DOSSIER NUOVI ITALIANI”Mi fermano… solo perché sono nero…”

L’Italia è il suo paese. Fin dalla nascita.
Tutto bene, quindi? Quasi…

John è un adolescente italo-africano. Non vuole raccontare esattamente da che paese proviene. Anzi, diciamo che gli dà fastidio che gli si domandi l’origine, quasi si mettesse in dubbio la sua attuale «italianità».
Parla in fretta, in un italiano perfetto e senza particolari inflessioni. Ha i capelli legati in una cascata di piccole treccine tenute ferme da elastici colorati, e un bel viso scuro con grandi occhi neri.
Orecchini piccoli al naso e ai lobi delle orecchie, jeans, maglietta e scarpe all’ultima moda, cammina in mezzo a un gruppetto di compagne di scuola, in un istituto per il turismo di Torino. Più che delle amiche sembrano le sue fan: per tutta la chiacchierata non smettono di girargli attorno.

Sei nato in Italia o ci sei arrivato da bambino?
«Qui, sono nato qui».
Quando?
«Sedici anni fa».
I tuoi di dove sono?
«Africa».
È un continente…
«Già, e grande anche… I miei fratelli, no».
No, cosa?
«Non sono nati qui: sono più grandi. Ma è la stessa cosa: quando cresci, vai a scuola in un paese, vai in oratorio, hai gli amici, esci, sei come tutti gli altri».
Uguale.
«Eh sì, è un nonsense parlarne, perché non mi sono mai nemmeno posto il problema, a dir il vero».
Mai avuto questioni con i compagni?
«Perché avrei dovuto? Sono nato in Italia e non riesco a immaginarmi, per il momento, in un altro posto. Magari un giorno mi piacerebbe andare all’estero a fare nuove esperienze, a lavorare. I miei studi sono rivolti a quello: a viaggiare. Almeno spero. Però l’Italia è il mio paese».
Quindi, tutto ok?
«Sì… il casino è quando mi fermano per i controlli».
Ti fermano?
«La polizia, per routine… magari bazzico ai Murazzi (lungo Po torinese, dove, oltre ai tanti locali alla moda e di divertimento giovanile, circolano droghe, ndr), ma non per farmi, no, quello non mi garba, ma per incontrare amici, andare a ballare… Insomma, mi fermano solo perché sono nero e dò l’impressione dell’immigrato».
Ti dà noia?
Si rabbuia un po’. «E come no? Certo. Mi sento mortificato. È come se mi si dicesse che non faccio parte di questo paese, che invece è il mio».
I tuoi che lavoro fanno?
«Papà è laureato in ingegneria ma ha messo su una ditta di import-export, ed è spesso giù».
Giù…
«In Africa».
Già, il continente senza stati…
Ride e prosegue. «La mamma una volta era maestra, ma ha aperto un negozio».
Vai d’accordo con loro?
«Li amo e li rispetto, ma litighiamo spesso: non vogliono che esca la sera, che vada in giro in certi quartieri. Hanno paura della droga, della delinquenza. Dicono che al loro paese non ce n’è come qua. Ma che ci posso fare? Rimanere bloccato in casa?».
Musulmani?
«Cristiani e praticanti, i miei. Beh, io sono andato in oratorio e negli scout fino alle medie».
Sei bravo a scuola?
«Media del sette e mezzo – otto. Mi piace studiare, leggere di tutto. E guardare Mtv».
Quali sono i tuoi sogni futuri? Viaggiare?
«Sì. Mettere su un’agenzia di viaggi, magari».
La propensione familiare per il business c’è, non dovrebbe esserti difficile. Mi sembri molto in gamba e simpatico.
«Grazie. I giornalisti invece fanno un sacco di domande…».
È una carriera che ti attira?
«Uhm, leggendo cosa scrivono degli immigrati in Italia, preferirei evitare». •

Angela Lano




DOSSIER NUOVI ITALIANIAlcuni dati dall’annuario della Caritas e bibliografia generale

Le religioni

• Gli immigrati sono:
– di fede cristiana per il 49,5%
– islamici per il 33%.

Le nazionalità

• Le nazionalità più rappresentate: Romania, Marocco, Albania, ciascuno con circa 230 /240 mila soggioanti registrati.

• Al quarto posto balza l’Ucraina (113.000) e quinta è la Cina (100.000).

• Tra le 70 mila e 60 mila presenze oscillano Filippine, Polonia e Tunisia.

• Con 40 mila presenze: Stati Uniti, Senegal, India, Perù, Ecuador, Serbia, Egitto, Sri Lanka.

• In tutto, le nazionalità presenti in Italia sono 191.

Quanti sono

• Sono 2,6 milioni gli stranieri in Italia.

• La Lombardia è prima per numero di immigrati; Emilia Romagna la regione con più bambini stranieri.

• Sono 400 mila i minori, in aumento al ritmo di 60 mila l’anno: 35 mila nuovi nati e 25 mila ingressi.

• Ha connotati euro-mediterranei l’immigrazione in Italia.
Infatti, è europea quasi la metà degli immigrati in Italia:
– 47,9%, ma solo il 7% è costituito da cittadini comunitari,
– presenza africana: 23,5%
– presenza asiatica: 16,8%
– presenza americana: 11,5%.

Le rimesse

• L’immigrazione resta «la banca dei poveri»: nel 2003 le rimesse nei paesi di origine sono ammontate a 93 miliardi di dollari, cifra superiore agli investimenti delle aziende e agli aiuti governativi per lo sviluppo.

(fonte: Banca San Paolo)

Le scuole

• Nel 2003-2004 sono stati 282.683 gli alunni immigrati presenti nelle scuole italiane.

• Sono 50 mila in più rispetto all’anno precedente. Nel 2011-12 si pensa saranno circa 600 mila.

• Le città con il maggior numero di studenti immigrati sono Milano, Roma e Torino.

• Presenze di alunni stranieri nelle scuole:
Albania: 49.965
Marocco: 42.126
Romania: 27.627
Cina: 15.610
Ecuador: 10.674

• Scuole frequentate
(in percentuale):
– infanzia: 19,4
– primaria: 40,8
– medie: 23,9
– superiori: 15,9.
La percentuale di minori che frequentano le scuole superiori è ancora ridotta. Gli africani scelgono le scuole professionali; gli americani e gli europei non comunitari, le scuole tecniche.

• Nel 2003 si sono laureati 2.794 studenti stranieri.

Bibliografia
"Una scuola in comune", a cura di Graziella Giovannini e Luca Queirolo Palmas, edizioni Fondazione Agnelli, Torino 2002;
"La pelle giusta", Paola Tabet, edizioni Einaudi, Torino 1997;
"Seconde generazioni", a cura di Maurizio Ambrosini e Stefano Molina, edizioni della Fondazione Agnelli, Torino 2004;
Dossier statistico Caritas, Roma 2004;
"La fatica di integrarsi", Maurizio Ambrosini, edizioni Il Mulino, Bologna 2001;
"Verso un’educazione interculturale", a cura di Laura Operti e Laura Cometti, edizioni Bollati Boringhieri, Torino 1992;
"Cultura araba e società multietnica", a cura di Laura Operti, Irrsae Piemonte-Bollati Boringhieri, Torino, 1998;
"Il sistema scolastico in prospettiva interculturale", Angelo Negrini, Emi editrice, Bologna 1998;
"Animo da guerriero", Daniela Palumbo, edizioni Paoline, Milano 1999;
"Khaleb, piccolo amico arabo", Daniela Palumbo, edizioni Paoline, Milano 1999;
"Lexico minimo – vocabolario interculturale illustrato", Emi editrice, Bologna;
"Voci di donna in un hammam", Angela Lano, Emi editrice, Bologna 2002;
"Dall’integrazione all’intercultura", Davide Rigallo e Simonetta Sulis, editrice L’Harmattan Italia, Torino 2003;
"Gli immigrati in Italia", Roberto Magni, Edizioni Lavoro, Roma 1995;
"La dignità dell’emigrare", a cura di Lucia Bianco e Carmine Lanni, Ega editrice, Torino 2000;
"Pantanella. Un canto lungo la strada", Mohsen Melliti, edizioni Lavoro, Roma, 1992;
"Islam e stato italiano", a cura di Elvio Arancio, Gabriele Mandel, Roberto Hamza Piccardo, edizioni Cerriglio, Torino 2003;
"I diritti di chi non ha diritti. Migrazioni di ieri e di oggi", a cura di Ada Lonni, Edizioni dell’Orso, Alessandria 1995;
"Sogni di realtà: Alma Lavoro. Percorsi di pari opportunità. Esperienze di inserimento lavorativo qualificato di donne immigrate", a cura dell’Associazione Alma Terra, Torino 2004;
"Neanche nei nostri sogni più folli: storia di un percorso di pari opportunità. Migranti impiegate in banca", a cura di Maria Viarengo e Ferzaneh Gavahi, Associazione Alma Terra, Torino 2004.

Fotografie
Tutte le fotografie di questo dossier sono di Michele D’Ottavio, eccetto quelle delle pagine 28 (archivio), 37 (Pagliassotti) e 40-41 (Pagliassotti).

Angela Lano




DOSSIER GIAPPONEIntroduzione

 

HIROSHIMA E NAGASAKI

I loro nomi saranno uniti per sempre, memoriale e monito di come l’uomo sia capace di una incredibile distruzione e autodistruzione: Hiroshima e Nagasaki.
Ricordare i nomi delle due città giapponesi, le sole al mondo ad aver subito il bombardamento atomico, significa «aborrire la guerra nucleare e impegnarsi per il futuro e per la pace», rifiutare la «potenza nucleare come mezzo per mantenere l’equilibrio del potere attraverso l’equilibrio del terrore» affermava Giovanni Paolo ii il 25 febbraio 1981, davanti al Peace Memorial di Hiroshima.
Lo sanno tutti cosa è capitato in quelle due città; ma conviene sempre rinfrescare la memoria.

I l 25 luglio 1945, una gelida nota del comando militare Usa dirama il seguente comunicato: «La 20a unità delle forze aeree sgancerà la sua prima bomba speciale, appena le condizioni atmosferiche lo permetteranno, all’incirca dopo il 3 agosto 1945, su uno di questi obiettivi: Hiroshima, Kokura, Niigata, Nagasaki. Per permettere agli scienziati militari e civili di registrare gli effetti dell’esplosione, un ulteriore velivolo accompagnerà l’aeroplano che trasporterà la bomba».
Il lunedì 6 agosto mattino, un quadrimotore B29, battezzato Enola Gay, si leva in volo da Tinian, con a bordo 12 uomini di equipaggio e il Little Boy (bambino, ragazzino): si tratta di una bomba lunga tre metri e 5 tonnellate di peso, caricata con 10 kg di uranio 235, la cui potenza distruttiva è valutata in 13 mila tonnellate di Tnt (trinitrotoluolo-toluene).
L’obiettivo non è precisato nel piano di volo; lo sceglierà uno degli aerei meteorologici che lo precedono, a seconda delle condizioni atmosferiche. All’altezza di Iwo Jima, arriva l’atteso bollettino: «Nagasaki coperto totalmente, Hiroshima visibilità dieci miglia».
Alle 7.59 l’aereo raggiunge l’obiettivo; alle 8,15 il pilota Thomas Wilson Ferebee apre il portellone e lascia cadere nel vuoto il Little Boy. La bomba scende in picchiata. L’aereo ha 45 secondi per allontanarsi. Gli uomini sottovoce contano i secondi, poi un lampo accecante: si eleva una sfera di fuoco del diametro di 600 metri, il cui centro ha una temperatura di 100 milioni di gradi.
Dopo 7 secondi un rimbombo assordante rompe l’innaturale silenzio. Dal punto dello scoppio si sprigiona una colonna di fumo, vapore e polvere, che s’innalza verso il cielo e dilata la sua cima fino ad assumere la forma di un fungo. L’esplosione demolisce gli edifici nel raggio di tre chilometri; la devastazione si allarga su una superficie di dodici chilometri quadrati: saltano le condutture, scompaiono intere strade, dal cielo cadono goccioloni enormi e viscidi; le acque dei canali straripano invadendo il deserto di macerie.
In pochi istanti 71 mila giapponesi sono vaporizzati; 20 mila moriranno nella notte; altri 60 mila nel corso dell’anno; oltre 100 mila i feriti, su una popolazione di circa 245.000 abitanti.
In quella «fine del mondo», come è ribattezzato quel 6 agosto 1945, si vedono i sopravvissuti vagare come fantasmi, pelli bruciate che si staccano dai corpi, madri che stringono al petto i figli carbonizzati, disperati che si suicidano.
Oltre 4.800 reperti, conservati nel Museo della bomba atomica di Hiroshima, parlano ancora degli effetti devastanti di quell’inferno.
Il 9 agosto, alle ore 12.00, Bock’s Car, un altro B29, sgancia la seconda bomba atomica, al plutonio, detta Fat Man (grassone, ciccione), questa volta su Nagasaki. Gli effetti sono identici: la città interamente distrutta, 41 mila morti e 70 mila ustionati gravi, anch’essi destinati a una lunga agonia.
Ai morti e feriti delle due bombe vanno aggiunte le devastanti conseguenze genetiche su migliaia di migliaia di altre persone, su animali e piante dei territori circostanti prodotte dalle esplosioni nucleari.

I l 14 agosto 1945 l’imperatore giapponese firma la resa. Gli americani continuano l’occupazione fino al 1948. Il trattato di San Francisco del 1951 restituisce formalmente la sovranità ai nipponici e la possibilità di ricostituire una forza militare di polizia, ma la politica giapponese rimane subalterna alle direttive di Washington, nonostante le proteste di piazza degli anni ‘70.
Anzi, il filo che lega il Giappone agli Usa diventa sempre più solido, fino ad appoggiare la guerra in Afghanistan e inviare truppe in Iraq.
Dal 3 novembre 1946, data di nascita della Costituzione giapponese, nessun soldato delle Forze di difesa interna ha messo piede fuori dall’isola. L’articolo 9 sancisce: «Aspirando sinceramente a una pace internazionale basata sull’ordine e la giustizia, la popolazione giapponese rinuncia per sempre alla guerra come un diritto sovrano della nazione e all’uso della forza per sedare le dispute internazionali».
Il premier Koizumi, però, si è creato una legge di durata biennale che prevede la possibilità d’inviare truppe per «speciali misure di intervento umanitario e di ricostruzione» nelle zone devastate dalla guerra. Così un contingente di 1.000 soldati è atterrato a Balad, in Iraq, a fianco degli americani.
Il tabù è rotto. Ma cosa pensano i cittadini giapponesi del fatto di trovarsi a combattere a fianco della stessa potenza che ha fatto vedere loro la «fine del mondo» e che sta sperimentando nuove armi nucleari miniaturizzate, ma altrettanto devastanti di quelle di 60 anni fa?
B.B.

B.B.




DOSSIER GIAPPONE… E la chiamarono

Richieste di pace del Giappone prima del lancio delle bombe

Recenti documenti rivelano che l’ecatombe di Hiroshima e Nagasaki poteva essere evitata: il delirio di onnipotenza degli scienziati, il cinismo degli Alleati, la corsa al bottino tra Usa e Urss resero vani i tentativi diplomatici.

Alamogordo, New Mexico: 16 luglio 1945, ore 5, 29 minuti e 45 secondi del mattino.
La terra sussulta in un ultimo spasmo. Poi un bagliore accecante si sprigiona dalle sue viscere, come se un nuovo sole dovesse essere partorito. Pochi secondi dopo, tornato il silenzio, una voce riprende a parlare:
«Ora sono diventato morte, il distruttore dei mondi».
Versi della Bhagavad Gita, ma chi li pronuncia non è Vishnu, bensì J. Robert Oppenheimer, lo scienziato direttore di Los Alamos, nei cui laboratori è stata progettata e costruita la prima bomba atomica.
La citazione sacra non era solo il frutto dell’emozione del momento. La manipolazione e l’«addomesticamento» dell’atomo, avevano creato nelle menti della società scientifica, militare e politica statunitense, un senso di onnipotenza che portava ad innalzare l’uomo al pari di Dio. Non è certo un caso che, nella storia della più terribile arma di distruzione di massa ideata dalla «bestia umana», i riferimenti religiosi trabocchino.
«Come sono uno Oriente e Occidente
Nella piattezza delle carte e mia
Così la morte e la resurrezione».
Questa poesia di John Donne, intitolata Inno al Signore mio Dio nella mia infermità, aveva convinto Oppenheimer a dare al test di Alamogordo il nome di «Trinità».
La bomba, agli occhi di molti, tra cui lo stesso Oppenheimer, sarebbe stata così potente da mietere talmente tante vittime, che i giapponesi avrebbero chiesto la resa e posto finalmente fine alla guerra del Pacifico. L’uomo era colui che aveva creato la morte e la resurrezione. Il nuovo Dio in terra.
E il 16 luglio 1945, l’era nucleare ebbe inizio. Un’era lastricata di vite umane, ma che, come dimostrano i documenti recentemente resi noti dal Dipartimento di Stato americano, avrebbe potuto essere ben diversa, se solo si fosse voluto aprire uno spiraglio di dialogo.

IL CONTO ALLA ROVESCIA
Il 9 marzo 1945, gli Stati Uniti avevano lanciato su Tokyo un raid con 325 bombardieri, radendo al suolo 267 mila edifici e uccidendo in poche ore 89 mila persone, con la speranza che questo inducesse il governo imperiale alla resa immediata.
L’obiettivo di Roosevelt era quello di evitare una Yalta asiatica, così da impedire la spartizione delle sfere d’influenza con l’Urss di Stalin.
Il 12 maggio, quattro giorni dopo la fine della guerra in Europa, il rappresentante giapponese in Svizzera, Shunichi Kase, fece sapere a William Donovan, direttore dell’Ufficio servizi strategici, che il suo governo sperava di «trovare un accordo che permettesse di cessare le ostilità». Era il primo dei numerosi segnali di trattativa lanciati dai nipponici agli Alleati.
Ma a quel tempo, il comitato atto a scegliere gli obiettivi dei lanci atomici (si parlava già al plurale), si era riunito indicando una serie di città su cui scatenare la furia atomica: Kyoto, Hiroshima, Kokura e Niigata. Di queste se ne sarebbero scelte due. Il conto alla rovescia era partito e il punto di non ritorno superato.
Già il 1 giugno 1945 il Comitato ad interim affermava che la «selezione finale degli obiettivi è una decisione essenzialmente militare. L’opinione del Comitato è che le bombe devono essere usate contro il Giappone il più presto possibile; devono essere usate contro una fabbrica di guerra, circondata dalle case dei lavoratori e devono essere usate senza avvertimenti».
Il 31 maggio, l’Ufficio dei servizi strategici, ricevette da un diplomatico giapponese in Portogallo una proposta di pace in cui, come unica condizione richiesta, non apparisse il termine «resa incondizionata».
Sulla base di questi nuovi sviluppi, lo stesso giorno, John McCloy, assistente al segretario della guerra Henry Stimson, suggeriva al suo diretto superiore di iniziare a intavolare negoziati con il Giappone, eliminando, appunto, l’espressione avversata da Tokyo: «Resa incondizionata – affermava McCloy -, è una frase che implica la perdita della faccia e io mi chiedo se non potremo rivolgerci al Giappone senza l’uso di tale termine».
Lo stesso Joseph Grew, vice segretario di Stato, confidò a Truman, succeduto alla Casa Bianca il 12 aprile subito dopo la morte di Roosevelt, che «il più grande ostacolo alla resa incondizionata del Giappone è la convinzione che una resa in questi termini porterebbe alla distruzione e alla rimozione permanente dell’imperatore e dell’istituzione imperiale. Se riuscissimo a dare qualche indicazione ai giapponesi che essi, una volta arresi e resi impotenti militarmente, potranno da soli determinare il futuro della loro struttura politica, affronteranno la possibilità di arrendersi salvando la faccia».
EVITARE L’UMILIAZIONE
Sul fronte scientifico, Leo Szilard, assieme a Walter Bartky e Harold Grey, tutti scienziati che avevano lavorato al «Progetto Manhattan», chiesero al segretario di Stato Jimmy Byes di mostrare a una delegazione giapponese il potenziale distruttivo della bomba atomica, in modo da facilitare eventuali trattative di pace.
La stessa richiesta, questa volta diretta a Stimson, venne ripetuta il 27 giugno 1945 dal sottosegretario della Marina Ralph Bard.
All’inizio di luglio, la volontà di Tokyo a porre la parola fine alla guerra si fece più concreta. Una serie di dispacci tra il ministro degli Esteri Shigenoria Togo e l’ambasciatore imperiale a Mosca, Sato, furono intercettati dai servizi statunitensi. In queste missive, Togo chiedeva a Sato di conferire urgentemente con il ministro degli Esteri sovietico, Molotov, per avviare una serie di colloqui:
«Dato che stiamo segretamente prendendo in considerazione la fine della guerra – scriveva Togo -, deve estendere la nostra volontà alla Russia, perché si faccia portavoce (presso gli Alleati) della nostra volontà.
Sua Maestà l’Imperatore, preoccupato del fatto che la presente guerra porta gioalmente grandi sacrifici ai popoli di tutte le potenze belligeranti, desidera dal suo cuore che essa termini velocemente. Ma dato che l’Inghilterra e gli Stati Uniti insistono sulla resa incondizionata, (…) l’Impero giapponese non ha altra alternativa se non quella di combattere con tutte le sue forze per l’onore e l’esistenza della madrepatria. Sua Maestà è profondamente recalcitrante a versare altro sangue tra i popoli di entrambi i fronti; per questa ragione, ed è questo il suo desiderio, chiede di restaurare la pace il più presto possibile per il bene dell’umanità».
I messaggi tra i due diplomatici continuarono per tutto il mese, captati dagli statunitensi.
Vista la riluttanza di Mosca nell’incontrare l’inviato imperiale, il 13 luglio Togo spronò Sato a perorare la causa di pace presso il Cremlino:
«Chiarisca che l’incontro con l’inviato speciale permetterà a Stalin di conquistare la reputazione di paladino della pace mondiale e, inoltre, siamo pronti ad accettare tutte le richieste dei russi in Estremo Oriente».
Ci furono delle aperture anche verso gli Stati Uniti, sulla base di intercettazioni giapponesi di messaggi tra ufficiali della marina americana:
«Il 19 (luglio), il capitano della Marina, Zacharias, ha detto che il Giappone ha due sole alternative:
1. essere sottomesso a una pace imposta dopo essere stato distrutto;
2. arrendersi senza condizioni e ricevere i benefici della Carta Atlantica.
Il fatto che gli americani abbiano alluso alla Carta Atlantica, è particolarmente degno di attenzione in questo periodo. È impossibile per noi accettare la resa incondizionata (…) ma è nostra intenzione informarli (…) che non vi sono obiezioni alla restaurazione della pace sulla base della Carta Atlantica. Il vero punto critico è l’insistenza del nemico di imporre la resa incondizionata. Se l’America e l’Inghilterra si fossilizzano su questo punto, l’intero progetto si infrangerà inevitabilmente su questo scoglio».
L’ambasciatore Sato rispose a Togo che era impossibile chiedere ai sovietici di rompere l’intendimento con gli Alleati circa la resa incondizionata.
TRIONFA LA LINEA DURA
Ma anche nel fronte alleato continuarono a esserci delle obiezioni sulla linea dura mantenuta da Washington e Londra. Il 9 giugno George Marshall, capo dello staff militare, scrisse un memorandum a Stimson, in cui si chiedeva di «cessare di parlare di resa incondizionata del Giappone e cominciare a definire i nostri veri obiettivi in termini di difesa e di disarmo»; mentre il 18 giugno l’ammiraglio William Leahy, sul suo diario personale annotava che «una resa del Giappone può essere discussa entro i termini che possono essere accettati dal Giappone e che soddisfino pienamente il desiderio di difesa dell’America contro una futura aggressione trans-pacifica».
Infine, il 20 giugno 1945 anche l’US Strategic Bomb Survey notava che «l’Imperatore, appoggiato dal premier, dal ministro degli Esteri e da quello della Marina, è favorevole alla pace; il ministro dell’Esercito e i due capi dello Staff Militare, invece, non concordano».
Ma l’evento che avrebbe potuto cambiare le sorti della guerra giunse il 7 luglio. Quel giorno Byes ricevette dal vice segretario di Stato, Joseph Grew, un telegramma che lo informava di un’apertura formulata dall’addetto militare giapponese a Stoccolma, generale Onodera, il quale offriva un negoziato di pace con gli Alleati, nel caso gli Stati Uniti avessero garantito il mantenimento dell’istituzione imperiale.
Ma oramai Truman e il suo staff avevano preso una decisione da cui non volevano recedere. A nulla valse l’estremo tentativo di Leo Szilard e altri 155 scienziati del Progetto Manhattan, che, il giorno dopo il Trinity Test, scrissero una petizione al presidente in cui lo si invitava a «esercitare il suo potere di comandante in capo per far sì che:
1. gli Stati Uniti non ricorreranno all’uso delle bombe atomiche in guerra, a meno che, una volta che i termini imposti siano stati resi pubblici nel dettaglio e portati a conoscenza del Giappone, questi rifiuti di arrendersi;
2. che la decisione di usare o meno le bombe atomiche sia presa da lei in persona, in base alle considerazioni presentate in questa petizione, così come le responsabilità morali involte».
Il 18 luglio, all’apertura della Conferenza di Potsdam, Truman e James F. Byes sondarono l’atteggiamento di Stalin nei confronti di Tokyo. Nel diario di Walter Brown, assistente speciale di Byes, si legge: «Stalin ha rivelato che il Giappone ha chiesto di mandare una missione a Mosca per un colloquio di pace. Ha inoltre detto che l’Imperatore non vuole continuare lo spargimento di sangue, ma esclude ogni termine che indichi una resa incondizionata. JFB (James F. Byes) ha chiesto a Stalin se c’era qualche mutamento nella politica russa verso la resa incondizionata. Stalin ha replicato: “Nessun cambiamento”; inoltre ha riferito che, a meno che Stati Uniti e Gran Bretagna abbiano altri suggerimenti, risponderà che non c’è nulla di specifico nella proposta giapponese e non c’è bisogno di una conferenza. Stalin ha affermato di credere che il Giappone pensi che la Russia stia entrando in guerra perché ha visto troppi movimenti di truppe russe al confine. Infine Stalin ha informato che non saranno pronti ad attaccare il Giappone prima del 15 agosto».
PER NON SPARTIRE IL BOTTINO
Il 15 agosto! Occorreva quindi stringere i tempi per evitare di dividere il bottino con Mosca.
Il 21 luglio, infatti, Truman autorizzò l’uso delle bombe atomiche. Quattro giorni dopo lo stesso Presidente ricordò nel suo diario: «Ho riferito al segretario della Guerra Stimson di usarle (le bombe atomiche) in modo che gli obiettivi siano militari e non le donne e i bambini. Anche se i giapponesi sono selvaggi, rudi, crudeli e fanatici, noi, in quanto leaders del mondo, per il bene comune non possiamo lanciare queste terribili bombe sulla vecchia capitale o sulla nuova».
Il 26 luglio la Dichiarazione di Potsdam intimava di «proclamare la resa incondizionata immediatamente di tutte le Forze Armate giapponesi».
Il capitolo era ormai chiuso.
Il 6 agosto 1945, 9 giorni prima del termine predetto da Stalin dell’entrata in guerra dell’Urss contro il Giappone, «Little Boy» venne sganciata su Hiroshima.
L’8 agosto Mosca dichiarò guerra a Tokyo e il giorno successivo, il 9 agosto 1945, il B-29 Bockscar, alle 9 e 44 del mattino sorvolò Kokura per sganciare «Fat Man».
Ironia della sorte: la città era avvolta dal fumo dei bombardamenti scatenati dai raids americani in una città limitrofa. Fu così che venne ridisegnato l’obiettivo: non più Kokura, ma Nagasaki.
L’ecatombe era compiuta. •

Piergiorgio Pescali




DOSSIER GIAPPONEPer non dimenticare

Nel Museo della bomba atomica di Hiroshima

Ci sarà una seconda Hiroshima e Nagasaki?
Nonostante i sopravvissuti all’immane tragedia di 60 anni fa continuino a tenee viva la memoria, nella società giapponese la tensione emotiva è in costante calo; varie nazioni asiatiche accumulano armi nucleari; gli Usa perfezionano mini-bombe, pronte per eventuali genocidi… più circoscritti.

Ride Minoru Hataguchi, quando gli chiedo dove era il 6 agosto 1945, al momento dello scoppio della bomba atomica. «Ero dentro mia madre» risponde.
Già, Minoru Hataguchi, attuale direttore del Museo della bomba atomica di Hiroshima, quel terribile giorno non era ancora nato: sarebbe uscito dalla pancia di sua madre qualche settimana dopo, ma non avrebbe mai conosciuto suo padre, disintegrato dalla forza distruttiva della bomba. «Le uniche cose che trovarono di lui sono un paio di occhiali e un orologio».
Mi accompagna tra le sale del museo fermandosi proprio di fronte agli unici due oggetti, parzialmente fusi, recuperati dai resti di suo padre. Accanto a loro le lettere scambiate con la moglie nei due anni di matrimonio, da lei conservate con cura fino alla morte e poi donate al museo.
Il dolore subìto dalla madre quel 6 agosto di 60 anni fa, spiega la sorprendente franchezza di Hataguchi che, a differenza della maggioranza dei giapponesi che occupano posti di vertice nell’amministrazione pubblica, è schietto e diretto nelle risposte. Lo abbiamo incontrato nel suo ufficio del Museo della bomba atomica di Hiroshima.

La generazione testimone degli eventi del 6 e 9 agosto 1945, si sta assottigliando sempre più e ci si pone giustamente il problema di come mantenere viva la memoria di tragedie che hanno toccato l’umanità intera. Anche in Europa, mano a mano che il tempo passa, sembra che i crimini del fascismo e del nazismo possano essere dimenticati. Come fare, quindi, per non perdere la memoria anche di Hiroshima e Nagasaki?
Ci sono ancora 290 mila hibakusha (vittime e testimoni diretti della bomba atomica) a Hiroshima; e il primo obiettivo che si prefigge questo museo è quello di non far dimenticare l’esperienza tanto dolorosa vissuta da queste persone.
Ogni anno organizziamo mostre di Hiroshima e Nagasaki in tutto il mondo, tra cui l’Italia. Ma è comunque vero quello che afferma: queste persone stanno invecchiando, per cui stiamo creando una videoteca con le loro testimonianze. Fino ad oggi ne abbiamo fatte più di 800. Oltre agli hibakusha abbiamo anche 160 volontari di pace, studenti, casalinghe, impiegati, ecc. che collaborano attivamente con il museo. Anche se non hanno una diretta esperienza della bomba atomica, cercano comunque di passare le loro emozioni ad altre persone.

Nonostante i volontari e i 290 mila hibakusha attualmente in vita, esiste in Giappone, come del resto anche in Italia, una sorta di movimento revisionista, che vorrebbe cancellare, o per lo meno, rivedere, tutta la storia dell’anteguerra. Cosa sanno oggi i giapponesi della bomba atomica e cosa si insegna a proposito di questi fatti storici?
Nel museo vengono quasi 1 milione e 100 mila visitatori all’anno da tutto il Giappone e di questi 430 mila sono studenti. Per quasi tutti cerchiamo di creare l’occasione perché essi possano ascoltare, per almeno un’ora, l’esperienza di uno o più hibakusha.
Purtroppo, oggi, la gita scolastica ha cambiato finalità: gli studenti preferiscono andare all’estero, a Disneyland o in un parco di divertimento. Noi cerchiamo di convincere gli insegnanti e gli educatori scolastici quanto sia importante l’educazione alla pace, invitandoli a visitare i musei di Hiroshima o Nagasaki.

Significativo questo accostamento tra Disneyland e Hiroshima e Nagasaki. La storia quindi insegna che ha bisogno di tempo per digerire, assimilare e giudicare i fatti. Pensa che oggi sia possibile giudicare Hiroshima e Nagasaki?
In Giappone abbiamo un lasso di tempo che si può stabilire in circa 50 anni per assimilare gli eventi. Fino al cinquantesimo anniversario abbiamo quindi assorbito l’esperienza di Hiroshima e Nagasaki e anche il numero dei visitatori al museo è andato aumentando. Poi, per un certo periodo, abbiamo avuto un assestamento nelle visite, mentre oggi riscontriamo una diminuzione.
Occorre anche dire che il Giappone è un arcipelago e fortunatamente, dopo la seconda guerra mondiale, non ha mai avuto attacchi bellici; di conseguenza, purtroppo e allo stesso tempo fortunatamente, l’interesse diretto della guerra è diminuito. Anche gli ultimi eventi dell’Afghanistan, Palestina, Israele, sono visti da noi giapponesi come avvenimenti che si dipanano in luoghi lontani e per molti, specie per le nuove generazioni, vengono visti come se stessero assistendo a dei videogiochi.
Ma le nazioni direttamente coinvolte in questi conflitti (Stati Uniti, India, Pakistan) posseggono bombe atomiche e per noi questo fatto è molto importante: è una cosa da valutare attentamente. Purtroppo, per la gente comune in Giappone non è così importante.

Ci può essere una seconda Hiroshima e Nagasaki? Mi riferisco alle tensioni tra India e Pakistan o ai ripetuti ammonimenti e minacce da parte degli Stati Uniti verso l’Afghanistan, Iraq, Corea del Nord, di lanciare una bomba atomica, anche se di limitate proporzioni.
Durante la guerra fredda, la teoria di usare solo come minaccia la bomba atomica ha funzionato. Grazie a Hiroshima e Nagasaki, i leaders dei paesi che posseggono armi nucleari conoscono gli effetti che subiranno le popolazioni, quindi c’è sempre la speranza che il buonsenso abbia la meglio. Ma gli Stati Uniti non sembrano seguire questo buonsenso: stanno studiando le cosiddette mini-bombe atomiche, che ridurrebbero gli effetti a una zona limitata ed esploderebbero sotto la superficie del terreno; ma l’etica di devastazione e genocidio che sta alla base di ogni bomba atomica non cambia.

Quindi, secondo lei, il mondo ha capito solo in parte la lezione che è giunta da Hiroshima e Nagasaki.
Gli Stati Uniti sono oramai rimasti l’unica grande potenza mondiale e l’idea di onnipotenza che permea la politica di Bush, sta diventando una minaccia per la pace nel mondo. Se gli Usa decidessero di usare queste armi contro uno stato o un’area, penso che avranno una ritorsione, come quella dell’11 settembre.
Inoltre, se gli Usa usassero le armi nucleari potrebbero essere criticati dai loro stessi alleati. Non sto parlando del Giappone, che è troppo «amico» degli Usa, ma mi riferisco soprattutto all’Europa.

«Il Giappone è troppo amico degli USA» ha appena detto. Voglio soffermarmi su questo punto: Koizumi, l’attuale primo ministro, è giunto a Hiroshima, ma si è rifiutato di incontrare il sindaco della città, che è notoriamente uno dei principali accusatori dei paesi che minacciano l’uso della bomba atomica. Successivamente, Koizumi si è recato nel tempio di Yasukuni, dove si onora la memoria dei caduti giapponesi morti combattendo per l’Impero giapponese, tra cui anche 14 criminali di guerra di classe «A». Non le sembra un controsenso? Cosa significa l’incontro con Hiroshima e subito dopo l’incontro con Yasukuni?
Nel tempio di Yasukuni sono onorate tutte le persone morte durante la guerra. Questo, per me, non sarebbe un problema; purtroppo tra queste persone vengono onorati anche i leaders ideologi del colonialismo. Questo è il vero problema.
Noi giapponesi, possiamo tranquillamente onorare questi morti, ma dalla parte dei cinesi e dei coreani c’è un reale problema etico e morale, oltre che storico, che sorge nel momento in cui noi onoriamo i leaders del colonialismo.
Possiamo prendere anche l’esempio dell’Italia, dove a causa del fascismo sono morte molte persone civili e militari. Se l’Italia costruisse un monumento commemorativo per i leaders del fascismo e per Mussolini, sicuramente anche i paesi che hanno subito danni dal fascismo avrebbero ragione di ribellarsi. Penso comunque sia vero quello che ha detto all’inizio, cioè che Yasukuni è stato utilizzato politicamente dal governo per dei fini ben precisi.

Lei, come uomo di pace, cosa pensa delle basi Usa in Giappone, in Corea e in Asia in generale?
La spiegazione ufficiale che ci viene data consiste nella difesa da Cina e Russia. Ma adesso non posso giudicare se sono utili o meno, dato che la Russia e la Cina sono profondamente cambiate.

Beh, c’è sempre come spiegazione la Corea del Nord…
Sì, questa è la spiegazione sul perché ci sono basi militari Usa in Corea del Sud. Poi, circa tre anni fa, c’è stato il lancio di un missile nordcoreano verso il Giappone; ma in questi ultimi tempi la politica della Corea del Nord sta cambiando e questo può essere un segno positivo per la pace.

Dall’11 settembre 2001, data dell’attacco alle Twin Towers di New York, il numero di visitatori al Museo della bomba atomica di Hiroshima, che era in calo, si è di nuovo alzato e in questi giorni avete avuto il 50 milionesimo visitatore. Che nesso c’è tra l’11 settembre 2001 e il 6 e 9 agosto 1945?
Prima dell’11 settembre, le gite scolastiche tendevano ad andare a Okinawa o all’estero, utilizzando l’aereo. Da quel giorno, dato che le scuole non possono utilizzare questo mezzo per i loro spostamenti, sono ritornate a Hiroshima. Ecco perché abbiamo avuto un aumento dei visitatori.

Quindi la tendenza del dopo 11 settembre non è collegata al momento emotivo?
Non è una causa diretta, ma è sicuramente una delle cause. Speriamo comunque che le scuole che sono venute lo scorso anno, continuino a mandare studenti.

In definitiva, cosa è stato Hiroshima e Nagasaki? Sono stati bombardamenti effettivamente fatti per porre fine alla guerra? In questo caso, però, mi chiedo cosa sia servito Nagasaki. O piuttosto sono stati dei cinici esperimenti militari e scientifici sull’uomo?
La prima spiegazione sul lancio della bomba atomica è stata quella di terminare il più presto possibile la seconda guerra mondiale, dato che anche gli Stati Uniti erano allo stremo. La seconda spiegazione è quella che gli Stati Uniti, dopo aver speso parecchi milioni di dollari per il Progetto Manhattan, volevano confermae i risultati scientifici.
Una terza spiegazione: gli Usa sapevano che il Giappone avrebbe dovuto arrendersi, quindi hanno accelerato i preparativi per il lancio per non perdere questa unica occasione giustificabile agli occhi del mondo.

Infatti, tramite l’ambasciata giapponese a Mosca, Tokyo aveva chiesto informalmente al Cremlino di intercedere verso gli Usa per trattare un piano di pace.
Washington sapeva comunque che il Giappone si voleva arrendere ed era disposto a firmare la pace anche subito. Per i militari statunitensi, era comunque più importante dare una dimostrazione di forza militare all’Urss e gli eventi bellici davano loro questa unica possibilità che non volevano farsi sfuggire.
La questione interessante è: perché Hiroshima? Nel 1945 tutte le maggiori città del Giappone erano già state bombardate, ma Hiroshima era ancora integra. Per loro era quindi più facile osservare gli effetti. Prima candidata era Kyoto; ma dato che questa, oltre a essere una città ricca di templi antichi, era anche l’antica capitale, hanno scelto Hiroshima.
Ora chiediamoci perché Nagasaki? Hiroshima è stata bombardata il 6 agosto; l’8 agosto successivo l’Urss ha dichiarato guerra contro il Giappone. Gli Stati Uniti avevano a disposizione due bombe differenti per potenza e concezione. La meno potente, all’uranio, era stata lanciata su Hiroshima, per cui si cercava la scusa per sperimentare gli effetti della seconda bomba, quella al plutonio. Questa scusa è stata trovata con la dichiarazione di guerra dell’Urss. La bomba al plutonio su Nagasaki è stata la vera, reale tragedia umana, perché sarebbe stato veramente possibile evitae il lancio.
La città è stata scelta solo un giorno prima; c’erano altre città candidate oltre a Nagasaki: Kokura, Niigata. Ma il 9 agosto a Kokura il tempo era nuvoloso, hanno quindi cambiato obiettivo, scegliendo Nagasaki. E fu la seconda tragedia. •

Piergiorgio Pescali




DOSSIER GIAPPONE

INTERVISTA

Parla Akihiro Takahashi: vittima della bomba atomica di Hiroshima

Il più famoso dei 290 mila hibakusha (vittime sopravvissute alla bomba atomica), Takahashi è un punto di riferimento per i movimenti che lottano per la pace e chiedono il bando delle armi atomiche. Mentre gli riesce facile allacciare relazioni amichevoli, a livello personale, con i cittadini dei paesi una volta nemici, incontra orecchi da mercante a livello di governi, compreso quello del proprio paese.

Classe 1931, Akihiro Takahashi aveva 14 anni quando fu colpito dalla bomba atomica di Hiroshima. Ne porta ancora le conseguenze, fisiche e psicologiche, tanto da aver dedicato l’intera vita a testimoniare la terribile esperienza.
Direttore del Museo della bomba atomica di Hiroshima dal 1979 al 1983, autore di diversi libri, vice Presidente della sezione dell’Unesco a Hiroshima, Takahashi è il più famoso hibakusha (vittima della bomba atomica) vivente e un faro per il movimento che chiede il bando delle armi atomiche. Lo abbiamo incontrato a Hiroshima, al Museo della bomba atomica.

Perché ricordare Hiroshima e Nagasaki?
Dentro di noi, vittime della bomba atomica, c’è questa forte speranza di non ripetere mai più un’esperienza di questo genere.

Lei è stato diretto testimone e al tempo stesso vittima del bombardamento del 6 agosto 1945. Cosa ha sentito quando, a 14 anni, ha subito questa esperienza? Cosa ha sentito nei confronti di chi ha voluto lanciare la bomba atomica e cosa sente oggi nei confronti del governo degli Stati Uniti, che ha già annunciato a più riprese di essere pronto a far esplodere «mini» bombe nucleari?
Quando ho subito il bombardamento ero nel cortile della scuola media, ma non sapevo cosa stesse accadendo; ho sentito un potente rumore, poi il buio più completo. Dopo essermi ripreso dallo stato di incoscienza, ho visto che i miei vestiti erano bruciati e il mio corpo era ferito e ustionato. Tutti i circa 150 studenti della mia stessa scuola erano nelle stesse condizioni, mentre gli edifici erano distrutti. Per 5 o 6 giorni dopo il bombardamento, ho perso conoscenza, ma la mia famiglia mi ha riferito che continuavo a ripetere di odiare gli Stati Uniti e gli americani. Per diversi anni non ho trasmesso la mia esperienza a nessuno e il mio odio verso gli Stati Uniti è rimasto intatto.
Adesso il sindaco di Hiroshima sta cercando il modo per intavolare un discorso di pace con i paesi che possiedono armi nucleari, ma personalmente, come vittima della bomba atomica, non penso ci sia alcun modo di intavolare un discorso di pace con questo tipo di stati. Come individui possiamo fare amicizia con i loro cittadini, ma a livello di entità statali, di governo, non c’è alcun modo di fare la pace.
Tutti abbiamo dei problemi, quindi come singoli possiamo dichiararci amici con tutti, farci amici di tutti, ma quando pensiamo alla politica del paese e dello stato, dobbiamo fortemente e chiaramente affermare che non si può parlare di pace con chi possiede armi nucleari.

Eppure il Giappone è in stretta alleanza con paesi che possiedono bombe atomiche, in special modo con gli Stati Uniti, di cui ospita anche sul proprio territorio basi militari. Infine non mi sembra che la politica di Koizumi stia mettendo in discussione questo tipo di amicizia e la stessa alleanza militare con gli Usa.
Lo stato giapponese deve essere chiaro con gli Stati Uniti. Quando dobbiamo dire no, che no sia! Ora non lo sta facendo e da quando Koizumi è divenuto primo ministro, la situazione è peggiorata.
Inoltre, dopo l’11 settembre 2001, gli Usa hanno ripreso la loro politica nucleare, costruendo anche le cosiddette mini-bombe atomiche. Koizumi deve chiaramente dire no a questa politica.

Dopo l’11 settembre, molti hanno richiamato i fantasmi del nazismo, dei campi di concentramento e le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Secondo lei esiste una connessione storica o solo emotiva con questi eventi?
Molti hanno paragonato l’attacco al World Trade Center con quello di Pearl Harbour. In parte è vero, ma personalmente ho visto delle similitudini con il 6 agosto 1945, anche se la bomba atomica di Hiroshima era molto più devastante.

Lei è stato direttore dell’Associazione di amicizia Giappone-Cina. A Hiroshima, quel 6 agosto del 1945 non c’erano solo giapponesi, ma anche cinesi, coreani, stranieri portati in Giappone per lavorare sotto il regime colonialista. Cosa si è fatto per questi non giapponesi, ugualmente colpiti dalla bomba atomica?
La guerra giapponese verso i paesi asiatici è stata una guerra di colonizzazione. Non possiamo dimenticare questo e quando racconto la mia esperienza di hibakusha, racconto anche la mia vergogna di giapponese per la politica del mio governo verso questi paesi.

In che modo l’attuale generazione di giapponesi vede il vostro passato, la vostra esperienza di vittime della bomba atomica?
In questi ultimi anni arrivano a Hiroshima circa 3-400 mila studenti ogni anno per visitare il museo. Poi spediscono alcuni pensieri, in cui molti affermano di essere scioccati di quello che hanno sentito e di non voler dimenticare. Io spero che la nuova generazione assimili questa esperienza e la trasmetta ad altri.

Lei ha incontrato più volte il papa. Cosa pensa della sua persona e di cosa avete parlato?
Nel febbraio 1980 l’ho incontrato per la prima volta, quando il papa, per sua volontà ha voluto visitare Hiroshima e il museo di cui, in quel periodo ero direttore. Di fronte al diorama ho spiegato al papa che l’effetto della bomba atomica sull’uomo è 4 mila volte superiore rispetto alle bombe tradizionali lanciate dai B-29. Al che il papa mi ha chiesto di ripetere, per essere sicuro che non mi fossi confuso e che, anziché 4 mila non avessi voluto dire 400 o 40. Confermai la potenza 4 mila volte superiore; e ricordo l’espressione del papa, molto stupita e affranta.
Ho inoltre spiegato la mia personale esperienza. Il tempo previsto per la sosta al museo era di 20 minuti, ma il papa ha voluto trattenersi per ben 40 minuti, chiedendo continuamente della mia esperienza. Alla fine, ciò che più mi ha commosso è stato il ringraziamento ricevuto dal santo padre che, ha voluto sottolineare, non era diretto solo al direttore del museo, ma soprattutto al testimone e vittima della bomba atomica.
Dopo dieci anni sono stato ricevuto in Vaticano. Quando l’ho incontrato, Giovanni Paolo II mi ha subito detto di ricordarsi di Hiroshima, mi ha preso la mano bruciata dalla bomba e l’ha tenuta stretta a lungo.

Il Giappone, il mondo intero, ha tratto una lezione dall’esperienza di Hiroshima e Nagasaki? Voglio dire, ci potrà essere un’altra Hiroshima e Nagasaki nel futuro dell’uomo, o pensa che oggi esistano le condizioni per eliminare tutte le armi nucleari?
Quello che temo di più è la possibilità da parte dei terroristi di utilizzare le armi nucleari. Non possiamo capire che utilizzo vogliano fae. Ma anche da parte di alcuni stati temo la possibilità di utilizzo nucleare. Quindi devo purtroppo affermare che la situazione mondiale è molto critica e noi siamo tutti a rischio.

Anche se sono passati 60 anni, come mai l’umanità non riesce a trarre frutto dell’esperienza e migliorare i propri rapporti con le culture, religioni, stati?
L’esperienza non scompare, ma non viene ricordata bene. Noi vittime delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, diciamo ai leaders delle nazioni, che possiedono armi nucleari, che se vogliono utilizzarle, facciano loro stessi l’esperienza di essere bombardati.

Lei ha detto che non si è assimilata l’esperienza, ed è vero. Ma nelle scuole, in Italia come in Giappone, c’è una forte tendenza al revisionismo storico, vale a dire rivalutare esperienze negative del passato. Ha paura che questo revisionismo influisca sulla conoscenza della vostra esperienza di sopravvissuti alla bomba atomica?
I revisionisti affermano che in quel determinato periodo storico era giusto fare la guerra. Io invece non lo penso e lo dobbiamo dire chiaramente. Non possiamo distorcere i fatti storici.

Il governo degli Stati Uniti vi ha mai chiesto scusa? Non parlo di scuse dirette al governo giapponese, ma a voi vittime.
No.

E voi pretendete delle scuse, immagino.
Sono state richieste, ma non ci è pervenuta alcuna risposta. Gli statunitensi dicono che bombardare Hiroshima e Nagasaki con le bombe atomiche era l’unica soluzione fattibile a quel tempo. Chiedere scusa significherebbe ammettere i propri torti.

Non parlo di scuse al governo, ma a voi; quindi non scuse politiche, ma umanitarie.
Neppure per motivi umanitari sono state mai fatte scuse. Gli Stati Uniti continuano ad affermare che con le bombe atomiche hanno salvato milioni di altri giapponesi che sarebbero morti con il prolungamento della guerra.

Box 1

Residuato bellico, le isole Curilli

I l governo Koizumi si sta preparando per convincere Putin a riaprire qualche spiraglio di trattativa per discutere il problema delle Curili.
Si tratta di una manciata di isolette all’estremo nord dell’arcipelago, al largo di Hokkaido, che l’allora Unione Sovietica aveva occupato nel 1945, all’indomani dell’entrata in guerra di Stalin contro il Giappone, nella speranza di contrastare l’influenza statunitense del dopoguerra in Estremo Oriente. Per quasi cinque decenni le isole hanno rappresentato una spina nel fianco del Giappone, le cui coste si trovavano a pochi chilometri da postazioni militari sovietiche.
Con la fine della guerra fredda e il dissolvimento dell’Urss, Tokyo ha ripreso con più vigore le richieste di riottenere il desolato e scarsamente abitato arcipelago. In particolare, sono quattro le isole contese: Etorofu, Kunashiri, Shikotan e Habomai. In gioco non c’è solo il diritto di pesca nelle ricche acque del nord, ma anche il ristabilimento dell’onore imperiale.
Le Curili, infatti, sono abitate da popolazioni ainu, autoctoni di Hokkaido e da discendenti dei giapponesi che nel xviii secolo completarono la colonizzazione dell’arcipelago. Dopo la Dichiarazione congiunta russo-giapponese del 1956, che prevedeva la restituzione di Shikotan e Habomai al Giappone dopo la firma del trattato di pace, Mosca e Tokyo permisero alle famiglie separate di effettuare visite tra le due nazioni per onorare la memoria dei loro congiunti defunti.

M a 60 anni di presenza sovietica e russa, hanno modificato, forse per sempre, la fisionomia etnica e sociale di questi isolotti. Oggi, accanto agli ainu e ai nipponici, vivono migliaia di russi e siberiani che si sono stabiliti qui con le loro famiglie, allettati dagli alti stipendi che lo stato garantiva loro e che non vedono di buon grado l’eventuale cambio di bandiera sulle loro case.
Neppure sul nome topografico Mosca e Tokyo hanno trovato un accordo, riferendosi all’arcipelago rispettivamente come Curili e come Territori del Nord. Pochi mesi fa, Putin ha raggelato le speranze del governo Koizumi affermando che la Dichiarazione congiunta del 1956 non costituisce un impegno per il nuovo gabinetto russo.
Il problema è che le due capitali interpretano il documento secondo due diversi punti di vista: mentre al Cremlino i punti sottoscritti si intendono conclusivi per una definitiva soluzione del contenzioso, a Tokyo l’intesa viene tradotta come una prima tappa per la restituzione di tutte le quattro isole contese.

Piergiorgio Pescali




DOSSIER GIOVANIDa nord a sud

Abbiamo dedicato questo primo dossier del 2005 ai giovani. Avevamo dei dubbi, perché gran parte dei nostri lettori sono di età adulta o avanzata. Poi però ci siamo accorti che i giovani sono oggi una categoria senza precisi confini anagrafici: molti vivono in famiglia oltre i 30 anni, quasi sempre perché il loro lavoro (quando c’è) è precario e mal pagato.
In questo dossier, è bene precisarlo con chiarezza, si parla di giovani occidentali, per i quali i bisogni primari sono, più o meno, quasi sempre soddisfatti. In altre parole, va sottolineato che i giovani del Nord del mondo non hanno le stesse problematiche di quelli del Sud. Per questi ultimi, il problema non è il cellulare di ultima generazione, il brano musicale appena uscito, il videogioco più recente, l’ultimo modello di pantaloni a vita bassa o di scarpe da ginnastica firmate.
Al Sud del mondo la vita colpisce più duro, molto più duro. L’istruzione, ad esempio, è per moltissimi un diritto teorico più che reale. Troppi giovani sono costretti ad iniziare a lavorare in età scolare per aiutare la famiglia a sopravvivere: è la piaga, mai rimarginata, del lavoro minorile, che si riscontra nella maggioranza dei paesi del Sud (dal Bangladesh all’Indonesia al Nicaragua). Senza dimenticare i giovanissimi che si ritrovano con un mitra o una pistola in mano: si pensi ai bambini-soldato (in Sierra Leone come in Colombia) o a quelli organizzati in bande (come le maras in Salvador). O, ancora, a quelli che vivono per le strade, sniffando colla e vivendo di espedienti: dai meninos de rua del Brasile ai gamines della Colombia.
Per le ragazze, poi, l’esistenza è ancora più segnata, siano esse africane, latinoamericane, indiane o filippine: da piccole (a partire dai 4 anni) debbono accudire i fratellini o aiutare la mamma o lavorare (rischiando la schiavitù o l’abuso sessuale: si pensi alle ragazze restavec di Haiti) nelle case dei ricchi; appena diventano donne (dai 13-14 anni), si ritrovano incinte e perdono di colpo quel po’ di spensieratezza che forse era loro rimasta. Giovani sfortunate, certo, ma meno di quelle che finiscono nei bordelli della Thailandia, della Cambogia o delle Filippine, tanto per fare qualche nome.

Ecco, se i giovani del Nord conoscessero meglio i problemi che affliggono i loro coetanei del Sud, forse il mondo sarebbe un luogo migliore e tutti starebbero meglio. Invece, ciò non avviene e non avviene per vari motivi. Ad esempio, perché la scuola non ha tempo da dedicare ad approfondire tematiche politicamente compromettenti e, di conseguenza, pericolose; perché la Tv (che è strumento degli adulti) offre programmi come Il grande fratello (programma globalizzato, in quanto diffuso in molti paesi occidentali) o L’isola dei famosi e gli stessi telegiornali dedicano un tempo francamente imbarazzante al gossip (fatti, misfatti e scempiaggini dei personaggi dello spettacolo).
A fronte di questa dequalificata offerta informativa del mondo adulto, non dobbiamo stupirci, come racconta Maurizio Pagliassotti nel suo articolo, se il professore di religione che chiede ai suoi alunni cosa sappiano del Darfur (la regione del Sudan dove è in corso una guerra di sterminio) si sente rispondere: «Dar… che? Ah! Carrefour!». Carrefour è – per chi non lo ricordasse – la multinazionale francese dei supermercati. Un’ulteriore dimostrazione di quanto il virus del consumo abbia contaminato tutto, tanto che i depliants pubblicitari sono più letti dei quotidiani, i quali – tra l’altro – sono, per più della metà dei giovani, uno strumento informativo inutilizzato. È altrettanto vero che, al giorno d’oggi, i ragazzi (occidentali) hanno a disposizione uno sterminato ventaglio di mezzi di comunicazione (da internet alle televisioni satellitari), ma ciò non ha impedito una diffusa ignoranza. Per citare Ignacio Ramonet: «Per lungo tempo rara e costosa, l’informazione, insieme all’aria e all’acqua, è ormai l’elemento più abbondante del pianeta. Sempre meno costosa via via che il suo gettito aumenta, ma – proprio come l’aria e l’acqua – sempre più inquinata e contaminata».

Nonostante i presunti effetti benefici della globalizzazione, Nord e Sud del mondo rimangono molto distanti (o, meglio, ancora più distanti), come distanti sono i problemi dei loro giovani. Eppure, nessuno può negare che anche in Occidente il cosiddetto «disagio giovanile», ancorché diverso, esista e sia importante perché va ad incidere sulla qualità della vita e sul futuro da costruire.
«Il tempo della gioventù si è dilatato, quello della società si è velocizzato, quello del lavoro si è allontanato» così ha ben sintetizzato la situazione Marco Bertone, pedagogista, il cui articolo apre il dossier. Ha ragione, infine, il nostro biblista Paolo Farinella, quando esorta i ragazzi a «conoscere, conoscere, conoscere… perché troppi padroni sono in agguato».

Paolo Moiola




DOSSIER GIOVANI”C’era una volta una velina…”

Se la televisione modella la vita

«Che incontrò un “tronista” e insieme vissero felici e contenti per tutta la vita in uno studio televisivo».

Costantinopoli e i 10 comandamenti. Iniziando così, siamo quasi certi di aver spaccato i lettori in almeno due categorie: quelli che cercano il refuso e quelli che si aspettano la continuazione della frase. La verità è che il fenomeno Costantino è tale proprio perché questo individuo è largamente sconosciuto a gran parte dell’italica penisola. Pur tuttavia, e vi invitiamo a provare, andate nella camera dei ragazzi e chiedete loro se conoscono Costantino. Diamo per certo che la risposta sia affermativa. Sorge una prima domanda: come fa un fenomeno giovanile ad essere così sconosciuto alla generazione dei genitori?
Costantino Vitagliano è un fenomeno mediatico nato nella trasmissione pomeridiana di Maria De Filippi Uomini e Donne. Il nostro eroe belloccio era chiamato all’arduo compito di scegliere, tra un’orda di petulanti «spasimanti», la fidanzata. Tale posizione è stata giornalisticamente chiamata «tronista». Il nostro uomo è stato poi costantemente ospitato nel contenitore televisivo settimanale Buona Domenica accanto alla sua prescelta, tale Alessandra.
Fino a questo punto la nostra storia non assume i caratteri epici di un Odissea e probabilmente non li raggiungerà mai, però aggiungiamo un altro aspetto che ci sembra rilevante. Con l’ospitata domenicale di Costantino il programma della coppia De Filippi-Costanzo ha prima raggiunto, poi superato l’odiata rivale della televisione pubblica, accaparrandosi preziosi contratti pubblicitari in una fascia oraria importantissima.
In definitiva: Costantino Vitagliano fa vendere. Lo sapranno bene quei malcapitati genitori i quali si trovano ad esaudire le richieste del/la figlio/a nell’acquisto di uno, o più, capi d’abbigliamento, figurine, pacchetti di patatine, giornalini griffati Costantino
Il fenomeno non è recente. Data ormai qualche anno e presuppone un cambiamento sociale che ha come protagonista la nostra televisione. Il panorama mediatico è lentamente cambiato sino ad assumere i connotati che adesso lo caratterizzano.

UNA TV DI LITIGATE, SFURIATE, TRADIMENTI

L’interprete e la guida di questa modifica viene generalmente personalizzata nella figura di Maria De Filippi. Cosa avrebbe fatto costei?
Lei (i suoi autori, in realtà) ha cavalcato l’onda del «normale». I suoi programmi sono stati dei prodromi ai reality portando in scena le litigate della famiglia, le sfuriate fra coppie, i tradimenti fra amici e così via. L’ordinario in luogo dello straordinario.
Chi è dunque Costantino? Un normale ragazzo, si direbbe, perfino un po’ maleducato, poco istruito, molto presuntuoso che va a parlare in televisione delle sue feste in discoteca e del suo «ordinario».
Il motivo per il quale costui non è molto conosciuto potrebbe essere proprio questo. È un bel ragazzo che non sa fare nulla di particolare. Non è uno Schumacher e non è un Biagi. Non è una Marie Curie o un Baard. È un giovane vicino alla trentina che fa cose normalissime.
Sarà questa la sua forza? È evidente che qualcosa lo deve pur saper fare se i genitori sono costretti a comprare ai propri figli dei pantaloni simili ai suoi, delle magliette come le sue, le scarpe così etc. etc.
La sua forza sta, probabilmente nella sua enorme fortuna. Quale fortuna potrà avere uno che non sa distinguere tra un congiuntivo ed una congiuntivite?
Probabilmente Costantino è solo un simbolo di una televisione che propone modelli comportamentali meravigliosamente «a tono» con quella smania del consumo che pervade la nostra società.
In effetti Costantino qualcosa di eccezionale lo fa: compra. Costantino compra tanto, compra tutto, lo fa e non si chiede mai se ne ha realmente bisogno, compra «perché gli va».
È forse questa la tragica ed ineludibile verità. Costantino furoreggia tra i ragazzi solo perché è la personificazione del primo comandamento del nuovo vangelo economico: «Compra al tuo prossimo come vorresti che il tuo prossimo comprasse a te». Qualche tempo fa un libro di un ex pubblicitario, Frederic Beigbeder, iniziava così: «Noi non vogliamo che la gente sia felice, perché la gente felice non consuma». Costantino è questo. Noi non sappiamo se egli sia felice o meno, ovviamente gli auguriamo le migliori fortune, tuttavia la sua condizione psicologica è pericolosamente aggrappata al desiderio. Egli è, senza dubbio, il desiderio di molte teenager, ma per essere un desiderio deve desiderare. Deve desiderare di essere sempre il più trendy, il più alla moda, il più bello, il più in forma. Necessita, dunque, della dea «Azienda che vende», la quale, baciandolo come proprio alfiere ed emissario in terra, in una sorta di abbraccio mortale, lo costringe anche a fare e dire tutto quello che vuole lei: comprare, comprare, comprare.

LA STRADA PER DIVENTARE IDOLI

Se queste sono le condizioni, quale può essere allora il meccanismo che porta Costantino ad essere l’idolo dei nostri giovani?
Il fatto è che il nostro uomo è «uno che ce l’ha fatta». Possiede ciò che tutti vogliamo. In questo abbraccio mortale con la divinità, in questa versione modea del patto col diavolo, la sua figura rappresenta l’immagine di colui che è accettato. Sappiamo tutti quale sia, nell’ambito adolescenziale, ma non solo, l’importanza del gruppo dei pari. I coetanei sono il tramite attraverso il quale il bimbo si stacca dal nido genitoriale per spiccare il volo verso la realtà sociale. Ecco che diviene fondamentale, per un giovane, che questo piccolo balzo sia quanto meno traumatico e quanto più facile possibile. Costantino rappresenta questa facilità: fai come lui ed i tuoi amici ti accetteranno; fai come lui ed il gruppo penderà dalle tue labbra; fai come lui e ce la farai anche tu.
In questa finzione psicanalitica, il modello comportamentale, che qui potremmo definire «defilippino» è quello che insegna ai nostri giovani che da soli non ce la potranno mai fare. Hanno bisogno dell’ «aiutino». L’aiutino, allora, ce lo fornisce bello e buono il mondo dell’entertainment. Compra i cd di Eminem e vestiti come lui. Pensa e agisci come lui ed avrai anche tu la tua nicchia, il tuo nuovo nido, dal quale guardare con sicurezza al difficile domani.

LE NUOVE FAVOLE NELL’EPOCA DELLA TELEVISIONE

Il «defilippino» è il nuovo schema mentale con il quale si insegna ai giovani a leggere la realtà. Sono i nuovi occhiali che la televisione mette ai nostri ragazzi. Un po’ come, attraverso Cappuccetto Rosso, i nostri bisnonni insegnavano ai nostri nonni l’importanza dell’ubbidire, la nuova favola della velina insegna ai nostri figli che… non serve più studiare.
Sì perché, curando il tuo corpo incontrerai il provino magico che ti renderà velina e vivrai «in televisione felice e contenta per tutta la vita». Nella nuova pedagogia del «defilippino» la laurea è in «Velina» o in «Tronista». Il master è in «Look e accessori particolari».
Ecco che, con la banalità del «tutto facile», il Cepu della vita ci fa superare l’esame di pantaloni griffati. Ed allora, mi raccomando, non dimenticare anche gli altri comandamenti del «defilippino»: «Non avrai altro Dio all’infuori di Mc Donald’s», «Onora e festeggia il sabato sera», «Desidera tantissimo la donna velina».
E, quando si fanno i provini per un nuovo programma «defilippino», la fila scalciante ai cancelli è chilometrica. Spesso si dice che i giovani non credono più in nulla.
Non è vero. Purtroppo. •

Fabio Pugliese




DOSSIER GIOVANI”Darfur? Carrefour!.”

A colloquio con Diego, professore di religione

Apatici e disinteressati al mondo esterno: sembrano così la maggioranza dei giovani d’oggi. Ma la loro responsabilità è limitata, mentre le colpe degli adulti sono chiare e sotto gli occhi di tutti. Abbiamo costruito un mondo senza solidarietà, dove la sola linea guida è l’interesse economico.

I ragazzi a scuola lo chiamano «professorone». Diego Gottardi, quarant’anni, insegna religione presso il liceo scientifico «Luigi Bobbio» di Carignano. Prima agrotecnico, poi insegnante di religione, ormai da 12 anni. Seconda professione a tempo pieno: papà. Ha infatti quattro figli, numero che suscita incredulità tra le sue studentesse.

Cosa insegna la scuola ai ragazzi oggi?

«Mi faccio portavoce solo di quello che vedo. La scuola ai ragazzi insegna le cose che ha sempre insegnato ma con meno convinzione o meglio, con la semiconvinzione che l’insegnamento non sia più utile. Questo non dipende dai ragazzi, ma da noi adulti che non riusciamo più a toccare le corde giuste. Dall’altra parte, i ragazzi sono apatici nell’affrontare gli argomenti necessari per formarsi. Sono apatici, perché non hanno il senso della scalata e del gusto delle cose. Il problema dei ragazzi è che, nonostante le smisurate potenzialità tecnologiche odiee, il loro mondo è divenuto piccolo piccolo e non riescono a buttare lo sguardo oltre. In seconda liceo faccio fatica a proporre un testo come Lettera ad un consumatore del Nord perché il loro mondo ha una frontiera che non abbraccia questi argomenti quotidiani che interessano tutti. Non si sentono responsabili di quello che accade fuori dalla loro stanza. Questi sono i nostri prodotti e presto dovremo fare un mea culpa.
Quando un bambino cresce in un ambiente dove non esiste lo spazio alla solidarietà ed il mirino è fisso sul consumismo, è inutile poi chiedergli di andare a fare del volontariato a diciassette anni, perché si propone un’incongruenza».

I ragazzi amano conoscere?

«Di primo acchito sembrerebbe di no. A loro piace capire. Gli piace leggere Dante? No. Ma se tu fossi capace di usare Dante per fargli capire qualcosa di fondamentale anche per loro, allora amerebbero Dante o Platone. Il segreto è questo. La vera sfida è rimanere in contatto con i giovani e se scoprono in te un interlocutore di cui fidarsi allora questo accadrà, non solo a scuola ma anche nella famiglia. Se noi amassimo, anche in maniera idealistico, questo modo di rapportarci con i ragazzi riusciremmo a ricavare uno spazio educativo forte».

Oggi gli insegnanti sono più autoritari o autorevoli?

«Non sono particolarmente nessuna delle due cose. C’è un ritorno all’autorità esercitata. Durante un consiglio di classe, un’insegnante di scienze ha fatto un richiamo pubblico ai genitori affinché controllassero come i figli si vestono per venire a scuola. I limiti sono stati oltrepassati. Questa durezza per quanto necessaria deve essere caricata di affetto».

Perché si distrugge una scuola (il Parini di Milano) per evitare una verifica di latino?

«Per incoscienza ed irresponsabilità. È un discorso che parte da noi adulti. Se io non sento il peso dell’educazione, non mi interesso di come crescono i figli. Tantissimi genitori hanno l’idea che l’educazione sia una crescita fatta di diritti. I genitori danno tutto ciò che è materiale saltando il contatto e la vicinanza. Perché tanti adolescenti chiudono le porte con i genitori? Perché non parlano, perché non li conosciamo?
Se i genitori non possono dare il tempo, tanto, nasce il problema della comunicazione è un ponte che non viene costruito. Un abbaglio su ciò che pensiamo sia amare. Scegliamo la forma di amore che ci mette meno in discussione. Scegliamo una forma di amore che possiamo comprare con i soldi. Non si può pensare di amare i figli perché si apre il portafogli. Il bambino sente questo amore castrato e falso che gli è stato dato e mette in atto degli atteggiamenti di protesta. Noi diamo un bene piccolo».

Quanto è presente lo sport?

«Quando lo sport è presente lo è in maniera quasi ossessiva. Lo sport, l’attività ricreativa, il violino, la danza, il corso di qualcosa, vanno a sommarsi al già grande carico di lavoro che hanno gli studenti, i bambini in particolare. Perché non educhiamo i nostri figli-alunni in maniera meno pesante? Non è possibile che i bambini dopo otto ore di maestra abbiano voglia di ascoltare un’altra maestra. Questo mi impressiona molto. Io penso che non ci sia nulla da imparare per forza. Si creano così dei bambini con personalità poco bambine, con ragionamenti da uomini già a otto anni. Vivono per tappe forzate, imposte.
Perché oggi tutti i giovani vanno all’università? Perché nessuno riesce ad immaginare un futuro felice senza la laurea. Non riescono ad avere il fiuto della felicità, come non lo abbiamo noi. La felicità è diventata dipendente dall’esterno, dal telefonino come dagli amici, dal corso di qualcosa, dall’amore. Non si riesce più ad essere felici partendo da cosa siamo noi. È un germe che abbiamo inoculato noi a loro. La generazione come la mia, nonostante i grandi ideali ha puntato tutto sui soldi, perdendo di vista il tempo e la gioia».

Cosa sognano i ragazzi?

«Non lo so. Temo che non abbiano sogni. Alcuni dicono che hanno sogni materiali. Io non sono d’accordo, perché, qualora anche li avessero, essi hanno la coscienza che sono dei palliativi, sanno che non hanno preso il toro per le coa.
Infine, non è forse una grave negazione del sogno anche lo “smontare” la fede dei bambini?».

A scuola si parla della guerra?

«No. Dei ragazzi che conosco io il 98% non segue la cronaca. Le mie lezioni si agganciano alle grandi questioni planetarie. Ho provato a fare un’intervista, anche ai colleghi, sull’argomento Darfur nei giorni in cui questo problema era seguito da servizi giornalistici.
Sai cosa mi rispondevano? «Dar che? Ah! Carrefour!». Dobbiamo fargli capire che il mondo non è il paesino o quartiere dove vivono. Se vado scuola e faccio un richiamo alla cronaca eclatante del giorno prima, non ho risposta. Se venisse un guerrucola qui e loro dovessero rinunciare ai beni di consumo, il 70% dei ragazzi (ma anche degli adulti) morirebbe di fame. Stiamo combinando un grosso guaio con loro perché li stiamo educando a non affrontare la vita».

La chiesa e il suo rapporto con i giovani.

«La chiesa a mio avviso è un po’ ferma. Avrebbe dei canali di presa, sa quali sono le corde da toccare e credo che le realtà più incisive siano quelle missionarie. Ogni anno invito un gruppo di volontariato presentando i loro progetti. Questa è la parte più attiva della chiesa che agisce sui ragazzi.
Cinquecentomila giovani sono andati a vedere il papa a Tor Vergata perché vedono una figura in cui credono, un adulto-adulto.
Il giovane, più di altri, ha bisogno di scoprire il senso della vita e il papa è coerente con quello che manifesta. Io credo che noi gli confondiamo le idee nella sua ricerca impedendogli di vederlo con chiarezza: questo è peccato. Il papa dice aprite le porte a Cristo e cercate la verità lungo quella via, con autorevolezza, semplicemente e senza esitazioni».

Maurizio Pagliassotti




DOSSIER GIOVANIAdolescenti in un mondo di adulti bambini

Famiglia, scuola, società

La società è cambiata e con essa il ruolo della famiglia, che non si è adeguata. Le difficoltà dei giovani d’oggi discendono direttamente dal mondo adulto e dai suoi pessimi esempi: dall’onnipresenza del mercato all’abolizione del principio etico della «logica conseguenza» fino allo svilimento dell’importanza della legge e del suo rispetto.

A leggere la cronaca e le varie inchieste sui «nostri ragazzi» si ha l’impressione di passeggiare in un cimitero: la morte popola la vita degli adolescenti, che hanno terrore della sofferenza. Leggendo le statistiche, m’impressiona particolarmente che alcuni giovani possano spendere fino a 50 euro al giorno (sms compresi, immagino). Il costo mensile sarebbe di euro 1.500, mentre un lavoratore (riformato dal governo Berlusconi) ne guadagna meno di 1.000 per mantenersi con famiglia incorporata. Da qualche parte c’è qualcosa che non funziona: c’è del marcio in Danimarca! Ho letto e riletto le interviste e gli studi sugli adolescenti e la conclusione è sempre la stessa: il soggetto e l’oggetto sono «i ragazzi». Tutto parte e tutto si conclude con loro, anche quando si dice (fonte Eurispes) che «il 92,4% dei ragazzi hanno individuato innanzitutto in una vita familiare serena l’elemento in grado di trasmettere loro un certo sentimento di sicurezza».
Secondo me, è sbagliato il metodo e quindi anche le conclusioni: non bisogna intervistare i ragazzi, facendo poi finta di scandalizzarsi dei loro comportamenti. La teoria psico-sociologica del behaviorismo è superata anche tra i più scalcinati dei gruppi sociali.

LA MALATTIA DEGLI ADULTI

Partiamo subito da un assunto, che potremmo così definire: quando un bambino/adolescente o gruppi di bambini/adolescenti o giovani, singolarmente o insieme, hanno un problema comportamentale o psicologico-relazionale, è sintomo che gli adulti sono già affetti da una malattia forse irreversibile. L’alto costo di questa malattia «adulta», la pagano sempre i bambini, gli adolescenti, i giovani. In altre parole: non esiste un bambino/ragazzo/giovane cattivo, ma in compenso esistono cattivi adulti che condizionano o segnano la vita del giovane, del ragazzo o del bambino. Portare esempi significa compilare un’enciclopedia sempre aperta ad aggioamenti.
Chi si scandalizza se i ragazzi dicono di non amare la scuola? Come fanno ad amare una scuola falsa, senza contenuti, che gli adulti stanno distruggendo, senza preoccuparsi affatto delle conseguenze sugli stessi ragazzi? Come fanno ad amare la scuola della riforma (?) Moratti che tutto è tranne che una riforma e una scuola?
I ragazzi amano il denaro, il cellulare, la moda e non sono soddisfatti del proprio corpo? Chi si meraviglia è in malafede o semplicemente complice di un sistema economico che fa leva proprio su questi elementi per indurre i ragazzi ad essere segmenti di mercato senza testa e senza cervello per poterli facilmente dominare e manovrare. Chi si oppone a queste perversioni? Oggi nemmeno la chiesa ci prova più, succube com’è dei processi mercantili che soggiacciono alla politica governativa.

«LA FAMIGLIA DI UNA VOLTA»

Credo che nessuna persona di buon senso possa accampare paragoni impossibili con espressioni come «ai miei tempi», che normalmente introducono i discorsi di chi non ha capito i «suoi» tempi e non capirà mai i tempi degli altri. Non esiste tempo o epoca migliore o peggiore di altri. Ogni epoca è figlia del suo tempo e per questo è unica e irrepetibile. Nel bene e nel male. I ragazzi di oggi non sono peggiori o migliori di quelli di ieri , sono solo ragazzi, non formati completamente, ma in via di sviluppo, in fase di crescita e quindi turbolenti e contraddittori, stupidi e formidabili come solo i ragazzi sanno essere, come lo fummo noi «ai nostri tempi». Un giorno smetteranno gli abiti adolescenziali e indosseranno quelli della maturità, se da adolescenti hanno avuto accanto, davanti e in alto uomini e donne adulti che hanno saputo proporsi e proporre prospettive alte e non merce scadente a basso costo.
Leggendo le statistiche delle varie scuole di ricerche si ha l’impressione che si rimpianga «la famiglia di una volta» come ombrello che paracadutava il figlio in ogni ambito della vita, dalla scuola alle amicizie, dal lavoro al matrimonio. Questa famiglia «esaustiva» e totalizzante ha cessato di esistere da quando, nella società pluralista contemporanea si sono moltiplicate le agenzie educative, spesso in contrasto con gli interessi della famiglia, diventata il «luogo» dove il ragazzo passa il minor tempo della sua giornata. Se la famiglia coltiva interessi di maturazione affettiva, attraverso la convivenza dialogica, i gestori di telefonia hanno l’interesse a sganciare il ragazzo da questa protezione per fae un autonomo soggetto di comunicazione «isolata» e «isolante» attraverso lo strumento degli «sms».
La famiglia, a sua volta, crede di trovare nel telefonino una risposta alla propria paura quando il figlio è fuori dalla propria influenza fisica e quindi prende l’iniziativa di accessoriarlo, pagandone il relativo costo, illudendosi che il telefonino accorci le distanze tra due o più assenti.

QUALE RUOLO PER LA FAMIGLIA?

La famiglia, in verità, ha preso coscienza di avere perso il proprio ruolo formativo, ma non si è preoccupata di trovare la sua nuova dimensione, adeguata ai tempi nuovi. Ha semplicemente abdicato, demandando funzioni e soluzioni al di fuori di sé. Un bambino oggi ha più impegni di un ministro degli esteri e la sua giornata è scandita ad un ritmo ossessivo che produce dislessia paranoica comportamentale, vissuta nella solitudine e nell’abbandono.
La famiglia oggi ha e può avere un solo ruolo: essere il luogo della convergenza, dove si discutono le esperienze e le proposte di tutte le agenzie educative «estee» (scuola, parrocchia, palestra, hobby, amici, letture, chat, ecc.) offrendo strumenti di valutazione per una decisione critica e più autonoma possibile riconoscendo al ragazzo il suo ruolo di protagonista della sua vita, ma offrendogli anche la certezza di una presenza non-occupante, ma sempre disponibile e aperta affettivamente. Il ragazzo si percepisce come soggetto solo se si percepisce amato non per quello che vale, ma unicamente per quello che è.
Gli adulti hanno un problema, anzi una serie di problemi: hanno dimenticato di essere stati ragazzi, adolescenti e giovani e scaricano sui figli le conseguenze della loro incapacità di risolversi e quindi, in ultima analisi, della loro immaturità. Essi proiettano nel mondo giovanile tutte le loro paure e i loro fallimenti, giungendo perfino ad essere capaci di generare figli, ma incapaci di sapee leggere la vita e le esigenze di educazione. Di fronte alle sfide del mondo giovanile, di norma, gli adulti fuggono e quando non possono fae a meno pagano la loro fuga con i telefonini, con la tv, con il denaro che sono sostituti affettivi offerti da adulti-bambini a bambini che vorrebbero diventare adulti, ma sono costretti a restare bambini o, peggio, sono costretti a diventare di colpo adulti-vecchi e mai adulti-adulti. Il mondo dello sfruttamento economico si è inserito in questo processo perverso di relazione adulti/adolescenti e ne sfrutta tutte le potenzialità vantaggiose per alimentare nuove generazioni di schiavi, pronti ad essere, ad apparire, a comprare e a vivere come vuole il padrone di tuo.
Come è lontana l’aspirazione del poeta Camillo Sbarbaro che, per il 18.mo compleanno del figlio, scrisse lapidarie parole: «Ubbidirti a crescere è la mia vanità!». Che altro non è che la traduzione laica della considerazione di Giovanni Battista di fronte al nuovo che avanza e lo sopravanza: «Egli deve crescere e io invece diminuire» (Gv 3,30). Queste parole, laiche o evangeliche, dovrebbero essere scritte a caratteri cubitali in ogni casa dove vi sono figli, in ogni scuola, in ogni luogo dove vi sono educatori di bambini, adolescenti e giovani perché offrono la dimensione delle proporzioni tra giovani ed adulti. Gli adulti invece, contro natura, cercano in ogni modo di crescere i figli a loro immagine, a loro somiglianza, perpetuando così il vecchio e impedendo al nuovo di affacciarsi all’orizzonte. Inutilmente, perché ieri è passato e domani deve ancora sorgere.

PUBBLICITÀ VIOLENTA E SESSUALE

Non c’è pubblicità che non regali servizi sempre più nuovi, sempre più appetibili. Tutto è gratis, a condizione di pagare tutto molto salato. Più di 63 milioni di sms significa fatturati di miliardi di euro. La nuova economia neo-teo-con si fonda sul nulla, cioè sulla polvere delle morte parole che copre l’anima degli adolescenti, stuprandoli nello spirito e derubandoli nel denaro che non guadagnano.
Cosa importa ai gestori di telefonia se questo «stile» ha come prezzo la vita stessa del ragazzo? Non c’è pubblicità indirizzata ai giovani e ai meno giovani che non sia esplicitamente o allusivamente sessuale o violenta, dove tutto è presentato come un diritto che si può afferrare senza fatica. Come meravigliarsi se poi i ragazzi hanno paura del compito di greco o della sofferenza? La morte, l’amore, il sesso non sono motivi di paura o di ansia, sono semplicemente banalizzati e quindi svuotati di significato.
I ragazzi assorbono questo «stile» e hanno smesso di stupirsi di fronte alla vita che percepiscono come peso perché tutto è «ottimo e abbondante» come il rancio militare. L’obiettivo da raggiungere è essere furbi e fare soldi a palate. La realtà è ben diversa e quando i ragazzi la scopriranno, forse sarà troppo tardi, come è tardi per tutti quei ragazzi che muoiono sulle strade dopo una notte in discoteca o dopo una corsa estrema per provare il brivido della morte, scommettendo ingenti somme sulla propria vita e sulla propria morte.

I PESSIMI ESEMPI DEL MONDO ADULTO

Gli adulti hanno abolito il principio etico delle «conseguenze logiche» e quindi inducono i giovani a comportamenti schizofrenici, fondati solo sull’interesse del momento e sulla morale dell’utile «per me». Alcuni esempi.
Quando un governo legifera per tre anni di seguito sui condoni di ogni genere, contravvenendo ai suoi doveri di tutela e di rispetto della legge, significa che alimenta il «sentire» che rispettare la legge è un lusso da cretini. Premiare fiscalmente chi disattende la legge con l’aggravante, per esempio, di deturpare e derubare il patrimonio naturale nazionale, significa educare le generazioni giovani ad un concetto di legge quanto meno relativo e alla convinzione che rispettare le leggi non solo non serve a niente, ma è vero esattamente il contrario.
Quando un parlamento legifera su leggi espressamente confezionate per impedire l’applicazione della legge nei confronti di chi governa la nazione, accusato di reati gravissimi come la corruzione di giudici, significa che i giovani sono costretti a prendere atto che – parola dei supremi modelli istituzionali – tutto è lecito e tutto è permesso. Ho voglia di una ragazza? Chi m’impedisce di prenderla con la forza? Ho bisogno di soldi? Perché non posso rubarli? Mi piace il motorino del vicino? Perché non devo prenderlo se io sono più forte di lui?
Quando il mondo adulto per protestare contro una pseudo-riforma della scuola che diminuisce le ore d’insegnamento propone ai giovani una giornata di sciopero, cioè di non studio, trasferisce un messaggio osceno e inaudito che è fonte di malessere e corruzione. In casi simili bisogna proporre uno sciopero al contrario: occupare la scuola e studiare il doppio, se si vuole passare il messaggio che la scuola è importante e che anche un solo minuto trascorso sui libri è un tempo prezioso che non deve essere sciupato. I giovani sono lo specchio della società degli adulti.
Il principio delle «conseguenze logiche», al contrario, esige che ogni pensiero, ogni scelta, ogni comportamento, ogni azione comporta di per sé, direttamente o indirettamente, una «conseguenza», che io devo affrontare e da cui non mi posso affrancare. È il principio della responsabilità che nasce dalla convinzione che la persona è per natura e per cultura un essere-in-relazione che è se stesso in quanto vive rapportato al mondo che lo circonda e alle persone che insieme a lui formano la polis-comunità, non come somma d’individui, ma come moltiplicazione d’interessi comuni e condivisi.

NON SOLO CRONACA NERA

Le cronache ci riportano ogni giorno fatti e circostanze eclatanti che riguardano il mondo giovanile (omicidi, suicidi, stupri, violenze) e descrivono una gioventù «negata», preda di un vortice senza senso, privo di valori e di passioni di vita. Le stesse cronache sono incapaci di cogliere la vita normale di tanti adolescenti e giovani che vivono serenamente tutte le contraddizioni della loro età, sognando magari di fuggire dai genitori, ma ricorrendo ad essi come sorgente di affetto di sicurezza.
Per un ragazzo che si suicida mille scelgono la vita. Per una ragazza terrorizzata dalla sofferenza, migliaia di ragazze fanno volontariato a persone che soffrono e ne portano il peso. Per uno che annuncia il proprio suicidio via sms, milioni di adolescenti inviano sms che scoppiano di vita e passioni.
Il mondo giovanile non è solo quello che appare, ma è specialmente quello che non si vede, anche se è vero che, quando un giovane si suicida o una ragazza è terrorizzata dalla sofferenza, il mondo intero ne rimane sconfitto, perché la morte ha vinto la vita prima ancora che sbocciasse.
C’è qualcosa di marcio in Danimarca! ed è l’amarezza che il mondo degli adulti sia incapace di cogliere il mistero affascinante dei nostri ragazzi e delle nostre ragazze. Con tutti i loro limiti e le loro debolezze e anche con i buchi neri che qualche volta li inghiottono, perché nel mare della solitudine, nessuno ha lanciato loro un salvagente.

don Paolo Farinella