi, perché Gerusalemme sia città-della-pace per tutti i popoli.

Ogni giorno noi veniamo a contatto con la Terra Santa, leggendo la Parola di Dio. Conosciamo Gerico, Cafaao, Cana, Nazaret, Betlemme, Betania. Sappiamo della vedova di Naim, dell’indemoniato di Geràsa, della trasfigurazione di Gesù sul Tabor. Qualcosa si muove nel nostro cuore ogni volta che sentiamo il nome di Gerusalemme, città-della-pace (Yerushallaim), che i suoi stessi figli hanno trasformato in città della morte.
I luoghi menzionati nella scrittura acquistano una dimensione più familiare per chi vi ha fatto un pellegrinaggio: si «vedono» meglio gli avvenimenti e si capiscono più profondamente le parabole di Gesù.

TERRA DELLA MEMORIA

Dal tempo della schiavitù d’Egitto, la «terra promessa» è stata l’utopia e speranza d’Israele, che ha guardato sempre avanti a sé, dirigendo ad essa il cuore e i propri passi, come canta il salmista: «Quale gioia, quando mi dissero: “Andremo alla casa del Signore”. E ora i nostri piedi si fermano alle tue porte, Gerusalemme! Gerusalemme è costruita come città salda e compatta. Là salgono insieme le tribù, le tribù del Signore, secondo la legge di Israele» (Sal 122,1-4).
Con l’arrivo di Gesù Cristo, per i cristiani quella terra è diventata un sacramento reale della memoria, il quinto vangelo, che conserva la storia di Dio fatto uomo. Per questo hanno cominciato a chiamarla non più terra promessa, ma Terra Santa. Meglio sarebbe chiamarla «Terra del Santo», perché solo Dio è tre volte santo (Is 6,3), o più realisticamente di terra o luoghi della memoria.
La memoria, in ebraico zikkaròn, non è ricordo di un evento passato e finito, come nelle nostre lingue, ma sperimentazione della realtà, nel momento in cui essa è ricordata; è attualizzazione presente di ciò che è stato nel passato. Per i luoghi santi potremmo applicare così una precisa identità: «Io, terra di Palestina-Israele, sono oggi quello che fui ieri». Ieri è stata testimone della vita terrena di Mosè, dei profeti, di Gesù; oggi è testimone vivente della fede di quanti hanno creduto, ebrei e cristiani. Camminare sulle strade di Palestina, significa vivere e sperimentare quanto scrive Giovanni: «Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita… quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi» (1Gv 1,1-3).
Toccare Dio! È l’anelito di ogni religione, che crea spazi sacri e tempi sacri per lambire, almeno ritualmente, il mantello di Dio attraverso il profumo dell’incenso. Ora non è più un anelito; non è necessario scalare il cielo per rapire la divinità (come nei miti greci), perché Dio stesso viene a noi e si rende prossimo, accessibile e amico.
I luoghi della memoria, la Terra Santa è tutto questo: potere entrare nell’umanità di Dio che si fa fratello di viaggio ed esegeta che spiega la scrittura a noi, assetati e affamati della sua parola (Lc 24,15.27).

PAROLA E PIETRE

Visitare la Palestina non è una gita o pellegrinaggio di devozione a un qualsiasi santuario. «Salire a Gerusalemme» significa entrare nel luogo della «testimonianza», dove vediamo realizzato tutto ciò che i profeti hanno scritto sul Figlio dell’Uomo. Per i cristiani la Terra del Santo è l’ottavo «sacramento»: il sacramento degli occhi e del silenzio.
Degli occhi, perché vediamo i segni di Dio che, muti, parlano con forza e autorevolezza; del silenzio, perché tutto induce alla contemplazione e al raccoglimento: davanti alla parola silente della terra della memoria (zikkaròn), possiamo solo tacere, adorare e amare. Tutto parla di lui ed è memoria di lui; tutto ci commuove e ci afferra nelle profondità dell’anima per mai più lasciarci.
Il Giordano, monti, pianure, alberi, mandorli, ulivi, sole, caldo, deserto… sono capitoli viventi e danzanti del vangelo di terra, che parla attraverso le pietre, la geografia, lo spettacolo della natura. Viaggiare per la Palestina e pensare che Gesù ha percorso quella stessa strada, ha sostato in quello stesso posto, ha dormito su quella terra, ha guardato quel cielo e bevuta l’acqua di quel fiume o di quel lago è per ogni credente un incontro ravvicinato con il mistero del Dio incarnato.
Visitare i luoghi della memoria è capire fino in fondo l’Emmanuele, il Dio-con-noi (Is 7,14; Mt 1,23), toccare con mano, in un certo senso, non solo il lembo del suo mantello, ma il suo corpo, respirare la sua aria, vivere insieme a lui, sperimentando una comunione oltre ogni limite.
In questo modo, si fondono insieme parola di Dio e terra. La parola ci dice che Dio ha parlato e operato in mezzo a noi, vissuto e insegnato tante cose, è morto ed è risorto. Di tutte queste cose abbiamo la garanzia della testimonianza degli apostoli, sulla cui fede, noi basiamo la nostra certezza. La terra ci «testimonia» direttamente che «qui» e non altrove tutto questo è avvenuto, facendoci quasi contemporanei di Gesù e della sua vita.
La fede cristiana per nutrirsi ha bisogno di due ingredienti: la parola e le pietre, l’una ci apre al cuore di Dio e alla sua volontà di salvezza, le altre ci svelano il corpo di Dio.
Il rapporto tra la geografia fisica, dove Gesù ha vissuto, e la sua parola di salvezza è lo stesso che intercorre tra anima e corpo. Il corpo è la terra fisica, che per circa 30 anni ha sperimentato su di sé i piedi nudi del Signore; mentre le sue parole e insegnamenti sono l’anima che danno senso a quella terra, svelandone anche la grandezza e importanza.
Ogni credente dovrebbe, almeno una volta nella vita, ritornare alla fonte originaria della propria esistenza, risciacquare la sua fede e la sua anima nelle acque del Giordano, adorare lo Spirito a Nazaret, sostare nella grotta di Betlemme, emozionarsi nel Santo Sepolcro, pregare il Padre nostro sul monte degli Ulivi, trascorrere almeno un’ora di adorazione con Gesù nel Getsemani, per riparare alla debolezza degli apostoli di tutti i tempi, che lasciano Gesù, il Signore, solo nell’ora suprema delle tenebre che avvolgono la terra e nell’ora della gloria che è l’ora della salvezza del mondo. Lui salva il mondo, mentre gli apostoli «prescelti» dormono! Mistero di Dio e dell’uomo!

CARNE VIVA DEL CORPO DI CRISTO

Ogni volta che arrivava un pellegrinaggio, mi colpiva l’atteggiamento dei pellegrini e organizzatori, segno evidente di una logica di fondo: arrivano, visitano, pizzicando i luoghi senza fermarsi un momento per assaporare «il Lògos (Verbo) che si fa carne» (Gv 1,14). Di corsa verso un’altra tappa, il tempo stringe; anche la via crucis ha i minuti contati; pomeriggio libero per fare compere nel suk… finalmente, dopo 10 giorni massacranti, a casa con una massa di confusioni nel cuore e negli occhi.
Ho visto pochi e sparuti gruppetti di pellegrini inserire nel loro cammino in Terra Santa la visita alla comunità cristiana locale, pietre vive della fede vissuta in Palestina, tra enormi difficoltà, solitudine, emarginazione. Nel mondo arabo circostante sarebbe una testimonianza di grande efficacia che cristiani del mondo occidentale vadano a trovare le loro sorelle e fratelli di fede, che in qualche modo sono i custodi della memoria della fede, e scambiarsi solidarietà, aiuto, condivisione. Ho visto celebrare splendide liturgie, in chiese popolate da soli pellegrini senza la presenza di un rappresentante della comunità locale.
Visitare i luoghi della memoria significa anche visitare la carne viva del corpo di Cristo che, nonostante l’aridità del deserto, continua a germogliare nella comunità cristiana di Terra Santa. Quanti conoscono la piccola comunità cristiana di origine ebraica? Quanti sanno che i cristiani di etnia araba sono ridotti al 2% dal 25% che erano alla fine del 1800?
Non basta raccogliere qualche obolo nel venerdì santo e mandarlo al Patriarcato di Gerusalemme o alla Custodia francescana; è urgente che le comunità giungano a Gerusalemme con spirito nuovo, incontrando in primo luogo le comunità e poi i luoghi, senza fretta e nel tempo necessario per vivere un esodo e una pasqua, che formano un corso di esercizi spirituali itineranti, da farsi nel rispetto dei tempi dello Spirito.

VIA CRUCIS: PRIMA STAZIONE

Visitare la Terra Santa e non fare una sosta allo Yad Vashem è un delitto imperdonabile. Secondo la celebre espressione di Isaia 56,5, Yad Vashem significa «un posto e un nome»: 6 milioni di nomi sono scritti tra le sue pareti; con un gioco di specchi, 6 milioni di candele sono accese a ricordare che il popolo di Abramo, di Gesù e della chiesa fu crocifisso sulla croce della storia dal peccato e dall’ignavia dell’uomo.
Non si può venire nella terra del martirio di Dio, del popolo della promessa e dell’alleanza e non visitare il luogo della memoria, obbrobrio e ludibrio: il santuario che testimonia l’olocausto di 6 milioni di ebrei, reso possibile dalla furia nazifascista e la poco evangelica resistenza dei cristiani nell’Europa delle tenebre.
Lo Yad Vashem dovrebbe essere la prima stazione della via crucis che ripercorre il tragitto verso il Calvario e verso il sepolcro vuoto.
Accanto a queste due visite non dovrebbe mai mancarne una a un campo profughi di palestinesi, possibilmente a Gaza, per vedere le condizioni disumane in cui ancora oggi vivono gli eredi naturali della prima generazione cristiana.

I TRE POPOLI DELLA PROMESSA

Comunità cristiana, ebraica (Yad Vashem) e araba (campo profughi), sono i tre popoli che, già ora, realizzano la profezia di Isaia 2,2-4: «Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà eretto sulla cima dei monti e sarà più alto dei colli; ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno: “Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci indichi le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentirneri”. Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore. Egli sarà giudice fra le genti e sarà arbitro fra molti popoli. Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra».
Si combattono tra loro, si odiano, si scannano a vicenda, ma sono lì attaccati al monte di Sion, da cui non vogliono scendere. Sarà quel monte che li costringerà alla pace e a riconoscersi fratelli di sangue e figli dello stesso padre, non più solo Abramo, ma figli dello stesso Dio, che «risplende da Sion perfezione di bellezza» (Sal 49,2), perché «da Sion verrà la salvezza d’Israele» (Sal 14,7).

Narra il Talmud ebraico: «Il Signore divise tutta la bellezza in dieci parti: ne consegnò nove a Gerusalemme e una al resto del mondo. Poi il Signore divise anche il dolore in dieci parti e di nuovo ne assegnò nove a Gerusalemme e una al resto del mondo».
Gerusalemme è nello stesso tempo la città della gioia e la città del dolore, città maledetta e città benedetta. Nel suo grembo porta le sorti del mondo: pace e distruzione, speranza e bellezza. Ora spetta ai suoi figli comprendere la grandezza della loro madre e, superando l’abisso di odio che li copre, presentarla al mondo in tutto il suo splendore, perché sia madre di tutte le genti e figlia di ogni popolo di buona volontà.
Yerushallaim, Al-Kuds (La Santa), Gerusalemme: oggi deposito di nove porzioni di dolore, domani, con l’aiuto di Dio e la conversione dei suoi figli, fonte delle nove porzioni di bellezza, luogo d’amore e di speranza.
Gli ebrei, ancora oggi terminano il rito della pasqua con un augurio struggente: «L’anno prossimo a Gerusalemme!». Ai lettori di Missioni Consolata, lo stesso augurio: «L’anno prossimo a Gerusalemme!» insieme a ebrei, arabi e cristiani. Nel segno di Abramo, nel nome e per grazia di Dio.

Paolo Farinella




Pietro torna a casa

D al 20 al 26 marzo 2000, il papa si recò pellegrino ai luoghi della memoria del Redentore, incontrando il popolo israeliano e palestinese: chi non ha vissuto quei momenti emozionanti di storia, non può capire il significato, il valore profetico e le conseguenze future di tale visita.
Io c’ero.

VISITA INCOMPRESA

Quella di Giovanni Paolo ii può essere considerata la prima visita di un papa nella biblica Terra Promessa, per i cristiani Terra Santa (Paolo vi nel 1964 non andò in Israele e Palestina, ma solo in Giordania, che a quei tempi governava tutta la parte orientale della Palestina, compresa Gerusalemme vecchia).
Pochi compresero l’importanza di tale visita; molti la lessero solo dal punto di vista dell’opportunità politica del momento. La quasi totalità dei cattolici presenti in Terra Santa (Patriarcato, Custodia di Terra Santa, conventi, frati e anche suore) e nel mondo la contrastarono; molti si adoperarono perché fallisse.
Vi erano persone che pregavano per il fallimento ed erano arrabbiate contro il papa, che «farebbe meglio a starsene a Roma». Piccoli negromanti di sventura che non sanno vedere oltre il loro naso e sanno misurare la storia solo con il millimetro della loro esperienza, nonostante ogni giorno leggano la Parola di Dio.
Dopo la visita, le stesse persone dovettero ricredersi e qualcuno, più onesto, ammise la propria non lungimiranza, frutto di poca fede.
A Gerusalemme sapevamo che anche in Vaticano, qualcuno lavorava perché la visita fosse in tono minore, anche tra i più stretti collaboratori del pontefice.
Due settimane prima, il 12 marzo, prima domenica di quaresima, stringendosi al crocifisso e facendosi carico di 2000 anni di storia e di contraddizioni, il papa chiese perdono per conto e a nome della chiesa a tutti quelli che, lungo questi due millenni, avevano sofferto a causa della chiesa e dei suoi figli. Lui chiedeva perdono, ma cardinali, vescovi, preti, frati e qualche laico erano arrabbiati: lo consideravano un cedimento. Qualcuno si lasciò andare: «A noi chi chiede perdono?».
In quell’occasione si toccò con mano la solitudine ecclesiale di Pietro, che, consapevole della risposta del suo Signore che lo invita a non aspettare il primo passo, ma a perdonare per primo fino a settanta volte sette, procede fiducioso, buttandosi sulla parola del suo Maestro.
Quella richiesta di perdono e la visita in Israele-Palestina sono i due gesti pontificali che segneranno per sempre il pontificato. Giovanni Paolo ii sarà ricordato dalla storia come il papa del perdono e il papa che, dopo 2000 anni di lontananza fisica, ritoò a casa sua, sulle rive del lago di Genezaret, dove ricevette il mandato apostolico.

VISITA ISPIRATA

La visita nella terra della memoria cristiana fu un’ispirazione dello Spirito Santo, che guidò i passi del papa e fece sì che gesti e parole fossero solo di alto significato religioso da spiazzare ogni resistenza. Il papa, per la prima volta, non tenne conto delle richieste degli uni contro gli altri; ma parlò da papa, da cristiano, seguendo solo la sua coscienza: alla fine toccò il cuore degli uni e degli altri e anche dei cattolici.
Gli ebrei, per la prima volta in assoluto, assistono alla celebrazione della messa e possono ascoltare le preghiere cristiane, perché tutte le tv trasmettono ininterrottamente l’intera visita senza censure.
Nei libri di storia israeliani, i cristiani sono ricordati solo due volte: per la scoperta dell’America, di cui si mettono in evidenza solo le violenze sugli indigeni e le conversioni forzate, e per la shoà, sottolineando la responsabilità dei cristiani, specie il silenzio della chiesa cattolica. Duemila anni di storia essiccati in due tragici eventi. Tutto qui.
Vedere il papa, seguie le celebrazioni e ascoltae le parole hanno aperto un immenso spiraglio di comprensione e curiosità di sapee di più. Per le strade, nei negozi, nelle case, anziani e giovani sono emozionati; e quando nel Santo Sepolcro vedono il papa che, a causa della malattia, sbava mentre legge, si commuovono e si convincono di trovarsi davanti a un uomo di Dio.
Non è un caso che i rabbini capi, il 23 marzo, durante la visita alla Great Synagogue di Gerusalemme, gli regalano la bibbia ebraica con la dedica: «Benedetto tu, Giovanni Paolo ii, quando entri e quando esci», prendendo a prestito la citazione di Deuteronomio 28,6. Lo stesso giorno, allo Yad Vashem, il premier Ehud Barak lo saluta così: «Benedetto tu in Israele». Le parole sono pietre, che restano ancorate alla Palestina, da cui nessuno potrà più cancellarle.

VISITA PROFETICA

Il ritorno di Pietro in Terra d’Israele ha significato l’abbattimento del muro di diffidenza durato due millenni, creando le condizioni per un incontro, tra cattolici ed ebrei intorno alle scritture. Una prima grande conseguenza della visita è stata l’istituzione di una cattedra di storia-critica di cristianesimo all’Università di Gerusalemme, sul monte Scopus. Per la prima volta una università ebraica studia e fa ricerche sugli scritti del Nuovo Testamento, usando i metodi scientifici propri dell’università.
Da parte cattolica vi è stato un importante documento della Pontificia commissione biblica su Il popolo ebraico e le sue sacre scritture nella bibbia cristiana (2001), che rivaluta, anche dal punto di vista cristiano, alcuni metodi esegetici tipici del giudaismo del tempo di Gesù e della chiesa primitiva.
Questa visita non solo rompe un silenzio ostile di 2000 anni, ma apre prospettive nuove che ora è anche difficile vedere, se non si è allenati alla lettura dei «segni dei tempi». Il ritorno di Pietro nella Terra del Signore Gesù ha seminato molti sementi che ora sono caduti in terra morendo, in attesa di portare frutto a suo tempo (Gv 12,24), secondo la logica di Dio e non secondo le alchimie miopi degli uomini.
La visita del papa infatti è una profezia, cioè un atto che parla di Dio ai presenti; ma se questi non sono in grado di cogliee la portata, il «senso» di quel gesto profetico in quel tempo propizio travalica tempo e generazioni, per situarsi sul crinale della storia in attesa di una generazione meno incredula.
Mai come oggi, il futuro è nelle mani di Dio! Eppure, i cristiani hanno l’obbligo di cercare la volontà di Dio, che non si manifesta nelle visioni più o meno nevrotiche, ma si nasconde tra le spire degli avvenimenti che si snodano nella fatica della storia. Avvenimenti e storia che devono essere letti e interpretati con il codice della Parola di Dio. Parola e storia. Rivelazione e Incaazione.
Né questo papa, né il prossimo vedranno i frutti della visita di Pietro in Palestina, ma il secolo appena iniziato, sarà testimone di eventi oggi impensabili.
Intanto prendiamo atto che, anche a livello teologico, è crollato un pilastro della riflessione cattolica, che nell’insegnamento accademico e nella formazione catechistica propugnava la «teologia della sostituzione», secondo la quale Israele è superato perché la chiesa ha preso il suo posto: dalla promessa alla realtà.
Oggi la teologia è giunta a una più profonda acquisizione della scrittura e sa che Dio non rinnega mai quello che ha scelto, per cui Israele resta il popolo dell’elezione misteriosa e il popolo della promessa abramitica (Rom 9,1-33; 11,1-2).
La chiesa non è un «nuovo» popolo di Dio, ma è popolo perché è parte integrante di Israele, perché Gesù non è venuto ad abolire la Torah e la profezia, ma a portare a compimento (Mt 5,17). Il compimento non è sostituzione, ma pienezza di ciò che già è.
Oggi si riscopre tradizione e letteratura giudaiche come «ambiente vitale», dove sono sorti quasi tutti gli scritti del Nuovo Testamento. Per comprendere il vangelo e gli altri scritti è necessario conoscere l’ambiente giudaico e quindi studiare la tradizione della Mishnà e del Talmùd che, pur essendo scritti tardivi (sec. iii-vi d.C.), contengono e riportano tradizioni molto antiche che aiutano a comprendere più intimamente le parole e i gesti di Gesù.

PROFEZIA DI PACE

La pace nel mondo passa attraverso Gerusalemme che è il fulcro vitale della storia intera. Senza pace a Gerusalemme, nessuna pace è possibile! In questo contesto la visita del papa ha dato inizio a un nuovo processo di relazioni che, quando si esauriranno le guerre e gli odi degli uomini accecati, per forza di storia e di Spirito, dovranno passare attraverso la conoscenza reciproca che nasce solo dalla teshuvà (conversione), perché non è frutto degli sforzi umani, ma dono di Dio che si può solo accogliere o rifiutare.
Pietro non è ritornato in Israele per rivendicare diritti alla sua chiesa: egli ha dato spettacolo al mondo, come Davide davanti all’arca (2Sam 6,20), scandalizzando i benpensanti borghesi e i cattolici in pantofole: ha pregato, si è presentato, ha sostato al muro del pianto, invocando il «Dio dei nostri padri», ha chiamato Israele per nome «nostro fratello maggiore», ha incontrato i palestinesi e visitato i campi profughi, ha innaffiato con acqua ebraica, cristiana e musulmana un albero di ulivo, giovane virgulto aperto al futuro, ha visitato la moschea di Omar, ha asperso gli uni e gli altri con l’acqua del Giordano, dallo stesso luogo dove Gesù si fece battezzare, ha detto a tutti parole di perdono e riconciliazione, si è accasciato due volte sul Sepolcro di Cristo, quasi a dire che quella tomba è sufficiente per redimere tutte le tombe e le morti di ebrei per mano palestinese e dei palestinesi per mano ebraica.
Ha parlato in silenzio, ha amato apertamente, senza calcoli diplomatici. Da tutti è stato riconosciuto «uomo di Dio», venuto nel nome di Dio. La profezia è compiuta, i suoi frutti fioriranno. Ma resta a ciascuno di noi l’impegno di entrare dentro questa profezia e diventare un soffio profetico che parla con la vita e, scrutando i segni dei tempi, sappia andare oltre l’orizzonte conosciuto, per scoprire nuove le vie che solo Dio può aprire e percorrere.
Sì, verrà un giorno – noi lo sappiamo bene – in cui ebrei, palestinesi e cristiani pregheranno insieme sul monte del tempio, incitandosi a vicenda a lodare il nome del Signore: «Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci indichi le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentirneri» (Is 2,3).
Quel giorno verrà, anche senza di noi, ma potrebbe avvicinarsi ancora di più se, già oggi, ci lasciamo guidare dallo Spirito di Dio per essere donne e uomini di pace, che pregano la pace e vivono la giustizia, invocando da Dio che il nome di Yerushallaim (città della pace) scenda in benedizione su ebrei e palestinesi, sui cristiani e sul mondo, per dare inizio, finalmente, a un terzo millennio di prosperità spirituale che veda scorrere sulle strade del mondo «il latte e il miele» (Es 3,8) della riconciliazione e dell’abbraccio sponsale tra Pace e Giustizia: «Misericordia e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno» (Sal 85,11) tra le mura di Gerusalemme.
Il ritorno di Pietro in Palestina ha iniziato il nuovo cammino, che attraverserà la storia presente e futura, nonostante le guerre, gli odi e la superficialità degli uomini: un cammino verso il compimento finale, quando si compirà del tutto la benedizione di Abramo: «In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,3).
Quel giorno, Pietro sarà di nuovo sulla spiaggia del lago per contare i 153 grossi pesci (Gv 21, 11), cioè tutti i figli di Dio: «Un solo gregge e un solo pastore» (Gv 10,16).
Ieri, oggi e domani sulle rive del fiume Giordano! •

Paolo Farinella




Il sorriso di Angkor

Popolazioni e culture indiane e aborigene si sono fuse pacificamente,
dando origine a una civiltà propria, testimoniata dai monumenti del passato e vivente nelle tradizioni religiose e culturali del presente.

Il piccolo aereo della Air Cambodge vira, cercando di allinearsi alla striscia d’asfalto dell’aeroporto di Siem Reap. All’improvviso, quasi sulla linea dell’orizzonte, tra la folta vegetazione della giungla cambogiana, vedo ergersi le inconfondibili torri di Angkor Wat. Negli anni ’20, il pittore Paul Claudel le aveva paragonate ad ananas. L’artista francese non amò Angkor Wat: lo descrisse come «uno dei luoghi più maledetti e malefici che abbia mai visitato in vita mia».
Io, al contrario, ne sono rimasto affascinato, tanto da volerlo visitare per la quarta volta. E lo debbo confessare: ogni visita inietta in me nuove emozioni e nuovi sentimenti, che si mischiano a reminiscenze storiche che permeano ogni pietra di questo luogo, cuore politico e religioso della Cambogia per oltre 500 anni.
ORIGINI LEGGENDARIE
C’era una volta… il regno di Funan, antico nome dell’attuale Cambogia. Primo re della dinastia, secondo fonti cinesi e cham, fu Kaundinya, un bramino di origine indiana, proveniente dagli arcipelaghi indonesiani o dalla penisola malese. A seguito di un sogno, egli trovò un arco appeso all’albero sacro dedicato al suo dio personale; lo prese e si imbarcò, lasciando che la nave venisse trasportata dai venti mandati dallo spirito divino. Raggiunse la terra Funan, governata da Soma, figlia del re dei Naga, ostile a Kaundinya.
Per nulla intimorito, Kaundinya scoccò una freccia, che si conficcò nel vascello reale: impressionata da tale potenza, la sovrana si arrese e accettò di sposare il nuovo venuto. La stirpe generata da questa unione, oltre a dare inizio alla dinastia funanese, fu considerata come l’origine del popolo cambogiano.
La leggenda ha un fondamento storico, che risale al 357 d.C., quando, come re del Funan, venne incoronato un membro della famiglia Kushan, del clan indiano dei Kanishka. Sembra che si debba a questo nuovo sovrano il rapporto tra il regno di Funan e la cultura indiana, in particolare iranica. L’abbigliamento e le acconciature delle statue del tempo, richiamano evidenti influssi sassanidi e zoroastrici, come, ad esempio, le immagini di Vishnu.
Proseguendo nella leggenda, il regno di Funan, nel vi secolo d.C. fu invaso da popolazioni calate dal medio Mekong, che diedero vita al regno di Chenla. Pur avendo legami con la dinastia indiana funanese, i sovrani del nuovo regno conservarono i propri miti sull’origine del loro popolo, generato dall’unione dell’asceta indiano Kambu, con la ninfa celestiale Mera, legata al culto di Shiva.
I due, oltre a costituire il nucleo del regno di Chenla, furono i capostipiti del nuovo popolo da essi generato: i kambuja, figli di Kambu, da cui vengono fatti risalire sia i khmer, che il nome Kampuchea, Cambogia.
L’IMPERO DEL SERPENTE
Nella penisola indocinese, secondo fonti sanscrite e khmer, nei secoli vi-ix esistevano numerosi regni vassalli di Giava. Alla fine del secolo viii, un principe cambogiano, educato alla corte giavanese, si autoproclamò discendente dei principi Funan e dichiarò l’indipendenza del popolo khmer, diventando re col nome di Jayavarman ii.
In una decina d’anni egli estese il suo dominio verso il nord e, per dare consistenza alla sua dinastia e ottenere il riconoscimento popolare, nell’802 si fece incoronare devaraja (dio-re), secondo la filosofia proveniente dall’India, che voleva i re incarnazioni di dei.
E tali si ritennero i suoi discendenti. Per alimentare tale credenza, il monarca si ritirava ogni notte in una stanza del palazzo reale, per unirsi con un naga, serpente a nove teste, che per l’occasione assumeva le sembianze di leggiadra fanciulla.
Il serpente, che in Oriente simboleggia il ritorno alla natura, è il motivo più ricorrente ad Angkor, sin dalle sue origini, quando Yasovarman i, secondo successore di Jayavarman ii, fondò nell’877 Yashodharapura (città splendente, la nuova capitale del regno. Di questo stanziamento rimangono pochi ruderi del Bakheng, il mausoleo del re, dalla cui sommità lo sguardo può abbracciare l’intera piana sino al Tonlè Sap (Grande Lago).
Sempre da qui ci si rende conto dell’imponenza delle opere agricole, i cosiddetti baray, bacini idrici da cui si diramava la fitta rete di canali d’irrigazione delle risaie, che alimentavano la società angkoriana.
Sulla convenienza o meno di tali sistemi, vi sono due scuole di pensiero: una è propensa a valutare positivamente l’impatto sociale delle monumentali opere; l’altra demitizza l’opulenza della comunità cambogiana dell’epoca, affermando che i costi umani, sacrificati per realizzare e mantenere in attività tali progetti, sarebbero stati spropositati e a beneficio di una ristretta cerchia di privilegiati.
Ma la magnificenza del complesso e il fascino che traspare dalle fredde pietre riescono, almeno per un attimo, a far scordare le immani fatiche e i drammi sopportati da migliaia di persone durante la costruzione.
Abbandonata Yashodharapura, iniziò la vera edificazione di Angkor, sotto la guida di Rajendravarman (944-968), il quale progettò il Phimeanakas (Palazzo delle dee celesti), come residenza reale per la dinastia.
Camminando lungo il corridoio che un tempo attraversava le piscine, dove le ancelle reali si bagnavano, immagino lo splendore del palazzo, al cui centro si ergeva una piramide ricoperta d’oro, sede del naga.
Il cerimoniale all’interno delle sale reali era estremamente sofisticato e ritualizzato nei minimi particolari, secondo quanto è raccontato dal diplomatico cinese Chou Ta-kuan, che visitò Angkor nel 1296. Il monarca, oltre a doversi unire ogni notte con la creatura celeste, possedeva cinque mogli: la principale e altre quattro, a cui erano associati altrettanti punti cardinali. I sacerdoti, a seconda della posizione degli astri, indicavano con quale delle concubine il re si sarebbe dovuto assopire.
Il primo drastico mutamento della società angkoriana, avvenne dopo il 1000, durante il regno di Suryavarman i, quando il buddismo iniziò a espandersi, accettato senza problemi dalla corte, che ne assimilò anche le influenze artistiche.
Sotto la guida di Suryavarman i, il regno fu esteso al Laos e Thailandia, ma alla sua morte, nel 1050, l’impero si disgregò e la capitale fu occupata dai cham provenienti dall’attuale Vietnam.
Passarono 80 anni prima che un nuovo re khmer si installasse ancora ad Angkor, nel 1131: e la Cambogia iniziò a conoscere l’era più gloriosa della sua storia.
IL MISTERO DI ANGKOR WAT

Nei suoi diciannove anni di regno, Suryavarman ii costruì il più famoso monumento del Sud Est Asiatico: l’Angkor Wat (tempio della capitale, da angkor=capitale e wat=tempio).
Sebbene non tutti i misteri di questo complesso siano stati svelati (ad esempio, l’orientamento verso ovest farebbe supporre che sia stato concepito come edificio funerario), gli archeologi ne hanno in gran parte decifrato il significato simbolico.
Coprire il tragitto dall’esterno verso l’interno significa ripercorrere la cosmologia hindu, sulle cui dottrine l’edificio è stato progettato e costruito. I naga mi accompagnano lungo il ponte che permette di avvicinarsi al tempio propriamente detto, ricostruzione allegorica dell’arcobaleno che congiunge i cieli e la terra. Attraverso l’oceano cosmico, rappresentato dal fossato che circonda il complesso religioso, si approda sui lidi terrestri, le gallerie che immettono nel recinto interno.
Gli altorilievi che abbelliscono l’intero perimetro dell’arcata, descrivono scene del Mahabharata, l’epopea indiana. Tra di essi famosissima è la parte che illustra il Mescolamento dell’Oceano, con gli dei da una parte e i demoni dall’altra, nel tentativo di rimestare le acque lattiginose, usando il Monte Meru come mestolo e Sesha, il serpente, come corda. Vishnu, il dio creatore a cui il costruttore di Angkor Wat ha originariamente dedicato il tempio, dirige tutta l’operazione al centro del rilievo.
La planimetria stessa di Angkor Wat riproduce il risultato di questa immane fatica. Addentrandomi ancora lungo il ponte celeste, giungo finalmente al tempio propriamente detto: qui alcuni gradini ricordano che il raggiungimento della liberazione e della pace eterna non è né lineare né semplice. Inoltre la stanchezza, sia fisica che mentale, aumenta più ci si avvicina alla meta: i gradini si fanno più fitti e le salite irte, tanto da doversi aiutare con le mani, nel tentativo di raggiungere la vetta del Monte Meru, dimora del pantheon hindu.
Questa, rappresentata dalla torre centrale del complesso (l’ananas di Paul Claudel), ospita il sancta sanctorum di tutto l’edificio e, attorno, altre quattro torri emulano i picchi del monte, abitati da dei minori.
Nato come tempio hinduista, in fase di cambiamento religioso, Angkor Wat si è in seguito trasformato in monastero buddista, abitato ininterrottamente sino a oggi. Ciò ha permesso di mantenere l’intera struttura in ottimo stato, a differenza degli altri monumenti dell’area, anche più recenti, abbandonati dopo la caduta del regno nel xv secolo.
SPLENDORE DI UN IMPERO
Alla morte del grande Suryavarman ii (1177), una seconda invasione di cham saccheggiò la capitale, presto ricacciati dal nuovo re khmer, Jayavarman vii, ex monaco buddista. In 37 anni (1181-1218) egli estese il suo regno sul Vietnam centrale e le regioni del Laos, Thailandia, Birmania; con la costruzione di Angkor Thom, la Grande Capitale, l’opera più imponente dell’intera storia cambogiana, impresse al suo impero il massimo splendore.
Edificata secondo i canoni classici della mitologia hindu, già visti ad Angkor Wat, la città è inclusa in un quadrato di tre chilometri di lato e protetta da poderose mura con quattro porte d’accesso. Il fossato attorno ai bastioni, largo fino a cento metri e popolato da coccodrilli, la rendeva pressoché imprendibile.
Sebbene in parte diroccate, la vista di queste mura è ancor oggi impressionante: passeggiando per i viali, non posso fare a meno di immaginare quale splendida città potesse essere Angkor Thom, con i suoi giardini, palazzi, canali, piscine all’aperto, ma soprattutto i templi, anzi il tempio per eccellenza: il Bayon.
Posto al centro geografico della capitale – e quindi dell’impero – il Bayon racchiude la nuova concezione religiosa, introdotta da Jayavarman vii: egli rimpiazza il culto di Shiva e Vishnu col buddismo Mahayana, forse per sfiducia nei confronti delle prime due divinità, che non erano riuscite a proteggere i khmer dall’invasione vietnamita.
Ogni volta che visito il Bayon, mi assale un senso di inquietudine, di agitazione mentale. Girovagando tra i ruderi, sorvegliato attentamente da decine di sguardi di un volto sempre uguale, non posso non ricordare le angoscianti frasi di Pierre Loti, il pittore che nel 1912, dopo aver visto il luogo, scrisse: «Tutto a un tratto il mio sangue raggelò appena vidi un enorme sorriso guardarmi verso il basso. E poi un altro sorriso su un altro muro, poi tre, poi cinque, poi dieci… apparivano in ogni direzione».
«Sorriso di Angkor», così è stato chiamato questo enigmatico atteggiamento divenuto simbolo, assieme alle torri di Angkor Wat, dell’intero sito archeologico. Secondo l’interpretazione più accettata, sarebbe raffigurato il volto di Jayavarman stesso, rappresentato in veste di bodhisattva, il fedele buddista che, raggiunta l’illuminazione, decide di reincarnarsi per salvare l’umanità.
RIVINCITA DELLA NATURA
Stretta fra il regno thai a ovest e quello cham a est, l’impero khmer cercò di barcamenarsi tra le due potenze; ma nel 1431 l’avanzata dei thai costrinse il re Ponhea Yat e la sua corte a rifugiarsi verso oriente e stabilirsi a Phnom Penh, in attesa di un’ennesima rivincita.
Ma la dinastia khmer non ebbe più alcun Jayavarman vii e il regno, ridotto all’osso, rimase alternativamente sotto la tutela thailandese e vietnamita per 400 anni, finché re Norodom firmò un trattato di protettorato con la Francia (1864) e la Cambogia fu inglobata nella regione indocinese insieme a Laos e Vietnam.
Saccheggi e abbandono sprofondarono Angkor nell’oblio della memoria, aiutata dalla voracità della giungla tropicale, che in pochi anni ricoprì i favolosi monumenti, compresi i monasteri (eccetto quello di Angkor Wat), che ospitavano migliaia di monaci buddisti.
Il più famoso è il Ta Phrom, costruito nel 1186 in piena giungla, a tre chilometri dalla capitale: la fitta vegetazione si è ripresa la rivincita sulle aride pietre, avviluppando con le forti radici ogni anfratto e spiraglio della costruzione, sino a divenire un tuttuno con la laterite. La simbiosi è giunta a un punto tale che la morte della pianta determinerebbe la disgregazione del monumento.
Molti descrivono l’atmosfera che si respira al Ta Phrom ricordando Indiana Jones; io preferisco ricordare la frase che mi ha rivolto un giovane monaco, seduto su una radice che si diramava incuneandosi tra le crepe di una parete: «L’uomo distrugge la natura, pensando di costruire cose etee; ma se venisse qui, al Ta Phrom, imparerebbe che agendo in questo modo distrugge ciò che lui stesso ha costruito». •

Piergiorgio Pescali




Terrore rosso

Sono rare le interviste rilasciate da Pol Pot;
questa fu concessa nel dicembre 1997, quattro mesi prima di morire. Il «fratello numero uno», come si faceva chiamare l’uomo forte di Phnom Penh, si assume le proprie responsabilità, spiega il suo operato e afferma che lo rifarebbe.

E ro stato varie volte nelle zone occupate dai khmer rossi e ad Anlong Veng, loro quartier generale. Avevo avuto modo di conoscere Khieu Samphan e altri dirigenti del movimento, ma Pol Pot continuava a rimanere inavvicinabile.
Alla metà del 1997 successe qualcosa di decisivo. Nel maggio 1998 erano previste nuove elezioni generali in Cambogia e i khmer rossi, oramai isolati politicamente e finanziariamente, sentivano la necessità di rientrare nella politica nazionale, ma la parte ideologicamente più pura e dura, quella impersonificata da Pol Pot, era assolutamente contraria. L’unica soluzione, per il leader comunista, era la continuazione della lotta armata per raggiungere il potere senza compromessi.
Dalla parte opposta stava la fazione più pragmatica, guidata da Son Sen e Ta Mok, che avevano già avuto contatti con esponenti del Funcinpec (Fronte nazionale unito per una Cambogia indipendente, neutrale, pacifica e cornoperativa), il partito del figlio di Sihanouk, Ranariddh, che dal 1993 divideva il posto di primo ministro con il rivale Hun Sen, presidente del Partito del popolo cambogiano.
Il 4 luglio 1997 Funcinpec e khmer rossi firmarono un documento di alleanza in funzione anti Hun Sen; ma questi, il giorno dopo destituì il co-primo ministro Ranariddh, dando inizio a una cruenta faida tra raggruppamenti rivali.
Infine, il 25 luglio, Pol Pot fu processato dagli stessi compagni e condannato all’ergastolo; il suo posto fu preso da Ta Mok.
In due soli mesi la situazione politica dell’intera regione venne sconvolta, ma Hun Sen aveva calcolato tutto: sapeva bene che non si sarebbe ripetuta la ridda di critiche inteazionali che avevano accompagnato la presa di potere nel gennaio 1979, con l’invasione vietnamita. Né l’Onu, né Washington gli rimproverarono il colpo di stato. Gli Usa si limitavano a controllare che la situazione della regione non degenerasse; non se la sentivano di appoggiare un Ranariddh alleato dei khmer rossi.
L’Asean (Associazione delle nazioni del Sud-Est Asiatico), che, più per forma che per reale condanna, aveva rifiutato l’ammissione cambogiana nell’organizzazione, prevista per la fine di luglio, poteva permettersi di prolungare più di tanto l’estromissione della Cambogia. Il suo peso politico e strategico all’interno dello scacchiere internazionale sarebbe stato mutilato pesantemente proprio nel momento in cui l’economia dei suoi paesi fondatori traballava pericolosamente.
Chi poteva trarre maggior profitto dalla nuova instabilità cambogiana era la Cina, che stava tentando faticosamente di riacquistare peso politico nel continente e di colmare il vuoto lasciato da Washington. Ma aveva altri problemi interni e con i paesi vicini a cui badare.
Da parte sua, tagliando i legami con Taiwan, Phnom Penh cercò di disinnescare ogni tensione con Pechino e, soprattutto, di intercedere presso re Sihanouk, da anni rifugiatosi in Cina: dal monarca, infatti, dipendeva la legittimazione del nuovo regime cambogiano.
L’operazione riuscì: alla fine di agosto Hun Sen poté incontrare Sihanouk, che si disse disponibile a rientrare nel suo regno appena la salute glielo avrebbe permesso.

Q uesta, in breve, è la situazione che mi ha permesso di intervistare Pol Pot: i khmer rossi erano preoccupati per la piega che la situazione aveva assunto dopo il colpo di mano di luglio 1997 e cercavano appoggi inteazionali. Volevano mostrare al mondo intero che l’era di Pol Pot era definitivamente tramontata e che la democratizzazione del movimento era una realtà.
Il Pol Pot che trovai era assai differente dalla figura che mi ero immaginato leggendo i resoconti di coloro che lo avevano conosciuto: era un vecchio, il respiro affannoso, gli occhi spenti, i gesti lenti e attentamente studiati. Una bombola provvedeva ad aiutare a rigenerare l’ossigeno che i polmoni affaticati non riuscivano oramai più a rimpiazzare.
Era difficile immaginare che quest’uomo, dall’aspetto più simile a un contadino cambogiano che a un politico, per 3 anni e 8 mesi sia stata la persona più potente della Cambogia.
Per 18 anni le grandi agenzie giornalistiche in cerca di scornop erano arrivate ad offrire sino a 400 mila dollari per una sua intervista. Ma solo nell’agosto del 1997, il corrispondente della Far Easte Economic Review, Nate Thayer, sfruttando il rimpasto di potere avvenuto all’interno dei khmer rossi, riuscì ad avvicinare Pol Pot e a intervistarlo per la prima volta dal 1979.

Come preferisce essere chiamato, col nome di nascita, Saloth Sar, o con quello di battaglia, Pol Pot?
Dato che ho speso gli ultimi 45 anni della mia vita a combattere per il mio paese e per il popolo, preferisco essere chiamato con il nome di battaglia, Pol Pot.
Questo significa che ha dimenticato la sua famiglia?
Affatto! Durante tutti questi anni ho sempre pensato alla mia famiglia.
Però da quando si è dato alla lotta armata, non ha mai voluto incontrare alcuno dei suoi parenti. Anzi, alcuni di loro, tra cui anche suoi fratelli e sorelle, sono morti proprio per le dure condizioni di lavoro a cui erano stati sottoposti.
Ci sono due condizioni storiche e politiche da tener conto: la prima è che subito dopo la liberazione del paese, si era nel caos più completo. Dovevamo procurare il cibo per 5 milioni di cambogiani e 2 di questi erano ammassati a Phnom Penh. L’immediato trasferimento nelle campagne, perché anche loro lavorassero nelle risaie, era una condizione necessaria per la sopravvivenza di tutti. Inoltre c’era sempre il pericolo di bombardamenti da parte americana.
In secondo luogo, cosa avrebbe detto il popolo, se avessi ordinato che i miei parenti ricevessero un trattamento di riguardo? Avrebbe pensato che erano cambiati gli uomini al potere, ma il modo di gestirlo era rimasto identico.
A 22 anni di distanza, analizzando il periodo di potere khmer rosso, ammette di aver commesso degli errori macroscopici?
Sono d’accordo sul fatto che abbiamo commesso degli errori, dovuti soprattutto all’inesperienza. Del resto, chi non ne ha compiuti? Abbiamo basato e costruito la nostra politica continuando a pensare e operare secondo l’esperienza della lotta rivoluzionaria, senza passare alla fase post-rivoluzionaria, che ci avrebbe permesso di accelerare lo sviluppo della Cambogia. Ma considerando tutto, penso che il nostro governo sia stato positivo per il popolo. Penso che rispetto alla Cambogia di oggi, Kampuchea Democratica era molto più libera, democratica, indipendente e progredita.
Quindi non rigetta nulla di ciò che ha fatto.
E perché dovrei?
La maggior parte dei suoi ex compagni, da Ieng Sary a Khieu Samphan, l’ha fatto.
Sono scelte loro. Posso solo dire che la storia non può essere cancellata negando le scelte e le azioni compiute.
Lei però continua a negare la responsabilità della morte di centinaia di migliaia di cambogiani e la stessa esistenza della S-21, dei cosiddetti killing fields…
Come ho detto prima, non nego nulla di quanto mi ritengo responsabile. Non nego che durante il periodo in cui siamo stati al governo abbia personalmente commesso degli errori; ma le cifre che ha appena citato sono decisamente esagerate. Della S-21 non ne ho mai avuto notizia: è stata una messa in scena della propaganda vietnamita per giustificare la loro invasione di Kampuchea Democratica, così come i fantomatici killing fields, invenzione cinematografica di grande effetto.
Mi permetta, però, di ricordarle che gli stessi suoi ex compagni di governo oggi ammettono che tra il 17 aprile 1975 e il 7 gennaio 1979 in Cambogia si era instaurato un clima di terrore di cui lei, come primo ministro e segretario di partito, è stato il solo responsabile.
Posso solo dire che anche loro occupavano, assieme a me, posti di alta responsabilità. È logico che dopo il cambiamento di rotta politica all’interno del movimento tentino di riproporsi in una nuova prospettiva. Ma vorrei evitare di continuare a parlare di questi argomenti.
Quindi, se lei potesse tornare al potere, attuerebbe la stessa politica intrapresa durante il periodo tra il 1975 e il 1978?
Lo ripeto: non ho nulla di cui rimproverarmi. Penso che la nostra linea era giusta allora e lo sarebbe anche oggi. Naturalmente i tempi sono cambiati, ma anche nel 1978 stavamo gradualmente introducendo delle importanti riforme in Kampuchea Democratica.
Quali?
Reintroduzione del denaro, possibilità di gestire mercati privati, apertura delle frontiere, ritorno dei monaci nelle loro pagode. Ma il Vietnam non voleva tutto questo e ha deciso di invadere il nostro paese.
Come giustifica la sua avversione per il Vietnam?
Non è una mia avversione, ma quella di tutto il popolo khmer verso la minaccia youn.
A quanto ho potuto capire, è un contrasto che ha radici più storiche che razziali.
Esattamente. Il Vietnam si è annesso, nei secoli precedenti, la regione del Delta del Mekong, che apparteneva culturalmente, storicamente e etnicamente ai khmer. Nel 1975 si preparava ad annettere il resto della Cambogia. Abbiamo le prove di questo. Ma non avevano previsto la nostra vittoria, e si sono così trovati nell’impossibilità di compiere i loro piani di conquista.
Dice di avere le prove del piano di annessione della Cambogia al Vietnam. Quali sarebbero?
Discorsi all’interno del Partito dei lavoratori del Vietnam, lettere, preparativi militari, attacchi e provocazioni alle frontiere, spostamenti massicci di popolazioni verso il confine cambogiano, per occupare le terre che appartengono ai khmer e, soprattutto, infiltrazioni di elementi vietnamiti nel nostro partito.
Le purghe effettuate durante il suo governo sono quindi da addebitarsi alla politica di purificazione dall’elemento vietnamita all’interno dell’amministrazione di Kampuchea Democratica, per assicurare l’integrità della nazione?
Certamente. E la conferma è che oggi a Phnom Penh c’è una marionetta infiltrata dai vietnamiti nel nostro partito.
C’è oggi un paese che indicherebbe come esempio di modello sociale?
Ogni paese ha una storia e una situazione politica, sociale, culturale propria. Ultimamente non ho viaggiato molto, (ride, nda) quindi non ho diretta esperienza di sistemi sociali in atto…
Si sente ancora marxista?
Non nel senso che voi occidentali date a questo termine. Ho trovato nell’idea marxista degli spunti per condurre la lotta politica in Cambogia. Ma li ho trovati anche leggendo Rousseau, Gandhi, Voltaire.
Leninista?
Lenin ha avuto un ruolo storico d’avanguardia nel dimostrare che le idee di Marx potevano divenire realtà. È stato un grande maestro e grande personaggio storico per tutti, a prescindere dalle idee politiche.
Maoista?
Mao è stato un grande politico e un grande amico. La lotta condotta dal popolo khmer è per molti versi simile a quella condotta dal popolo cinese. Inoltre, la situazione culturale e politica della Cambogia è più assimilabile a quella cinese che a quella europea e sovietica: cinesi e khmer vivono e sono prosperati nelle risaie.
Lei è una sorta di dr. Jeckill e mr. Hyde: estremamente affettuoso e premuroso con la sua famiglia e con i suoi ospiti, ma duro e spietato in politica.
(Pol Pot compie un gesto di stizza e rimane muto nda).
Come si spiega che è più odiato all’estero che in Cambogia?
Perché i cambogiani mi conoscono meglio che all’estero.
Sa che in Occidente viene spesso paragonato a Hitler?
Non vedo alcun nesso tra me e Hitler. Hitler era un pazzo che ha sterminato milioni di ebrei e ha portato il mondo alla ii guerra mondiale.
Ma secondo gli studiosi, anche lei ha sterminato milioni di cambogiani: per l’opinione pubblica occidentale anche lei è un pazzo…
(Pol Pot si altera a tal punto che gli viene meno il respiro. Si porta la maschera d’ossigeno alla bocca. Il medico, allarmato, mi chiede di non continuare a porre altre domande del genere).
Cosa ritiene che sia essenziale in un uomo?
La volontà sincera e profonda di lottare per il bene del proprio popolo, mettendo in secondo piano gli interessi personali.
E lei pensa di aver rappresentato queste qualità?
Non sta a me giudicare. Sono comunque sereno.
Come vorrebbe essere ricordato dai suoi connazionali?
Come un uomo giusto e onesto; come un uomo che ha lottato sino all’ultimo per difendere la Cambogia dalla distruzione a opera dei vietnamiti.

Piergiorgio Pescali