DOSSIER VIETNAM La chiesa cattolica: martirio e profezia

Nel segno della croce

Non esiste in Asia una chiesa tanto perseguitata da secoli e così radicata nella cultura del popolo come quella vietnamita. Fecondata dal sangue dei martiri, essa resiste all’asfissiante controllo del regime comunista, per non essere asservita al potere e conservare la sua natura profetica.

Secondo la notizia tramandata dagli Annali imperiali della corte annamita, I-ne-Khu (Ignazio) fu il primo missionario che, nel 1533, predicò il vangelo nella provincia di Nam Dinh (Tonchino) e fu subito colpito da un editto di proscrizione. Nel 1580 ci riprovarono, nella Cocincina, alcuni francescani delle Filippine, ma anche la loro opera fu presto cancellata.
Ufficialmente la chiesa vietnamita nasceva il giorno di pasqua del 1615, quando due gesuiti, il napoletano Francesco Buzzoni e il portoghese Diego Carvalho, approdarono a Tourane (Cocincina) e celebrarono la messa con un gruppo di cristiani giapponesi esiliati dal loro paese natale. L’anno seguente la comunità contava 300 neofiti.
La presenza missionaria era scarsa e discontinua, poiché tutto dipendeva da una nave portoghese, che ogni anno portava da Macao merci e doni ai sovrani del Tonchino e della Cocincina, i due regni ostili in cui, già in quel tempo, era divisa la penisola indocinese.
Nel 1626 altri gesuiti arrivarono ad Hanoi e avviarono l’evangelizzazione del Tonchino. Uno di essi era il pistorniese Baldinotti. Un giorno, questi assistette a una curiosa rappresentazione teatrale all’aria aperta per la popolazione cinese di Hanoi: un personaggio vestito da portoghese, con una pancia enorme, da cui entrava e usciva un piccolo vietnamita. Si fece spiegare la scena: era una parodia del battesimo cristiano, in cui si «rinasce portoghesi».

L’APOSTOLO DEL TONCHINO
Il vero fondatore della chiesa vietnamita fu il gesuita francese Alessandro de Rhodes (1583-1660). Esperto matematico, eminente linguista, padre de Rhodes arrivò a Hué nel 1625; due anni dopo passò ad Hanoi ed ebbe subito grande successo: con un orologio e un’opera di matematica di Matteo Ricci incantò il re, che fece edificare una chiesa ad Hanoi; battezzò la sorella del monarca; convertì nel primo anno 200 vietnamiti, in maggioranza bonzi, altri 2.000 nel secondo, più di 3.000 il terzo anno.
Ma nel 1630 fu espulso. Si stabilì a Macao, dove mantenne i contatti, tramite i missionari che potevano entrare nel paese, con i catechisti che vi aveva formato. Tra il 1640 e il 1645 toò in Cocincina e fu espulso altre tre volte: la terza fu imprigionato e bandito dal paese sotto pena di morte. E non mise più piede nel paese.
Inviato a Roma come procuratore (1649), sollecitò Propaganda fide perché ordinasse preti locali e istituisse la gerarchia, nominando vicari apostolici per l’Indocina, in modo da sottrarre l’attività della chiesa dal sistema del padroado portoghese. Fece conoscere in Italia e in Francia quel campo di missione, procurando personale e altri aiuti: dopo 50 anni di evangelizzazione c’erano 300 mila cattolici in Tonchino e altri 500 mila in Cocincina.
Tale successo è dovuto alla notevole bontà naturale della gente, che il missionario ricambiò con profondo e rispettoso amore. Per prima cosa, de Rhodes affrontò lo studio della lingua, arrivando a possederla perfettamente. Vero colpo di genio fu la trascrizione dei suoni della lingua parlata con le lettere dell’alfabeto latino, al posto degli ideogrammi cinesi, scrittura inaccessibile alle folle.
La lingua parlata, nella trascrizione in caratteri latini, permetteva la comunicazione delle idee religiose e le novità scientifiche dell’Occidente in modo comprensibile anche al popolo semplice. La stessa lingua diventò uno strumento letterario con cui i vietnamiti cominciarono a esprimere la propria cultura, attraverso opere scritte di religione, storia, poesia, legislatura…, per la prima volta staccata dalla letteratura cinese.
Sullo stile di adattamento praticato dai gesuiti a Pechino, padre de Rhodes si immerse totalmente nella vita e mentalità del popolo, per trovare i mezzi più consoni a trasmettere i valori evangelici: nella sua catechesi sfruttava gli elementi culturali locali, come poesia e spettacoli religiosi; rispettava i riti dei defunti, che riteneva «molto innocenti e senza danno per la santità della religione»; si preoccupava di presentare il messaggio cristiano in modo che non desse l’impressione di essere una dottrina straniera o una «legge dei portoghesi».
Geniale fu pure l’idea di evangelizzare i vietnamiti mediante i vietnamiti. A tale scopo fondò la Congregazione dei catechisti: li istruiva nella conoscenza e nella pratica della fede; li addestrava nella medicina; dava personalmente l’esempio, insegnando il catechismo e soccorrendo poveri e malati. Dopo un periodo di formazione, emettevano i voti di povertà, di celibato e obbedienza.
I catechisti vivevano nella stessa casa con i missionari e il personale della missione, formando una sola famiglia cristiana e apostolica. Oltre ad istruire la gente, esercitavano tutte le funzioni che non richiedevano il sacerdozio. Nasceva così una chiesa quasi autosufficiente dal punto di vista dell’evangelizzazione, che continuò anche in assenza dei missionari. Di fatto, dopo l’espulsione dei missionari dalla Cocincina (1645) e dal Tonchino (1663), furono i catechisti a mantenere viva la chiesa in Vietnam, nonostante le ricorrenti maree di persecuzioni e martirio.
centomila martiri
Alcuni incidenti banali offrono la chiave di lettura delle successive ostilità contro i cristiani: abbattutasi una forte siccità in una zona, la popolazione cacciò i missionari, con questa accusa: «Con il pretesto di insegnare la via del cielo, rovinano la nostra terra». Nella concezione vietnamita, infatti, cielo e terra erano elementi che esprimevano una visione della vita sulla quale era costruito l’intero tessuto sociale, che la predicazione cristiana sembrava mettere in pericolo.
Lo stesso de Rhodes e il compagno padre Márquez, per aver battezzato alcuni moribondi, furono accusati dagli stregoni di possedere «un’acqua di morte che avrebbe spopolato il regno». Nel 1629 il re del Tonchino emanò tre editti per proibire ai vietnamiti di farsi battezzare e di avvicinare i missionari, rimandati a Macao con la prima nave portoghese. L’accusa ai cristiani di minare le fondamenta dello stato dura ancora oggi.
Nella Cocincina gli olandesi sparsero una calunnia infame: i missionari di Macao erano l’avanguardia della conquista portoghese. Nel 1640 i missionari furono tutti espulsi. De Rhodes e compagni ritornarono a più riprese, finché il re proibì ai suoi sudditi di «abbracciare la legge predicata» dagli europei e di frequentare i missionari.
E cominciò la persecuzione. Nel 1645 il catechista Andrea, fu pescato in casa dei missionari e condannato alla decapitazione. La stessa sorte toccò a Ignazio e Vincenzo, altri due importanti catechisti. Un altro centinaio di cristiani persero la vita nelle ondate persecutorie che seguirono fino alla fine del secolo.
Le difficoltà della presenza di missionari stranieri rendeva più che mai urgente la creazione del clero locale. Nel 1668 arrivarono due vicari apostolici, che ordinarono preti due catechisti, uno in Tonchino e l’altro in Cocincina. Nello stesso periodo fu fondato l’istituto femminile delle «Amanti della croce».
Le ordinazioni si moltiplicarono per tutto il secolo seguente; si registrò una forte espansione cristiana, specie al nord. Ma proseguirono pure le persecuzioni, con fasi altee, prima in Cocincina, poi in Tonchino, facendo circa 30 mila martiri tra i cristiani vietnamiti e missionari stranieri.
I cristiani godettero di un periodo di relativa tolleranza a partire dal 1802, quando le due regioni furono riunite sotto un unico imperatore Gia Long. Questi salì al potere con l’aiuto di un contingente di soldati francesi, inviato su sollecitazione del vicario apostolico, mons. Pietro Pigneau de Behaine.
Alla morte di Gia Long (1820), il successore Minh Mang pose le basi per una nuova ondata di persecuzione. Dichiaratosi «figlio del cielo», padre e madre del suo popolo, pontefice, legislatore e giudice assoluto, impose al Vietnam una politica di isolamento e, nel 1833, ordinò a tutti i cristiani di «abbandonare» la religione straniera. E poiché questi non rinnegavano la fede, la persecuzione si abbatté su di loro con particolare virulenza in un clima di terrore.
Il terrore cessò nel 1840 e gli incidenti furono saltuari sotto il nuovo imperatore Thieu Tri. Gli successe Tu Duc (1847) che proclamò un’amnistia generale. Ma l’anno dopo scatenò una nuova persecuzione che, col trascorrere degli anni, sfociò in autentici massacri (1851-1862).
Nonostante le persecuzioni e uccisioni, distruzione di chiese ed esilio di cristiani, la missione perdurò, anzi fece progressi. In quasi 50 anni ci furono oltre 70 mila martiri, che, sommati a quelli del secolo precedente, fanno più di 100 mila. Di questa schiera di eroi, 117 furono beatificati in date differenti e tutti canonizzati nel 1988: 8 vescovi e 21 missionari stranieri, 37 preti indigeni, 20 catechisti e seminaristi, 1 suora e 20 altri cristiani.

DAL COLONIALISMO AL COMUNISMO
Con l’occupazione francese dell’Indocina (1886) cessarono le persecuzioni sanguinose. Ciò permise alla chiesa vietnamita di espandersi, fino a diventare la più importante tra le chiese in Asia (quasi il 10% della popolazione), dopo quella delle Filippine.
Ma non finirono le difficoltà per la comunità cattolica: da una parte la politica anticlericale della Francia del tempo ne condizionava il lavoro; dall’altra i nazionalisti vietnamiti continuavano a presentare il cristianesimo come una religione straniera, con l’aggravante, ora, del sospetto di favorire la colonizzazione.
Tali sospetti furono enfatizzati dal partito di Ho Chi Minh, tanto che, nel 1931, un prete vietnamita e alcuni cristiani furono massacrati dai comunisti in un villaggio dell’Annam.
Il peggio per i cristiani è cominciato con la fine del colonialismo (1955), quando il paese fu diviso in due: nel nord, nella «Repubblica democratica» di Ho Chi Minh, cominciarono subito le purghe contro coloro che non si mostravano entusiasti del nuovo regime, facendo 1 milione e mezzo di morti. I cristiani furono i primi bersagli.
Oltre 860 mila nord vietnamiti fuggirono nel sud: di essi più di 676 mila (75%) erano cattolici. L’esodo di altri milioni continuò negli anni seguenti e durante la guerra del 1963-75, periodo in cui i vietnamiti cattolici si sono dimostrati fortemente anti-comunisti e, quindi, favorevoli ai governi sostenuti dagli Stati Uniti.
La successiva unificazione del paese, nel 1975, sotto il regime comunista del nord, segnò un’ulteriore pagina di sofferenza e di emarginazione per i cattolici vietnamiti: chiusura di tutti i seminari e noviziati; confisca delle scuole; incarcerazione del vescovo coadiutore di Saigon, ingerenze del governo negli affari della chiesa, espulsione del delegato apostolico, impedimenti ai vescovi di comunicare con la Santa Sede.
Nel 1989 il card. Roger Etchegaray, inviato speciale del papa, poté visitare 10 delle 25 diocesi del Vietnam. Tale visita è servita in certo senso per sbloccare la situazione, avviando un dialogo col regime comunista. In seguito, una decina di delegazioni del Vaticano si sono recate ad Hanoi per trattare con il governo; nell’ultima, in giugno 2001, sembra che le autorità vietnamite si siano mostrate più aperte e cordiali rispetto alle visite precedenti.
Ora in Vaticano si parla di «segnali di buona volontà» provenienti da Hanoi. L’ultimo è del gennaio 2005: negli incontri tra il presidente vietnamita Tran Duc Luong e quello della camera italiana, Ferdinando Casini, in visita al Vietnam, Tran ha affermato che «non vi sono contrasti tra Hanoi e Vaticano» e che per i «rapporti diplomatici» tra i due è solo «questione di tempo».
I mezzi di comunicazione di stato hanno dato risalto a tale evento, usando espressamente i «rapporti diplomatici»: per alcuni sarebbe quasi un impegno da parte del governo vietnamita. Ma altri sospettano che si tratti della solita carota, per imbonire l’opinione internazionale e nascondere il solito bastone.
chiese piene
Negli anni successivi all’unificazione, la politica del governo marxista-stalinista mirava a distruggere la chiesa cattolica. Poi, sull’esempio della Cina, ha cercato di fondare una specie di chiesa patriottica, chiamata «Associazione dei cattolici patriottici»; ma senza successo: i pochi aderenti sono solo a Ho Chi Minh.
Non potendo sopprimerla, e grazie ai mutamenti politici seguiti alla caduta del muro di Berlino, lo stato non considera più la chiesa «oppio» del popolo, ma continua a essere sospettoso e cerca di asservirla alla sua causa, usando il bastone e la carota.
Alcune chiese e proprietà confiscate nel passato, ormai ridotte in uno stato fatiscente, sono restituite con solenni cerimonie ufficiali. In tali occasioni partecipano sempre eminenti personalità del regime, che elogiano e incoraggiano l’opera della chiesa, soprattutto perché si prende cura di handicappati, ospedali, lebbrosari, orfanotrofi, asili infantili e altre opere sociali.
Ma intanto lo stato continua a mantenere il pieno controllo su tutte le attività caritative, sociali, educative e culturali della chiesa, specialmente quelle rivolte ai giovani.
Ancora più asfissiante è il fiato del regime sul collo del personale ecclesiastico: lo stato controlla le nomine episcopali e le ordinazioni sacerdotali; gli spostamenti di vescovi, preti, religiosi, suore anche per fini pastorali; le ammissioni e la formazione dei seminaristi, alcuni dei quali devono aspettare anche 10 anni prima di poter essere ammessi.
Nonostante le restrizioni, continua la fioritura di vocazioni sacerdotali e religiose, specialmente nella vita consacrata femminile. In ogni diocesi sono almeno 100 giovani disponibili a entrare in seminario, ma i seminari concessi dal governo sono appena 6 e ciascuna diocesi non può mandarvi più di 10 seminaristi ogni due anni.
Ma il problema più grande, riguarda la formazione e l’aggioamento del clero. Il governo impone ai seminaristi lo studio della filosofia marxista-leninista, materia normalmente riservata ai membri del partito comunista.
Nonostante il clima di ostilità in cui vive, la chiesa vietnamita è viva, attiva, entusiasta della propria fede: la pratica religiosa è altissima (80-90%); i laici continuano con coraggio il loro impegno nella chiesa e nella vita sociale. Continuano le conversioni, perfino tra le fila degli impiegati statali, col rischio di perdere il lavoro o almeno di essere considerati impiegati di serie «B».

PROFEZIA A RISCHIO?
Un giorno il regime comunista sparirà anche dal Vietnam, come è avvenuto in altri paesi. Ma come sarà la chiesa vietnamita, quando riavrà la sua piena libertà? L’interrogativo che si pone anche padre Chan Tin, redentorista vietnamita di 84 anni.
Egli denuncia l’«arsenale giuridico» con cui il governo soffoca la libertà religiosa, ma lamenta anche la «rassegnazione» della chiesa vietnamita nell’accettare l’ingerenza del potere nei suoi affari, illusa dagli scampoli di apparente libertà.
«Il fatto che lo stato esige la sua previa approvazione nella formazione, nomina e collocamento interno alla chiesa – spiega padre Chan -, fa sì che quanti lavorano nella chiesa e per la chiesa siano, alla lunga, alla mercé del potere, pronti a conformarsi alle sue esigenze. Senza contare che, dai ruoli guida nella chiesa, rimangono escluse le persone più competenti e capaci di autentica testimonianza cristiana. Alla fine la chiesa diverrà a poco a poco un docile strumento nelle mani del potere. Una volta giunto a questo stadio, il potere potrà lasciarle libertà totale, perché essa non avrà altra capacità che quella di eseguire gli ordini del partito e dello stato».
Tale politica sottile e peiciosa, lamenta padre Chan, sta minando alla radice il carattere profetico della missione della chiesa, la quale si accontenta di vedere le chiese strapiene la domenica, ma che di fronte a certi casi di abuso di potere, rimane in silenzio o al più accenna a qualche timida protesta.
«La politica religiosa di questo regime sta snaturando la chiesa cattolica e le altre chiese del paese – confessa padre Chan -. Temo che quando esso sarà passato, la mia chiesa non sarà più una chiesa autentica; che essa non possa più andare a testa alta, fiera dei suoi sacrifici e del suo coraggio, come lo ha fatto nel passato, gloriandosi delle centinaia di migliaia di martiri».
Più ottimista è il messaggio che Giovanni Paolo ii ha affidato ai vescovi del Vietnam, durante la visita ad limina, alla fine di gennaio 2004. Per la prima volta il governo vietnamita ha «concesso» a tutti di recarsi a Roma. «Quando farete ritorno al vostro nobile paese – ha detto il papa -, fate sapere ai vostri sacerdoti, religiosi, religiose, catechisti, fedeli laici e specialmente ai giovani, che il papa prega per loro e li incoraggia ad affrontare le sfide che pone il vangelo, prendendo esempio dai santi e dai martiri che li hanno preceduti lungo il cammino della fede e il cui sangue versato rimane un seme di vita nuova per l’intero paese…
La vitalità e il coraggio dei laici vietnamiti che anche oggi vivono e celebrano la loro fede in condizioni spesso difficili, la decisione altrettanto coraggiosa dei sacerdoti nell’annuncio del vangelo, come pure la fioritura delle vocazioni alla vita consacrata, specialmente nella vita religiosa femminile, sono fattori molto importanti per il futuro della chiesa in questo paese dalla storia così spesso travagliata».

Benedetto Bellesi




DOSSIER VIETNAM Storie esemplari di persecuzione

Prigionieri… di coscienza

Controllo, repressione e persecuzione statale colpiscono tutte le comunità religiose e chiunque critichi il regime. Si può rischiare la prigione anche navigando su internet.

Thadeus Nguyen Van Ly,
prete cattolico di 59 anni, nel 2001 aveva inviato una lettera al Congresso americano, per chiedere un ritardo nella ratifica degli accordi commerciali bilaterali fra Stati Uniti e Vietnam, citando le violazioni dei diritti umani e le persecuzioni religiose compiute in Vietnam.
Arrestato e condannato a 15 anni di carcere, poi ridotti a 10, ha ottenuto recentemente da una corte locale un ulteriore sconto: 5 anni di prigione e altrettanti agli arresti domiciliari. L’agenzia di stato Vietnam News Agency ha riportato la motivazione: al padre è stata riconosciuta una «buona condotta in carcere».
A Hué si dice che in prigione padre Van Ly abbia scritto e firmato lettere inneggianti al socialismo vietnamita e alla politica del partito comunista. Secondo alcune persone che hanno potuto visitarlo, il sacerdote mostra segni di squilibrio mentale e potrebbe essere stato drogato al fine di «rieducarlo».
Anche la delegazione vaticana, guidata da mons. Piero Parolin, nel suo viaggio in Vietnam alla fine di aprile 2004, ha potuto parlare del caso Van Ly con le autorità di Hanoi. Per tutta risposta i rappresentanti del governo hanno mostrato le lettere di Van Ly che manifestano la sua «avvenuta rieducazione».
Ma vari gruppi americani per i diritti umani considerano padre Van Ly un prigioniero di coscienza e hanno fatto pressioni sul governo statunitense per il suo rilascio.
La notizia della riduzione della pena è arrivata proprio alla vigilia di una visita di rappresentanti dell’Unione europea in Vietnam, in occasione di un convegno sui diritti umani, nel quale si è parlato anche del trattamento dei prigionieri.

Giovanni Bosco Pham Minh Tri,
66 anni, monaco della Congregazione di Maria Corredentrice, è stato arrestato il 20 maggio 1987, insieme a una sessantina di altri cattolici, preti e laici, per aver organizzato corsi di formazione e aver distribuito pubblicazioni religiose senza il permesso del governo.
Processato nell’ottobre dello stesso anno, insieme ad altri 22 arrestati, è stato condannato per il solito reato: «Propaganda contro il regime socialista, minaccia per la politica di unità e di sicurezza nazionale». Condannato a 20 anni di reclusione, continua a scontare la pena nelle patrie galere di Xuan Loc, provincia di Dong Nai, insieme al confratello laico Nguyen Thien Phung. Il padre soffre di disturbi mentali.
Nguyen Hong Quang,
pastore della chiesa mennonita, è stato arrestato l’8 giugno 2003. Mentre si trovava in casa, nella periferia di Ho Chi Minh, con un gruppo di scout, 30 poliziotti hanno circondato l’abitazione e dopo averlo arrestato, hanno sequestrato il suo computer, carte personali e numerosi documenti, compresi i casi di violazione dei diritti umani di cui Quang si stava occupando.
Il pastore è stato accusato di «istigazione e resistenza a pubblico ufficiale» e condannato a tre anni di carcere, insieme a 5 «complici», condannati a pene tra i 9 mesi e i 2 anni di prigione. Al processo, concluso in una sola giornata, non sono stati ammessi testimoni di difesa né giornalisti. L’accusa si riferisce alla protesta di Quang e decine di suoi fedeli contro l’arresto di 4 pastori mennoniti, avvenuta nel marzo 2004.
Quang, 45 anni, è segretario generale della chiesa mennonita in Vietnam, non approvata ufficialmente dal governo. Avvocato, ha difeso i contadini delle province e denunciato gli arresti di dissidenti politici e religiosi. In particolare, egli aveva scritto e pubblicizzato via internet un rapporto su uno dei più noti prigionieri cristiani, padre Nguyen Van Ly.
La domenica 21 novembre 2004, mentre la moglie del pastore, Le Thi Phu Dung, guidava un servizio religioso nella propria casa, sono intervenuti 40 poliziotti e hanno interrotto la funzione con la forza, denunciando tutti i presenti per «incontro illegale» e «uso di abitazione a scopo religioso».
L’incursione della polizia è solo l’ultimo di una serie di intimidazioni e denunce contro la donna protestante, già fatta oggetto di minacce, se non metteva fine alle sue attività religiose.
La situazione di alcune comunità protestanti, come quella mennonita, è un esempio emblematico della politica repressiva del governo contro la libertà di fede: le attività religiose sono permesse solo in luoghi approvati dallo stato e guidate da capi autorizzati; ma il governo continua a negare spazi e permessi per la costruzione di nuove chiese e luoghi di culto, per cui molte denominazioni cristiane usano le abitazioni private per incontri di preghiera.

Nguyen Vu Binh
giornalista, è stato arrestato il 25 settembre 2002 nella sua abitazione di Hanoi; il 31 dicembre 2003 è stato condannato a 7 anni di carcere e 3 di arresti domiciliari. Poco prima del suo arresto aveva scritto un articolo in cui criticava gli accordi in materia di confini con la Cina, nei quali il governo aveva ceduto un pezzo di Vietnam.
Dopo aver lavorato per quasi 10 anni al Tap Chi Cong San, pubblicazione del Partito comunista vietnamita, Binh aveva lasciato la sua posizione per partecipare alla formazione di un gruppo d’opposizione indipendente, chiamato Liberal Democratic Party e da allora aveva scritto numerosi articoli per criticare l’attuale linea di governo e chiedere una riforma politica. Ma il documento ufficiale della sentenza diceva che Binh era in possesso di «documenti scritti che chiedevano un intervento esterno negli affari interni del paese».
All’inizio dello scorso anno, la Corte suprema ha respinto il suo ricorso in appello, riconfermando la pena a 7 anni di carcere per spionaggio. «Per me, o la libertà o la morte – ha dichiarato Binh dopo aver udito la sentenza -. Se le autorità non mi rilasceranno, inizierò uno sciopero della fame».
Secondo le fonti del Cpj, infatti, Binh avrebbe rifiutato di mangiare dalla fine del processo. Il giornalista è attualmente detenuto nel carcere New Hoa Lo di Hanoi.

Do Nam Hai,
è uno scrittore. Negli ultimi 5 mesi del 2004 é stato arrestato ripetutamente e sottoposto a vari interrogatori anche in pubblico. Il 6 agosto la polizia lo aveva trattenuto per due giorni; il 3 dicembre è rimasto in carcere per 24 ore. Un uomo, poi identificato dallo scrittore come un poliziotto, avrebbe sequestrato il computer di Do Nam cancellando vari documenti.
Durante il 2000 e il 2001, Hai si era trasferito in Australia, dove sotto pseudonimo aveva scritto e pubblicato in internet una serie fortunata di articoli sulla storia e sulla politica del Vietnam. Negli articoli proponeva alcune idee per arrivare a una riforma pacifica e chiedeva alle autorità più democrazia e, soprattutto, l’adozione di un sistema formato da più partiti politici.
Il 10 dicembre scorso Hai ha scritto una lettera aperta alle autorità denunciando tutte le difficoltà che ha dovuto affrontare negli ultimi mesi. «Avete definito i miei articoli contro rivoluzionari, contro il partito e contro il governo, ma io la penso diversamente: credo che sia materiale per la democrazia» dice nella lettera.
Secondo la testimonianza del Cpj, le pressioni sullo scrittore sono cresciute dall’inizio del 2005 e si teme un nuovo arresto.

Thich Huyen Quang,
supremo patriarca della chiesa buddista unificata del Vietnam (Ubcv), è agli arresti domiciliari quasi ininterrottamente dal 1977. Il suo vice, Thich Quang Do, condannato a due anni di domicilio coatto, fu rilasciato a giugno scorso. Ma nel mese di ottobre, tutti e due sono stati rimessi agli arresti domiciliari in località diverse, insieme ad altri 30 importanti monaci.
Il venerabile Thich Huyen Quang, all’età di 87 anni, continua a essere considerato un pericolo da parte del governo. Recentemente, ricoverato in ospedale, gli è stato impedito di ricevere le visite dai suoi monaci.
Ai primi di novembre, un gruppo di giovani del movimento «La famiglia buddista» erano in partenza per un pellegrinaggio in India, per visitare i luoghi sacri del buddismo: al momento dell’imbarco, sono stati prelevati e interrogati all’interno dell’aeroporto di Ho Chi Minh e poi rispediti ai propri monasteri.
Il viaggio era stato organizzato già da un anno e i pellegrini avevano espletato tutte le formalità necessarie per ottenere passaporto e visto. La polizia ha spiegato che il viaggio era stato annullato «per questioni di sicurezza nazionale», senza chiarire quali fossero i pericoli concreti. È probabile che si sia voluto impedire ai giovani vietnamiti di partecipare al congresso di Bodh Gaya in India, dove avrebbero incontrato i connazionali di movimenti buddisti americani, canadesi, europei e australiani.
Intanto il governo continua a vietare e scoraggiare la partecipazione alla Ubcv e richiedere ai monaci di passare sotto l’egida della chiesa centrale buddista, aggiogata al regime.

Guyen Dan Que,
endocrinologo di 63 anni, è uno dei più noti attivisti per la democrazia in Vietnam. È stato arrestato il 17 marzo 2003, per aver mandato un documento a un parente negli Stati Uniti da un internet cafè. Nel documento egli sosteneva la necessità di riforme politiche e garanzie dei diritti umani in Vietnam e criticava la gestione della libertà di informazione da parte del governo.
Il 29 luglio è stato condannato a 2 anni e mezzo di carcere, per «abuso di libertà democratiche antigovernative». Quindi è stato trasferito a quasi 2 mila km a nord di Saigon e rinchiuso nel carcere di Lam Son, noto per essere un campo di lavori forzati per criminali.
La sorella, Quan Nguyen, ha raccontato in che modo le autorità hanno disposto il trasferimento: «Hanno avvertito la moglie di Que di portare più medicine e soldi perché lo stavano portando lontano da Saigon. Lui non sapeva nulla. In questo modo vogliono isolarlo, nella speranza di mettere a tacere la sua voce».
Dopo il trasferimento le autorità vietnamite hanno rifiutato alla moglie il permesso di visitare il marito; il viaggio richiede comunque più di 2 giorni. Non è possibile parlare con lui telefonicamente e in molti temono la noncuranza dei carcerieri verso la sua salute precaria: soffre di ipertensione, ulcera e calcoli renali.
Quella di Dan Que è una storia esemplare: ha già scontato più di 20 anni di prigione, torture, arresti domiciliari a causa dei suoi appelli pubblici per un sistema politico multipartitico e la fine della censura in Vietnam. Nel 1978 fu incarcerato senza processo per aver criticato il sistema politico del paese. Rilasciato, ha fondato High Tide Humanism (Marea dell’Umanesimo), movimento moderato e non violento per l’affermazione dei diritti umani in Vietnam.
Medico da sempre impegnato a favore dei poveri, ha istituito una clinica basata sul lavoro di volontari, si è battuto per il miglioramento del sistema carcerario, per i diritti umani e per le minoranze etniche nel paese. Ha chiesto al governo vietnamita di investire di più nelle politiche sociali e di ridurre la grandezza dell’esercito.
Nuovamente arrestato nel giugno 1990 e, sempre senza essere processato, è rimasto in carcere fino a settembre 1998, quando fu costretto agli arresti domiciliari, sotto costante sorveglianza, con restrizioni su spostamenti e uso di ogni mezzo di comunicazione.
Nel 2004, l’Accademia delle scienze di New York gli ha assegnato il premio Pagels per i diritti umani degli scienziati. La motivazione: «Per il suo sforzo di migliorare la vita quotidiana della gente e promuovere una transizione pacifica verso la democrazia e la libertà in Vietnam».
Il Vietnam è attualmente uno dei 53 membri della Commissione per i diritti umani dell’Onu. Quindi ha ratificato la Convenzione internazionale sui diritti politici e civili che, in base all’articolo 19, protegge il diritto individuale di «dare, ricevere e scambiare informazioni o idee di ogni genere e tipo senza limiti di frontiere, sia oralmente, in forma scritta o stampata, o attraverso ogni altro mezzo di comunicazione».

Asia news e Comimitee to protect Joualists




DOSSIER VIETNAM -I Montagnard: i più tartassati e… dimenticati

CACCIA APERTA… AL CRISTIANO

I francesi li chiamarono montagnard (montanari)
e gli americani storpiarono il nome in yards;
i vietnamiti li chiamano moi (selvaggi)
e il governo nguoi dan toc (popolo tribale).
Essi si definiscono degar, «figli delle montagne». Sono uno dei popoli più antichi del sud-est asiatico e vivono nella penisola indocinese da oltre 2 mila anni.

I montagnard rappresentano una quarantina di differenti gruppi aborigeni, appartenenti ai ceppi linguistici mongolo-tibetano e malese-polinesiano. La maggioranza vive nel Vietnam centrale; numerosi sono in Cambogia, molto meno in Laos. I due gruppi principali sono i bahnar (circa 400 persone) e i jarai (300 mila), seguono i rhade, koho, sedang, bru, pacoh, katu, jeh, cua, halang, hre, rongao, monom, roglai, cru, mnong, lat, sre, nop, maa, stieng…

TRA DUE FUOCHI
I montagnard non sono sempre stati sulle montagne. Più di 2 mila anni fa, occupavano gran parte del sud dell’Indocina, da Hué a punta Ca Mau. Sui monti furono spinti progressivamente dall’espansione di popolazioni più forti e numerose: dal sud i cham, di origine hindu, dal nord i vietnamiti, di origine cinese.
Alla fine del secolo xvii, quando i vietnamiti conquistarono anche il regno meridionale dei cham, i montagnard si trovarono definitivamente relegati tra gli altipiani centrali del Vietnam, dove trovarono rifugio e vissero in pace per molte generazioni, sviluppando le coltivazioni e l’allevamento del bestiame.
I vietnamiti, pur continuando la loro espansione, non si avventurarono mai tra i monti, anche perché li credevano infestati da spiriti, che avvelenavano i ruscelli che scendevano da quelle montagne, provocando la malaria.
Gli unici a entrare e vivere nel loro territorio furono i missionari, che vi impiantarono scuole e avviarono l’evangelizzazione.
I francesi fissarono i confini tra la colonia vietnamita e i due regni di Cambogia e Laos, sotto il proprio protettorato, frenando così l’espansione dei vietnamiti. Nel 1895 entrarono anche nel territorio dei montagnard, ma riconobbero loro il diritto sulle terre che occupavano e coltivavano. Nei negoziati del 1946, fu ratificato il diritto di essere nazione, chiamata Pays montagnards du Sud Indochinois (paese dei Montagnard dell’Indocina del sud).
Nella prima guerra indocinese tra francesi e indipendentisti (1946-54), i montagnard furono presi tra i due fuochi e, con la fine del colonialismo, videro i vietnamiti prendere il controllo del loro territorio, si sentirono chiamare moi (selvaggi) e subirono lo stesso trattamento avuto dagli indiani in America o dagli aborigeni in Australia: massacri, sfruttamento delle risorse, privazione di ogni diritto.
In quegli anni la popolazione dei montagnard contava 3 milioni di persone. Se avesse avuto la possibilità di crescere con lo stesso tasso di incremento del resto del paese, oggi sarebbe più che raddoppiata. I superstiti sono tra i 700 e gli 800 mila.
La resistenza
Finita la prima guerra indocinese i montagnard non volevano stare con il Vietnam del nord e neppure con quello del sud. Nel 1957 nacque il movimento Bajaraka, che chiedeva pacificamente l’autonomia del loro territorio. Il governo sud-vietnamita, però, represse brutalmente il movimento e imprigionò i loro leaders.
Durante la seconda guerra di Indocina (1963-1975), i montagnard si dimostrarono fortemente anticomunisti e si schierarono con i governi sostenuti dagli statunitensi. E quando gli americani entrarono in guerra, 40 mila montagnard si arruolarono dalla loro parte, nella speranza di vedere riconosciute le richieste di autonomia politica, sociale e culturale.
Il territorio diventò un sicuro rifugio per l’esercito vietnamita e i montagnard si trovarono di nuovo tra due fuochi: l’85% dei loro villaggi furono rasi al suolo da bombardamenti e rappresaglie d’ambo le parti.
Nel 1969, tra le popolazioni cristiane delle montagne nacque un altro movimento: il Fronte unificato di lotta delle razze oppresse (Fulro). Tale movimento rappresentava politicamente le minoranze etniche presso il governo di Saigon e faceva parte di quella «terza forza», che manifestava per la pace e non voleva né il governo militare filoamericano né un regime comunista come nel Vietnam del nord.
La vittoria dei comunisti spazzò via tutte le formazioni pacifiche e democratiche: il Fulro, insediatosi in Cambogia, continuò la resistenza militare fino al 1992, quando gli ultimi 400 membri furono consegnati alle Nazioni Unite.
Oggi 800 montagnard, rifugiati negli Usa, continuano a tener desta la speranza di libertà di quelle centinaia di migliaia di connazionali sopravvissuti ai genocidi e che non hanno mai accettato di sottostare al giogo del regime comunista, nonostante le decisioni prese dalla comunità internazionale.

COLPEVOLI DI ESSERE CRISTIANI
A Kontum, nel cimitero dell’istituto delle Missioni estere di Parigi, si possono contare più di 200 tombe di missionari e suore francesi che hanno dato la vita per gli indigeni. I missionari cattolici e protestanti, infatti, sono stati quasi gli unici, con alcuni funzionari dell’epoca coloniale, a interessarsi di loro, aprendo scuole e ospedali, istituti tecnici e professionali.
Gran parte dei montagnard sono cristiani. Negli anni ‘70 essi costituivano quasi il 40% dei cristiani sudvietnamiti. Le diocesi di Kontum, Ban Me Thuot e Dalat avevano propri sacerdoti e parrocchie, con tante conversioni e vocazioni.
Con la riunificazione del paese e il trionfo di Ho Chi Minh (1975), il regime comunista di Hanoi ha nazionalizzato le terre dei montagnard, non riconoscendo nessun diritto sui territori che abitavano da millenni. Centinaia di villaggi sono stati distrutti e spostati su terre meno fertili per far posto alle piantagioni di caffè di proprietà dello stato.
Il governo comunista non li ha mai sopportati, prima perché si erano alleati con gli americani, poi perché molti di loro sono cristiani e adesso anche perché l’unico interesse del governo è prendere le loro terre.
Mai rassegnati al regime oppressivo e persecutorio, i montagnard hanno fatto numerose manifestazioni pubbliche per reclamare l’indipendenza e il ritorno alle loro terre ancestrali e alla libertà religiosa.
Nel febbraio 2001, 20 mila persone manifestarono contro il governo. Ma secondo alcuni, è possibile che il governo abbia ordinato ai suoi quadri di suscitare tali proteste, per poter decimare tutti i capi dei montagnard, attirandoli nella trappola.
Sta il fatto che, con l’impiego di migliaia di poliziotti e soldati, i manifestanti furono dispersi; alcuni rimasero uccisi e, nelle settimane seguenti, centinaia di leader politici e religiosi furono arrestati e poi condannati a pene comprese fra i 3 e 12 anni di prigione.
L’organizzazione Human Right Watch (Hrw) ha documentato gravissime violazioni dei diritti umani ai danni della popolazione dei montagnard: arresti, detenzione e interrogatori arbitrari, torture della polizia e, più in generale, ripetute violazioni dei diritti alla libertà religiosa, restrizioni sui viaggi; rimpatri forzosi di coloro che avevano cercato di fuggire nella vicina Cambogia. Sempre secondo Hrw un centinaio di persone sono ancora detenute a causa di quella manifestazione.

«PASQUA DI SANGUE»
Più spietata fu la repressione della vigilia di pasqua, 10 aprile 2004. Oltre 130 mila cristiani, provenienti dai più sperduti villaggi, avevano raggiunto Buon Ma Thuot, capoluogo provinciale degli altipiani, per pregare e protestare pacificamente davanti agli edifici del partito comunista vietnamita contro la repressione religiosa e la confisca delle loro terre. Lo slogan era: «Felice giorno, Cristo è risorto!».
Le forze governative impedirono il raduno con le armi, causando centinaia di feriti e 10 morti (2 secondo il governo). La «pasqua di sangue» fu seguita dalla «caccia al cristiano», facendo salire a 400 il numero dei morti, secondo il Partito radicale.
L’incertezza delle cifre è dovuto al fatto che il governo ha chiuso l’area a tutti gli stranieri e giornalisti. Ma le notizie trapelano attraverso i fuggiaschi che riescono a raggiungere Phnom Penh, in Cambogia, dove esiste un rifugio per loro, sotto la protezione delle Nazioni Unite.
Centinaia di manifestanti sono stati arrestati, processati e condannati a vari anni di prigione a seconda delle accuse: turbativa dell’ordine pubblico, resistenza alla polizia, incitamento alla protesta, favoreggiamento della fuga oltre confine, attentato alla sicurezza e unità nazionale… I processi sono ancora in corso; l’ultimo di cui si ha notizia ha avuto luogo nel gennaio scorso.
Testimoni oculari, intervistati nei campi dei rifugiati in Cambogia, hanno parlato anche di uccisioni, varie forme di «crocifissione», iniezioni letali, pestaggi, trattamenti degradanti, cerimonie pubbliche in cui sono imposte dichiarazioni di fedeltà alla bandiera vietnamita e di ripudio della fede cristiana.

DIMENTICATI DA TUTTI
Nonostante l’allontanamento di preti, pastori e missionari, i montagnard continuano a tenere viva la loro fede grazie all’attività dei laici; seguono la preghiera liturgica ascoltando Radio Veritas, che ritrasmette da Manila i programmi della redazione vietnamita della Radio vaticana. In vari villaggi hanno ricostruito chiese di legno al posto di quelle distrutte dalla furia comunista.
Ma, più delle atrocità di cui sono vittime, i montagnard paventano il silenzio che regna sulla loro sorte. Non è solo il regime a nascondere i propri misfatti; ma anche l’opinione pubblica internazionale resta insensibile alle loro sofferenze. I paesi occidentali continuano a firmare accordi di cooperazione con il Vietnam, che includono solenni clausole sul rispetto dei diritti umani; dopo di che le clausole vengono ignorate e i finanziamenti arrivano regolari a foraggiare la tirannia.
C’è di più: i cristiani montagnard si sentono dimenticati anche dai loro fratelli di fede.

Benedetto Bellesi




DOSSIER VIETNAM -Intervista a Marie Tran Thi Huyen, missionaria laica

FARSI ABORIGENI FRA GLI ABORIGENI

Missionaria laica vietnamita, 67 anni, Marie Tran Thi Huyen lavora da 40 anni tra i chau ma e k’ho, gruppi etnici delle regioni montuose attorno a Bao Loc.
Intervistata da Uca News, parla della esperienza ed esigenze di adattamento alla vita della gente nei villaggi indigeni.

Ci racconti qualcosa della vostra équipe di lavoro.
Il nostro gruppo, chiamato «Famiglia dei testimoni di Cristo» è formato da 15 persone e fa parte del Centro di evangelizzazione degli aborigeni di Bao Loc, fondato dal padre Laurence Pham Giao Hoa, 85 anni, che dal 1958 svolge l’attività missionaria tra le minoranze etniche della regione.
È un gruppo laicale, ma i suoi membri, che da molti anni si sono uniti a padre Hoa, hanno scelto volontariamente di vivere una vita di celibato e povertà al servizio dell’evangelizzazione delle minoranze etniche. Nel 2002 il nostro gruppo è stato ufficialmente riconosciuto dal vescovo di Da Lat.

Qual è il vostro metodo di evangelizzazione?
In generale non rimaniamo sempre nello stesso posto, ma ci spostiamo di villaggio in villaggio. Scegliamo una famiglia presso cui dimorare. Lavoriamo insieme, mangiamo e dormiamo sul pavimento di bambù, intorno al fuoco come tutta la famiglia.
Poi cerchiamo di incontrare e conoscere altre famiglie, di guadagnare la simpatia e la fiducia delle persone più importanti della comunità, specie i gia lang, i capi villaggio.
Una volta che la gente ha iniziato a considerarci come membri delle loro famiglie, è più facile che si apra all’ascolto di quanto vogliamo comunicare loro. A questo punto iniziamo a usare immagini cattoliche per spiegare i fondamenti del catechismo e la figura di Gesù, e cerchiamo dei laici cattolici kinh (maggioranza vietnamita) che possano essere buoni padrini dei catecumeni. I semi del vangelo sono cresciuti in questo modo.
Inoltre, abbiamo un buon numero di collaboratori che ci aiutano nell’insegnamento del catechismo alle minoranze etniche che appartengono alle 25 parrocchie di Bao Loc.

Quali altre attività portate avanti nei villaggi?
Insegniamo canti e catechismo agli adulti e ai bambini, prepariamo le coppie al matrimonio, aiutiamo le donne durante il periodo della gestazione, al momento del parto, curiamo i loro bambini e accompagniamo gli infermi all’ospedale. Inoltre, insegniamo alla gente a confezionare i propri abiti e aiutiamo le spose ad acconciarsi i capelli e farsi belle. Soprattutto ci uniamo alla gente nel lavoro nei loro campi.

Quali sono le sfide che avete affrontato?
La difficoltà più grande è la malaria. Io stessa sono stata più volte in fin di vita a causa di questa malattia. Prima del 1975, in piena guerra, era terribilmente pericoloso evangelizzare nelle comunità indigene. I soldati Sud e Nord Vietnam ci tenevano entrambi sotto controllo e ci minacciavano: sospettavano che lavorassimo come spie. I comunisti ci arrestarono tre volte, minacciando di ucciderci. Ci proibirono categoricamente di continuare il nostro lavoro religioso nei villaggi indigeni.
Dopo il 1975 non fummo più arrestati; ma continuarono le restrizioni dei nostri movimenti e attività. Tuttavia siamo ritornate nei villaggi di nascosto e abbiamo continuato a predicare la buona notizia ai nostri fratelli e sorelle indigene. Alcuni catechisti locali ci hanno aiutato nell’insegnare il catechismo e in altre attività apostoliche.

Incontrate difficoltà nel vivere in mezzo agli indigeni?
Non è facile abituarsi al loro stile di vita. Anche condividere un pasto con loro a volte è un grande problema: essi puliscono i piatti con le loro gonne; mangiono il riso condito con sale grosso, pesce essiccato di basso prezzo, mam (salsa di pesce) e sangue di bufalo. Alcuni anni fa, a una esponente del nostro gruppo fu offerto un piatto di girini, cucinati in salsa di pesce.
Inoltre, dobbiamo rispettare le loro credenze e costumi tradizionali: essi credono che la vita delle persone, soprattutto dei malati, dipenda dagli yang (divinità) e sia sotto il loro influsso. I parenti dell’infermo uccidono un pollo o una capra come offerta agli yang; il sangue dell’animale viene spalmato sulla fronte del paziente, sulle porte e su un altare. Spesso il malato è portato allo sciamano per essere sottoposto alle sue cure, compensate con qualche dono.
Quando muore qualcuno, gli abitanti del villaggio non possono visitare la famiglia del defunto per 100 giorni per paura della morte. Tutte le cose appartenenti al defunto vengono poste accanto alla tomba, il corpo avvolto in fasci di bambù e trasportato al cimitero.
Intanto insegniamo alla gente, passo dopo passo, come curare l’igiene personale, come trattare il cibo in modo sano e accudire ai malati con uno spirito di servizio.

Cosa le ha insegnato l’esperienza vissuta nelle comunità indigene?
Prima di tutto che dobbiamo farci indigeni fra gli indigeni: vivere con loro, mangiare con loro, parlare il loro idioma e, soprattutto, dobbiamo amarli. Sono molto contenti che impariamo la loro lingua e si sentono orgogliosi quando possono insegnarcela. Questa è senza dubbio la via più rapida per conquistarsi l’affetto e la fiducia della gente.
Quando andiamo in un villaggio e parliamo la lingua del posto, siamo accolti come parenti. Se domandiamo qualcosa in vietnamita, la gente spesso tace o evita di rispondere.
Sono persone che non amano i ragionamenti complessi, formalità e cerimonie. Sono semplici, onesti, molto sinceri e fedeli. Per questo non possiamo mai tradire la loro fiducia. Se si manca, anche una sola volta, alla parola data, si perde per sempre la fiducia che hanno posto in noi.
(da Asia Focus)

Asia Focus




DOSSIER NUOVI ITALIANINon eravamo tanto amati

Un tempo non lontano l’Italia era un paese di emigrazione. Fuori dei confini geografici, oggi vivono almeno 60 milioni di connazionali. Nel frattempo, siamo divenuti terra d’immigrazione. E in molti storcono il naso, alzano la voce, o sbattono la porta, non sapendo o fingendo di non sapere la nostra stessa storia.

Lo schermo della sala video di una scuola superiore di Torino proiettava due immagini in bianco e nero così simili da sembrare prese da una stessa fonte. Nella prima, una poverissima famigliola di migranti, composta da madre e tre figli, era ferma sul marciapiede di una stazione; per terra si vedeva una valigia sgualcita e legata con una corda; sulle spalle del figlio maggiore faceva capolino un sacco a righe; sguardi schiusi in un sorriso di speranza si perdevano dentro l’obiettivo del fotografo. Nella seconda, un altro gruppo di migranti appoggiati a transenne di contenimento aspettava il proprio tuo, presumibilmente davanti a un ufficio immigrazione.
Perplessi i trenta ragazzi cercavano di dare un’identità nazionale alla mamma e ai suoi tre figli: «Sono degli zingari rom», proponeva uno; «No, sono marocchini», gli faceva eco un’altra; «Ma dai, sono albanesi!», incalzava un terzo; «Tunisini, sono tunisini», rispondeva il compagno dall’ultima fila; «A me sembrano iracheni», «Curdi?», insinuavano altri due.
«Italiani. Sono italiani. Nostri connazionali. Migranti di inizio Novecento» – spiegava infine l’insegnante -. «La seconda foto è invece recente e ritrae dei cittadini immigrati in Italia. Lo sapete vero che eravamo un paese di emigranti, gente povera che se andava via all’estero, nelle Americhe, in Francia, in Germania, per trovare un lavoro con cui mantenere la famiglia lasciata in patria?».

Già, siamo ex emigrati – i nostri connazionali nel mondo sono circa 60 milioni, un’altra Italia, dunque -, persone spesso abituate a svolgere professioni modeste, quelle che gli abitanti dei paesi che ci ospitavano non volevano più fare, o quelle che spettavano agli schiavi, successivamente liberati.
Abitavamo in tanti in uno stesso appartamento misero e sporco; quando ce lo permettevano e le nostre condizioni miglioravano, ci facevamo raggiungere da mogli, mariti, figli e genitori. Ricongiungevamo così le nostre famiglie spezzate, magari dopo anni di duro lavoro, e allora, con un po’ di benessere nelle tasche, ci compravamo il vestito bello con cui farci fotografare nella bottega del quartiere più carino della città e mandavamo la nostra immagine sorridente e decorosa ai nostri parenti rimasti al paese natio. Che gioia quando uno dei nostri figli si laureava in quel luogo straniero! La nostalgia di casa ci riempiva di gioia e di orgoglio: di senso finalmente offerto alla nostra struggente lontananza. Erano le radici che germogliavano in angoli del mondo a noi spesso ostili. I nostri sacrifici cominciavano a dare frutti e avrebbero assicurato una vita agiata alla nostra discendenza.
Non eravamo sempre amati, noi italiani all’estero: ci gridavano «mafiosi», «spaghetti» e «pizza». Dicevano che dovunque andassimo portavamo criminalità e malattie. Ma noi volevamo solo lavorare, migliorare quell’esistenza misera che avevamo lasciato nelle nostre campagne o nelle nostre valli, o nei rioni più poveri delle nostre città.
Ricordi, racconti, immagini. Memorie racchiuse in molte delle nostre famiglie. Ora dimenticate. Rimosse. Adesso ci sentiamo i padroni del mondo, o semplicemente «gli amici cari dei padroni del mondo». Dalle copertine di giornali e riviste, e dalle pagine di libercoli best-seller, spesso gridiamo il nostro «vade retro» ai nuovi immigrati, nostri fratelli odiei di sventure passate. Li descriviamo come «orde pronte a invaderci e a sporcarci le strade. A colonizzarci. A islamizzarci. A portarci ogni sorta di epidemie e di disastri». Il cavallo di Troia astutamente posto nelle terre dei discendenti degli antichi celti e romani. In realtà, capri espiatori delle politiche economiche e sociali di una classe dirigente senza etica e senso dello stato, che, servendosi del potere concesso dai mezzi di informazione, tuona semplice e stupida propaganda.

Certo, in questo bel paese spaccato in due tra nuove povertà e nuove ricchezze ostentate con sfacciataggine, in quest’Italia rimbalzata indietro di decenni in ogni campo, ma soprattutto in quello politico – culturale – economico, il momento storico non è dei più favorevoli per parlare di «incontro di civiltà» e di integrazione. Per raccontare delle seconde generazioni di immigrati: quelle che stanno crescendo a fianco dei nostri figli, che stanno arrivando a seguito dei ricongiungimenti familiari; che giungeranno o che nasceranno nei prossimi anni.
Il contesto non è dei migliori, forse per questo abbiamo voluto parlarvene attraverso le pagine di questo nostro dossier. Perché la memoria del passato è il miglior deterrente contro gli errori del presente e del futuro.
Angela Lano

Angela Lano




DOSSIER NUOVI ITALIANITutti i colori del mondo

Sono cinesi, peruviani, rumeni, maghrebini, mediorientali, africani, filippini. Le aule italiane sono sempre più colorate. I problemi aumentano, ma anche le speranze per un futuro veramente multietnico e dunque più ricco.

Torino, quartiere San Paolo. Il vecchio borgo operaio è ora diventato un rione ad alta densità di immigrati inseriti nel mondo del lavoro. L’epoca è diversa e anche le speranze: allora la città era in pieno boom economico, ora è in espansione edilizia e recita un copione di falso benessere truccando la propria immagine con mille nuovi cantieri, spot e cartelli pubblicitari a cui nessuno più crede.
Il San Paolo era un quartiere proletario socialmente attivo, e tale è rimasto: i nuovi proletari sono adesso gli immigrati da un «meridione» ancora più a sud. Gente che sgobba dalla mattina alla sera e che vuole costruirsi un futuro migliore di quello lasciato in patria (ammesso che le strette e spesso inumane maglie della legge Bossi-Fini, glielo permettano).
Sono peruviani, rumeni, maghrebini, mediorientali, africani subsahariani, filippini, cinesi ecc. Molte le giovani coppie, con figli che frequentano le scuole del quartiere.

NELLA SCUOLA NASCE L’ITALIA MULTIETNICA
Elementare Santorre di Santarosa: 102 bambini stranieri su un totale di circa 600 in età fra i 6 e gli 11 anni. In ogni classe ci sono dai 5 ai 12 piccoli immigrati su una media di 24 alunni.
Una scuola pilota nell’ambito dell’intercultura, con un «collettivo di docenti» motivato e attento alle esigenze dei vecchi e nuovi alunni, che ha saputo trasformare l’emergenza scolastica quotidiana in un esperimento di inserimento ben riuscito.
Il primo programma di Integrazione linguistica e culturale degli alunni stranieri è nato nel 2000. Le insegnanti della scuola elementare si erano confrontate con i colleghi della media vicina e avevano compreso di avere gli stessi problemi di inserimento scolastico: ragazzini che arrivavano dai paesi d’origine a metà anno, senza alcuna competenza nella nostra lingua, con tradizioni e abitudini completamente diverse che davano adito a incomprensioni e a difficoltà relazionali.
Era nato così un «progetto in rete», finanziato dalla circoscrizione, che prevedeva la presenza di mediatori che lavoravano in entrambe le strutture.
Negli anni successivi il progetto è stato inserito all’interno dei finanziamenti statali («per scuole ad alto flusso di immigrati») e regionali («inserimento stranieri e prevenzione del disagio scolastico»).
Le difficoltà avvertite dalle maestre erano causate anche dalle differenze culturali che agivano nella quotidianità, dalla mancanza di conoscenza di usi e costumi dei paesi di provenienza dei giovani scolari e delle regole educative in cui erano cresciuti.
«L’esperienza è iniziata con i cinesi – racconta Feanda Torsello, insegnante e responsabile del progetto interculturale di “Integrazione linguistica e culturale degli alunni stranieri” -. Erano i figli dei ristoratori. Poi, negli anni, sono arrivati i bambini arabi, latinoamericani, africani, e così via. Il primo boom è stato sei anni fa: avevamo parecchi maghrebini inseriti nelle prime classi».
«Alcuni mangiavano seduti per terra a gambe incrociate – aggiungono altre maestre -, com’erano abituati nelle loro case d’origine, dove i tavolini sono spesso bassi e ci si siede su cuscini o tappeti. Rifiutavano diversi cibi e c’era il problema di sostituire alcuni piatti con i pasti alternativi senza insaccati a base di maiale. Ora è più semplice, anche se le difficoltà continuano, soprattutto quando i bambini arrivano a metà anno scolastico e sono già grandicelli».
«Ricordo un bimbo russo che, quando mi avvicinavo, alzava le braccia in segno di difesa – aggiunge un’altra maestra -. Non riuscivo a comprendere quale fosse il problema, poi ho capito che a scuola, nel suo paese, lo picchiavano, e che ne era rimasto scioccato».
A fianco degli ostacoli nella comunicazione linguistico-culturale, il flusso continuo di arrivi e gli inserimenti ad anno scolastico già avviato costituiscono due fra le principali difficoltà che le scuole devono affrontare: le lezioni sono iniziate da tempo e le insegnanti devono trovare il modo per far recuperare ai nuovi scolari il percorso perduto, e contemporaneamente insegnar loro la lingua italiana. Le difficoltà sono facilmente intuibili. In particolare, i ragazzini cinesi e arabi manifestano i problemi maggiori: le loro lingue madri nulla hanno a che fare con le neolatine, e laddove un rumeno o un peruviano fa meno fatica a inserirsi, chi arriva dalla Cina, dal Maghreb o dal Medioriente, stenta di più. O meglio, necessita e richiede un maggior sforzo personale, la presenza di insegnanti di «sostegno» e di mediatori.
Un altro aspetto dolente, in certi casi, è quello delle relazioni tra insegnanti e genitori: i padri lavorano tutto il giorno e le mamme spesso non parlano italiano. Gli avvisi non vengono letti e i colloqui sono disertati. Anche se per alcune famiglie è vero proprio il contrario: la partecipazione è continua e positiva.
Il quadro generale è dunque complesso e, tra un taglio di finanziaria e l’altro, i fondi per le esigenze scolastiche sono sempre meno. Tuttavia, l’esperienza di questi anni di progetto, e l’impegno delle insegnanti, hanno dimostrato che, dopo i primi mesi di difficoltà, i piccoli immigrati si inseriscono bene e partecipano pienamente alle attività.
Una peculiarità della scuola Santorre di Santarosa rispetto ad altre, sia a Torino sia in altre città, è la scelta di avvalersi di mediatori linguistici italiani ma laureati nelle lingue straniere di appartenenza dei bambini: è loro convinzione, infatti, che l’integrazione passi attraverso la piena acquisizione degli strumenti linguistici e culturali del paese di residenza pur mantenendo legami con le proprie radici. In quest’ottica, «mediatore» significa «colui che media» tra la propria cultura e quella dei cittadini immigrati.
Per la mediazione di lingua araba, ad esempio, vengono usate sia le schede didattiche previste dai programmi ministeriali, con il supporto di altro materiale linguistico, sia il Lexico minimo, vocabolario interculturale illustrato, che si avvale di 320 cartoncini con altrettante parole scritte in arabo, traslitterate e tradotte in italiano e corredate da disegni. Uno strumento predisposto anche per altre lingue straniere e molto utile sia per acquisire termini in italiano sia per mantenerli o apprenderli in quella d’origine.

TRA SCUOLA E FAMIGLIA, TRA IDENTIFICAZIONE E TRADIZIONE
Se un ragazzino immigrato, ancora in età elementare, si trova a essere l’unico elemento straniero in una classe, è facile che possa tendere all’uniformazione, all’identificazione con il resto dei compagni e a provar disagio e vergogna per tutti quegli aspetti che possono contribuire a renderlo «diverso»: difficoltà linguistiche proprie o dei genitori, abbigliamento tradizionale o eccessiva religiosità.
Ne risulta una sorta di rifiuto per tutto ciò che rischia di separarlo dagli amici, dal gruppo di cui desidera, invece, fare parte.
Nel caso dei bimbi maghrebini, tale malessere talvolta è manifestato attraverso un’aggressività verbale indirizzata verso i compagni connazionali, e l’utilizzo in senso spregiativo di espressioni quali «marocchino» o «arabo».
Se in classe o nella scuola ci sono altri bambini stranieri – o della sua o di altre culture di appartenenza -, cercherà la solidarietà e l’amicizia con loro e poi, o contemporaneamente, l’integrazione con gli altri compagni.
Racconta Nasira, una giovane universitaria marocchina: «Ricordo come fosse ora il mio primo giorno di scuola: ero vestita di rosso, avevo i capelli raccolti sulla nuca. In classe c’erano altri stranieri: tre ragazzini sinti che mi hanno accolto con un bel saluto. (…) Ho sentito subito quella solidarietà come qualcosa di bello, di familiare. Ero una di loro. Siamo diventati amici subito ed è stato una sorta di rito di iniziazione: un’introduzione a un mondo per me totalmente sconosciuto».
I ragazzini di famiglia modesta, con una scarsa preparazione scolastica e culturale, con limitate competenze linguistiche, hanno una percezione di sé, e del proprio ambiente, piuttosto inferiore, e tendono quindi a identificarsi con la società occidentale, nella speranza di cambiare la propria condizione sociale.
L’atteggiamento muta significativamente, invece, per chi proviene da famiglie immigrate benestanti e colte: tenderà infatti ad accettare e a vivere con più serenità sia le tradizioni d’origine (in certi casi, tuttavia, già molto «occidentalizzate») sia quelle del paese di residenza.
È motivo di orgoglio, per i ragazzi e per le famiglie stesse, l’uso di un italiano corretto e fluente e la buona conoscenza della cultura italiana.

DUE VOLTE STRANIERI: NE’ ITALIANI, NE’ ALTRO
Frequente, tra i bambini, è dunque il desiderio di somigliare ai compagni. Una ragazzetta di quarta elementare arrivata tre anni fa dal Marocco, ha attraversato alcune fasi contrapposte: l’anno scorso aveva più volte manifestato il desiderio di «essere come le altre compagne», di «essere pienamente italiana» e «non voler essere araba». Abbigliamento, diario scolastico, gadget, tutto richiamava la moda infantile diffusa tra le amiche italiane. Anche la lingua araba standard che, appena giunta in Italia, riusciva a scrivere e a leggere abbastanza correttamente e con orgoglio, era finita nel dimenticatornio, rimossa, relegata nell’oblio. È bastato, tuttavia, un periodo di vacanze estive passate nella sua bella casa con giardino a Marrakech, dove poteva «giocare fuori fino a notte inoltrata», per risvegliare il suo senso di appartenenza: «Io sono marocchina – ha infatti affermato recentemente -, e voglio tornare in Marocco, perché lì è più bello di qui».
Un altro problema da non sottovalutare è infatti quello dello «sradicamento»: il sentirsi, cioè, né «italiani né immigrati», senza una buona e corretta conoscenza della lingua e delle tradizioni del paese in cui si vive e si cresce, senza più strumenti di comunicazione nella lingua d’origine e di decodificazione della cultura di appartenenza. Stranieri in terra d’immigrazione e in patria: forse una tra le esperienze più destabilizzanti che un bambino straniero possa provare.
In particolare, per i ragazzi arrivati in Italia alla fine dell’infanzia o all’inizio dell’adolescenza, da soli (cioè senza genitori ma affidati alle cure di fratelli o cugini più grandi), il problema dello sradicamento, della incapacità a comunicare con l’ambiente che li circonda è ancora più forte e ha un peso enorme sull’auto-percezione e sull’auto-stima. Essi tenderanno infatti a difendersi con una buona dose di ribellione e di aggressività, di diffidenza costante nei confronti degli adulti e dei compagni.
Quando trovano, tuttavia, un insegnante, un educatore disposto ad accoglierli e a seguirli nel loro percorso di inserimento scolastico e sociale, riescono a recuperare in fretta il divario linguistico e culturale e a riempire il vuoto che sentono attorno a sé.
Per i bambini cinesi sorgono problemi a più dimensioni: per via dello stretto legame linguistico e culturale con la famiglia e la comunità a cui appartengono, si crea in loro una situazione di confusione e di crisi d’identità. Come tutti i ragazzini, da un lato vorrebbero essere uguali ai compagni italiani, aver diritto alle stesse opportunità, dall’altro sentono la pressione sociale del proprio gruppo di appartenenza e si riconoscono nei valori e nelle tradizioni in cui sono cresciuti. Finiscono così per assumere una sorta di «identità costruita», cercando di adeguare le due culture, quella di appartenenza e quella di arrivo, spesso e volentieri senza alcun sostegno da parte dei genitori (sprovvisti dei mezzi culturali per aiutarli). Per ciò che riguarda la lingua, a casa usano il cinese perché i familiari non sono in grado di capire l’italiano, e a scuola si sforzano di apprendere quest’ultima.
La relazione tra la lingua e la cultura di partenza e quella di approdo è decisamente meno complessa per i latinoamericani e per i rumeni.
Julia è una studentessa di origine peruviana iscritta al terzo anno di un istituto tecnico superiore di Torino. È arrivata quando aveva 10 anni ed è stata inserita in quinta elementare. Racconta delle iniziali difficoltà di comunicazione ma anche dell’entusiasmo che l’ha portata ad apprendere abbastanza velocemente vocaboli, verbi e sintassi della nuova lingua.
Ora è una delle migliori della classe: studia volentieri e molto, è ben inserita e molto stimata da compagni e insegnanti. Per il forte senso di responsabilità e per la maturità che la distinguono, è diventata la referente per le attività di biblioteca e per altri laboratori.
La scuola è dunque un luogo privilegiato per monitorare il fenomeno dell’immigrazione minorile, sia regolare sia irregolare, e dei suoi cambiamenti.
Le sanatorie degli anni Novanta hanno portato ai ricongiungimenti familiari – mogli e figli dei lavoratori stranieri presenti sul territorio – e a nuovi immigrati: questo significa, tra l’altro, che la loro presenza nelle scuole per l’infanzia, nelle elementari e nelle medie inizia a compensare la scarsa natalità delle famiglie italiane. Per esempio, i nuclei familiari maghrebini, e spesso anche rumeni, hanno in media dai tre ai cinque – sei figli.

«SENTIRSI ITALIANI»:LE SECONDE GENERAZIONI
Come abbiamo visto, i ragazzi stranieri cresciuti in Italia tendono a «sentirsi italiani» a tutti gli effetti, soprattutto grazie alla scuola. Lo spiega bene don Fredo Olivero, responsabile dell’ufficio migranti della Caritas torinese: «La loro patria è questa: qui desiderano vivere e diventare adulti, studiare, laurearsi, trovare un posto di lavoro. Vogliono divertirsi, uscire con gli amici, e immaginano un futuro diverso da quello dei propri genitori. Questa nuova condizione e prospettiva crea, in non poche famiglie – non solo musulmane ma anche peruviane, cinesi, albanesi, ecc. -, frequenti conflitti e grandi tensioni. Qualcuno addirittura se ne va di casa».
Nelle associazioni di volontariato arrivano spesso ragazzi in rotta con le famiglie: sono campanelli di allarme di un disagio interiore e dell’incapacità degli adulti a relazionarsi con i figli che cambiano, che crescono, che incontrano nuove realtà, magari diverse o opposte rispetto a quelle a cui erano abituati da generazioni. I quartieri-ghetto delle grandi metropoli italiane possono costituire un rifugio per un malessere che colpisce giovani italiani e immigrati, e la prevenzione, attraverso l’accoglienza, l’educazione, l’ascolto, l’offerta di opportunità e speranze, rimane l’unico strumento vincente.
Secondo alcune proiezioni, tra il 2010 e il 2020, in Italia, le seconde generazioni raggiungeranno la cifra di un milione. Molti di loro, come già sta accadendo da alcuni anni, saranno nati qui e avranno frequentato le scuole insieme ai coetanei italiani «figli di italiani».
Come sostengono i ricercatori della Fondazione Agnelli, saranno persone non più classificabili come «immigrati» o come «stranieri», ma neppure come «italiani» tout court. Abbiamo iniziato a vederlo ora con i ragazzi arabi, latinoamericani, africani, ormai «naturalizzati», perché hanno visto la luce nei nostri ospedali o sono arrivati da piccoli.
Hanno accenti regionali marcati o nessuna inflessione dialettale, vanno alle feste delle comunità di appartenenza e a quelle di compleanno dei propri amici o compagni di classe, portano il foulard o i jeans a vita bassa, i pantaloni che arrivano fin sotto le scarpe e i maglioni con la scritta alla moda, si fanno le treccine fitte fitte o si colorano di henné le mani. Come la maggior parte degli adolescenti, parlano in fretta «mangiandosi» le finali di ogni frase, usano fraseologie gergali e parolacce, oppure, per distinguersi, ostentano una sintassi e un lessico impeccabili; scaricano musica dai computer e l’ascoltano con il portatile durante gli intervalli, si esaltano per divi della Tv o del cinema. Insomma, a scuola e per strada sono in quasi tutto uguali ai compagni «italiani da generazioni»…
Tranne che a casa: lì, infatti, molti rientrano negli «schemi familiari» previsti per loro. Quasi avessero una doppia esistenza o fossero costretti a vivere in una «schizofrenia» più o meno lucida e consapevole. Ciò accade, ovviamente, quando la famiglia è conservatrice ed estremamente tradizionalista, o non ha gli strumenti intellettuali per accettare nuovi stili di vita, e quando il comportamento «esterno» dei figli è radicalmente diverso da quello domestico. Esistono comunque tante «vie di mezzo» meno stridenti e traumatiche.

UN GIORNO IL PRIMATO, OGGI L’ABBANDONO
Quando proseguono gli studi alle superiori, i ragazzi immigrati sono spesso tra i più bravi della classe: s’impegnano, sono partecipi, si documentano. Quando emergono sono dei leader tra i compagni. Assimilano il meglio di due culture e fanno da «mediatori naturali». Come afferma Fredo Olivero, «quando le condizioni familiari e della società in cui vivono glielo permettono…».
Attualmente, invece, ci troviamo di fronte a numerose situazioni di abbandono scolastico subito dopo la terza media. Le motivazioni possono essere molteplici: la famiglia richiede al ragazzo/a di contribuire al bilancio domestico; i genitori sono rimasti in patria e lui/lei deve provvedere a mandare soldi per il mantenimento dei cari; mancanza di interesse per gli studi e scelta lavorativa; fallimento del percorso di inserimento scolastico, sociale e identitario – o perché il minore ha trovato un ambiente ostile e insegnanti poco preparati ad accoglierlo, o perché la famiglia non l’ha sostenuto e appoggiato -; ritorno al paese d’origine, e altro ancora.
Come l’esempio francese insegna, le seconde e le terze generazioni avranno ben chiaro in mente ciò che desiderano o rifiutano: saranno meno disponibili ad accettare i mestieri scartati dagli italiani – in genere umili e poco gratificanti -; si svilupperanno (già sta accadendo) conflitti familiari a causa delle differenze maturate; qualche tendenza ortodossa o, al contrario, estremamente liberale, si trasformerà in integralista; l’ottenimento della nazionalità sarà considerata una delle priorità. Insomma, avremo di fronte uno scenario in continuo movimento.
Sulle seconde generazioni, spiegano ancora i ricercatori della Fondazione Agnelli , «si gioca veramente l’integrazione e tutto dipenderà dalla capacità di accoglienza della società italiana».

I RUMENI, LA SORPRESA
Sono tanti, i rumeni e hanno battuto i maghrebini nel totale italiano delle presenze. In genere si integrano abbastanza bene e sono oggetto di minori pregiudizi, perché fisicamente «più simili agli italiani» dei loro concorrenti nelle statistiche sull’immigrazione: gli arabi marocchini, appunto.
Ma anche loro sono noti nelle cronache giornalistiche soprattutto per quella parte che delinque, che si prostituisce o che sfrutta i minori anche nel mercato del sesso.
La comunità dei rumeni in realtà è formata da due gruppi diversi: i cattolici, molto meglio assimilati, e gli ortodossi, molto meno. I primi sono qui da almeno due generazioni e i figli si sentono del tutto italiani, gli altri costituiscono un’immigrazione più recente.
Il grande afflusso è iniziato 10 anni fa circa, con adulti e minori che arrivavano qui in cerca di lavoro. Nei decenni precedenti si era trattato invece di migranti per matrimonio: giovani donne maritate a italiani maturi.
Chiediamo a Zamfira, mediatrice culturale, moglie di un italo-rumeno e madre di una ragazzina di seconda media, del tutto italiana, come vivono i suoi giovani connazionali. La sua risposta potrebbe adattarsi bene sia al caso dei cinesi sia a quello dei maghrebini.
«Sono scissi tra due identità: da una parte sono legati alle proprie tradizioni familiari e culturali, dall’altra vorrebbero essere come i loro coetanei, che imitano nel consumismo e nelle mode. C’è un senso di sradicamento che spesso prevale e tanti conflitti interiori e familiari. Non credo vivano bene, e sto parlando di chi è qui con la famiglia o almeno con dei parenti. La situazione per quelli soli è ben peggiore, ovviamente. Dobbiamo capire che in patria hanno lasciato una realtà di povertà e qui si trovano di fronte a tanti stimoli materiali ma ad altrettanta solitudine. Tra i compagni, nelle superiori, c’è un certo razzismo: loro sono figli di gente che, seppure spesso con una laurea in tasca, svolge lavori umili, che gli italiani non fanno più: assistenza a malati e anziani, mansioni nell’edilizia, nei mercati alimentari, nel settore delle pulizie. Mestieri di cui si vergognano, quando stanno in mezzo agli italiani, e di cui non parlano quando si ritrovano con i connazionali. Tra loro c’è un tacito sorvolare sull’argomento: tanto, quasi tutti i loro genitori sono impegnati nelle stesse modeste attività».
Viene da pensare che, forse, se sapessero che questi percorsi professionali e questa vergogna per gli umili impieghi dei propri cari erano molto diffusi fra i giovani italiani figli di immigrati dal Sud dell’Italia o dal Veneto o dalle campagne piemontesi, si sentirebbero meno frustrati. Forse sono le nuove generazioni nostrane ad aver dimenticato di essere, in molti casi, la discendenza di migranti poveri e senza mezzi culturali.
«In effetti, la situazione di molti immigrati è piuttosto simile a quella dei vostri, nel Novecento – riflette Zamfira -. I ragazzini rumeni spesso inventano realtà che non esistono: benessere, lavori ben pagati, soddisfazione. Raccontano che i genitori hanno una bella professione e che guadagnano tanti soldi: sono bugie che servono per coprire il loro disagio. Anche il fatto di abitare in due-tre famiglie in uno stesso appartamento non aiuta a risolvere i problemi.
Un’altra nota dolente è la prostituzione e la delinquenza minorile. Qualche giorno fa mi trovavo sul tram e ho assistito a una scena che mi ha angosciata molto: tre donne rumene, di cui una adolescente, stavano discutendo animatamente. Erano prostitute. La giovane si stava ribellando a quella che doveva essere sua madre, affermando di non voler fare più quel mestiere. La mamma e l’altra donna, forse la maman del giro, erano visibilmente in disaccordo con lei. Poi, a un certo punto, la ragazzina ha notato il pulsante per la prenotazione della fermata e, tutta contenta e stupita, ha iniziato a schiacciarlo ripetutamente, come in un gioco infantile. Ho capito che forse era arrivata da poco da qualche villaggio della Romania per fare la prostituta. Ma era rimasta una bambina dentro, come giusto». •

Angela Lano




DOSSIER NUOVI ITALIANI”Stiamo tornando indietro”

I problemi – spiega il sindacalista di origini iraniane – riguardano soprattutto gli immigrati da paesi islamici. Il domani? Dipende da…

Mohammed Reza Kiavar è un sindacalista di origini iraniane che dagli anni Settanta vive in Italia, dove era arrivato per frequentare la facoltà di architettura. È sposato con una giornalista torinese, ha una bimba di sette anni e lavora alla Cisl, dove si occupa delle tematiche dell’immigrazione.

Come stanno attualmente i figli dei nostri concittadini immigrati?
«Le seconde generazioni sono in crisi. Lo sono soprattutto quelle provenienti da paesi islamici. Non è per tutte così, ovviamente: dipende dalle famiglie e dal contesto culturale. Quando i genitori non hanno i mezzi adeguati per bilanciare l’educazione domestica con quella che i loro figli inevitabilmente ricevono fuori, esplodono i conflitti e le sofferenze. I ragazzi si ritrovano con una doppia identificazione culturale: hanno studiato qui e si sentono vicini alle esigenze dei loro compagni e amici, ma in famiglia si pretende che rispettino le tradizioni d’origine. Per i padri è forse l’unico strumento per farsi valere in un contesto che considerano privo di rispetto per le figure genitoriali. I maschi sono lasciati un po’ più liberi, ma è sulle femmine che avviene la pressione maggiore: devono vestire in un certo modo, hanno limitazioni nelle libertà, ecc. Spesso escono di casa con l’hijab e la jellaba, e una volta arrivate a scuola si levano via tutto per rimanere in jeans e magliette corte».

E i latinoamericani?
«Stanno molto meglio: le differenze culturali e religiose sono poche. Diciamo che vivono crisi diverse: accusano i loro genitori di essere un po’ arretrati rispetto ai mezzi della vita modea e consumistica italiana, ma non ci sono conflitti laceranti tra scelte opposte e inconciliabili, come spesso accade per i musulmani.
Per gli immigrati dall’Est europeo non si può parlare ancora di seconda generazione, trattandosi di un’immigrazione molto recente. Comunque, i ragazzi provenienti da queste regioni sono quelli che si integrano più facilmente.
Possiamo in effetti dedurre che, dove agiscono religioni e culture molto diverse da quelle del paese ospite, allorché mancano gli strumenti o la volontà per ridurre le distanze, i conflitti familiari e sociali aumentano. Tra le famiglie islamiche chi, pur senza rinnegare la propria cultura, ha rinunciato ad alcune tradizioni che ostacolerebbero una buona integrazione, è riuscito a risparmiare ai propri figli tensioni, malessere e crisi di identità. Molto dipende dalla preparazione dei genitori e dalla loro disponibilità a ridiscutere abitudini secolari e consolidate».

Quali potranno essere le prospettive future?
«Se le seconde generazioni sono e saranno attraversate da crisi, la situazione migliorerà per le terze… sempre che i figli degli italiani di oggi non diventino razzisti e xenofobi domani. E dalle attuali premesse politiche, sociali e culturali, tutto fa pensare al peggio: siamo in piena regressione. Stiamo tornando indietro di anni e anni. E questo è molto preoccupante». •

Angela Lano




DOSSIER NUOVI ITALIANI”Non tornerei in Marocco”

La cultura di provenienza è una ricchezza enorme. Ma – spiegano le due ragazze islamiche – «il nostro paese ora è l’Italia».

Fatima e Sarah, due ragazze marocchine, sono sedute ai tavolini di un bar di un grande albergo che ospita il festival islamico di al-Aqsa, una ricorrenza annuale per raccogliere fondi da mandare a orfani e vedove in Palestina. Sorseggiano del caffè mentre sembrano immerse in una fitta conversazione.
Vivono in Italia da tanti anni: universitaria la prima, liceale la seconda, hijab intorno al capo, entrambe fanno parte del direttivo del Gmi, Giovani musulmani italiani.
Stanno discutendo di integrazione e di conflitti familiari. L’argomento è interessante …

Fatima, come ti percepisci, italiana, marocchina, tutte e due le cose?
«Mi sento di appartenere sia a questa cultura sia alla mia. Sono cresciuta qui, tra i miei amici italiani. Mi sento alla pari con loro. Il primo giorno di frequenza all’università, i miei compagni mi hanno osservata con interesse ma senza diffidenza. Considerata la situazione internazionale, mi sarei aspettata un atteggiamento negativo. Invece è andato tutto bene e abbiamo fatto subito amicizia. Studiamo insieme in biblioteca o in aula. Amo questo paese ma non mi sembra una contraddizione indossare l’hijab, come richiede la mia religione. Credo che ciò che non si riesce a capire è che noi siamo italiani a tutti gli effetti: la cultura di provenienza è un’enorme ricchezza.
Noi giovani musulmani costituiamo un ponte tra le culture. Molti aspetti legati alle tradizioni di provenienza possono essere abbandonati, i principi della fede, no. Tutti noi siamo di fronte a una sperimentazione di un islam italiano.
Uso il velo dall’età della pubertà: è stata una scelta serena, i miei genitori non me l’hanno imposto. Nessuno può obbligare qualcun altro a usarlo. E non ritengo giusto giudicare chi, pur praticante, decide di non indossarlo».

E in famiglia, come vanno le relazioni tra le generazioni?
Sarah: «Esistono tanti tipi di famiglie, sia quelle legate alle tradizioni sia quelle che si oppongono se i figli vogliono seguirle, qui in Italia. Ci sono anche i giovani che non hanno ricevuto alcun approccio religioso. D’altro canto, si trovano anche genitori che addirittura vietano ciò che l’islam non vieta: la libertà di movimento e di relazione umana con altre persone. Per esempio, non lasciano uscire di casa le ragazze, le discriminano proibendo loro l’accesso allo studio. I miei genitori sono religiosi praticanti ma non tradizionalisti: mi lasciano uscire fino a tardi con le mie amiche, studiare e pensare al mio futuro. Quelli più tradizionalisti e duri sono in disaccordo con i figli e in casa ci sono gravi conflitti. Sono intransigenti e poi neanche sanno che fanno e dove vanno i ragazzi una volta usciti. Ci vuole fiducia e apertura mentale».
Fatima: «Abbiamo una doppia identità: a casa, in genere, si parla arabo, fuori, italiano. Pensiamo anche in italiano. Certe volte abbiamo paura che il nostro sentirci italiani possa offendere i nostri genitori, come se avessimo dimenticato le nostre radici e le nostre tradizioni».

Il mito del ritorno in patria dei padri è ancora condiviso dai figli, secondo voi?
Fatima: «I miei genitori sanno che io non toerei in Marocco con loro, nonostante sia nei loro programmi. E lo accettano. Ma non è così per tutti i ragazzi: spesso si creano dei “giochi di ruolo”, due identità. In casa sono in un modo, fuori in un altro. E ciò porta a una situazione di disagio, anche a livello psicologico: si è scissi in due in contesti importanti per la propria vita. Non si è se stessi. Ecco, l’islam ci aiuta a trovare la strada e la serenità». •

Angela Lano




DOSSIER NUOVI ITALIANI”Sì, potrei sposare un’italiana”

Difficoltà linguistiche e culturali, lavori soltanto con connazionali: quella cinese è una comunità molto chiusa. Eppure i cinesi di seconda generazione stanno smarcandosi dalla tradizione. Lizao ne è un esempio.

Lizao lavora in un ristorante cinese di Avigliana, in provincia di Torino: serve ai tavoli e prende le ordinazioni dei clienti. Ciuffo colorato di biondo su un caschetto castano, faccia simpatica e italiano fluente, accetta volentieri di rispondere a qualche domanda sulla sua vita di immigrato di «seconda generazione». Mentre i suoi colleghi-parenti lo osservano con un’espressione di curiosità mista a perplessità, il ventunenne cinese di Zhejiang (regione tra Shanghai e Pechino) racconta di quanto gli piaccia vivere in Italia e di come abbia imparato una lingua «così difficile» come la nostra, a scuola, dieci anni fa.
«Sono arrivato in Italia con la mia famiglia, nel ’93. Avevo undici anni e sono stato inserito in quarta elementare. Non capivo nulla: i suoni dell’italiano erano così diversi da quelli del cinese! Alla fine qualcosa è scattato e ho iniziato a comunicare. Ricordo le insegnanti, bravissime e accoglienti. Hanno messo tutto il loro impegno nell’aiutarmi ad inserirmi bene in classe. Era una scuola di San Salvario (un quartiere multietnico di Torino, ndr)».

Dopo le scuole dell’obbligo ha continuato gli studi?
«Mi sono iscritto in prima superiore: istituto professionale di costume e moda. Andavo bene e mi piaceva studiare, ma ho dovuto smettere per iniziare a lavorare: avevo già un posto che mi aspettava. Un ristorante. Ma non mi sono fermato lì: ho cambiato sia locale sia città. Questo ristorante è di altri miei parenti».

Lavorate sempre tra di voi. Ma questo non vi aiuta ad integrarvi con la società italiana…
«È vero. Ma ci sono varie motivazioni alla base della nostra scelta. Prima di tutto, le difficoltà linguistiche. Lavorare tra di noi permette di comunicare senza problemi. Poi, non è facile che un imprenditore italiano ci offra un posto di lavoro: c’è ancora molta diffidenza nei nostri confronti, anche se siamo grandi lavoratori. Mio zio, ad esempio, è stato assunto in un’azienda italiana e il suo titolare è molto soddisfatto di lui».

Terzo?
«Appena qualcuno di noi riesce a mettere del denaro da parte, apre un nuovo ristorante e crea opportunità di lavoro per parenti e conoscenti. Dunque, è più facile trovare un’occupazione all’interno della nostra comunità di quanto non lo sia all’esterno. E così rimaniamo tutti “in famiglia”. In questo modo, ovviamente, non siamo stimolati ad imparare l’italiano».

Nei suoi progetti futuri è previsto un ritorno in Cina?
Spero di andarci nelle prossime vacanze: non ci sono più tornato da quando ero bambino. Ma a viverci, no. Sono passati troppi anni e io sono cresciuto qui.
Non credo che troverei più a mio agio: il mio paese è sicuramente cambiato rispetto a quando l’ho lasciato. Può darsi che, da vecchio, deciderò di farvi ritorno per essere seppellito lì, nella mia terra. Ora però penso di stare qui, a lavorare. L’Italia mi piace molto».

Questo significa che metterà su famiglia qui?
«Credo proprio di sì».

Con un’italiana o con una cinese?
«Non so: per me è uguale. Per i miei genitori no: sono all’antica e vorrebbero che sposassi una connazionale. Quando si presenterà il problema ci penserò». •

Angela Lano




DOSSIER NUOVI ITALIANI”Mi fermano… solo perché sono nero…”

L’Italia è il suo paese. Fin dalla nascita.
Tutto bene, quindi? Quasi…

John è un adolescente italo-africano. Non vuole raccontare esattamente da che paese proviene. Anzi, diciamo che gli dà fastidio che gli si domandi l’origine, quasi si mettesse in dubbio la sua attuale «italianità».
Parla in fretta, in un italiano perfetto e senza particolari inflessioni. Ha i capelli legati in una cascata di piccole treccine tenute ferme da elastici colorati, e un bel viso scuro con grandi occhi neri.
Orecchini piccoli al naso e ai lobi delle orecchie, jeans, maglietta e scarpe all’ultima moda, cammina in mezzo a un gruppetto di compagne di scuola, in un istituto per il turismo di Torino. Più che delle amiche sembrano le sue fan: per tutta la chiacchierata non smettono di girargli attorno.

Sei nato in Italia o ci sei arrivato da bambino?
«Qui, sono nato qui».
Quando?
«Sedici anni fa».
I tuoi di dove sono?
«Africa».
È un continente…
«Già, e grande anche… I miei fratelli, no».
No, cosa?
«Non sono nati qui: sono più grandi. Ma è la stessa cosa: quando cresci, vai a scuola in un paese, vai in oratorio, hai gli amici, esci, sei come tutti gli altri».
Uguale.
«Eh sì, è un nonsense parlarne, perché non mi sono mai nemmeno posto il problema, a dir il vero».
Mai avuto questioni con i compagni?
«Perché avrei dovuto? Sono nato in Italia e non riesco a immaginarmi, per il momento, in un altro posto. Magari un giorno mi piacerebbe andare all’estero a fare nuove esperienze, a lavorare. I miei studi sono rivolti a quello: a viaggiare. Almeno spero. Però l’Italia è il mio paese».
Quindi, tutto ok?
«Sì… il casino è quando mi fermano per i controlli».
Ti fermano?
«La polizia, per routine… magari bazzico ai Murazzi (lungo Po torinese, dove, oltre ai tanti locali alla moda e di divertimento giovanile, circolano droghe, ndr), ma non per farmi, no, quello non mi garba, ma per incontrare amici, andare a ballare… Insomma, mi fermano solo perché sono nero e dò l’impressione dell’immigrato».
Ti dà noia?
Si rabbuia un po’. «E come no? Certo. Mi sento mortificato. È come se mi si dicesse che non faccio parte di questo paese, che invece è il mio».
I tuoi che lavoro fanno?
«Papà è laureato in ingegneria ma ha messo su una ditta di import-export, ed è spesso giù».
Giù…
«In Africa».
Già, il continente senza stati…
Ride e prosegue. «La mamma una volta era maestra, ma ha aperto un negozio».
Vai d’accordo con loro?
«Li amo e li rispetto, ma litighiamo spesso: non vogliono che esca la sera, che vada in giro in certi quartieri. Hanno paura della droga, della delinquenza. Dicono che al loro paese non ce n’è come qua. Ma che ci posso fare? Rimanere bloccato in casa?».
Musulmani?
«Cristiani e praticanti, i miei. Beh, io sono andato in oratorio e negli scout fino alle medie».
Sei bravo a scuola?
«Media del sette e mezzo – otto. Mi piace studiare, leggere di tutto. E guardare Mtv».
Quali sono i tuoi sogni futuri? Viaggiare?
«Sì. Mettere su un’agenzia di viaggi, magari».
La propensione familiare per il business c’è, non dovrebbe esserti difficile. Mi sembri molto in gamba e simpatico.
«Grazie. I giornalisti invece fanno un sacco di domande…».
È una carriera che ti attira?
«Uhm, leggendo cosa scrivono degli immigrati in Italia, preferirei evitare». •

Angela Lano