DOSSIER GIAPPONEPer non dimenticare

Nel Museo della bomba atomica di Hiroshima

Ci sarà una seconda Hiroshima e Nagasaki?
Nonostante i sopravvissuti all’immane tragedia di 60 anni fa continuino a tenee viva la memoria, nella società giapponese la tensione emotiva è in costante calo; varie nazioni asiatiche accumulano armi nucleari; gli Usa perfezionano mini-bombe, pronte per eventuali genocidi… più circoscritti.

Ride Minoru Hataguchi, quando gli chiedo dove era il 6 agosto 1945, al momento dello scoppio della bomba atomica. «Ero dentro mia madre» risponde.
Già, Minoru Hataguchi, attuale direttore del Museo della bomba atomica di Hiroshima, quel terribile giorno non era ancora nato: sarebbe uscito dalla pancia di sua madre qualche settimana dopo, ma non avrebbe mai conosciuto suo padre, disintegrato dalla forza distruttiva della bomba. «Le uniche cose che trovarono di lui sono un paio di occhiali e un orologio».
Mi accompagna tra le sale del museo fermandosi proprio di fronte agli unici due oggetti, parzialmente fusi, recuperati dai resti di suo padre. Accanto a loro le lettere scambiate con la moglie nei due anni di matrimonio, da lei conservate con cura fino alla morte e poi donate al museo.
Il dolore subìto dalla madre quel 6 agosto di 60 anni fa, spiega la sorprendente franchezza di Hataguchi che, a differenza della maggioranza dei giapponesi che occupano posti di vertice nell’amministrazione pubblica, è schietto e diretto nelle risposte. Lo abbiamo incontrato nel suo ufficio del Museo della bomba atomica di Hiroshima.

La generazione testimone degli eventi del 6 e 9 agosto 1945, si sta assottigliando sempre più e ci si pone giustamente il problema di come mantenere viva la memoria di tragedie che hanno toccato l’umanità intera. Anche in Europa, mano a mano che il tempo passa, sembra che i crimini del fascismo e del nazismo possano essere dimenticati. Come fare, quindi, per non perdere la memoria anche di Hiroshima e Nagasaki?
Ci sono ancora 290 mila hibakusha (vittime e testimoni diretti della bomba atomica) a Hiroshima; e il primo obiettivo che si prefigge questo museo è quello di non far dimenticare l’esperienza tanto dolorosa vissuta da queste persone.
Ogni anno organizziamo mostre di Hiroshima e Nagasaki in tutto il mondo, tra cui l’Italia. Ma è comunque vero quello che afferma: queste persone stanno invecchiando, per cui stiamo creando una videoteca con le loro testimonianze. Fino ad oggi ne abbiamo fatte più di 800. Oltre agli hibakusha abbiamo anche 160 volontari di pace, studenti, casalinghe, impiegati, ecc. che collaborano attivamente con il museo. Anche se non hanno una diretta esperienza della bomba atomica, cercano comunque di passare le loro emozioni ad altre persone.

Nonostante i volontari e i 290 mila hibakusha attualmente in vita, esiste in Giappone, come del resto anche in Italia, una sorta di movimento revisionista, che vorrebbe cancellare, o per lo meno, rivedere, tutta la storia dell’anteguerra. Cosa sanno oggi i giapponesi della bomba atomica e cosa si insegna a proposito di questi fatti storici?
Nel museo vengono quasi 1 milione e 100 mila visitatori all’anno da tutto il Giappone e di questi 430 mila sono studenti. Per quasi tutti cerchiamo di creare l’occasione perché essi possano ascoltare, per almeno un’ora, l’esperienza di uno o più hibakusha.
Purtroppo, oggi, la gita scolastica ha cambiato finalità: gli studenti preferiscono andare all’estero, a Disneyland o in un parco di divertimento. Noi cerchiamo di convincere gli insegnanti e gli educatori scolastici quanto sia importante l’educazione alla pace, invitandoli a visitare i musei di Hiroshima o Nagasaki.

Significativo questo accostamento tra Disneyland e Hiroshima e Nagasaki. La storia quindi insegna che ha bisogno di tempo per digerire, assimilare e giudicare i fatti. Pensa che oggi sia possibile giudicare Hiroshima e Nagasaki?
In Giappone abbiamo un lasso di tempo che si può stabilire in circa 50 anni per assimilare gli eventi. Fino al cinquantesimo anniversario abbiamo quindi assorbito l’esperienza di Hiroshima e Nagasaki e anche il numero dei visitatori al museo è andato aumentando. Poi, per un certo periodo, abbiamo avuto un assestamento nelle visite, mentre oggi riscontriamo una diminuzione.
Occorre anche dire che il Giappone è un arcipelago e fortunatamente, dopo la seconda guerra mondiale, non ha mai avuto attacchi bellici; di conseguenza, purtroppo e allo stesso tempo fortunatamente, l’interesse diretto della guerra è diminuito. Anche gli ultimi eventi dell’Afghanistan, Palestina, Israele, sono visti da noi giapponesi come avvenimenti che si dipanano in luoghi lontani e per molti, specie per le nuove generazioni, vengono visti come se stessero assistendo a dei videogiochi.
Ma le nazioni direttamente coinvolte in questi conflitti (Stati Uniti, India, Pakistan) posseggono bombe atomiche e per noi questo fatto è molto importante: è una cosa da valutare attentamente. Purtroppo, per la gente comune in Giappone non è così importante.

Ci può essere una seconda Hiroshima e Nagasaki? Mi riferisco alle tensioni tra India e Pakistan o ai ripetuti ammonimenti e minacce da parte degli Stati Uniti verso l’Afghanistan, Iraq, Corea del Nord, di lanciare una bomba atomica, anche se di limitate proporzioni.
Durante la guerra fredda, la teoria di usare solo come minaccia la bomba atomica ha funzionato. Grazie a Hiroshima e Nagasaki, i leaders dei paesi che posseggono armi nucleari conoscono gli effetti che subiranno le popolazioni, quindi c’è sempre la speranza che il buonsenso abbia la meglio. Ma gli Stati Uniti non sembrano seguire questo buonsenso: stanno studiando le cosiddette mini-bombe atomiche, che ridurrebbero gli effetti a una zona limitata ed esploderebbero sotto la superficie del terreno; ma l’etica di devastazione e genocidio che sta alla base di ogni bomba atomica non cambia.

Quindi, secondo lei, il mondo ha capito solo in parte la lezione che è giunta da Hiroshima e Nagasaki.
Gli Stati Uniti sono oramai rimasti l’unica grande potenza mondiale e l’idea di onnipotenza che permea la politica di Bush, sta diventando una minaccia per la pace nel mondo. Se gli Usa decidessero di usare queste armi contro uno stato o un’area, penso che avranno una ritorsione, come quella dell’11 settembre.
Inoltre, se gli Usa usassero le armi nucleari potrebbero essere criticati dai loro stessi alleati. Non sto parlando del Giappone, che è troppo «amico» degli Usa, ma mi riferisco soprattutto all’Europa.

«Il Giappone è troppo amico degli USA» ha appena detto. Voglio soffermarmi su questo punto: Koizumi, l’attuale primo ministro, è giunto a Hiroshima, ma si è rifiutato di incontrare il sindaco della città, che è notoriamente uno dei principali accusatori dei paesi che minacciano l’uso della bomba atomica. Successivamente, Koizumi si è recato nel tempio di Yasukuni, dove si onora la memoria dei caduti giapponesi morti combattendo per l’Impero giapponese, tra cui anche 14 criminali di guerra di classe «A». Non le sembra un controsenso? Cosa significa l’incontro con Hiroshima e subito dopo l’incontro con Yasukuni?
Nel tempio di Yasukuni sono onorate tutte le persone morte durante la guerra. Questo, per me, non sarebbe un problema; purtroppo tra queste persone vengono onorati anche i leaders ideologi del colonialismo. Questo è il vero problema.
Noi giapponesi, possiamo tranquillamente onorare questi morti, ma dalla parte dei cinesi e dei coreani c’è un reale problema etico e morale, oltre che storico, che sorge nel momento in cui noi onoriamo i leaders del colonialismo.
Possiamo prendere anche l’esempio dell’Italia, dove a causa del fascismo sono morte molte persone civili e militari. Se l’Italia costruisse un monumento commemorativo per i leaders del fascismo e per Mussolini, sicuramente anche i paesi che hanno subito danni dal fascismo avrebbero ragione di ribellarsi. Penso comunque sia vero quello che ha detto all’inizio, cioè che Yasukuni è stato utilizzato politicamente dal governo per dei fini ben precisi.

Lei, come uomo di pace, cosa pensa delle basi Usa in Giappone, in Corea e in Asia in generale?
La spiegazione ufficiale che ci viene data consiste nella difesa da Cina e Russia. Ma adesso non posso giudicare se sono utili o meno, dato che la Russia e la Cina sono profondamente cambiate.

Beh, c’è sempre come spiegazione la Corea del Nord…
Sì, questa è la spiegazione sul perché ci sono basi militari Usa in Corea del Sud. Poi, circa tre anni fa, c’è stato il lancio di un missile nordcoreano verso il Giappone; ma in questi ultimi tempi la politica della Corea del Nord sta cambiando e questo può essere un segno positivo per la pace.

Dall’11 settembre 2001, data dell’attacco alle Twin Towers di New York, il numero di visitatori al Museo della bomba atomica di Hiroshima, che era in calo, si è di nuovo alzato e in questi giorni avete avuto il 50 milionesimo visitatore. Che nesso c’è tra l’11 settembre 2001 e il 6 e 9 agosto 1945?
Prima dell’11 settembre, le gite scolastiche tendevano ad andare a Okinawa o all’estero, utilizzando l’aereo. Da quel giorno, dato che le scuole non possono utilizzare questo mezzo per i loro spostamenti, sono ritornate a Hiroshima. Ecco perché abbiamo avuto un aumento dei visitatori.

Quindi la tendenza del dopo 11 settembre non è collegata al momento emotivo?
Non è una causa diretta, ma è sicuramente una delle cause. Speriamo comunque che le scuole che sono venute lo scorso anno, continuino a mandare studenti.

In definitiva, cosa è stato Hiroshima e Nagasaki? Sono stati bombardamenti effettivamente fatti per porre fine alla guerra? In questo caso, però, mi chiedo cosa sia servito Nagasaki. O piuttosto sono stati dei cinici esperimenti militari e scientifici sull’uomo?
La prima spiegazione sul lancio della bomba atomica è stata quella di terminare il più presto possibile la seconda guerra mondiale, dato che anche gli Stati Uniti erano allo stremo. La seconda spiegazione è quella che gli Stati Uniti, dopo aver speso parecchi milioni di dollari per il Progetto Manhattan, volevano confermae i risultati scientifici.
Una terza spiegazione: gli Usa sapevano che il Giappone avrebbe dovuto arrendersi, quindi hanno accelerato i preparativi per il lancio per non perdere questa unica occasione giustificabile agli occhi del mondo.

Infatti, tramite l’ambasciata giapponese a Mosca, Tokyo aveva chiesto informalmente al Cremlino di intercedere verso gli Usa per trattare un piano di pace.
Washington sapeva comunque che il Giappone si voleva arrendere ed era disposto a firmare la pace anche subito. Per i militari statunitensi, era comunque più importante dare una dimostrazione di forza militare all’Urss e gli eventi bellici davano loro questa unica possibilità che non volevano farsi sfuggire.
La questione interessante è: perché Hiroshima? Nel 1945 tutte le maggiori città del Giappone erano già state bombardate, ma Hiroshima era ancora integra. Per loro era quindi più facile osservare gli effetti. Prima candidata era Kyoto; ma dato che questa, oltre a essere una città ricca di templi antichi, era anche l’antica capitale, hanno scelto Hiroshima.
Ora chiediamoci perché Nagasaki? Hiroshima è stata bombardata il 6 agosto; l’8 agosto successivo l’Urss ha dichiarato guerra contro il Giappone. Gli Stati Uniti avevano a disposizione due bombe differenti per potenza e concezione. La meno potente, all’uranio, era stata lanciata su Hiroshima, per cui si cercava la scusa per sperimentare gli effetti della seconda bomba, quella al plutonio. Questa scusa è stata trovata con la dichiarazione di guerra dell’Urss. La bomba al plutonio su Nagasaki è stata la vera, reale tragedia umana, perché sarebbe stato veramente possibile evitae il lancio.
La città è stata scelta solo un giorno prima; c’erano altre città candidate oltre a Nagasaki: Kokura, Niigata. Ma il 9 agosto a Kokura il tempo era nuvoloso, hanno quindi cambiato obiettivo, scegliendo Nagasaki. E fu la seconda tragedia. •

Piergiorgio Pescali




DOSSIER GIAPPONE

INTERVISTA

Parla Akihiro Takahashi: vittima della bomba atomica di Hiroshima

Il più famoso dei 290 mila hibakusha (vittime sopravvissute alla bomba atomica), Takahashi è un punto di riferimento per i movimenti che lottano per la pace e chiedono il bando delle armi atomiche. Mentre gli riesce facile allacciare relazioni amichevoli, a livello personale, con i cittadini dei paesi una volta nemici, incontra orecchi da mercante a livello di governi, compreso quello del proprio paese.

Classe 1931, Akihiro Takahashi aveva 14 anni quando fu colpito dalla bomba atomica di Hiroshima. Ne porta ancora le conseguenze, fisiche e psicologiche, tanto da aver dedicato l’intera vita a testimoniare la terribile esperienza.
Direttore del Museo della bomba atomica di Hiroshima dal 1979 al 1983, autore di diversi libri, vice Presidente della sezione dell’Unesco a Hiroshima, Takahashi è il più famoso hibakusha (vittima della bomba atomica) vivente e un faro per il movimento che chiede il bando delle armi atomiche. Lo abbiamo incontrato a Hiroshima, al Museo della bomba atomica.

Perché ricordare Hiroshima e Nagasaki?
Dentro di noi, vittime della bomba atomica, c’è questa forte speranza di non ripetere mai più un’esperienza di questo genere.

Lei è stato diretto testimone e al tempo stesso vittima del bombardamento del 6 agosto 1945. Cosa ha sentito quando, a 14 anni, ha subito questa esperienza? Cosa ha sentito nei confronti di chi ha voluto lanciare la bomba atomica e cosa sente oggi nei confronti del governo degli Stati Uniti, che ha già annunciato a più riprese di essere pronto a far esplodere «mini» bombe nucleari?
Quando ho subito il bombardamento ero nel cortile della scuola media, ma non sapevo cosa stesse accadendo; ho sentito un potente rumore, poi il buio più completo. Dopo essermi ripreso dallo stato di incoscienza, ho visto che i miei vestiti erano bruciati e il mio corpo era ferito e ustionato. Tutti i circa 150 studenti della mia stessa scuola erano nelle stesse condizioni, mentre gli edifici erano distrutti. Per 5 o 6 giorni dopo il bombardamento, ho perso conoscenza, ma la mia famiglia mi ha riferito che continuavo a ripetere di odiare gli Stati Uniti e gli americani. Per diversi anni non ho trasmesso la mia esperienza a nessuno e il mio odio verso gli Stati Uniti è rimasto intatto.
Adesso il sindaco di Hiroshima sta cercando il modo per intavolare un discorso di pace con i paesi che possiedono armi nucleari, ma personalmente, come vittima della bomba atomica, non penso ci sia alcun modo di intavolare un discorso di pace con questo tipo di stati. Come individui possiamo fare amicizia con i loro cittadini, ma a livello di entità statali, di governo, non c’è alcun modo di fare la pace.
Tutti abbiamo dei problemi, quindi come singoli possiamo dichiararci amici con tutti, farci amici di tutti, ma quando pensiamo alla politica del paese e dello stato, dobbiamo fortemente e chiaramente affermare che non si può parlare di pace con chi possiede armi nucleari.

Eppure il Giappone è in stretta alleanza con paesi che possiedono bombe atomiche, in special modo con gli Stati Uniti, di cui ospita anche sul proprio territorio basi militari. Infine non mi sembra che la politica di Koizumi stia mettendo in discussione questo tipo di amicizia e la stessa alleanza militare con gli Usa.
Lo stato giapponese deve essere chiaro con gli Stati Uniti. Quando dobbiamo dire no, che no sia! Ora non lo sta facendo e da quando Koizumi è divenuto primo ministro, la situazione è peggiorata.
Inoltre, dopo l’11 settembre 2001, gli Usa hanno ripreso la loro politica nucleare, costruendo anche le cosiddette mini-bombe atomiche. Koizumi deve chiaramente dire no a questa politica.

Dopo l’11 settembre, molti hanno richiamato i fantasmi del nazismo, dei campi di concentramento e le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Secondo lei esiste una connessione storica o solo emotiva con questi eventi?
Molti hanno paragonato l’attacco al World Trade Center con quello di Pearl Harbour. In parte è vero, ma personalmente ho visto delle similitudini con il 6 agosto 1945, anche se la bomba atomica di Hiroshima era molto più devastante.

Lei è stato direttore dell’Associazione di amicizia Giappone-Cina. A Hiroshima, quel 6 agosto del 1945 non c’erano solo giapponesi, ma anche cinesi, coreani, stranieri portati in Giappone per lavorare sotto il regime colonialista. Cosa si è fatto per questi non giapponesi, ugualmente colpiti dalla bomba atomica?
La guerra giapponese verso i paesi asiatici è stata una guerra di colonizzazione. Non possiamo dimenticare questo e quando racconto la mia esperienza di hibakusha, racconto anche la mia vergogna di giapponese per la politica del mio governo verso questi paesi.

In che modo l’attuale generazione di giapponesi vede il vostro passato, la vostra esperienza di vittime della bomba atomica?
In questi ultimi anni arrivano a Hiroshima circa 3-400 mila studenti ogni anno per visitare il museo. Poi spediscono alcuni pensieri, in cui molti affermano di essere scioccati di quello che hanno sentito e di non voler dimenticare. Io spero che la nuova generazione assimili questa esperienza e la trasmetta ad altri.

Lei ha incontrato più volte il papa. Cosa pensa della sua persona e di cosa avete parlato?
Nel febbraio 1980 l’ho incontrato per la prima volta, quando il papa, per sua volontà ha voluto visitare Hiroshima e il museo di cui, in quel periodo ero direttore. Di fronte al diorama ho spiegato al papa che l’effetto della bomba atomica sull’uomo è 4 mila volte superiore rispetto alle bombe tradizionali lanciate dai B-29. Al che il papa mi ha chiesto di ripetere, per essere sicuro che non mi fossi confuso e che, anziché 4 mila non avessi voluto dire 400 o 40. Confermai la potenza 4 mila volte superiore; e ricordo l’espressione del papa, molto stupita e affranta.
Ho inoltre spiegato la mia personale esperienza. Il tempo previsto per la sosta al museo era di 20 minuti, ma il papa ha voluto trattenersi per ben 40 minuti, chiedendo continuamente della mia esperienza. Alla fine, ciò che più mi ha commosso è stato il ringraziamento ricevuto dal santo padre che, ha voluto sottolineare, non era diretto solo al direttore del museo, ma soprattutto al testimone e vittima della bomba atomica.
Dopo dieci anni sono stato ricevuto in Vaticano. Quando l’ho incontrato, Giovanni Paolo II mi ha subito detto di ricordarsi di Hiroshima, mi ha preso la mano bruciata dalla bomba e l’ha tenuta stretta a lungo.

Il Giappone, il mondo intero, ha tratto una lezione dall’esperienza di Hiroshima e Nagasaki? Voglio dire, ci potrà essere un’altra Hiroshima e Nagasaki nel futuro dell’uomo, o pensa che oggi esistano le condizioni per eliminare tutte le armi nucleari?
Quello che temo di più è la possibilità da parte dei terroristi di utilizzare le armi nucleari. Non possiamo capire che utilizzo vogliano fae. Ma anche da parte di alcuni stati temo la possibilità di utilizzo nucleare. Quindi devo purtroppo affermare che la situazione mondiale è molto critica e noi siamo tutti a rischio.

Anche se sono passati 60 anni, come mai l’umanità non riesce a trarre frutto dell’esperienza e migliorare i propri rapporti con le culture, religioni, stati?
L’esperienza non scompare, ma non viene ricordata bene. Noi vittime delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, diciamo ai leaders delle nazioni, che possiedono armi nucleari, che se vogliono utilizzarle, facciano loro stessi l’esperienza di essere bombardati.

Lei ha detto che non si è assimilata l’esperienza, ed è vero. Ma nelle scuole, in Italia come in Giappone, c’è una forte tendenza al revisionismo storico, vale a dire rivalutare esperienze negative del passato. Ha paura che questo revisionismo influisca sulla conoscenza della vostra esperienza di sopravvissuti alla bomba atomica?
I revisionisti affermano che in quel determinato periodo storico era giusto fare la guerra. Io invece non lo penso e lo dobbiamo dire chiaramente. Non possiamo distorcere i fatti storici.

Il governo degli Stati Uniti vi ha mai chiesto scusa? Non parlo di scuse dirette al governo giapponese, ma a voi vittime.
No.

E voi pretendete delle scuse, immagino.
Sono state richieste, ma non ci è pervenuta alcuna risposta. Gli statunitensi dicono che bombardare Hiroshima e Nagasaki con le bombe atomiche era l’unica soluzione fattibile a quel tempo. Chiedere scusa significherebbe ammettere i propri torti.

Non parlo di scuse al governo, ma a voi; quindi non scuse politiche, ma umanitarie.
Neppure per motivi umanitari sono state mai fatte scuse. Gli Stati Uniti continuano ad affermare che con le bombe atomiche hanno salvato milioni di altri giapponesi che sarebbero morti con il prolungamento della guerra.

Box 1

Residuato bellico, le isole Curilli

I l governo Koizumi si sta preparando per convincere Putin a riaprire qualche spiraglio di trattativa per discutere il problema delle Curili.
Si tratta di una manciata di isolette all’estremo nord dell’arcipelago, al largo di Hokkaido, che l’allora Unione Sovietica aveva occupato nel 1945, all’indomani dell’entrata in guerra di Stalin contro il Giappone, nella speranza di contrastare l’influenza statunitense del dopoguerra in Estremo Oriente. Per quasi cinque decenni le isole hanno rappresentato una spina nel fianco del Giappone, le cui coste si trovavano a pochi chilometri da postazioni militari sovietiche.
Con la fine della guerra fredda e il dissolvimento dell’Urss, Tokyo ha ripreso con più vigore le richieste di riottenere il desolato e scarsamente abitato arcipelago. In particolare, sono quattro le isole contese: Etorofu, Kunashiri, Shikotan e Habomai. In gioco non c’è solo il diritto di pesca nelle ricche acque del nord, ma anche il ristabilimento dell’onore imperiale.
Le Curili, infatti, sono abitate da popolazioni ainu, autoctoni di Hokkaido e da discendenti dei giapponesi che nel xviii secolo completarono la colonizzazione dell’arcipelago. Dopo la Dichiarazione congiunta russo-giapponese del 1956, che prevedeva la restituzione di Shikotan e Habomai al Giappone dopo la firma del trattato di pace, Mosca e Tokyo permisero alle famiglie separate di effettuare visite tra le due nazioni per onorare la memoria dei loro congiunti defunti.

M a 60 anni di presenza sovietica e russa, hanno modificato, forse per sempre, la fisionomia etnica e sociale di questi isolotti. Oggi, accanto agli ainu e ai nipponici, vivono migliaia di russi e siberiani che si sono stabiliti qui con le loro famiglie, allettati dagli alti stipendi che lo stato garantiva loro e che non vedono di buon grado l’eventuale cambio di bandiera sulle loro case.
Neppure sul nome topografico Mosca e Tokyo hanno trovato un accordo, riferendosi all’arcipelago rispettivamente come Curili e come Territori del Nord. Pochi mesi fa, Putin ha raggelato le speranze del governo Koizumi affermando che la Dichiarazione congiunta del 1956 non costituisce un impegno per il nuovo gabinetto russo.
Il problema è che le due capitali interpretano il documento secondo due diversi punti di vista: mentre al Cremlino i punti sottoscritti si intendono conclusivi per una definitiva soluzione del contenzioso, a Tokyo l’intesa viene tradotta come una prima tappa per la restituzione di tutte le quattro isole contese.

Piergiorgio Pescali




DOSSIERGlossario minimo

Cabina: ragazzo/a appartenente al gruppo dei «cabinotti», adolescenti amanti della moda firmata e del lusso in generale. Deriva dall’abitudine dei rampolli delle famiglie «bene» torinesi a ritrovarsi davanti ad alcune cabine telefoniche della collina.
Altea: ragazzo/a il cui stile di vita è sobrio, contro le mode, anticonsumista. Nemici dei cosiddetti «cabina», fanno parte del variegato mondo no-global.
Non mi chiudere – mi stai chiudendo: manifestazione di scarsa sopportazione verso qualcuno generalmente noioso e petulante, solitamente un insegnante.
Mi fai scassare: complimento che manifesta grande simpatia e apprezzamento.
Te la tiri – non te la tirare: rimprovero verso colei che ha atteggiamenti da donna inarrivabile.
Fammi fare un tiro: riferito alla sigaretta corrisponde ad un invito di condivisione.
Gaggio/a: persona ridicola, non piacevole.
Micio/a: persona simpatica, affettuosa. Con tono accusatorio e preceduto da non fare esprime invece rimprovero.
Sei fuori: sei matto.
Essere out: essere fuori moda, fuori contesto.
Essere avanti: stile di vita moderno, inteso anche in senso culturale.
Spacchiuso/a: colui che si atteggia a divo.
Fai cisti: richiesta di attenzione.
Di brutto: molto.
Da paura: se esclamato sta ad indicare entusiasmo.
A muzzo: a caso.
Carenzare: centellinare in situazione di carenza.
Sdruso: sorso.
Cellu: abbreviazione di cellulare.
Banfare: esagerare un resoconto al fine di mettersi in mostra.
Segare: se riferito alla scuola o ad una ragazza sta ad indicare «respinto» (mi ha segato = mi ha respinto) (sono stato segato in seconda = mi hanno respinto in seconda).
Tagliare: scolastico, non recarsi alle lezioni mattutine.
(a cura di Maurizio Pagliassotti e Fabio Pugliese)

aa.vv.




DOSSIER GIOVANIDa nord a sud

Abbiamo dedicato questo primo dossier del 2005 ai giovani. Avevamo dei dubbi, perché gran parte dei nostri lettori sono di età adulta o avanzata. Poi però ci siamo accorti che i giovani sono oggi una categoria senza precisi confini anagrafici: molti vivono in famiglia oltre i 30 anni, quasi sempre perché il loro lavoro (quando c’è) è precario e mal pagato.
In questo dossier, è bene precisarlo con chiarezza, si parla di giovani occidentali, per i quali i bisogni primari sono, più o meno, quasi sempre soddisfatti. In altre parole, va sottolineato che i giovani del Nord del mondo non hanno le stesse problematiche di quelli del Sud. Per questi ultimi, il problema non è il cellulare di ultima generazione, il brano musicale appena uscito, il videogioco più recente, l’ultimo modello di pantaloni a vita bassa o di scarpe da ginnastica firmate.
Al Sud del mondo la vita colpisce più duro, molto più duro. L’istruzione, ad esempio, è per moltissimi un diritto teorico più che reale. Troppi giovani sono costretti ad iniziare a lavorare in età scolare per aiutare la famiglia a sopravvivere: è la piaga, mai rimarginata, del lavoro minorile, che si riscontra nella maggioranza dei paesi del Sud (dal Bangladesh all’Indonesia al Nicaragua). Senza dimenticare i giovanissimi che si ritrovano con un mitra o una pistola in mano: si pensi ai bambini-soldato (in Sierra Leone come in Colombia) o a quelli organizzati in bande (come le maras in Salvador). O, ancora, a quelli che vivono per le strade, sniffando colla e vivendo di espedienti: dai meninos de rua del Brasile ai gamines della Colombia.
Per le ragazze, poi, l’esistenza è ancora più segnata, siano esse africane, latinoamericane, indiane o filippine: da piccole (a partire dai 4 anni) debbono accudire i fratellini o aiutare la mamma o lavorare (rischiando la schiavitù o l’abuso sessuale: si pensi alle ragazze restavec di Haiti) nelle case dei ricchi; appena diventano donne (dai 13-14 anni), si ritrovano incinte e perdono di colpo quel po’ di spensieratezza che forse era loro rimasta. Giovani sfortunate, certo, ma meno di quelle che finiscono nei bordelli della Thailandia, della Cambogia o delle Filippine, tanto per fare qualche nome.

Ecco, se i giovani del Nord conoscessero meglio i problemi che affliggono i loro coetanei del Sud, forse il mondo sarebbe un luogo migliore e tutti starebbero meglio. Invece, ciò non avviene e non avviene per vari motivi. Ad esempio, perché la scuola non ha tempo da dedicare ad approfondire tematiche politicamente compromettenti e, di conseguenza, pericolose; perché la Tv (che è strumento degli adulti) offre programmi come Il grande fratello (programma globalizzato, in quanto diffuso in molti paesi occidentali) o L’isola dei famosi e gli stessi telegiornali dedicano un tempo francamente imbarazzante al gossip (fatti, misfatti e scempiaggini dei personaggi dello spettacolo).
A fronte di questa dequalificata offerta informativa del mondo adulto, non dobbiamo stupirci, come racconta Maurizio Pagliassotti nel suo articolo, se il professore di religione che chiede ai suoi alunni cosa sappiano del Darfur (la regione del Sudan dove è in corso una guerra di sterminio) si sente rispondere: «Dar… che? Ah! Carrefour!». Carrefour è – per chi non lo ricordasse – la multinazionale francese dei supermercati. Un’ulteriore dimostrazione di quanto il virus del consumo abbia contaminato tutto, tanto che i depliants pubblicitari sono più letti dei quotidiani, i quali – tra l’altro – sono, per più della metà dei giovani, uno strumento informativo inutilizzato. È altrettanto vero che, al giorno d’oggi, i ragazzi (occidentali) hanno a disposizione uno sterminato ventaglio di mezzi di comunicazione (da internet alle televisioni satellitari), ma ciò non ha impedito una diffusa ignoranza. Per citare Ignacio Ramonet: «Per lungo tempo rara e costosa, l’informazione, insieme all’aria e all’acqua, è ormai l’elemento più abbondante del pianeta. Sempre meno costosa via via che il suo gettito aumenta, ma – proprio come l’aria e l’acqua – sempre più inquinata e contaminata».

Nonostante i presunti effetti benefici della globalizzazione, Nord e Sud del mondo rimangono molto distanti (o, meglio, ancora più distanti), come distanti sono i problemi dei loro giovani. Eppure, nessuno può negare che anche in Occidente il cosiddetto «disagio giovanile», ancorché diverso, esista e sia importante perché va ad incidere sulla qualità della vita e sul futuro da costruire.
«Il tempo della gioventù si è dilatato, quello della società si è velocizzato, quello del lavoro si è allontanato» così ha ben sintetizzato la situazione Marco Bertone, pedagogista, il cui articolo apre il dossier. Ha ragione, infine, il nostro biblista Paolo Farinella, quando esorta i ragazzi a «conoscere, conoscere, conoscere… perché troppi padroni sono in agguato».

Paolo Moiola




DOSSIER GIOVANI”C’era una volta una velina…”

Se la televisione modella la vita

«Che incontrò un “tronista” e insieme vissero felici e contenti per tutta la vita in uno studio televisivo».

Costantinopoli e i 10 comandamenti. Iniziando così, siamo quasi certi di aver spaccato i lettori in almeno due categorie: quelli che cercano il refuso e quelli che si aspettano la continuazione della frase. La verità è che il fenomeno Costantino è tale proprio perché questo individuo è largamente sconosciuto a gran parte dell’italica penisola. Pur tuttavia, e vi invitiamo a provare, andate nella camera dei ragazzi e chiedete loro se conoscono Costantino. Diamo per certo che la risposta sia affermativa. Sorge una prima domanda: come fa un fenomeno giovanile ad essere così sconosciuto alla generazione dei genitori?
Costantino Vitagliano è un fenomeno mediatico nato nella trasmissione pomeridiana di Maria De Filippi Uomini e Donne. Il nostro eroe belloccio era chiamato all’arduo compito di scegliere, tra un’orda di petulanti «spasimanti», la fidanzata. Tale posizione è stata giornalisticamente chiamata «tronista». Il nostro uomo è stato poi costantemente ospitato nel contenitore televisivo settimanale Buona Domenica accanto alla sua prescelta, tale Alessandra.
Fino a questo punto la nostra storia non assume i caratteri epici di un Odissea e probabilmente non li raggiungerà mai, però aggiungiamo un altro aspetto che ci sembra rilevante. Con l’ospitata domenicale di Costantino il programma della coppia De Filippi-Costanzo ha prima raggiunto, poi superato l’odiata rivale della televisione pubblica, accaparrandosi preziosi contratti pubblicitari in una fascia oraria importantissima.
In definitiva: Costantino Vitagliano fa vendere. Lo sapranno bene quei malcapitati genitori i quali si trovano ad esaudire le richieste del/la figlio/a nell’acquisto di uno, o più, capi d’abbigliamento, figurine, pacchetti di patatine, giornalini griffati Costantino
Il fenomeno non è recente. Data ormai qualche anno e presuppone un cambiamento sociale che ha come protagonista la nostra televisione. Il panorama mediatico è lentamente cambiato sino ad assumere i connotati che adesso lo caratterizzano.

UNA TV DI LITIGATE, SFURIATE, TRADIMENTI

L’interprete e la guida di questa modifica viene generalmente personalizzata nella figura di Maria De Filippi. Cosa avrebbe fatto costei?
Lei (i suoi autori, in realtà) ha cavalcato l’onda del «normale». I suoi programmi sono stati dei prodromi ai reality portando in scena le litigate della famiglia, le sfuriate fra coppie, i tradimenti fra amici e così via. L’ordinario in luogo dello straordinario.
Chi è dunque Costantino? Un normale ragazzo, si direbbe, perfino un po’ maleducato, poco istruito, molto presuntuoso che va a parlare in televisione delle sue feste in discoteca e del suo «ordinario».
Il motivo per il quale costui non è molto conosciuto potrebbe essere proprio questo. È un bel ragazzo che non sa fare nulla di particolare. Non è uno Schumacher e non è un Biagi. Non è una Marie Curie o un Baard. È un giovane vicino alla trentina che fa cose normalissime.
Sarà questa la sua forza? È evidente che qualcosa lo deve pur saper fare se i genitori sono costretti a comprare ai propri figli dei pantaloni simili ai suoi, delle magliette come le sue, le scarpe così etc. etc.
La sua forza sta, probabilmente nella sua enorme fortuna. Quale fortuna potrà avere uno che non sa distinguere tra un congiuntivo ed una congiuntivite?
Probabilmente Costantino è solo un simbolo di una televisione che propone modelli comportamentali meravigliosamente «a tono» con quella smania del consumo che pervade la nostra società.
In effetti Costantino qualcosa di eccezionale lo fa: compra. Costantino compra tanto, compra tutto, lo fa e non si chiede mai se ne ha realmente bisogno, compra «perché gli va».
È forse questa la tragica ed ineludibile verità. Costantino furoreggia tra i ragazzi solo perché è la personificazione del primo comandamento del nuovo vangelo economico: «Compra al tuo prossimo come vorresti che il tuo prossimo comprasse a te». Qualche tempo fa un libro di un ex pubblicitario, Frederic Beigbeder, iniziava così: «Noi non vogliamo che la gente sia felice, perché la gente felice non consuma». Costantino è questo. Noi non sappiamo se egli sia felice o meno, ovviamente gli auguriamo le migliori fortune, tuttavia la sua condizione psicologica è pericolosamente aggrappata al desiderio. Egli è, senza dubbio, il desiderio di molte teenager, ma per essere un desiderio deve desiderare. Deve desiderare di essere sempre il più trendy, il più alla moda, il più bello, il più in forma. Necessita, dunque, della dea «Azienda che vende», la quale, baciandolo come proprio alfiere ed emissario in terra, in una sorta di abbraccio mortale, lo costringe anche a fare e dire tutto quello che vuole lei: comprare, comprare, comprare.

LA STRADA PER DIVENTARE IDOLI

Se queste sono le condizioni, quale può essere allora il meccanismo che porta Costantino ad essere l’idolo dei nostri giovani?
Il fatto è che il nostro uomo è «uno che ce l’ha fatta». Possiede ciò che tutti vogliamo. In questo abbraccio mortale con la divinità, in questa versione modea del patto col diavolo, la sua figura rappresenta l’immagine di colui che è accettato. Sappiamo tutti quale sia, nell’ambito adolescenziale, ma non solo, l’importanza del gruppo dei pari. I coetanei sono il tramite attraverso il quale il bimbo si stacca dal nido genitoriale per spiccare il volo verso la realtà sociale. Ecco che diviene fondamentale, per un giovane, che questo piccolo balzo sia quanto meno traumatico e quanto più facile possibile. Costantino rappresenta questa facilità: fai come lui ed i tuoi amici ti accetteranno; fai come lui ed il gruppo penderà dalle tue labbra; fai come lui e ce la farai anche tu.
In questa finzione psicanalitica, il modello comportamentale, che qui potremmo definire «defilippino» è quello che insegna ai nostri giovani che da soli non ce la potranno mai fare. Hanno bisogno dell’ «aiutino». L’aiutino, allora, ce lo fornisce bello e buono il mondo dell’entertainment. Compra i cd di Eminem e vestiti come lui. Pensa e agisci come lui ed avrai anche tu la tua nicchia, il tuo nuovo nido, dal quale guardare con sicurezza al difficile domani.

LE NUOVE FAVOLE NELL’EPOCA DELLA TELEVISIONE

Il «defilippino» è il nuovo schema mentale con il quale si insegna ai giovani a leggere la realtà. Sono i nuovi occhiali che la televisione mette ai nostri ragazzi. Un po’ come, attraverso Cappuccetto Rosso, i nostri bisnonni insegnavano ai nostri nonni l’importanza dell’ubbidire, la nuova favola della velina insegna ai nostri figli che… non serve più studiare.
Sì perché, curando il tuo corpo incontrerai il provino magico che ti renderà velina e vivrai «in televisione felice e contenta per tutta la vita». Nella nuova pedagogia del «defilippino» la laurea è in «Velina» o in «Tronista». Il master è in «Look e accessori particolari».
Ecco che, con la banalità del «tutto facile», il Cepu della vita ci fa superare l’esame di pantaloni griffati. Ed allora, mi raccomando, non dimenticare anche gli altri comandamenti del «defilippino»: «Non avrai altro Dio all’infuori di Mc Donald’s», «Onora e festeggia il sabato sera», «Desidera tantissimo la donna velina».
E, quando si fanno i provini per un nuovo programma «defilippino», la fila scalciante ai cancelli è chilometrica. Spesso si dice che i giovani non credono più in nulla.
Non è vero. Purtroppo. •

Fabio Pugliese




DOSSIER GIOVANI”Darfur? Carrefour!.”

A colloquio con Diego, professore di religione

Apatici e disinteressati al mondo esterno: sembrano così la maggioranza dei giovani d’oggi. Ma la loro responsabilità è limitata, mentre le colpe degli adulti sono chiare e sotto gli occhi di tutti. Abbiamo costruito un mondo senza solidarietà, dove la sola linea guida è l’interesse economico.

I ragazzi a scuola lo chiamano «professorone». Diego Gottardi, quarant’anni, insegna religione presso il liceo scientifico «Luigi Bobbio» di Carignano. Prima agrotecnico, poi insegnante di religione, ormai da 12 anni. Seconda professione a tempo pieno: papà. Ha infatti quattro figli, numero che suscita incredulità tra le sue studentesse.

Cosa insegna la scuola ai ragazzi oggi?

«Mi faccio portavoce solo di quello che vedo. La scuola ai ragazzi insegna le cose che ha sempre insegnato ma con meno convinzione o meglio, con la semiconvinzione che l’insegnamento non sia più utile. Questo non dipende dai ragazzi, ma da noi adulti che non riusciamo più a toccare le corde giuste. Dall’altra parte, i ragazzi sono apatici nell’affrontare gli argomenti necessari per formarsi. Sono apatici, perché non hanno il senso della scalata e del gusto delle cose. Il problema dei ragazzi è che, nonostante le smisurate potenzialità tecnologiche odiee, il loro mondo è divenuto piccolo piccolo e non riescono a buttare lo sguardo oltre. In seconda liceo faccio fatica a proporre un testo come Lettera ad un consumatore del Nord perché il loro mondo ha una frontiera che non abbraccia questi argomenti quotidiani che interessano tutti. Non si sentono responsabili di quello che accade fuori dalla loro stanza. Questi sono i nostri prodotti e presto dovremo fare un mea culpa.
Quando un bambino cresce in un ambiente dove non esiste lo spazio alla solidarietà ed il mirino è fisso sul consumismo, è inutile poi chiedergli di andare a fare del volontariato a diciassette anni, perché si propone un’incongruenza».

I ragazzi amano conoscere?

«Di primo acchito sembrerebbe di no. A loro piace capire. Gli piace leggere Dante? No. Ma se tu fossi capace di usare Dante per fargli capire qualcosa di fondamentale anche per loro, allora amerebbero Dante o Platone. Il segreto è questo. La vera sfida è rimanere in contatto con i giovani e se scoprono in te un interlocutore di cui fidarsi allora questo accadrà, non solo a scuola ma anche nella famiglia. Se noi amassimo, anche in maniera idealistico, questo modo di rapportarci con i ragazzi riusciremmo a ricavare uno spazio educativo forte».

Oggi gli insegnanti sono più autoritari o autorevoli?

«Non sono particolarmente nessuna delle due cose. C’è un ritorno all’autorità esercitata. Durante un consiglio di classe, un’insegnante di scienze ha fatto un richiamo pubblico ai genitori affinché controllassero come i figli si vestono per venire a scuola. I limiti sono stati oltrepassati. Questa durezza per quanto necessaria deve essere caricata di affetto».

Perché si distrugge una scuola (il Parini di Milano) per evitare una verifica di latino?

«Per incoscienza ed irresponsabilità. È un discorso che parte da noi adulti. Se io non sento il peso dell’educazione, non mi interesso di come crescono i figli. Tantissimi genitori hanno l’idea che l’educazione sia una crescita fatta di diritti. I genitori danno tutto ciò che è materiale saltando il contatto e la vicinanza. Perché tanti adolescenti chiudono le porte con i genitori? Perché non parlano, perché non li conosciamo?
Se i genitori non possono dare il tempo, tanto, nasce il problema della comunicazione è un ponte che non viene costruito. Un abbaglio su ciò che pensiamo sia amare. Scegliamo la forma di amore che ci mette meno in discussione. Scegliamo una forma di amore che possiamo comprare con i soldi. Non si può pensare di amare i figli perché si apre il portafogli. Il bambino sente questo amore castrato e falso che gli è stato dato e mette in atto degli atteggiamenti di protesta. Noi diamo un bene piccolo».

Quanto è presente lo sport?

«Quando lo sport è presente lo è in maniera quasi ossessiva. Lo sport, l’attività ricreativa, il violino, la danza, il corso di qualcosa, vanno a sommarsi al già grande carico di lavoro che hanno gli studenti, i bambini in particolare. Perché non educhiamo i nostri figli-alunni in maniera meno pesante? Non è possibile che i bambini dopo otto ore di maestra abbiano voglia di ascoltare un’altra maestra. Questo mi impressiona molto. Io penso che non ci sia nulla da imparare per forza. Si creano così dei bambini con personalità poco bambine, con ragionamenti da uomini già a otto anni. Vivono per tappe forzate, imposte.
Perché oggi tutti i giovani vanno all’università? Perché nessuno riesce ad immaginare un futuro felice senza la laurea. Non riescono ad avere il fiuto della felicità, come non lo abbiamo noi. La felicità è diventata dipendente dall’esterno, dal telefonino come dagli amici, dal corso di qualcosa, dall’amore. Non si riesce più ad essere felici partendo da cosa siamo noi. È un germe che abbiamo inoculato noi a loro. La generazione come la mia, nonostante i grandi ideali ha puntato tutto sui soldi, perdendo di vista il tempo e la gioia».

Cosa sognano i ragazzi?

«Non lo so. Temo che non abbiano sogni. Alcuni dicono che hanno sogni materiali. Io non sono d’accordo, perché, qualora anche li avessero, essi hanno la coscienza che sono dei palliativi, sanno che non hanno preso il toro per le coa.
Infine, non è forse una grave negazione del sogno anche lo “smontare” la fede dei bambini?».

A scuola si parla della guerra?

«No. Dei ragazzi che conosco io il 98% non segue la cronaca. Le mie lezioni si agganciano alle grandi questioni planetarie. Ho provato a fare un’intervista, anche ai colleghi, sull’argomento Darfur nei giorni in cui questo problema era seguito da servizi giornalistici.
Sai cosa mi rispondevano? «Dar che? Ah! Carrefour!». Dobbiamo fargli capire che il mondo non è il paesino o quartiere dove vivono. Se vado scuola e faccio un richiamo alla cronaca eclatante del giorno prima, non ho risposta. Se venisse un guerrucola qui e loro dovessero rinunciare ai beni di consumo, il 70% dei ragazzi (ma anche degli adulti) morirebbe di fame. Stiamo combinando un grosso guaio con loro perché li stiamo educando a non affrontare la vita».

La chiesa e il suo rapporto con i giovani.

«La chiesa a mio avviso è un po’ ferma. Avrebbe dei canali di presa, sa quali sono le corde da toccare e credo che le realtà più incisive siano quelle missionarie. Ogni anno invito un gruppo di volontariato presentando i loro progetti. Questa è la parte più attiva della chiesa che agisce sui ragazzi.
Cinquecentomila giovani sono andati a vedere il papa a Tor Vergata perché vedono una figura in cui credono, un adulto-adulto.
Il giovane, più di altri, ha bisogno di scoprire il senso della vita e il papa è coerente con quello che manifesta. Io credo che noi gli confondiamo le idee nella sua ricerca impedendogli di vederlo con chiarezza: questo è peccato. Il papa dice aprite le porte a Cristo e cercate la verità lungo quella via, con autorevolezza, semplicemente e senza esitazioni».

Maurizio Pagliassotti




DOSSIER GIOVANIAdolescenti in un mondo di adulti bambini

Famiglia, scuola, società

La società è cambiata e con essa il ruolo della famiglia, che non si è adeguata. Le difficoltà dei giovani d’oggi discendono direttamente dal mondo adulto e dai suoi pessimi esempi: dall’onnipresenza del mercato all’abolizione del principio etico della «logica conseguenza» fino allo svilimento dell’importanza della legge e del suo rispetto.

A leggere la cronaca e le varie inchieste sui «nostri ragazzi» si ha l’impressione di passeggiare in un cimitero: la morte popola la vita degli adolescenti, che hanno terrore della sofferenza. Leggendo le statistiche, m’impressiona particolarmente che alcuni giovani possano spendere fino a 50 euro al giorno (sms compresi, immagino). Il costo mensile sarebbe di euro 1.500, mentre un lavoratore (riformato dal governo Berlusconi) ne guadagna meno di 1.000 per mantenersi con famiglia incorporata. Da qualche parte c’è qualcosa che non funziona: c’è del marcio in Danimarca! Ho letto e riletto le interviste e gli studi sugli adolescenti e la conclusione è sempre la stessa: il soggetto e l’oggetto sono «i ragazzi». Tutto parte e tutto si conclude con loro, anche quando si dice (fonte Eurispes) che «il 92,4% dei ragazzi hanno individuato innanzitutto in una vita familiare serena l’elemento in grado di trasmettere loro un certo sentimento di sicurezza».
Secondo me, è sbagliato il metodo e quindi anche le conclusioni: non bisogna intervistare i ragazzi, facendo poi finta di scandalizzarsi dei loro comportamenti. La teoria psico-sociologica del behaviorismo è superata anche tra i più scalcinati dei gruppi sociali.

LA MALATTIA DEGLI ADULTI

Partiamo subito da un assunto, che potremmo così definire: quando un bambino/adolescente o gruppi di bambini/adolescenti o giovani, singolarmente o insieme, hanno un problema comportamentale o psicologico-relazionale, è sintomo che gli adulti sono già affetti da una malattia forse irreversibile. L’alto costo di questa malattia «adulta», la pagano sempre i bambini, gli adolescenti, i giovani. In altre parole: non esiste un bambino/ragazzo/giovane cattivo, ma in compenso esistono cattivi adulti che condizionano o segnano la vita del giovane, del ragazzo o del bambino. Portare esempi significa compilare un’enciclopedia sempre aperta ad aggioamenti.
Chi si scandalizza se i ragazzi dicono di non amare la scuola? Come fanno ad amare una scuola falsa, senza contenuti, che gli adulti stanno distruggendo, senza preoccuparsi affatto delle conseguenze sugli stessi ragazzi? Come fanno ad amare la scuola della riforma (?) Moratti che tutto è tranne che una riforma e una scuola?
I ragazzi amano il denaro, il cellulare, la moda e non sono soddisfatti del proprio corpo? Chi si meraviglia è in malafede o semplicemente complice di un sistema economico che fa leva proprio su questi elementi per indurre i ragazzi ad essere segmenti di mercato senza testa e senza cervello per poterli facilmente dominare e manovrare. Chi si oppone a queste perversioni? Oggi nemmeno la chiesa ci prova più, succube com’è dei processi mercantili che soggiacciono alla politica governativa.

«LA FAMIGLIA DI UNA VOLTA»

Credo che nessuna persona di buon senso possa accampare paragoni impossibili con espressioni come «ai miei tempi», che normalmente introducono i discorsi di chi non ha capito i «suoi» tempi e non capirà mai i tempi degli altri. Non esiste tempo o epoca migliore o peggiore di altri. Ogni epoca è figlia del suo tempo e per questo è unica e irrepetibile. Nel bene e nel male. I ragazzi di oggi non sono peggiori o migliori di quelli di ieri , sono solo ragazzi, non formati completamente, ma in via di sviluppo, in fase di crescita e quindi turbolenti e contraddittori, stupidi e formidabili come solo i ragazzi sanno essere, come lo fummo noi «ai nostri tempi». Un giorno smetteranno gli abiti adolescenziali e indosseranno quelli della maturità, se da adolescenti hanno avuto accanto, davanti e in alto uomini e donne adulti che hanno saputo proporsi e proporre prospettive alte e non merce scadente a basso costo.
Leggendo le statistiche delle varie scuole di ricerche si ha l’impressione che si rimpianga «la famiglia di una volta» come ombrello che paracadutava il figlio in ogni ambito della vita, dalla scuola alle amicizie, dal lavoro al matrimonio. Questa famiglia «esaustiva» e totalizzante ha cessato di esistere da quando, nella società pluralista contemporanea si sono moltiplicate le agenzie educative, spesso in contrasto con gli interessi della famiglia, diventata il «luogo» dove il ragazzo passa il minor tempo della sua giornata. Se la famiglia coltiva interessi di maturazione affettiva, attraverso la convivenza dialogica, i gestori di telefonia hanno l’interesse a sganciare il ragazzo da questa protezione per fae un autonomo soggetto di comunicazione «isolata» e «isolante» attraverso lo strumento degli «sms».
La famiglia, a sua volta, crede di trovare nel telefonino una risposta alla propria paura quando il figlio è fuori dalla propria influenza fisica e quindi prende l’iniziativa di accessoriarlo, pagandone il relativo costo, illudendosi che il telefonino accorci le distanze tra due o più assenti.

QUALE RUOLO PER LA FAMIGLIA?

La famiglia, in verità, ha preso coscienza di avere perso il proprio ruolo formativo, ma non si è preoccupata di trovare la sua nuova dimensione, adeguata ai tempi nuovi. Ha semplicemente abdicato, demandando funzioni e soluzioni al di fuori di sé. Un bambino oggi ha più impegni di un ministro degli esteri e la sua giornata è scandita ad un ritmo ossessivo che produce dislessia paranoica comportamentale, vissuta nella solitudine e nell’abbandono.
La famiglia oggi ha e può avere un solo ruolo: essere il luogo della convergenza, dove si discutono le esperienze e le proposte di tutte le agenzie educative «estee» (scuola, parrocchia, palestra, hobby, amici, letture, chat, ecc.) offrendo strumenti di valutazione per una decisione critica e più autonoma possibile riconoscendo al ragazzo il suo ruolo di protagonista della sua vita, ma offrendogli anche la certezza di una presenza non-occupante, ma sempre disponibile e aperta affettivamente. Il ragazzo si percepisce come soggetto solo se si percepisce amato non per quello che vale, ma unicamente per quello che è.
Gli adulti hanno un problema, anzi una serie di problemi: hanno dimenticato di essere stati ragazzi, adolescenti e giovani e scaricano sui figli le conseguenze della loro incapacità di risolversi e quindi, in ultima analisi, della loro immaturità. Essi proiettano nel mondo giovanile tutte le loro paure e i loro fallimenti, giungendo perfino ad essere capaci di generare figli, ma incapaci di sapee leggere la vita e le esigenze di educazione. Di fronte alle sfide del mondo giovanile, di norma, gli adulti fuggono e quando non possono fae a meno pagano la loro fuga con i telefonini, con la tv, con il denaro che sono sostituti affettivi offerti da adulti-bambini a bambini che vorrebbero diventare adulti, ma sono costretti a restare bambini o, peggio, sono costretti a diventare di colpo adulti-vecchi e mai adulti-adulti. Il mondo dello sfruttamento economico si è inserito in questo processo perverso di relazione adulti/adolescenti e ne sfrutta tutte le potenzialità vantaggiose per alimentare nuove generazioni di schiavi, pronti ad essere, ad apparire, a comprare e a vivere come vuole il padrone di tuo.
Come è lontana l’aspirazione del poeta Camillo Sbarbaro che, per il 18.mo compleanno del figlio, scrisse lapidarie parole: «Ubbidirti a crescere è la mia vanità!». Che altro non è che la traduzione laica della considerazione di Giovanni Battista di fronte al nuovo che avanza e lo sopravanza: «Egli deve crescere e io invece diminuire» (Gv 3,30). Queste parole, laiche o evangeliche, dovrebbero essere scritte a caratteri cubitali in ogni casa dove vi sono figli, in ogni scuola, in ogni luogo dove vi sono educatori di bambini, adolescenti e giovani perché offrono la dimensione delle proporzioni tra giovani ed adulti. Gli adulti invece, contro natura, cercano in ogni modo di crescere i figli a loro immagine, a loro somiglianza, perpetuando così il vecchio e impedendo al nuovo di affacciarsi all’orizzonte. Inutilmente, perché ieri è passato e domani deve ancora sorgere.

PUBBLICITÀ VIOLENTA E SESSUALE

Non c’è pubblicità che non regali servizi sempre più nuovi, sempre più appetibili. Tutto è gratis, a condizione di pagare tutto molto salato. Più di 63 milioni di sms significa fatturati di miliardi di euro. La nuova economia neo-teo-con si fonda sul nulla, cioè sulla polvere delle morte parole che copre l’anima degli adolescenti, stuprandoli nello spirito e derubandoli nel denaro che non guadagnano.
Cosa importa ai gestori di telefonia se questo «stile» ha come prezzo la vita stessa del ragazzo? Non c’è pubblicità indirizzata ai giovani e ai meno giovani che non sia esplicitamente o allusivamente sessuale o violenta, dove tutto è presentato come un diritto che si può afferrare senza fatica. Come meravigliarsi se poi i ragazzi hanno paura del compito di greco o della sofferenza? La morte, l’amore, il sesso non sono motivi di paura o di ansia, sono semplicemente banalizzati e quindi svuotati di significato.
I ragazzi assorbono questo «stile» e hanno smesso di stupirsi di fronte alla vita che percepiscono come peso perché tutto è «ottimo e abbondante» come il rancio militare. L’obiettivo da raggiungere è essere furbi e fare soldi a palate. La realtà è ben diversa e quando i ragazzi la scopriranno, forse sarà troppo tardi, come è tardi per tutti quei ragazzi che muoiono sulle strade dopo una notte in discoteca o dopo una corsa estrema per provare il brivido della morte, scommettendo ingenti somme sulla propria vita e sulla propria morte.

I PESSIMI ESEMPI DEL MONDO ADULTO

Gli adulti hanno abolito il principio etico delle «conseguenze logiche» e quindi inducono i giovani a comportamenti schizofrenici, fondati solo sull’interesse del momento e sulla morale dell’utile «per me». Alcuni esempi.
Quando un governo legifera per tre anni di seguito sui condoni di ogni genere, contravvenendo ai suoi doveri di tutela e di rispetto della legge, significa che alimenta il «sentire» che rispettare la legge è un lusso da cretini. Premiare fiscalmente chi disattende la legge con l’aggravante, per esempio, di deturpare e derubare il patrimonio naturale nazionale, significa educare le generazioni giovani ad un concetto di legge quanto meno relativo e alla convinzione che rispettare le leggi non solo non serve a niente, ma è vero esattamente il contrario.
Quando un parlamento legifera su leggi espressamente confezionate per impedire l’applicazione della legge nei confronti di chi governa la nazione, accusato di reati gravissimi come la corruzione di giudici, significa che i giovani sono costretti a prendere atto che – parola dei supremi modelli istituzionali – tutto è lecito e tutto è permesso. Ho voglia di una ragazza? Chi m’impedisce di prenderla con la forza? Ho bisogno di soldi? Perché non posso rubarli? Mi piace il motorino del vicino? Perché non devo prenderlo se io sono più forte di lui?
Quando il mondo adulto per protestare contro una pseudo-riforma della scuola che diminuisce le ore d’insegnamento propone ai giovani una giornata di sciopero, cioè di non studio, trasferisce un messaggio osceno e inaudito che è fonte di malessere e corruzione. In casi simili bisogna proporre uno sciopero al contrario: occupare la scuola e studiare il doppio, se si vuole passare il messaggio che la scuola è importante e che anche un solo minuto trascorso sui libri è un tempo prezioso che non deve essere sciupato. I giovani sono lo specchio della società degli adulti.
Il principio delle «conseguenze logiche», al contrario, esige che ogni pensiero, ogni scelta, ogni comportamento, ogni azione comporta di per sé, direttamente o indirettamente, una «conseguenza», che io devo affrontare e da cui non mi posso affrancare. È il principio della responsabilità che nasce dalla convinzione che la persona è per natura e per cultura un essere-in-relazione che è se stesso in quanto vive rapportato al mondo che lo circonda e alle persone che insieme a lui formano la polis-comunità, non come somma d’individui, ma come moltiplicazione d’interessi comuni e condivisi.

NON SOLO CRONACA NERA

Le cronache ci riportano ogni giorno fatti e circostanze eclatanti che riguardano il mondo giovanile (omicidi, suicidi, stupri, violenze) e descrivono una gioventù «negata», preda di un vortice senza senso, privo di valori e di passioni di vita. Le stesse cronache sono incapaci di cogliere la vita normale di tanti adolescenti e giovani che vivono serenamente tutte le contraddizioni della loro età, sognando magari di fuggire dai genitori, ma ricorrendo ad essi come sorgente di affetto di sicurezza.
Per un ragazzo che si suicida mille scelgono la vita. Per una ragazza terrorizzata dalla sofferenza, migliaia di ragazze fanno volontariato a persone che soffrono e ne portano il peso. Per uno che annuncia il proprio suicidio via sms, milioni di adolescenti inviano sms che scoppiano di vita e passioni.
Il mondo giovanile non è solo quello che appare, ma è specialmente quello che non si vede, anche se è vero che, quando un giovane si suicida o una ragazza è terrorizzata dalla sofferenza, il mondo intero ne rimane sconfitto, perché la morte ha vinto la vita prima ancora che sbocciasse.
C’è qualcosa di marcio in Danimarca! ed è l’amarezza che il mondo degli adulti sia incapace di cogliere il mistero affascinante dei nostri ragazzi e delle nostre ragazze. Con tutti i loro limiti e le loro debolezze e anche con i buchi neri che qualche volta li inghiottono, perché nel mare della solitudine, nessuno ha lanciato loro un salvagente.

don Paolo Farinella




DOSSIER GIOVANIGenerazione X+N

I giovani, questi sconosciuti

GENERAZIONE X + N

I
giovani di oggi si trovano a vivere in una società sconvolta e
sconvolgente. Con la tecnologia che avanza velocissima, uno stile di
vita consumistico fino al patologico, una scuola inadeguata (ed ora
anche riformata dai «pof»), un futuro lavorativo sempre più precario.
Il «disagio» è loro o di altri?


di Marco Bertone, pedagogista

I GIOVANI DELLE STATISTICHE

Ogni
volta che qualcuno si accinge a parlare dei «giovani» corre il rischio
della generalizzazione. La difficoltà del tema è insita anche nella
banalità delle nostre indagini da «adulti»: il linguaggio, le mode, i
valori sono i ritoelli delle ricerche, le quali cercano, come sempre,
una validazione statistica e numerica ai comportamenti.
Recentemente,
sulle pagine di un importante quotidiano nazionale (1), Elena
Loewenthal denunciava la discrepanza tra la realtà che si evince dalle
ricerche e dalle interviste ai giovani e i comportamenti agiti. Esiste,
in altre parole, uno scarto fra le ricerche fatte dai sociologi e dagli
psicologi e la realtà. Il problema sembra essere nell’incasellamento in
una categoria. Eppure, malgrado tutto, alcuni comportamenti sono sotto
gli occhi di tutti: i ragazzi elaborano una cultura loro, sfaccettata,
interessante, a tratti incomprensibile.
Già alcuni anni orsono,
Franco Floris (2), parlando di animazione con una particolare fascia di
età (gli adolescenti), ci imponeva di riflettere sul fatto che i
comportamenti dei ragazzi sono leggibili in diverse ottiche:
• un’ottica basata sugli effetti (i comportamenti agiti)
• un’ottica basata sulle caratteristiche «etee» degli adolescenti, da sempre individuate da psicologi e studiosi.
Ad
esse, Floris contrapponeva la possibilità di interpretare i
comportamenti dei ragazzi come se fossero esploratori della società e
della cultura. In fondo, non è così? I ragazzi sono sempre stati i
primi a costruire un senso, o più sensi, rispetto alle sollecitazioni
del mondo.
Facciamo degli esempi: la situazione di insicurezza
sociale post-11 settembre e derivante anche da situazioni sociali nuove
(come la precarizzazione del lavoro) sembrano condurre molti giovani a
desiderare più il «posto fisso» che non la carriera, come si evince
dalle ricerche. Ma potremmo prendere anche altri esempi: il linguaggio,
l’uso della tecnologia, le relazioni con gli adulti ed i pari, le
differenze fra maschi e femmine, l’influenza dei mass-media…
Le questioni sulle quali ci siamo interrogati sono:

Cosa accadrà, nella società, dopo la frantumazione del secolo breve,
(che invece non è mai sembrato così lungo), nella sua fase di
transizione?
• Come si costruiscono le identità individuali dopo la fine del lavoro fisso?
• Come si rapportano le persone con il tempo, con il presente più che con il futuro?
• La tecnologia è più libertà o più spettacolo?
• Quale è il percorso che pensiamo per le aggregazioni comunitarie e sociali?

IL CONTESTO DELLA SOCIETÀ ITALIANA

Cambia
la conoscenza e come la allestiamo, così come cambia il nostro modo di
vedere le relazioni umane. Siamo sempre più a contatto con altri modi
di pensare, con altre persone e con altri modelli culturali.
Cambia
il nostro rapporto con la tecnologia, sempre più presente al punto che
le nostre conoscenze psicologiche, sociologiche, lavorative non hanno
ancora la possibilità di indagare quanto essa incida sulla nostra vita
profonda.
La comunicazione non è solo informazione, ma costruzione di reti di rapporti complessi (3).
Tutte
queste domande si legano all’eterno e in parte sterile chiedersi: «Chi
sono i giovani?» e di solito questa domanda non viene mai posta ai
giovani stessi, come se essi fossero tutti uguali o tutti diversi, mai
se stessi, sempre oggetto di elucubrazioni «adulte» e quindi lontane.

LINGUAGGI E STRUMENTI DELL’«EPOCA VELOCE»

Vediamo
questi aspetti, se possibile, come indicatori di uno stato di
concentrazione di atteggiamenti, di ambiguità, anche di disagio
giovanile ma, soprattutto, di vitalità.
I linguaggi sono continuamente rimescolati e cambiati, travalicano la capacità di fissae grammatiche.
Non
sono forse l’espressione di un mondo che propone ai giovani e agli
adulti di essere sempre più veloci, di affrontare una massa di stimoli
culturali non omogenei?
In fondo, i linguaggi gergali giovanili
sono sempre esistiti, si dirà, perché sono sempre stati un modo di
appropriarsi del mondo in modo che gli «adulti» non capissero. Ma
questo è essenzialmente un segnale della grande capacità dei ragazzi di
essere reattivi, e di costruire significati, in quanto un linguaggio
nuovo o trasformato è sintomo di vitalità creatrice (4). Ma che
caratteristiche assume il linguaggio che sentiamo parlare nelle scuole
o che vediamo rappresentato da quei canali (la Tv o, la radio, o meglio
Mtv) che riproducono socialmente il linguaggio stesso, e lo riplasmano
in un circolo continuo?
È un linguaggio eterogeneo, misto e
differenziato per zona geografica, estrazione sociale, genere e
preferenze sessuali. Stiamo affrontando la nascita e la crescita di
linguaggi derivanti:
• dall’identificazione in gruppi sociali legati
alle mode ed ai consumi di musica o di vestiti, che sono espressioni di
modi di vita nelle cosiddette «tribù» giovanili;
• dall’identificazione politica e dall’incarnazione di modelli familiari;

dalla reazione ad una realtà in cui sono più visibili le guerre, il
terrorismo, le richieste del mondo degli adulti di schierarsi;
• dall’insieme di tutte queste cose.

«HOMO TECNOLOGICUS»: UNA GENERAZIONE IN PUNTA DI DITA?

Oltre
a queste categorie, per cui da sempre dobbiamo pensare che le persone,
soprattutto i ragazzi e le ragazze hanno creato dei gerghi, dobbiamo
introdurre l’elemento tecnologico.
Una ricerca effettuata con i
giovani di diversi paesi, intendendo per giovani persone di età fra 0 e
25 anni, ha rivelato che ci sono anche dei cambiamenti nel modo di
comunicare e di muoversi rispetto alle generazioni precedenti.
L’uso
dei telefoni cellulari, dei videogiochi, dei tasti della PlayStation
stanno forse modificando il corpo delle persone. I ragazzi di oggi
usano molto di più il dito pollice rispetto a quelli che li hanno
preceduti. Poiché il pollice opponibile non serve più solo ad afferrare
oggetti o a costruire attrezzi, ma a comunicare, a usare il computer,
qualche scienziato parla già di una evoluzione dell’homo tecnologicus,
arrivando a coniare il termine Thumb generation («generazione del
pollice»).
È comunque un fatto che, ad ogni generazione di scoperte
ed usi tecnologici, cambia il modo di rapportarsi al mondo e a se
stessi.
L’uso dei messaggi cellulari comporta un rimodellamento
parziale dei comportamenti sociali nel gruppo dei pari età, perché
permette di comunicare evitando di esprimere (se non con i simboli) i
propri sentimenti, proteggendosi un po’ di più. La stessa cosa era
avvenuta qualche anno fa con l’avvento della posta elettronica, per cui
le persone potevano comunicare inventandosi personalità fittizie o
nascondendosi. L’uso dei cellulari ha imposto la nascita di linguaggi
concretamente sintetici ed essenziali («xké» significa «perché»). Il
guaio non sta nel fatto che alcuni ragazzi disimparino l’italiano
classico ma che usino un linguaggio che va bene per gli Sms in un tema,
o viceversa; che non sappiano leggere il contesto in cui usare le
parole e le forme sintattiche appropriate.
Queste neolingue sono
molte e i termini di derivazione informatica ancor di più, per cui si
italianizzano vocaboli inglesi (dai comuni chattare e downloadare
all’utilizzo metaforico di termini informatici). La velocità del
ricambio della tecnologia, la capacità dei ragazzi di ricevere e
ritrasmettere stimoli, di apprendere (in quanto le menti giovani sono
più flessibili, permeabili e delicate) fa di loro degli esploratori più
ricettivi della civiltà tecnologica del nuovo millennio.

IL DISAGIO GIOVANILE E’ LA FORESTA. E GLI ALBERI?

Da
ogni parte siamo subissati da ricerche, servizi giornalistici e
discorsi sul «disagio giovanile». Per fortuna, esso passerà come i
brufoli per il singolo o si trasformerà nel disagio dei trentenni
precarizzati o nelle ansie esistenziali dei quarantenni e della mezza
età, mentre i giovani continueranno ad essere un argomento di
discussione.
Il disagio è quella condizione per cui persone
normalmente dotate si collocano nel mondo in modo tale che l’ambiente,
le relazioni con le persone, le cose e se stessi non li aiutano, e loro
non riescono ad aiutare se stessi.
La premessa da cui partiamo è
in parte anche l’arrivo: esiste un disagio psicofisico manifesto nelle
persone di età giovane nel nostro Paese, ma in fondo dobbiamo
considerare i ragazzi, gli adolescenti, i bambini come delle cartine di
tornasole del Paese stesso. Se l’Italia è un luogo difficile da vivere
per i ragazzi (ma potremmo prendere i malati cronici o gli anziani,
comunque) lo è per tutti, sia per i soggetti ipocritamente definiti
deboli che per una supposta normalità statistica.
Lo stile di vita consumistico e la tecnologia sembrano essere i principali imputati.
I
modelli di vita delle generazioni precedenti erano migliori, diversi?
L’infanzia propone la drammaticità della nostra esistenza: i cibi che
ingurgitiamo in gravidanza, lo smog, ma anche la troppa Tv, la presenza
di diossine nei cibi, e tutto il resto…
Oltre il 15% dei bambini si
addormenta davanti alla Tv accesa circa 2 volte a settimana, e ciò
dovrebbe portare ad una autoregolamentazione, che invece non c’è.
Perché?

ADOLESCENZE

La
letteratura specialistica sugli adolescenti è vasta, forse troppo. C’è
un interesse da cui non siamo alieni neanche noi verso i ragazzi di
oggi, quelli che non sembrano essere come i loro padri, che non
vogliono crescere o che sono dovuti crescere pensando di fare una vita
differente. Magari essi hanno capito che la generazione dei 30-40enni
di oggi cui appartengono i loro fratelli e genitori deve fare i conti
con la crudele realtà, di essere i primi nel dopoguerra che non hanno
più la speranza di un tenore di vita economicamente pari a quello di
partenza («la festa è finita», disse Giovanni Agnelli nel 1992) (5).

E allora queste madri e padri magari iniziano a pensare con nostalgia al
fatto che le promesse di quando erano ragazzi (i favolosi anni ‘80) non
sono state mantenute, forse cercano di essere davvero madri e padri ma
sono anche loro smarriti. E se sono smarriti loro, la generazione X+n
(6) costituita dai loro figli, come può non essere altrettanto smarrita?
Cinquanta
anni fa l’adolescenza non esisteva, poiché si passava in modo repentino
dall’infanzia dei frugali giochi all’età adulta delle responsabilità e
del lavoro. Ora c’è e dura anche 2-3 lustri. E allora se ne parla
molto.
Non esiste una sola adolescenza, quindi, se non altro
perché le esigenze e le caratteristiche psicologiche e le richieste di
un quindicenne non sono quelle di un venticinquenne, ma una seconda
differenziazione, fra le molte, dovrebbe avvenire sulla base del genere
sessuale.
Nelle famiglie, dopo decenni di trasformazioni sociali
complessive, si assiste veramente ad una certa uguaglianza di pari
opportunità fra i ragazzi e le ragazze, che in parte collide col fatto
che le esigenze delle adolescenti e dei loro coetanei maschi non sono
le stesse. Quando ragazzi e ragazze si incontrano, da che mondo è
mondo, i comportamenti sono differenti, e così anche le loro azioni e
rappresentazioni di sé.
Questi due fatti portano da un lato ad una
omogeneità e, dall’altro, ad una progressiva divaricazione fra ragazzi
e ragazze. Così, mentre a casa i ragazzi fanno lavori domestici e le
ragazze possono finalmente rivendicare una maggiore libertà di uscita,
fuori si ritrovano le dinamiche tipiche di separazione fra i sessi.

LA SCUOLA HA FATTO «POF»

La
scuola cosa rappresenta? La scuola superiore è la seconda casa dei
ragazzi, il luogo dove nascono i primi amori, dove si vive il gruppo
dei pari più facilmente (facilmente?) ma non è il luogo dello studio e
dell’apprendimento privilegiato. Si assiste ad una prevalenza degli
aspetti relazionali rispetto al dovere dello studio.
Gli adulti che
parlano coi ragazzi, come gli insegnanti a scuola, da sempre riescono a
suscitare un’ambiguità di sentimenti: conoscenza, autorità, ammirazione
se si riesce. Il linguaggio dei ragazzi oscilla dall’esasperazione
giovanilistica per affermare una sfida, simile a quella
tradizionalmente portata a casa, al conformismo al contesto scolastico
e a quello che sembra che gli insegnanti vogliano.
Ad esempio,
anni ed anni di sensibilizzazione ecologica hanno purtroppo portato i
ragazzi ad essere ipocriti, affermando a parole un impegno contraddetto
dai gesti quotidiani.
Per metter insieme il «portfolio» morattiano,
è necessaria la presenza dei genitori. Essi si trovano di fronte a
questionari che arrivano a casa e che pongono domande circa la vita
della famiglia (a che ora il bambino va a letto, se mangia e cosa, se
collabora ai lavori domestici). Nondimeno, i genitori si ritrovano a
poter/dover decidere in quale scuola mandare i figli, perché l’offerta
formativa delle scuole si è diversificata. Ma tali Piani di offerta
formativa (i Pof) sono molte volte infarciti di attività
extrascolastiche e il livello dell’insegnamento non è illustrabile.
Quindi si rischia di scegliere le scuole che hanno dei buoni Pof, anche
se – purtroppo, malgrado la buona volontà di tutti – non esistono, in
regime di autonomia scolastica, né i soldi né le risorse umane. E così
le famiglie e i ragazzi si trovano pizzicati in mezzo ad un ginepraio
di offerte, talvolta anche incomprensibili, contraddittorie.
Un’insegnante
di italiano di Torino, Paola Mastrocola, autrice di un romanzo dal
titolo emblematico La scuola raccontata al mio cane, racconta di una
società senza più armi, pateticamente arresasi a tutto: nessuno riesce
più a leggere un libro, i ragazzi devono essere animati più che
istruiti, anche perché i genitori sono divenuti utenti, a nessuno
importa sapere se un insegnante è bravo.
I termini stessi dei
testi editi dal ministero dell’Istruzione lo provano. In essi si usano
le «parole di una scuola che cresce», per cui l’utente viene accolto, i
ragazzi sono stimolati, la famiglia è privilegiata ed i processi di
conoscenza devono essere consapevoli, nella tradizione più noiosa della
più noiosa tradizione pedagogica. Non c’è un cenno a cosa succederà
nelle aule, mentre si susseguono notizie interessanti sull’efficacia e
l’efficienza di quello che era uno dei migliori servizi pubblici di
istruzione del mondo. Una di queste notizie viene da fonte autorevole
(7) e vede regolarmente l’Italia in coda ad un gruppo di 27 paesi più
industrializzati circa alcuni indicatori riguardo alla preparazione dei
docenti, al punto che la scuola media è una specie di buco nero,
compreso tra una buona (una volta era ottima) scuola elementare e le
superiori.
I ragazzi vanno a scuola per imparare? Sì, in una
situazione che le riforme scolastiche (promesse, paventate, irrisolte o
in via di gestazione) hanno reso e rendono difficile ma soprattutto,
poiché glielo abbiamo chiesto.
Poiché la scuola sembra così assente
nelle discussioni fra adolescenti, mentre si assiste alla
proliferazione di consumi in parte legati all’esposizione alla
pubblicità, dobbiamo pensare che sia un luogo in cui si scambia
qualcosa, si intrecciano relazioni, un luogo in cui c’è anche una noia
necessaria (dover studiare) e dove ci si aspetta di venir interessati.
Ma l’elemento di vero interesse è costituito, ora sempre di più, dalle
occasioni di socializzazione con i propri compagni e coetanei. Questo
porta anche ad un rifiuto, in alcuni casi, del proprio ruolo di
«studenti».
I diritti (allo studio) sono di fatto negati da una
scuola sempre più confusa e scioccata dalle proto-riforme e dalle
pseudo-riforme demagogiche, che mettono in difficoltà famiglie,
insegnanti e, in primis, i ragazzi.
I doveri sono difficili da
accettare, per cui non si concepisce l’istruzione, fatta di libri di
testo sempre più generici, insegnanti in parte preoccupati o disillusi,
scarse risorse e burocrazia eccessiva, se non in termini di fastidio.
Questo
vuol dire che la scuola può e deve capire che è un luogo di incontro
fra persone e bisogni, un luogo di socializzazione ma non deve ridursi
a quello e basta.
Le corresponsabilità di adulti e ragazzi,
istituzioni e singoli sono molte e la strada è lunga; intanto, sulla
base dei preoccupanti dati sul sistema scolastico nazionale, non è
detto che si riesca a fornire ai ragazzi di oggi quegli strumenti
necessari alla loro compiuta trasformazione in adulti liberi e
acculturati. Saranno capaci di resistere all’impatto veloce col mondo
adulto e del lavoro, malgrado la demagogia sull’impresa, sulla
tecnologia e sulle lingue straniere (che la riforma in teoria promuove,
in realtà riduce in numero di ore erogate)?

BULIMIA CONSUMISTICA, ANORESSIA CULTURALE

La
scuola è solo una delle agenzie formative per le persone. I ragazzi di
oggi apprendono moltissimo anche da altre fonti che non i loro
insegnanti e le materie di studio. I modelli culturali prodotti e
riprodotti socialmente dalla Tv e dalla pubblicità portano ad acquisire
modelli e riti, mitologie estemporanee e velocemente dimenticate e
digerite.
A cosa conduce questa situazione? Forse ad un
incanalamento della fantasia, che invece dovrebbe essere l’opposto: una
non-omologazione, una presa di coscienza critica. Ecco, allora, che
possiamo parlare di una bulimia consumistica, che è contrapposta
metaforicamente ad una anoressia di stimoli culturalmente eterogenei.
Esiste
un fenomeno di adultizzazione dei ragazzi come consumatori e questo
vuol dire tante cose. La pubblicità in fondo obbliga a pensare che
siamo tutti macchine celibi, desideranti, infantilizzando l’adulto e
adultizzando il ragazzo, spinti a comprare, vittime di frustrazione.
Ma la magia della gioventù è proprio il sogno, il desiderio, non la possibilità che il sogno sia preconfezionato.

QUANDO IL GIOCO SI FA TROPPO DURO… È ANCORA UN GIOCO?

Malgrado
questo, ora che le guerre appaiono in Tv (dal Vietnam all’Iraq dei
giorni nostri) forse l’immagine televisiva o internet esorcizzano
l’orrore, o forse (11 settembre) lo amplificano. Molti dei ragazzi
d’oggi sembrano cinici. Lo sono? O il cinismo è la risposta omeopatica
a altro, ben più profondo, cinismo? È una durezza esistenziale l’unica
via per non farsi toccare duro?
La tensione verso il gruppo dei pari
e l’autonomia amplificata dalla tecnologia porta a concepirci come in
un altrove parzialmente reale, cioè in un mondo virtuale. Il mondo
diventa regno dell’autorappresentazione, occasionalmente svegliato dal
tormento e dalla paura.
Ma la cultura della società di oggi, fatta
di puzzle di concetti, di mode, di design, di luoghi e non-luoghi
affascinanti è imprendibile, non è più (se mai lo è stata) monolitica.
Vivendo
in un mondo al limite, le regole sono trasgredite e la trasgressione è
la regola. Il modello protofascista e totalitarizzante, pur in una
dimensione che fa della democrazia e della rappresentanza un feticcio,
schiaccia la voce dei ragazzi (ma non solo la loro).
I luoghi ed i
tempi sono quelli dell’entertainment, perché quelli della scuola o
della casa sono tempi morti, noia esistenziale, momento che non
corrisponde al modello.
Le ricerche attuali sulla percezione del
rischio e la ricerca dei comportamenti estremi sembra essere un filone
interessante e recente.
Da alcuni studi, si evidenzia che i
ragazzi di oggi cercano di reagire ad un mondo sempre più ostile (o
percepito come tale) comportandosi in modo da esorcizzarlo. Si
comportano, ad esempio, in modo irresponsabile, mettendo a repentaglio
la propria incolumità. Ovviamente, questi sono comportamenti ed
atteggiamenti definiti come «estremi» ed, in quanto tali, marginali, i
cui effetti sono così eclatanti da riempire le pagine dei giornali
quando si verificano casi tragici.
Anche se statisticamente questi
casi stanno aumentando, Studio Aperto (tanto per fare un nome preciso)
non è forse un megafono continuo di notizie sui disastri del sabato
sera dopo la serata in discoteca o cronaca di disperazione e di
delinquenza minorile?

NEL TRANSITO

Alcuni
concetti devono essere esplorati per forza: la cultura che produce
salti fra desiderio ed azione, fra desiderio e realtà, fra realtà e
frustrazione, che rende vero in quanto percepibile ciò cui si ambisce.
Fino a qualche generazione fa, il desiderio era legato
all’immaginazione, privata o politica, dei giovani, alla lettura del
limite dato dalle generazioni dei repressi e repressivi genitori.
Da
qualche tempo, da noi, il desiderio vince. Speriamo che i videogames
(che possono essere molto meglio della Tv) si diffondano, permettendo
una ricerca della multisensorialità e di una corporeità nuova,
interattiva e non solo passiva.
Sappiamo, però, di doverci
confrontare coi frutti di una civiltà nomade, ovvero instabile e
temporanea. Siamo sull’orlo della proliferazione di concetti fondanti
che si mischiano a pratiche: pratiche della moda, del gusto, della
politica, ed anche smarrimento; la connotazione negativa è un esorcismo
da parte dei vecchi che vogliono parlare di qualcosa che pretendono di
sapere. Per un educatore, parlare dei ragazzi, sarebbe quasi come per
un antropologo parlare di una tribù di cui non fa parte.
E non dico «non fa più parte», ma proprio «non fa parte», perché i cicli generazionali sono così veloci che esiste un ricambio.
Quando
sei giovane, puoi gestire il tempo, mentre da vecchio ti conviene
occupare uno spazio. Esiste uno scarto tra il tempo veloce dei ritmi di
un mondo e di una cultura così modellati sulla città, e la capacità
percettivo-cognitiva umana che ha ben altri ritmi.
Infatti la
percezione umana, non è prodotta solo da una acquisizione adattiva di
dati provenienti dall’ esterno, ma da una elaborazione di informazione
creativa attuata dal cervello inclusiva dell’immaginario mentale
proprio della nostra specie.
Dobbiamo studiare le relazioni
sussistenti tra realtà e virtualità che si attuano nel mondo
delocalizzato della informazione globale. Dobbiamo uscire dalla vecchia
interpretazione degli eventi come se fossero semplici estensioni
localizzate e simultanee.
I ragazzi di oggi, che in queste pagine
abbiamo trattato come esploratori loro malgrado fra i meandri della
nostra società complessa ed ultra-tecnologica, come dei wild boys alla
William Burroughs (8), possono permetterci di capire come stiamo
cambiando.
Questo è il mondo in cui stiamo vivendo e cambiando,
pieno di problemi irrisolti come di soluzioni che non riusciamo ad
intravedere, ma anche di soluzioni praticabili a partire dal
riconoscimento che siamo nel transito.
Pensiamo alla parola inglese
translation, che sta sia per «transito, passaggio» che «traduzione» ed
al bel film di Sophia Coppola, Lost In Translation.
In esso,
assistiamo all’incontro nel transito (un Giappone postmoderno,
delocalizzato) tra una giovane sposa ed un vecchio disilluso, entrambi
sperduti in un mondo dove la tecnologia è dentro e fuori di noi,
assieme ai sentimenti del rimpianto, della malinconia e dell’amore, che
accomunano giovani e meno giovani, al di là della fugacità e velocità
del nostro stesso transitare.

Box 1

Giovani tra i 12 e i 19 anni:
«Sei favorevole a…»

sì no non so

Divorzio 54,9 34,6 10,5
Aborto 38,0 49,0 13,0
Eutanasia 41,2 34,8 24,0
Pena
di morte 25,0 63,7 11,3

(Eurispes / Telefono Azzurro, 2004)

Box 2
Tassi di povertà minorile
in alcuni paesi europei

Regno Unito 28,5
Portogallo 26,3
Spagna 25,2
Italia 23,3
Irlanda 20,4
Francia 17,2
Grecia 16,3
Paesi Bassi 16,1
Germania 12,9
Belgio 10,9

(Elaborazione Eurispes sui dati Eurostat 2002)

Box 3
Disordini alimentari giovanili: bulimia e anoressia

I
disordini alimentari degli adolescenti sono spesso accompagnati da
problemi di carattere psicologico che potrebbero durare sino all’età
adulta.
«L’incidenza totale dei problemi di alimentazione durante
l’adolescenza è bassa, ma coloro che sviluppano tali disturbi sono ad
alto rischio per quanto riguarda le turbe emozionali che possono durare
sino alla prima età adulta». Questa è la conclusione di un nuovo studio
dell’Istituto di ricerca dell’Oregon ad Eugene e pubblicato nel Joual
of American Academy of Adolescent Psychiatry (fonte:
www.farmasalute.it).
Vari studi in merito hanno dimostrato che in
una percentuale più alta rispetto al resto della popolazione
adolescenziale, nei pazienti affetti da bulimia, anoressia e versioni
parziali di queste malattie, si riscontrano anche dei problemi di
depressione, ansia e abuso di sostanze stupefacenti.
«Penso che i
problemi alimentari vadano prima di tutto capiti in un contesto di
molti altri problemi – dice il dottor Peter M. Lewinsohn -. Nulla
sembra nascere così dal nulla. Avremmo voluto osservare persone con
puri problemi alimentari, ma ve ne erano molto pochi tra di loro».
«Dipende
da ogni singolo paziente, ma sappiamo che i problemi dell’alimentazione
hanno poco a che fare con il mangiare e il cibo» dice Mae Sokol,
psichiatra dei bambini e degli adolescenti all’interno del programma
per i disordini alimentari alla Clinica Menninger a Topeka, Kansas.
«Non è un caso che queste situazioni iniziano durante l’adolescenza,
quando si è alla ricerca di una identità».
(Ma.Be)

Box 4
Lavoro: sempre più lontano
Fino
a qualche anno fa, in Italia, esisteva una percezione più diffusa della
povertà e della scarsità di occasioni di svago, mentre ai giorni nostri
le richieste e i desideri delle persone sono cambiate. Con l’avvento di
un certo benessere generale (ma in una società che ora sta cambiando di
nuovo) ci si concentra sui problemi esistenziali. La solitudine dei
ragazzi che vorrebbero avere un rapporto migliore con i propri affetti,
o che si rifugiano nella scuola, come luogo di aggregazione e non
solamente di apprendimento, si lega alla ricerca di libertà e
autonomia.
Ogni ragazzo ha davanti a se innumerevoli esempi che
può seguire e spesso si genera confusione su quale prediligere. Spesso,
inoltre, le scelte fondamentali che un giovane deve fare e che
riguardano il suo futuro, devono essere compiute in un’età ancora poco
matura. Un ragazzo comincia a scegliere cosa diventerà sin dalla scuola
superiore, quando potrebbe non avere ancora le idee chiare.
I
giovani vengono spinti a crescere in fretta, ma si devono poi
districare in una società che sta diventando vecchia, e che è veloce
per alcune sue caratteristiche ma inerziale per altre. La costruzione
di un’identità avviene in maniera relativamente semplice, naturale e
senza problemi, in una struttura sociale statica o in ogni modo
portatrice di modelli e valori ben definiti. Ma la contraddizione fra i
valori permissivi e consumistici e la naturale repressione della
libertà che avviene in un’età di scarsa o nulla indipendenza economica
ed affettiva è micidiale.
La strutturazione del lavoro
contemporanea, con la crescente richiesta di specializzazione e con la
concomitante crisi nell’offerta d’impiego stabile per i giovani,
favorisce una dilatazione del «tempo» dell’adolescenza, per cui è
frequente considerare giovani persone di 30 anni che continuano a
vivere nella famiglia di origine. (Ma.Be)

Marco Bertone




DOSSIERCari genitori…

Quando si parla di giovani lo schema è sempre il solito. Li si dipinge come dei decelebrati ma per salvarsi la coscienza e concludere con un finale deamicisiano si elencano le «loro grandi sensibilità».
Strano ragionamento. Effettivamente a guardarli fanno paura e a leggere sui giornali cosa combinano tutti i giorni i timori risultano fondati: scuole distrutte per evitare il compito in classe, omicidi, corse in automobile alla James Dean, «cannati» a 12 anni, con il fidanzato maggiorenne in prima media.
Disinteressati del mondo in cui vivono. C’è la guerra in Iraq? Ah… Ossessionati dalla tecnologia, dalla televisione, dalle mode.
Marco Lodoli su Repubblica ha scritto un paio di articoli per descrivere tale situazione. Nel primo raccontava la storia di una quindicenne che definiva la sua generazione «una massa informe» che per sentirsi viva non può che copiare i belli della televisione. Nel secondo sempre una liceale rifiutava l’interrogazione «per non soffrire». Lodoli ha commesso un errore: ha omesso il lieto fine e per questo è stato ricoperto di insulti e critiche. Peggio: ha scritto chiaro e tondo da dove arrivano quei ragazzi che sembrano dei marziani.
I grandi, i genitori e gli insegnanti di oggi, la generazione dei rivoluzionari del «proibito proibire», guarda con sgomento il prodotto della loro cultura. Il pragmatismo relativista si è trasformato in individualismo spinto, edonismo e narcisismo. Perché scandalizzarsi se i giovani non pensano, copiano, si conformano alle mode più becere? Tutto è vero, tutto è falso. I valori? Boh!
Non è esattamente quello che hanno insegnato loro? A ben guardarli, i ragazzi sono la fotocopia degli adulti che desiderano la bellezza perpetua, la bandana, il Suv, la crociera, il sesso disinvolto sempre, il successo, i soldi, la roba. I risultati delle indagini statistiche che scandagliano il pensiero adulto e quello giovane sono sempre più simili. Un quarantenne e suo figlio desiderano entrambi il benessere inteso come roba di cui rimpinzarsi, cambiano solo i gusti. Perché allora criticare il quindicenne che si disinteressa del cambiamento climale, e non il papà?
In loro vediamo noi stessi, forse è per questo che li consideriamo così male, ma ci sentiamo in dovere di mettere sempre il lieto fine quando parliamo di loro.
Maurizio Pagliassotti

Maurizio Pagliassotti




DOSSIERCari ragazzi…

L’estate scorsa sono stato invitato da alcuni educatori a trascorrere una giornata con un gruppo di adolescenti (età: 12-17 anni) nel loro campeggio.
Il clima era spensierato, allegro, ciondolone… una tipica vacanza di adolescenti semisvogliati che vanno in campeggio, perché possono stare due settimane senza le famiglie. La sera, dopo cena, ho detto poche parole di presentazione: «È da un mese che mi preparo per venire qui e trascorrere un giorno solo con voi. Mi pare che vi sia una forte sproporzione: 30 giorni contro 1. Ve lo dico perché sappiate che voi siete importanti per me. Vi racconterò alcune cose che probabilmente non sentirete da nessun altro. Sono certo che non perderemo tempo, perché, come dice Dante, “il perder tempo a chi più sa più spiace”». Il silenzio, che era già attento, si è fatto più profondo. Io sono rimasto zitto, per lasciare che quel silenzio parlasse. Dopo un bel po’, ci siamo salutati, dandoci appuntamento per l’indomani. Il giorno dopo, ci siamo ritrovati per preparare i gruppi di lavoro sul tema prescelto: il viaggio. Ho fatto una premessa, parlando della cultura e del sapere, dell’ignoranza e della riuscita nel lavoro, dello studio ma anche del sesso. Ho detto che avranno tempo, un giorno, di fare tutto il sesso che vorranno, ma che ora dovevano spremere ogni secondo per conoscere, conoscere, conoscere… perché troppi padroni sono in agguato per rubare loro il pensiero e la capacità di giudicare con la propria testa, troppi hanno interesse a condizionarli con le mode, con gli status-symbol per fae dei modei schiavi. Le donne poi – ho continuato – devono faticare 1.000 volte più degli uomini, per farsi valere e, se vogliono rimanere se stesse senza vendersi al primo venuto per un tozzo di pane, hanno un solo strumento: studiare, studiare e ancora studiare.
A questo punto, ho cominciato a leggere la Bibbia in ebraico, poi un brano di vangelo in greco e ho visto che alcuni, che studiavano greco, s’illuminavano di fronte alle parole che conoscevano, mentre gli altri, compresi i più piccoli, sgranavano gli occhi e si sistemavano meglio, seduti in terra. Ho parlato loro di poesia e ne ho letto alcune, altre le ho declamate a memoria. Ho buttato in mezzo a loro fogli su fogli sui quali avevo scritto a caratteri cubitali parole che non conoscevano. Ho messo in evidenza la loro ignoranza, stimolandoli a superarmi. Li ho spronati a studiare lingue, più lingue possibili per essere in grado di comunicare direttamente con tutti. È venuto fuori il processo di unificazione dell’Europa e il posto dell’Italia in esso e l’atteggiamento del governo. Ho detto loro che la prima lingua straniera da imparare se vogliono apprendere bene le lingue è la loro lingua matea, di cui devono studiare a memoria la grammatica e la sintassi che sono strumenti indispensabili anche per la matematica, per le scienze per l’informatica e per l’economia.
Non ho concesso nulla di effimero, nulla che potesse comprarli nel loro compiacimento. Abbiamo iniziato alle ore 8,30 ed erano le ore 14,00 con la cuoca che spingeva da un’ora e mezza per andare a tavola, ma i ragazzi, nessuno escluso, non si alzavano, ma anzi facevano domande a raffiche e gareggiavano con me nelle cose che proponevo. Gli educatori erano allibiti ed esterrefatti perché non avevano mai visto nulla di simile. Abbiamo continuato anche dopo pranzo, perché ora il ghiaccio era rotto e i ragazzi sentivano che, dentro di loro, si era spezzato l’argine delle cose che desideravano. Alcune ragazze sono venute a chiedermi di approfondire alcuni temi che le interessavano particolarmente come donne. Mi dicevano: «A volte, gli adulti pensano che noi vogliamo solo giocare o siamo interessati soltanto a cose frivole e per questo non sono disposti a perdere tempo per noi; a volte, temono di proporci progetti arditi forse perché, in fondo, hanno paura di se stessi, di non essere capaci».
Da quell’esperienza in campeggio, ho avuto conferma di un mio profondo convincimento: finché un ragazzo e una ragazza danzeranno il canto della vita, ci sarà ancora speranza per questo vecchio e spento mondo di adulti delusi e arresi.
Paolo Farinella

don Paolo Farinella