DOSSIER KOSSOVOVivere a Goradzevac

In una «enclave» serba

Emozioni e sentimenti di una volontaria
che sente sulla propria pelle la disperazione
di non riuscire a fare abbastanza.

Toare in Kossovo è stato emozionante. Rivedere persone e luoghi a cui mi ero affezionata è stato importante e bello, ma è stato molto duro accettare l’evidenza della staticità della situazione, che sembra non lasciare spazio ad una evoluzione positiva.
La morte dei due giovani serbi di Gorazdevac, l’estate scorsa (13 agosto 2003), ne è la prova più triste ed evidente.
Erano andati a fare il bagno al fiume, e qualcuno ha cominciato a sparare, uccidendo a sangue freddo un ragazzo di 19 anni, un altro di 12 e ferendone altri. Il diciannovenne Ivan (si legga, più avanti, il toccante racconto di Fabrizio) era uno dei ragazzi serbi che si dava più da fare per dialogare e creare un contatto positivo con i giovani albanesi di Peja-Pec, uno di quelli che «ci stava» a mollare un po’ di pregiudizi e di condizionamenti politici per cominciare a vivere, a guardare avanti, oltre il check-point.
Così mi sono ritrovata a vivere a Gorazdevac, minuscola enclave serba, alle porte di Pec (o Peja, come viene chiamata dagli albanesi), a condividere con questi serbi rimasti in Kossovo, un mese della mia vita. Troppo poco per sentirmi utile, abbastanza per farmi aprire gli occhi e il cuore su quanto lontano sia l’orizzonte della pace nel cuore della gente, a 5 anni dalla fine della guerra «ufficialmente dichiarata».
Le giornate, in questa parte di Kossovo, trascorrono come ovattate, in sordina, uguali le une alle altre, scandite dal canto del gallo che quasi non sembra riconoscere il giorno dalla notte.
La gente semplicemente si sveglia, beve il suo kafa, la sua rakia, taglia la legna per il fuoco; le donne rassettano la casa, lavano i panni, preparano il pane, accolgono gli ospiti che passano a salutare, cucinano, lavorano a maglia. Pochi hanno la fortuna di lavorare e di poter contare su uno stipendio sicuro (nel senso di fisso, non certo nel senso di sufficiente al proprio sostentamento). I più si dedicano a coltivare il loro fazzoletto di terra e ad allevare le poche bestie che danno loro il latte, le uova e la carne che mangiano. Molti vivono grazie all’aiuto economico di parenti lontani che riescono a mandare loro qualcosa ogni mese.
Sono pochi quelli che si sono rimboccati le maniche e hanno iniziato minuscole attività commerciali (piccole rivendite di generi alimentari) che bastano a guadagnare lo stretto necessario per sopravvivere, o poco di più. Il futuro è qualcosa di intangibile: è come se il tempo si fosse fermato. I giovani, i bambini e gli anziani condividono alla stessa maniera la loro tragica condizione di prigionia, trattando il futuro, o le proprie aspirazioni, come sogni irrealizzabili o troppo lontani (almeno quanto il confine con la Serbia) per poterli anche solo immaginare. Ogni giorno è uguale a quello precedente e a quello successivo…nulla scalfisce il senso di staticità di cui sono intrise le giornate di Gorazdevac.
Le feste del calendario ortodosso e i compleanni sono le uniche occasioni utili ad organizzare qualcosa di nuovo, a creare momenti di aggregazione dal sapore fresco (ma comunque sempre conditi da fiumi di alcornol). Tutto il resto è oblio.
I discorsi girano intorno ai ricordi del passato, alla politica e ai racconti di guerra, a episodi di violenza occorsi tra serbi e albanesi prima e dopo il 1999, a episodi della vita quotidiana che hanno come protagonisti gli stessi abitanti del villaggio o qualche raro «forestiero» capitato lì per sbaglio…
Quello che si respira da queste parti è un senso di impotenza che appesantisce l’animo, deprime l’umore, spezza le gambe.
La possibilità di una convivenza con la popolazione albanese è molto lontana: per loro una eventualità non presa in considerazione, neanche (anzi soprattutto) dai giovani; per noi che cerchiamo un «gancio» per la pace è un miraggio . Il sogno della «Grande Serbia» rappresenta nello stesso tempo lo stimolo a sopravvivere e il grande errore che non farà mai guadagnare agli abitanti di Gorazdevac (e tutti i serbi presenti sul territorio) ad una convivenza serena col resto del Kossovo.
C’è gente che dal ’99 non è mai uscita dai due check-point che delimitano i confini del villaggio. Andare a Peja-Pec, è semplicemente un tabù di fatto. Dopo la morte dei due ragazzi poi, la paura di uscire da Gorazdevac è molto forte, anche per chi viene scortato dalla Kfor. Sono veramente pochi i coraggiosi che si avventurano fuori del villaggio senza scorta e lo fanno quasi esclusivamente per business (come dire che, al solito, sono i soldi il magico «minimo comune denominatore» che unisce uomini di popoli, etnie, religioni, ideologie diverse, nel sacro vincolo del guadagno).
Il convoglio che parte da Gorazdevac per destinazioni serbe, attraversa (scortato dalle camionette della Kfor) le località kossovare senza fermarsi prima del confine, come una meternora con una destinazione prestabilita.

Toare in Kossovo è stato emozionante. Rivedere persone e luoghi a cui mi ero affezionata è stato importante e bello, ma è stato molto duro accettare l’evidenza della staticità della situazione, che sembra non lasciare spazio ad una evoluzione positiva.
La morte dei due giovani serbi di Gorazdevac, l’estate scorsa (13 agosto 2003), ne è la prova più triste ed evidente.
Erano andati a fare il bagno al fiume, e qualcuno ha cominciato a sparare, uccidendo a sangue freddo un ragazzo di 19 anni, un altro di 12 e ferendone altri. Il diciannovenne Ivan (si legga, più avanti, il toccante racconto di Fabrizio) era uno dei ragazzi serbi che si dava più da fare per dialogare e creare un contatto positivo con i giovani albanesi di Peja-Pec, uno di quelli che «ci stava» a mollare un po’ di pregiudizi e di condizionamenti politici per cominciare a vivere, a guardare avanti, oltre il check-point.
Così mi sono ritrovata a vivere a Gorazdevac, minuscola enclave serba, alle porte di Pec (o Peja, come viene chiamata dagli albanesi), a condividere con questi serbi rimasti in Kossovo, un mese della mia vita. Troppo poco per sentirmi utile, abbastanza per farmi aprire gli occhi e il cuore su quanto lontano sia l’orizzonte della pace nel cuore della gente, a 5 anni dalla fine della guerra «ufficialmente dichiarata».
Le giornate, in questa parte di Kossovo, trascorrono come ovattate, in sordina, uguali le une alle altre, scandite dal canto del gallo che quasi non sembra riconoscere il giorno dalla notte.
La gente semplicemente si sveglia, beve il suo kafa, la sua rakia, taglia la legna per il fuoco; le donne rassettano la casa, lavano i panni, preparano il pane, accolgono gli ospiti che passano a salutare, cucinano, lavorano a maglia. Pochi hanno la fortuna di lavorare e di poter contare su uno stipendio sicuro (nel senso di fisso, non certo nel senso di sufficiente al proprio sostentamento). I più si dedicano a coltivare il loro fazzoletto di terra e ad allevare le poche bestie che danno loro il latte, le uova e la carne che mangiano. Molti vivono grazie all’aiuto economico di parenti lontani che riescono a mandare loro qualcosa ogni mese.
Sono pochi quelli che si sono rimboccati le maniche e hanno iniziato minuscole attività commerciali (piccole rivendite di generi alimentari) che bastano a guadagnare lo stretto necessario per sopravvivere, o poco di più. Il futuro è qualcosa di intangibile: è come se il tempo si fosse fermato. I giovani, i bambini e gli anziani condividono alla stessa maniera la loro tragica condizione di prigionia, trattando il futuro, o le proprie aspirazioni, come sogni irrealizzabili o troppo lontani (almeno quanto il confine con la Serbia) per poterli anche solo immaginare. Ogni giorno è uguale a quello precedente e a quello successivo…nulla scalfisce il senso di staticità di cui sono intrise le giornate di Gorazdevac.
Le feste del calendario ortodosso e i compleanni sono le uniche occasioni utili ad organizzare qualcosa di nuovo, a creare momenti di aggregazione dal sapore fresco (ma comunque sempre conditi da fiumi di alcornol). Tutto il resto è oblio.
I discorsi girano intorno ai ricordi del passato, alla politica e ai racconti di guerra, a episodi di violenza occorsi tra serbi e albanesi prima e dopo il 1999, a episodi della vita quotidiana che hanno come protagonisti gli stessi abitanti del villaggio o qualche raro «forestiero» capitato lì per sbaglio…
Quello che si respira da queste parti è un senso di impotenza che appesantisce l’animo, deprime l’umore, spezza le gambe.
La possibilità di una convivenza con la popolazione albanese è molto lontana: per loro una eventualità non presa in considerazione, neanche (anzi soprattutto) dai giovani; per noi che cerchiamo un «gancio» per la pace è un miraggio . Il sogno della «Grande Serbia» rappresenta nello stesso tempo lo stimolo a sopravvivere e il grande errore che non farà mai guadagnare agli abitanti di Gorazdevac (e tutti i serbi presenti sul territorio) ad una convivenza serena col resto del Kossovo.
C’è gente che dal ’99 non è mai uscita dai due check-point che delimitano i confini del villaggio. Andare a Peja-Pec, è semplicemente un tabù di fatto. Dopo la morte dei due ragazzi poi, la paura di uscire da Gorazdevac è molto forte, anche per chi viene scortato dalla Kfor. Sono veramente pochi i coraggiosi che si avventurano fuori del villaggio senza scorta e lo fanno quasi esclusivamente per business (come dire che, al solito, sono i soldi il magico «minimo comune denominatore» che unisce uomini di popoli, etnie, religioni, ideologie diverse, nel sacro vincolo del guadagno).
Il convoglio che parte da Gorazdevac per destinazioni serbe, attraversa (scortato dalle camionette della Kfor) le località kossovare senza fermarsi prima del confine, come una meternora con una destinazione prestabilita.

IL DIPLOMA SPARITO
Al baretto dove si incontrano i ragazzi di Gorazdevac, si può bere birra, succo di frutta, e poco altro. Non ci sono tavoli e sedie: si sta in piedi chiacchierando del più e del meno. A volte (soprattutto il sabato sera) si improvvisano danze di gruppo al ritmo di qualche balcanica ballata. E si fumano centinaia di sigarette, che rendono l’ambiente irrespirabile. Al baretto, la notte del capodanno serbo (tra il 12 e il 13 gennaio) abbiamo festeggiato la mezzanotte insieme ai ragazzi del villaggio. Ho chiacchierato a lungo con V. e R., due giovani in gamba e di cuore, che nella loro vita hanno solo avuto la sfortuna di nascere e vivere a Gorazdevac, e di dover subire le conseguenze di una guerra assurda. Ad un certo punto ho detto: «Adesso basta! Non parliamo più di guerra e di cose tristi. È capodanno, proviamo a divertirci!».
La risposta di R. mi ha scosso profondamente: «Ma io voglio parlare con te, Barbara! Qui non si può mai parlare di queste cose con qualcuno che ci faccia riflettere in un altro modo!».
V. è diplomato presso un istituto tecnico ad indirizzo elettronico. Il suo sogno è di fare l’avvocato. «Voglio fare l’avvocato, perché qui a Gorazdevac non c’è nessuno che fa bene questo mestiere, che difende i diritti di questa gente. Chi lo fa, lo fa per interesse. Chiede molti soldi a chi non ce li ha. Io voglio aiutare queste persone».
V. non può iscriversi all’Università, perché il suo diploma è sparito dopo la guerra. È andato a Pristina 3 o 4 volte (rischiando anche la vita), nella sede centrale della sua scuola, per avere informazioni sul suo diploma. Niente da fare: appena capivano che era serbo, gli albanesi in servizio negli uffici, gli dicevano che la persona competente non c’era e che avrebbe dovuto tornare un’altra volta… A nulla è servito l’intervento di Ong inteazionali per recuperarlo. V. ha persino accettato di pagare 100 euro ad un albanese che lavorava nella sua scuola, ma che alla fine si è tirato indietro (per timore della pressione sociale).
La sua carriera è bloccata. Cinque anni di vita, dal 1999 ad oggi, in cui i suoi sogni sono parcheggiati su un pezzo di carta seppellito tra altri, chissà dove. «Ti rendi conto Barbara? Un pezzo di carta… per loro non è niente, per me è tutto! Cosa gli costa spostarlo da là a qui? Cosa se ne fanno loro del mio diploma? Con esso potrei studiare, potrei costruire qualcosa per il mio futuro, ma è questo quello che non vogliono loro!». E poi aggiunge: «Sai, sono stanco di combattere, perché so che quel diploma non lo vedrò mai più».
V. è un ragazzo d’oro, con un grande cuore. Non ha mai torto un capello a nessuno, non ha bruciato case, non le ha saccheggiate.
Mentre V. mi parlava del suo diploma, del suo futuro mozzato dall’odio etnico, mi sono salite le lacrime agli occhi. Cercavo disperatamente dentro di me, qualcosa che potesse trasmettergli un po’ di energia, un po’ di ottimismo, ma niente.
Alla fine, abbiamo alzato i nostri bicchieri di birra e con un sorriso intenso e triste, abbiamo brindato all’amicizia, all’amore, al futuro.
Perché sognare è un diritto di tutti, anche dei giovani serbi di Gorazdevac.

COSA FACCIO QUI?

Il mio stare qui, a volte mi è incomprensibile e mi succede di essere presa da un senso di inutilità che mi paralizza. Non conoscere la lingua (il serbo) mi dispiace davvero tanto, anche se con qualche ragazzo posso comunicare in italiano, inglese e perfino in spagnolo. Con la maggior parte degli abitanti del villaggio cerco di comunicare a gesti, con piccole frasi in serbo che cerco di costruire a poco a poco («Dobar Dan!», «Kako si?», «Sutra idemo u Pec»), ma soprattutto comunico con lo sguardo. Allora il valore della mia presenza qui, mi diventa un po’ più chiaro. Se non altro potrei rappresentare, costituire un possibile «altro» con cui comunicare, essere lo specchio di un mondo che, al di là del check-point, continua ad andare avanti, che non si è fermato nel 1999.
Potrei essere voce di chi, albanese, nonostante il grande dolore per le morti, sarebbe disposto a comunicare con gli abitanti di Gorazdevac, rendendosi conto della assurdità di questa loro prigionia, che coinvolge giovani, anziani, bambini, esseri umani, esattamente uguali a loro, costretti a soffocare tra due check-point la propria vita, a reprimere i propri sogni e il proprio futuro.
Potrei essere un canale di comunicazione per quei giovani serbi che vorrebbero uscire dal circolo vizioso della pressione sociale, che ti obbliga ad evitare ogni contatto con gli albanesi (pena l’essere considerato una spia o un traditore dai tuoi stessi vicini di casa).
Potrei, ma troppe volte prevale il mio senso di impotenza. A volte, quello che riesco a fare è solo piangere insieme alle persone che incontro e che mi fanno partecipe delle loro piccole, grandi difficoltà quotidiane.

Al baretto dove si incontrano i ragazzi di Gorazdevac, si può bere birra, succo di frutta, e poco altro. Non ci sono tavoli e sedie: si sta in piedi chiacchierando del più e del meno. A volte (soprattutto il sabato sera) si improvvisano danze di gruppo al ritmo di qualche balcanica ballata. E si fumano centinaia di sigarette, che rendono l’ambiente irrespirabile. Al baretto, la notte del capodanno serbo (tra il 12 e il 13 gennaio) abbiamo festeggiato la mezzanotte insieme ai ragazzi del villaggio. Ho chiacchierato a lungo con V. e R., due giovani in gamba e di cuore, che nella loro vita hanno solo avuto la sfortuna di nascere e vivere a Gorazdevac, e di dover subire le conseguenze di una guerra assurda. Ad un certo punto ho detto: «Adesso basta! Non parliamo più di guerra e di cose tristi. È capodanno, proviamo a divertirci!».
La risposta di R. mi ha scosso profondamente: «Ma io voglio parlare con te, Barbara! Qui non si può mai parlare di queste cose con qualcuno che ci faccia riflettere in un altro modo!».
V. è diplomato presso un istituto tecnico ad indirizzo elettronico. Il suo sogno è di fare l’avvocato. «Voglio fare l’avvocato, perché qui a Gorazdevac non c’è nessuno che fa bene questo mestiere, che difende i diritti di questa gente. Chi lo fa, lo fa per interesse. Chiede molti soldi a chi non ce li ha. Io voglio aiutare queste persone».
V. non può iscriversi all’Università, perché il suo diploma è sparito dopo la guerra. È andato a Pristina 3 o 4 volte (rischiando anche la vita), nella sede centrale della sua scuola, per avere informazioni sul suo diploma. Niente da fare: appena capivano che era serbo, gli albanesi in servizio negli uffici, gli dicevano che la persona competente non c’era e che avrebbe dovuto tornare un’altra volta… A nulla è servito l’intervento di Ong inteazionali per recuperarlo. V. ha persino accettato di pagare 100 euro ad un albanese che lavorava nella sua scuola, ma che alla fine si è tirato indietro (per timore della pressione sociale).
La sua carriera è bloccata. Cinque anni di vita, dal 1999 ad oggi, in cui i suoi sogni sono parcheggiati su un pezzo di carta seppellito tra altri, chissà dove. «Ti rendi conto Barbara? Un pezzo di carta… per loro non è niente, per me è tutto! Cosa gli costa spostarlo da là a qui? Cosa se ne fanno loro del mio diploma? Con esso potrei studiare, potrei costruire qualcosa per il mio futuro, ma è questo quello che non vogliono loro!». E poi aggiunge: «Sai, sono stanco di combattere, perché so che quel diploma non lo vedrò mai più».
V. è un ragazzo d’oro, con un grande cuore. Non ha mai torto un capello a nessuno, non ha bruciato case, non le ha saccheggiate.
Mentre V. mi parlava del suo diploma, del suo futuro mozzato dall’odio etnico, mi sono salite le lacrime agli occhi. Cercavo disperatamente dentro di me, qualcosa che potesse trasmettergli un po’ di energia, un po’ di ottimismo, ma niente.
Alla fine, abbiamo alzato i nostri bicchieri di birra e con un sorriso intenso e triste, abbiamo brindato all’amicizia, all’amore, al futuro.
Perché sognare è un diritto di tutti, anche dei giovani serbi di Gorazdevac.

COSA FACCIO QUI?
Il mio stare qui, a volte mi è incomprensibile e mi succede di essere presa da un senso di inutilità che mi paralizza. Non conoscere la lingua (il serbo) mi dispiace davvero tanto, anche se con qualche ragazzo posso comunicare in italiano, inglese e perfino in spagnolo. Con la maggior parte degli abitanti del villaggio cerco di comunicare a gesti, con piccole frasi in serbo che cerco di costruire a poco a poco («Dobar Dan!», «Kako si?», «Sutra idemo u Pec»), ma soprattutto comunico con lo sguardo. Allora il valore della mia presenza qui, mi diventa un po’ più chiaro. Se non altro potrei rappresentare, costituire un possibile «altro» con cui comunicare, essere lo specchio di un mondo che, al di là del check-point, continua ad andare avanti, che non si è fermato nel 1999.
Potrei essere voce di chi, albanese, nonostante il grande dolore per le morti, sarebbe disposto a comunicare con gli abitanti di Gorazdevac, rendendosi conto della assurdità di questa loro prigionia, che coinvolge giovani, anziani, bambini, esseri umani, esattamente uguali a loro, costretti a soffocare tra due check-point la propria vita, a reprimere i propri sogni e il proprio futuro.
Potrei essere un canale di comunicazione per quei giovani serbi che vorrebbero uscire dal circolo vizioso della pressione sociale, che ti obbliga ad evitare ogni contatto con gli albanesi (pena l’essere considerato una spia o un traditore dai tuoi stessi vicini di casa).
Potrei, ma troppe volte prevale il mio senso di impotenza. A volte, quello che riesco a fare è solo piangere insieme alle persone che incontro e che mi fanno partecipe delle loro piccole, grandi difficoltà quotidiane.

BOX 1

L’ultimo tuffo di Ivan

«Jebenti Federica», aspettando sotto il sole che Federica arrivi per portare altri ragazzi al centro giovanile «Zoom», che sta in città, mi scappa questa imprecazione colorita più per attaccare discorso che per dir male di lei. Una voce mi corregge dal sedile posteriore della jeep: «Jebenti Federicu».
Sbaglio sempre le declinazioni dei nomi quando parlo serbo. Chi mi corregge vive qui a Gorazdevac, ma è nella nostra auto perché è uno di quei ragazzi che, paura e genitori permettendo, frequenta il centro giovanile.
Se fossimo in Italia non ci sarebbe nulla di male, ma qui siamo Peja-Pec e i serbi, quelli che sono rimasti, vivono chiusi nelle enclave e la loro mobilità è vincolata dalle scorte della Kfor. Da un po’ di tempo però c’è chi rompe «l’assedio» dall’una e dall’altra parte della barricata. Sono i ragazzi del centro giovanile «Zoom», che incominciano a conoscersi gli uni e gli altri al di là dell’etnia d’appartenenza. Mauro e Agron, che lavorano per il «Tavolo Trentino con il Kossovo», cercano di stimolare i ragazzi all’incontro dando forza alle spinte che arrivano dai ragazzi stessi.
L’incontro c’è, magari ancora un po’ freddo ma almeno tutti scoprono che quelli dall’altra parte non sono «tutti bestie» come si dice. I pretesti nascono quasi per caso: il corso di teatro, quello di fotografia, l’alpinismo, un corso di giornalismo e poi i momenti ludici come la settimana bianca o i pic-nic al fiume.
Non è facile incontrarsi: per i serbi è difficile andare in zona albanese, è pericoloso; per gli albanesi sono ancora limpidi i ricordi dei giorni di esodo per essere a proprio agio in un’enclave serba. Ma gli incontri ci sono e quando li vedi e ti ricordi come era qui 4 anni fa quasi non ci credi. Il ragazzo che corregge la mia imprecazione si chiama Ivan, ha 18 anni e una passione per la fotografia che sta coltivando con il corso organizzato dal centro «Zoom» e con le capatine al laboratorio fotografico dello stesso. In paese fa il barbiere ma si lamenta che non ha molti clienti (gli abitanti sono un migliaio) e poi fa il barista alle feste che ogni sabato vengono organizzate in un barettino per rompere la monotonia e far sembrare questo paesino, circondato dall’esercito italiano e rumeno, un posto più normale. Ivan è tacituo e forse nasconde la naturale baldanza che uno ha a quell’età. Quando il caldo si fa forte corre al fiume a fare un tuffo.

Ivan ha fatto il suo ultimo tuffo il 13 agosto 2003. Ivan e un altro ragazzino di dodici anni sono stati uccisi da una scarica di proiettili uscita da dietro un cespuglio. Ivan è morto al fiume due ore prima del nostro appuntamento che lo avrebbe portato a seguire il corso di fotografia assieme ad altri ragazzi serbi e albanesi.
Dall’altra parte del fiume c’è un paese albanese che nel ’99 ha subito la perdita di 35 persone uccise dai fucili dei paramilitari serbi. Questo però non giustifica nulla. Non è stata fatta giustizia solo ancora ingiustizia. Conosco la madre e la zia di Ivan: solamente il pensiero del loro dolore mi opprime mi fa sentire per l’ennesima volta impotente di fronte all’ingiustizia. Preferirei non aver conosciuto Ivan, sua madre, sua zia, il suo villaggio e il Kossovo. Vorrei che Ivan fosse solo una notizia, solo un nome. Ma non è così, qui c’è chi ci prova, chi muore e ormai ci sono dentro anch’io, non posso fare finta di nulla. Rimane l’amaro in bocca per aver visto che si poteva e aver scoperto che c’è chi non vuole. A qualcuno l’odio è funzionale.
Cosa dire agli amici serbi e agli amici albanesi? Domani come oggi i serbi mi sputeranno in faccia le parole di convivenza che ho usato con loro in questi anni. Non posso che subire: in questo momento i buoni propositi sono stati spodestati dal dolore. Ma poi quando la gente si sarà un po’ tranquillizzata magari consegneremo loro la lettera di condoglianze scritta dai ragazzi albanesi che frequentano il centro, perché per loro Ivan era Ivan prima di essere serbo.
Agli amici albanesi, quelli che vivono qui, vicino all’enclave cercherò di dire che l’odio sta distruggendo l’anima del loro popolo che non è più quello forte e generoso che ho conosciuto in passato. Spero solo che a qualcuno venga la voglia di ricominciare e che la pace contagi anche chi non ci crede.
Fa.Be.

Barbara Magalotti




DOSSIER KOSSOVOLe missioni internazionali in Kossovo

Nel Kossovo sono presenti alcune missioni inteazionali sotto l’egida dell’Onu. Ecco, in sintesi, come sono organizzate e quali sono i principali obiettivi.
KFOR – La Kfor (Kosovo Force) è una forza multinazionale di pace a guida Nato, con il compito di stabilire e mantenere la sicurezza e controllare il rispetto degli accordi di pace, in base alla risoluzione Onu 1244. Nel 1999, all’inizio del suo dispiegamento, la Kfor era composta da circa 50.000 uomini. Ora il suo organico dovrebbe essere di circa 26.000 soldati, di 37 nazioni diverse. I soldati italiani sono 2.800. L’area di competenza è divisa in 4 zone, controllate da brigate multinazionali: il Nord-est a guida francese, il Centro a guida britannica, l’Est a guida statunitense e il Sud-ovest a guida italo-tedesca (nel 2002 sono state unificate le due precedenti zone, la Ovest a guida italiana e la Sud a guida tedesca). Il comandante della Kfor è attualmente il generale tedesco Holger Kammerhof, subentrato ad ottobre 2003 all’italiano Fabio Mini.
UNMIK – L’Unmik (United Nation Mission Kosovo) è un’operazione di pace approvata dal Consiglio di sicurezza dell’Onu per la riforma e la ricostruzione del Kossovo e per la preparazione del territorio alle elezioni e ad un’eventuale autonomia. Anche l’Unmik è stata istituita con la risoluzione 1244. Da agosto dello scorso anno, l’Unmik è guidata dall’ex primo ministro finlandese Harri Holkeri ed è composta da circa 3.000 persone. L’Italia vi partecipa con uomini della polizia e della guardia di finanza.
MSU – L’Unità multinazionale specializzata è nata all’interno della Sfor, la missione Nato in Bosnia. Nell’ambito dell’operazione Joint Guardian una parte è stata dislocata in Kossovo, dove agisce nell’ambito della Kfor. Ha tra i suoi compiti principali il controllo del territorio e il mantenimento dell’ordine pubblico. La Msu è una forza comandata e composta in gran parte da carabinieri italiani (circa 270), affiancati da contingenti della gendarmeria francese e della polizia militare estone.

Fabrizio Bettini




DOSSIER IMMIGRAZIONE (0)Introduzione

Perché tanti convegni?

L’ufficio Pastorale Migranti (UPM) è un organismo costituito dall’arcivescovo di Torino, Severino Poletto, il 1° marzo 2001 in sostituzione del servizio «Migranti Caritas», per favorire l’evangelizzazione degli emigrati in casa nostra: così recita lo statuto. In verità l’UPM svolge molteplici attività in favore degli stranieri: accoglienza, informazione, consulenza, sostegno psicologico.
L’UPM collabora con la Regione Piemonte, la Provincia di Torino e i Comuni su progetti specifici, che possono essere cofinanziati. Partecipa a tre cornordinamenti: quello di Caritas e Migrantes nel nord Italia, quello della Caritas sulla «Tratta delle donne immigrate» (prostituzione) e quello europeo «Diritto di vivere in famiglia». Inoltre, in appoggio alla scuola pubblica, svolge corsi di lingua e cultura italiana e, con riguardo alla formazione professionale, si impegna a ricercare opportunità lavorative e a verificare gli inserimenti di donne, vittime della tratta, e di minori soli in tutela.
Ha progetti specifici per donne: ospitalità nottua e accoglienza in case di madri con bambini; lotta contro «la tratta femminile» per sfruttamento sessuale, sia locale che nazionale, con cammini formativi, iniziative di recupero, tutela e inserimento lavorativo in collaborazione con la compagnia San Paolo e la presidenza del Consiglio dei Ministri.
Nel 2001 l’UPM organizza il convegno «Da vittime a cittadine. Dall’illegalità alla cittadinanza», relativo ai problemi delle donne migranti, cadute nella «tratta».
Due anni dopo, il 15 marzo 2003, l’UPM promuove un nuovo convegno: «Le donne migranti si confrontano con la città». L’incontro può considerarsi una tappa successiva a quello del 2001, però con una novità significativa…

L’ Alma Mater è un Centro interculturale di donne, nato nel dicembre 1993 per l’impegno comune di alcune signore italiane e straniere e grazie al sostegno del Comune di Torino, della commissione regionale per «le pari opportunità» e di varie associazioni femminili. Il Centro è gestito dall’associazione «Alma Terra», costituita ad hoc. Si tratta di uno «spazio», dove l’accoglienza della migrante è al primo posto.
Il Centro è il frutto della progettualità e delle aspirazioni di innumerevoli donne che vi hanno lavorato per costruirlo e di molte persone che continuano a lavorarvi condividendo le responsabilità. Molteplici sono le attività e i servizi che mette a disposizione delle donne migranti e non.
Nel convegno del 2001 «Da vittime a cittadine. Dall’illegalità alla cittadinanza» le destinatarie sono state le donne migranti, in particolare africane, vittime della «tratta». Il convegno ha parlato di loro con studiosi ed esperti. Si sono riportati dati quantitativi e qualitativi sui percorsi di «uscita» e sugli «inserimenti lavorativi». Ma al tavolo dei relatori le donne straniere non c’erano. C’erano solo persone delle istituzioni pubbliche e associazioni del volontariato italiano.
È stato espresso un certo rammarico sulla mancata visibilità, a quel convegno, delle donne immigrate.
Ecco quindi il proposito di un nuovo incontro, realizzato nel 2003, dove le donne migranti hanno potuto parlare direttamente di sé, delle loro esigenze e difficoltà, delle loro aspettative e progetti. C’è stato anche un confronto-dibattito con le donne «della città»: le donne delle istituzioni locali, delle associazioni imprenditoriali, del terzo settore e dell’associazionismo… per favorire la conoscenza tra donne di provenienze e storie diverse, ma tutte operanti a Torino.
L’auspicio è di continuare, sul territorio, il dibattito sull’accoglienza, il lavoro, la casa, i servizi, l’integrazione sociale e culturale.
La finalità è di pervenire a una convivenza migliore, più solidale, più consapevole dei reciproci diritti e doveri, più rispettosa dell’identità e delle competenze di ciascuna: premessa necessaria per una società più giusta e per una cultura di pace.

Il presente dossier rilancia i contenuti del convegno di Torino del 2003: contenuti comuni ormai a tutte le città d’Italia.
Antonella Pavan

Antonella Pavan




DOSSIER IMMIGRAZIONE (1)E se non ci fossero loro?

A Torino sono presenti ufficialmente
circa 15 mila donne extracomunitarie:
rappresentano il 39% del totale degli immigrati
e il 2% delle donne torinesi.
Marocchine, somale, camerunesi, nigeriane,
ecuadoriane, filippine, cinesi, ecc.
ma anche dall’Albania, Romania e Ucraina.
Sono impegnate soprattutto nei «lavori di cura».
Però non mancano sorprese.

GRAZIE (NONOSTANTE IL RITARDO)
«Lavoro di cura»: ecco una nuova espressione, entrata di recente nella lingua italiana, per indicare l’occupazione nell’assistere malati, anziani e bambini, oltre che il lavoro domestico. È un’espressione che, come un’eco, risuona in varie lingue e allude ai numerosi lavori delle donne che li esercitano: donne che provengono da tanti paesi diversi, ma accomunate tutte in uno stesso destino…
Oggi non sono puntuali le donne migranti, che giungono all’edificio della Facoltà di teologia di Torino per intervenire al «loro» incontro-dibattito su: «Le donne migranti si confrontano con la città». Il convegno è organizzato dall’ufficio Pastorale dei migranti dell’arcidiocesi di Torino e dall’associazione Alma Terra. Inoltre vi partecipa la Commissione pari opportunità uomo-donna della Regione Piemonte.
Il ritardo si dimentica presto grazie al caloroso saluto iniziale di don Fredo Olivero: «Grazie! Da voi abbiamo imparato tanto. Abbiamo imparato, soprattutto, un modo più sereno di affrontare la vita».

COLPO D’OCCHIO MULTICULTURALE

Funziona un servizio di accoglienza dei bambini. Pertanto le mamme entrano nella sala del convegno libere e rilassate; si salutano con calore nella loro lingua o in italiano e prendono posto vestite con i loro abiti migliori, rigorosamente europei. Vengono da nazioni extraeuropee: Perù, Ecuador, Marocco, Somalia, Nigeria, Camerun, Filippine, Cina… ma anche Albania, Romania ed Ucraina. Sono presenti, per lo più, donne che vivono in Italia già da alcuni anni, di età compresa fra i 25 e 40 anni. Ma intravediamo qualche signora decisamente più anziana.
Ci sarà, infatti, confermato che ultimamente si è registrato un innalzamento dell’età; per cui negli arrivi più recenti si trovano spesso persone di 40-50 anni, venute in Italia per lavorare e mantenere o far studiare i figli. Sono originarie specialmente dell’Est europeo; data l’età, anche se trovano lavoro, sono mal pagate, sfruttate e si esigono da loro tanti altri servizi.
Non vi sono solo addette a «lavori di cura», ma anche commesse, infermiere, cameriere e un’impiegata di banca. Scopriamo che numerose sono laureate all’università nei loro paesi d’origine. Oggi lavorano a Torino come interpreti, traduttrici e mediatrici culturali.
«Mediatrice culturale»: ecco una nuova figura professionale, già da alcuni anni operante in Italia (nelle istituzioni pubbliche, negli uffici per stranieri, nel terzo settore, nell’associazionismo); si va anche diffondendo nelle scuole e ovunque si presentano problemi che esigono una «mediazione» fra le «culture altre», per una buona convivenza.
A questo proposito, molti sono gli extracomunitari già inseriti che, nel tempo libero, si prestano (senza alcun compenso) per servizi di prima accoglienza nei riguardi di altri stranieri. Si va diffondendo pure un’altra forma di volontariato; riguarda mamme extracomunitarie di bambini che vanno a scuola: alcune hanno accolto l’invito di prestare qualche ora alla settimana per aiutare i bambini stranieri (della loro stessa lingua), appena giunti in Italia, a superare le prime difficoltà di inserimento.

“LAVORO DI CURA” MA NON SOLO

Dall’intervento di Mercedes Cáceres, rappresentante del gruppo «lavoro di cura» di Alma Terra, possiamo seguire il processo di integrazione della donna immigrata: dall’iniziale bisogno di lavoro fino alla necessità di riconoscimenti e gratificazioni, che vanno oltre la sopravvivenza economica.
In Italia fenomeni demografici come l’allungamento della vita e il calo delle nascite, uniti al cambiamento del modello familiare tradizionale, con la donna sempre più occupata fuori casa, hanno portato ad un bisogno crescente di delegare ad altre persone l’assistenza di anziani, malati e bambini, nonché i lavori domestici.
Quindi le donne migranti, arrivate nel nostro paese, trovano abbastanza facilmente una prima occupazione nei suddetti settori. Questo offre, nello stesso tempo, anche una possibilità di integrazione, che permette l’apprendimento della lingua, degli usi e dei costumi delle famiglie italiane. In tale contesto spicca l’azione di alcune donne torinesi, che si offrono per insegnare alle neoarrivate a cucinare, ad usare gli elettrodomestici e i detersivi, a gestire quotidianamente casa e famiglia.
Però la sussistenza non è l’unico significato che la donna immigrata vuole dare al suo lavoro. Essa ricerca, in misura più o meno accentuata, la realizzazione personale e professionale, un posto attivo nella società come lavoratrice consapevole dei suoi diritti e doveri.
In particolare: «il lavoro di cura», in un primo momento soluzione immediata del problema economico, si rivela in un secondo tempo un impegno di grande responsabilità, che stimola le persone coinvolte nel loro essere più profondo ed autentico. Aiutare un bambino a crescere, accompagnare un anziano nella sua malattia (spesso fino alla morte), dà alle assistenti la possibilità di contribuire all’armonia di una famiglia, ponendo sempre al centro la persona.
Di conseguenza le «badanti», consce dell’importanza della loro figura professionale e del valore sociale della loro azione, chiedono giustamente il riconoscimento economico, sindacale e curriculare delle proprie prestazioni circa retribuzioni, orari, tempi di riposo e possibilità di avere un figlio senza perdere il posto di lavoro.

LA CRISI INDUSTRIALE DI TORINO

Silvia Avila, sposata con una figlia, laureata in economia e commercio, proviene dall’Ecuador dove lavorava come contabile. A Torino è passata dal lavoro domestico alla ristorazione, alla metalmeccanica e, attualmente, è mediatrice culturale presso l’ufficio Pastorale dei migranti. Da lei apprendiamo che numerose «badanti» spesso hanno una buona cultura (anche a livello universitario); talora conoscono 3 o 4 lingue. Accettano questo tipo di lavoro solo perché sanno che non vi sono altre possibilità.
È quindi comprensibile che, nelle loro richieste, vi sia anche il bisogno di momenti di formazione e qualificazione per sostenere la loro speranza di nuovi progetti di vita. Essenziale è il ruolo delle istituzioni, che dovrebbero offrire delle possibilità, ma senza gravare sulle famiglie datrici di lavoro.
Apprendiamo che in Torino, negli ultimi tre anni, la richiesta di «lavoro di cura» è diminuita. Questo è dovuto alla crisi industriale del capoluogo piemontese e alle conseguenti minori disponibilità economiche delle famiglie, che spesso si vedono costrette a ridurre gli orari o a rinunciare all’aiuto esterno, cercando soluzioni più economiche anche per gli anziani.
D’altro canto, aumentano, sfortunatamente, le donne giunte con il marito o figli per il ricongiungimento familiare, poi abbandonate dal coniuge, unica fonte di sostentamento: si ritrovano sole, senza lavoro e senza casa, costrette spesso a rimandare i bambini dai parenti al paese d’origine.
Frequenti sono i casi di maltrattamento, ed enorme è la necessità di ascolto e di sostegno psicologico, oltre all’aiuto materiale.

CERCARE CAPIRE SAPERE

«Vi ho creati da un uomo e da una donna e ho fatto di voi dei popoli e delle tribù perché vi conosciate…».
Con questo versetto del Corano si è concluso l’intervento di Fatima Khallouk. Proveniente dal Marocco, laurea in biochimica conseguita in Francia e diploma di traduttrice, è particolarmente impegnata nei problemi dell’integrazione e del dialogo interreligioso e culturale. Lavora come consulente aziendale, traduttrice, interprete e collabora con l’Ufficio Stranieri della Cisl e con Radio Torino Popolare.
Abbiamo seguito con attenzione il suo appassionato intervento sul dialogo. Il modo più semplice e il ponte più «corto» per comunicare è capirsi. Ogni migrante porta con sé come unica e non effimera ricchezza la sua cultura, acquisita nelle famiglie e società dove è vissuto assimilando storia, tradizioni, letteratura, arte, musica, religione. Nell’incontro con l’«altro» tali valori possono unire senza scontri; ciascuno può mantenere la sua identità e, nello stesso tempo, arricchire la propria personalità.
Cercare i punti comuni delle rispettive religioni, trovare altri terreni d’incontro socioculturali, capire le differenze e promuovere il mutuo rispetto… sono tutti elementi che devono affiancare la politica di integrazione giuridica degli stranieri. Naturalmente, alla base di tutto, ci deve essere l’istruzione, poiché solo una solida base culturale rende il dialogo e l’accordo sui valori fondamentali facile e naturale.
Lingua, lavoro, casa, servizi sociali
Aisha Asli, marocchina di 40 anni, laureata in giurisprudenza, nubile, fa parte del settore che si occupa di accoglienza nell’ufficio della Pastorale dei migranti. Con entusiasmo ci illustra il suo lavoro, che considera gratificante perché aiuta ed orienta gli altri e, contemporaneamente, costituisce un continuo arricchimento culturale per se stessa. L’accoglienza è il punto di riferimento fondamentale, quando lo straniero arriva. Non è un puro inserimento di dati nel computer, ma un accompagnamento della persona nei suoi primi passi in Italia.
I problemi più urgenti da affrontare sono tre: l’apprendimento della lingua (senza la quale uno straniero non può muoversi), la ricerca di lavoro e la sistemazione abitativa. Poi viene l’orientamento nei servizi sociali, scolastici, sanitari e amministrativi, unito all’ascolto dei problemi e delle sofferenze con il sostegno psicologico di esperti, quando è necessario.
Vivienne Maradas, della Repubblica Centrafricana, sposata con due figli, diplomata, si occupa in particolare del problema della casa. È un settore dove l’immigrato, debole e vulnerabile sotto tutti gli aspetti, finisce in molti casi per essere sfruttato dai proprietari di alloggi o da altri immigrati che subaffittano. Le difficoltà maggiori sono rappresentate dai prezzi troppo alti, dalla diffidenza razziale e dalla disinformazione sulle possibilità esistenti e sui diritti in materia di contratti.
Si lamenta, soprattutto, la mancanza di cornordinamento fra i servizi che danno informazioni; inoltre dovrebbero essere più accessibili nelle lingue d’origine e sempre aggioati. Con campagne di sensibilizzazione rivolte ai proprietari si dovrebbe reperire alloggi a prezzi calmierati, garantendo i proprietari.
Una parziale risposta al problema «casa» arriva nell’intervento di Malvina Cagna, rappresentante del Cicsene (Centro italiano di collaborazione per lo sviluppo edilizio delle nazioni emergenti), che dal 1990 ha iniziato un monitoraggio habitat sul territorio nell’ambito di un progetto nazionale.
Poiché lo straniero sta diventando appetibile nel mercato della casa, le agenzie immobiliari hanno intrapreso degli studi sull’argomento. Oltre a forme di sfruttamento abitativo e di subaffitto (senza che gli stessi inquilini ne siano al corrente), ci sono i problemi di discriminazione, a seconda dei paesi di provenienza, e si sta allargando la forbice tra qualità e prezzo.
Occorrono finanziamenti per la ristrutturazione e riqualificazione degli alloggi (che comportano minori guadagni), oltre a fondi di garanzia e bonus di entrata per i proprietari che accettano di affittare a stranieri e che necessitano di assicurazioni per il futuro. Con un occhio alle sanzioni previste dalle leggi sulla discriminazione razziale, è necessario un cornordinamento efficace dei servizi di informazione e controllo e regolarità dei contratti.

IN UFFICIO E DIETRO UNO SPORTELLO

Varie donne migranti, da qualche anno in Italia, superati i primi problemi, hanno la capacità di guardare oltre lo stretto orizzonte di un lavoro domestico. A Torino si parla già di «secondo inserimento» o «seconda fase», con progetti per venire incontro a queste esigenze.
Grace Bassey, nigeriana, da 14 anni nel nostro paese, ci illustra il progetto «Dedalo». In tale ambito il Ministero degli Affari Sociali, anni fa, promosse dei corsi (comprendenti settimane di stage) sia per l’avviamento ad un lavoro autonomo, in collaborazione con la Conferesercenti, sia per l’inserimento in uffici pubblici.
Recentemente 12 donne extracomunitarie fanno parte del personale bancario, grazie al progetto «Percorsi contro l’esclusione sociale e per l’autonomia delle donne», nato dalla collaborazione fra banche, ministeri e Alma Mater.
Ce lo riferisce Rosine Noubissie, giunta in Italia 8 anni fa dal Camerun per studiare. Prima ha lavorato come badante e babysitter per mantenersi agli studi; poi è riuscita ad entrare nei «Percorsi contro l’esclusione», superando tests attitudinali e di lingua italiana, per essere ammessa ad un corso di formazione comprendente stages pratici con i clienti. Grazie al permesso di soggiorno per studi universitari e alla convenzione fra università e banche, oggi lavora presso l’Istituto San Paolo con un contratto part-time di 4 ore per 5 giorni settimanali. Così può continuare gli studi.
Rosine parla dei suoi rapporti con i colleghi e clienti, di come abbia dovuto superare la paura di sbagliare e di essere giudicata secondo il colore della sua pelle. Ma è entusiasta della sua esperienza e si augura che altre donne possano usufruire di tali possibilità.

DARE VOCE A CHI NON HA VOCE

Enrica Recanati, responsabile del servizio Drop in del Gruppo Abele, si definisce nel contesto del Convegno «una voce fuori del coro». Infatti si occupa di migranti in tali situazioni dove, probabilmente, l’integrazione nel contesto italiano non avverrà mai.
Si tratta di donne (e uomini) provenienti dall’Est europeo (Romania, specialmente), ma anche dalla Nigeria e Sierra Leone: spesso non più giovanissime e con problemi di salute, chiedono asilo politico.
Il servizio loro dato è «a bassa soglia», cioè facilmente accessibile: una prima accoglienza come a persone senza dimora, affinché il vivere in strada si arresti, si prevengano i rischi di barbonizzazione e si tuteli la salute
Innanzitutto si mira a soddisfare i bisogni primari (igiene, vestiario e accoglienza nottua) delle persone sprovviste di permesso di soggiorno, che non possono cercare lavoro e casa e alle quali sono negati tutti i diritti. Ci sono anche donne laureate, senza riconoscimento del titolo di studio, che fanno la fila per lavarsi, avere un pasto caldo o un vestito pulito.
Hanno bisogno di ricevere informazioni sui servizi cittadini e sulle leggi che le riguardano, ma soprattutto di socializzare, di essere considerate persone, essere ascoltate e stimolate, perché (nonostante tutto) mettano in campo le proprie risorse e non cadano in una condizione di disagio cronicizzato.
Si cerca di riempire il loro tempo vuoto con varie attività, quali un laboratorio teatrale, un esercizio culturale, un giornalino interno, corsi di italiano e computer. Allora emergono le risorse e potenzialità personali, che strada e disagi hanno intorpidito. Con l’accoglienza e le relazioni personali può avvenire quel cambiamento che porta donne (che sembravano non chiedere nulla) ad esprimere un forte bisogno di riconoscimento della propria dignità.
E questa «voce fuori del coro» ha una nota di speranza.

Silvia Perotti




DOSSIER IMMIGRAZIONE (2)Donne cinesi

Fra gli extracomunitari, i cinesi di Torino costituiscono un caso speciale. I primi cinesi (esclusivamente uomini) vi giunsero prima della seconda guerra mondiale con l’intenzione di lavorare per qualche anno e poi ritornare in patria con una discreta disponibilità economica. Ma i guadagni, ottenuti con la vendita ambulante e abusiva di cravatte (ricordate il richiamo «clavatte, clavatte»?), furono molto scarsi.
Alla fine della guerra pochissimi ritornarono in Cina per rivedere i famigliari, di cui non avevano più notizie. Gli altri, che non avevano neppure la possibilità di affrontare le spese del viaggio, rimasero a Torino. Continuarono le loro vendite, estendendole però ad articoli di pelletteria che incominciarono a produrre a basso costo.
I piccoli imprenditori cinesi, con l’aumento della produzione, assunsero delle ragazze italiane. Furono costretti ad imparare la nostra lingua; nacquero i primi scambi culturali; si incominciò a superare le diffidenze reciproche, grazie anche a qualche matrimonio misto.
Negli anni ’50 si ebbe un nuovo flusso migratorio di cinesi, che potevano contare sull’aiuto dei connazionali, già residenti, per casa e lavoro. Nel 1960 arrivarono le prime donne cinesi, per unirsi ai rispettivi mariti. La disponibilità economica permise a molti di intraprendere attività nel campo della ristorazione e, in seguito, della confezione di abbigliamento.
A scoltiamo Ni Tianxiu o «Stella», per semplificare, come subito dice lei stessa. Laureata in Cina, mediatrice culturale di Alma Mater e vicepresidente dell’Associazione culturale cinese, Stella dichiara: «Attualmente a Torino vivono un migliaio di donne cinesi; lavorano industriosamente, partecipano allo sviluppo sociale dell’Italia e contribuiscono a colorare la cultura globale multietnica. Tranquille, silenziose e chiuse, rispetto ad altre comunità quasi non si notano. Come mai?».
Stella si scusa per la sua pronuncia; legge la sua relazione con difficoltà. Ma gli occhi le brillano; è vivacissima, allegra e contenta di essere fra noi. Il suo riso spontaneo ci conquista.
La lingua italiana, per le donne cinesi, è il più grande ostacolo all’inserirsi ed integrarsi nella nostra vita. La difficoltà di «convertire» la mente da un linguaggio di ideogrammi ad uno alfabetico scoraggia, a tal punto che le donne rinunciano alla vita sociale, si isolano e preferiscono lavorare come api operose e lasciare ai loro figli la possibilità di andare a scuola.
Spesso i figli (anche bambini) fanno da interpreti alle loro mamme nei negozi, negli uffici pubblici e ovunque sia necessario (persino nei consultori medici).
L’altro grave problema delle cinesi è la pianificazione familiare. In Cina, con l’imposizione della politica del «figlio unico» del 1979, le coppie hanno evitato di avere più di un figlio; però in Italia la maggioranza ne ha più di due. Spesso le donne cinesi si trovano nuovamente incinte 3-4 mesi dopo il parto.
A queste situazioni non facili contribuiscono varie cause; con un po’ di aiuto e collaborazione dall’esterno potrebbero essere scongiurate. Purtroppo alcune credenze, comunicate da altre donne (per esempio, l’impossibilità di rimanere incinta durante il puerperio), prevalgono sulle informazioni corrette, sovente completamente assenti. Non conoscendo la lingua, tante cinesi rinunciano alle visite specialistiche e alle cure: sarebbe per loro troppo complicato andare a Milano (dove operano ginecologhe e ostetriche cinesi), oppure attendere a lungo a Torino per avere un appuntamento con un’interprete a disposizione.
Inoltre l’obbedienza-sottomissione al marito (anche se non usa il preservativo) e la mentalità tradizionale (secondo la quale i maschi sono l’orgoglio della famiglia) fanno sì che le donne cerchino di avere figli maschi anche se hanno già partorito tante volte e la loro vita è pesantissima. Spesso sono addirittura i genitori del marito a decidere per un’altra gravidanza…
Così le donne cinesi sono costrette a stare in casa ad accudire i figli, perdendo ogni opportunità di imparare. Hanno un grande bisogno di aiuto.
Per loro Stella chiede a voce alta la possibilità di imparare l’italiano, con metodi bilinguistici semplici ed efficaci, nonché la presenza di mediatrici cinesi nelle istituzioni.

Silvia Perotti




DOSSIER IMMIGRAZIONE (3)Insieme per la casa

E’ UN PROGETTO che ha come scopo la ricerca di soluzioni possibili per affrontare il grave problema abitativo a Torino. La filosofia dell’intervento si ispira alle riflessioni maturate nel corso del convegno «La chiesa dialoga con la città», voluto dal cardinale Severino Poletto nel giugno del 2000.
Tante sono le problematiche che Torino deve affrontare: è necessario che tutte le forze sane della città sappiano mettersi in dialogo per trovare soluzioni rispettose delle persone, della storia, della tradizione culturale, dell’economia e società civile nel suo complesso.
I due uffici dell’arcidiocesi, Caritas diocesana e Pastorale del lavoro, si sono concentrati sul disagio abitativo, soprattutto focalizzando nel mercato della locazione una delle esperienze necessitanti un rilancio significativo, a beneficio delle persone e dell’economia del territorio. Il cammino di riflessione ed elaborazione è stato lungo; ma ha consentito di introdurre positive sinergie sia tra enti di ispirazione ecclesiale sia tra altre realtà: Ufficio Pastorale Migranti, Società San Vincenzo De Paoli, gruppi di volontariato vincenziano, Il Riparo, Federabitazione Confcornoperative Piemonte, Sicet, Patronato provinciale Acli, Cicsene e Cooperativa sociale «Tenda Servizi», ivi compreso il Comune di Torino (concedendo tra l’altro il patrocinio), la Compagnia San Paolo, la Fondazione CRT.
L’unità di intenti intende rilanciare il mercato locativo, offrendo ai proprietari seri incentivi e garanzie, coniugando azioni di accompagnamento degli inquilini. Il fabbisogno di case spinge ad ipotizzare misure più incisive e radicali, poiché la domanda si presenta con volti diversi e richiede risposte diversificate.
A Torino infatti non abbiamo solo gli sfrattati, i casi sociali, le fasce deboli, ma anche nuove forme di emergenza abitativa: e, cioè, quella relativa alle giovani coppie, alle donne sole e con bambini, a giovani famiglie, agli anziani, agli immigrati; tutte persone che regolarmente lavorano e che necessitano di una casa. La città ha il dovere di occuparsene.

L’iniziativa «Insieme per la casa» renderà possibile l’utilizzo di nuovi strumenti, oltre a quelli già sperimentati dal Centro Servizi per la locazione foiti dal Comune di Torino. Gli strumenti offerti da «Insieme per la casa» sono:
1. fondo di garanzia per eventuali morosità da parte degli inquilini;
2. assicurazione in caso di danni causati all’alloggio per mal comportamento dell’inquilino;
3. disponibilità di alloggi «transitori», utilizzabili per situazioni di emergenza e/o sfratto.
Inoltre «Insieme per la casa» assicura:
– accompagnamento nel dialogo e nei rapporti con inquilini, amministratori e condomini;
– accompagnamento ed assistenza tecnica per lo svolgimento di pratiche presso gli uffici pubblici;
– assistenza per contratti di locazione e compravendita;
– reperibilità di operatori per il confronto su questioni tecniche;
– monitoraggio continuo delle persone prese in carico dal progetto con visite domiciliari.
Il progetto nel primo semestre di attività ha inserito circa 60 famiglie, ma tantissime sono le richieste, in lista d’attesa, di persone italiane e straniere.

Vuoi aiutarci?
Sei un proprietario, hai un amico che ha un alloggio vuoto, sei un agente immobiliare? Contattaci. Senza alcun impegno, ti illustreremo nei dettagli tutte le garanzie che siamo in grado di offrirti.
I nostri recapiti sono:
• Comitato tecnico gestionale / Cicsene 011/74.12.435; cicsene@cicsene.org
• Cooperativa sociale «Tenda Servizi»
insiemeperlacasa@libero.it
Wally Falchi

Wally Falchi




DOSSIER TRANSIBERIANA (1):”Transiberiana”

La ferrovia più lunga del mondo

TRANSIBERIANA

Pensata fin dal 1857, iniziata nel 1881, terminata dopo una ventina di anni,
essa congiunge l’Europa all’Asia. La sua costruzione è costata lacrime e sangue, segnando profondamente la storia della «Grande Madre Russia».

Cosa sarebbe la Russia, la Grande Madre Russia, senza la Siberia? Nessuno, oggi, potrebbe immaginarsi un paese così monco quanto una Russia privata della sua parte orientale. Tutti i territori meridionali del Caucaso e del Centro Asia si sono staccati da Mosca, senza che questa ne abbia avuto a soffrire culturalmente; la cicatrice generata dalla secessione di Ucraina, Bielorussia, repubbliche baltiche si è oramai rimarginata, ma per la Siberia è un altro discorso.
La Siberia rappresenta per la Russia (e quindi anche per l’Europa), oltre che un forziere economico di inesauribile ricchezza, l’unico collegamento diretto con l’Asia.
Nel 1918 il poeta Alexandr Bloch, riconoscendo il carattere asiatico della rivoluzione d’ottobre per la spontaneità con cui questa si era compiuta, anticipava il movimento scitista, che nel 1921 definiva la cultura russa «non soltanto occidentale, ma anche orientale; non soltanto europea, ma anche asiatica e addirittura non europea, ma eurasiatica».

LA CONQUISTA DELL’EST
Per secoli gli zar hanno cercato il modo per annettersi l’immenso territorio a est degli Urali, ma le steppe desolate, gli acquitrini infestati dalle zanzare, il clima estremo e le numerose tribù ostili a ogni forma di assoggettamento, rappresentavano ostacoli pressoché insormontabili.
Per evitare disastrose e costosissime campagne militari, la casa regnante di San Pietroburgo escogitò un espediente: i servi della gleba che volevano liberarsi dal giogo della servitù, avrebbero potuto farlo trasferendosi nelle terre orientali coltivando tanta terra quanta ne riuscivano a bonificare.
A questi contadini ben presto si aggiunsero prigionieri politici e comuni. Lentamente, chilometro dopo chilometro, la massa umana si spostò sempre più a oriente, seguita a debita distanza dall’amministrazione zarista, che fondava città e centri di posta nelle zone già colonizzate, allargando i confini dell’impero sino a lambire i territori settentrionali della Cina.
Perché il controllo russo fosse efficace e sufficientemente protettivo verso i cittadini che accettavano di trasferirsi a est, c’era bisogno di collettività autosufficienti e militarmente forti. Vennero quindi incoraggiate le comunità di cosacchi, a cui vennero date in concessione terre per invogliarli a emigrare stabilmente sempre più a oriente.
In questo modo il potere centrale otteneva diversi obiettivi, tutti a lui funzionali: diminuendo la pressione demografica a occidente, si permetteva la coltivazione di appezzamenti di terreno sempre più vasti, liberandosi nel contempo della fastidiosa presenza di cosacchi, allergici a ogni forma di potere che fosse troppo presente nella loro vita.
Inoltre, la colonizzazione di terre fino ad allora abitate da popolazioni considerate rozze e incivili, arginava ogni eventuale straripamento cinese verso settentrione e, soprattutto, permetteva di sfruttare le immense ricchezze del sottosuolo siberiano per rimpinguare i forzieri imperiali.

CORSA A OSTACOLI
Ma per omogeneizzare questa immensa fetta di territorio, occorreva che tutti gli avamposti fossero collegati con la capitale: nel 1857 venne commissionato un primo progetto per la costruzione di una ferrovia. I costi proibitivi, le difficoltà naturali da superare, l’alto impiego di mezzi e uomini e, non ultimo, la riottosità dei cosacchi nel temere (a ragione) un controllo dell’amministrazione centrale sui loro villaggi e la conseguente perdita di potere autonomista, accantonarono temporaneamente ogni piano di sviluppo.
Solo nel 1873, con l’inaugurazione della Compagnia ferroviaria degli Urali, che collegava il confine europeo della Russia con Mosca, il progetto di una linea ferrata che continuasse ininterrottamente fino al Pacifico, dove nel 1860 era stata fondata Vladivostok, divenne sempre più pressante e concreto.
Per otto anni si studiò attentamente quale percorso seguire, ostacoli naturali da superare e in quali città la ferrovia avrebbe dovuto passare. Gli invei gelidi delle regioni poste troppo a nord avrebbero sbriciolato l’acciaio dei binari, rendendo la via impraticabile per la maggior parte dell’anno; passare attraverso le foreste siberiane, dove il clima era più mite, era altrettanto impossibile: sarebbero occorsi decenni solo per aprire una strettornia lungo la quale posare le traversine. Alla fine si decise che il treno sarebbe corso lungo la tradizionale via invernale percorsa dalle slitte, lungo i confini meridionali della Siberia.
Il percorso transitava a pochi chilometri dalla frontiera cinese ed era quindi vulnerabile, ma aveva il pregio di essere praticamente già tracciato e percorribile tutto l’anno.
I lavori iniziarono contemporaneamente da Vladivostok e da Mosca nel 1881, sotto il regno di Alessandro iii, salito al trono dopo l’assassinio del padre, lo stesso anno, da parte del movimento liberal-anarchico Narodnaija Volia (volontà popolare).
Il finanziamento concesso agli ingegneri era talmente ridotto che, nonostante il traffico fosse ancora estremamente limitato, i binari non sopportarono a lungo il peso dei convogli e diversi ponti, costruiti interamente in legno per risparmiare, crollarono durante il primo inverno.
Scoraggiato dalle continue interruzioni e dalla voragine finanziaria che si stava creando nel bilancio statale, Alessandro iii decise di fermare i lavori, mantenendo in vita solo quei tratti più facilmente agibili. La via verso il Pacifico era comunque aperta, seppur non nella sua totalità.
Fu lo zar Nicola ii che, volendo creare una Russia forte e egemonica, capì l’importanza nevralgica che le ferrovie stavano assumendo nel mondo economico e politico del tempo. Il Giappone già incombeva minacciando i possedimenti orientali zaristi e una probabile guerra poteva essere vinta solo accelerando la mobilitazione di migliaia di soldati verso il fronte orientale. Dando fondo alle casse della nazione, nel 1904 i vari segmenti della Transiberiana vennero finalmente uniti.
Sebbene il completamento della ferrovia non servì a Nicola ii per vincere la guerra scoppiata nel 1905 contro l’impero giapponese, l’opera fu celebrata come la definitiva vittoria della scienza dell’uomo sulla natura, dei positivisti sui romantici.

RIVOLUZIONE SUI BINARI
La Transiberiana fu anche la chiave di volta per la nascita del movimento marxista russo. La sua progettazione e realizzazione, con il contributo di urbanizzazione e industrializzazione che ne sarebbe seguito, servì nel 1883 a Georgij Plehanov, fondatore, con Vera Zasulic, Lev Dejc e Pavel Aksel’rod, del gruppo marxista Liberazione del Lavoro, a preconizzare la trasformazione socialista della Russia attraverso il capitalismo.
Forti di questa alterazione sociale, i marxisti entrarono nell’arena politica russa negando ai contadini l’esclusività di una possibile rivoluzione, conferita loro dal movimento social-anarchico Narodnaija Volia.
Plehanov, infatti, come del resto i futuri rivoluzionari bolscevichi, non credeva che le campagne potessero rivoltarsi contro il potere zarista a causa del profondo tradizionalismo che caratterizzava lo spirito rurale russo. Il pregiudizio non era infondato: già nel 1874 i narodniki, che avevano molto seguito tra gli studenti, pensando che i tempi fossero maturi, spedirono migliaia di universitari nelle campagne per aizzare i contadini contro lo zar. La rivolta terminò ancor prima di iniziare, perché gli stessi coltivatori non solo ignorarono l’appello rivoltoso, ma denunciarono e consegnarono gli studenti all’Ohrana, la polizia segreta.
A distanza di tanti anni, abbiamo voluto ripercorrere, per tutti i suoi 10 mila chilometri di lunghezza, la Transiberiana per vedere cosa è mutato nella Russia di oggi. Lo zar è stato spodestato, ma anche il comunismo che a lui si era sostituito, ora non c’è più e al suo posto c’è un governo che cerca faticosamente di ristabilire regole infrante dopo il crollo del vecchio regime e un nuovo modello di mercato e di società che non ha certo dato i risultati promessi e attesi dalla popolazione.

Piergiorgio Pescali




110 anni di missione, fedeli cambiando / Asia

Asia

Fino agli estremi confini (orientali) del mondo

Profetizzata dal beato Allamano: «Io non lo vedrò, ma forse andrete nel Giappone, nella Cina, nel Tibet», l’apertura ufficiale di una missione della Consolata in Asia dovette essere attesa per qualche decennio. Fu il VII Capitolo Generale (1981) ad iniziare a coltivare il sogno asiatico dell’Istituto che vide l’approvazione definitiva sei anni più tardi, nel Capitolo del 1987. La destinazione non fu il Giappone, né tanto meno la Cina o il Tibet, ma la Corea del Sud, alla volta della quale i primi quattro missionari, tutti giovanissimi (il più “anziano” aveva solo 35 anni) e provenienti da aree culturali diverse, partirono il 18 gennaio 1988. Inutile dire che dietro l’apertura in Corea aleggiava il sogno missionario della Cina, un desiderio destinato a rimanere tale fino ad oggi a causa degli insormontabili problemi di ordine politico e burocratico.
L’avventura asiatica rappresentava per l’Istituto una nuova frontiera missionaria dopo quella africana (a partire dal 1902, in Kenya) e, dal dopoguerra, latinoamericana. Come le due precedenti esperienze anche questa in Estremo Oriente era caratterizzata da alcuni tratti distintivi che individuavano l’originalità della nuova missione. Innanzitutto la dimensione di dialogo e di incontro. Avvicinarsi al mondo culturale asiatico significava farsi prossimi di tradizioni religiose molto più antiche della nostra e, quindi, da trattare con assoluto rispetto e con profondo atteggiamento di ascolto. In Corea si è voluto seguire questo stile di missione, dedicando anni di studio alla difficile (per noi) lingua e alla cultura del posto, un periodo di ambientamento che ha messo a dura prova la pazienza e la resistenza di molti missionari che hanno seguito negli anni le orme dei primi quattro pionieri.
A partire dal 2003, la nostra presenza in Asia si è impreziosita e completata con l’apertura della missione in Mongolia, pensata e concretizzata in collaborazione con le missionarie della Consolata. L’opzione di andare in un paese grande cinque volte l’Italia e con una popolazione complessiva di circa tre milioni di abitanti (di cui poco meno di un terzo vivono nella capitale Ulaan Baatar), a grande maggioranza buddista, va esattamente nella stessa direzione della precedente esperienza coreana.
Ciò che l’Asia grida a gran voce oggi all’Istituto è un qualcosa che appartiene al nostro Dna, ma che sovente tendiamo a dimenticare: noi siamo per i non cristiani. Così ci ha voluti il fondatore, ma così deve essere in ogni caso chiunque si professa missionario ad gentes. Attraverso la loro esperienza quotidiana, fatta spesso di testimonianza isolata e silenziosa, i nostri missionari ci richiamano all’essenza della nostra vocazione.
Vivere la novità
Ciò ha fatto sì che oggi in Asia si punti a proporre uno stile differente di missione, che non sia centrata soprattutto sulle opere, quanto sull’incontro con le persone. È la gente, soprattutto i poveri, con la sua quotidianità e le sue esigenze, a dare il passo e il tempo della nostra presenza là. Più che le strutture vengono favoriti i momenti di incontro, accoglienza e scambio vicendevole di doni culturali. L’ospitalità e l’ascolto diventano allora le parole chiave di una missione che vuole essere nuova.
Inutile dire che questo stile di evangelizzazione fondato su ciò che è piccolo e fragile, come può esserlo il nostro esporci al dialogo con l’altro, richiama anche un altro punto fondante del nostro carisma: la santità di vita. La missione in Asia passa oggi attraverso la scelta di una spiritualità forte come via preferenziale della missione, nell’essere, in altri termini, dei veri contemplativi in azione.
Dietro l’angolo il sogno cinese continua a fare capolino. Sono i nostri stessi confratelli impegnati in Asia a invitare con fermezza l’Istituto a fare una scelta radicale per il continente dove più numerosi sono i non-cristiani. La Cina, col suo miliardo e mezzo di abitanti rappresenta una frontiera che non può non essere presa in considerazione. Il Capitolo dovrà quindi avere tanto coraggio e anche molto equilibrio nel valutare le possibilità che il nostro Istituto ha di lanciarsi in una nuova missione di questo calibro. A prima vista, in un’analisi della realtà basata rigidamente su calcoli di natura umana, molto consiglierebbe di lasciare perdere. Bisogna però lasciare che lo Spirito soffi, è lui che da sempre spinge i missionari ad andare a dissotterrare tesori che lui stesso ha precedentemente seminato nel cuore delle culture. E allora, con la preghiera si vedrà!

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




DOSSIER TRANSIBERIANA (2):”Quando si stava peggio”

10 mila km di rimpianti e umori contrastanti

Vecchi e nuovi poveri, delusioni del presente e nostalgie del passato, camaleonti e profittatori di tuo, fobie e degrado ambientale… corrono lungo i binari della Transiberiana.

Afferma Evgenij Evtusenko che «per quanto brutto possa essere il presente, un ritorno al passato sarebbe peggiore». Forse non tutto è così logico in Russia. Durante il tragitto abbiamo incontrato molta più gente che rimpiangeva il kasermensozialismus (socialismo da caserma), come Karl Kautsky aveva definito l’Unione Sovietica, rispetto alla dikayasizn (vita selvaggia), cioè il capitalismo, che pure apprezzava.
E la demokratija? Una parola che viene associata a der’mokratija, dove der’mo in russo significa merda.

TRADIMENTO E RIMPIANTI
Solo a Mosca abbiamo trovato una certa disponibilità per il nuovo corso politico; ma le ferite, impresse da una liberalizzazione senza briglie, sono tuttora aperte e sanguinanti, testimoniate dalle numerose persone che tendono la mano in cerca di qualche copeco. Non solo disoccupati, barboni, ma anche lavoratori che non riescono ad arrivare a fine mese, pensionati che hanno visto i loro introiti volatilizzarsi nel giro di poche settimane.
Ciò che i russi oggi rimpiangono, non è tanto l’ideologia comunista, quanto il sistema sociale da essa creato, che permetteva a tutti di sopravvivere in un «secondo mondo» in cui non esistevano i lussi sfrenati del primo, ma neppure le miserie del terzo.
L’Unione Sovietica dissoltasi nel 1991 era oramai solo l’ombra di quella creata il 30 dicembre 1922 come figlia legittima della rivoluzione d’ottobre. I funzionari del Pcus, trasformatisi da rivoluzionari in burocrati, erano ben lontani dall’idea di incarnare l’esempio di purezza, dedizione e sobrietà lanciato da Lenin e da Trockij. Al contrario, entrare a far parte del Partito comunista era divenuto per molti l’unico modo per emergere dalla vita spartana condotta dai comuni cittadini.
È anche per questo tradimento che molti russi, rimpiangendo l’idea incarnata da Lenin, continuano a far la fila per visitare la salma mummificata nella Krasnaja Ploscad, il cui nome non rispecchia un colore politico, bensì l’antica etimologia slava, per cui krasnaja significa al tempo stesso «bello» e «rosso», perché il rosso era considerato il colore più bello.
A Perm’, 1.300 chilometri da Mosca e prima tappa del nostro viaggio, troviamo parecchie coppie di sposi che, dopo essersi scambiata fedeltà reciproca, vengono ai giardini pubblici Komsomolsky a deporre mazzi di fiori ai piedi della statua di Lenin. Un omaggio che vedremo ripetersi costantemente in tutte le soste successive.
Il pope della cattedrale Petropavlovsky, il primo edificio in mattoni della città, allarga le braccia: «Settant’anni di comunismo pesano ancora sui russi. Ci vorranno ancora due o tre generazioni affinché rinasca la fede».
Girovaghiamo per i quartieri cittadini, che ci mostrano come gli effetti della liberalizzazione, sommati al torpore economico e sociale dell’era brezneviana, abbiano sconvolto la vita dei russi. Attraverso le stradine fangose, ci inoltriamo in questo spaccato di inferno dickensiano, formato da casupole di legno i cui interni, illuminati dalla fioca luce di lampadine a bassa intensità, nascondono drammi umani e storie di emarginazione, testimoniati dalle numerose bottiglie vuote di vodka e birra abbandonate per le vie.
Per molti russi, l’alcolismo è l’unica via di fuga da una società che, nel giro di pochi mesi, ha sostituito le esaltazioni delle conquiste socialiste con i McBurger, le cucine Berloni, la Coca Cola.
Chi si è adattato più facilmente a questa nuova società, sono gli adolescenti. Ne incontriamo alcuni sulla Mockba 69, la motonave che, durante il periodo estivo, compie crociere risalendo il fiume Kama per qualche chilometro. Sono studenti delle secondarie, quasi tutti appartenenti a famiglie benestanti: «Altrimenti come farebbero a pagare libri, rette, gite, mensa e tutti gli altri servizi che prima erano gratuiti?» sentenzia una professoressa. Anziché interessarsi al paesaggio, si dimenano sul ponte dell’imbarcazione al ritmo di musiche rock.
«Che ne è dei canti patriottici e rivoluzionari?» chiedo alla stessa insegnante.
«Quasi scomparsi. Dopo l’indigestione, ci si disintossica con i nuovi gruppi rockettari russi, ma anche con i vostri Eros Ramazzotti, Adriano Celentano, Al Bano e Romina Power, che qui sono un’istituzione».
Il nuovo è meglio del vecchio? In campo musicale lascio trasparire chiaramente i miei dubbi all’educatrice, che si limita a ridere divertita.

RITORNO ALLA FALCE E MARTELLO
Ci congediamo da Perm’ dopo aver fatto provviste di cibarie al mercatino rionale situato in periferia. Qui, ogni giorno, arrivano dalle campagne circostanti decine di contadini con i loro prodotti: frutti di bosco, verdure, mele, pere, carne.
Daigo, mio figlio, ne approfitta per fare incetta di lamponi, fragole, more, mirtilli. Una babuska cerca di intrattenere una conversazione con le poche parole di inglese che conosce, incoraggiata dalle altre compagne. La vita, a quanto ci dice, non è affatto migliorata dopo il dissolvimento di molti kolchoz e sovchoz.
In parte questo peggioramento è dovuto alle rivalità personali tra le varie famiglie, ma è da attribuirsi anche, anzi soprattutto, alla mancanza di iniziativa individuale, ammazzata da decenni di decisioni calate immancabilmente dall’alto, e per la riluttanza dello stato a concedere incentivi e sussidi economici.
Così la falce, scomparsa assieme al martello dagli emblemi nazionali, è tornata nei campi al posto delle mietitrebbiatrici, dei trattori e della meccanizzazione.
È un paradosso, ma i contadini, considerati da tutti i rivoluzionari bolscevichi una classe nemica e per questo i più colpiti da carestie e purghe, si sono rivelati i più ferventi sostenitori dell’economia socialista.

CITTÀ DELLA BACCHETTA MAGICA
A Novosibirsk, che significa Nuova Siberia e della Siberia ne è la capitale, incontriamo padre Corrado Trabucchi, un francescano che nel 1991 è stato tra i primi sacerdoti stranieri a ottenere un visto per la Russia. Con lui abbandoniamo la bella e ricca parte centrale della città, per immergerci nella zona povera, che sorge «al di là» del fiume Ob.
All’improvviso è come essere catapultati in un altro mondo: casermoni fatiscenti, accanto a tuguri costruiti alla bell’e meglio; persino i giochi dei parchi pubblici sono abbandonati; il comune preferisce spendere i pochi soldi a disposizione per rispolverare le parti del centro visitate dai turisti e delegazioni commerciali che intendono investire i loro capitali nella regione.
Insomma, una copertina patinata di rivista che, sfogliandola, rivela le brutture di un sistema andato a catafascio ancora prima di nascere.
«Prima del 1991 i servizi funzionavano, a singhiozzo, ma funzionavano per tutti» dice padre Corrado; poi continua: «Ora, se non ci fossero le organizzazioni di assistenza socio-umanitaria, queste persone sarebbero totalmente abbandonate a se stesse». I francescani, assieme alle suore di Madre Teresa, hanno fondato una scuola per sopperire alle necessità educative delle famiglie più povere del quartiere.
Nell’era sovietica la città era additata come modello culturale e formativo non solo nell’Urss, ma in tutto il mondo. La celeberrima Akademgorogod, la cittadella universitaria, fucina del mondo scientifico e umanistico del paese, ora è solo l’ombra di quella che era 20-30 anni fa.
Ci aggiriamo tra le erbacce e gli edifici abbandonati, ricordando che, proprio tra queste mura, sono state ideate e progettate la perestroijka e la glasnost. Sembrava che Abel Aganbegjian e Tat’iana Zaslavskaja, i teorici del nuovo corso varato da Gorbacev, avessero trovato la zelionaja palochka, la bacchetta magica, che Lev Tolstoj cercava da bambino per donare felicità agli uomini.
Così non è stato, almeno per la stragrande maggioranza dei russi, ma per pochissimi di loro il mondo del bengodi è oggi divenuto una realtà.
Ce ne accorgiamo a Krasnojarsk, all’apparenza città anonima e poco attraente, ma che troviamo invasa da turisti giapponesi, statunitensi e russi, che dal porto fluviale si imbarcano sulle navi che risalgono lo Jeniseij fino a Dudinka, ai limiti del Circolo polare artico russo. Durante le crociere, tra un giro di valzer e l’altro, sgranocchiando tartine ricolme di caviale: i nuovi ricchi russi concludono affari da milioni di euro proprio nei luoghi dove, qualche decennio prima, Lenin e la Krupskaja, esiliati dal regime zarista, pianificavano il futuro di una Russia socialista, che sembrava ancora lontanissima da realizzare.
Assieme a Maxim Popov, primo siberiano «doc» ordinato prete dopo la rivoluzione d’ottobre, visitiamo la città. Dall’alto della collina che la sovrasta, Maxim ci indica alcuni quartieri storici: gli ultimi rimasti dopo che l’amministrazione ha svenduto intere aree, per far posto a lussuosi rioni residenziali.
Oggi anche questa ultima fetta di passato rischia di scomparire, nonostante gli abitanti delle case si siano riuniti e abbiano formato un’associazione per sensibilizzare la città di ciò che sta accadendo. «La crisi economica ha creato ben altri problemi – mi dice sconsolato Maxim -. Centinaia di famiglie rischiano di perdere il loro unico introito, dopo che il partner americano ha ritirato i propri capitali dalla joint-venture con i russi, e ora molti operai verranno licenziati dal kombinat di alluminio, l’industria più importante della zona».
La litania dei licenziamenti continua anche a Irkutsk, dove alloggiamo in un bell’appartamento che appartiene a una coppia di anziani, Valentina e Aleksandr Croitskyi: 4 ampie stanze, zeppe di ricordi e fotografie. Aleksandr era un dirigente delle ferrovie e ha viaggiato per anni per tutta l’Unione Sovietica, continuando a farlo anche dopo il pensionamento, fino a quando la rendita statale si è talmente assottigliata da «imprigionarlo» a Irkutsk.
Lo sgretolamento del sistema socialista e dell’Urss, gli ha rubato quegli unici valori su cui aveva basato la sua esistenza e da allora passa le giornate disteso sul letto, sentendo la radio e aspettando pazientemente che la morte ponga fine alle sue delusioni.

SENZA REGOLE
Da Irkutsk a Listvianka, sul lago Baikal. Lontani migliaia di chilometri dal mare, questo immenso bacino naturale, lungo 630 km, che si inabissa per 1.800 metri nel ventre della terra (il lago più profondo al mondo), è il luogo di villeggiatura preferito dai russi della regione. Peccato che è praticamente impossibile bagnarsi nelle sue acque, che non superano mai i 10 gradi, neppure nei periodi più caldi della breve estate siberiana.
Fatichiamo non poco a trattenere Daigo, che vorrebbe tuffarsi comunque, seguendo l’esempio di pochissimi temerari i quali, dopo essersi imbottiti di vodka, sfidano il gelido lago, nella speranza che si avveri la leggenda, secondo cui, chi si tuffa completamente guadagnerà 25 anni di vita. Noi preferiamo trascorrere la nostra esistenza con qualche raffreddore in meno.
Non ci fidiamo neppure di imitare Nikolai, il capitano del peschereccio che, dopo aver accettato di accompagnarci nel minuscolo villaggio di Bolshoi Koti, preleva direttamente dal Baikal un bicchiere di acqua, trangugiandolo d’un fiato.
Il lago è rinomato per la purezza delle sue acque, tra le meno inquinate al mondo, ma Marina Soboleva, ricercatrice presso la Stazione biomarina locale, non è troppo ottimista sul suo futuro: «Il Baikal ha un tasso di inquinamento inferiore alla media nazionale, ma in alcuni punti abbiamo registrato livelli in forte aumento, nonostante numerose industrie lungo le sue sponde siano state chiuse per improduttività. La Russia è un paese privo di leggi, quindi, ognuno può fare ciò che vuole senza alcun controllo. Solo lo scorso mese abbiamo scoperto una fabbrica che scaricava liquami chimici direttamente nel lago. Il proprietario ci ha assicurato che si è trattato di un errore, ma non ci facciamo illusioni: una volta terminata l’ispezione in corso riprenderà a far defluire i suoi rifiuti».
La mancanza di regole ecologiche è una grande attrazione per chiunque voglia produrre a basso costo e la regione di Irkutsk ha beneficiato di queste «leggerezze». Sergei Kuklin, capo dell’Ufficio stampa per la Russia Centrale, mi sviolina una serie di successi ottenuti dal nuovo governatore della provincia: con la produzione industriale in forte aumento e la disoccupazione in calo, il benessere sociale è in aumento.
Rispondendo alla mia obiezione sul crescente numero di persone che vorrebbero un ritorno al passato, Sergei dice: «Sono solo due tipi di persone che ricordano con nostalgia il passato regime: vecchi e poveri».
Il problema è che il miglioramento della vita per i pochi noviye bogatiye, nuovi ricchi, viene realizzato a scapito dell’ambiente. Le infrastrutture industriali ereditate dall’Urss, già poco rispettose dell’ecosistema, sono oggi una fonte di inquinamento per le foreste siberiane.
Sul treno che da Irkutsk ci porta a Khabarovsk, notiamo che almeno il 10-20% degli alberi presentano evidenti segni di bruciature da piogge acide e la deforestazione avanza a ritmo preoccupante, anche perché nelle campagne la legna è il solo combustibile disponibile per scaldare le isbe nei lunghi e freddi mesi invernali.

OCCHIO AI CINESI!
È Svetlana, ragazza di 22 anni, che ci ospita nella sua casa, a svelarci un’incredibile «verità», in base alla quale tutti i problemi che attanagliano oggi la Russia hanno una sola origine: la Cina. L’influenza cinese è chiaramente presente in questa città posta a soli 25 km dal confine. Numerosi immigrati («per la maggior parte illegali» aggiunge Svetlana), soggioano in città.
In tutti i paesi del mondo c’è una componente xenofoba e razzista, che tende a incolpare un certo gruppo etnico per qualunque cosa accada: in Italia ne fanno le spese i «marocchini», in Giappone i coreani, in Cambogia i vietnamiti. In Russia vengono generalmente presi di mira gli ebrei. A Khabarovsk, in mancanza di ebrei, si preferiscono i cinesi.
La droga? Importata dai cinesi. L’inquinamento dell’Amur? Colpa delle industrie cinesi. Le dispute territoriali ancora in atto? Provocazioni cinesi. L’alcornolismo? Se non ci fossero i cinesi a fabbricare vodka scadente rivendendola a basso prezzo…
Yuri Gubkin, 67 anni, una vita spesa nel Pcus a cercare di far carriera, oggi si è rifatto la fedina politica entrando a far parte dell’amministrazione locale: «Occorre essere chiari: dobbiamo impedire la sinizzazione dell’Estremo Oriente russo. Secondo le statistiche, fra una o due generazioni i russi saranno un’infima minoranza e la Cina pretenderà di inglobare il territorio, come ha già fatto nel 1968. Non vogliamo né essere comandati da Pechino, né ritornare sotto l’ideologia comunista».
Gubkin è la stessa persona che una quindicina di anni fa, durante la fase di distensione tra Urss e Cina, parlava di legami di amicizia indissolubili tra i due popoli.
Ha ragione Evgenij Evtusenko quando scrive che in Russia «non vinceranno né i boia imperialisti, né i conigli liberali; ma i camaleonti».
Nella stupenda e, a prima vista, cosmopolita Vladivostok la fobia dei cinesi sale al parossismo. Yulia, la responsabile del piano dell’hotel in cui alloggio, mi dice: «Qui a Vladivostok tutti odiano i cinesi; ma sappiamo troppo bene che sono loro a portare i soldi. Li odiamo, ma non possiamo fare a meno di loro, per questo può sembrarti che la città abbia un volto cosmopolita che in realtà non ha».
Da parte loro i turisti cinesi non amano i russi: «Troppo villani, maleducati, arroganti. Si capisce fin troppo bene che l’unica cosa a cui sono interessati sono i nostri soldi», afferma Nina, una guida turistica di Pechino, che sta accompagnando un gruppo di 25 connazionali.
Ma li capisco, questi russi. Dopo 7 decenni di propaganda, in cui si metteva in risalto i successi sociali ed economici raggiunti, all’improvviso si sono visti dire che erano stati raggirati e che la vera ricchezza si poteva raggiungere solo seguendo la via capitalista. E loro, da buoni sudditi, si sono riconvertiti, per ritrovarsi, però, invasi da cinesi comunisti, armati di videocamere digitali, vestiti alla moda italiana, alloggiati in alberghi di lusso da 100 dollari a notte.
«Eppure, quando eravamo comunisti anche noi, i cinesi erano i nostri fratelli poveri – commenta sconsolato Sasa, studente in medicina, che sta cercando disperatamente di avviare uno studio privato -. Li vedevo arrivare, comprare tutto ciò che potevano razziare, per poi rivenderlo al di là del confine. Mi facevano pena. Oggi quando vedo un cinese mi vergogno. Penso che siano loro a provar pena per noi. In cosa sbagliamo?».

PANTANO ECONOMICO
Non so cosa rispondere, ma mi viene in mente una frase che mi ha detto padre Myron Effings, primo prete cattolico straniero che nel 1991 ha messo piede nell’Estremo Oriente russo: «Per i russi democrazia significa far ciò che si vuole».
La dimostrazione è la forzata privatizzazione di numerose industrie adibite a servire la popolazione: anzichè migliorare i servizi, è servita a far accumulare profitti. Poco importa se l’industria del gas, svenduta dalla regione a una cordata di neoindustriali russi, abbia improvvisamente interrotto l’erogazione all’intera cittadinanza, perché il comune di Vladivostok non riusciva a pagare gli arretrati. Così in pieno inverno con temperature vicine ai trenta gradi sotto zero, due milioni di persone si sono trovati senza riscaldamento.
«La caduta del comunismo si è portata con sé anche gli ultimi residui di solidarietà umana esistenti nella società» riflette il sudcoreano Lee Jung-hoon, capitano della sezione locale dell’Esercito della Salvezza.
Ed è in questo pantano economico, di cui l’Occidente e gli Stati Uniti in particolare hanno la loro buona parte di colpe, per aver spinto una transizione troppo accelerata, senza preparare le basi su cui poggiare le fondamenta della nuova società, che la Russia sta cercando di non affondare.

Piergiorgio Pescali




DOSSIER TRANSIBERIANA (3):”Tutti in carrozza”

Vastità di orizzonti, familiarità con i viaggiatori, diversità di caratteri… le esperienze umane della traversata da occidente a oriente sono indimenticabili

L’ idea è giunta senza pensarci troppo, prendendo come pretesto il periodico rientro in Giappone di mia moglie Yasuko e nostro figlio Daigo. Così abbiamo deciso di raggiungere il Sol Levante via terra, percorrendo la Transiberiana e spezzando il tragitto in diverse tappe per non affaticare troppo Daigo.
Una volta appreso il nostro piano, amici e conoscenti hanno reagito in modi contrastanti: alcuni, scuotendo la testa, ci ponevano di fronte rischi e incognite a cui andavamo incontro, attraversando da ovest a est un paese imprevedibile come la Russia, arrivando a definirci incoscienti disgraziati nel voler infliggere una «tortura» simile a un bambino innocente. Altri, viceversa, manifestavano entusiasmo, interesse, e un pizzico di bonaria invidia verso noi tre, «coraggiosi» esploratori di mondi tanto diversi e sconosciuti.
E così eccoci qui, nella sconfinata Madre Russia: una definizione che solo chi ne percorre almeno parte del territorio può comprendere nella sua accezione più completa. Percorrere i 10 mila km della Transiberiana non comporta particolari esigenze, se non adattarsi alle lunghe percorrenze su treni che, del resto, sono piuttosto comodi e puliti.
L’intero percorso da Mosca a Vladivostok, lo abbiamo compiuto in sei tappe, fermandoci a Perm’, Novosibirsk, Krasnoyarsk, Irkutsk, Khabarovsk e Vladivostok.
La grande varietà di gente incontrata è sicuramente l’esperienza più interessante e ricca del viaggio e la presenza di bambini, anziché un handicap, si è rivelata una fonte preziosa di conoscenza reciproca.

S ul treno che da Mosca ci porta a Perm’, le famiglie che viaggiano sulla stessa nostra carrozza ci offrono cibo e bevande; molti hanno portato della vodka, ma debbono fare attenzione a non eccedere, perché la provodnik, la conduttrice, Elena Stanislavovna, ha avvertito tutti: «Chi si ubriaca, biglietto o non biglietto, scende immediatamente dal treno!».
Elena si dimostra comunque gentile, nulla a che vedere con le colleghe megere che controllano le entrate della metropolitana di Mosca, città che abbiamo lasciato più che volentieri alle nostre spalle.
Soprattutto, Elena Stanislavovna è una dipendente dello stato e come tale rispetta e fa rispettare il regolamento del Dipartimento dei Trasporti: così, ogni giorno, pulisce le cabine una volta, il corridoio tre volte, il corrimano due volte, quattro volte tira le tendine delle finestre (che noi regolarmente spostiamo per osservare il paesaggio). Infine, per la felicità di Yasuko, mia moglie, pulisce regolarmente i gabinetti.

S ul successivo convoglio che ci ospita, il treno 318 Perm’-Novosibirsk, la provodnik Anna, una ragazza sui 30 anni, magra, tutta nervi e vigore, si è subito dimostrata molto più rude e introversa della collega Elena. E se è vero che è possibile capire dalle sue conduttrici la qualità del treno su cui si viaggia, Anna ne è l’esempio più lampante: capelli biondi raccolti alla bell’e meglio attorno alla nuca, camicetta macchiata, aperta a metà, sino a lasciar intravedere il reggiseno, gonna nera male stirata.
La nostra cabina è una sorta di riflesso di Anna: lenzuola sgualcite e rattoppate, tavolino rotto, specchi scheggiati, vetri sporchi.
Quando ci presentiamo con i biglietti in mano, Anna mostra tutto il suo imbarazzo; guarda e riguarda i nostri documenti, confronta i dati con quelli segnati sui biglietti e alla fine si deve arrendere: sì, tutto in regola, siamo destinati a salire proprio sulla sua carrozza. «Di solito il treno 318 non viene assegnato agli stranieri» ci dirà poi una sua collega.
Il tempo di deporre i bagagli e Daigo è già scomparso; lo troviamo assieme a un gruppo di bambini che fanno a gara nell’offrirgli biscotti, noci, caramelle, susine, sotto lo sguardo divertito dei loro genitori.
Presto anche Anna si addolcisce: i suoi due figli, poco più grandi del nostro, viaggiano assieme a lei e al marito: Daigo diviene assiduo frequentatore del loro scompartimento.
«L’asilo del quartiere dove abitiamo a Mosca ha chiuso e il nuovo, che lo ha sostituito, è troppo caro per noi, così siamo costretti a portarci Volodia e Yulia con noi, avanti e indietro da Mosca a Ulan Ude e viceversa» mi confida, in un momento di calma, aggiungendo che il suo stipendio è comunque tra i più alti che un dipendente statale può sperare di ottenere.
Difficile non rimpiangere i tempi passati, quando si è costretti a vivere in queste condizioni.
Quando arriviamo a Novosibirsk, tutta la carrozza si raduna per salutarci, aiutandoci a portare i bagagli e regalandoci cibarie di vario genere. Anche Anna, la dura, che si è infatuata di Daichan, si lascia andare in un momento di commozione e bacia nostro figlio regalandogli un giocattolino.

A Irkutsk riesco finalmente a salire sul Rossija! Percorrere la Transiberiana senza salire almeno una volta sul leggendario treno rosso, bianco e blu (i colori della bandiera russa), equivarrebbe ad andare a Roma senza vedere il Colosseo o il Vaticano.
Rispetto ai treni presi in precedenza, questo guadagna in pulizia e cura. Inoltre Svetlana Victorovna, la provodnik, sembra già avvezza alle richieste dei turisti stranieri e si dimostra sempre disponibile a esaudirle. Non ha però dimenticato i suoi doveri e passa periodicamente a chiudere le tendine dei finestrini che, altrettanto puntualmente, noi apriamo per osservare il paesaggio.
La Siberia è ormai alle nostre spalle e ha lasciato il posto all’Estremo Oriente russo. La vicinanza del confine cinese si riflette chiaramente nelle facce dei venditori, che incontriamo nelle diverse stazioni e nei prodotti da loro offerti.
Prima di arrivare a Khabarovsk attraversiamo la Regione autonoma ebrea, creata nel 1928 da Stalin, che voleva raggiungere due scopi: dare ai giudei russi una sorta di terra promessa, in cui iniziare una nuova vita, e contrarli entro un’area ben definita, così da poterli facilmente controllare.
Oggi la maggior parte è emigrata in Israele e ciò che rimane a testimoniare la loro presenza sono i caratteri yiddish alla stazione di Birobidzhan, il capoluogo della regione.

L’ ultimo tratto ferroviario, da Khabarovsk a Vladivostok, lo percorriamo sull’Okean, il treno che percorre gli ultimi 760 chilometri di strada ferrata in dodici ore.
Ed eccoci giunti alla fine di questo viaggio lungo la Transiberiana, a 9.289 chilometri da Mosca. Ci allontaniamo osservando con molto rimpianto la magnifica stazione ferroviaria di Vladivostok, fronteggiata dalla più brutta statua di Lenin che abbiamo mai visto. •

Piergiorgio Pescali