DOSSIER GIOVANIGenerazione X+N

I giovani, questi sconosciuti

GENERAZIONE X + N

I
giovani di oggi si trovano a vivere in una società sconvolta e
sconvolgente. Con la tecnologia che avanza velocissima, uno stile di
vita consumistico fino al patologico, una scuola inadeguata (ed ora
anche riformata dai «pof»), un futuro lavorativo sempre più precario.
Il «disagio» è loro o di altri?


di Marco Bertone, pedagogista

I GIOVANI DELLE STATISTICHE

Ogni
volta che qualcuno si accinge a parlare dei «giovani» corre il rischio
della generalizzazione. La difficoltà del tema è insita anche nella
banalità delle nostre indagini da «adulti»: il linguaggio, le mode, i
valori sono i ritoelli delle ricerche, le quali cercano, come sempre,
una validazione statistica e numerica ai comportamenti.
Recentemente,
sulle pagine di un importante quotidiano nazionale (1), Elena
Loewenthal denunciava la discrepanza tra la realtà che si evince dalle
ricerche e dalle interviste ai giovani e i comportamenti agiti. Esiste,
in altre parole, uno scarto fra le ricerche fatte dai sociologi e dagli
psicologi e la realtà. Il problema sembra essere nell’incasellamento in
una categoria. Eppure, malgrado tutto, alcuni comportamenti sono sotto
gli occhi di tutti: i ragazzi elaborano una cultura loro, sfaccettata,
interessante, a tratti incomprensibile.
Già alcuni anni orsono,
Franco Floris (2), parlando di animazione con una particolare fascia di
età (gli adolescenti), ci imponeva di riflettere sul fatto che i
comportamenti dei ragazzi sono leggibili in diverse ottiche:
• un’ottica basata sugli effetti (i comportamenti agiti)
• un’ottica basata sulle caratteristiche «etee» degli adolescenti, da sempre individuate da psicologi e studiosi.
Ad
esse, Floris contrapponeva la possibilità di interpretare i
comportamenti dei ragazzi come se fossero esploratori della società e
della cultura. In fondo, non è così? I ragazzi sono sempre stati i
primi a costruire un senso, o più sensi, rispetto alle sollecitazioni
del mondo.
Facciamo degli esempi: la situazione di insicurezza
sociale post-11 settembre e derivante anche da situazioni sociali nuove
(come la precarizzazione del lavoro) sembrano condurre molti giovani a
desiderare più il «posto fisso» che non la carriera, come si evince
dalle ricerche. Ma potremmo prendere anche altri esempi: il linguaggio,
l’uso della tecnologia, le relazioni con gli adulti ed i pari, le
differenze fra maschi e femmine, l’influenza dei mass-media…
Le questioni sulle quali ci siamo interrogati sono:

Cosa accadrà, nella società, dopo la frantumazione del secolo breve,
(che invece non è mai sembrato così lungo), nella sua fase di
transizione?
• Come si costruiscono le identità individuali dopo la fine del lavoro fisso?
• Come si rapportano le persone con il tempo, con il presente più che con il futuro?
• La tecnologia è più libertà o più spettacolo?
• Quale è il percorso che pensiamo per le aggregazioni comunitarie e sociali?

IL CONTESTO DELLA SOCIETÀ ITALIANA

Cambia
la conoscenza e come la allestiamo, così come cambia il nostro modo di
vedere le relazioni umane. Siamo sempre più a contatto con altri modi
di pensare, con altre persone e con altri modelli culturali.
Cambia
il nostro rapporto con la tecnologia, sempre più presente al punto che
le nostre conoscenze psicologiche, sociologiche, lavorative non hanno
ancora la possibilità di indagare quanto essa incida sulla nostra vita
profonda.
La comunicazione non è solo informazione, ma costruzione di reti di rapporti complessi (3).
Tutte
queste domande si legano all’eterno e in parte sterile chiedersi: «Chi
sono i giovani?» e di solito questa domanda non viene mai posta ai
giovani stessi, come se essi fossero tutti uguali o tutti diversi, mai
se stessi, sempre oggetto di elucubrazioni «adulte» e quindi lontane.

LINGUAGGI E STRUMENTI DELL’«EPOCA VELOCE»

Vediamo
questi aspetti, se possibile, come indicatori di uno stato di
concentrazione di atteggiamenti, di ambiguità, anche di disagio
giovanile ma, soprattutto, di vitalità.
I linguaggi sono continuamente rimescolati e cambiati, travalicano la capacità di fissae grammatiche.
Non
sono forse l’espressione di un mondo che propone ai giovani e agli
adulti di essere sempre più veloci, di affrontare una massa di stimoli
culturali non omogenei?
In fondo, i linguaggi gergali giovanili
sono sempre esistiti, si dirà, perché sono sempre stati un modo di
appropriarsi del mondo in modo che gli «adulti» non capissero. Ma
questo è essenzialmente un segnale della grande capacità dei ragazzi di
essere reattivi, e di costruire significati, in quanto un linguaggio
nuovo o trasformato è sintomo di vitalità creatrice (4). Ma che
caratteristiche assume il linguaggio che sentiamo parlare nelle scuole
o che vediamo rappresentato da quei canali (la Tv o, la radio, o meglio
Mtv) che riproducono socialmente il linguaggio stesso, e lo riplasmano
in un circolo continuo?
È un linguaggio eterogeneo, misto e
differenziato per zona geografica, estrazione sociale, genere e
preferenze sessuali. Stiamo affrontando la nascita e la crescita di
linguaggi derivanti:
• dall’identificazione in gruppi sociali legati
alle mode ed ai consumi di musica o di vestiti, che sono espressioni di
modi di vita nelle cosiddette «tribù» giovanili;
• dall’identificazione politica e dall’incarnazione di modelli familiari;

dalla reazione ad una realtà in cui sono più visibili le guerre, il
terrorismo, le richieste del mondo degli adulti di schierarsi;
• dall’insieme di tutte queste cose.

«HOMO TECNOLOGICUS»: UNA GENERAZIONE IN PUNTA DI DITA?

Oltre
a queste categorie, per cui da sempre dobbiamo pensare che le persone,
soprattutto i ragazzi e le ragazze hanno creato dei gerghi, dobbiamo
introdurre l’elemento tecnologico.
Una ricerca effettuata con i
giovani di diversi paesi, intendendo per giovani persone di età fra 0 e
25 anni, ha rivelato che ci sono anche dei cambiamenti nel modo di
comunicare e di muoversi rispetto alle generazioni precedenti.
L’uso
dei telefoni cellulari, dei videogiochi, dei tasti della PlayStation
stanno forse modificando il corpo delle persone. I ragazzi di oggi
usano molto di più il dito pollice rispetto a quelli che li hanno
preceduti. Poiché il pollice opponibile non serve più solo ad afferrare
oggetti o a costruire attrezzi, ma a comunicare, a usare il computer,
qualche scienziato parla già di una evoluzione dell’homo tecnologicus,
arrivando a coniare il termine Thumb generation («generazione del
pollice»).
È comunque un fatto che, ad ogni generazione di scoperte
ed usi tecnologici, cambia il modo di rapportarsi al mondo e a se
stessi.
L’uso dei messaggi cellulari comporta un rimodellamento
parziale dei comportamenti sociali nel gruppo dei pari età, perché
permette di comunicare evitando di esprimere (se non con i simboli) i
propri sentimenti, proteggendosi un po’ di più. La stessa cosa era
avvenuta qualche anno fa con l’avvento della posta elettronica, per cui
le persone potevano comunicare inventandosi personalità fittizie o
nascondendosi. L’uso dei cellulari ha imposto la nascita di linguaggi
concretamente sintetici ed essenziali («xké» significa «perché»). Il
guaio non sta nel fatto che alcuni ragazzi disimparino l’italiano
classico ma che usino un linguaggio che va bene per gli Sms in un tema,
o viceversa; che non sappiano leggere il contesto in cui usare le
parole e le forme sintattiche appropriate.
Queste neolingue sono
molte e i termini di derivazione informatica ancor di più, per cui si
italianizzano vocaboli inglesi (dai comuni chattare e downloadare
all’utilizzo metaforico di termini informatici). La velocità del
ricambio della tecnologia, la capacità dei ragazzi di ricevere e
ritrasmettere stimoli, di apprendere (in quanto le menti giovani sono
più flessibili, permeabili e delicate) fa di loro degli esploratori più
ricettivi della civiltà tecnologica del nuovo millennio.

IL DISAGIO GIOVANILE E’ LA FORESTA. E GLI ALBERI?

Da
ogni parte siamo subissati da ricerche, servizi giornalistici e
discorsi sul «disagio giovanile». Per fortuna, esso passerà come i
brufoli per il singolo o si trasformerà nel disagio dei trentenni
precarizzati o nelle ansie esistenziali dei quarantenni e della mezza
età, mentre i giovani continueranno ad essere un argomento di
discussione.
Il disagio è quella condizione per cui persone
normalmente dotate si collocano nel mondo in modo tale che l’ambiente,
le relazioni con le persone, le cose e se stessi non li aiutano, e loro
non riescono ad aiutare se stessi.
La premessa da cui partiamo è
in parte anche l’arrivo: esiste un disagio psicofisico manifesto nelle
persone di età giovane nel nostro Paese, ma in fondo dobbiamo
considerare i ragazzi, gli adolescenti, i bambini come delle cartine di
tornasole del Paese stesso. Se l’Italia è un luogo difficile da vivere
per i ragazzi (ma potremmo prendere i malati cronici o gli anziani,
comunque) lo è per tutti, sia per i soggetti ipocritamente definiti
deboli che per una supposta normalità statistica.
Lo stile di vita consumistico e la tecnologia sembrano essere i principali imputati.
I
modelli di vita delle generazioni precedenti erano migliori, diversi?
L’infanzia propone la drammaticità della nostra esistenza: i cibi che
ingurgitiamo in gravidanza, lo smog, ma anche la troppa Tv, la presenza
di diossine nei cibi, e tutto il resto…
Oltre il 15% dei bambini si
addormenta davanti alla Tv accesa circa 2 volte a settimana, e ciò
dovrebbe portare ad una autoregolamentazione, che invece non c’è.
Perché?

ADOLESCENZE

La
letteratura specialistica sugli adolescenti è vasta, forse troppo. C’è
un interesse da cui non siamo alieni neanche noi verso i ragazzi di
oggi, quelli che non sembrano essere come i loro padri, che non
vogliono crescere o che sono dovuti crescere pensando di fare una vita
differente. Magari essi hanno capito che la generazione dei 30-40enni
di oggi cui appartengono i loro fratelli e genitori deve fare i conti
con la crudele realtà, di essere i primi nel dopoguerra che non hanno
più la speranza di un tenore di vita economicamente pari a quello di
partenza («la festa è finita», disse Giovanni Agnelli nel 1992) (5).

E allora queste madri e padri magari iniziano a pensare con nostalgia al
fatto che le promesse di quando erano ragazzi (i favolosi anni ‘80) non
sono state mantenute, forse cercano di essere davvero madri e padri ma
sono anche loro smarriti. E se sono smarriti loro, la generazione X+n
(6) costituita dai loro figli, come può non essere altrettanto smarrita?
Cinquanta
anni fa l’adolescenza non esisteva, poiché si passava in modo repentino
dall’infanzia dei frugali giochi all’età adulta delle responsabilità e
del lavoro. Ora c’è e dura anche 2-3 lustri. E allora se ne parla
molto.
Non esiste una sola adolescenza, quindi, se non altro
perché le esigenze e le caratteristiche psicologiche e le richieste di
un quindicenne non sono quelle di un venticinquenne, ma una seconda
differenziazione, fra le molte, dovrebbe avvenire sulla base del genere
sessuale.
Nelle famiglie, dopo decenni di trasformazioni sociali
complessive, si assiste veramente ad una certa uguaglianza di pari
opportunità fra i ragazzi e le ragazze, che in parte collide col fatto
che le esigenze delle adolescenti e dei loro coetanei maschi non sono
le stesse. Quando ragazzi e ragazze si incontrano, da che mondo è
mondo, i comportamenti sono differenti, e così anche le loro azioni e
rappresentazioni di sé.
Questi due fatti portano da un lato ad una
omogeneità e, dall’altro, ad una progressiva divaricazione fra ragazzi
e ragazze. Così, mentre a casa i ragazzi fanno lavori domestici e le
ragazze possono finalmente rivendicare una maggiore libertà di uscita,
fuori si ritrovano le dinamiche tipiche di separazione fra i sessi.

LA SCUOLA HA FATTO «POF»

La
scuola cosa rappresenta? La scuola superiore è la seconda casa dei
ragazzi, il luogo dove nascono i primi amori, dove si vive il gruppo
dei pari più facilmente (facilmente?) ma non è il luogo dello studio e
dell’apprendimento privilegiato. Si assiste ad una prevalenza degli
aspetti relazionali rispetto al dovere dello studio.
Gli adulti che
parlano coi ragazzi, come gli insegnanti a scuola, da sempre riescono a
suscitare un’ambiguità di sentimenti: conoscenza, autorità, ammirazione
se si riesce. Il linguaggio dei ragazzi oscilla dall’esasperazione
giovanilistica per affermare una sfida, simile a quella
tradizionalmente portata a casa, al conformismo al contesto scolastico
e a quello che sembra che gli insegnanti vogliano.
Ad esempio,
anni ed anni di sensibilizzazione ecologica hanno purtroppo portato i
ragazzi ad essere ipocriti, affermando a parole un impegno contraddetto
dai gesti quotidiani.
Per metter insieme il «portfolio» morattiano,
è necessaria la presenza dei genitori. Essi si trovano di fronte a
questionari che arrivano a casa e che pongono domande circa la vita
della famiglia (a che ora il bambino va a letto, se mangia e cosa, se
collabora ai lavori domestici). Nondimeno, i genitori si ritrovano a
poter/dover decidere in quale scuola mandare i figli, perché l’offerta
formativa delle scuole si è diversificata. Ma tali Piani di offerta
formativa (i Pof) sono molte volte infarciti di attività
extrascolastiche e il livello dell’insegnamento non è illustrabile.
Quindi si rischia di scegliere le scuole che hanno dei buoni Pof, anche
se – purtroppo, malgrado la buona volontà di tutti – non esistono, in
regime di autonomia scolastica, né i soldi né le risorse umane. E così
le famiglie e i ragazzi si trovano pizzicati in mezzo ad un ginepraio
di offerte, talvolta anche incomprensibili, contraddittorie.
Un’insegnante
di italiano di Torino, Paola Mastrocola, autrice di un romanzo dal
titolo emblematico La scuola raccontata al mio cane, racconta di una
società senza più armi, pateticamente arresasi a tutto: nessuno riesce
più a leggere un libro, i ragazzi devono essere animati più che
istruiti, anche perché i genitori sono divenuti utenti, a nessuno
importa sapere se un insegnante è bravo.
I termini stessi dei
testi editi dal ministero dell’Istruzione lo provano. In essi si usano
le «parole di una scuola che cresce», per cui l’utente viene accolto, i
ragazzi sono stimolati, la famiglia è privilegiata ed i processi di
conoscenza devono essere consapevoli, nella tradizione più noiosa della
più noiosa tradizione pedagogica. Non c’è un cenno a cosa succederà
nelle aule, mentre si susseguono notizie interessanti sull’efficacia e
l’efficienza di quello che era uno dei migliori servizi pubblici di
istruzione del mondo. Una di queste notizie viene da fonte autorevole
(7) e vede regolarmente l’Italia in coda ad un gruppo di 27 paesi più
industrializzati circa alcuni indicatori riguardo alla preparazione dei
docenti, al punto che la scuola media è una specie di buco nero,
compreso tra una buona (una volta era ottima) scuola elementare e le
superiori.
I ragazzi vanno a scuola per imparare? Sì, in una
situazione che le riforme scolastiche (promesse, paventate, irrisolte o
in via di gestazione) hanno reso e rendono difficile ma soprattutto,
poiché glielo abbiamo chiesto.
Poiché la scuola sembra così assente
nelle discussioni fra adolescenti, mentre si assiste alla
proliferazione di consumi in parte legati all’esposizione alla
pubblicità, dobbiamo pensare che sia un luogo in cui si scambia
qualcosa, si intrecciano relazioni, un luogo in cui c’è anche una noia
necessaria (dover studiare) e dove ci si aspetta di venir interessati.
Ma l’elemento di vero interesse è costituito, ora sempre di più, dalle
occasioni di socializzazione con i propri compagni e coetanei. Questo
porta anche ad un rifiuto, in alcuni casi, del proprio ruolo di
«studenti».
I diritti (allo studio) sono di fatto negati da una
scuola sempre più confusa e scioccata dalle proto-riforme e dalle
pseudo-riforme demagogiche, che mettono in difficoltà famiglie,
insegnanti e, in primis, i ragazzi.
I doveri sono difficili da
accettare, per cui non si concepisce l’istruzione, fatta di libri di
testo sempre più generici, insegnanti in parte preoccupati o disillusi,
scarse risorse e burocrazia eccessiva, se non in termini di fastidio.
Questo
vuol dire che la scuola può e deve capire che è un luogo di incontro
fra persone e bisogni, un luogo di socializzazione ma non deve ridursi
a quello e basta.
Le corresponsabilità di adulti e ragazzi,
istituzioni e singoli sono molte e la strada è lunga; intanto, sulla
base dei preoccupanti dati sul sistema scolastico nazionale, non è
detto che si riesca a fornire ai ragazzi di oggi quegli strumenti
necessari alla loro compiuta trasformazione in adulti liberi e
acculturati. Saranno capaci di resistere all’impatto veloce col mondo
adulto e del lavoro, malgrado la demagogia sull’impresa, sulla
tecnologia e sulle lingue straniere (che la riforma in teoria promuove,
in realtà riduce in numero di ore erogate)?

BULIMIA CONSUMISTICA, ANORESSIA CULTURALE

La
scuola è solo una delle agenzie formative per le persone. I ragazzi di
oggi apprendono moltissimo anche da altre fonti che non i loro
insegnanti e le materie di studio. I modelli culturali prodotti e
riprodotti socialmente dalla Tv e dalla pubblicità portano ad acquisire
modelli e riti, mitologie estemporanee e velocemente dimenticate e
digerite.
A cosa conduce questa situazione? Forse ad un
incanalamento della fantasia, che invece dovrebbe essere l’opposto: una
non-omologazione, una presa di coscienza critica. Ecco, allora, che
possiamo parlare di una bulimia consumistica, che è contrapposta
metaforicamente ad una anoressia di stimoli culturalmente eterogenei.
Esiste
un fenomeno di adultizzazione dei ragazzi come consumatori e questo
vuol dire tante cose. La pubblicità in fondo obbliga a pensare che
siamo tutti macchine celibi, desideranti, infantilizzando l’adulto e
adultizzando il ragazzo, spinti a comprare, vittime di frustrazione.
Ma la magia della gioventù è proprio il sogno, il desiderio, non la possibilità che il sogno sia preconfezionato.

QUANDO IL GIOCO SI FA TROPPO DURO… È ANCORA UN GIOCO?

Malgrado
questo, ora che le guerre appaiono in Tv (dal Vietnam all’Iraq dei
giorni nostri) forse l’immagine televisiva o internet esorcizzano
l’orrore, o forse (11 settembre) lo amplificano. Molti dei ragazzi
d’oggi sembrano cinici. Lo sono? O il cinismo è la risposta omeopatica
a altro, ben più profondo, cinismo? È una durezza esistenziale l’unica
via per non farsi toccare duro?
La tensione verso il gruppo dei pari
e l’autonomia amplificata dalla tecnologia porta a concepirci come in
un altrove parzialmente reale, cioè in un mondo virtuale. Il mondo
diventa regno dell’autorappresentazione, occasionalmente svegliato dal
tormento e dalla paura.
Ma la cultura della società di oggi, fatta
di puzzle di concetti, di mode, di design, di luoghi e non-luoghi
affascinanti è imprendibile, non è più (se mai lo è stata) monolitica.
Vivendo
in un mondo al limite, le regole sono trasgredite e la trasgressione è
la regola. Il modello protofascista e totalitarizzante, pur in una
dimensione che fa della democrazia e della rappresentanza un feticcio,
schiaccia la voce dei ragazzi (ma non solo la loro).
I luoghi ed i
tempi sono quelli dell’entertainment, perché quelli della scuola o
della casa sono tempi morti, noia esistenziale, momento che non
corrisponde al modello.
Le ricerche attuali sulla percezione del
rischio e la ricerca dei comportamenti estremi sembra essere un filone
interessante e recente.
Da alcuni studi, si evidenzia che i
ragazzi di oggi cercano di reagire ad un mondo sempre più ostile (o
percepito come tale) comportandosi in modo da esorcizzarlo. Si
comportano, ad esempio, in modo irresponsabile, mettendo a repentaglio
la propria incolumità. Ovviamente, questi sono comportamenti ed
atteggiamenti definiti come «estremi» ed, in quanto tali, marginali, i
cui effetti sono così eclatanti da riempire le pagine dei giornali
quando si verificano casi tragici.
Anche se statisticamente questi
casi stanno aumentando, Studio Aperto (tanto per fare un nome preciso)
non è forse un megafono continuo di notizie sui disastri del sabato
sera dopo la serata in discoteca o cronaca di disperazione e di
delinquenza minorile?

NEL TRANSITO

Alcuni
concetti devono essere esplorati per forza: la cultura che produce
salti fra desiderio ed azione, fra desiderio e realtà, fra realtà e
frustrazione, che rende vero in quanto percepibile ciò cui si ambisce.
Fino a qualche generazione fa, il desiderio era legato
all’immaginazione, privata o politica, dei giovani, alla lettura del
limite dato dalle generazioni dei repressi e repressivi genitori.
Da
qualche tempo, da noi, il desiderio vince. Speriamo che i videogames
(che possono essere molto meglio della Tv) si diffondano, permettendo
una ricerca della multisensorialità e di una corporeità nuova,
interattiva e non solo passiva.
Sappiamo, però, di doverci
confrontare coi frutti di una civiltà nomade, ovvero instabile e
temporanea. Siamo sull’orlo della proliferazione di concetti fondanti
che si mischiano a pratiche: pratiche della moda, del gusto, della
politica, ed anche smarrimento; la connotazione negativa è un esorcismo
da parte dei vecchi che vogliono parlare di qualcosa che pretendono di
sapere. Per un educatore, parlare dei ragazzi, sarebbe quasi come per
un antropologo parlare di una tribù di cui non fa parte.
E non dico «non fa più parte», ma proprio «non fa parte», perché i cicli generazionali sono così veloci che esiste un ricambio.
Quando
sei giovane, puoi gestire il tempo, mentre da vecchio ti conviene
occupare uno spazio. Esiste uno scarto tra il tempo veloce dei ritmi di
un mondo e di una cultura così modellati sulla città, e la capacità
percettivo-cognitiva umana che ha ben altri ritmi.
Infatti la
percezione umana, non è prodotta solo da una acquisizione adattiva di
dati provenienti dall’ esterno, ma da una elaborazione di informazione
creativa attuata dal cervello inclusiva dell’immaginario mentale
proprio della nostra specie.
Dobbiamo studiare le relazioni
sussistenti tra realtà e virtualità che si attuano nel mondo
delocalizzato della informazione globale. Dobbiamo uscire dalla vecchia
interpretazione degli eventi come se fossero semplici estensioni
localizzate e simultanee.
I ragazzi di oggi, che in queste pagine
abbiamo trattato come esploratori loro malgrado fra i meandri della
nostra società complessa ed ultra-tecnologica, come dei wild boys alla
William Burroughs (8), possono permetterci di capire come stiamo
cambiando.
Questo è il mondo in cui stiamo vivendo e cambiando,
pieno di problemi irrisolti come di soluzioni che non riusciamo ad
intravedere, ma anche di soluzioni praticabili a partire dal
riconoscimento che siamo nel transito.
Pensiamo alla parola inglese
translation, che sta sia per «transito, passaggio» che «traduzione» ed
al bel film di Sophia Coppola, Lost In Translation.
In esso,
assistiamo all’incontro nel transito (un Giappone postmoderno,
delocalizzato) tra una giovane sposa ed un vecchio disilluso, entrambi
sperduti in un mondo dove la tecnologia è dentro e fuori di noi,
assieme ai sentimenti del rimpianto, della malinconia e dell’amore, che
accomunano giovani e meno giovani, al di là della fugacità e velocità
del nostro stesso transitare.

Box 1

Giovani tra i 12 e i 19 anni:
«Sei favorevole a…»

sì no non so

Divorzio 54,9 34,6 10,5
Aborto 38,0 49,0 13,0
Eutanasia 41,2 34,8 24,0
Pena
di morte 25,0 63,7 11,3

(Eurispes / Telefono Azzurro, 2004)

Box 2
Tassi di povertà minorile
in alcuni paesi europei

Regno Unito 28,5
Portogallo 26,3
Spagna 25,2
Italia 23,3
Irlanda 20,4
Francia 17,2
Grecia 16,3
Paesi Bassi 16,1
Germania 12,9
Belgio 10,9

(Elaborazione Eurispes sui dati Eurostat 2002)

Box 3
Disordini alimentari giovanili: bulimia e anoressia

I
disordini alimentari degli adolescenti sono spesso accompagnati da
problemi di carattere psicologico che potrebbero durare sino all’età
adulta.
«L’incidenza totale dei problemi di alimentazione durante
l’adolescenza è bassa, ma coloro che sviluppano tali disturbi sono ad
alto rischio per quanto riguarda le turbe emozionali che possono durare
sino alla prima età adulta». Questa è la conclusione di un nuovo studio
dell’Istituto di ricerca dell’Oregon ad Eugene e pubblicato nel Joual
of American Academy of Adolescent Psychiatry (fonte:
www.farmasalute.it).
Vari studi in merito hanno dimostrato che in
una percentuale più alta rispetto al resto della popolazione
adolescenziale, nei pazienti affetti da bulimia, anoressia e versioni
parziali di queste malattie, si riscontrano anche dei problemi di
depressione, ansia e abuso di sostanze stupefacenti.
«Penso che i
problemi alimentari vadano prima di tutto capiti in un contesto di
molti altri problemi – dice il dottor Peter M. Lewinsohn -. Nulla
sembra nascere così dal nulla. Avremmo voluto osservare persone con
puri problemi alimentari, ma ve ne erano molto pochi tra di loro».
«Dipende
da ogni singolo paziente, ma sappiamo che i problemi dell’alimentazione
hanno poco a che fare con il mangiare e il cibo» dice Mae Sokol,
psichiatra dei bambini e degli adolescenti all’interno del programma
per i disordini alimentari alla Clinica Menninger a Topeka, Kansas.
«Non è un caso che queste situazioni iniziano durante l’adolescenza,
quando si è alla ricerca di una identità».
(Ma.Be)

Box 4
Lavoro: sempre più lontano
Fino
a qualche anno fa, in Italia, esisteva una percezione più diffusa della
povertà e della scarsità di occasioni di svago, mentre ai giorni nostri
le richieste e i desideri delle persone sono cambiate. Con l’avvento di
un certo benessere generale (ma in una società che ora sta cambiando di
nuovo) ci si concentra sui problemi esistenziali. La solitudine dei
ragazzi che vorrebbero avere un rapporto migliore con i propri affetti,
o che si rifugiano nella scuola, come luogo di aggregazione e non
solamente di apprendimento, si lega alla ricerca di libertà e
autonomia.
Ogni ragazzo ha davanti a se innumerevoli esempi che
può seguire e spesso si genera confusione su quale prediligere. Spesso,
inoltre, le scelte fondamentali che un giovane deve fare e che
riguardano il suo futuro, devono essere compiute in un’età ancora poco
matura. Un ragazzo comincia a scegliere cosa diventerà sin dalla scuola
superiore, quando potrebbe non avere ancora le idee chiare.
I
giovani vengono spinti a crescere in fretta, ma si devono poi
districare in una società che sta diventando vecchia, e che è veloce
per alcune sue caratteristiche ma inerziale per altre. La costruzione
di un’identità avviene in maniera relativamente semplice, naturale e
senza problemi, in una struttura sociale statica o in ogni modo
portatrice di modelli e valori ben definiti. Ma la contraddizione fra i
valori permissivi e consumistici e la naturale repressione della
libertà che avviene in un’età di scarsa o nulla indipendenza economica
ed affettiva è micidiale.
La strutturazione del lavoro
contemporanea, con la crescente richiesta di specializzazione e con la
concomitante crisi nell’offerta d’impiego stabile per i giovani,
favorisce una dilatazione del «tempo» dell’adolescenza, per cui è
frequente considerare giovani persone di 30 anni che continuano a
vivere nella famiglia di origine. (Ma.Be)

Marco Bertone




DOSSIERCari genitori…

Quando si parla di giovani lo schema è sempre il solito. Li si dipinge come dei decelebrati ma per salvarsi la coscienza e concludere con un finale deamicisiano si elencano le «loro grandi sensibilità».
Strano ragionamento. Effettivamente a guardarli fanno paura e a leggere sui giornali cosa combinano tutti i giorni i timori risultano fondati: scuole distrutte per evitare il compito in classe, omicidi, corse in automobile alla James Dean, «cannati» a 12 anni, con il fidanzato maggiorenne in prima media.
Disinteressati del mondo in cui vivono. C’è la guerra in Iraq? Ah… Ossessionati dalla tecnologia, dalla televisione, dalle mode.
Marco Lodoli su Repubblica ha scritto un paio di articoli per descrivere tale situazione. Nel primo raccontava la storia di una quindicenne che definiva la sua generazione «una massa informe» che per sentirsi viva non può che copiare i belli della televisione. Nel secondo sempre una liceale rifiutava l’interrogazione «per non soffrire». Lodoli ha commesso un errore: ha omesso il lieto fine e per questo è stato ricoperto di insulti e critiche. Peggio: ha scritto chiaro e tondo da dove arrivano quei ragazzi che sembrano dei marziani.
I grandi, i genitori e gli insegnanti di oggi, la generazione dei rivoluzionari del «proibito proibire», guarda con sgomento il prodotto della loro cultura. Il pragmatismo relativista si è trasformato in individualismo spinto, edonismo e narcisismo. Perché scandalizzarsi se i giovani non pensano, copiano, si conformano alle mode più becere? Tutto è vero, tutto è falso. I valori? Boh!
Non è esattamente quello che hanno insegnato loro? A ben guardarli, i ragazzi sono la fotocopia degli adulti che desiderano la bellezza perpetua, la bandana, il Suv, la crociera, il sesso disinvolto sempre, il successo, i soldi, la roba. I risultati delle indagini statistiche che scandagliano il pensiero adulto e quello giovane sono sempre più simili. Un quarantenne e suo figlio desiderano entrambi il benessere inteso come roba di cui rimpinzarsi, cambiano solo i gusti. Perché allora criticare il quindicenne che si disinteressa del cambiamento climale, e non il papà?
In loro vediamo noi stessi, forse è per questo che li consideriamo così male, ma ci sentiamo in dovere di mettere sempre il lieto fine quando parliamo di loro.
Maurizio Pagliassotti

Maurizio Pagliassotti




DOSSIERCari ragazzi…

L’estate scorsa sono stato invitato da alcuni educatori a trascorrere una giornata con un gruppo di adolescenti (età: 12-17 anni) nel loro campeggio.
Il clima era spensierato, allegro, ciondolone… una tipica vacanza di adolescenti semisvogliati che vanno in campeggio, perché possono stare due settimane senza le famiglie. La sera, dopo cena, ho detto poche parole di presentazione: «È da un mese che mi preparo per venire qui e trascorrere un giorno solo con voi. Mi pare che vi sia una forte sproporzione: 30 giorni contro 1. Ve lo dico perché sappiate che voi siete importanti per me. Vi racconterò alcune cose che probabilmente non sentirete da nessun altro. Sono certo che non perderemo tempo, perché, come dice Dante, “il perder tempo a chi più sa più spiace”». Il silenzio, che era già attento, si è fatto più profondo. Io sono rimasto zitto, per lasciare che quel silenzio parlasse. Dopo un bel po’, ci siamo salutati, dandoci appuntamento per l’indomani. Il giorno dopo, ci siamo ritrovati per preparare i gruppi di lavoro sul tema prescelto: il viaggio. Ho fatto una premessa, parlando della cultura e del sapere, dell’ignoranza e della riuscita nel lavoro, dello studio ma anche del sesso. Ho detto che avranno tempo, un giorno, di fare tutto il sesso che vorranno, ma che ora dovevano spremere ogni secondo per conoscere, conoscere, conoscere… perché troppi padroni sono in agguato per rubare loro il pensiero e la capacità di giudicare con la propria testa, troppi hanno interesse a condizionarli con le mode, con gli status-symbol per fae dei modei schiavi. Le donne poi – ho continuato – devono faticare 1.000 volte più degli uomini, per farsi valere e, se vogliono rimanere se stesse senza vendersi al primo venuto per un tozzo di pane, hanno un solo strumento: studiare, studiare e ancora studiare.
A questo punto, ho cominciato a leggere la Bibbia in ebraico, poi un brano di vangelo in greco e ho visto che alcuni, che studiavano greco, s’illuminavano di fronte alle parole che conoscevano, mentre gli altri, compresi i più piccoli, sgranavano gli occhi e si sistemavano meglio, seduti in terra. Ho parlato loro di poesia e ne ho letto alcune, altre le ho declamate a memoria. Ho buttato in mezzo a loro fogli su fogli sui quali avevo scritto a caratteri cubitali parole che non conoscevano. Ho messo in evidenza la loro ignoranza, stimolandoli a superarmi. Li ho spronati a studiare lingue, più lingue possibili per essere in grado di comunicare direttamente con tutti. È venuto fuori il processo di unificazione dell’Europa e il posto dell’Italia in esso e l’atteggiamento del governo. Ho detto loro che la prima lingua straniera da imparare se vogliono apprendere bene le lingue è la loro lingua matea, di cui devono studiare a memoria la grammatica e la sintassi che sono strumenti indispensabili anche per la matematica, per le scienze per l’informatica e per l’economia.
Non ho concesso nulla di effimero, nulla che potesse comprarli nel loro compiacimento. Abbiamo iniziato alle ore 8,30 ed erano le ore 14,00 con la cuoca che spingeva da un’ora e mezza per andare a tavola, ma i ragazzi, nessuno escluso, non si alzavano, ma anzi facevano domande a raffiche e gareggiavano con me nelle cose che proponevo. Gli educatori erano allibiti ed esterrefatti perché non avevano mai visto nulla di simile. Abbiamo continuato anche dopo pranzo, perché ora il ghiaccio era rotto e i ragazzi sentivano che, dentro di loro, si era spezzato l’argine delle cose che desideravano. Alcune ragazze sono venute a chiedermi di approfondire alcuni temi che le interessavano particolarmente come donne. Mi dicevano: «A volte, gli adulti pensano che noi vogliamo solo giocare o siamo interessati soltanto a cose frivole e per questo non sono disposti a perdere tempo per noi; a volte, temono di proporci progetti arditi forse perché, in fondo, hanno paura di se stessi, di non essere capaci».
Da quell’esperienza in campeggio, ho avuto conferma di un mio profondo convincimento: finché un ragazzo e una ragazza danzeranno il canto della vita, ci sarà ancora speranza per questo vecchio e spento mondo di adulti delusi e arresi.
Paolo Farinella

don Paolo Farinella




DOSSIERGlossario minimo

Cabina: ragazzo/a appartenente al gruppo dei «cabinotti», adolescenti amanti della moda firmata e del lusso in generale. Deriva dall’abitudine dei rampolli delle famiglie «bene» torinesi a ritrovarsi davanti ad alcune cabine telefoniche della collina.
Altea: ragazzo/a il cui stile di vita è sobrio, contro le mode, anticonsumista. Nemici dei cosiddetti «cabina», fanno parte del variegato mondo no-global.
Non mi chiudere – mi stai chiudendo: manifestazione di scarsa sopportazione verso qualcuno generalmente noioso e petulante, solitamente un insegnante.
Mi fai scassare: complimento che manifesta grande simpatia e apprezzamento.
Te la tiri – non te la tirare: rimprovero verso colei che ha atteggiamenti da donna inarrivabile.
Fammi fare un tiro: riferito alla sigaretta corrisponde ad un invito di condivisione.
Gaggio/a: persona ridicola, non piacevole.
Micio/a: persona simpatica, affettuosa. Con tono accusatorio e preceduto da non fare esprime invece rimprovero.
Sei fuori: sei matto.
Essere out: essere fuori moda, fuori contesto.
Essere avanti: stile di vita moderno, inteso anche in senso culturale.
Spacchiuso/a: colui che si atteggia a divo.
Fai cisti: richiesta di attenzione.
Di brutto: molto.
Da paura: se esclamato sta ad indicare entusiasmo.
A muzzo: a caso.
Carenzare: centellinare in situazione di carenza.
Sdruso: sorso.
Cellu: abbreviazione di cellulare.
Banfare: esagerare un resoconto al fine di mettersi in mostra.
Segare: se riferito alla scuola o ad una ragazza sta ad indicare «respinto» (mi ha segato = mi ha respinto) (sono stato segato in seconda = mi hanno respinto in seconda).
Tagliare: scolastico, non recarsi alle lezioni mattutine.
(a cura di Maurizio Pagliassotti e Fabio Pugliese)

aa.vv.




DOSSIER KENYASETE DI ACQUA, PACE E GIUSTIZIASapori d’Africa

Studente di legge all’Università cattolica di Milano, l’autore ha passato un mese tra i missionari della Consolata a Gatunga, nella regione del Tharaka.
Ne è tornato affascinato dal mondo ivi scoperto e con una grande fame… d’Africa.

Prima che mi fosse offerta l’opportunità di un’esperienza in questo continente, la parola Africa mi evocava vaghe idee infantili e suggestive fantasie di avventura, natura, mistero.
Invece mi sono trovato a esplorare un paesaggio umano e reale di cui avevo sentito parlare solo in astratto da qualche rara inchiesta televisiva o dai resoconti di alcuni missionari. Ho potuto sperimentare sulla mia pelle odori e sapori dell’Africa vera, concreta, quotidiana; ho incontrato un’umanità sofferente per la povertà di mezzi materiali, ma serena, vitale, giorniosa, ricca di speranze.

UNA METROPOLI TERRIFICANTE
Nairobi è il mio primo bagno d’Africa: un’immersione superficiale, ma già ricca d’impressioni ed emozioni. È una città caotica, squallida, disordinata e altamente inquinata. Le immagini scorrono nella mente come rapidi flashes: grande affollamento per le vie e fiumi di persone accalcate sui marciapiedi o sdraiate su aiuole, un tempo verdi, che compongono un mosaico variopinto; mercatini che s’inseguono in modo confuso, deprimente e poco igienico ai bordi delle strade; pulmini scassati, senza portiere, traboccanti di gente pigiata come spiedini; traffico selvaggio (è «proibito» fermarsi col rosso) e assordante per i clacson che suonano a piacimento; incroci stradali dove le frecce manuali sopperiscono alla mancanza di quelle elettroniche; loculi sovrappopolati nell’estrema periferia…
Eppure, nella sordida miseria della periferia esiste un non so che di pittoresco, che si può assaporare solo passeggiando tra i mercatini, abbandonandosi alla loro atmosfera, ai sapori e odori dell’Africa autentica.
C’è qualcosa di addirittura edificante nella drammaticità di un incontro coi bambini malati di Aids in un centro del Cottolengo: dai loro occhi, sguardi e sorrisi catturo un’incontenibile gioia di vivere, un fuoco che arde impetuoso prima di spegnersi, purtroppo, per sempre.
In una casa-famiglia, invece, vedo rinascere la speranza: qui sono accolti bambini e giovani respinti dalla società e dalla famiglia, che hanno alle spalle vicende terrificanti di schiavitù, tortura, prostituzione, droga o accattonaggio.
Con quell’affetto e amore che non hanno mai ricevuto, essi sono aiutati a imparare un mestiere, per ricostruirsi una nuova vita e avere un futuro almeno decoroso. È confortante vedere come delle ragazze africane si adoperino con passione, per aiutare la propria gente ad aiutarsi a sua volta, a risollevarsi con le proprie forze, senza confidare solo su finanziamenti e aiuti dall’esterno.
L’Africa più nera, l’apice della miseria, la incontro a Giturai, un orrendo quartiere ai margini di Nairobi. Qui un gruppo di volontari di Olgiate Molgora (LC), sotto la guida di padre Luigi Brambilla, superiore dei missionari della Consolata in Kenya, sta lavorando con entusiasmo per costruire una scuola, la chiesa e annesso centro pastorale.
Nell’ambiente circostante la missione la povertà di beni essenziali, igiene, decoro e dignità raggiunge i livelli di un desolante degrado materiale e umano.
Ma Nairobi, in fin dei conti, non è l’Africa vera, è la classica e spaventosa metropoli del terzo mondo, in cui convivono in maniera confusa e contrastante quartieri residenziali esclusivi ed eleganti (come le faraoniche ville di magnati pakistani o indiani), centri affaristici o istituzionali con i loro edifici di rappresentanza, e tutt’intorno, senza confini o separazioni nette, si estendono i terrificanti slums di Nairobi.
Qui i ragazzi di strada ti stanno continuamente appiccicati, mentre cammini sui marciapiedi, nella triste speranza che dalle tasche dell’uomo bianco cada qualcosa, anche solo una briciola di quella ricchezza per loro irraggiungibile.

MAGICA GATUNGA
Lontano dalla capitale, comincio a respirare un altro modo di vivere, una dimensione umana e culturale totalmente diversa, un’Africa più intatta e affascinante: primitive capanne di argilla e paglia, tranquillità e aria sana, serenità e tanta dignità. Dopo cinque ore di viaggio, eccoci a Gatunga, terra arida e infeconda nella regione del Tharaka.
Il paesaggio non ha nulla di spettacolare: solo piccoli arbusti, sterpaglie, spine giganti, qualche solitario baobab e tanta polvere rossa. Ma è il paesaggio umano ad attrarre maggiormente. La gente è ospitale, cordiale, a suo modo persino cerimoniosa con noi estranei.
Ricordo con piacere una serata trascorsa a casa di Eduard, con sua moglie e i loro tre bambini dagli occhi e sorrisi di disarmante dolcezza: seduti su artigianali sgabelli di legno, assistiamo al calare delle tenebre, scherzando e ridendo in una quiete surreale, nel cuore della savana tharakese, nell’Africa più nera che ci sia.
In questa immensa distesa di terra rossa e bruciata, provo per un attimo un’ebbrezza indescrivibile, un condensato di contrastanti sentimenti di grandezza, maestosità, dominio, onnipotenza e, al tempo stesso, di soggezione, precarietà, miseria umana. In totale abbandono alla forza magica di questa terra, penso che soltanto questa sia l’Africa vera.
Al momento di congedarci, i padroni di casa, che tra l’altro vorrebbero condividere con noi il loro frugale pasto, ci sommergono con una valanga di regali (ciotole e mestoli di legno, frutta tropicale, borse, uova, legumi…). Vergognandoci di non potere contraccambiare, siamo costretti ad accettare per non ferire il loro senso di ospitalità.
È cosa abituale incrociarsi per gli stretti sentirneri che conducono al mercato o in aperta savana e salutarsi spontaneamente, scambiarsi due parole o tentare una stentata conversazione, e poi proseguire il cammino più contenti, soddisfatti di un contatto così naturale, libero e intenso; tutte cose a cui da tempo non siamo più abituati.
Ogni tanto, sviati dalla loro pacata e serena giovialità, dall’eleganza e pulizia dei loro vestiti di stampo occidentale, capita di dimenticarsi che ci troviamo in una regione tra le più povere al mondo e con un alto tasso di mortalità. È una povertà resa evidente nella mancanza di beni vitali, come l’acqua, ma meno angosciante di quella vista a Nairobi. Qui è più velata, con meno impatto, celata da una coltre di normale e dignitosa quotidianità.
Sono soprattutto i bambini, con la loro contagiosa allegria a farmi trascurare che qui si vive in scomodi capanni, senz’acqua e senza luce, che quasi si muore di fame, o si vive, finché si vive, di poche e povere cose.
Quanti ne ho visti di bambini, alcuni timorosi, altri decisamente più estroversi, stringersi intorno a me, assalirmi con la loro eccezionale carica di gioia, lieti di vedere qualcosa di diverso e «strano» come me!

COLORI, ODORI, SAPORI
Per completare il panorama umano di questo magico angolo d’Africa, non può mancare uno dei momenti tipici della vita africana: una giornata di mercato. Nel cuore del villaggio di Gatunga la gente arriva a sciami da tutto il Tharaka, dopo aver percorso decine di chilometri a piedi o in bicicletta. Per la gente è un’occasione per scambiarsi un’infinità di notizie e barattare le loro mercanzie.
Per me diventa un ottimo punto di osservazione per penetrare nei molteplici aspetti del macrocosmo africano. Passeggiando come un normale indigeno e abituale avventore, in un’affollatissima e quasi impenetrabile selva di bancarelle, sono impressionato dalla straordinaria varietà di prodotti, dalle numerose specie di frutta tropicale alle verdure, legumi, spezie e tuberi, dalle stuoie, vestiti e tovaglie (celebri le «getambà» made in Gatunga), agli aesi e utensili in ferro e persino sciabole made in China.
È un mercato ricco, vivace, colorato, con l’inconfondibile e indescrivibile sapore d’Africa. M’incuriosiva soprattutto l’enorme assembramento di capre, galline, vacche e asini, di cui non riuscivo ad afferrare il senso. Un missionario mi ha spiegato che gli asini sono i mezzi di trasporto per gli articoli del mercato (come i nostrani carrelli della spesa); capre, galline e vacche costituiscono la merce di scambio per altri articoli necessari alla sopravvivenza.
Già, vivere è il segreto insegnamento di questa terra: riuscire a campare con dignità e apparente serenità in mezzo a una natura che non ti regala niente, a un’immensa distesa di nulla, da cui non ricava che spine e polvere.
Ma mentre mi lascio contagiare dall’atmosfera di festa, mi accorgo di essere diventato io, unico bianco, l’attrazione principale dell’animato mercato. Tutti gli occhi si distolgono dalle usuali occupazioni per soffermarsi ora curiosi, ora magari infastiditi o addirittura intimoriti su di me con mio enorme imbarazzo.
Sono conteso dai venditori che cercano di approfittare del mio evidente disagio per propinarmi l’improponibile, persino una gallina, investendomi con fiumi di belle parole che non capisco. Mi limito, per quieto vivere, a comprare alcune banane, unica merce di facile e immediata utilità.
Continuo impassibile a osservare e inquadrare con la cinepresa, quei volti neri, che a loro volta mi squadrano da dietro le bancarelle e la vita continua a scorrere tranquilla, con la solita quotidianità normale e dignitosa, che pare prevalere, almeno per ora, sulla micidiale povertà.
Anche la vita nei giorni normali ha un suo tratto peculiare. È quello dei bambini di cinque o sei anni, che già guidano con fare sicuro le greggi di mucche o capre lungo i viottoli; delle vecchiette che, logore e curve, si trascinano per chilometri a tutte le ore del giorno, dall’alba al tramonto, sotto pesanti taniche d’acqua sporca, che vanno ad attingere in fiumi dislocati spesso anche a venti chilometri dalle loro case. Sul loro volto è dipinta la fatica, insieme alla serenità derivante dalla consapevolezza di un ineluttabile modo di vivere, radicato ormai da tanto tempo nel loro humus genetico.

L’UNIVERSO MISSIONARIO
Da decine di anni, i missionari si sono inseriti in questo pezzo d’Africa e ne fanno parte a tutti gli effetti. Costituiscono, assieme ai volontari laici che fanno da supporto tecnico o finanziario, l’unica possibile via d’uscita di queste popolazioni dal circolo vizioso del sottosviluppo.
Il loro impegno è orientato a colmare le carenze più gravi, a soddisfare i bisogni più urgenti e fondamentali, a migliorare, a poco a poco, la qualità della vita. Ma al primo posto c’è la formazione di una coscienza umana e cristiana, per costruire comunità autonome e attive.
Non avevo mai avuto a che fare con dei missionari; a Gatunga ho toccato con mano la loro dedizione totale, sincera, appassionata ai problemi della gente. Tra questi il più pressante è certamente quello dell’acqua.
Marimanti, cittadina a un quarto d’ora da Gatunga, diventata da poco capoluogo distrettuale, perciò sede di uffici statali e polizia, ospedale e scuola, è ancora sprovvista d’acqua, comprese le strutture che maggiormente ne hanno bisogno.
È terrificante vedere in quale stato di sporcizia e disagio sia ridotto un sanatorio senza acqua corrente: ho visto coi miei occhi dei bisturi immersi in bacinelle d’acqua mista a sangue, servizi «igienici» (anche se mi è difficile definirli tali) posti all’esterno dell’edificio ospedaliero, che costringono i pazienti a trasferimenti scomodi o difficoltosi, se non impossibili in alcuni casi.
I missionari hanno avviato il progetto di un acquedotto a Marimanti. Il luogo di prelievo, a un paio di chilometri dal paese, è il fiume Kathiga, che con le sue cascate dà vita a una vera oasi nel deserto tharakese. La canalizzazione partirà dalla sommità delle cascate, per sfruttare la caduta senza l’impiego di costose pompe. Unica difficoltà da superare è la distanza, poiché il percorso della tubazione dovrà sormontare una collinetta prima di scendere in città.
Tecnicamente il progetto è fattibile e sicuramente partirà: un gruppo di volontari di Torino e Roma è venuto sul posto, ha tracciato i rilievi e fatto i preventivi sui tempi e costi dell’operazione, per poi lanciare una campagna e avere finanziamenti necessari.
Osservando l’entusiasmo di questi ragazzi, si rinvigorisce la speranza in un futuro migliore per l’Africa. Se di giovani come loro, animati da grandi ideali e capaci di sacrificarsi, ce ne fossero di più, forse l’Africa non sarebbe così lontana.
Gli africani, da parte loro, non stanno a guardare. Nel caso di Marimanti, per esempio, la popolazione si offre per la mano d’opera e organizza le arambé (una specie di lotteria) per raccogliere fondi e contribuire, per quanto è possibile, al progetto dei missionari.
Ma il problema tecnico-finanziario non è tutto. Il lavoro dei missionari è molto più lungo e spinoso, ma decisivo: si tratta di sensibilizzare ed educare la gente al bene comune, un concetto non facile da inculcare dove si lotta per la sopravvivenza.
In un incontro, sempre sul problema dell’acqua, con alcune autorità locali, ho potuto constatare la difficoltà di taluni a comprendere l’utilità collettiva di un bene prezioso come l’acqua, l’importanza che essa riveste per uno sviluppo complessivo della vita. Trapelava, invece, la tendenza a considerarla una possibile ricchezza ad esclusivo vantaggio personale, come può esserlo un gregge di capre.
Tale mentalità potrebbe sfociare in gesti di illegalità, accaparramento e sfruttamento di pochi a danno della comunità, con conseguenze funeste per la civile convivenza. È evidente che il compito dei missionari è complesso e delicato, perennemente in bilico tra ciò che della cultura africana va conservato e valorizzato, perché in armonia col loro carattere e la loro terra, e ciò che deve essere corretto o gradualmente integrato con la modeità.
Se vogliamo veramente aiutare l’Africa, dobbiamo aiutare i missionari.

L’AFRICA CHE MI PORTO DENTRO
Nei miei pellegrinaggi tra missioni e cappelle, dentro e fuori del Tharaka, ho partecipato a decine di celebrazioni religiose, animate da vivaci e interminabili canti, danze e processioni, che conservano sapori ancestrali, un tempo usati forse per oscuri rituali, ma che i missionari hanno saputo trasformare per esprimere la gioia della fede cristiana.
Il rito del matrimonio, soprattutto, mi è sembrato una stupenda vetrina sulle più ataviche tradizioni africane. La messa solenne nella chiesa di Gatunga, prevista per le 9 del mattino, è iniziata rigorosamente 4 ore dopo e si è prolungata per tre altre ore, secondo l’usuale orologio africano, che dilata la dimensione del tempo e della vita.
Finita la funzione, si procede in processione lenta, ma sonoramente andante, dietro agli sposi fino al banchetto nuziale, al quale sono tutti invitati. In un’atmosfera di festa paesana e giorniosa comunione, parenti, amici e conoscenti partecipano alla felicità degli sposi.
Un’intrattenitrice ci stordisce per quasi un’ora. Finalmente (sono circa le cinque del pomeriggio) ha inizio il convito nuziale: prima gli sposi e la parentela, muniti di forchette e coltelli, poi tutti gli altri con le mani. Mentre li guardo mangiare, mi sento un intruso, finché una signora sorridente si avvicina per offrire anche a me la ciotola di riso, condito da una salsa di legumi e un pezzo di carne di gallina. Rifiuto cortesemente, ma apprezzo ancora una volta la calorosa ospitalità.
Al pasto segue il rituale simbolico della consegna dei doni agli sposi e lo scambio della dote tra i rispettivi genitori, che consiste in un buon numero, concordato in precedenza, di capre e galline schiamazzanti.
La giornata si chiude felicemente alle sette, quando d’improvviso le tenebre avvolgono quest’angolo di terra e comincia una lunga notte silenziosa, interrotta dai versi striduli delle scimmie.
Trascorro l’ultima settimana tra battesimi e cresime, al seguito del vescovo di Meru, nelle cappelle sparse per la vasta parrocchia di Gatunga. Sono giorni scanditi dai ritmi, suoni e colori, conditi dall’impareggiabile accoglienza da parte delle varie comunità cristiane, animate tutte da spirito e fervore inimmaginabili nelle nostre asfittiche parrocchie.

I ricordi più vivi di questa lunga esperienza sono proprio i momenti, anzi le ore, fino a tre o quattro, intensamente vissute in mezzo a queste comunità, nelle loro semplici e accoglienti chiese di legno, fango e lamiera, sperdute nella più raggelante miseria umana e ambientale, ma scaldate dal calore della gente, dalla voglia di stare insieme, dagli allegri e orecchiabili canti che accompagnano danze e processioni, dai cocktails entusiasmanti di suoni, colori, voci, sguardi e sorrisi meravigliosi.
Sono questi i sapori d’Africa che mi porto dentro; anzi, sapori di cui ho fame.

BOX 1

MEZZA CAROTA

Ho vissuto lo slum di Nairobi, come volontario. L’ho vissuto nella sua interezza, camminando tra le capanne di sterco e fango, con l’odore penetrante del liquame, spaventato dalla diossina che un’immensa discarica a cielo aperto, bruciando, consegna ai polmoni degli abitanti. Devastandoli.
Ho giocato con bimbi uguali a quelli di tutto il mondo, con la stessa voglia di correre e crescere, senza sapere che solo uno su dieci di loro diverrà adulto. Sono entrato in capanne dove persone malate riuscivano a sorriderti solo perché tenevi per mano il loro figlio: ho guardato e sono uscito, inutile nella mia impotenza. Sono stato alla messa che padre Luciano celebra nel capannone di legno: quattro ore di funzione e canti, con una potenza tale da farti paura, tanto Dio si avverte vicino. Tanto da farti capire l’assurda inutilità di oro e argento nelle case del Signore.
Sono stato crocifisso da un bambino che ha spezzato la sua carota in due, la sua merenda, forse anche cena, offrendomene metà, solo perché avevo giocato con lui.
A poche centinaia di metri i grattacieli di Nairobi diretti verso il cielo, strade piene di auto, uffici lussuosi: l’Occidente ricco e opulento a violentare la realtà che avevo attorno, la realtà dell’80% del mondo.
Ho vissuto lo slum di Nairobi e sono andato via, troppo vigliacco per restare in quel posto, dove mi era stato regalato il mondo in cambio di niente. Ma le stesse cose ho incontrato in Madagascar, Senegal, Camerun e altri posti, dove la sopravvivenza si cattura giorno dopo giorno, senza mai la certezza di possederla.
Lo slum di Nairobi: ci vivono oltre 2 milioni di persone. Ora hanno deciso di scacciarle. Gigantesche ruspe come demoni cattivi entreranno fra le case, scardineranno i sogni, la voglia di vivere ancora nonostante tutto.
Si dice che un’impresa americana, abbia deciso di costruire sulla collina un complesso per il golf, nobile gioco di nobili persone, che certo non possono avere sotto gli occhi lo spettacolo di una baraccopoli con le sue disgraziate vicende e pestilenziali odori. Già l’anno scorso si parlava di demolizione. In Kenya la terra appartiene interamente allo stato che può decidere in ogni momento la requisizione.

Io non credo a girotondi, appelli, preghiere alle autorità del mondo, per molte delle quali gli esseri umani senza risorse sono poco più che fastidiosi insetti. Non lo credo, anche se sono certamente importanti, come tutte le ribellioni a situazioni simili. Credo invece che colpire gli interessi economici ottenga risultati migliori, perché solo il denaro e l’interesse hanno valore per il potere. Perché allora non sensibilizzare tutte le agenzie di viaggio, boicottare le vacanze in terra kenyana, fino a quando una parte del salato visto d’ingresso non venga destinato alla costruzione di villaggi, strutture di accoglienza, di cura? Perché non far comprendere a chi sogna il sole dorato delle spiagge africane e i safari fra esotici animali, che questo avviene fra il dolore inimmaginabile di milioni di persone, devastate da fame e Aids?
Solo con la consapevolezza di tutti, l’assurda sperequazione nelle condizioni di vita del pianeta potrà, lentamente, ridursi. Solo con la voglia di capire che un semplice caso non ci ha portato a nascere e morire a solo poche ore d’aereo e che, in tale sfida per tutti noi, il piano divino prevede la voglia di lottare per dei fratelli privi di ogni cosa, potremo cercare di cambiare qualcosa.
L’ingiustizia atroce di quello slum non è la sua demolizione, ma la sua esistenza stessa. Anche se fra sterco e fango esiste un’umanità autentica, spesso dimenticata dal quotidiano vivere della nostra parte di mondo. Anche se la mezza carota di quel bambino possedeva e possiede la forza autentica della parola di Cristo, quella parola quasi sempre oscurata dal luccicante spettacolo del nostro tempo.

William Giusti

Angelo Croce




DOSSIER KENYASETE DI ACQUA, PACE E GIUSTIZIATratta di esseri umani

Mete turistiche rinomate a livello internazionale, Malindi, Mombasa e altre città della costa del Kenya sono teatro del sordito commercio di esseri umani, esportati anche… in Italia.

Appena tramonta il sole, su Malindi scende la confusione. Nel resto del paese, la gente si affretta verso casa per godersi il meritato riposo, qui si sveglia per la seconda volta.
Città della costa kenyana, con circa 300 mila abitanti, sfacciatamente ricca, Malindi può essere scambiata facilmente per un distretto a luci rosse di un’affaccendata e spensierata città europea, come Amsterdam.
Quanti turisti, sdraiati sulla spiaggia, fissano il cielo come se stessero aspettando che le stelle portino loro un messaggio da casa! Bambini che si rincorrono sulla sabbia, sotto la pallida luce della luna. Ragazzi scarsamente vestiti, abbordano i turisti con cenni fin troppo allusivi. Le ragazze sfrecciano da una strada all’altra come in pieno giorno. Cosa fanno? Non è difficile scoprirlo.
Come una luce nell’oscurità attira a sé gli insetti, lo splendore di questa città costiera, attira gente da ogni dove. Ricchi turisti fioccano per le vacanze; piccoli e grandi investitori, locali e stranieri, vengono per fare affari… e i poveri si affollano per raccogliere le briciole.
Queste ragazze che si crogiolano nell’affascinante notte di Malindi fanno parte dell’ultimo gruppo. Non hanno soldi per alloggiare in albergo, tanto meno da investire in affari, vengono per vendere se stesse.
Oltre alle donne, ci sono i cosiddetti «ragazzi di spiaggia». Molti di essi vengono da comunità pastorali: non vendono souvenir, né si esibiscono in danze tradizionali per rallegrare la vita nottua degli alberghi. Sono pronti a procurare ragazze su richiesta, a procacciare avventure esotiche a donne straniere o diventare essi stessi un brivido di giovinezza per vecchie e ricche turiste d’oltremare.

LUCCIOLE
Padre Linus Jappani, incaricato del turismo presso la Commissione giustizia e pace della diocesi di Malindi, accusa la povertà che regna lungo la costa e nelle regioni circostanti: è questa che spinge le ragazze alla prostituzione.
Oltre a organizzare la celebrazione della messa in diverse lingue, per i turisti cattolici presenti negli alberghi della costa, padre Jappani ha il compito di togliere tali ragazze dal marciapiede. Il suo lavoro non è un letto di rose, dice: «Convincere le ragazze ad abbandonare tale vita non è un compito facile, perché non ho nulla da offrire come alternativa, una volta uscite dal giro».
Durante l’intero anno in cui egli è uscito per parlare alle ragazze, è inciampato in varie realtà. La maggior parte di queste ragazze non sono del posto, ma vengono dalle regioni intee del Kenya; molte di loro sono state raggirate, ingannate e spinte alla prostituzione. Sono poche le donne che battono tale strada volontariamente per arricchire in fretta; moltissime quelle che ci cadono per inganno.
Suor Lucy Kerubo, della Commissione giustizia e pace della diocesi di Malindi, tenta di chiarire le loro origini: dice che queste ragazze vengono da ambienti poverissimi, per lo più da zone rurali. Solo un quarto di esse sono locali (dell’etnia giriama). Molte vengono da Kitui, nel Kenya orientale, zona famosa per la sua disperata povertà.
È chiaro che qualcuno ci guadagna su questa disperazione, sempre pronto a rifornire il mercato di ragazze per qualsiasi occorrenza. La clientela è abbondante: l’afflusso di turisti lungo la costa, le navi militari straniere che attraccano a Mombasa fanno andare gli affari a gonfie vele.

TRAFFICO UMANO
L’Onu definisce il traffico umano come «reclutare, trasportare, trasferire, alloggiare una persona per mezzo di minacce o uso della forza o altre forme di coercizione, rapimento, frode, inganno, abuso… a scopo di sfruttamento. Lo sfruttamento include la prostituzione altrui, lavoro forzato, schiavitù, rimozione di organi».
I paesi di tutto il mondo hanno sperimentato differenti livelli di traffico di esseri umani. I casi più grandi sono negli Stati Uniti, dove ogni anno, secondo il Catholic Relief Services (Crs), oltre 2 milioni di persone (per lo più donne e bambini) sono oggetto di traffico.
A riguardo dell’Africa, si è parlato di bambini uccisi e i loro organi asportati e venduti al mercato nero internazionale; di ragazze portate in Europa, Americhe e nei paesi asiatici ricchi per essere ridotte a schiave del sesso; di giovani venduti e costretti a lavorare nelle lucrative piantagioni di vari paesi africani; altri sono rapiti per combattere nelle numerose guerre che continuano a insanguinare il continente.
Dopo il quasi collasso dell’economia, la perdita del lavoro e la crescente povertà nelle aree rurali e urbane, molti kenyani sono stati costretti a stili di vita inimmaginabili. I trafficanti ne hanno approfittato, facendo promesse di impieghi ben remunerati e buone condizioni di vita: disperazione e false promesse fanno molte vittime.
Ottenere notizie dettagliate sul traffico umano in Kenya è praticamente impossibile, poiché l’affare è condotto in estrema segretezza. Molte organizzazioni hanno cercato di seguire varie piste; ma molte tracce finivano nel nulla. «Nessuno parla del traffico umano e di prostituzione in piena luce; avere dettagli è un’impresa difficile» dichiara Juma Kamau, un operatore sociale della diocesi di Mombasa.
Tuttavia, i rapporti dell’Associazione delle religiose del Kenya (Aosk), della Commissione giustizia e pace delle diocesi di Malindi e Mombasa, di Solwodi (Solidarity with women in distress, organizzazione ecclesiale che cerca di riabilitare le ragazze dalla prostituzione) hanno raccolto alcune informazioni, ancora alquanto nebulose, sul traffico di donne, specialmente di ragazze.

UNA RETE PERVERSA
La rete coinvolta in questo lurido commercio serpeggia lungo una strada che dalle spiagge penetra nei villaggi rurali del Kenya, anche lontanissimi, come quelli della regione di Kakamega, nell’ovest del paese. Donne mature si recano in questi villaggi e convincono i genitori di ragazze con promesse di impieghi ben pagati nei grandi alberghi della costa.
Gli accordi sono fatti con tale astuzia che le ragazze, spesso analfabete, sono incaricate di gestire modei congegni, difficili da maneggiare con efficienza. Quando questi si rompono, le giovani sono ricattate e costrette ad assumere un altro compito che il datore di lavoro offre loro per ripagare il debito.
Padre Jappani fa capire che le mafie coinvolte nel traffico umano operano da diversi bordelli, camuffati da case residenziali o ville lungo le città costiere di Malindi, Kilifi, Watamu e Mombasa. I proprietari di queste case, spesso locali donne d’affari con connessioni ad alto livello, impiegano buttafuori: guai a chi tenta di ficcarci il naso. «Visitare qualsiasi di questi sospetti bordelli è un suicidio: non se ne ritorna vivi» ammonisce.
Quando non ci sono clienti, le padrone costringono le ragazze a lavorare nei saloni per massaggi o di parrucchieri. Questi luoghi diventano una passerella, per mostrare le ragazze in vendita.
Queste padrone, inoltre, assumono intermediari che vanno sulla spiaggia e accolgono i turisti appena mettono piede negli alberghi, per poi portarli nelle case dove le disperate ragazze sono ormai disposte a tutto per sopravvivere.
La signora Emma Ndonye, della Commissione giustizia e pace di Mombasa crede fermamente che queste ragazze sono state usate per scattare film poografici per il mercato internazionale.
Alcuni turisti, poi, hanno iniziato attività alberghiere in Kenya e attirano i propri concittadini con l’offerta di ragazze. In prossimità della stagione turistica, essi ricorrono a inserzioni pubblicitarie per offerte di lavoro. «Perché arruolano ragazze sprovvedute, invece di esperte intrattenitrici?» domanda la signora Emma. «Di fatto, è evidente perché alcuni di questi turisti, che possiedono case residenziali nel paese, impiegano tanti domestici proprio quando aspettano i visitatori».

PER VIE TRAVERSE
Se un turista vuole una ragazza da portare in patria, gli basta solo sborsare un po’ di denaro e il proprietario di un bordello organizza un frettoloso matrimonio con il personale che lavora nel suo locale.
Così la ragazza finisce sui marciapiedi europei, spesso sotto gli stessi padroni che operano in Kenya. La strada per l’«esportazione» varia a seconda della destinazione. In Italia esse arrivano con voli diretti, oppure sono trasportate furtivamente, passando per l’Egitto. Quando i trafficanti sospettano di essere seguiti, passano per differenti paesi, in modo da far perdere le tracce, prima di atterrare in Italia.
Altre destinazioni sono la Germania e l’Olanda. Una volta nella nuova terra, donne e ragazze sono costrette a prendere nuovi nomi, poiché i trafficanti confiscano i loro documenti. Quelle che riescono a tornare a casa, raccontano atroci storie di sofferenze e agonia.

POVERTÀ E MOLTO PIÙ
La povertà è la causa principale della prostituzione; ma anche i genitori sono colpevoli, negando ai loro figli l’appoggio morale di cui hanno bisogno o, addirittura, spingendoli praticamente sulla strada.
«A volte sono i genitori stessi a comandare ai figli di uscire a procurare cibo e denaro per gli altri membri della famiglia» lamenta la signora Emma. E racconta la storia di una ragazza di Kilifi: fu venduta a 9 anni; tornata a casa dopo la morte della madre per Aids, diventò la concubina del suo genitore; dopo pochi mesi morì anche il padre; dovendo sostenere i suoi fratellini, la ragazzina continuò a prostituirsi, finché la sua tenera vita fu barbaramente stroncata: per il disaccordo sul pagamento con un cliente, fu assassinata e il suo corpo buttato sul ciglio della strada.
Un agiato dentista di un paese europeo, era solito vantarsi con i suoi coetanei di avere quattro giovani sorelle tutte per sé quando era in vacanza a Malindi. La prima ragazza la ottenne dopo aver pagato al padre una certa somma di denaro; poi, aumentando la cifra, ebbe la seconda figlia; quindi la terza e la quarta: tutte con il consenso dello sciagurato genitore.
Nelle città lungo la costa la situazione sembra essere andata fuori controllo: l’ingannevole fascino della ricchezza facile e in fretta ha intrappolato perfino coppie sposate. Pur di fare soldi, alcuni mariti concedono alle mogli di andare a caccia di turisti. A Kilifi capita pure il contrario, racconta la signora Emma; alcune mogli permettono ai mariti di cercarsi una donna facoltosa. «Mariti che portano un’altra donna nel letto matrimoniale è parte delle storie che le donne di etnia mijikenda si raccontano alla fontana» lamenta.

SPERANZA DI RIABILITAZIONE
Il timore che i genitori trasmettano tale modello di vita ai propri figli ha indotto la diocesi di Mombasa a lanciare il progetto Solgidi (Solidarity with girls in distress, emanazione di Solwodi) per aiutare le bambine nate da genitori dediti alla prostituzione, affinché non seguano i loro passi. «Cerchiamo di far sì che i genitori non trascinino i loro figli nel loro sistema di vita notturno, sponsorizzando le ragazze in scuole piuttosto lontano dai loro genitori» dice Agnes Maillu, direttrice del programma Solgidi.
Padre Linus, la cui commissione si occupa della riabilitazione delle ragazze spinte in tale commercio da circostanze fuori del loro controllo, dice che molte ragazze sono disposte a smettere e avere una vita più decente; ma insistono perché, prima di cambiare, si procuri loro un’alternativa per poter sopravvivere. «Qualcosa sta muovendosi – continua padre Linus -. Varie persone ci aiutano in tale riabilitazione, collaborando con la diocesi di Malindi».
Rimane ancora il problema delle ragazze imprigionate in ville e residenze private. La signora Emma ha raccolto varie idee, per liberarle e trovare lavori alternativi, ma per ora è impossibile realizzarle, conclude amaramente: «Tutti sanno che quelle case sono zone proibite».

BOX 1

«MANI PULITE» MADE IN KENYA

Lo sapevano tutti, ma non si osava parlarne in pubblico. Sui giudici circolavano i nomignoli coloriti: iena imparruccata, bigliettaio, kifagio (spazzino), raccatta palle, sticky fingers (dita adesive), toga puzzolente, mani unte, casello daziale… La gente diceva: «Non sprecare i soldi con gli avvocati. Paga il giudice».
Ma bisogna dare atto al governo di Kibaki, per avere avuto il coraggio di rivelare in pubblico il marciume accumulato negli ultimi 25 anni del regime di Moi.
Le due inchieste in corso, Goldenberg e quella sui giudici corrotti, sono solo una parte delle tragiche vicende occorse in Kenya sin dall’indipendenza, come i casi Ouko, Kaiser, Kariuki, Mboya, Pinto, Muge, Julie Ward, Boyles, Makenzie, Mbai e altri assassinati. E poi scontri tribali, con l’espulsione d’intere popolazioni; torture di Nyayo House, saccheggio degli enti parastatali, banche fatte fallire, elezioni truccate, appalti fraudolenti.
Per fare giustizia sui casi annoverati, occorrerebbe una pletora di costose commissioni. Per il momento, ci si può accontentare di portare avanti quelle in corso, dando atto al governo del coraggio dimostrato per metterle in atto.
Limitandoci alle vicende dei giudici corrotti, riportiamo le «tariffe» medie richieste dai giudici, a partire dai gradi più alti: giudice Corte d’Appello 166.600 euro; giudice dell’Alta Corte 16.600 euro; magistrato ordinario 1.660 euro; impiegato legale 56 euro.
Poi ci sono tariffe per i servizi speciali: 555 euro per la remissione per offese minori; 6 mila per l’assoluzione per offese gravi; 11 mila per il proscioglimento dalla pena capitale. Infine tanti servizi minori: rilascio sotto cauzione (110 euro), rinnovo della cauzione (220 euro); variazione delle condizioni di cauzione (145 euro); agevolazione generale nella sentenza (555 euro); procurare una condanna falsa (890 euro).
Inoltre, magistrati corrotti domandano una tangente del 10-30% per ogni risarcimento monetario concesso in casi d’assicurazione, incidenti ecc. Non tutte le «tangenti» sono basate su soldi contanti. Alcuni domandano favori sessuali, o doni materiali, da qualche bottiglia di whisky a un bue grasso a seconda delle disponibilità del cliente.
Mentre i magistrati di bassa categoria sono pagati una miseria, ossia circa 320 euro al mese, quelli delle alte sfere, che sono anche i più corrotti, vengono adeguatamente rimunerati: un giudice della Corte d’Appello percepisce da 2.100 a 4.750 euro al mese, a seconda della anzianità raggiunta, senza contare altri benefici di cui godono: autovettura con autista, guardia del corpo, alloggio sussidiato con personale di servizio, indennità varie in contanti, assicurazione, ferie generose ecc.
Attualmente, oltre una ventina di magistrati sono stati licenziati o hanno dato le dimissioni. Tuttavia l’operazione «mani pulite made in Kenya» durerà a lungo.
Dulcis in fundo: è appena arrivata la notizia che non tutti i giudici sono succubi alla tentazione delle «mazzette» in contanti. Altri cedono a lusinghe di carattere più umano o perfino sentimentale. Una giovane donna magistrato, mentre conduceva una causa di divorzio, s’invaghiva dell’uomo in questione, tanto da andarvi a coabitare insieme prima ancora del termine del processo. La sentenza fu emanata speditamente.
G. Ferro (da Eldoret, Kenya)

Omwoyo Omwoyo




DOSSIER KENYASete di acqua, pace e giustiziaPace con latte e miele

Le secolari tensioni tra samburu, turkana e pokot sono sfociate in lotte che sfiorano il genocidio.
Con i suoi missionari, mons. Virgilio Pante,
vescovo di Maralal, sta facendo opera
di riconciliazione tra queste popolazioni.

Da sempre i popoli pastori delle savane dell’Africa si rubano il bestiame a vicenda. Gli etnologi spiegano che sono comportamenti normali: si tratterebbe della legge di sopravvivenza dei più forti, della lotta per avere più bestiame, pascoli, acqua, donne e figli.
Non è affatto normale per i missionari, che non possono rassegnarsi alla legge della giungla, perché fa a pugni con il vangelo, che è cultura di pace e uguaglianza tra gli uomini, perdono dei nemici e condivisione delle risorse, di un Dio padre di tutti.

IL LEONE E L’AGNELLO
«La pace è il termometro per capire fino a che punto il vangelo ha messo radici nella cultura e nella storia di un popolo – afferma mons. Pante, da tre anni vescovo di Maralal -. Mi vengono i brividi quando penso a ciò che accadde 10 anni fa in Rwanda, dove hutu e tutsi si scannarono a vicenda, dopo aver celebrato la pasqua insieme.
Grazie a Dio, nella diocesi di Maralal non si registrano tali eccessi di genocidio; tuttavia, specie negli ultimi 15 anni, si sono moltiplicati gli episodi di razzie tra i nostri pastori samburu, turkana e pokot, con numerosi morti e sfollati. Si respira ancora nell’aria paura e diffidenza reciproche. Si sono create vere distanze, anche fisiche, tra le varie etnie, che una volta si mescolavano tra loro mediante i matrimoni».
Una volta razziatori e difensori degli armenti si affrontavano con le lance: al massimo ci scappava qualche ferito; raramente il morto. Oggi, invece, hanno fucili e mitragliatori automatici: in ogni scontro, numerosi sono i morti.
Alle razzie, poi, si aggiunge la vendetta per la morte dei congiunti, con una spirale di odio che provoca autentiche carneficine di vecchi, donne e bambini, costringendo interi villaggi a sfollare dalla propria terra per cercare rifugio in luoghi più protetti. Senza contare che, con le armi, crescono il banditismo e l’insicurezza in tutta la regione.
«Appena nominato vescovo, prima ancora dell’ordinazione episcopale – continua mons. Pante – decisi di visitare in motocicletta il territorio della mia futura diocesi. Mi si stringeva il cuore al vedere villaggi, scuole, chiesette, pascoli completamente abbandonati. Per chilometri non c’era anima viva. Respiravo paura. Il progresso sociale era tornato indietro di 20 anni. Mi domandavo cosa avrei potuto fare, come pastore della chiesa, per guarire quelle ferite e tanto odio. Più che sulle strutture materiali, avrei dovuto puntare sulla costruzione di una controcultura di pace e riconciliazione».
Da quel viaggio mons. Pante trasse ispirazione per lo stemma episcopale: gli venne in mente un passo di Isaia, dove il profeta descrive un messia che porta la pace cosmica: «Il lupo dimorerà assieme all’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto; vitello e leoncello pascoleranno insieme» (Is 11,6-7).
«Disegnai subito un leone sdraiato accanto a un agnello, mentre la colomba dello Spirito della pace aleggia su di loro. E poi la scritta: “A servizio della riconciliazione”» continua il vescovo.
Tre mesi dopo l’ordinazione episcopale, nel territorio della diocesi ci fu un evento eccezionale: nel Samburu Park, una leonessa adottò il cucciolo di gazzella: lo allattava e custodiva come se fosse il proprio figlio. I cristiani ne rimasero fortemente impressionati: sembrava la realizzazione dello stemma episcopale. Andarono dal vescovo e gli dissero: «Vedi, gli animali della savana si riconciliano; ora toccherà a noi uomini fare altrettanto».

LA MALEDIZIONE DELLE DONNE
Alle orecchie del vescovo quelle parole suonarono come una sfida. Ma che cosa fare? In ogni situazione di tensione, il vescovo accorreva, con la sua motocicletta, per calmare gli animi. Ma le parole non bastavano. Occorrevano gesti concreti. Ma quali? La risposta venne dalle donne.
«Nel maggio del 2003 – continua il vescovo -, mentre celebravo la festa delle donne nella missione di Morijo, alcune mamme samburu si lamentarono perché agli incontri di pace invitavo sempre e solo uomini: perché non coinvolgevo anche loro?».
E suggerirono una sorprendente iniziativa: portare un dono alle donne turkana del villaggio di Marti, rimaste senza latte, perché samburu e pokot avevano rubato tutto il bestiame. Un incontro tra samburu e turkana, in una zona come Marti, dove l’odio tribale si taglia a fette, sembrava una pazzia. «Gli uomini fanno la guerra, ma le donne possono essere strumenti di pace da non sottovalutare» osserva il vescovo.
Dopo essersi autotassate, le donne samburu comprarono due vacche e una decina di capre e le portarono alle donne turkana. Ci fu una grande festa, che ristabilì l’amicizia infranta dai loro uomini. La consegna del dono fu accompagnata da preghiere, benedizioni e una imprecazione: «Chi ruberà questi animali sia maledetto!».
Poco tempo dopo i razziatori, forse pokot, tornarono a Marti e rubarono il bestiame: alcuni furono presi, altri finirono all’ospedale con le pallottole nelle gambe. Vacche e capre furono subito restituite. «La maledizione delle donne mette paura» sorride mons. Pante.

NELLA TANA DEL LEONE
«L’incontro di dialogo e preghiera tra gruppi etnici che si considerano nemici si rivelò efficace per un cammino di riconciliazione – continua il vescovo -. Decidemmo di ripetere l’esperienza a Loteta, con i pokot, l’etnia più ostica, dedita impunemente al banditismo».
Questa popolazione, che vive nella zona infuocata della Rift Valley, è totalmente dimenticata dal governo, isolata dalla vita del paese, senza strade, né pozzi, né scuole, né medicine. Nessuno si azzarda a entrare in quel territorio impenetrabile; neppure la polizia osa inseguire i razziatori: la zona è raggiungibile solo con gli elicotteri.
«Era il mese di luglio 2003 – continua il vescovo -. Insieme a padre Aldo Vettori, siamo scesi nella tana del leone. C’erano con noi anche il commissario e l’ufficiale del distretto: per la prima volta i pokot videro un’autorità governativa.
Con padre Aldo promettemmo di aiutarli, di costruire una scuola, poiché ignoranza e povertà producono violenza. Anche le autorità s’impegnarono (almeno a parole) di fare qualcosa per toglierli dall’isolamento e farli sentire cittadini del Kenya. Quindi abbiamo letto la bibbia, pregato e cantato insieme, senza la celebrazione della messa, dato che i cristiani sono ancora rari.
I pokot ci hanno fatto capire che non avrebbero più attaccato i “nemici”: ma se questi li avessero assaltati, si sarebbero difesi. Non è molto, ma è già un passo avanti».

TURKANA DANZANO CON I POKOT
Il terzo incontro avvenne a Morijo, tra pokot, turkana e samburu. A un certo punto, però, la situazione rischiò di degenerare. Mons. Pante puntò il dito dicendo: «Voi giovani siete quelli che fanno la guerra; non sono i vecchi e le donne. Ora confessatevi a vicenda, tutti insieme».
L’intenzione era che, riconoscendo torti e malefatte reciproche, ne scaturisse una catarsi, una purificazione. Ma dopo poche battute, l’emotività prese il sopravvento: ognuno puntava il dito contro l’altro, finché intervennero gli anziani: «Adesso basta! Vi siete sfogati abbastanza: ora datevi la mano e fate la pace».
Dopo la benedizione da parte degli anziani, i giovani promisero di non usare le armi se non per difesa, facendo questa preghiera: «O Dio, tu vedi cosa stiamo facendo, sei testimone del nostro impegno: devi benedirci. Ma se mancheremo alla promessa, non esitare a colpirci».
La quarta festa di riconciliazione, avvenne all’inizio del 2004, a Barsaloi, dove alcuni mesi prima, di notte, c’era stata una razzia di bestiame. Gli assalitori non si erano limitati a rubare gli animali, ma avevano sparato contro le capanne, col chiaro intento di uccidere la gente che stava dormendo. Per fortuna, a fae le spese furono solo gli arredi delle abitazioni, come zucche e altri recipienti dove i popoli pastori conservano l’acqua e il latte.
«Prima della messa, celebrata all’aperto sotto gli alberi – racconta mons. Pante -, avevo posto sull’altare un contenitore per il latte, crivellato dalle pallottole, e alcuni bossoli vuoti, raccolti dopo quell’assalto. La gente guardava incuriosita. “Questo contenitore e i bossoli sono la prova del nostro peccato – dissi loro -. Voi ne siete testimoni. Giuriamo davanti a Dio che queste cose non le faremo più”. Alla fine della messa abbiamo fatto la cerimonia della pace: ci siamo unti a vicenda sulla fronte con il latte e miele».
I bambini fecero una specie di teatro, descrivendo una razzia: guerrieri nascosti, che avanzano e attaccano il villaggio; donne che piangono, bambini che strillano e fuggono… Finché i piccoli attori si rivolsero ai genitori: «Voi adulti ci volete veramente bene? No! Siete voi che avete fatto queste guerre; noi siamo dovuti scappare dalle scuole e perdere l’insegnamento. Voi avete distrutto la pace, l’ambiente e il nostro futuro: ora ci odiamo a vicenda».
«Ho visto alcune persone che si soffiavano il naso e si asciugavano qualche lacrima: una scena inusuale tra i duri popoli della savana» conclude il vescovo.
E poiché senza cibo non c’è festa, tutto fu concluso con un piatto di riso, un po’ di carne e tè in abbondanza. In lingua samburu non si dice fare festa, ma «mangiare» la festa.
Al ritorno da Barsaloi, il camion che portava a casa i pokot fu fermato a Marti, dove questi, in passato, avevano più volte rubato mucche e pecore ai turkana. Ci fu un momento di paura. Invece, i passeggeri furono fatti scendere e invitati a bere il tè. Poi tutti si misero a ballare. «Rimasi strabiliato. Vedere turkana e pokot danzare insieme fu una scena commovente» racconta padre Aldo, che accompagnava il camion.

ECUMENISMO PRATICO
La quinta festa fu «mangiata» il 23 giugno scorso a Nachola, nella missione di Baragoi, preparata con un lavoro indefesso dai padri Lino Gallina e Aldo Vettori, insieme ai cristiani delle loro missioni. Sotto l’ombra fresca di enormi acacie spinose, vestiti con oamenti tradizionali, oltre 2 mila tra samburu e turkana gareggiavano nelle danze in mezzo a un polverone soffocante. Durante la messa, però, i vari cori cantarono e danzarono più compostamente.
«Più che feste, i nostri sono incontri di preghiera – continua il vescovo -. A Nachola, mescolati ai cattolici (circa la metà), c’erano alcuni protestanti e musulmani, il resto di religione tradizionale: tutti, però, hanno pregato con orazioni spontanee secondo la propria lingua e religione. Sembrava una nuova pentecoste. Lo stesso Dio era invocato con nomi diversi: Nkai, Akuj, Mungu, Allah… E Dio li ascolta tutti. La pace non conosce le divisioni religiose.
Quando arrivò il momento, turkana e samburu si chiesero perdono a vicenda; quindi tutti i presenti furono benedetti con abbondanti aspersioni di latte misto a miele. Tra i presenti c’erano anche alcuni famosi killers, maestri di razzie da tutti temuti. Mi domandavo: “Questi leoni, potranno davvero diventare agnelli? Quanto durerà questa pace? Stiamo facendo teatro? È tutto troppo bello per essere vero”.
Mi aggiustai la mitra di pelle di capra, ricoperta di perline, dono dei cristiani di Baragoi, e feci una breve predica (almeno mi sembrava tale). Le parole mi venivano dal cuore. Dissi che Dio può fare miracoli; che anche se i suoi tempi sono lunghi, il nostro cammino è iniziato e dovrà continuare; che Dio solo può cambiare il nostro cuore di sasso in un cuore di carne; che la nostra speranza di pace non deve mai arrendersi, anche di fronte agli insuccessi».
Dopo la messa ripresero le danze, seguite da discorsi, quasi tutti uguali: «Sarò breve… Oggi è un giorno storico: l’inizio di un’era di pace… Lasciamo che i fucili facciano la ruggine… Interprete, traduci!».
«Tutti dicono che l’incontro di Nachola è stato un successo. I telefoni senza fili ne sparsero la notizia per tutta la savana. Sappiamo che la pace è un cammino lungo, ma stiamo facendo insieme piccoli passi» conclude il vescovo.

PROVANDO E RIPROVANDO
«Dimenticavo che a Nachola non c’erano i pokot, neppure uno. Tutti notarono la loro assenza – riprende mons. Pante -. Una settimana prima, infatti, essi avevano rubato il bestiame a un villaggio samburu del Malaso, nella missione di Morijo».
Era capitato che, all’inizio di giugno, i samburu avevano comprato 4 fucili dai pokot; ma al momento dello scambio gli acquirenti scapparono via senza pagare. Per rifarsi, i pokot rubarono ai samburu alcune vacche, ma senza uccidere nessuno. Il giorno dopo, seguendo le tracce del bestiame, i derubati inseguirono i ladri: nello scontro due samburu rimasero uccisi. Per questo i pokot disertarono la festa di Nachola.
«Parlando di tale assenza con gli anziani – conclude il vescovo -, abbiamo deciso che il prossimo incontro di preghiera e riconciliazione sarà proprio al Malaso, località a 2.400 metri di altitudine, da cui si vede la Rift Valley. Chiameremo i samburu e pokot che si sentono in colpa, perché bisogna mettere il dito dove c’è la piaga; quindi benediremo tutta la vallata dove normalmente vengono nascosti gli animali rubati.
Il risultato non è scontato. Se necessario, tenteremo ancora, sempre nello stesso luogo: a forza di ripetere queste feste qualcosa rimarrà. Se non altro, quelli che vi partecipano tornano a casa con un briciolo di speranza».

Una generazione infame

Monsignore, in passato si parlava di genocidio tra samburu e turkana: è esagerato?

La tradizione di rubarsi il bestiame è molto antica, c’è sempre stata; ma oggi con la presenza di fucili e mitra capitano disastri. Inoltre, qualche politico ha soffiato sulle tensioni etniche, incitando al tribalismo o vendendo armi. Queste vengono dal mondo occidentale: kalashnikov dalla Russia, G3 dalla Germania, M16 dall’America… Anche noi siamo responsabili del disastro.

Sono molte le armi in mano a queste etnie?
Secondo i giornali, i samburu, che sono circa 150 mila, possiedono 16 mila fucili: praticamente uno su 10; ogni famiglia ha uno o due mitra. Ed è un calcolo per difetto. I pokot ne hanno di più; i turkana più dei pokot. Ci sono tre eserciti potenziali.

Sono tutte armi di contrabbando?
Una trentina di anni fa, il governo concesse ad alcuni, pochi in realtà, di avere un fucile per difendere il bestiame dagli attacchi degli scifta (predoni somali). Ma poi si sono armati tutti illegalmente e alcuni giovani hanno cominciato a usare le armi per rubare di tutto e dappertutto: soldi, cibo, vestiti ai turisti, commercianti e missionari.

È così facile procurarsi le armi?
Con 4 mucche si ha un fucile automatico, importato dal Sudan, Uganda, Etiopia o Somalia, tutti paesi belligeranti confinanti col Kenya. Ancora più facile è procurarsi le munizioni: a Eldoret c’è una fabbrica di pallottole, voluta dall’ex presidente Moi.

Il governo non fa nulla per disarmare la popolazione?
Non è facile. Se si usa la forza, la maggioranza nasconde le armi o, più sovente, si ribella, come è capitato alcuni anni fa: due poliziotti sono entrati in un villaggio per requisire le armi, ma sono stati uccisi. Bisognerebbe convincere la gente a rivenderle al governo, dietro un giusto rimborso. Prima, però, il governo dovrebbe dimostrare di essere capace di difendere i propri cittadini, per cui i fucili sarebbero inutili. Ma questo non avviene: raramente la polizia è intervenuta per recuperare il bestiame rubato. È logico, quindi, che la gente cerchi di difendersi da sola.

È ancora rischioso viaggiare nel territorio della tua diocesi?
La situazione è leggermente migliorata. L’attuale prefetto del distretto sembra molto serio: affronta i problemi con forte senso di responsabilità e, quando avviene un furto, manda soldati e poliziotti a indagare, chiede la collaborazione del prefetto dall’altra parte della valle. Da quando è al governo il presidente Kibaki, sembra che ci siano maggiori controlli nel commercio delle armi e più collaborazione da parte delle popolazioni, fino ad ora abbandonate.

Quale futuro?
Quest’anno, tra i samburu, si chiude una generazione e ne inizia una nuova. Un evento che avviene ogni 14 anni. I giovani circoncisi nel 1990 e che quest’anno terminano il loro status di lmuran (guerrieri), entrando nella classe degli adulti, passano alla storia con il nome infamante di lmooli, coloro che calpestano le tradizioni. È la classe che ha avuto le armi e le ha usate male, fino ad uccidersi tra loro per inesperienza nel maneggiarle. L’ho ricordato nella festa celebrata a Nachola e ho augurato alla nuova classe di giovani di diventare una generazione pacifica.

Benedetto Bellesi




DOSSIER KOSSOVOLe organizzazioni

Dal Trentino, il «Tavolo Trentino con il Kossovo»
Il Tavolo Trentino con il Kossovo è un luogo di confronto, scambio, elaborazione condivisa e cornordinamento di un programma generale e comune di intervento in Kossovo, nella municipalità di Peja-Pec. È nato immediatamente dopo la guerra del Kossovo nel 1999, su iniziativa di alcune associazioni trentine e della Provincia Autonoma di Trento.
Attualmente vi partecipano attivamente una decina di soggetti: la Provincia Autonoma di Trento (che ha anche un ruolo di finanziatore), Avsi Trento, Casa per la Pace di Trento, Gruppo 78 (CICa), Progetto Colomba, Progetto Prijedor, Solidarietà Alpina, Associazione Velaverde, Tavolo Trentino con la Serbia, Comune di Trento, Operazione Colomba – Quilombo Trentino, Piazza Grande.
Il Tavolo si propone di elaborare e realizzare un programma organico di interventi nella municipalità di Peja-Pec, secondo la logica dello sviluppo endogeno ed integrato, e della partecipazione dei soggetti e delle risorse locali kossovare, oltre che del coinvolgimento di soggetti e risorse della società civile e dell’economia trentina, cercando di innescare anche rapporti significativi e duraturi tra soggetti omologhi in Trentino ed in Kossovo. Allo stesso tempo, e con la stessa importanza, intende inoltre favorire l’attenuazione delle tensioni tra le varie comunità (serba, albanese, rom, ecc.).
Le attività direttamente orientate all’attenuazione delle tensioni tra i vari gruppi nazionali, in particolare nella zona comprendente i villaggi di Gorazdevac e Poceste e la città di Peja-Pec nell’ultimo anno e mezzo si sono concretizzate nel centro giovanile «Zoom».
Il centro si è formato da tre piccoli progetti che sono poi diventati tre piccoli gruppi. Per primo in città si è costituito un gruppo di arrampicatori formato per il momento da soli albanesi ma che è la nervatura fondamentale per un’idea di riavvicinamento delle due parti. Questo gruppo è formato da ragazzi di città, tutti sui trent’anni e dalle vedute aperte.
Il secondo gruppo è nato da un piccolo corso di teatro fatto da Silvia Corsi: sono ragazzi sui 17-20 anni che frequentano la scuola d’arte. All’epoca del corso gli insegnanti hanno impedito ai ragazzi di fare delle cose assieme ai ragazzi serbi di Gorazdevac ma loro hanno comunque voluto sapere come andavano le cose e poi durante una festa hanno incontrato i loro omologhi serbi e visto il loro spettacolo.
Il terzo gruppo è quello fotografico che, come età e provenienza, è uguale a quello di teatro e in parte formato dalle stesse persone. All’epoca del progetto fotografico, la scuola ha fatto problemi e impedito l’esposizione congiunta delle foto.
Come detto, questi tre gruppi formano il centro giovanile «Zoom», che ha sede a Peja-Pec. Tutti i gruppi hanno scelto la forma del centro giovanile indipendente anche perché i condizionamenti imposti dalla scuola non erano piaciuti ai ragazzi. All’epoca del corso di fotografia era stato allestito un laboratorio fotografico anche a Gorazdevac.
Le attività di «Zoom» sono sempre state aperte a tutti e i serbi frequentavano il centro, seppur con qualche difficoltà e paura, fino al 13 agosto 2003, quando due di loro sono stati uccisi nell’enclave serba di Gorazdevac.

«Operazione Colomba», 12 anni per la pace
Nel maggio 1992, dal desiderio di provare a vivere la nonviolenza nella guerra della ex-Jugoslavia, la Comunità Papa Giovanni XXIII ha dato vita ad una serie di iniziative denominate «Operazione Colomba», che hanno coinvolto centinaia di giovani di diverse parti d’Italia e numerosi obiettori di coscienza.
Condividendo la vita (le paure, i disagi, le sofferenze…) delle persone più colpite dalla violenza del conflitto, l’Operazione Colomba ha reso possibile il dialogo tra le differenti parti in lotta e tra le chiese, ha aiutato a riunire le famiglie divise dai diversi fronti, protetto le minoranze etniche e contribuito a ricreare un clima di convivenza e riconciliazione.
Dal 1992 al 2004, i volontari di Operazione Colomba hanno operato in ex-Jugoslavia (Serbia, Croazia, Bosnia, Kossovo), Albania, Sierra Leone, Timor Est, R.D.Congo, Chiapas (Messico), Cecenia (Russia) e Palestina-Israele, convinti che, dal vivere con le vittime della guerra e promuovendo attività di tutela dei diritti umani e dei diritti individuali delle fasce di popolazione più emarginate e sofferenti, nascano strade per la pace.
In questi 12 anni, i volontari hanno stretto rapporti di collaborazione con vari organismi (tra cui le Nazioni Unite), numerosi centri per i diritti umani, Ong locali ed inteazionali, esponenti delle chiese, associazioni e gruppi, coinvolgendo migliaia di volontari in tutto il mondo e centinaia di obiettori di coscienza in servizio civile.

Fabrizio Bettini




DOSSIER KOSSOVOEnclaves? No, ghetti.

Né «Grande Serbia», né «Grande Albania»

Siamo realisti: oggi in Kossovo la convivenza tra albanesi e serbi è un’utopia. Come spesso accade, le responsabilità sono da suddividere tra i contendenti, aizzati da sconsiderati proclami nazionalistici ed esasperati da una gravissima situazione economica.
Nella regione operano anche i soldati italiani. Le loro motivazioni? Deboli, molto deboli, troppo deboli… Per fortuna, ci sono i volontari.

Al primo viaggio in Kossovo, scendendo dalla Serbia, giù giù fino alla «provincia ribelle», a colpirmi sono le bandiere che sventolano ovunque.
I morti hanno bandiere: prima quelle serbe segnalano, in sperduti cimiteri di frontiera, eroici combattenti, martiri nella realizzazione del sogno frustrato della Grande Serbia; poi, bandiere albanesi su grandi lapidi, che ritraggono a dimensione naturale il defunto in divisa militare e con il mitra in mano. Guerriglieri, quest’ultimi, immolati nella costruzione della Grande Albania.
Al confine tra la Serbia-Montenegro e il Kossovo appaiono le bandiere azzurre dell’amministrazione provvisoria dell’Onu e quelle delle forze Nato. Ad ogni posto di blocco o check point bandiere nazionali tra le più varie indicano la provenienza del personale militare lì impegnato: i rumeni all’ingresso di Gorazdevac, i belgi sul ponte di Mitrovica ecc. ecc.
Ogni edificio o struttura di qualsiasi tipo (addirittura le pensiline alle fermate dei bus) ha la bandiera dello stato finanziatore o donatore.
Il mondo sembra essersi concentrato sul Kossovo e in Kossovo, eppure arrivando in quest’area ho l’impressione che sia doveroso porre in dubbio molte verità regalateci in patria.
(Al riguardo, la redazione di Missioni Consolata mi ha pregato di non calcare troppo la mano, anche se non siamo più in tempo di elezioni. Mi adeguo, ma alcune cose debbo proprio scriverle…)

I SERBI… RINCHIUSI

Spostandoci da Peja-Pec a Gorazdevac è difficile ignorare una collina, sulla destra, completamente spianata e disboscata, gremita di containers e mezzi militari: è «Villaggio Italia», comando del contingente italiano in Kossovo, dove vivono molti degli eroi nostrani, molti dei nostri ragazzi. Quando Peja-Pec e dintorni giacciono nel buio a causa dei frequenti black-out della vicina e grigia centrale termoelettrica, Villaggio Italia splende di luce, letteralmente, propria.
Gorazdevac è una enclave serba del Kossovo meridionale: 800 serbi circa rinchiusi in pochi Km quadrati. Troppo pericoloso uscire. Chi aveva il lavoro fuori dal paesino (molti), è disoccupato. Qualcuno si è inventato un’attività, puntualmente finanziata da qualche ente governativo o non, per guadagnarsi il pane: c’è chi ha una serra per coltivare ortaggi fuori stagione, chi produce concime naturale. Ma il mercato è chiuso, quasi inesistente, solo 800 persone, perché commerciare con l’esterno è difficile, soprattutto dopo gli avvenimenti di marzo 2004. Allora si vive di sussistenza, di rimesse dall’estero, di espedienti, di aiuti; in una montagnola di rifiuti accumulati lungo la strada (a Gorazdevac, Higjiena Publike – l’azienda della nettezza urbana – non passa nemmeno a raccogliere la spazzatura, perché gli abitanti non vogliono e in qualche caso non possono pagare la tassa) ho trovato i resti di un involucro di cartone: «Questa pasta è donata dal popolo e dal governo italiano».
I nostri ragazzi, che i cartelloni pre-elettorali in Italia non smettevano di ringraziare per le eroiche missioni di pace che svolgono nei conflitti nel mondo, a volte distribuiscono aiuti: alimentari, giocattoli, indumenti; ogni operazione di questo tipo viene puntualmente filmata e fotografata dagli stessi militari. Deboli palliativi simboli d’una carità pelosa, dettata, particolarmente in questo periodo, dalla necessità di rendere maggiormente accettabile la presenza degli «inteazionali», oggi messa violentemente in discussione da parte albanese e da parte serba. Da un lato, infatti, gli albanesi vogliono l’indipendenza e rifiutano ogni ingerenza estea; dall’altro, i serbi-kossovari lamentano l’inefficacia della forza internazionale nel prevenire e controllare la conflittualità interetnica. Ne sono un segnale i tragici episodi di marzo: i manifestanti albanesi hanno bruciato auto dell’Onu, case serbe e chiese ortodosse, ucciso.
Nella nostra permanenza in Kossovo, discutiamo con ragazzi serbi e albanesi. I fatti parlano chiaro: se quattro anni di relativa e apparente tranquillità avevano fatto sperare in una possibilità di convivenza, gli scontri recenti hanno rigettato nella disperazione e nell’incapacità di operare chi, da un lato, sperava di poter uscire dalle enclaves-ghetto e chi, dall’altro, aveva lavorato per ricostruire i ponti dopo la guerra del ’99. Gli albanesi e gli egiziani, animatori del Centro culturale «Zoom» di Peja-Pec, ci raccontano le loro attività, l’organizzazione del centro, la potenziale multiculturalità delle associazioni che vi operano; una sera abbiamo discusso delle violenze. Un ragazzo albanese ha anche raccontato d’aver fatto parte di queste dimostrazioni violente; coraggioso e significativo il suo racconto: pochi facinorosi, probabilmente sconosciuti agitatori venuti da fuori, hanno attirato in strada migliaia di giovani costretti all’inerzia dalla morsa dell’eterna crisi economica. Debitamente scaldati gli animi, facili micce vista la condizione a cui sono costretti, i bersagli sono subito divenuti chiari: l’amministrazione internazionale colpevole di non lasciare il Kossovo ai kossovari (anzi, agli albanesi) e gli eterni nemici, i serbi.
Gli scontri di marzo hanno interessato varie località: Pristina, Bijelo Polije, Mitrovica, Peja-Pec. Qualcuno racconta che i nostri ragazzi hanno saputo fare ben poco contro la rabbia albanese. Si dice che molti giovani militari di fronte alla folla sono stati presi dal panico e la loro inefficacia è stata palese. Ad accusarli di non aver saputo fronteggiare gli albanesi sono soprattutto i serbi, che hanno vissuto momenti di terrore, temendo di essere trasformati in facili prede, chiusi come sono in zone ristrette.

LA SOLA SOLUZIONE:
UN PASSAPORTO PER L’EUROPA

Anche a Gorazdevac s’è temuto il peggio. E l’accaduto è servito solo a rafforzare la rassegnazione e la convinzione che con gli albanesi è impossibile convivere. I giovani serbi dell’enclave vedono frustrate le proprie ambizioni, cancellata ogni opportunità di realizzazione, di studio, di lavoro. L’unica possibilità, ci dicono, è emigrare al nord, in Serbia o all’estero. Donne e uomini quotidianamente ci propongono (più o meno seriamente) matrimoni di convenienza: acquisire una cittadinanza europea per loro sarebbe la porta per la salvezza, la possibilità di oltrepassare le difficoltà d’una immigrazione legale in Occidente.
I giovani serbi ci foiscono le solite interpretazioni: il Kossovo è serbo, lo è sempre stato, gli albanesi hanno attuato una guerra demografica per conquistare il potere, non esisteva repressione nei loro confronti, erano loro a rifiutare tout court i serbi. Sono le opinioni propinate dai mass-media e dai politici di Belgrado.
Un’altra cosa appare chiara: da parte albanese e da parte serba manca una élite politica capace di superare gli odi sapientemente alimentati nel passato. Probabilmente, è una eredità di un sistema non democratico (schiacciato sulla figura di Tito prima, di Milosevic poi), che ha dominato in Jugoslavia per decenni. Ma ciò non basta per comprendere l’insistenza del governo (democraticamente eletto) serbo sui temi nazionalisti. E altrettanto incomprensibile risulta l’atteggiamento del governo locale kossovaro, in primis Rugova, incapace o non disposto a porre delle basi solide per una società eterogenea, disattivando quei meccanismi identitari che fanno sì che, a 4 anni dalla guerra, la situazione sia capovolta ma in sostanza immutata: prima i serbi avevano la posizione di forza e tentavano di esercitare forme di pulizia etnica, oggi gli albanesi, vinta la guerra (la strada principale di Pristina è Boulevard B. Clinton…), ricoprono la posizione favorevole e minacciano continuamente i serbi finiti rinchiusi nelle enclaves.
Allora, ci domandiamo, qual è stato l’esito della «guerra umanitaria»: la creazione di uno stato democratico o meramente la sostituzione dell’oppresso con l’oppressore e viceversa? La costruzione di nuovi ponti e convivenze o semplicemente la formalizzazione di una crisi economica permanente, foriera di tensioni sociali, comodamente chiamate «interetniche»?

A PROPOSITO DI SOLDATI…

In Italia, dopo la tragedia di Nassirja, mass-media e politicanti non smettono di celebrare «i nostri eroi», «i nostri ragazzi» che, intimamente motivati ad esportare la pace e la democrazia, la convivenza e il benessere, ogni giorno rischiano la vita in Iraq, Afghanistan, Kossovo, ecc… Dei veri eroi, paladini della democrazia, della cristianità, dell’ Occidente contro la barbarie; militari consapevoli e preparati, professionisti del bene in divisa. Durante la mia permanenza in Kossovo, ben pochi militari hanno dimostrato vera consapevolezza o motivazioni forti per il servizio che stavano svolgendo. La retribuzione economica sembra essere il fattore motivante più importante per i giovani e giovanissimi italiani, provenienti per lo più dal Sud. Per quanto riguarda poi la preparazione, essa appare ancora più carente: spesso i militari hanno scarse conoscenze sul contesto in cui operano, sui problemi che stanno affrontando, sulle caratteristiche culturali delle popolazioni con le quali sono in contatto. Questi non sono dettagli per del personale che opera al fine di ricomporre fratture etniche così esasperate: chiamare Pec la città di Peja può offendere un albanese e viceversa, consegnare aiuti in enclave serba accompagnati da un interprete che sa solo l’albanese può essere controproducente oltre che inefficace… e questi non sono che alcuni esempi dei grossolani errori che i nostri militari commettono quotidianamente.
Mentre i serbi si trovano rinchiusi e frustrati (e così preda di facili manipolazioni da parte dei leaders belgradesi) nelle enclaves e ripropongono vecchie ricette di riscossa nazionaliste (a Mitrovica ho raccolto varie cartoline postali e posters che invocano il ritorno di Milosevic, Karadzic), gli albanesi del Kossovo si ritrovano prigionieri di condizioni di vita ed economiche gravi: salari bassissimi, disoccupazione oltre il 60%, traffici illeciti in mano alla mafia locale dilaganti, dipendenza dagli aiuti inteazionali.
A mio parere, se gravi colpe sono da imputare agli sconsiderati messaggi nazionalisti (di governo serbo, Uck ed ex Uck, governo kossovaro, in gara a costruire una contrapposizione apparentemente insanabile), un ruolo fondamentale nel protrarsi delle tensioni sociali è da rintracciarsi proprio nelle pessime condizioni economiche.

E CHI LAVORA NEL SILENZIO

Accanto alle pubblicizzate, anzi celebrate, attività del contingente militare, della Missione Arcobaleno (vi ricordate lo scandalo?), molti altri nostri ragazzi lavorano nel silenzio ed in carenza di mezzi e fondi. Durante la nostra permanenza siamo stati ospiti dei volontari dell’Operazione Colomba (dell’Associazione Papa Giovanni XXIII) e del Tavolo Trentino con il Kossovo. Svolgono attività a Gorazdevac e a Peja-Pec.
Nella città albanese Mauro è animatore del Centro culturale Zoom, composto da associazioni aperte indiscriminatamente agli appartenenti di tutte le etnie (rom, egizi, albanesi e serbi). Grazie alle attività (alpinismo, fotografia, danza ecc.) del centro si cerca di ricostruire forme di convivenza. La scommessa è che, conoscendosi e lavorando assieme, le presunte differenze etniche passino in secondo piano.
A Gorazdevac, Fabrizio, Lucia e Federica vivono a stretto contatto con la popolazione. Grazie a loro abbiamo conosciuto i volti, l’umanità che si nasconde dietro a parole tanto insignificanti come «serbi» o «albanesi». Abbiamo faticosamente superato l’ostacolo linguistico ma siamo stati capaci di comunicare e forse, ancor di più, di imparare quegli sguardi e scoprire che la sofferenza ha gli stessi occhi da tutte le parti, in tutte le etnie. Questi volontari costituiscono il punto di riferimento, una speranza, per i giovani dell’enclave. Ne favoriscono l’aggregazione e stimolano momenti di discussione. Ora, un problema impellente è la raccolta dei rifiuti sparsi dappertutto nel villaggio. Si pensa di coinvolgere la comunità per rendere più efficace l’operazione. Per pulire il greto e le rive del fiume che delimita l’enclave occorrerà la protezione dei militari, finalmente utili a qualcosa: la scorsa estate due albanesi, dall’altra parte del corso d’acqua, hanno sparato sulla gente che si bagnava. Sono morti due ragazzi, uno 18enne, l’altro 12enne (si leggano i racconti di Fabrizio e Barbara nelle pagine precedenti).
Il lavoro di Mauro, Fabrizio, Lucia, Federica ed altri (non sono così pochi…) non è tanto pubblicizzato. Meno male, così sta al riparo da strumentalizzazioni. Ma, visto che queste parole non andranno sui muri di alcuna campagna elettorale italiana, permettetemi di rivolgere a loro il mio «Grazie, ragazzi».

Francesco Filippi




DOSSIER KOSSOVOL’anello mancante

All’interno dell’enclave serba di Gorazdevac permane il sentimento di essere vittime della parte albanese. Anche la fiducia nei confronti delle organizzazioni inteazionali, in particolare della Kfor, non esiste più. All’indomani dell’incidente del 13 agosto 2003 le stesse autorità politiche e religiose serbe avevano dichiarato e chiesto a Kfor di abbandonare il paese, vista la loro incapacità nel difendere la popolazione serba dagli attacchi dei «terroristi albanesi». Le parole precise furono: «Grazie di tutto ma ora andate via; noi ci difenderemo da soli». Il messaggio era chiaro: voler avere, come da tempo stanno chiedendo, la propria polizia a difesa delle enclave.
Dopo un primo momento di smarrimento, alcuni ragazzi dell’enclave e, in particolare, i gruppi che avevano partecipato ai progetti del centro Zoom, ci hanno manifestato, a livello privato e confidenziale, la volontà di uscire da quella situazione di isolamento assoluto. Lentamente la tensione tra i due gruppi andava nuovamente allentandosi, ma nuovi incidenti hanno interrotto ancora il cammino verso il dialogo.
A marzo 2004 l’annegamento di due bambini albanesi nei pressi di Mitrovica ha infatti dato il pretesto per la violenza. Pare che i due bambini si fossero buttati nel fiume Ibar, perché inseguiti da alcuni civili serbi, che avevano sguinzagliato i cani. Gli scontri sono iniziati a Mitrovica, città simbolo della divisione (a nord ci stanno i serbi e a sud gli albanesi), ma la violenza è dilagata in tutto il Kossovo. Il risultato è stato una forte protesta contro l’amministrazione internazionale Unmik e contro i serbi che ormai da anni vivono chiusi in enclave. Perché si è arrivati a tutto questo?
La situazione sul territorio negli ultimi 8 mesi è stata mutevole, e i disordini di marzo non hanno fatto altro che mettere alla luce l’empasse internazionale. L’instabilità potrebbe avere come cause scatenanti tre fattori che sono strettamente legati fra loro.
Giustizia: oltre alla difficoltà della polizia locale Kps ad arrestare i delinquenti comuni, vi è una difficoltà di fondo a fermare la grossa malavita e ad arrestare gli assassini. Questo va ad aggiungersi alla mancanza di giustizia rispetto ai crimini del ’99; basti pensare che molte salme di kossovari albanesi sono ancora in Serbia in attesa di essere trasportate in Kossovo. La popolazione kossovaro-albanese in una certa parte accusa l’amministrazione internazionale Unmik di rallentare il rientro delle salme per paura delle reazioni locali. Dall’altra parte, anche i kossovari-serbi recriminano il fatto che di molte persone scomparse nel ’99, all’entrata della Nato, non si sappia più nulla.
Status: la non definizione dello status, la non chiarezza sugli standard per l’indipendenza e la freddezza di alcuni ambienti della politica internazionale sull’idea di indipendenza del Kossovo creano una tensione latente nella popolazione, oltre che negli ambienti più estremisti. C’è da dire che una soluzione che sancirebbe l’indipendenza non sarebbe per nulla gradita alla minoranza serba e alla Serbia, mentre un’ipotesi contraria con il ritorno alla sovranità della Serbia troverebbe una fortissima opposizione da parte di tutta la popolazione albanese.
Economia: l’elemento economico è strettamente legato agli altri due, è una causa e una conseguenza. Nei primi anni, dopo il conflitto in Kossovo, si era creata un’economia legata alla ricostruzione e al lavoro delle organizzazioni umanitarie. La drastica riduzione degli investimenti inteazionali e la conseguente diminuzione delle organizzazioni (governative e non) presenti ha messo in crisi questa economia falsa. L’instabilità e la non chiarezza sul futuro status non stimolano investimenti economici e il processo di liberalizzazione è pressoché bloccato dai contrasti tra l’amministrazione locale e quella internazionale, accusata di avere una politica filo-serba. In Kossovo si può parlare di una percentuale di disoccupazione dell’80% e le uniche attività economiche sono per lo più rivolte al commercio.
Nell’area di Peja-Pec la situazione ha rispecchiato quella più generale che si vive in tutta la regione, dopo l’estate la situazione fra l’enclave di Gorazdevac e la città andava migliorando anche se i contatti ufficiali con l’altra parte non erano frequenti. Nell’area si era proceduto alla ricostruzione di 25 case serbe nell’area di Bijelo Polje. Il progetto di rientro di 90 famiglie nella zona di Siga e Brestovic’ procedeva. Le manifestazioni del 17 marzo 2004 hanno però notevolmente deteriorato la situazione anche se nell’area di Peja-Pec sono durate solo un giorno. Le strade della città sono state bloccate dai manifestanti nel primo pomeriggio ed il palazzo sede dell’amministrazione Unmik è stato «assediato»; alcune auto Un sono state date alle fiamme, dopo di che la massa è andata verso l’abitato di Bijelo Polje dove i 32 abitanti e ospiti serbi sono stati evacuati dai soldati della Kfor non senza difficoltà. Il bilancio a fine giornata era pesante: un manifestante kossovaro-albanese ucciso dalle forze di polizia internazionale, 12 kossovari-serbi feriti, numerosi manifestanti feriti, 25 case ricostruite danneggiate e bruciate, tre auto U.N. bruciate.
La parte albanese ha riconosciuto gli incidenti come un grosso passo indietro nel processo di pacificazione dell’area, incidenti che, a loro dire, penalizzano maggiormente gli albanesi. Gli organi di informazione poi hanno contribuito a confondere ancor di più le idee. In questo marasma, l’idea dei ragazzi del centro Zoom e, in generale, dei ragazzi della città è stata quella di non tornare indietro e non cancellare i passi in avanti che sono stati fatti nel percorso di riconciliazione. Molti di loro sono consapevoli che il Kossovo non può avere futuro senza considerare la presenza serba sul territorio.
Da parte serba è andato però accentuandosi il sentimento di appartenenza: nell’enclave la moneta è ancora il dinaro e si scrive in cirillico. Il rischio per chi, all’interno dell’enclave, non manifesta questa appartenenza e tenta di integrarsi nella nuova situazione o comunica con gli albanesi, è quello di venire escluso dalla comunità e dal villaggio, di essere visto come un traditore.
In conclusione, la catena che si era creata, anche grazie ai progetti portati avanti dal «Tavolo Trentino con il Kossovo-Operazione Colomba», si è spezzata. Riusciremo a tornare a ricoprire il nostro ruolo di anello di congiunzione tra le due parti in conflitto?

Mauro Barisone
(cornordinatore «Tavolo Trentino
con il Kossovo»)

Mauro Barisone