DOSSIER KENYASETE DI ACQUA, PACE E GIUSTIZIASapori d’Africa

Studente di legge all’Università cattolica di Milano, l’autore ha passato un mese tra i missionari della Consolata a Gatunga, nella regione del Tharaka.
Ne è tornato affascinato dal mondo ivi scoperto e con una grande fame… d’Africa.

Prima che mi fosse offerta l’opportunità di un’esperienza in questo continente, la parola Africa mi evocava vaghe idee infantili e suggestive fantasie di avventura, natura, mistero.
Invece mi sono trovato a esplorare un paesaggio umano e reale di cui avevo sentito parlare solo in astratto da qualche rara inchiesta televisiva o dai resoconti di alcuni missionari. Ho potuto sperimentare sulla mia pelle odori e sapori dell’Africa vera, concreta, quotidiana; ho incontrato un’umanità sofferente per la povertà di mezzi materiali, ma serena, vitale, giorniosa, ricca di speranze.

UNA METROPOLI TERRIFICANTE
Nairobi è il mio primo bagno d’Africa: un’immersione superficiale, ma già ricca d’impressioni ed emozioni. È una città caotica, squallida, disordinata e altamente inquinata. Le immagini scorrono nella mente come rapidi flashes: grande affollamento per le vie e fiumi di persone accalcate sui marciapiedi o sdraiate su aiuole, un tempo verdi, che compongono un mosaico variopinto; mercatini che s’inseguono in modo confuso, deprimente e poco igienico ai bordi delle strade; pulmini scassati, senza portiere, traboccanti di gente pigiata come spiedini; traffico selvaggio (è «proibito» fermarsi col rosso) e assordante per i clacson che suonano a piacimento; incroci stradali dove le frecce manuali sopperiscono alla mancanza di quelle elettroniche; loculi sovrappopolati nell’estrema periferia…
Eppure, nella sordida miseria della periferia esiste un non so che di pittoresco, che si può assaporare solo passeggiando tra i mercatini, abbandonandosi alla loro atmosfera, ai sapori e odori dell’Africa autentica.
C’è qualcosa di addirittura edificante nella drammaticità di un incontro coi bambini malati di Aids in un centro del Cottolengo: dai loro occhi, sguardi e sorrisi catturo un’incontenibile gioia di vivere, un fuoco che arde impetuoso prima di spegnersi, purtroppo, per sempre.
In una casa-famiglia, invece, vedo rinascere la speranza: qui sono accolti bambini e giovani respinti dalla società e dalla famiglia, che hanno alle spalle vicende terrificanti di schiavitù, tortura, prostituzione, droga o accattonaggio.
Con quell’affetto e amore che non hanno mai ricevuto, essi sono aiutati a imparare un mestiere, per ricostruirsi una nuova vita e avere un futuro almeno decoroso. È confortante vedere come delle ragazze africane si adoperino con passione, per aiutare la propria gente ad aiutarsi a sua volta, a risollevarsi con le proprie forze, senza confidare solo su finanziamenti e aiuti dall’esterno.
L’Africa più nera, l’apice della miseria, la incontro a Giturai, un orrendo quartiere ai margini di Nairobi. Qui un gruppo di volontari di Olgiate Molgora (LC), sotto la guida di padre Luigi Brambilla, superiore dei missionari della Consolata in Kenya, sta lavorando con entusiasmo per costruire una scuola, la chiesa e annesso centro pastorale.
Nell’ambiente circostante la missione la povertà di beni essenziali, igiene, decoro e dignità raggiunge i livelli di un desolante degrado materiale e umano.
Ma Nairobi, in fin dei conti, non è l’Africa vera, è la classica e spaventosa metropoli del terzo mondo, in cui convivono in maniera confusa e contrastante quartieri residenziali esclusivi ed eleganti (come le faraoniche ville di magnati pakistani o indiani), centri affaristici o istituzionali con i loro edifici di rappresentanza, e tutt’intorno, senza confini o separazioni nette, si estendono i terrificanti slums di Nairobi.
Qui i ragazzi di strada ti stanno continuamente appiccicati, mentre cammini sui marciapiedi, nella triste speranza che dalle tasche dell’uomo bianco cada qualcosa, anche solo una briciola di quella ricchezza per loro irraggiungibile.

MAGICA GATUNGA
Lontano dalla capitale, comincio a respirare un altro modo di vivere, una dimensione umana e culturale totalmente diversa, un’Africa più intatta e affascinante: primitive capanne di argilla e paglia, tranquillità e aria sana, serenità e tanta dignità. Dopo cinque ore di viaggio, eccoci a Gatunga, terra arida e infeconda nella regione del Tharaka.
Il paesaggio non ha nulla di spettacolare: solo piccoli arbusti, sterpaglie, spine giganti, qualche solitario baobab e tanta polvere rossa. Ma è il paesaggio umano ad attrarre maggiormente. La gente è ospitale, cordiale, a suo modo persino cerimoniosa con noi estranei.
Ricordo con piacere una serata trascorsa a casa di Eduard, con sua moglie e i loro tre bambini dagli occhi e sorrisi di disarmante dolcezza: seduti su artigianali sgabelli di legno, assistiamo al calare delle tenebre, scherzando e ridendo in una quiete surreale, nel cuore della savana tharakese, nell’Africa più nera che ci sia.
In questa immensa distesa di terra rossa e bruciata, provo per un attimo un’ebbrezza indescrivibile, un condensato di contrastanti sentimenti di grandezza, maestosità, dominio, onnipotenza e, al tempo stesso, di soggezione, precarietà, miseria umana. In totale abbandono alla forza magica di questa terra, penso che soltanto questa sia l’Africa vera.
Al momento di congedarci, i padroni di casa, che tra l’altro vorrebbero condividere con noi il loro frugale pasto, ci sommergono con una valanga di regali (ciotole e mestoli di legno, frutta tropicale, borse, uova, legumi…). Vergognandoci di non potere contraccambiare, siamo costretti ad accettare per non ferire il loro senso di ospitalità.
È cosa abituale incrociarsi per gli stretti sentirneri che conducono al mercato o in aperta savana e salutarsi spontaneamente, scambiarsi due parole o tentare una stentata conversazione, e poi proseguire il cammino più contenti, soddisfatti di un contatto così naturale, libero e intenso; tutte cose a cui da tempo non siamo più abituati.
Ogni tanto, sviati dalla loro pacata e serena giovialità, dall’eleganza e pulizia dei loro vestiti di stampo occidentale, capita di dimenticarsi che ci troviamo in una regione tra le più povere al mondo e con un alto tasso di mortalità. È una povertà resa evidente nella mancanza di beni vitali, come l’acqua, ma meno angosciante di quella vista a Nairobi. Qui è più velata, con meno impatto, celata da una coltre di normale e dignitosa quotidianità.
Sono soprattutto i bambini, con la loro contagiosa allegria a farmi trascurare che qui si vive in scomodi capanni, senz’acqua e senza luce, che quasi si muore di fame, o si vive, finché si vive, di poche e povere cose.
Quanti ne ho visti di bambini, alcuni timorosi, altri decisamente più estroversi, stringersi intorno a me, assalirmi con la loro eccezionale carica di gioia, lieti di vedere qualcosa di diverso e «strano» come me!

COLORI, ODORI, SAPORI
Per completare il panorama umano di questo magico angolo d’Africa, non può mancare uno dei momenti tipici della vita africana: una giornata di mercato. Nel cuore del villaggio di Gatunga la gente arriva a sciami da tutto il Tharaka, dopo aver percorso decine di chilometri a piedi o in bicicletta. Per la gente è un’occasione per scambiarsi un’infinità di notizie e barattare le loro mercanzie.
Per me diventa un ottimo punto di osservazione per penetrare nei molteplici aspetti del macrocosmo africano. Passeggiando come un normale indigeno e abituale avventore, in un’affollatissima e quasi impenetrabile selva di bancarelle, sono impressionato dalla straordinaria varietà di prodotti, dalle numerose specie di frutta tropicale alle verdure, legumi, spezie e tuberi, dalle stuoie, vestiti e tovaglie (celebri le «getambà» made in Gatunga), agli aesi e utensili in ferro e persino sciabole made in China.
È un mercato ricco, vivace, colorato, con l’inconfondibile e indescrivibile sapore d’Africa. M’incuriosiva soprattutto l’enorme assembramento di capre, galline, vacche e asini, di cui non riuscivo ad afferrare il senso. Un missionario mi ha spiegato che gli asini sono i mezzi di trasporto per gli articoli del mercato (come i nostrani carrelli della spesa); capre, galline e vacche costituiscono la merce di scambio per altri articoli necessari alla sopravvivenza.
Già, vivere è il segreto insegnamento di questa terra: riuscire a campare con dignità e apparente serenità in mezzo a una natura che non ti regala niente, a un’immensa distesa di nulla, da cui non ricava che spine e polvere.
Ma mentre mi lascio contagiare dall’atmosfera di festa, mi accorgo di essere diventato io, unico bianco, l’attrazione principale dell’animato mercato. Tutti gli occhi si distolgono dalle usuali occupazioni per soffermarsi ora curiosi, ora magari infastiditi o addirittura intimoriti su di me con mio enorme imbarazzo.
Sono conteso dai venditori che cercano di approfittare del mio evidente disagio per propinarmi l’improponibile, persino una gallina, investendomi con fiumi di belle parole che non capisco. Mi limito, per quieto vivere, a comprare alcune banane, unica merce di facile e immediata utilità.
Continuo impassibile a osservare e inquadrare con la cinepresa, quei volti neri, che a loro volta mi squadrano da dietro le bancarelle e la vita continua a scorrere tranquilla, con la solita quotidianità normale e dignitosa, che pare prevalere, almeno per ora, sulla micidiale povertà.
Anche la vita nei giorni normali ha un suo tratto peculiare. È quello dei bambini di cinque o sei anni, che già guidano con fare sicuro le greggi di mucche o capre lungo i viottoli; delle vecchiette che, logore e curve, si trascinano per chilometri a tutte le ore del giorno, dall’alba al tramonto, sotto pesanti taniche d’acqua sporca, che vanno ad attingere in fiumi dislocati spesso anche a venti chilometri dalle loro case. Sul loro volto è dipinta la fatica, insieme alla serenità derivante dalla consapevolezza di un ineluttabile modo di vivere, radicato ormai da tanto tempo nel loro humus genetico.

L’UNIVERSO MISSIONARIO
Da decine di anni, i missionari si sono inseriti in questo pezzo d’Africa e ne fanno parte a tutti gli effetti. Costituiscono, assieme ai volontari laici che fanno da supporto tecnico o finanziario, l’unica possibile via d’uscita di queste popolazioni dal circolo vizioso del sottosviluppo.
Il loro impegno è orientato a colmare le carenze più gravi, a soddisfare i bisogni più urgenti e fondamentali, a migliorare, a poco a poco, la qualità della vita. Ma al primo posto c’è la formazione di una coscienza umana e cristiana, per costruire comunità autonome e attive.
Non avevo mai avuto a che fare con dei missionari; a Gatunga ho toccato con mano la loro dedizione totale, sincera, appassionata ai problemi della gente. Tra questi il più pressante è certamente quello dell’acqua.
Marimanti, cittadina a un quarto d’ora da Gatunga, diventata da poco capoluogo distrettuale, perciò sede di uffici statali e polizia, ospedale e scuola, è ancora sprovvista d’acqua, comprese le strutture che maggiormente ne hanno bisogno.
È terrificante vedere in quale stato di sporcizia e disagio sia ridotto un sanatorio senza acqua corrente: ho visto coi miei occhi dei bisturi immersi in bacinelle d’acqua mista a sangue, servizi «igienici» (anche se mi è difficile definirli tali) posti all’esterno dell’edificio ospedaliero, che costringono i pazienti a trasferimenti scomodi o difficoltosi, se non impossibili in alcuni casi.
I missionari hanno avviato il progetto di un acquedotto a Marimanti. Il luogo di prelievo, a un paio di chilometri dal paese, è il fiume Kathiga, che con le sue cascate dà vita a una vera oasi nel deserto tharakese. La canalizzazione partirà dalla sommità delle cascate, per sfruttare la caduta senza l’impiego di costose pompe. Unica difficoltà da superare è la distanza, poiché il percorso della tubazione dovrà sormontare una collinetta prima di scendere in città.
Tecnicamente il progetto è fattibile e sicuramente partirà: un gruppo di volontari di Torino e Roma è venuto sul posto, ha tracciato i rilievi e fatto i preventivi sui tempi e costi dell’operazione, per poi lanciare una campagna e avere finanziamenti necessari.
Osservando l’entusiasmo di questi ragazzi, si rinvigorisce la speranza in un futuro migliore per l’Africa. Se di giovani come loro, animati da grandi ideali e capaci di sacrificarsi, ce ne fossero di più, forse l’Africa non sarebbe così lontana.
Gli africani, da parte loro, non stanno a guardare. Nel caso di Marimanti, per esempio, la popolazione si offre per la mano d’opera e organizza le arambé (una specie di lotteria) per raccogliere fondi e contribuire, per quanto è possibile, al progetto dei missionari.
Ma il problema tecnico-finanziario non è tutto. Il lavoro dei missionari è molto più lungo e spinoso, ma decisivo: si tratta di sensibilizzare ed educare la gente al bene comune, un concetto non facile da inculcare dove si lotta per la sopravvivenza.
In un incontro, sempre sul problema dell’acqua, con alcune autorità locali, ho potuto constatare la difficoltà di taluni a comprendere l’utilità collettiva di un bene prezioso come l’acqua, l’importanza che essa riveste per uno sviluppo complessivo della vita. Trapelava, invece, la tendenza a considerarla una possibile ricchezza ad esclusivo vantaggio personale, come può esserlo un gregge di capre.
Tale mentalità potrebbe sfociare in gesti di illegalità, accaparramento e sfruttamento di pochi a danno della comunità, con conseguenze funeste per la civile convivenza. È evidente che il compito dei missionari è complesso e delicato, perennemente in bilico tra ciò che della cultura africana va conservato e valorizzato, perché in armonia col loro carattere e la loro terra, e ciò che deve essere corretto o gradualmente integrato con la modeità.
Se vogliamo veramente aiutare l’Africa, dobbiamo aiutare i missionari.

L’AFRICA CHE MI PORTO DENTRO
Nei miei pellegrinaggi tra missioni e cappelle, dentro e fuori del Tharaka, ho partecipato a decine di celebrazioni religiose, animate da vivaci e interminabili canti, danze e processioni, che conservano sapori ancestrali, un tempo usati forse per oscuri rituali, ma che i missionari hanno saputo trasformare per esprimere la gioia della fede cristiana.
Il rito del matrimonio, soprattutto, mi è sembrato una stupenda vetrina sulle più ataviche tradizioni africane. La messa solenne nella chiesa di Gatunga, prevista per le 9 del mattino, è iniziata rigorosamente 4 ore dopo e si è prolungata per tre altre ore, secondo l’usuale orologio africano, che dilata la dimensione del tempo e della vita.
Finita la funzione, si procede in processione lenta, ma sonoramente andante, dietro agli sposi fino al banchetto nuziale, al quale sono tutti invitati. In un’atmosfera di festa paesana e giorniosa comunione, parenti, amici e conoscenti partecipano alla felicità degli sposi.
Un’intrattenitrice ci stordisce per quasi un’ora. Finalmente (sono circa le cinque del pomeriggio) ha inizio il convito nuziale: prima gli sposi e la parentela, muniti di forchette e coltelli, poi tutti gli altri con le mani. Mentre li guardo mangiare, mi sento un intruso, finché una signora sorridente si avvicina per offrire anche a me la ciotola di riso, condito da una salsa di legumi e un pezzo di carne di gallina. Rifiuto cortesemente, ma apprezzo ancora una volta la calorosa ospitalità.
Al pasto segue il rituale simbolico della consegna dei doni agli sposi e lo scambio della dote tra i rispettivi genitori, che consiste in un buon numero, concordato in precedenza, di capre e galline schiamazzanti.
La giornata si chiude felicemente alle sette, quando d’improvviso le tenebre avvolgono quest’angolo di terra e comincia una lunga notte silenziosa, interrotta dai versi striduli delle scimmie.
Trascorro l’ultima settimana tra battesimi e cresime, al seguito del vescovo di Meru, nelle cappelle sparse per la vasta parrocchia di Gatunga. Sono giorni scanditi dai ritmi, suoni e colori, conditi dall’impareggiabile accoglienza da parte delle varie comunità cristiane, animate tutte da spirito e fervore inimmaginabili nelle nostre asfittiche parrocchie.

I ricordi più vivi di questa lunga esperienza sono proprio i momenti, anzi le ore, fino a tre o quattro, intensamente vissute in mezzo a queste comunità, nelle loro semplici e accoglienti chiese di legno, fango e lamiera, sperdute nella più raggelante miseria umana e ambientale, ma scaldate dal calore della gente, dalla voglia di stare insieme, dagli allegri e orecchiabili canti che accompagnano danze e processioni, dai cocktails entusiasmanti di suoni, colori, voci, sguardi e sorrisi meravigliosi.
Sono questi i sapori d’Africa che mi porto dentro; anzi, sapori di cui ho fame.

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MEZZA CAROTA

Ho vissuto lo slum di Nairobi, come volontario. L’ho vissuto nella sua interezza, camminando tra le capanne di sterco e fango, con l’odore penetrante del liquame, spaventato dalla diossina che un’immensa discarica a cielo aperto, bruciando, consegna ai polmoni degli abitanti. Devastandoli.
Ho giocato con bimbi uguali a quelli di tutto il mondo, con la stessa voglia di correre e crescere, senza sapere che solo uno su dieci di loro diverrà adulto. Sono entrato in capanne dove persone malate riuscivano a sorriderti solo perché tenevi per mano il loro figlio: ho guardato e sono uscito, inutile nella mia impotenza. Sono stato alla messa che padre Luciano celebra nel capannone di legno: quattro ore di funzione e canti, con una potenza tale da farti paura, tanto Dio si avverte vicino. Tanto da farti capire l’assurda inutilità di oro e argento nelle case del Signore.
Sono stato crocifisso da un bambino che ha spezzato la sua carota in due, la sua merenda, forse anche cena, offrendomene metà, solo perché avevo giocato con lui.
A poche centinaia di metri i grattacieli di Nairobi diretti verso il cielo, strade piene di auto, uffici lussuosi: l’Occidente ricco e opulento a violentare la realtà che avevo attorno, la realtà dell’80% del mondo.
Ho vissuto lo slum di Nairobi e sono andato via, troppo vigliacco per restare in quel posto, dove mi era stato regalato il mondo in cambio di niente. Ma le stesse cose ho incontrato in Madagascar, Senegal, Camerun e altri posti, dove la sopravvivenza si cattura giorno dopo giorno, senza mai la certezza di possederla.
Lo slum di Nairobi: ci vivono oltre 2 milioni di persone. Ora hanno deciso di scacciarle. Gigantesche ruspe come demoni cattivi entreranno fra le case, scardineranno i sogni, la voglia di vivere ancora nonostante tutto.
Si dice che un’impresa americana, abbia deciso di costruire sulla collina un complesso per il golf, nobile gioco di nobili persone, che certo non possono avere sotto gli occhi lo spettacolo di una baraccopoli con le sue disgraziate vicende e pestilenziali odori. Già l’anno scorso si parlava di demolizione. In Kenya la terra appartiene interamente allo stato che può decidere in ogni momento la requisizione.

Io non credo a girotondi, appelli, preghiere alle autorità del mondo, per molte delle quali gli esseri umani senza risorse sono poco più che fastidiosi insetti. Non lo credo, anche se sono certamente importanti, come tutte le ribellioni a situazioni simili. Credo invece che colpire gli interessi economici ottenga risultati migliori, perché solo il denaro e l’interesse hanno valore per il potere. Perché allora non sensibilizzare tutte le agenzie di viaggio, boicottare le vacanze in terra kenyana, fino a quando una parte del salato visto d’ingresso non venga destinato alla costruzione di villaggi, strutture di accoglienza, di cura? Perché non far comprendere a chi sogna il sole dorato delle spiagge africane e i safari fra esotici animali, che questo avviene fra il dolore inimmaginabile di milioni di persone, devastate da fame e Aids?
Solo con la consapevolezza di tutti, l’assurda sperequazione nelle condizioni di vita del pianeta potrà, lentamente, ridursi. Solo con la voglia di capire che un semplice caso non ci ha portato a nascere e morire a solo poche ore d’aereo e che, in tale sfida per tutti noi, il piano divino prevede la voglia di lottare per dei fratelli privi di ogni cosa, potremo cercare di cambiare qualcosa.
L’ingiustizia atroce di quello slum non è la sua demolizione, ma la sua esistenza stessa. Anche se fra sterco e fango esiste un’umanità autentica, spesso dimenticata dal quotidiano vivere della nostra parte di mondo. Anche se la mezza carota di quel bambino possedeva e possiede la forza autentica della parola di Cristo, quella parola quasi sempre oscurata dal luccicante spettacolo del nostro tempo.

William Giusti

Angelo Croce




DOSSIER KENYASETE DI ACQUA, PACE E GIUSTIZIATratta di esseri umani

Mete turistiche rinomate a livello internazionale, Malindi, Mombasa e altre città della costa del Kenya sono teatro del sordito commercio di esseri umani, esportati anche… in Italia.

Appena tramonta il sole, su Malindi scende la confusione. Nel resto del paese, la gente si affretta verso casa per godersi il meritato riposo, qui si sveglia per la seconda volta.
Città della costa kenyana, con circa 300 mila abitanti, sfacciatamente ricca, Malindi può essere scambiata facilmente per un distretto a luci rosse di un’affaccendata e spensierata città europea, come Amsterdam.
Quanti turisti, sdraiati sulla spiaggia, fissano il cielo come se stessero aspettando che le stelle portino loro un messaggio da casa! Bambini che si rincorrono sulla sabbia, sotto la pallida luce della luna. Ragazzi scarsamente vestiti, abbordano i turisti con cenni fin troppo allusivi. Le ragazze sfrecciano da una strada all’altra come in pieno giorno. Cosa fanno? Non è difficile scoprirlo.
Come una luce nell’oscurità attira a sé gli insetti, lo splendore di questa città costiera, attira gente da ogni dove. Ricchi turisti fioccano per le vacanze; piccoli e grandi investitori, locali e stranieri, vengono per fare affari… e i poveri si affollano per raccogliere le briciole.
Queste ragazze che si crogiolano nell’affascinante notte di Malindi fanno parte dell’ultimo gruppo. Non hanno soldi per alloggiare in albergo, tanto meno da investire in affari, vengono per vendere se stesse.
Oltre alle donne, ci sono i cosiddetti «ragazzi di spiaggia». Molti di essi vengono da comunità pastorali: non vendono souvenir, né si esibiscono in danze tradizionali per rallegrare la vita nottua degli alberghi. Sono pronti a procurare ragazze su richiesta, a procacciare avventure esotiche a donne straniere o diventare essi stessi un brivido di giovinezza per vecchie e ricche turiste d’oltremare.

LUCCIOLE
Padre Linus Jappani, incaricato del turismo presso la Commissione giustizia e pace della diocesi di Malindi, accusa la povertà che regna lungo la costa e nelle regioni circostanti: è questa che spinge le ragazze alla prostituzione.
Oltre a organizzare la celebrazione della messa in diverse lingue, per i turisti cattolici presenti negli alberghi della costa, padre Jappani ha il compito di togliere tali ragazze dal marciapiede. Il suo lavoro non è un letto di rose, dice: «Convincere le ragazze ad abbandonare tale vita non è un compito facile, perché non ho nulla da offrire come alternativa, una volta uscite dal giro».
Durante l’intero anno in cui egli è uscito per parlare alle ragazze, è inciampato in varie realtà. La maggior parte di queste ragazze non sono del posto, ma vengono dalle regioni intee del Kenya; molte di loro sono state raggirate, ingannate e spinte alla prostituzione. Sono poche le donne che battono tale strada volontariamente per arricchire in fretta; moltissime quelle che ci cadono per inganno.
Suor Lucy Kerubo, della Commissione giustizia e pace della diocesi di Malindi, tenta di chiarire le loro origini: dice che queste ragazze vengono da ambienti poverissimi, per lo più da zone rurali. Solo un quarto di esse sono locali (dell’etnia giriama). Molte vengono da Kitui, nel Kenya orientale, zona famosa per la sua disperata povertà.
È chiaro che qualcuno ci guadagna su questa disperazione, sempre pronto a rifornire il mercato di ragazze per qualsiasi occorrenza. La clientela è abbondante: l’afflusso di turisti lungo la costa, le navi militari straniere che attraccano a Mombasa fanno andare gli affari a gonfie vele.

TRAFFICO UMANO
L’Onu definisce il traffico umano come «reclutare, trasportare, trasferire, alloggiare una persona per mezzo di minacce o uso della forza o altre forme di coercizione, rapimento, frode, inganno, abuso… a scopo di sfruttamento. Lo sfruttamento include la prostituzione altrui, lavoro forzato, schiavitù, rimozione di organi».
I paesi di tutto il mondo hanno sperimentato differenti livelli di traffico di esseri umani. I casi più grandi sono negli Stati Uniti, dove ogni anno, secondo il Catholic Relief Services (Crs), oltre 2 milioni di persone (per lo più donne e bambini) sono oggetto di traffico.
A riguardo dell’Africa, si è parlato di bambini uccisi e i loro organi asportati e venduti al mercato nero internazionale; di ragazze portate in Europa, Americhe e nei paesi asiatici ricchi per essere ridotte a schiave del sesso; di giovani venduti e costretti a lavorare nelle lucrative piantagioni di vari paesi africani; altri sono rapiti per combattere nelle numerose guerre che continuano a insanguinare il continente.
Dopo il quasi collasso dell’economia, la perdita del lavoro e la crescente povertà nelle aree rurali e urbane, molti kenyani sono stati costretti a stili di vita inimmaginabili. I trafficanti ne hanno approfittato, facendo promesse di impieghi ben remunerati e buone condizioni di vita: disperazione e false promesse fanno molte vittime.
Ottenere notizie dettagliate sul traffico umano in Kenya è praticamente impossibile, poiché l’affare è condotto in estrema segretezza. Molte organizzazioni hanno cercato di seguire varie piste; ma molte tracce finivano nel nulla. «Nessuno parla del traffico umano e di prostituzione in piena luce; avere dettagli è un’impresa difficile» dichiara Juma Kamau, un operatore sociale della diocesi di Mombasa.
Tuttavia, i rapporti dell’Associazione delle religiose del Kenya (Aosk), della Commissione giustizia e pace delle diocesi di Malindi e Mombasa, di Solwodi (Solidarity with women in distress, organizzazione ecclesiale che cerca di riabilitare le ragazze dalla prostituzione) hanno raccolto alcune informazioni, ancora alquanto nebulose, sul traffico di donne, specialmente di ragazze.

UNA RETE PERVERSA
La rete coinvolta in questo lurido commercio serpeggia lungo una strada che dalle spiagge penetra nei villaggi rurali del Kenya, anche lontanissimi, come quelli della regione di Kakamega, nell’ovest del paese. Donne mature si recano in questi villaggi e convincono i genitori di ragazze con promesse di impieghi ben pagati nei grandi alberghi della costa.
Gli accordi sono fatti con tale astuzia che le ragazze, spesso analfabete, sono incaricate di gestire modei congegni, difficili da maneggiare con efficienza. Quando questi si rompono, le giovani sono ricattate e costrette ad assumere un altro compito che il datore di lavoro offre loro per ripagare il debito.
Padre Jappani fa capire che le mafie coinvolte nel traffico umano operano da diversi bordelli, camuffati da case residenziali o ville lungo le città costiere di Malindi, Kilifi, Watamu e Mombasa. I proprietari di queste case, spesso locali donne d’affari con connessioni ad alto livello, impiegano buttafuori: guai a chi tenta di ficcarci il naso. «Visitare qualsiasi di questi sospetti bordelli è un suicidio: non se ne ritorna vivi» ammonisce.
Quando non ci sono clienti, le padrone costringono le ragazze a lavorare nei saloni per massaggi o di parrucchieri. Questi luoghi diventano una passerella, per mostrare le ragazze in vendita.
Queste padrone, inoltre, assumono intermediari che vanno sulla spiaggia e accolgono i turisti appena mettono piede negli alberghi, per poi portarli nelle case dove le disperate ragazze sono ormai disposte a tutto per sopravvivere.
La signora Emma Ndonye, della Commissione giustizia e pace di Mombasa crede fermamente che queste ragazze sono state usate per scattare film poografici per il mercato internazionale.
Alcuni turisti, poi, hanno iniziato attività alberghiere in Kenya e attirano i propri concittadini con l’offerta di ragazze. In prossimità della stagione turistica, essi ricorrono a inserzioni pubblicitarie per offerte di lavoro. «Perché arruolano ragazze sprovvedute, invece di esperte intrattenitrici?» domanda la signora Emma. «Di fatto, è evidente perché alcuni di questi turisti, che possiedono case residenziali nel paese, impiegano tanti domestici proprio quando aspettano i visitatori».

PER VIE TRAVERSE
Se un turista vuole una ragazza da portare in patria, gli basta solo sborsare un po’ di denaro e il proprietario di un bordello organizza un frettoloso matrimonio con il personale che lavora nel suo locale.
Così la ragazza finisce sui marciapiedi europei, spesso sotto gli stessi padroni che operano in Kenya. La strada per l’«esportazione» varia a seconda della destinazione. In Italia esse arrivano con voli diretti, oppure sono trasportate furtivamente, passando per l’Egitto. Quando i trafficanti sospettano di essere seguiti, passano per differenti paesi, in modo da far perdere le tracce, prima di atterrare in Italia.
Altre destinazioni sono la Germania e l’Olanda. Una volta nella nuova terra, donne e ragazze sono costrette a prendere nuovi nomi, poiché i trafficanti confiscano i loro documenti. Quelle che riescono a tornare a casa, raccontano atroci storie di sofferenze e agonia.

POVERTÀ E MOLTO PIÙ
La povertà è la causa principale della prostituzione; ma anche i genitori sono colpevoli, negando ai loro figli l’appoggio morale di cui hanno bisogno o, addirittura, spingendoli praticamente sulla strada.
«A volte sono i genitori stessi a comandare ai figli di uscire a procurare cibo e denaro per gli altri membri della famiglia» lamenta la signora Emma. E racconta la storia di una ragazza di Kilifi: fu venduta a 9 anni; tornata a casa dopo la morte della madre per Aids, diventò la concubina del suo genitore; dopo pochi mesi morì anche il padre; dovendo sostenere i suoi fratellini, la ragazzina continuò a prostituirsi, finché la sua tenera vita fu barbaramente stroncata: per il disaccordo sul pagamento con un cliente, fu assassinata e il suo corpo buttato sul ciglio della strada.
Un agiato dentista di un paese europeo, era solito vantarsi con i suoi coetanei di avere quattro giovani sorelle tutte per sé quando era in vacanza a Malindi. La prima ragazza la ottenne dopo aver pagato al padre una certa somma di denaro; poi, aumentando la cifra, ebbe la seconda figlia; quindi la terza e la quarta: tutte con il consenso dello sciagurato genitore.
Nelle città lungo la costa la situazione sembra essere andata fuori controllo: l’ingannevole fascino della ricchezza facile e in fretta ha intrappolato perfino coppie sposate. Pur di fare soldi, alcuni mariti concedono alle mogli di andare a caccia di turisti. A Kilifi capita pure il contrario, racconta la signora Emma; alcune mogli permettono ai mariti di cercarsi una donna facoltosa. «Mariti che portano un’altra donna nel letto matrimoniale è parte delle storie che le donne di etnia mijikenda si raccontano alla fontana» lamenta.

SPERANZA DI RIABILITAZIONE
Il timore che i genitori trasmettano tale modello di vita ai propri figli ha indotto la diocesi di Mombasa a lanciare il progetto Solgidi (Solidarity with girls in distress, emanazione di Solwodi) per aiutare le bambine nate da genitori dediti alla prostituzione, affinché non seguano i loro passi. «Cerchiamo di far sì che i genitori non trascinino i loro figli nel loro sistema di vita notturno, sponsorizzando le ragazze in scuole piuttosto lontano dai loro genitori» dice Agnes Maillu, direttrice del programma Solgidi.
Padre Linus, la cui commissione si occupa della riabilitazione delle ragazze spinte in tale commercio da circostanze fuori del loro controllo, dice che molte ragazze sono disposte a smettere e avere una vita più decente; ma insistono perché, prima di cambiare, si procuri loro un’alternativa per poter sopravvivere. «Qualcosa sta muovendosi – continua padre Linus -. Varie persone ci aiutano in tale riabilitazione, collaborando con la diocesi di Malindi».
Rimane ancora il problema delle ragazze imprigionate in ville e residenze private. La signora Emma ha raccolto varie idee, per liberarle e trovare lavori alternativi, ma per ora è impossibile realizzarle, conclude amaramente: «Tutti sanno che quelle case sono zone proibite».

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«MANI PULITE» MADE IN KENYA

Lo sapevano tutti, ma non si osava parlarne in pubblico. Sui giudici circolavano i nomignoli coloriti: iena imparruccata, bigliettaio, kifagio (spazzino), raccatta palle, sticky fingers (dita adesive), toga puzzolente, mani unte, casello daziale… La gente diceva: «Non sprecare i soldi con gli avvocati. Paga il giudice».
Ma bisogna dare atto al governo di Kibaki, per avere avuto il coraggio di rivelare in pubblico il marciume accumulato negli ultimi 25 anni del regime di Moi.
Le due inchieste in corso, Goldenberg e quella sui giudici corrotti, sono solo una parte delle tragiche vicende occorse in Kenya sin dall’indipendenza, come i casi Ouko, Kaiser, Kariuki, Mboya, Pinto, Muge, Julie Ward, Boyles, Makenzie, Mbai e altri assassinati. E poi scontri tribali, con l’espulsione d’intere popolazioni; torture di Nyayo House, saccheggio degli enti parastatali, banche fatte fallire, elezioni truccate, appalti fraudolenti.
Per fare giustizia sui casi annoverati, occorrerebbe una pletora di costose commissioni. Per il momento, ci si può accontentare di portare avanti quelle in corso, dando atto al governo del coraggio dimostrato per metterle in atto.
Limitandoci alle vicende dei giudici corrotti, riportiamo le «tariffe» medie richieste dai giudici, a partire dai gradi più alti: giudice Corte d’Appello 166.600 euro; giudice dell’Alta Corte 16.600 euro; magistrato ordinario 1.660 euro; impiegato legale 56 euro.
Poi ci sono tariffe per i servizi speciali: 555 euro per la remissione per offese minori; 6 mila per l’assoluzione per offese gravi; 11 mila per il proscioglimento dalla pena capitale. Infine tanti servizi minori: rilascio sotto cauzione (110 euro), rinnovo della cauzione (220 euro); variazione delle condizioni di cauzione (145 euro); agevolazione generale nella sentenza (555 euro); procurare una condanna falsa (890 euro).
Inoltre, magistrati corrotti domandano una tangente del 10-30% per ogni risarcimento monetario concesso in casi d’assicurazione, incidenti ecc. Non tutte le «tangenti» sono basate su soldi contanti. Alcuni domandano favori sessuali, o doni materiali, da qualche bottiglia di whisky a un bue grasso a seconda delle disponibilità del cliente.
Mentre i magistrati di bassa categoria sono pagati una miseria, ossia circa 320 euro al mese, quelli delle alte sfere, che sono anche i più corrotti, vengono adeguatamente rimunerati: un giudice della Corte d’Appello percepisce da 2.100 a 4.750 euro al mese, a seconda della anzianità raggiunta, senza contare altri benefici di cui godono: autovettura con autista, guardia del corpo, alloggio sussidiato con personale di servizio, indennità varie in contanti, assicurazione, ferie generose ecc.
Attualmente, oltre una ventina di magistrati sono stati licenziati o hanno dato le dimissioni. Tuttavia l’operazione «mani pulite made in Kenya» durerà a lungo.
Dulcis in fundo: è appena arrivata la notizia che non tutti i giudici sono succubi alla tentazione delle «mazzette» in contanti. Altri cedono a lusinghe di carattere più umano o perfino sentimentale. Una giovane donna magistrato, mentre conduceva una causa di divorzio, s’invaghiva dell’uomo in questione, tanto da andarvi a coabitare insieme prima ancora del termine del processo. La sentenza fu emanata speditamente.
G. Ferro (da Eldoret, Kenya)

Omwoyo Omwoyo




DOSSIER KENYASete di acqua, pace e giustiziaPace con latte e miele

Le secolari tensioni tra samburu, turkana e pokot sono sfociate in lotte che sfiorano il genocidio.
Con i suoi missionari, mons. Virgilio Pante,
vescovo di Maralal, sta facendo opera
di riconciliazione tra queste popolazioni.

Da sempre i popoli pastori delle savane dell’Africa si rubano il bestiame a vicenda. Gli etnologi spiegano che sono comportamenti normali: si tratterebbe della legge di sopravvivenza dei più forti, della lotta per avere più bestiame, pascoli, acqua, donne e figli.
Non è affatto normale per i missionari, che non possono rassegnarsi alla legge della giungla, perché fa a pugni con il vangelo, che è cultura di pace e uguaglianza tra gli uomini, perdono dei nemici e condivisione delle risorse, di un Dio padre di tutti.

IL LEONE E L’AGNELLO
«La pace è il termometro per capire fino a che punto il vangelo ha messo radici nella cultura e nella storia di un popolo – afferma mons. Pante, da tre anni vescovo di Maralal -. Mi vengono i brividi quando penso a ciò che accadde 10 anni fa in Rwanda, dove hutu e tutsi si scannarono a vicenda, dopo aver celebrato la pasqua insieme.
Grazie a Dio, nella diocesi di Maralal non si registrano tali eccessi di genocidio; tuttavia, specie negli ultimi 15 anni, si sono moltiplicati gli episodi di razzie tra i nostri pastori samburu, turkana e pokot, con numerosi morti e sfollati. Si respira ancora nell’aria paura e diffidenza reciproche. Si sono create vere distanze, anche fisiche, tra le varie etnie, che una volta si mescolavano tra loro mediante i matrimoni».
Una volta razziatori e difensori degli armenti si affrontavano con le lance: al massimo ci scappava qualche ferito; raramente il morto. Oggi, invece, hanno fucili e mitragliatori automatici: in ogni scontro, numerosi sono i morti.
Alle razzie, poi, si aggiunge la vendetta per la morte dei congiunti, con una spirale di odio che provoca autentiche carneficine di vecchi, donne e bambini, costringendo interi villaggi a sfollare dalla propria terra per cercare rifugio in luoghi più protetti. Senza contare che, con le armi, crescono il banditismo e l’insicurezza in tutta la regione.
«Appena nominato vescovo, prima ancora dell’ordinazione episcopale – continua mons. Pante – decisi di visitare in motocicletta il territorio della mia futura diocesi. Mi si stringeva il cuore al vedere villaggi, scuole, chiesette, pascoli completamente abbandonati. Per chilometri non c’era anima viva. Respiravo paura. Il progresso sociale era tornato indietro di 20 anni. Mi domandavo cosa avrei potuto fare, come pastore della chiesa, per guarire quelle ferite e tanto odio. Più che sulle strutture materiali, avrei dovuto puntare sulla costruzione di una controcultura di pace e riconciliazione».
Da quel viaggio mons. Pante trasse ispirazione per lo stemma episcopale: gli venne in mente un passo di Isaia, dove il profeta descrive un messia che porta la pace cosmica: «Il lupo dimorerà assieme all’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto; vitello e leoncello pascoleranno insieme» (Is 11,6-7).
«Disegnai subito un leone sdraiato accanto a un agnello, mentre la colomba dello Spirito della pace aleggia su di loro. E poi la scritta: “A servizio della riconciliazione”» continua il vescovo.
Tre mesi dopo l’ordinazione episcopale, nel territorio della diocesi ci fu un evento eccezionale: nel Samburu Park, una leonessa adottò il cucciolo di gazzella: lo allattava e custodiva come se fosse il proprio figlio. I cristiani ne rimasero fortemente impressionati: sembrava la realizzazione dello stemma episcopale. Andarono dal vescovo e gli dissero: «Vedi, gli animali della savana si riconciliano; ora toccherà a noi uomini fare altrettanto».

LA MALEDIZIONE DELLE DONNE
Alle orecchie del vescovo quelle parole suonarono come una sfida. Ma che cosa fare? In ogni situazione di tensione, il vescovo accorreva, con la sua motocicletta, per calmare gli animi. Ma le parole non bastavano. Occorrevano gesti concreti. Ma quali? La risposta venne dalle donne.
«Nel maggio del 2003 – continua il vescovo -, mentre celebravo la festa delle donne nella missione di Morijo, alcune mamme samburu si lamentarono perché agli incontri di pace invitavo sempre e solo uomini: perché non coinvolgevo anche loro?».
E suggerirono una sorprendente iniziativa: portare un dono alle donne turkana del villaggio di Marti, rimaste senza latte, perché samburu e pokot avevano rubato tutto il bestiame. Un incontro tra samburu e turkana, in una zona come Marti, dove l’odio tribale si taglia a fette, sembrava una pazzia. «Gli uomini fanno la guerra, ma le donne possono essere strumenti di pace da non sottovalutare» osserva il vescovo.
Dopo essersi autotassate, le donne samburu comprarono due vacche e una decina di capre e le portarono alle donne turkana. Ci fu una grande festa, che ristabilì l’amicizia infranta dai loro uomini. La consegna del dono fu accompagnata da preghiere, benedizioni e una imprecazione: «Chi ruberà questi animali sia maledetto!».
Poco tempo dopo i razziatori, forse pokot, tornarono a Marti e rubarono il bestiame: alcuni furono presi, altri finirono all’ospedale con le pallottole nelle gambe. Vacche e capre furono subito restituite. «La maledizione delle donne mette paura» sorride mons. Pante.

NELLA TANA DEL LEONE
«L’incontro di dialogo e preghiera tra gruppi etnici che si considerano nemici si rivelò efficace per un cammino di riconciliazione – continua il vescovo -. Decidemmo di ripetere l’esperienza a Loteta, con i pokot, l’etnia più ostica, dedita impunemente al banditismo».
Questa popolazione, che vive nella zona infuocata della Rift Valley, è totalmente dimenticata dal governo, isolata dalla vita del paese, senza strade, né pozzi, né scuole, né medicine. Nessuno si azzarda a entrare in quel territorio impenetrabile; neppure la polizia osa inseguire i razziatori: la zona è raggiungibile solo con gli elicotteri.
«Era il mese di luglio 2003 – continua il vescovo -. Insieme a padre Aldo Vettori, siamo scesi nella tana del leone. C’erano con noi anche il commissario e l’ufficiale del distretto: per la prima volta i pokot videro un’autorità governativa.
Con padre Aldo promettemmo di aiutarli, di costruire una scuola, poiché ignoranza e povertà producono violenza. Anche le autorità s’impegnarono (almeno a parole) di fare qualcosa per toglierli dall’isolamento e farli sentire cittadini del Kenya. Quindi abbiamo letto la bibbia, pregato e cantato insieme, senza la celebrazione della messa, dato che i cristiani sono ancora rari.
I pokot ci hanno fatto capire che non avrebbero più attaccato i “nemici”: ma se questi li avessero assaltati, si sarebbero difesi. Non è molto, ma è già un passo avanti».

TURKANA DANZANO CON I POKOT
Il terzo incontro avvenne a Morijo, tra pokot, turkana e samburu. A un certo punto, però, la situazione rischiò di degenerare. Mons. Pante puntò il dito dicendo: «Voi giovani siete quelli che fanno la guerra; non sono i vecchi e le donne. Ora confessatevi a vicenda, tutti insieme».
L’intenzione era che, riconoscendo torti e malefatte reciproche, ne scaturisse una catarsi, una purificazione. Ma dopo poche battute, l’emotività prese il sopravvento: ognuno puntava il dito contro l’altro, finché intervennero gli anziani: «Adesso basta! Vi siete sfogati abbastanza: ora datevi la mano e fate la pace».
Dopo la benedizione da parte degli anziani, i giovani promisero di non usare le armi se non per difesa, facendo questa preghiera: «O Dio, tu vedi cosa stiamo facendo, sei testimone del nostro impegno: devi benedirci. Ma se mancheremo alla promessa, non esitare a colpirci».
La quarta festa di riconciliazione, avvenne all’inizio del 2004, a Barsaloi, dove alcuni mesi prima, di notte, c’era stata una razzia di bestiame. Gli assalitori non si erano limitati a rubare gli animali, ma avevano sparato contro le capanne, col chiaro intento di uccidere la gente che stava dormendo. Per fortuna, a fae le spese furono solo gli arredi delle abitazioni, come zucche e altri recipienti dove i popoli pastori conservano l’acqua e il latte.
«Prima della messa, celebrata all’aperto sotto gli alberi – racconta mons. Pante -, avevo posto sull’altare un contenitore per il latte, crivellato dalle pallottole, e alcuni bossoli vuoti, raccolti dopo quell’assalto. La gente guardava incuriosita. “Questo contenitore e i bossoli sono la prova del nostro peccato – dissi loro -. Voi ne siete testimoni. Giuriamo davanti a Dio che queste cose non le faremo più”. Alla fine della messa abbiamo fatto la cerimonia della pace: ci siamo unti a vicenda sulla fronte con il latte e miele».
I bambini fecero una specie di teatro, descrivendo una razzia: guerrieri nascosti, che avanzano e attaccano il villaggio; donne che piangono, bambini che strillano e fuggono… Finché i piccoli attori si rivolsero ai genitori: «Voi adulti ci volete veramente bene? No! Siete voi che avete fatto queste guerre; noi siamo dovuti scappare dalle scuole e perdere l’insegnamento. Voi avete distrutto la pace, l’ambiente e il nostro futuro: ora ci odiamo a vicenda».
«Ho visto alcune persone che si soffiavano il naso e si asciugavano qualche lacrima: una scena inusuale tra i duri popoli della savana» conclude il vescovo.
E poiché senza cibo non c’è festa, tutto fu concluso con un piatto di riso, un po’ di carne e tè in abbondanza. In lingua samburu non si dice fare festa, ma «mangiare» la festa.
Al ritorno da Barsaloi, il camion che portava a casa i pokot fu fermato a Marti, dove questi, in passato, avevano più volte rubato mucche e pecore ai turkana. Ci fu un momento di paura. Invece, i passeggeri furono fatti scendere e invitati a bere il tè. Poi tutti si misero a ballare. «Rimasi strabiliato. Vedere turkana e pokot danzare insieme fu una scena commovente» racconta padre Aldo, che accompagnava il camion.

ECUMENISMO PRATICO
La quinta festa fu «mangiata» il 23 giugno scorso a Nachola, nella missione di Baragoi, preparata con un lavoro indefesso dai padri Lino Gallina e Aldo Vettori, insieme ai cristiani delle loro missioni. Sotto l’ombra fresca di enormi acacie spinose, vestiti con oamenti tradizionali, oltre 2 mila tra samburu e turkana gareggiavano nelle danze in mezzo a un polverone soffocante. Durante la messa, però, i vari cori cantarono e danzarono più compostamente.
«Più che feste, i nostri sono incontri di preghiera – continua il vescovo -. A Nachola, mescolati ai cattolici (circa la metà), c’erano alcuni protestanti e musulmani, il resto di religione tradizionale: tutti, però, hanno pregato con orazioni spontanee secondo la propria lingua e religione. Sembrava una nuova pentecoste. Lo stesso Dio era invocato con nomi diversi: Nkai, Akuj, Mungu, Allah… E Dio li ascolta tutti. La pace non conosce le divisioni religiose.
Quando arrivò il momento, turkana e samburu si chiesero perdono a vicenda; quindi tutti i presenti furono benedetti con abbondanti aspersioni di latte misto a miele. Tra i presenti c’erano anche alcuni famosi killers, maestri di razzie da tutti temuti. Mi domandavo: “Questi leoni, potranno davvero diventare agnelli? Quanto durerà questa pace? Stiamo facendo teatro? È tutto troppo bello per essere vero”.
Mi aggiustai la mitra di pelle di capra, ricoperta di perline, dono dei cristiani di Baragoi, e feci una breve predica (almeno mi sembrava tale). Le parole mi venivano dal cuore. Dissi che Dio può fare miracoli; che anche se i suoi tempi sono lunghi, il nostro cammino è iniziato e dovrà continuare; che Dio solo può cambiare il nostro cuore di sasso in un cuore di carne; che la nostra speranza di pace non deve mai arrendersi, anche di fronte agli insuccessi».
Dopo la messa ripresero le danze, seguite da discorsi, quasi tutti uguali: «Sarò breve… Oggi è un giorno storico: l’inizio di un’era di pace… Lasciamo che i fucili facciano la ruggine… Interprete, traduci!».
«Tutti dicono che l’incontro di Nachola è stato un successo. I telefoni senza fili ne sparsero la notizia per tutta la savana. Sappiamo che la pace è un cammino lungo, ma stiamo facendo insieme piccoli passi» conclude il vescovo.

PROVANDO E RIPROVANDO
«Dimenticavo che a Nachola non c’erano i pokot, neppure uno. Tutti notarono la loro assenza – riprende mons. Pante -. Una settimana prima, infatti, essi avevano rubato il bestiame a un villaggio samburu del Malaso, nella missione di Morijo».
Era capitato che, all’inizio di giugno, i samburu avevano comprato 4 fucili dai pokot; ma al momento dello scambio gli acquirenti scapparono via senza pagare. Per rifarsi, i pokot rubarono ai samburu alcune vacche, ma senza uccidere nessuno. Il giorno dopo, seguendo le tracce del bestiame, i derubati inseguirono i ladri: nello scontro due samburu rimasero uccisi. Per questo i pokot disertarono la festa di Nachola.
«Parlando di tale assenza con gli anziani – conclude il vescovo -, abbiamo deciso che il prossimo incontro di preghiera e riconciliazione sarà proprio al Malaso, località a 2.400 metri di altitudine, da cui si vede la Rift Valley. Chiameremo i samburu e pokot che si sentono in colpa, perché bisogna mettere il dito dove c’è la piaga; quindi benediremo tutta la vallata dove normalmente vengono nascosti gli animali rubati.
Il risultato non è scontato. Se necessario, tenteremo ancora, sempre nello stesso luogo: a forza di ripetere queste feste qualcosa rimarrà. Se non altro, quelli che vi partecipano tornano a casa con un briciolo di speranza».

Una generazione infame

Monsignore, in passato si parlava di genocidio tra samburu e turkana: è esagerato?

La tradizione di rubarsi il bestiame è molto antica, c’è sempre stata; ma oggi con la presenza di fucili e mitra capitano disastri. Inoltre, qualche politico ha soffiato sulle tensioni etniche, incitando al tribalismo o vendendo armi. Queste vengono dal mondo occidentale: kalashnikov dalla Russia, G3 dalla Germania, M16 dall’America… Anche noi siamo responsabili del disastro.

Sono molte le armi in mano a queste etnie?
Secondo i giornali, i samburu, che sono circa 150 mila, possiedono 16 mila fucili: praticamente uno su 10; ogni famiglia ha uno o due mitra. Ed è un calcolo per difetto. I pokot ne hanno di più; i turkana più dei pokot. Ci sono tre eserciti potenziali.

Sono tutte armi di contrabbando?
Una trentina di anni fa, il governo concesse ad alcuni, pochi in realtà, di avere un fucile per difendere il bestiame dagli attacchi degli scifta (predoni somali). Ma poi si sono armati tutti illegalmente e alcuni giovani hanno cominciato a usare le armi per rubare di tutto e dappertutto: soldi, cibo, vestiti ai turisti, commercianti e missionari.

È così facile procurarsi le armi?
Con 4 mucche si ha un fucile automatico, importato dal Sudan, Uganda, Etiopia o Somalia, tutti paesi belligeranti confinanti col Kenya. Ancora più facile è procurarsi le munizioni: a Eldoret c’è una fabbrica di pallottole, voluta dall’ex presidente Moi.

Il governo non fa nulla per disarmare la popolazione?
Non è facile. Se si usa la forza, la maggioranza nasconde le armi o, più sovente, si ribella, come è capitato alcuni anni fa: due poliziotti sono entrati in un villaggio per requisire le armi, ma sono stati uccisi. Bisognerebbe convincere la gente a rivenderle al governo, dietro un giusto rimborso. Prima, però, il governo dovrebbe dimostrare di essere capace di difendere i propri cittadini, per cui i fucili sarebbero inutili. Ma questo non avviene: raramente la polizia è intervenuta per recuperare il bestiame rubato. È logico, quindi, che la gente cerchi di difendersi da sola.

È ancora rischioso viaggiare nel territorio della tua diocesi?
La situazione è leggermente migliorata. L’attuale prefetto del distretto sembra molto serio: affronta i problemi con forte senso di responsabilità e, quando avviene un furto, manda soldati e poliziotti a indagare, chiede la collaborazione del prefetto dall’altra parte della valle. Da quando è al governo il presidente Kibaki, sembra che ci siano maggiori controlli nel commercio delle armi e più collaborazione da parte delle popolazioni, fino ad ora abbandonate.

Quale futuro?
Quest’anno, tra i samburu, si chiude una generazione e ne inizia una nuova. Un evento che avviene ogni 14 anni. I giovani circoncisi nel 1990 e che quest’anno terminano il loro status di lmuran (guerrieri), entrando nella classe degli adulti, passano alla storia con il nome infamante di lmooli, coloro che calpestano le tradizioni. È la classe che ha avuto le armi e le ha usate male, fino ad uccidersi tra loro per inesperienza nel maneggiarle. L’ho ricordato nella festa celebrata a Nachola e ho augurato alla nuova classe di giovani di diventare una generazione pacifica.

Benedetto Bellesi




DOSSIER KOSSOVOScheda storica

• Storicamente il Kossovo è considerato dai serbi come la culla della loro civiltà e per secoli lo hanno conteso ai turchi. Anche se, dall’altra parte, la presenza albanese nella regione è (secondo alcuni) storicamente provata sin dai tempi degli Illiri. Dal XII fino al XIV secolo il popolo slavo dei serbi occupò progressivamente queste regioni senza espellere la popolazione autoctona. Anche nel 1389, quando la Serbia fu sconfitta nella battaglia di Kossovo Polje contro gli ottomani, c’erano albanesi al suo fianco. Durante i 5 secoli di impero ottomano, il Kossovo è stato una delle quattro unità amministrative albanesi. Dopo la fine della dominazione ottomana, nel 1913 viene spartito tra Serbia, Montenegro e Albania.
• Nel 1878, a Prizren, nel sud del Kossovo, viene fondata la «Lega di Prizren», centro del movimento nazionale di tutti gli albanesi. L’obiettivo principale è la liberazione nazionale di tutti gli albanesi.
• Nel 1881 torna il dominio turco che dura fino al 1912, quando il Kossovo viene affidato alla Serbia dopo la 1.a guerra balcanica.
• Con l’accordo di Versailles il Kossovo e la Macedonia vengono assegnate al Regno jugoslavo, nel periodo che va dal 1919 al 1940, senza interpellare la popolazione in maggioranza macedone e albanese. Gli albanesi, a differenza di altri gruppi etnici, non godono di alcun diritto di minoranza.
• Tra il 1941e il 1943, il Kossovo e la parte occidentale della Macedonia vengono occupate dall’Italia e unite all’Albania. Si istituisce il protettorato italiano e si creano scuole in lingua albanese. Alla fine della 2.a guerra mondiale il Kossovo viene assegnato alla Federazione jugoslava. Con la Costituzione del 1946 diviene una provincia autonoma della Jugoslavia, con un potere di autogoverno.
• Tra il 1946 e il 1966 si vive un periodo di dura repressione per opera della polizia jugoslava comandata dal ministro degli interni Alexander Rankovic. Più di 100 morti, con deportazione di numerosi intellettuali.
• L’autonomia del Kossovo viene ampliata dalla nuova costituzione del 1963 e poi del 1974. Il Kossovo, nella sua qualità di Provincia autonoma, viene riconosciuto come uno dei soggetti costitutivi della Jugoslavia, con una propria costituzione, un proprio governo, parlamento, magistratura, sistema scolastico ed altre istituzioni indipendenti da quelle serbe.
• Nel 1981, morto Tito, ci sono i primi moti indipendentisti, domati con la legge marziale. Il Kossovo chiede di essere riconosciuto come repubblica al pari delle altre.
• Nel 1987 Milosevic prende il potere a Belgrado. Inizia il processo di cancellazione dell’autonomia del Kossovo.
• Una nuova rivolta comincia nel marzo 1989, dopo che Belgrado ha annullato lo status di autonomia. Sciopero ad oltranza di 1.300 minatori albanesi a Trepca, grande complesso minerario del Kossovo. Manifestazioni popolari di solidarietà in tutta la regione. Il 2 luglio il parlamento del Kossovo proclama la «Repubblica Kosova» all’interno della Jugoslavia. Il 5 luglio il parlamento viene sciolto da parte di Belgrado; il 7 settembre il parlamento albanese del Kossovo approva la nuova costituzione della Repubblica. La Serbia chiude la stazione Radio-Tv di Pristina, il quotidiano Rilindja, le scuole albanesi. Migliaia di albanesi sono licenziati o lasciano autonomamente il lavoro presso le ditte statali o legate al potere serbo. Inizia fra gli albanesi un’azione di riconciliazione nazionale che pone le basi per la scelta non-violenta del popolo kossovaro.
• Nel 1991 vengono licenziati tutti gli insegnanti albanesi del Kossovo; inizia l’insegnamento scolastico in lingua albanese nelle scuole parallele; il 10 settembre l’università di Pristina viene chiusa. Dal 26 al 30 settembre si tiene un referendum «clandestino»: l’87,5% della popolazione del Kossovo si esprime a favore della «Repubblica del Kossovo». La nuova Repubblica non riceve riconoscimenti inteazionali, se non da Tirana. Vengono boicottate le elezioni politiche e ne vengono organizzate di autonome.
• Gli albanesi del Kossovo eleggono il 24 maggio 1992, presidente della Repubblica, Ibrahim Rugova, capo della Lega democratica del Kossovo. Primo ministro è Bujar Bukoshi, esiliato in Germania. I kossovari creano una società parallela che gestisce le scuole, la sanità e le attività commerciali e politiche.
• Nel 1995 viene siglato il cessate il fuoco in Bosnia-Erzegovina con la firma degli accordi di Dayton, che non prevedono nessuna soluzione per il Kossovo. Non si contano le violazioni dei diritti umani in Kossovo e le richieste di mediazione internazionale portate avanti da Rugova.
• Nel settembre 1996 il presidente Milosevic firma per la prima volta un accordo con Rugova, con la mediazione della comunità di Sant’Egidio, sull’insegnamento della lingua albanese, fino ad allora boicottato.
• Il 1997 segna il riacuirsi delle tensioni: in gennaio il rettore dell’università di Pristina è gravemente ferito dall’esplosione di un’autobomba e a fine mese la polizia arresta decine di presunti terroristi dell’Esercito di liberazione del Kossovo (Uck). Il 16 dicembre successivo un tribunale serbo condanna per terrorismo 17 albanesi del Kossovo a complessivi 186 anni di prigione. La tensione sale.
• Il 28 febbraio 1998 unità serbe compiono un’azione nella zona di Drenica, assediando la casa di Adem Jashari, leader ideologico e fondatore dell’Uck, provocando 80 morti fra i civili albanesi. Inizia una fortissima repressione in tutta la regione. La polizia e l’esercito attaccano numerosi villaggi nelle zone centrali, una repressione che continua fino a giugno e provoca più di 300 morti. Il 22 marzo viene rieletto il presidente e il parlamento del Kossovo. È confermato Ibrahim Rugova e l’Ldk alla guida della Repubblica del Kossovo. Il 15 maggio, su pressione americana, Milosevic incontra per la prima volta Rugova per intavolare trattative dirette. Lo stesso giorno decreta un embargo interno contro il Kossovo. Alla fine di maggio viene attaccata la prima città, Decan. Quindicimila profughi si rifugiano in Albania, quasi quarantamila in altre città del Kossovo. La Nato svolge una serie di manovre per scoraggiare la violenza. A metà giugno Milosevic incontra il presidente russo Eltsin a Mosca, il quale scongiura un intervento della Nato. Sembra ripetersi lo scenario della guerra in Bosnia.
Gli attacchi serbi alla popolazione civile albanese continuano, anche l’Uck, seppur in misura minore, compie azioni contro i civili. Durante l’estate l’Uck avvia un’intensa attività di guerriglia in tutto il Kossovo. La reazione serba non si fa attendere e alla fine di settembre, il numero di albanesi vittime degli attacchi serbi ha superato il migliaio. Oltre 250 villaggi sono inabitabili, mentre più di 400.000 albanesi si sono rifugiati dove possono. La nonviolenza sembra aver esaurito la propria forza propulsiva e contenitiva allo stesso tempo, con l’apparizione pubblica degli aderenti all’Uck.
Il mediatore Holbrooke strappa a Milosevic, dopo tutta la serie dei tentennamenti della comunità internazionale che minaccia l’intervento armato, il ritiro nelle caserme della polizia serba e l’avvio di negoziati partendo dall’inammissibilità delle richieste kossovare di ottenere l’indipendenza. Una missione di 2.000 osservatori dell’Osce monitorerà le varie operazioni che dovranno portare alle elezioni del 1999, il rispetto dei diritti umani, il ritiro dell’esercito serbo nelle caserme e il ritorno dei profughi nelle proprie case.
• Il 15 gennaio del 1999, 45 civili albanesi vengono massacrati a Racak (strage contestata dai serbi che la considerano una montatura). I giorni successivi il procuratore del Tribunale penale internazionale, Louise Arbour, che indaga sul massacro, viene respinto alla frontiera serba. Le autorità di Belgrado ordinano l’espulsione del capo dei «verificatori» Osce William Walker che, recandosi sul posto, ha accusato le forze serbe di responsabilità del massacro. Il 29 gennaio i ministri degli esteri del Gruppo di contatto lanciano un’ultimatum politico ai governanti serbi e ai leader kossovari, per trovare un accordo sulla «sostanziale autonomia» del Kossovo. Il Gruppo di contatto convoca per il 6 febbraio a Rambouillet, vicino a Parigi, una Conferenza internazionale. I negoziati dovranno concludersi entro 7 giorni. Il 23 febbraio scaduto il nuovo ultimatum senza aver raggiunto un accordo, i ministri del Gruppo di contatto stilano la lista dei punti di accordo raggiunti che dovrebbe poi essere adottata quale punto di partenza di una nuova conferenza che si svolgerà a Parigi a partire dal 15 marzo. L’8 marzo i dirigenti militari dell’Uck autorizzano la firma dell’accordo di pace raggiunto a Rambouillet che la delegazione albanese firma il 18 marzo con l’accordo sull’autonomia del Kossovo, i serbi restano fermi sulla loro intransigenza. Il Gruppo di contatto sospende i lavori della Conferenza per alcuni giorni per concedere ai serbi di ritornare sulle loro decisioni. Il 23 marzo risultano fallite tutte le trattative e il 24 alle ore 20 la forza multinazionale sferra l’attacco sul territorio della Serbia. In Kossovo dopo il ritiro di tutti gli osservatori inteazionali i gruppi paramilitari serbi la fanno da padrona, numerose sono le stragi e l’espulsione di circa un milione di albanesi che si rifugiano per lo più in Albania, Macedonia ma anche Montenegro. Finalmente l’8 giugno viene raggiunto un accordo di pace: cessano i bombardamenti.
Il 18 giugno 1999 le forze Nato entrano in Kossovo e con loro rientrano anche i profughi albanesi. Parallelamente le forze di polizia e dell’esercito jugoslavo si ritirano fuori dai confini amministrativi del Kossovo.
Migliaia di serbi lasciano la regione, chi rimane subisce la vendetta. I serbi iniziano a vivere protetti dalle forze di sicurezza inteazionali. Viene insediata un’amministrazione internazionale Unmik che deve amministrare la regione passando gradualmente i poteri ad un’amministrazione locale fino alla definizione dello status del Kossovo.
In settembre l’Uck consegna ufficialmente le armi (anche se molti hanno dubbi sulla reale smilitarizzazione) e si trasforma in Tmk («Truppe di protezione del Kossovo») con compiti di protezione civile.
E dopo la guerra del 1999…
• 2000 – A ottobre il partito di Rugova, la Lega democratica, vince le elezioni amministrative.
• 2001 – A novembre si tengono le prime elezioni parlamentari. Vince il partito di Rugova.
• 2003 – Il 14 ottobre a Vienna primi colloqui tra Pristina e Belgrado dalla fine della guerra. Ma nel paese la situazione è ancora molto precaria con la comunità serba oggetto costantemente di violenze e di violazione dei diritti umani. Decine i serbi uccisi e feriti dalla fine della guerra.
• 2004 – A marzo ci sono disordini ed incidenti,
(a cura di Fabrizio Bettini)

Fabrizio Bettini




DOSSIER KOSSOVOScheda geopolitica

Status giuridico: il Kossovo (Kosovo i Metohia per l’etnia serba e Kosova per l’etnia albanese) è una delle due province della Serbia (l’altra è la Vojvodina), stato questo che fa parte della ex Federazione Jugoslava, dal 4 febbraio 2003 «Confederazione delle Repubbliche di Serbia e Montenegro». La provincia del Kossovo confina direttamente con Serbia, Montenegro, Albania e Macedonia. Dal 1999 è un protettorato delle Nazioni Unite.
Superficie: 11.000 kmq. (come l’Abruzzo) e una popolazione di circa 2.100.000 abitanti, di cui circa il 90% di etnia albanese (di religione musulmana con piccola minoranza cattolica), l’8% di etnia serba (di religione cristiano-ortodossa), il 2% è costituito da turchi, macedoni, rom.
Lingue: albanese, serbo, turco, bosniaco, gorano.
Religioni: musulmani, ortodossi, cattolici.
Capitale: Pristina (200.000 abitanti).
Partiti politici: Ldk, Lega democratica del Kossovo, di Ibrahim Rugova, attuale presidente; Pdk, Partito democratico del Kossovo, di Asim Thaci, ex comandante generale dell’Uck; Aak, Alleanza per il futuro del Kossovo, di Ramus Aradinaj, ex comandante Uck della regione di Paja; tutti questi partiti sono albanesi.
Economia: è la più povera della ex Jugoslavia, anche se sul territorio ci sono risorse minerarie di rilievo. Attualmente si basa su 2 cespiti: le rimesse dall’estero e gli investimenti delle organizzazioni umanitarie.
I tassi di natalità e mortalità infantile sono i più elevati in Europa: più del 50% della popolazione ha meno di 20 anni e l’età media è di 24 anni.

Fabrizio Bettini




DOSSIER KOSSOVONel bus dei kossovari

Da Peja-Pec (Kossovo) a Rovereto (Italia)

Un viaggio sulle strade di Kossovo,
Albania e Italia diventa un’occasione per guardare al recente passato.
E cercare di immaginare un possibile futuro.

È presto quando arrivo davanti all’agenzia viaggi da dove dovrebbe partire l’autobus. L’appuntamento è per le sei meno dieci: arrivo puntuale ma non c’è nessuno, solo un signore con giacca, pantaloni scuri e camicia nera. Vestito comodo per viaggiare, penso io.
Dopo un quarto d’ora si parte, ma da Peja siamo solo in tre passeggeri. Da qualche parte salirà qualcun altro e un altro autobus arriverà da Pristina. L’albanese non lo parlo bene e lo capisco meno, ma questo è sufficiente per le formalità: «Dove vai, dove ti fermi, sei italiano?». C’è anche un uomo che parla italiano.
Intanto siamo diretti verso Prizren e riconosco posti e tratti di una strada percorsa tante volte, tre anni fa. Alla periferia di Peja una casa serba che avevo fotografato per documentae lo stato alla padrona che era scappata è ora utilizzata come deposito di bottiglie di birra o altre bibite. Poi c’è il cimitero albanese curato e con tombe nuove e quello serbo integro, ma abbandonato. La visione di insieme è più normale rispetto ai miei ricordi. Ora ci sono i tetti sulle case, cioè il telo rosso d’emergenza è stato sostituito dalle tegole. C’è poi Ljubenic, dove sono state uccise 60 persone e ora c’è un monumento a ricordarle; un altro villaggio più avanti era stato bombardato nel ’98 dall’aviazione serba ora è, alla vista, totalmente ricostruito.
Arriviamo a Decan, anche qui monumenti e un paio di passeggeri. Arriviamo a Gjakova, non prima di aver passato la zona industriale in parte bombardata e ancora abbandonata. La stazione dei bus a Gjakova è di fronte alla caserma del contingente italiano, negli spazi di una ex caserma serba.
Un ragazzo saluta un uomo più anziano e un bambino. Si allontanano su una macchina con targa tedesca, probabilmente dono del figlio immigrato. Compro del burek e del pane per il viaggio: non spendo molto e mi pare di aver fatto un affarone.
Si riparte. Altro paesaggio noto, reso più normale dall’avvenuta ricostruzione. Le casette a schiera costruite dal regime per accogliere serbi nella regione e tentare di serbizzare il Kossovo ora come tre anni fa sono abitate da albanesi, risparmiate dal fuoco vendicatore. Passiamo poi da un paese (di cui non ricordo il nome); c’è un deposito di gas bombardato dalla Nato tale e quale a come lo ricordavo. Vedo l’imboccatura della strada per Suva Reka, ma non ho rimpianti per non essere stato anche da quelle parti a trovare i vecchi amici. In cuor mio so che, a breve, sarò di nuovo qui.
Più avanti ricordo le vigne, un albergo abitato da gente senza casa che oggi è vuoto (tutti hanno un loro tetto ora). Dove 4 anni fa (quando percorsi la prima volta questa strada) c’era ancora un monumento ai partigiani e al Bratsvo iedinstvo (fratellanza e unità), le corone di fiori per le vittime albanesi di una strage avvenuta durante i bombardamenti sono diventate un monumento che ha preso il posto di quello vecchio.
Siamo ormai a Prizren, ma non si passa dal centro, quindi non posso apprezzare la bellezza di questa città che ricordo bella. Altra sosta: arrivano quelli da Pristina. Siamo ancora pochi, forse una quindicina. Si parte.
Poco fuori dalla città ci si ferma per fare acquisti, poi di nuovo in marcia e vedo la frontiera di Morini, che era il segno della fuga albanese e che tanto triste era nei telegiornali e nei filmati dei nostri volontari e tanto era giorniosa quando, il 20 giugno del 1999, anch’io la attraversai sulle tracce di quei profughi che tornavano a casa. Passare quella frontiera voleva dire la fine di un incubo.
La parte che era stata occupata dai serbi ora non fa più paura anche se un poliziotto internazionale bulgaro parla serbo.
Il trattamento da parte della polizia Unmik e di quella internazionale non è però tanto educato. Ci fanno scendere tutti e ci mettono in fila. Un poliziotto tedesco guarda i nostri documenti e analizza minuziosamente i visti tedeschi sui documenti dei miei compagni di viaggio. Quando arriva a me, mi chiede il permesso di soggiorno. Prontamente, rispondo: «Sono italiano: non mi serve il permesso di soggiorno».
Passa oltre e controlla particolarmente due ragazzi. Uno viene fermato: pare che utilizzasse un passaporto non suo. Un altro ragazzo è tartassato un po’. Alla fine, si parte verso i controlli della polizia albanese; siamo uno in meno.

ALLA FRONTIERA ALBANESE

Alla frontiera albanese ci sono lavori in corso e la strada è dissestata. Ci vengono dati i cartellini per il «visto»: il risultato è che io con il passaporto italiano pago 10 euro, quelli col passaporto Unmik o jugoslavo nulla e quelli con il travel document tedesco due e mezzo.
Dei bambini che vendono sigarette salgono sull’autobus, sono molto insistenti e vengono cacciati a malo modo. Ciò nonostante continuano a sostare nei pressi del mezzo, finché non arrivano altri potenziali clienti.
Passiamo oltre e l’Albania si presenta povera e triste come la ricordavo, ma forse la stagione, il verde o il tempo mi fanno pensare che in qualche cosa sia migliorata. Ci sono i bunker e il paesaggio duro, pastori e contadini che falciano l’erba, vecchie case malandate e un container con una croce rossa dipinta sui lati è diventato un baracchino dove si vendono bibite e altri generi di conforto.
Kukes appare brutta, ma forse meglio di 4 anni fa. Stanno facendo lavori di consolidamento sulla strada. Lo scheletro di una fabbrica o di una miniera domina la città come allora. Cerco le tracce dei campi profughi ma non riesco a ricordare o ad individuare la loro ubicazione. Mi colpisce una scritta che inneggia all’Uck, forse lì dal tempo del soggiorno dei kossovari.
Avanti il paesaggio albanese ha la costante dei bunker disseminati sul territorio all’epoca di Enver Hoxa. Incontriamo bambini che tornano da scuola. C’è chi ci saluta e chi ci fa gestacci con la naturalezza tipica dei bambini. Il paesaggio è aspro, povero, ma bello e affascinante. Rimpiango di aver lasciato la macchina fotografica nello zaino che sta nel bagagliaio. Mi assopisco, ma poi mi sveglio. Siamo fermi.
Una Mercedes bianca è ferma avanti a noi, c’è un poliziotto, una specie di finanziere visto che ha una fascia con scritto «dogana». Non capisco quale infrazione ci contesti, ma poi siamo costretti a caricare dei pacchi di riviste (destinate agli immigrati in Germania) sulla macchina del finanziere, che stranamente ha targa kossovara; chissà come il finanziere ha importato la sua auto con targa kossovara in Albania. Ci viene contestata una certa infrazione sulle regole di importazione.
La contrattazione è concitata e continua. Non capisco i termini dell’accordo, ma quasi tutti i pacchi di riviste tornano sull’autobus. Più tardi ne sfoglio una e mi accorgo che è una specie di Settimana enigmistica in forma albanese. Siamo proprio dei criminali incalliti: siamo stati fermi per quasi un’ora su di una strada di montagna in Albania per importazione illegale di enigmistica!
Il viaggio continua. Incomincio a conoscere i miei compagni: tutti uomini che da anni lavorano in Germania, chi con tutta la famiglia al seguito, chi da solo, cioè con moglie e i figli rimasti in Kossovo.
C’è anche Norbert, il ragazzo tartassato dalla polizia Unmik. Lui sta sempre zitto, non parla praticamente albanese (figlio di immigrati, penso).
Dormo a tratti, ma la curiosità per il paesaggio più che la strada accidentata non mi permette un sonno prolungato.
Facciamo una pausa presso un ristorantino molto carino e pulito, ma io non mangio (questioni di budget e di linea), poi il burek di Prizren mi ha riempito lo stomaco.

AL PORTO DI DURAZZO

Arriviamo piuttosto presto a Durazzo, dove facciamo una prima sosta ad un distributore di benzina moderno e di stile occidentale (molto diverso da quelli incontrati nell’interno). La sosta serve per il lavaggio dell’autobus. Noi passeggeri aspettiamo e osserviamo le fasi del lavoro.
Converso con l’unico viaggiatore che parla italiano. Lui è arrivato a destinazione. Si ferma a Durazzo per un matrimonio, poi ritoerà in Kossovo. L’uomo mi racconta di aver lavorato per la Croce rossa italiana e ora per una Ong inglese di nome War Child, che si occupa di bambini.
Mi racconta di aver vissuto molti anni in Croazia, ma poi con l’inizio della guerra nel ‘91 è tornato in Kossovo, dove il destino gli ha regalato la guerra del ‘99. In Croazia ha perso casa e negozio, in Kossovo altrettanto. La sua famiglia ora vive in Canada. Parla dei serbi come la causa di tutte le guerre dei Balcani, anche se ammette che non sono tutti criminali.
Parliamo in generale della Jugoslavia di Tito e lui dice che gli albanesi comunque non sono mai stati liberi e che il regime ha sempre impedito lo sviluppo del Kossovo. Qui si arrampica sugli specchi e mi dice: «Guarda le città albanesi come sono ben costruite urbanisticamente, con le strade larghe, non come in Kossovo» e mi indica la superstrada costruita un anno fa, che abbiamo di fronte.
Dopo una giornata passata sul sistema viario albanese, mi sento di smentire questa affermazione. Hoxa dal punto di vista urbanistico non era meglio di Tito, anche se giudicare due dittatori dal sistema viario dei loro paesi mi sembra limitato.
Saluto l’amico che parla italiano che parte su una macchina guidata dai parenti dello sposo e risaliamo sull’autobus. Ormai faccio parte del gruppo con l’appellativo di «italiano».
Altra sosta, ad un crocevia. Dobbiamo aspettare che arrivi quello dell’agenzia che ci venderà i biglietti del traghetto. Passano moltissime macchine di lusso e altrettante cadenti segno delle contraddizioni albanesi; molte di queste automobili hanno targa italiana, tutti gli autobus sono italiani, passano anche mezzi della Kfor italiana, segno che qui c’è qualche base logistica. Aspettiamo un’ora e mezza durante la quale familiarizzo ulteriormente con i miei compagni di viaggio. Chiaramente si finisce a parlare di donne, particolarmente di quelle kossovare. Loro smentiscono il fatto che nei villaggi sia pericoloso avvicinare le ragazze, io faccio molte volte il segno del fucile e dico in un albanese maccheronico: «Khalash, kossovar gelos». Loro negano. Non ci credo. Comunque sia, io non sono mai stato in Kossovo per le donne.
La geografia è un altro argomento che va per la maggiore: da dove vieni?, dove vai?
Finalmente arriva l’addetto dell’agenzia. Entriamo in un ristorante bar, dove una scrivania funge da ufficio distaccato. L’uomo dell’agenzia è un vecchio minuto, un po’ sgarbato, che raccoglie tutti i nostri passaporti e incomincia a compilare una lista sollevando e abbassando continuamente gli occhiali, che nulla possono contro la sua miopia. Quest’uomo, che da tutti poi verrà chiamato semplicemente «plaku» (vecchio), mi ricorda uno dei personaggi del film Lamerica.
Dopo un po’, ci chiama uno ad uno: 35 euro senza cabina, 45 euro con la cabina. Norbert, il ragazzo albanese che non parla albanese, viene aiutato dagli altri che parlano il tedesco. Al gruppo si aggiungono altri due ragazzi, albanesi d’Albania: uno si fermerà a Bari, mentre l’altro proseguirà per la Germania.
Quando, finalmente, ci dirigiamo al porto già comincia a far buio. Arriviamo davanti ai cancelli e sullo sfondo c’è il nostro traghetto. Nota caratteristica di questo viaggio da qui in avanti sarà l’attesa. Aspettiamo davanti al cancello, sorvegliato da un poliziotto, una mezz’oretta. Poi «plaku» ci dice che il nostro traghetto non partirà: ha un’avaria, dobbiamo muoverci verso un altro molo, dove è attraccata la nave Palladio della Tirrenia.
Il biglietto ci costerà 10 euro in più per il passaggio ponte, mentre per chi, come me, sognava una cabina il prezzo è proibitivo. Aspettiamo un altro po’. Ora per «plaku» il problema è trovare i biglietti per questa nave. Facciamo i controlli di polizia: gli albanesi non mi chiedono il permesso di soggiorno e una bella ragazza mi timbra il passaporto in uscita. Raggiungiamo la nave e inizia una nuova, lunga attesa. Non abbiamo i biglietti e non possiamo salire.
Intanto alcuni di noi mancano all’appello, rallentati dai controlli di polizia. Aspettiamo almeno due ore: arrivano tutti tranne Norbert (l’albanese che non parla albanese). Lui rimane a terra: pare che la foto sul passaporto non gli somigliasse molto.
Sono già le undici quando il «plaku» ci porta i nostri biglietti. La nave è piena di gente e, oltre al personale, penso di essere l’unico italiano in coperta. Sono tranquillo, ormai sono uno del gruppo e, come tutti i kossovari, nell’attesa e poi sulla nave, ho modo di criticare i fratelli albanesi d’Albania. Salgo sul ponte per vedere la partenza. Poi mi trovo una poltroncina e dormo quasi tutta la notte, in uno stanzone con altre 60 persone.
Quando mi alzo, siamo già in vista della costa. Finalmente attracchiamo a Bari e già sogno casa, anche se so che ci sono almeno 10 ore di autobus. In qualità di italiano, supero tutta la fila degli albanesi e un poliziotto in borghese, dopo aver dato una occhiata veloce al mio passaporto, mi dice: «Vai Bettini, vai».
Sono fuori per primo tra il mio gruppo. Il nostro autobus arriva poco dopo, ma avverto che c’è qualche problema: l’assicurazione montenegrina è scaduta da qualche giorno e finché non si ha un’assicurazione valida non si parte. Intanto, nell’attesa, vado a vedere se arrivano gli amici kossovari. Un poliziotto in divisa mi chiede il passaporto e il perché io, italiano, mi trovo a viaggiare su un autobus di immigrati, albanesi kossovari. Rispondo naturalmente che sono povero come loro e che ho vissuto due anni in Kossovo. Fortunatamente, il poliziotto non è maleducato e questo impedisce che la mia indignazione prenda corpo.
Alla spicciolata arrivano tutti, solo il fax con la conferma dell’avvenuto pagamento assicurativo tarda. Poi tutto d’un tratto la cosa si risolve e si parte: sono le undici e mezza.
Ci fermiamo ad un autogrill, dove non faccio nemmeno caso all’altro autobus, parcheggiato di fianco al nostro. Poi vedo che gli altri scaricano i bagagli e, dopo aver chiesto informazioni nel mio albanese oramai perfetto, capisco che stiamo facendo un cambio di automezzo. Altre persone, anch’esse kossovare, salgono sul bus dal quale scendiamo noi. Capisco poi che il nostro bus con targa montenegrina toerà subito verso il Kossovo per questioni assicurative, trasportando delle persone che fanno il viaggio in senso contrario al nostro.
Il nuovo bus è anche più vecchio del precedente e ha targa KS ossia kossovara.
Finalmente mangio un panino col prosciutto, mentre i miei compagni di viaggio si deliziano guardando videocassette popolari del tipo «gzuar 2003» o ancor peggio del sano umorismo nazional-popolare, condito di canzoni patriottiche con tanto di cantante davanti alla casa di Adem Jashari a Drenica, ora Skenderaj.
La scorta di videocassette dura almeno fino a Verona. Io mi difendo con il walkman e un po’ dei «Ventitre giorni della città di Alba» di Beppe Fenoglio.
Ad ora di cena ci fermiamo nuovamente presso un autogrill. Andiamo verso il bagno e un’addetta alle pulizie dice qualche cosa del tipo: «Arrivano anche i kossovari». Non capisco bene il senso della frase, ma mi verrebbe voglia di sbatterle in faccia il mio passaporto italiano e chiederle cosa ha contro i miei amici albanesi. Mi stizzisco e, quando esco, non le lascio la mancia.
È strano sono in Italia e altri italiani mi credono straniero e mi guardano come tale. Trovo la cosa interessante ed istruttiva, per questo mi sforzo ancor più di parlare albanese… Nessuno ti dice nulla, ma sono gli sguardi quelli che parlano. Alla donna delle pulizie mi verrebbe da dire che i kossovari, che lei guarda come pezzenti, probabilmente in Germania guadagnano più di lei.
Finalmente le montagne prendono il posto della pianura e in un batter d’occhio siamo a Rovereto. Saluto tutti, ormai siamo amici.
Ciao, compagni di viaggio, buona fortuna, Rruga moor. •

Fabrizio Bettini




DOSSIER KOSSOVOLe organizzazioni

Dal Trentino, il «Tavolo Trentino con il Kossovo»
Il Tavolo Trentino con il Kossovo è un luogo di confronto, scambio, elaborazione condivisa e cornordinamento di un programma generale e comune di intervento in Kossovo, nella municipalità di Peja-Pec. È nato immediatamente dopo la guerra del Kossovo nel 1999, su iniziativa di alcune associazioni trentine e della Provincia Autonoma di Trento.
Attualmente vi partecipano attivamente una decina di soggetti: la Provincia Autonoma di Trento (che ha anche un ruolo di finanziatore), Avsi Trento, Casa per la Pace di Trento, Gruppo 78 (CICa), Progetto Colomba, Progetto Prijedor, Solidarietà Alpina, Associazione Velaverde, Tavolo Trentino con la Serbia, Comune di Trento, Operazione Colomba – Quilombo Trentino, Piazza Grande.
Il Tavolo si propone di elaborare e realizzare un programma organico di interventi nella municipalità di Peja-Pec, secondo la logica dello sviluppo endogeno ed integrato, e della partecipazione dei soggetti e delle risorse locali kossovare, oltre che del coinvolgimento di soggetti e risorse della società civile e dell’economia trentina, cercando di innescare anche rapporti significativi e duraturi tra soggetti omologhi in Trentino ed in Kossovo. Allo stesso tempo, e con la stessa importanza, intende inoltre favorire l’attenuazione delle tensioni tra le varie comunità (serba, albanese, rom, ecc.).
Le attività direttamente orientate all’attenuazione delle tensioni tra i vari gruppi nazionali, in particolare nella zona comprendente i villaggi di Gorazdevac e Poceste e la città di Peja-Pec nell’ultimo anno e mezzo si sono concretizzate nel centro giovanile «Zoom».
Il centro si è formato da tre piccoli progetti che sono poi diventati tre piccoli gruppi. Per primo in città si è costituito un gruppo di arrampicatori formato per il momento da soli albanesi ma che è la nervatura fondamentale per un’idea di riavvicinamento delle due parti. Questo gruppo è formato da ragazzi di città, tutti sui trent’anni e dalle vedute aperte.
Il secondo gruppo è nato da un piccolo corso di teatro fatto da Silvia Corsi: sono ragazzi sui 17-20 anni che frequentano la scuola d’arte. All’epoca del corso gli insegnanti hanno impedito ai ragazzi di fare delle cose assieme ai ragazzi serbi di Gorazdevac ma loro hanno comunque voluto sapere come andavano le cose e poi durante una festa hanno incontrato i loro omologhi serbi e visto il loro spettacolo.
Il terzo gruppo è quello fotografico che, come età e provenienza, è uguale a quello di teatro e in parte formato dalle stesse persone. All’epoca del progetto fotografico, la scuola ha fatto problemi e impedito l’esposizione congiunta delle foto.
Come detto, questi tre gruppi formano il centro giovanile «Zoom», che ha sede a Peja-Pec. Tutti i gruppi hanno scelto la forma del centro giovanile indipendente anche perché i condizionamenti imposti dalla scuola non erano piaciuti ai ragazzi. All’epoca del corso di fotografia era stato allestito un laboratorio fotografico anche a Gorazdevac.
Le attività di «Zoom» sono sempre state aperte a tutti e i serbi frequentavano il centro, seppur con qualche difficoltà e paura, fino al 13 agosto 2003, quando due di loro sono stati uccisi nell’enclave serba di Gorazdevac.

«Operazione Colomba», 12 anni per la pace
Nel maggio 1992, dal desiderio di provare a vivere la nonviolenza nella guerra della ex-Jugoslavia, la Comunità Papa Giovanni XXIII ha dato vita ad una serie di iniziative denominate «Operazione Colomba», che hanno coinvolto centinaia di giovani di diverse parti d’Italia e numerosi obiettori di coscienza.
Condividendo la vita (le paure, i disagi, le sofferenze…) delle persone più colpite dalla violenza del conflitto, l’Operazione Colomba ha reso possibile il dialogo tra le differenti parti in lotta e tra le chiese, ha aiutato a riunire le famiglie divise dai diversi fronti, protetto le minoranze etniche e contribuito a ricreare un clima di convivenza e riconciliazione.
Dal 1992 al 2004, i volontari di Operazione Colomba hanno operato in ex-Jugoslavia (Serbia, Croazia, Bosnia, Kossovo), Albania, Sierra Leone, Timor Est, R.D.Congo, Chiapas (Messico), Cecenia (Russia) e Palestina-Israele, convinti che, dal vivere con le vittime della guerra e promuovendo attività di tutela dei diritti umani e dei diritti individuali delle fasce di popolazione più emarginate e sofferenti, nascano strade per la pace.
In questi 12 anni, i volontari hanno stretto rapporti di collaborazione con vari organismi (tra cui le Nazioni Unite), numerosi centri per i diritti umani, Ong locali ed inteazionali, esponenti delle chiese, associazioni e gruppi, coinvolgendo migliaia di volontari in tutto il mondo e centinaia di obiettori di coscienza in servizio civile.

Fabrizio Bettini




DOSSIER KOSSOVOEnclaves? No, ghetti.

Né «Grande Serbia», né «Grande Albania»

Siamo realisti: oggi in Kossovo la convivenza tra albanesi e serbi è un’utopia. Come spesso accade, le responsabilità sono da suddividere tra i contendenti, aizzati da sconsiderati proclami nazionalistici ed esasperati da una gravissima situazione economica.
Nella regione operano anche i soldati italiani. Le loro motivazioni? Deboli, molto deboli, troppo deboli… Per fortuna, ci sono i volontari.

Al primo viaggio in Kossovo, scendendo dalla Serbia, giù giù fino alla «provincia ribelle», a colpirmi sono le bandiere che sventolano ovunque.
I morti hanno bandiere: prima quelle serbe segnalano, in sperduti cimiteri di frontiera, eroici combattenti, martiri nella realizzazione del sogno frustrato della Grande Serbia; poi, bandiere albanesi su grandi lapidi, che ritraggono a dimensione naturale il defunto in divisa militare e con il mitra in mano. Guerriglieri, quest’ultimi, immolati nella costruzione della Grande Albania.
Al confine tra la Serbia-Montenegro e il Kossovo appaiono le bandiere azzurre dell’amministrazione provvisoria dell’Onu e quelle delle forze Nato. Ad ogni posto di blocco o check point bandiere nazionali tra le più varie indicano la provenienza del personale militare lì impegnato: i rumeni all’ingresso di Gorazdevac, i belgi sul ponte di Mitrovica ecc. ecc.
Ogni edificio o struttura di qualsiasi tipo (addirittura le pensiline alle fermate dei bus) ha la bandiera dello stato finanziatore o donatore.
Il mondo sembra essersi concentrato sul Kossovo e in Kossovo, eppure arrivando in quest’area ho l’impressione che sia doveroso porre in dubbio molte verità regalateci in patria.
(Al riguardo, la redazione di Missioni Consolata mi ha pregato di non calcare troppo la mano, anche se non siamo più in tempo di elezioni. Mi adeguo, ma alcune cose debbo proprio scriverle…)

I SERBI… RINCHIUSI

Spostandoci da Peja-Pec a Gorazdevac è difficile ignorare una collina, sulla destra, completamente spianata e disboscata, gremita di containers e mezzi militari: è «Villaggio Italia», comando del contingente italiano in Kossovo, dove vivono molti degli eroi nostrani, molti dei nostri ragazzi. Quando Peja-Pec e dintorni giacciono nel buio a causa dei frequenti black-out della vicina e grigia centrale termoelettrica, Villaggio Italia splende di luce, letteralmente, propria.
Gorazdevac è una enclave serba del Kossovo meridionale: 800 serbi circa rinchiusi in pochi Km quadrati. Troppo pericoloso uscire. Chi aveva il lavoro fuori dal paesino (molti), è disoccupato. Qualcuno si è inventato un’attività, puntualmente finanziata da qualche ente governativo o non, per guadagnarsi il pane: c’è chi ha una serra per coltivare ortaggi fuori stagione, chi produce concime naturale. Ma il mercato è chiuso, quasi inesistente, solo 800 persone, perché commerciare con l’esterno è difficile, soprattutto dopo gli avvenimenti di marzo 2004. Allora si vive di sussistenza, di rimesse dall’estero, di espedienti, di aiuti; in una montagnola di rifiuti accumulati lungo la strada (a Gorazdevac, Higjiena Publike – l’azienda della nettezza urbana – non passa nemmeno a raccogliere la spazzatura, perché gli abitanti non vogliono e in qualche caso non possono pagare la tassa) ho trovato i resti di un involucro di cartone: «Questa pasta è donata dal popolo e dal governo italiano».
I nostri ragazzi, che i cartelloni pre-elettorali in Italia non smettevano di ringraziare per le eroiche missioni di pace che svolgono nei conflitti nel mondo, a volte distribuiscono aiuti: alimentari, giocattoli, indumenti; ogni operazione di questo tipo viene puntualmente filmata e fotografata dagli stessi militari. Deboli palliativi simboli d’una carità pelosa, dettata, particolarmente in questo periodo, dalla necessità di rendere maggiormente accettabile la presenza degli «inteazionali», oggi messa violentemente in discussione da parte albanese e da parte serba. Da un lato, infatti, gli albanesi vogliono l’indipendenza e rifiutano ogni ingerenza estea; dall’altro, i serbi-kossovari lamentano l’inefficacia della forza internazionale nel prevenire e controllare la conflittualità interetnica. Ne sono un segnale i tragici episodi di marzo: i manifestanti albanesi hanno bruciato auto dell’Onu, case serbe e chiese ortodosse, ucciso.
Nella nostra permanenza in Kossovo, discutiamo con ragazzi serbi e albanesi. I fatti parlano chiaro: se quattro anni di relativa e apparente tranquillità avevano fatto sperare in una possibilità di convivenza, gli scontri recenti hanno rigettato nella disperazione e nell’incapacità di operare chi, da un lato, sperava di poter uscire dalle enclaves-ghetto e chi, dall’altro, aveva lavorato per ricostruire i ponti dopo la guerra del ’99. Gli albanesi e gli egiziani, animatori del Centro culturale «Zoom» di Peja-Pec, ci raccontano le loro attività, l’organizzazione del centro, la potenziale multiculturalità delle associazioni che vi operano; una sera abbiamo discusso delle violenze. Un ragazzo albanese ha anche raccontato d’aver fatto parte di queste dimostrazioni violente; coraggioso e significativo il suo racconto: pochi facinorosi, probabilmente sconosciuti agitatori venuti da fuori, hanno attirato in strada migliaia di giovani costretti all’inerzia dalla morsa dell’eterna crisi economica. Debitamente scaldati gli animi, facili micce vista la condizione a cui sono costretti, i bersagli sono subito divenuti chiari: l’amministrazione internazionale colpevole di non lasciare il Kossovo ai kossovari (anzi, agli albanesi) e gli eterni nemici, i serbi.
Gli scontri di marzo hanno interessato varie località: Pristina, Bijelo Polije, Mitrovica, Peja-Pec. Qualcuno racconta che i nostri ragazzi hanno saputo fare ben poco contro la rabbia albanese. Si dice che molti giovani militari di fronte alla folla sono stati presi dal panico e la loro inefficacia è stata palese. Ad accusarli di non aver saputo fronteggiare gli albanesi sono soprattutto i serbi, che hanno vissuto momenti di terrore, temendo di essere trasformati in facili prede, chiusi come sono in zone ristrette.

LA SOLA SOLUZIONE:
UN PASSAPORTO PER L’EUROPA

Anche a Gorazdevac s’è temuto il peggio. E l’accaduto è servito solo a rafforzare la rassegnazione e la convinzione che con gli albanesi è impossibile convivere. I giovani serbi dell’enclave vedono frustrate le proprie ambizioni, cancellata ogni opportunità di realizzazione, di studio, di lavoro. L’unica possibilità, ci dicono, è emigrare al nord, in Serbia o all’estero. Donne e uomini quotidianamente ci propongono (più o meno seriamente) matrimoni di convenienza: acquisire una cittadinanza europea per loro sarebbe la porta per la salvezza, la possibilità di oltrepassare le difficoltà d’una immigrazione legale in Occidente.
I giovani serbi ci foiscono le solite interpretazioni: il Kossovo è serbo, lo è sempre stato, gli albanesi hanno attuato una guerra demografica per conquistare il potere, non esisteva repressione nei loro confronti, erano loro a rifiutare tout court i serbi. Sono le opinioni propinate dai mass-media e dai politici di Belgrado.
Un’altra cosa appare chiara: da parte albanese e da parte serba manca una élite politica capace di superare gli odi sapientemente alimentati nel passato. Probabilmente, è una eredità di un sistema non democratico (schiacciato sulla figura di Tito prima, di Milosevic poi), che ha dominato in Jugoslavia per decenni. Ma ciò non basta per comprendere l’insistenza del governo (democraticamente eletto) serbo sui temi nazionalisti. E altrettanto incomprensibile risulta l’atteggiamento del governo locale kossovaro, in primis Rugova, incapace o non disposto a porre delle basi solide per una società eterogenea, disattivando quei meccanismi identitari che fanno sì che, a 4 anni dalla guerra, la situazione sia capovolta ma in sostanza immutata: prima i serbi avevano la posizione di forza e tentavano di esercitare forme di pulizia etnica, oggi gli albanesi, vinta la guerra (la strada principale di Pristina è Boulevard B. Clinton…), ricoprono la posizione favorevole e minacciano continuamente i serbi finiti rinchiusi nelle enclaves.
Allora, ci domandiamo, qual è stato l’esito della «guerra umanitaria»: la creazione di uno stato democratico o meramente la sostituzione dell’oppresso con l’oppressore e viceversa? La costruzione di nuovi ponti e convivenze o semplicemente la formalizzazione di una crisi economica permanente, foriera di tensioni sociali, comodamente chiamate «interetniche»?

A PROPOSITO DI SOLDATI…

In Italia, dopo la tragedia di Nassirja, mass-media e politicanti non smettono di celebrare «i nostri eroi», «i nostri ragazzi» che, intimamente motivati ad esportare la pace e la democrazia, la convivenza e il benessere, ogni giorno rischiano la vita in Iraq, Afghanistan, Kossovo, ecc… Dei veri eroi, paladini della democrazia, della cristianità, dell’ Occidente contro la barbarie; militari consapevoli e preparati, professionisti del bene in divisa. Durante la mia permanenza in Kossovo, ben pochi militari hanno dimostrato vera consapevolezza o motivazioni forti per il servizio che stavano svolgendo. La retribuzione economica sembra essere il fattore motivante più importante per i giovani e giovanissimi italiani, provenienti per lo più dal Sud. Per quanto riguarda poi la preparazione, essa appare ancora più carente: spesso i militari hanno scarse conoscenze sul contesto in cui operano, sui problemi che stanno affrontando, sulle caratteristiche culturali delle popolazioni con le quali sono in contatto. Questi non sono dettagli per del personale che opera al fine di ricomporre fratture etniche così esasperate: chiamare Pec la città di Peja può offendere un albanese e viceversa, consegnare aiuti in enclave serba accompagnati da un interprete che sa solo l’albanese può essere controproducente oltre che inefficace… e questi non sono che alcuni esempi dei grossolani errori che i nostri militari commettono quotidianamente.
Mentre i serbi si trovano rinchiusi e frustrati (e così preda di facili manipolazioni da parte dei leaders belgradesi) nelle enclaves e ripropongono vecchie ricette di riscossa nazionaliste (a Mitrovica ho raccolto varie cartoline postali e posters che invocano il ritorno di Milosevic, Karadzic), gli albanesi del Kossovo si ritrovano prigionieri di condizioni di vita ed economiche gravi: salari bassissimi, disoccupazione oltre il 60%, traffici illeciti in mano alla mafia locale dilaganti, dipendenza dagli aiuti inteazionali.
A mio parere, se gravi colpe sono da imputare agli sconsiderati messaggi nazionalisti (di governo serbo, Uck ed ex Uck, governo kossovaro, in gara a costruire una contrapposizione apparentemente insanabile), un ruolo fondamentale nel protrarsi delle tensioni sociali è da rintracciarsi proprio nelle pessime condizioni economiche.

E CHI LAVORA NEL SILENZIO

Accanto alle pubblicizzate, anzi celebrate, attività del contingente militare, della Missione Arcobaleno (vi ricordate lo scandalo?), molti altri nostri ragazzi lavorano nel silenzio ed in carenza di mezzi e fondi. Durante la nostra permanenza siamo stati ospiti dei volontari dell’Operazione Colomba (dell’Associazione Papa Giovanni XXIII) e del Tavolo Trentino con il Kossovo. Svolgono attività a Gorazdevac e a Peja-Pec.
Nella città albanese Mauro è animatore del Centro culturale Zoom, composto da associazioni aperte indiscriminatamente agli appartenenti di tutte le etnie (rom, egizi, albanesi e serbi). Grazie alle attività (alpinismo, fotografia, danza ecc.) del centro si cerca di ricostruire forme di convivenza. La scommessa è che, conoscendosi e lavorando assieme, le presunte differenze etniche passino in secondo piano.
A Gorazdevac, Fabrizio, Lucia e Federica vivono a stretto contatto con la popolazione. Grazie a loro abbiamo conosciuto i volti, l’umanità che si nasconde dietro a parole tanto insignificanti come «serbi» o «albanesi». Abbiamo faticosamente superato l’ostacolo linguistico ma siamo stati capaci di comunicare e forse, ancor di più, di imparare quegli sguardi e scoprire che la sofferenza ha gli stessi occhi da tutte le parti, in tutte le etnie. Questi volontari costituiscono il punto di riferimento, una speranza, per i giovani dell’enclave. Ne favoriscono l’aggregazione e stimolano momenti di discussione. Ora, un problema impellente è la raccolta dei rifiuti sparsi dappertutto nel villaggio. Si pensa di coinvolgere la comunità per rendere più efficace l’operazione. Per pulire il greto e le rive del fiume che delimita l’enclave occorrerà la protezione dei militari, finalmente utili a qualcosa: la scorsa estate due albanesi, dall’altra parte del corso d’acqua, hanno sparato sulla gente che si bagnava. Sono morti due ragazzi, uno 18enne, l’altro 12enne (si leggano i racconti di Fabrizio e Barbara nelle pagine precedenti).
Il lavoro di Mauro, Fabrizio, Lucia, Federica ed altri (non sono così pochi…) non è tanto pubblicizzato. Meno male, così sta al riparo da strumentalizzazioni. Ma, visto che queste parole non andranno sui muri di alcuna campagna elettorale italiana, permettetemi di rivolgere a loro il mio «Grazie, ragazzi».

Francesco Filippi




DOSSIER KOSSOVOL’anello mancante

All’interno dell’enclave serba di Gorazdevac permane il sentimento di essere vittime della parte albanese. Anche la fiducia nei confronti delle organizzazioni inteazionali, in particolare della Kfor, non esiste più. All’indomani dell’incidente del 13 agosto 2003 le stesse autorità politiche e religiose serbe avevano dichiarato e chiesto a Kfor di abbandonare il paese, vista la loro incapacità nel difendere la popolazione serba dagli attacchi dei «terroristi albanesi». Le parole precise furono: «Grazie di tutto ma ora andate via; noi ci difenderemo da soli». Il messaggio era chiaro: voler avere, come da tempo stanno chiedendo, la propria polizia a difesa delle enclave.
Dopo un primo momento di smarrimento, alcuni ragazzi dell’enclave e, in particolare, i gruppi che avevano partecipato ai progetti del centro Zoom, ci hanno manifestato, a livello privato e confidenziale, la volontà di uscire da quella situazione di isolamento assoluto. Lentamente la tensione tra i due gruppi andava nuovamente allentandosi, ma nuovi incidenti hanno interrotto ancora il cammino verso il dialogo.
A marzo 2004 l’annegamento di due bambini albanesi nei pressi di Mitrovica ha infatti dato il pretesto per la violenza. Pare che i due bambini si fossero buttati nel fiume Ibar, perché inseguiti da alcuni civili serbi, che avevano sguinzagliato i cani. Gli scontri sono iniziati a Mitrovica, città simbolo della divisione (a nord ci stanno i serbi e a sud gli albanesi), ma la violenza è dilagata in tutto il Kossovo. Il risultato è stato una forte protesta contro l’amministrazione internazionale Unmik e contro i serbi che ormai da anni vivono chiusi in enclave. Perché si è arrivati a tutto questo?
La situazione sul territorio negli ultimi 8 mesi è stata mutevole, e i disordini di marzo non hanno fatto altro che mettere alla luce l’empasse internazionale. L’instabilità potrebbe avere come cause scatenanti tre fattori che sono strettamente legati fra loro.
Giustizia: oltre alla difficoltà della polizia locale Kps ad arrestare i delinquenti comuni, vi è una difficoltà di fondo a fermare la grossa malavita e ad arrestare gli assassini. Questo va ad aggiungersi alla mancanza di giustizia rispetto ai crimini del ’99; basti pensare che molte salme di kossovari albanesi sono ancora in Serbia in attesa di essere trasportate in Kossovo. La popolazione kossovaro-albanese in una certa parte accusa l’amministrazione internazionale Unmik di rallentare il rientro delle salme per paura delle reazioni locali. Dall’altra parte, anche i kossovari-serbi recriminano il fatto che di molte persone scomparse nel ’99, all’entrata della Nato, non si sappia più nulla.
Status: la non definizione dello status, la non chiarezza sugli standard per l’indipendenza e la freddezza di alcuni ambienti della politica internazionale sull’idea di indipendenza del Kossovo creano una tensione latente nella popolazione, oltre che negli ambienti più estremisti. C’è da dire che una soluzione che sancirebbe l’indipendenza non sarebbe per nulla gradita alla minoranza serba e alla Serbia, mentre un’ipotesi contraria con il ritorno alla sovranità della Serbia troverebbe una fortissima opposizione da parte di tutta la popolazione albanese.
Economia: l’elemento economico è strettamente legato agli altri due, è una causa e una conseguenza. Nei primi anni, dopo il conflitto in Kossovo, si era creata un’economia legata alla ricostruzione e al lavoro delle organizzazioni umanitarie. La drastica riduzione degli investimenti inteazionali e la conseguente diminuzione delle organizzazioni (governative e non) presenti ha messo in crisi questa economia falsa. L’instabilità e la non chiarezza sul futuro status non stimolano investimenti economici e il processo di liberalizzazione è pressoché bloccato dai contrasti tra l’amministrazione locale e quella internazionale, accusata di avere una politica filo-serba. In Kossovo si può parlare di una percentuale di disoccupazione dell’80% e le uniche attività economiche sono per lo più rivolte al commercio.
Nell’area di Peja-Pec la situazione ha rispecchiato quella più generale che si vive in tutta la regione, dopo l’estate la situazione fra l’enclave di Gorazdevac e la città andava migliorando anche se i contatti ufficiali con l’altra parte non erano frequenti. Nell’area si era proceduto alla ricostruzione di 25 case serbe nell’area di Bijelo Polje. Il progetto di rientro di 90 famiglie nella zona di Siga e Brestovic’ procedeva. Le manifestazioni del 17 marzo 2004 hanno però notevolmente deteriorato la situazione anche se nell’area di Peja-Pec sono durate solo un giorno. Le strade della città sono state bloccate dai manifestanti nel primo pomeriggio ed il palazzo sede dell’amministrazione Unmik è stato «assediato»; alcune auto Un sono state date alle fiamme, dopo di che la massa è andata verso l’abitato di Bijelo Polje dove i 32 abitanti e ospiti serbi sono stati evacuati dai soldati della Kfor non senza difficoltà. Il bilancio a fine giornata era pesante: un manifestante kossovaro-albanese ucciso dalle forze di polizia internazionale, 12 kossovari-serbi feriti, numerosi manifestanti feriti, 25 case ricostruite danneggiate e bruciate, tre auto U.N. bruciate.
La parte albanese ha riconosciuto gli incidenti come un grosso passo indietro nel processo di pacificazione dell’area, incidenti che, a loro dire, penalizzano maggiormente gli albanesi. Gli organi di informazione poi hanno contribuito a confondere ancor di più le idee. In questo marasma, l’idea dei ragazzi del centro Zoom e, in generale, dei ragazzi della città è stata quella di non tornare indietro e non cancellare i passi in avanti che sono stati fatti nel percorso di riconciliazione. Molti di loro sono consapevoli che il Kossovo non può avere futuro senza considerare la presenza serba sul territorio.
Da parte serba è andato però accentuandosi il sentimento di appartenenza: nell’enclave la moneta è ancora il dinaro e si scrive in cirillico. Il rischio per chi, all’interno dell’enclave, non manifesta questa appartenenza e tenta di integrarsi nella nuova situazione o comunica con gli albanesi, è quello di venire escluso dalla comunità e dal villaggio, di essere visto come un traditore.
In conclusione, la catena che si era creata, anche grazie ai progetti portati avanti dal «Tavolo Trentino con il Kossovo-Operazione Colomba», si è spezzata. Riusciremo a tornare a ricoprire il nostro ruolo di anello di congiunzione tra le due parti in conflitto?

Mauro Barisone
(cornordinatore «Tavolo Trentino
con il Kossovo»)

Mauro Barisone




DOSSIER KOSSOVODIARIO – Come una prigione a cielo aperto

La casa in cui dormivamo si trova a Gorazdevac, un’enclave serba di 800 abitanti. Gorazdevac è un villaggio di circa 3×3 km, attraversato da un’unica strada asfaltata. All’entrata e all’uscita ci sono i militari della Kfor (questa zona è assegnata a militari rumeni e italiani), che prendono nota di tutti quelli che entrano ed escono e sono naturalmente armati fino ai denti. Il villaggio è fatto di case in mattoni a vista, strade non asfaltate e orti, sembra di stare in campagna, ma una campagna decisamente squallida e anche piuttosto sporca. Gli 800 serbi che vivono qua non possono uscire dal villaggio, se non 3 volte alla settimana, sui convogli scortati dalla Kfor, e solo per andare in Serbia. Naturalmente il viaggio per uscire dal Kossovo e arrivare in Serbia è lungo e costoso e non è fattibile di frequente. Quindi il villaggio è, a tutti gli effetti, una sorta di prigione a cielo aperto. Noi italiani usciamo ed entriamo tranquillamente per andare nella vicina città albanese, Peja-Pec, mentre i serbi (nessuno di loro) può farlo senza rischiare la vita.
«Ma davvero se in città si accorgono che un tipo che sta passando è un serbo, lo ammazzano, così mentre cammina per la strada? E da cosa lo riconoscono, poi?» continuo a chiedere. Mi sembra ancor più incredibile in quanto noi invece ci muoviamo tranquillamente e tutti sono molto amichevoli con noi. Riesce difficile pensare che questi stessi abitanti della città possano trasformarsi in belve sanguinarie alla sola vista di un serbo. «Intanto i serbi per la maggior parte non parlano albanese – mi spiega Fabrizio – poi hanno dei tratti somatici lievemente differenti. Inoltre, prima del ’99 non erano così rigidamente segregati, quindi molti albanesi conoscono molti dei serbi del villaggio. Non è detto che tutti gli albanesi si metterebbero a picchiare un serbo appena lo vedono, ma è molto probabile che qualcuno lo farebbe. Prima degli avvenimenti del 13 agosto 2003, qualcuno si azzardava ad uscire qualche volta, anche se comunque sempre scortato da noi, magari per venire in città a fare acquisti, ma ora non è più possibile».
Ogni famiglia a Gorazdevac ha un po’ di terra e qualche animale, molto importanti per il loro sostentamento. Ci sono due o tre chioschi che vendono qualcosa da mangiare, una «boutique» (c’è scritto così sull’insegna; in realtà, è un chiosco di 2 metri x 2, che vende qualche vestito), una farmacia, un bar e una specie di centro di ritrovo per i ragazzi (che consiste in due stanze in pietra sotto terra che fanno da pub e un biliardino), una chiesa, un campo di calcetto, due cimiteri e qualche gioco per i bambini. Essendo il villaggio un’economia chiusa, il lavoro non c’è per tutti e comunque chi lavora, ha una paga media di 200 euro; chi non ha lavoro dispone di un sussidio di 30 euro al mese per famiglia. Si fa fatica ad arrivare a fine mese, ma il problema di fondo non è la povertà, è la depressione. Per i vecchi e i bambini la dimensione del villaggio potrebbe anche avere dei lati positivi, ma per i giovani diventa incredibilmente frustrante. Nel villaggio ci sono le scuole – fino alle superiori – ma manca ogni prospettiva, ogni possibilità di un futuro normale.
Viene naturale chiedersi perché questi serbi, almeno i giovani, non se ne vadano in Serbia, alla ricerca di una vita normale. Non so rispondere a questa domanda. Sicuramente a Gorazdevac hanno una casa, qualche animale e – alcuni di loro – anche un lavoro, e questo è già molto. In Serbia sarebbero dei profughi senza nulla, e il tasso di disoccupazione in Serbia è già molto alto per i non profughi, figuriamoci quanto sarebbe difficile trovare lavoro per loro. Ma c’è anche la volontà di non abbandonare la propria terra, un sentimento nazionalistico esacerbato dallo scontro con gli albanesi, che difficilmente noi possiamo capire.
Federica e Fabrizio, i due volontari della Colomba, hanno dei progetti di «educazione alla multietnicità» che portavano avanti sia nella città con i ragazzi albanesi, sia nel villaggio, con i serbi. Fino all’anno scorso questo tentativo di integrazione aveva dato anche dei piccoli-grandi risultati, addirittura i ragazzi delle due etnie si incontravano ogni tanto, confrontandosi su attività comuni (rappresentazioni teatrali o mostre fotografiche, preparate separatamente, ma allestite insieme). Poi è successo che una mattina d’estate, i serbi erano in riva al fiume che facevano il bagno e prendevano il sole, quando qualcuno ha sparato sulla «folla», uccidendo due ragazzi e ferendone molti (si legga, in questo stesso dossier, «L’ultimo tuffo di Ivan»). È stato come distruggere in un attimo il lavoro di un anno. Da quel momento la chiusura – sia mentale che fisica – dei serbi è diventata totale. Si è dovuto ricominciare tutto da capo, ma crederci è diventato più difficile.
Un altro lungo periodo di lavoro lento e faticoso, sia con gli albanesi che con i serbi, per convincerli a ricominciare… e poi un nuovo scoppio di violenza. Un altro enorme passo indietro, è difficile ricominciare un’altra volta, anche Federica e Fabrizio fanno fatica a trovare l’entusiasmo. Dopo quello che è successo, anche i rifoimenti dei negozi all’interno dell’enclave diventano più scarsi e Fabrizio e Federica si riducono a fare un servizio di «compere» in città: medicine, scarpe ad un ragazzo che non può sceglierle né provarle, taniche di benzina, pezzi di ricambio per gli attrezzi agricoli…
Fabrizio e Federica non sono a Gorazdevac per questo, ma in questo momento c’è bisogno anche di questo. Comunque continuano a fare attività di discussione con serbi e albanesi. Il villaggio fa molto affidamento su di loro, ed è curioso vedere come comunque i ruoli siano ben definiti: a Fabrizio si rivolgono gli uomini, per chiedergli degli acquisti o una «scorta» se devono uscire dall’enclave; a Federica invece si appoggiano le donne quando la difficoltà di portare avanti una famiglia nella povertà e nella mancanza di speranza si fa più pesante. Per loro è molto importante che lei vada a trovarle e far loro un po’ di compagnia.

Nel villaggio non c’è il metano, la linea telefonica funziona solo nella ricezione. Ci si scalda, si cucina e si fa luce solo con l’elettricità, ma la Kek, l’impresa elettrica del Kossovo, non riesce a rifornire costantemente e così la corrente viene sospesa quasi tutti i giorni e in casa, a lume di candela e senza televisione, non rimane molto da fare. Una stufa a legna è presente in tutte le case, per potersi scaldare e per cucinare anche quando manca la corrente.
Noi non abbiamo condiviso la loro condizione, perché eravamo liberi di spostarci ovunque e lo facevamo, ma la gente di Gorazdevac ci si è comunque affezionata. I giovani parlano un po’ di inglese, i bambini parlano un po’ di italiano (alcuni molto bene) e con gli adulti comunicavamo grazie a Fabrizio e Federica che traducevano. La sera casa nostra diventava un’isola di allegria nel villaggio (cantavamo, giocavamo, parlavamo) e quando ce ne siamo andati, probabilmente a qualcuno siamo mancati.
Un’esigenza molto forte era quella di comunicare col mondo esterno, che in quel momento noi rappresentavamo. La domanda ricorrente era: «Cosa ne pensi di Gorazdevac?». Una domanda a cui era difficilissimo rispondere. Ma non potevi prenderli in giro: dovevi dire loro che a Gorazdevac la situazione è molto triste. Ed immediatamente dopo ti dicevano: «Quando torni in Italia, racconta ciò che hai visto».
Fabiana Scotto

Fabiana Scotto