DOSSIER VIETNAM Storie esemplari di persecuzione

Prigionieri… di coscienza

Controllo, repressione e persecuzione statale colpiscono tutte le comunità religiose e chiunque critichi il regime. Si può rischiare la prigione anche navigando su internet.

Thadeus Nguyen Van Ly,
prete cattolico di 59 anni, nel 2001 aveva inviato una lettera al Congresso americano, per chiedere un ritardo nella ratifica degli accordi commerciali bilaterali fra Stati Uniti e Vietnam, citando le violazioni dei diritti umani e le persecuzioni religiose compiute in Vietnam.
Arrestato e condannato a 15 anni di carcere, poi ridotti a 10, ha ottenuto recentemente da una corte locale un ulteriore sconto: 5 anni di prigione e altrettanti agli arresti domiciliari. L’agenzia di stato Vietnam News Agency ha riportato la motivazione: al padre è stata riconosciuta una «buona condotta in carcere».
A Hué si dice che in prigione padre Van Ly abbia scritto e firmato lettere inneggianti al socialismo vietnamita e alla politica del partito comunista. Secondo alcune persone che hanno potuto visitarlo, il sacerdote mostra segni di squilibrio mentale e potrebbe essere stato drogato al fine di «rieducarlo».
Anche la delegazione vaticana, guidata da mons. Piero Parolin, nel suo viaggio in Vietnam alla fine di aprile 2004, ha potuto parlare del caso Van Ly con le autorità di Hanoi. Per tutta risposta i rappresentanti del governo hanno mostrato le lettere di Van Ly che manifestano la sua «avvenuta rieducazione».
Ma vari gruppi americani per i diritti umani considerano padre Van Ly un prigioniero di coscienza e hanno fatto pressioni sul governo statunitense per il suo rilascio.
La notizia della riduzione della pena è arrivata proprio alla vigilia di una visita di rappresentanti dell’Unione europea in Vietnam, in occasione di un convegno sui diritti umani, nel quale si è parlato anche del trattamento dei prigionieri.

Giovanni Bosco Pham Minh Tri,
66 anni, monaco della Congregazione di Maria Corredentrice, è stato arrestato il 20 maggio 1987, insieme a una sessantina di altri cattolici, preti e laici, per aver organizzato corsi di formazione e aver distribuito pubblicazioni religiose senza il permesso del governo.
Processato nell’ottobre dello stesso anno, insieme ad altri 22 arrestati, è stato condannato per il solito reato: «Propaganda contro il regime socialista, minaccia per la politica di unità e di sicurezza nazionale». Condannato a 20 anni di reclusione, continua a scontare la pena nelle patrie galere di Xuan Loc, provincia di Dong Nai, insieme al confratello laico Nguyen Thien Phung. Il padre soffre di disturbi mentali.
Nguyen Hong Quang,
pastore della chiesa mennonita, è stato arrestato l’8 giugno 2003. Mentre si trovava in casa, nella periferia di Ho Chi Minh, con un gruppo di scout, 30 poliziotti hanno circondato l’abitazione e dopo averlo arrestato, hanno sequestrato il suo computer, carte personali e numerosi documenti, compresi i casi di violazione dei diritti umani di cui Quang si stava occupando.
Il pastore è stato accusato di «istigazione e resistenza a pubblico ufficiale» e condannato a tre anni di carcere, insieme a 5 «complici», condannati a pene tra i 9 mesi e i 2 anni di prigione. Al processo, concluso in una sola giornata, non sono stati ammessi testimoni di difesa né giornalisti. L’accusa si riferisce alla protesta di Quang e decine di suoi fedeli contro l’arresto di 4 pastori mennoniti, avvenuta nel marzo 2004.
Quang, 45 anni, è segretario generale della chiesa mennonita in Vietnam, non approvata ufficialmente dal governo. Avvocato, ha difeso i contadini delle province e denunciato gli arresti di dissidenti politici e religiosi. In particolare, egli aveva scritto e pubblicizzato via internet un rapporto su uno dei più noti prigionieri cristiani, padre Nguyen Van Ly.
La domenica 21 novembre 2004, mentre la moglie del pastore, Le Thi Phu Dung, guidava un servizio religioso nella propria casa, sono intervenuti 40 poliziotti e hanno interrotto la funzione con la forza, denunciando tutti i presenti per «incontro illegale» e «uso di abitazione a scopo religioso».
L’incursione della polizia è solo l’ultimo di una serie di intimidazioni e denunce contro la donna protestante, già fatta oggetto di minacce, se non metteva fine alle sue attività religiose.
La situazione di alcune comunità protestanti, come quella mennonita, è un esempio emblematico della politica repressiva del governo contro la libertà di fede: le attività religiose sono permesse solo in luoghi approvati dallo stato e guidate da capi autorizzati; ma il governo continua a negare spazi e permessi per la costruzione di nuove chiese e luoghi di culto, per cui molte denominazioni cristiane usano le abitazioni private per incontri di preghiera.

Nguyen Vu Binh
giornalista, è stato arrestato il 25 settembre 2002 nella sua abitazione di Hanoi; il 31 dicembre 2003 è stato condannato a 7 anni di carcere e 3 di arresti domiciliari. Poco prima del suo arresto aveva scritto un articolo in cui criticava gli accordi in materia di confini con la Cina, nei quali il governo aveva ceduto un pezzo di Vietnam.
Dopo aver lavorato per quasi 10 anni al Tap Chi Cong San, pubblicazione del Partito comunista vietnamita, Binh aveva lasciato la sua posizione per partecipare alla formazione di un gruppo d’opposizione indipendente, chiamato Liberal Democratic Party e da allora aveva scritto numerosi articoli per criticare l’attuale linea di governo e chiedere una riforma politica. Ma il documento ufficiale della sentenza diceva che Binh era in possesso di «documenti scritti che chiedevano un intervento esterno negli affari interni del paese».
All’inizio dello scorso anno, la Corte suprema ha respinto il suo ricorso in appello, riconfermando la pena a 7 anni di carcere per spionaggio. «Per me, o la libertà o la morte – ha dichiarato Binh dopo aver udito la sentenza -. Se le autorità non mi rilasceranno, inizierò uno sciopero della fame».
Secondo le fonti del Cpj, infatti, Binh avrebbe rifiutato di mangiare dalla fine del processo. Il giornalista è attualmente detenuto nel carcere New Hoa Lo di Hanoi.

Do Nam Hai,
è uno scrittore. Negli ultimi 5 mesi del 2004 é stato arrestato ripetutamente e sottoposto a vari interrogatori anche in pubblico. Il 6 agosto la polizia lo aveva trattenuto per due giorni; il 3 dicembre è rimasto in carcere per 24 ore. Un uomo, poi identificato dallo scrittore come un poliziotto, avrebbe sequestrato il computer di Do Nam cancellando vari documenti.
Durante il 2000 e il 2001, Hai si era trasferito in Australia, dove sotto pseudonimo aveva scritto e pubblicato in internet una serie fortunata di articoli sulla storia e sulla politica del Vietnam. Negli articoli proponeva alcune idee per arrivare a una riforma pacifica e chiedeva alle autorità più democrazia e, soprattutto, l’adozione di un sistema formato da più partiti politici.
Il 10 dicembre scorso Hai ha scritto una lettera aperta alle autorità denunciando tutte le difficoltà che ha dovuto affrontare negli ultimi mesi. «Avete definito i miei articoli contro rivoluzionari, contro il partito e contro il governo, ma io la penso diversamente: credo che sia materiale per la democrazia» dice nella lettera.
Secondo la testimonianza del Cpj, le pressioni sullo scrittore sono cresciute dall’inizio del 2005 e si teme un nuovo arresto.

Thich Huyen Quang,
supremo patriarca della chiesa buddista unificata del Vietnam (Ubcv), è agli arresti domiciliari quasi ininterrottamente dal 1977. Il suo vice, Thich Quang Do, condannato a due anni di domicilio coatto, fu rilasciato a giugno scorso. Ma nel mese di ottobre, tutti e due sono stati rimessi agli arresti domiciliari in località diverse, insieme ad altri 30 importanti monaci.
Il venerabile Thich Huyen Quang, all’età di 87 anni, continua a essere considerato un pericolo da parte del governo. Recentemente, ricoverato in ospedale, gli è stato impedito di ricevere le visite dai suoi monaci.
Ai primi di novembre, un gruppo di giovani del movimento «La famiglia buddista» erano in partenza per un pellegrinaggio in India, per visitare i luoghi sacri del buddismo: al momento dell’imbarco, sono stati prelevati e interrogati all’interno dell’aeroporto di Ho Chi Minh e poi rispediti ai propri monasteri.
Il viaggio era stato organizzato già da un anno e i pellegrini avevano espletato tutte le formalità necessarie per ottenere passaporto e visto. La polizia ha spiegato che il viaggio era stato annullato «per questioni di sicurezza nazionale», senza chiarire quali fossero i pericoli concreti. È probabile che si sia voluto impedire ai giovani vietnamiti di partecipare al congresso di Bodh Gaya in India, dove avrebbero incontrato i connazionali di movimenti buddisti americani, canadesi, europei e australiani.
Intanto il governo continua a vietare e scoraggiare la partecipazione alla Ubcv e richiedere ai monaci di passare sotto l’egida della chiesa centrale buddista, aggiogata al regime.

Guyen Dan Que,
endocrinologo di 63 anni, è uno dei più noti attivisti per la democrazia in Vietnam. È stato arrestato il 17 marzo 2003, per aver mandato un documento a un parente negli Stati Uniti da un internet cafè. Nel documento egli sosteneva la necessità di riforme politiche e garanzie dei diritti umani in Vietnam e criticava la gestione della libertà di informazione da parte del governo.
Il 29 luglio è stato condannato a 2 anni e mezzo di carcere, per «abuso di libertà democratiche antigovernative». Quindi è stato trasferito a quasi 2 mila km a nord di Saigon e rinchiuso nel carcere di Lam Son, noto per essere un campo di lavori forzati per criminali.
La sorella, Quan Nguyen, ha raccontato in che modo le autorità hanno disposto il trasferimento: «Hanno avvertito la moglie di Que di portare più medicine e soldi perché lo stavano portando lontano da Saigon. Lui non sapeva nulla. In questo modo vogliono isolarlo, nella speranza di mettere a tacere la sua voce».
Dopo il trasferimento le autorità vietnamite hanno rifiutato alla moglie il permesso di visitare il marito; il viaggio richiede comunque più di 2 giorni. Non è possibile parlare con lui telefonicamente e in molti temono la noncuranza dei carcerieri verso la sua salute precaria: soffre di ipertensione, ulcera e calcoli renali.
Quella di Dan Que è una storia esemplare: ha già scontato più di 20 anni di prigione, torture, arresti domiciliari a causa dei suoi appelli pubblici per un sistema politico multipartitico e la fine della censura in Vietnam. Nel 1978 fu incarcerato senza processo per aver criticato il sistema politico del paese. Rilasciato, ha fondato High Tide Humanism (Marea dell’Umanesimo), movimento moderato e non violento per l’affermazione dei diritti umani in Vietnam.
Medico da sempre impegnato a favore dei poveri, ha istituito una clinica basata sul lavoro di volontari, si è battuto per il miglioramento del sistema carcerario, per i diritti umani e per le minoranze etniche nel paese. Ha chiesto al governo vietnamita di investire di più nelle politiche sociali e di ridurre la grandezza dell’esercito.
Nuovamente arrestato nel giugno 1990 e, sempre senza essere processato, è rimasto in carcere fino a settembre 1998, quando fu costretto agli arresti domiciliari, sotto costante sorveglianza, con restrizioni su spostamenti e uso di ogni mezzo di comunicazione.
Nel 2004, l’Accademia delle scienze di New York gli ha assegnato il premio Pagels per i diritti umani degli scienziati. La motivazione: «Per il suo sforzo di migliorare la vita quotidiana della gente e promuovere una transizione pacifica verso la democrazia e la libertà in Vietnam».
Il Vietnam è attualmente uno dei 53 membri della Commissione per i diritti umani dell’Onu. Quindi ha ratificato la Convenzione internazionale sui diritti politici e civili che, in base all’articolo 19, protegge il diritto individuale di «dare, ricevere e scambiare informazioni o idee di ogni genere e tipo senza limiti di frontiere, sia oralmente, in forma scritta o stampata, o attraverso ogni altro mezzo di comunicazione».

Asia news e Comimitee to protect Joualists




DOSSIER NUOVI ITALIANINon eravamo tanto amati

Un tempo non lontano l’Italia era un paese di emigrazione. Fuori dei confini geografici, oggi vivono almeno 60 milioni di connazionali. Nel frattempo, siamo divenuti terra d’immigrazione. E in molti storcono il naso, alzano la voce, o sbattono la porta, non sapendo o fingendo di non sapere la nostra stessa storia.

Lo schermo della sala video di una scuola superiore di Torino proiettava due immagini in bianco e nero così simili da sembrare prese da una stessa fonte. Nella prima, una poverissima famigliola di migranti, composta da madre e tre figli, era ferma sul marciapiede di una stazione; per terra si vedeva una valigia sgualcita e legata con una corda; sulle spalle del figlio maggiore faceva capolino un sacco a righe; sguardi schiusi in un sorriso di speranza si perdevano dentro l’obiettivo del fotografo. Nella seconda, un altro gruppo di migranti appoggiati a transenne di contenimento aspettava il proprio tuo, presumibilmente davanti a un ufficio immigrazione.
Perplessi i trenta ragazzi cercavano di dare un’identità nazionale alla mamma e ai suoi tre figli: «Sono degli zingari rom», proponeva uno; «No, sono marocchini», gli faceva eco un’altra; «Ma dai, sono albanesi!», incalzava un terzo; «Tunisini, sono tunisini», rispondeva il compagno dall’ultima fila; «A me sembrano iracheni», «Curdi?», insinuavano altri due.
«Italiani. Sono italiani. Nostri connazionali. Migranti di inizio Novecento» – spiegava infine l’insegnante -. «La seconda foto è invece recente e ritrae dei cittadini immigrati in Italia. Lo sapete vero che eravamo un paese di emigranti, gente povera che se andava via all’estero, nelle Americhe, in Francia, in Germania, per trovare un lavoro con cui mantenere la famiglia lasciata in patria?».

Già, siamo ex emigrati – i nostri connazionali nel mondo sono circa 60 milioni, un’altra Italia, dunque -, persone spesso abituate a svolgere professioni modeste, quelle che gli abitanti dei paesi che ci ospitavano non volevano più fare, o quelle che spettavano agli schiavi, successivamente liberati.
Abitavamo in tanti in uno stesso appartamento misero e sporco; quando ce lo permettevano e le nostre condizioni miglioravano, ci facevamo raggiungere da mogli, mariti, figli e genitori. Ricongiungevamo così le nostre famiglie spezzate, magari dopo anni di duro lavoro, e allora, con un po’ di benessere nelle tasche, ci compravamo il vestito bello con cui farci fotografare nella bottega del quartiere più carino della città e mandavamo la nostra immagine sorridente e decorosa ai nostri parenti rimasti al paese natio. Che gioia quando uno dei nostri figli si laureava in quel luogo straniero! La nostalgia di casa ci riempiva di gioia e di orgoglio: di senso finalmente offerto alla nostra struggente lontananza. Erano le radici che germogliavano in angoli del mondo a noi spesso ostili. I nostri sacrifici cominciavano a dare frutti e avrebbero assicurato una vita agiata alla nostra discendenza.
Non eravamo sempre amati, noi italiani all’estero: ci gridavano «mafiosi», «spaghetti» e «pizza». Dicevano che dovunque andassimo portavamo criminalità e malattie. Ma noi volevamo solo lavorare, migliorare quell’esistenza misera che avevamo lasciato nelle nostre campagne o nelle nostre valli, o nei rioni più poveri delle nostre città.
Ricordi, racconti, immagini. Memorie racchiuse in molte delle nostre famiglie. Ora dimenticate. Rimosse. Adesso ci sentiamo i padroni del mondo, o semplicemente «gli amici cari dei padroni del mondo». Dalle copertine di giornali e riviste, e dalle pagine di libercoli best-seller, spesso gridiamo il nostro «vade retro» ai nuovi immigrati, nostri fratelli odiei di sventure passate. Li descriviamo come «orde pronte a invaderci e a sporcarci le strade. A colonizzarci. A islamizzarci. A portarci ogni sorta di epidemie e di disastri». Il cavallo di Troia astutamente posto nelle terre dei discendenti degli antichi celti e romani. In realtà, capri espiatori delle politiche economiche e sociali di una classe dirigente senza etica e senso dello stato, che, servendosi del potere concesso dai mezzi di informazione, tuona semplice e stupida propaganda.

Certo, in questo bel paese spaccato in due tra nuove povertà e nuove ricchezze ostentate con sfacciataggine, in quest’Italia rimbalzata indietro di decenni in ogni campo, ma soprattutto in quello politico – culturale – economico, il momento storico non è dei più favorevoli per parlare di «incontro di civiltà» e di integrazione. Per raccontare delle seconde generazioni di immigrati: quelle che stanno crescendo a fianco dei nostri figli, che stanno arrivando a seguito dei ricongiungimenti familiari; che giungeranno o che nasceranno nei prossimi anni.
Il contesto non è dei migliori, forse per questo abbiamo voluto parlarvene attraverso le pagine di questo nostro dossier. Perché la memoria del passato è il miglior deterrente contro gli errori del presente e del futuro.
Angela Lano

Angela Lano




DOSSIER NUOVI ITALIANITutti i colori del mondo

Sono cinesi, peruviani, rumeni, maghrebini, mediorientali, africani, filippini. Le aule italiane sono sempre più colorate. I problemi aumentano, ma anche le speranze per un futuro veramente multietnico e dunque più ricco.

Torino, quartiere San Paolo. Il vecchio borgo operaio è ora diventato un rione ad alta densità di immigrati inseriti nel mondo del lavoro. L’epoca è diversa e anche le speranze: allora la città era in pieno boom economico, ora è in espansione edilizia e recita un copione di falso benessere truccando la propria immagine con mille nuovi cantieri, spot e cartelli pubblicitari a cui nessuno più crede.
Il San Paolo era un quartiere proletario socialmente attivo, e tale è rimasto: i nuovi proletari sono adesso gli immigrati da un «meridione» ancora più a sud. Gente che sgobba dalla mattina alla sera e che vuole costruirsi un futuro migliore di quello lasciato in patria (ammesso che le strette e spesso inumane maglie della legge Bossi-Fini, glielo permettano).
Sono peruviani, rumeni, maghrebini, mediorientali, africani subsahariani, filippini, cinesi ecc. Molte le giovani coppie, con figli che frequentano le scuole del quartiere.

NELLA SCUOLA NASCE L’ITALIA MULTIETNICA
Elementare Santorre di Santarosa: 102 bambini stranieri su un totale di circa 600 in età fra i 6 e gli 11 anni. In ogni classe ci sono dai 5 ai 12 piccoli immigrati su una media di 24 alunni.
Una scuola pilota nell’ambito dell’intercultura, con un «collettivo di docenti» motivato e attento alle esigenze dei vecchi e nuovi alunni, che ha saputo trasformare l’emergenza scolastica quotidiana in un esperimento di inserimento ben riuscito.
Il primo programma di Integrazione linguistica e culturale degli alunni stranieri è nato nel 2000. Le insegnanti della scuola elementare si erano confrontate con i colleghi della media vicina e avevano compreso di avere gli stessi problemi di inserimento scolastico: ragazzini che arrivavano dai paesi d’origine a metà anno, senza alcuna competenza nella nostra lingua, con tradizioni e abitudini completamente diverse che davano adito a incomprensioni e a difficoltà relazionali.
Era nato così un «progetto in rete», finanziato dalla circoscrizione, che prevedeva la presenza di mediatori che lavoravano in entrambe le strutture.
Negli anni successivi il progetto è stato inserito all’interno dei finanziamenti statali («per scuole ad alto flusso di immigrati») e regionali («inserimento stranieri e prevenzione del disagio scolastico»).
Le difficoltà avvertite dalle maestre erano causate anche dalle differenze culturali che agivano nella quotidianità, dalla mancanza di conoscenza di usi e costumi dei paesi di provenienza dei giovani scolari e delle regole educative in cui erano cresciuti.
«L’esperienza è iniziata con i cinesi – racconta Feanda Torsello, insegnante e responsabile del progetto interculturale di “Integrazione linguistica e culturale degli alunni stranieri” -. Erano i figli dei ristoratori. Poi, negli anni, sono arrivati i bambini arabi, latinoamericani, africani, e così via. Il primo boom è stato sei anni fa: avevamo parecchi maghrebini inseriti nelle prime classi».
«Alcuni mangiavano seduti per terra a gambe incrociate – aggiungono altre maestre -, com’erano abituati nelle loro case d’origine, dove i tavolini sono spesso bassi e ci si siede su cuscini o tappeti. Rifiutavano diversi cibi e c’era il problema di sostituire alcuni piatti con i pasti alternativi senza insaccati a base di maiale. Ora è più semplice, anche se le difficoltà continuano, soprattutto quando i bambini arrivano a metà anno scolastico e sono già grandicelli».
«Ricordo un bimbo russo che, quando mi avvicinavo, alzava le braccia in segno di difesa – aggiunge un’altra maestra -. Non riuscivo a comprendere quale fosse il problema, poi ho capito che a scuola, nel suo paese, lo picchiavano, e che ne era rimasto scioccato».
A fianco degli ostacoli nella comunicazione linguistico-culturale, il flusso continuo di arrivi e gli inserimenti ad anno scolastico già avviato costituiscono due fra le principali difficoltà che le scuole devono affrontare: le lezioni sono iniziate da tempo e le insegnanti devono trovare il modo per far recuperare ai nuovi scolari il percorso perduto, e contemporaneamente insegnar loro la lingua italiana. Le difficoltà sono facilmente intuibili. In particolare, i ragazzini cinesi e arabi manifestano i problemi maggiori: le loro lingue madri nulla hanno a che fare con le neolatine, e laddove un rumeno o un peruviano fa meno fatica a inserirsi, chi arriva dalla Cina, dal Maghreb o dal Medioriente, stenta di più. O meglio, necessita e richiede un maggior sforzo personale, la presenza di insegnanti di «sostegno» e di mediatori.
Un altro aspetto dolente, in certi casi, è quello delle relazioni tra insegnanti e genitori: i padri lavorano tutto il giorno e le mamme spesso non parlano italiano. Gli avvisi non vengono letti e i colloqui sono disertati. Anche se per alcune famiglie è vero proprio il contrario: la partecipazione è continua e positiva.
Il quadro generale è dunque complesso e, tra un taglio di finanziaria e l’altro, i fondi per le esigenze scolastiche sono sempre meno. Tuttavia, l’esperienza di questi anni di progetto, e l’impegno delle insegnanti, hanno dimostrato che, dopo i primi mesi di difficoltà, i piccoli immigrati si inseriscono bene e partecipano pienamente alle attività.
Una peculiarità della scuola Santorre di Santarosa rispetto ad altre, sia a Torino sia in altre città, è la scelta di avvalersi di mediatori linguistici italiani ma laureati nelle lingue straniere di appartenenza dei bambini: è loro convinzione, infatti, che l’integrazione passi attraverso la piena acquisizione degli strumenti linguistici e culturali del paese di residenza pur mantenendo legami con le proprie radici. In quest’ottica, «mediatore» significa «colui che media» tra la propria cultura e quella dei cittadini immigrati.
Per la mediazione di lingua araba, ad esempio, vengono usate sia le schede didattiche previste dai programmi ministeriali, con il supporto di altro materiale linguistico, sia il Lexico minimo, vocabolario interculturale illustrato, che si avvale di 320 cartoncini con altrettante parole scritte in arabo, traslitterate e tradotte in italiano e corredate da disegni. Uno strumento predisposto anche per altre lingue straniere e molto utile sia per acquisire termini in italiano sia per mantenerli o apprenderli in quella d’origine.

TRA SCUOLA E FAMIGLIA, TRA IDENTIFICAZIONE E TRADIZIONE
Se un ragazzino immigrato, ancora in età elementare, si trova a essere l’unico elemento straniero in una classe, è facile che possa tendere all’uniformazione, all’identificazione con il resto dei compagni e a provar disagio e vergogna per tutti quegli aspetti che possono contribuire a renderlo «diverso»: difficoltà linguistiche proprie o dei genitori, abbigliamento tradizionale o eccessiva religiosità.
Ne risulta una sorta di rifiuto per tutto ciò che rischia di separarlo dagli amici, dal gruppo di cui desidera, invece, fare parte.
Nel caso dei bimbi maghrebini, tale malessere talvolta è manifestato attraverso un’aggressività verbale indirizzata verso i compagni connazionali, e l’utilizzo in senso spregiativo di espressioni quali «marocchino» o «arabo».
Se in classe o nella scuola ci sono altri bambini stranieri – o della sua o di altre culture di appartenenza -, cercherà la solidarietà e l’amicizia con loro e poi, o contemporaneamente, l’integrazione con gli altri compagni.
Racconta Nasira, una giovane universitaria marocchina: «Ricordo come fosse ora il mio primo giorno di scuola: ero vestita di rosso, avevo i capelli raccolti sulla nuca. In classe c’erano altri stranieri: tre ragazzini sinti che mi hanno accolto con un bel saluto. (…) Ho sentito subito quella solidarietà come qualcosa di bello, di familiare. Ero una di loro. Siamo diventati amici subito ed è stato una sorta di rito di iniziazione: un’introduzione a un mondo per me totalmente sconosciuto».
I ragazzini di famiglia modesta, con una scarsa preparazione scolastica e culturale, con limitate competenze linguistiche, hanno una percezione di sé, e del proprio ambiente, piuttosto inferiore, e tendono quindi a identificarsi con la società occidentale, nella speranza di cambiare la propria condizione sociale.
L’atteggiamento muta significativamente, invece, per chi proviene da famiglie immigrate benestanti e colte: tenderà infatti ad accettare e a vivere con più serenità sia le tradizioni d’origine (in certi casi, tuttavia, già molto «occidentalizzate») sia quelle del paese di residenza.
È motivo di orgoglio, per i ragazzi e per le famiglie stesse, l’uso di un italiano corretto e fluente e la buona conoscenza della cultura italiana.

DUE VOLTE STRANIERI: NE’ ITALIANI, NE’ ALTRO
Frequente, tra i bambini, è dunque il desiderio di somigliare ai compagni. Una ragazzetta di quarta elementare arrivata tre anni fa dal Marocco, ha attraversato alcune fasi contrapposte: l’anno scorso aveva più volte manifestato il desiderio di «essere come le altre compagne», di «essere pienamente italiana» e «non voler essere araba». Abbigliamento, diario scolastico, gadget, tutto richiamava la moda infantile diffusa tra le amiche italiane. Anche la lingua araba standard che, appena giunta in Italia, riusciva a scrivere e a leggere abbastanza correttamente e con orgoglio, era finita nel dimenticatornio, rimossa, relegata nell’oblio. È bastato, tuttavia, un periodo di vacanze estive passate nella sua bella casa con giardino a Marrakech, dove poteva «giocare fuori fino a notte inoltrata», per risvegliare il suo senso di appartenenza: «Io sono marocchina – ha infatti affermato recentemente -, e voglio tornare in Marocco, perché lì è più bello di qui».
Un altro problema da non sottovalutare è infatti quello dello «sradicamento»: il sentirsi, cioè, né «italiani né immigrati», senza una buona e corretta conoscenza della lingua e delle tradizioni del paese in cui si vive e si cresce, senza più strumenti di comunicazione nella lingua d’origine e di decodificazione della cultura di appartenenza. Stranieri in terra d’immigrazione e in patria: forse una tra le esperienze più destabilizzanti che un bambino straniero possa provare.
In particolare, per i ragazzi arrivati in Italia alla fine dell’infanzia o all’inizio dell’adolescenza, da soli (cioè senza genitori ma affidati alle cure di fratelli o cugini più grandi), il problema dello sradicamento, della incapacità a comunicare con l’ambiente che li circonda è ancora più forte e ha un peso enorme sull’auto-percezione e sull’auto-stima. Essi tenderanno infatti a difendersi con una buona dose di ribellione e di aggressività, di diffidenza costante nei confronti degli adulti e dei compagni.
Quando trovano, tuttavia, un insegnante, un educatore disposto ad accoglierli e a seguirli nel loro percorso di inserimento scolastico e sociale, riescono a recuperare in fretta il divario linguistico e culturale e a riempire il vuoto che sentono attorno a sé.
Per i bambini cinesi sorgono problemi a più dimensioni: per via dello stretto legame linguistico e culturale con la famiglia e la comunità a cui appartengono, si crea in loro una situazione di confusione e di crisi d’identità. Come tutti i ragazzini, da un lato vorrebbero essere uguali ai compagni italiani, aver diritto alle stesse opportunità, dall’altro sentono la pressione sociale del proprio gruppo di appartenenza e si riconoscono nei valori e nelle tradizioni in cui sono cresciuti. Finiscono così per assumere una sorta di «identità costruita», cercando di adeguare le due culture, quella di appartenenza e quella di arrivo, spesso e volentieri senza alcun sostegno da parte dei genitori (sprovvisti dei mezzi culturali per aiutarli). Per ciò che riguarda la lingua, a casa usano il cinese perché i familiari non sono in grado di capire l’italiano, e a scuola si sforzano di apprendere quest’ultima.
La relazione tra la lingua e la cultura di partenza e quella di approdo è decisamente meno complessa per i latinoamericani e per i rumeni.
Julia è una studentessa di origine peruviana iscritta al terzo anno di un istituto tecnico superiore di Torino. È arrivata quando aveva 10 anni ed è stata inserita in quinta elementare. Racconta delle iniziali difficoltà di comunicazione ma anche dell’entusiasmo che l’ha portata ad apprendere abbastanza velocemente vocaboli, verbi e sintassi della nuova lingua.
Ora è una delle migliori della classe: studia volentieri e molto, è ben inserita e molto stimata da compagni e insegnanti. Per il forte senso di responsabilità e per la maturità che la distinguono, è diventata la referente per le attività di biblioteca e per altri laboratori.
La scuola è dunque un luogo privilegiato per monitorare il fenomeno dell’immigrazione minorile, sia regolare sia irregolare, e dei suoi cambiamenti.
Le sanatorie degli anni Novanta hanno portato ai ricongiungimenti familiari – mogli e figli dei lavoratori stranieri presenti sul territorio – e a nuovi immigrati: questo significa, tra l’altro, che la loro presenza nelle scuole per l’infanzia, nelle elementari e nelle medie inizia a compensare la scarsa natalità delle famiglie italiane. Per esempio, i nuclei familiari maghrebini, e spesso anche rumeni, hanno in media dai tre ai cinque – sei figli.

«SENTIRSI ITALIANI»:LE SECONDE GENERAZIONI
Come abbiamo visto, i ragazzi stranieri cresciuti in Italia tendono a «sentirsi italiani» a tutti gli effetti, soprattutto grazie alla scuola. Lo spiega bene don Fredo Olivero, responsabile dell’ufficio migranti della Caritas torinese: «La loro patria è questa: qui desiderano vivere e diventare adulti, studiare, laurearsi, trovare un posto di lavoro. Vogliono divertirsi, uscire con gli amici, e immaginano un futuro diverso da quello dei propri genitori. Questa nuova condizione e prospettiva crea, in non poche famiglie – non solo musulmane ma anche peruviane, cinesi, albanesi, ecc. -, frequenti conflitti e grandi tensioni. Qualcuno addirittura se ne va di casa».
Nelle associazioni di volontariato arrivano spesso ragazzi in rotta con le famiglie: sono campanelli di allarme di un disagio interiore e dell’incapacità degli adulti a relazionarsi con i figli che cambiano, che crescono, che incontrano nuove realtà, magari diverse o opposte rispetto a quelle a cui erano abituati da generazioni. I quartieri-ghetto delle grandi metropoli italiane possono costituire un rifugio per un malessere che colpisce giovani italiani e immigrati, e la prevenzione, attraverso l’accoglienza, l’educazione, l’ascolto, l’offerta di opportunità e speranze, rimane l’unico strumento vincente.
Secondo alcune proiezioni, tra il 2010 e il 2020, in Italia, le seconde generazioni raggiungeranno la cifra di un milione. Molti di loro, come già sta accadendo da alcuni anni, saranno nati qui e avranno frequentato le scuole insieme ai coetanei italiani «figli di italiani».
Come sostengono i ricercatori della Fondazione Agnelli, saranno persone non più classificabili come «immigrati» o come «stranieri», ma neppure come «italiani» tout court. Abbiamo iniziato a vederlo ora con i ragazzi arabi, latinoamericani, africani, ormai «naturalizzati», perché hanno visto la luce nei nostri ospedali o sono arrivati da piccoli.
Hanno accenti regionali marcati o nessuna inflessione dialettale, vanno alle feste delle comunità di appartenenza e a quelle di compleanno dei propri amici o compagni di classe, portano il foulard o i jeans a vita bassa, i pantaloni che arrivano fin sotto le scarpe e i maglioni con la scritta alla moda, si fanno le treccine fitte fitte o si colorano di henné le mani. Come la maggior parte degli adolescenti, parlano in fretta «mangiandosi» le finali di ogni frase, usano fraseologie gergali e parolacce, oppure, per distinguersi, ostentano una sintassi e un lessico impeccabili; scaricano musica dai computer e l’ascoltano con il portatile durante gli intervalli, si esaltano per divi della Tv o del cinema. Insomma, a scuola e per strada sono in quasi tutto uguali ai compagni «italiani da generazioni»…
Tranne che a casa: lì, infatti, molti rientrano negli «schemi familiari» previsti per loro. Quasi avessero una doppia esistenza o fossero costretti a vivere in una «schizofrenia» più o meno lucida e consapevole. Ciò accade, ovviamente, quando la famiglia è conservatrice ed estremamente tradizionalista, o non ha gli strumenti intellettuali per accettare nuovi stili di vita, e quando il comportamento «esterno» dei figli è radicalmente diverso da quello domestico. Esistono comunque tante «vie di mezzo» meno stridenti e traumatiche.

UN GIORNO IL PRIMATO, OGGI L’ABBANDONO
Quando proseguono gli studi alle superiori, i ragazzi immigrati sono spesso tra i più bravi della classe: s’impegnano, sono partecipi, si documentano. Quando emergono sono dei leader tra i compagni. Assimilano il meglio di due culture e fanno da «mediatori naturali». Come afferma Fredo Olivero, «quando le condizioni familiari e della società in cui vivono glielo permettono…».
Attualmente, invece, ci troviamo di fronte a numerose situazioni di abbandono scolastico subito dopo la terza media. Le motivazioni possono essere molteplici: la famiglia richiede al ragazzo/a di contribuire al bilancio domestico; i genitori sono rimasti in patria e lui/lei deve provvedere a mandare soldi per il mantenimento dei cari; mancanza di interesse per gli studi e scelta lavorativa; fallimento del percorso di inserimento scolastico, sociale e identitario – o perché il minore ha trovato un ambiente ostile e insegnanti poco preparati ad accoglierlo, o perché la famiglia non l’ha sostenuto e appoggiato -; ritorno al paese d’origine, e altro ancora.
Come l’esempio francese insegna, le seconde e le terze generazioni avranno ben chiaro in mente ciò che desiderano o rifiutano: saranno meno disponibili ad accettare i mestieri scartati dagli italiani – in genere umili e poco gratificanti -; si svilupperanno (già sta accadendo) conflitti familiari a causa delle differenze maturate; qualche tendenza ortodossa o, al contrario, estremamente liberale, si trasformerà in integralista; l’ottenimento della nazionalità sarà considerata una delle priorità. Insomma, avremo di fronte uno scenario in continuo movimento.
Sulle seconde generazioni, spiegano ancora i ricercatori della Fondazione Agnelli , «si gioca veramente l’integrazione e tutto dipenderà dalla capacità di accoglienza della società italiana».

I RUMENI, LA SORPRESA
Sono tanti, i rumeni e hanno battuto i maghrebini nel totale italiano delle presenze. In genere si integrano abbastanza bene e sono oggetto di minori pregiudizi, perché fisicamente «più simili agli italiani» dei loro concorrenti nelle statistiche sull’immigrazione: gli arabi marocchini, appunto.
Ma anche loro sono noti nelle cronache giornalistiche soprattutto per quella parte che delinque, che si prostituisce o che sfrutta i minori anche nel mercato del sesso.
La comunità dei rumeni in realtà è formata da due gruppi diversi: i cattolici, molto meglio assimilati, e gli ortodossi, molto meno. I primi sono qui da almeno due generazioni e i figli si sentono del tutto italiani, gli altri costituiscono un’immigrazione più recente.
Il grande afflusso è iniziato 10 anni fa circa, con adulti e minori che arrivavano qui in cerca di lavoro. Nei decenni precedenti si era trattato invece di migranti per matrimonio: giovani donne maritate a italiani maturi.
Chiediamo a Zamfira, mediatrice culturale, moglie di un italo-rumeno e madre di una ragazzina di seconda media, del tutto italiana, come vivono i suoi giovani connazionali. La sua risposta potrebbe adattarsi bene sia al caso dei cinesi sia a quello dei maghrebini.
«Sono scissi tra due identità: da una parte sono legati alle proprie tradizioni familiari e culturali, dall’altra vorrebbero essere come i loro coetanei, che imitano nel consumismo e nelle mode. C’è un senso di sradicamento che spesso prevale e tanti conflitti interiori e familiari. Non credo vivano bene, e sto parlando di chi è qui con la famiglia o almeno con dei parenti. La situazione per quelli soli è ben peggiore, ovviamente. Dobbiamo capire che in patria hanno lasciato una realtà di povertà e qui si trovano di fronte a tanti stimoli materiali ma ad altrettanta solitudine. Tra i compagni, nelle superiori, c’è un certo razzismo: loro sono figli di gente che, seppure spesso con una laurea in tasca, svolge lavori umili, che gli italiani non fanno più: assistenza a malati e anziani, mansioni nell’edilizia, nei mercati alimentari, nel settore delle pulizie. Mestieri di cui si vergognano, quando stanno in mezzo agli italiani, e di cui non parlano quando si ritrovano con i connazionali. Tra loro c’è un tacito sorvolare sull’argomento: tanto, quasi tutti i loro genitori sono impegnati nelle stesse modeste attività».
Viene da pensare che, forse, se sapessero che questi percorsi professionali e questa vergogna per gli umili impieghi dei propri cari erano molto diffusi fra i giovani italiani figli di immigrati dal Sud dell’Italia o dal Veneto o dalle campagne piemontesi, si sentirebbero meno frustrati. Forse sono le nuove generazioni nostrane ad aver dimenticato di essere, in molti casi, la discendenza di migranti poveri e senza mezzi culturali.
«In effetti, la situazione di molti immigrati è piuttosto simile a quella dei vostri, nel Novecento – riflette Zamfira -. I ragazzini rumeni spesso inventano realtà che non esistono: benessere, lavori ben pagati, soddisfazione. Raccontano che i genitori hanno una bella professione e che guadagnano tanti soldi: sono bugie che servono per coprire il loro disagio. Anche il fatto di abitare in due-tre famiglie in uno stesso appartamento non aiuta a risolvere i problemi.
Un’altra nota dolente è la prostituzione e la delinquenza minorile. Qualche giorno fa mi trovavo sul tram e ho assistito a una scena che mi ha angosciata molto: tre donne rumene, di cui una adolescente, stavano discutendo animatamente. Erano prostitute. La giovane si stava ribellando a quella che doveva essere sua madre, affermando di non voler fare più quel mestiere. La mamma e l’altra donna, forse la maman del giro, erano visibilmente in disaccordo con lei. Poi, a un certo punto, la ragazzina ha notato il pulsante per la prenotazione della fermata e, tutta contenta e stupita, ha iniziato a schiacciarlo ripetutamente, come in un gioco infantile. Ho capito che forse era arrivata da poco da qualche villaggio della Romania per fare la prostituta. Ma era rimasta una bambina dentro, come giusto». •

Angela Lano




DOSSIER NUOVI ITALIANI”Stiamo tornando indietro”

I problemi – spiega il sindacalista di origini iraniane – riguardano soprattutto gli immigrati da paesi islamici. Il domani? Dipende da…

Mohammed Reza Kiavar è un sindacalista di origini iraniane che dagli anni Settanta vive in Italia, dove era arrivato per frequentare la facoltà di architettura. È sposato con una giornalista torinese, ha una bimba di sette anni e lavora alla Cisl, dove si occupa delle tematiche dell’immigrazione.

Come stanno attualmente i figli dei nostri concittadini immigrati?
«Le seconde generazioni sono in crisi. Lo sono soprattutto quelle provenienti da paesi islamici. Non è per tutte così, ovviamente: dipende dalle famiglie e dal contesto culturale. Quando i genitori non hanno i mezzi adeguati per bilanciare l’educazione domestica con quella che i loro figli inevitabilmente ricevono fuori, esplodono i conflitti e le sofferenze. I ragazzi si ritrovano con una doppia identificazione culturale: hanno studiato qui e si sentono vicini alle esigenze dei loro compagni e amici, ma in famiglia si pretende che rispettino le tradizioni d’origine. Per i padri è forse l’unico strumento per farsi valere in un contesto che considerano privo di rispetto per le figure genitoriali. I maschi sono lasciati un po’ più liberi, ma è sulle femmine che avviene la pressione maggiore: devono vestire in un certo modo, hanno limitazioni nelle libertà, ecc. Spesso escono di casa con l’hijab e la jellaba, e una volta arrivate a scuola si levano via tutto per rimanere in jeans e magliette corte».

E i latinoamericani?
«Stanno molto meglio: le differenze culturali e religiose sono poche. Diciamo che vivono crisi diverse: accusano i loro genitori di essere un po’ arretrati rispetto ai mezzi della vita modea e consumistica italiana, ma non ci sono conflitti laceranti tra scelte opposte e inconciliabili, come spesso accade per i musulmani.
Per gli immigrati dall’Est europeo non si può parlare ancora di seconda generazione, trattandosi di un’immigrazione molto recente. Comunque, i ragazzi provenienti da queste regioni sono quelli che si integrano più facilmente.
Possiamo in effetti dedurre che, dove agiscono religioni e culture molto diverse da quelle del paese ospite, allorché mancano gli strumenti o la volontà per ridurre le distanze, i conflitti familiari e sociali aumentano. Tra le famiglie islamiche chi, pur senza rinnegare la propria cultura, ha rinunciato ad alcune tradizioni che ostacolerebbero una buona integrazione, è riuscito a risparmiare ai propri figli tensioni, malessere e crisi di identità. Molto dipende dalla preparazione dei genitori e dalla loro disponibilità a ridiscutere abitudini secolari e consolidate».

Quali potranno essere le prospettive future?
«Se le seconde generazioni sono e saranno attraversate da crisi, la situazione migliorerà per le terze… sempre che i figli degli italiani di oggi non diventino razzisti e xenofobi domani. E dalle attuali premesse politiche, sociali e culturali, tutto fa pensare al peggio: siamo in piena regressione. Stiamo tornando indietro di anni e anni. E questo è molto preoccupante». •

Angela Lano




DOSSIER NUOVI ITALIANI”Non tornerei in Marocco”

La cultura di provenienza è una ricchezza enorme. Ma – spiegano le due ragazze islamiche – «il nostro paese ora è l’Italia».

Fatima e Sarah, due ragazze marocchine, sono sedute ai tavolini di un bar di un grande albergo che ospita il festival islamico di al-Aqsa, una ricorrenza annuale per raccogliere fondi da mandare a orfani e vedove in Palestina. Sorseggiano del caffè mentre sembrano immerse in una fitta conversazione.
Vivono in Italia da tanti anni: universitaria la prima, liceale la seconda, hijab intorno al capo, entrambe fanno parte del direttivo del Gmi, Giovani musulmani italiani.
Stanno discutendo di integrazione e di conflitti familiari. L’argomento è interessante …

Fatima, come ti percepisci, italiana, marocchina, tutte e due le cose?
«Mi sento di appartenere sia a questa cultura sia alla mia. Sono cresciuta qui, tra i miei amici italiani. Mi sento alla pari con loro. Il primo giorno di frequenza all’università, i miei compagni mi hanno osservata con interesse ma senza diffidenza. Considerata la situazione internazionale, mi sarei aspettata un atteggiamento negativo. Invece è andato tutto bene e abbiamo fatto subito amicizia. Studiamo insieme in biblioteca o in aula. Amo questo paese ma non mi sembra una contraddizione indossare l’hijab, come richiede la mia religione. Credo che ciò che non si riesce a capire è che noi siamo italiani a tutti gli effetti: la cultura di provenienza è un’enorme ricchezza.
Noi giovani musulmani costituiamo un ponte tra le culture. Molti aspetti legati alle tradizioni di provenienza possono essere abbandonati, i principi della fede, no. Tutti noi siamo di fronte a una sperimentazione di un islam italiano.
Uso il velo dall’età della pubertà: è stata una scelta serena, i miei genitori non me l’hanno imposto. Nessuno può obbligare qualcun altro a usarlo. E non ritengo giusto giudicare chi, pur praticante, decide di non indossarlo».

E in famiglia, come vanno le relazioni tra le generazioni?
Sarah: «Esistono tanti tipi di famiglie, sia quelle legate alle tradizioni sia quelle che si oppongono se i figli vogliono seguirle, qui in Italia. Ci sono anche i giovani che non hanno ricevuto alcun approccio religioso. D’altro canto, si trovano anche genitori che addirittura vietano ciò che l’islam non vieta: la libertà di movimento e di relazione umana con altre persone. Per esempio, non lasciano uscire di casa le ragazze, le discriminano proibendo loro l’accesso allo studio. I miei genitori sono religiosi praticanti ma non tradizionalisti: mi lasciano uscire fino a tardi con le mie amiche, studiare e pensare al mio futuro. Quelli più tradizionalisti e duri sono in disaccordo con i figli e in casa ci sono gravi conflitti. Sono intransigenti e poi neanche sanno che fanno e dove vanno i ragazzi una volta usciti. Ci vuole fiducia e apertura mentale».
Fatima: «Abbiamo una doppia identità: a casa, in genere, si parla arabo, fuori, italiano. Pensiamo anche in italiano. Certe volte abbiamo paura che il nostro sentirci italiani possa offendere i nostri genitori, come se avessimo dimenticato le nostre radici e le nostre tradizioni».

Il mito del ritorno in patria dei padri è ancora condiviso dai figli, secondo voi?
Fatima: «I miei genitori sanno che io non toerei in Marocco con loro, nonostante sia nei loro programmi. E lo accettano. Ma non è così per tutti i ragazzi: spesso si creano dei “giochi di ruolo”, due identità. In casa sono in un modo, fuori in un altro. E ciò porta a una situazione di disagio, anche a livello psicologico: si è scissi in due in contesti importanti per la propria vita. Non si è se stessi. Ecco, l’islam ci aiuta a trovare la strada e la serenità». •

Angela Lano




DOSSIER NUOVI ITALIANI”Sì, potrei sposare un’italiana”

Difficoltà linguistiche e culturali, lavori soltanto con connazionali: quella cinese è una comunità molto chiusa. Eppure i cinesi di seconda generazione stanno smarcandosi dalla tradizione. Lizao ne è un esempio.

Lizao lavora in un ristorante cinese di Avigliana, in provincia di Torino: serve ai tavoli e prende le ordinazioni dei clienti. Ciuffo colorato di biondo su un caschetto castano, faccia simpatica e italiano fluente, accetta volentieri di rispondere a qualche domanda sulla sua vita di immigrato di «seconda generazione». Mentre i suoi colleghi-parenti lo osservano con un’espressione di curiosità mista a perplessità, il ventunenne cinese di Zhejiang (regione tra Shanghai e Pechino) racconta di quanto gli piaccia vivere in Italia e di come abbia imparato una lingua «così difficile» come la nostra, a scuola, dieci anni fa.
«Sono arrivato in Italia con la mia famiglia, nel ’93. Avevo undici anni e sono stato inserito in quarta elementare. Non capivo nulla: i suoni dell’italiano erano così diversi da quelli del cinese! Alla fine qualcosa è scattato e ho iniziato a comunicare. Ricordo le insegnanti, bravissime e accoglienti. Hanno messo tutto il loro impegno nell’aiutarmi ad inserirmi bene in classe. Era una scuola di San Salvario (un quartiere multietnico di Torino, ndr)».

Dopo le scuole dell’obbligo ha continuato gli studi?
«Mi sono iscritto in prima superiore: istituto professionale di costume e moda. Andavo bene e mi piaceva studiare, ma ho dovuto smettere per iniziare a lavorare: avevo già un posto che mi aspettava. Un ristorante. Ma non mi sono fermato lì: ho cambiato sia locale sia città. Questo ristorante è di altri miei parenti».

Lavorate sempre tra di voi. Ma questo non vi aiuta ad integrarvi con la società italiana…
«È vero. Ma ci sono varie motivazioni alla base della nostra scelta. Prima di tutto, le difficoltà linguistiche. Lavorare tra di noi permette di comunicare senza problemi. Poi, non è facile che un imprenditore italiano ci offra un posto di lavoro: c’è ancora molta diffidenza nei nostri confronti, anche se siamo grandi lavoratori. Mio zio, ad esempio, è stato assunto in un’azienda italiana e il suo titolare è molto soddisfatto di lui».

Terzo?
«Appena qualcuno di noi riesce a mettere del denaro da parte, apre un nuovo ristorante e crea opportunità di lavoro per parenti e conoscenti. Dunque, è più facile trovare un’occupazione all’interno della nostra comunità di quanto non lo sia all’esterno. E così rimaniamo tutti “in famiglia”. In questo modo, ovviamente, non siamo stimolati ad imparare l’italiano».

Nei suoi progetti futuri è previsto un ritorno in Cina?
Spero di andarci nelle prossime vacanze: non ci sono più tornato da quando ero bambino. Ma a viverci, no. Sono passati troppi anni e io sono cresciuto qui.
Non credo che troverei più a mio agio: il mio paese è sicuramente cambiato rispetto a quando l’ho lasciato. Può darsi che, da vecchio, deciderò di farvi ritorno per essere seppellito lì, nella mia terra. Ora però penso di stare qui, a lavorare. L’Italia mi piace molto».

Questo significa che metterà su famiglia qui?
«Credo proprio di sì».

Con un’italiana o con una cinese?
«Non so: per me è uguale. Per i miei genitori no: sono all’antica e vorrebbero che sposassi una connazionale. Quando si presenterà il problema ci penserò». •

Angela Lano




DOSSIER NUOVI ITALIANI”Mi fermano… solo perché sono nero…”

L’Italia è il suo paese. Fin dalla nascita.
Tutto bene, quindi? Quasi…

John è un adolescente italo-africano. Non vuole raccontare esattamente da che paese proviene. Anzi, diciamo che gli dà fastidio che gli si domandi l’origine, quasi si mettesse in dubbio la sua attuale «italianità».
Parla in fretta, in un italiano perfetto e senza particolari inflessioni. Ha i capelli legati in una cascata di piccole treccine tenute ferme da elastici colorati, e un bel viso scuro con grandi occhi neri.
Orecchini piccoli al naso e ai lobi delle orecchie, jeans, maglietta e scarpe all’ultima moda, cammina in mezzo a un gruppetto di compagne di scuola, in un istituto per il turismo di Torino. Più che delle amiche sembrano le sue fan: per tutta la chiacchierata non smettono di girargli attorno.

Sei nato in Italia o ci sei arrivato da bambino?
«Qui, sono nato qui».
Quando?
«Sedici anni fa».
I tuoi di dove sono?
«Africa».
È un continente…
«Già, e grande anche… I miei fratelli, no».
No, cosa?
«Non sono nati qui: sono più grandi. Ma è la stessa cosa: quando cresci, vai a scuola in un paese, vai in oratorio, hai gli amici, esci, sei come tutti gli altri».
Uguale.
«Eh sì, è un nonsense parlarne, perché non mi sono mai nemmeno posto il problema, a dir il vero».
Mai avuto questioni con i compagni?
«Perché avrei dovuto? Sono nato in Italia e non riesco a immaginarmi, per il momento, in un altro posto. Magari un giorno mi piacerebbe andare all’estero a fare nuove esperienze, a lavorare. I miei studi sono rivolti a quello: a viaggiare. Almeno spero. Però l’Italia è il mio paese».
Quindi, tutto ok?
«Sì… il casino è quando mi fermano per i controlli».
Ti fermano?
«La polizia, per routine… magari bazzico ai Murazzi (lungo Po torinese, dove, oltre ai tanti locali alla moda e di divertimento giovanile, circolano droghe, ndr), ma non per farmi, no, quello non mi garba, ma per incontrare amici, andare a ballare… Insomma, mi fermano solo perché sono nero e dò l’impressione dell’immigrato».
Ti dà noia?
Si rabbuia un po’. «E come no? Certo. Mi sento mortificato. È come se mi si dicesse che non faccio parte di questo paese, che invece è il mio».
I tuoi che lavoro fanno?
«Papà è laureato in ingegneria ma ha messo su una ditta di import-export, ed è spesso giù».
Giù…
«In Africa».
Già, il continente senza stati…
Ride e prosegue. «La mamma una volta era maestra, ma ha aperto un negozio».
Vai d’accordo con loro?
«Li amo e li rispetto, ma litighiamo spesso: non vogliono che esca la sera, che vada in giro in certi quartieri. Hanno paura della droga, della delinquenza. Dicono che al loro paese non ce n’è come qua. Ma che ci posso fare? Rimanere bloccato in casa?».
Musulmani?
«Cristiani e praticanti, i miei. Beh, io sono andato in oratorio e negli scout fino alle medie».
Sei bravo a scuola?
«Media del sette e mezzo – otto. Mi piace studiare, leggere di tutto. E guardare Mtv».
Quali sono i tuoi sogni futuri? Viaggiare?
«Sì. Mettere su un’agenzia di viaggi, magari».
La propensione familiare per il business c’è, non dovrebbe esserti difficile. Mi sembri molto in gamba e simpatico.
«Grazie. I giornalisti invece fanno un sacco di domande…».
È una carriera che ti attira?
«Uhm, leggendo cosa scrivono degli immigrati in Italia, preferirei evitare». •

Angela Lano




DOSSIER NUOVI ITALIANIAlcuni dati dall’annuario della Caritas e bibliografia generale

Le religioni

• Gli immigrati sono:
– di fede cristiana per il 49,5%
– islamici per il 33%.

Le nazionalità

• Le nazionalità più rappresentate: Romania, Marocco, Albania, ciascuno con circa 230 /240 mila soggioanti registrati.

• Al quarto posto balza l’Ucraina (113.000) e quinta è la Cina (100.000).

• Tra le 70 mila e 60 mila presenze oscillano Filippine, Polonia e Tunisia.

• Con 40 mila presenze: Stati Uniti, Senegal, India, Perù, Ecuador, Serbia, Egitto, Sri Lanka.

• In tutto, le nazionalità presenti in Italia sono 191.

Quanti sono

• Sono 2,6 milioni gli stranieri in Italia.

• La Lombardia è prima per numero di immigrati; Emilia Romagna la regione con più bambini stranieri.

• Sono 400 mila i minori, in aumento al ritmo di 60 mila l’anno: 35 mila nuovi nati e 25 mila ingressi.

• Ha connotati euro-mediterranei l’immigrazione in Italia.
Infatti, è europea quasi la metà degli immigrati in Italia:
– 47,9%, ma solo il 7% è costituito da cittadini comunitari,
– presenza africana: 23,5%
– presenza asiatica: 16,8%
– presenza americana: 11,5%.

Le rimesse

• L’immigrazione resta «la banca dei poveri»: nel 2003 le rimesse nei paesi di origine sono ammontate a 93 miliardi di dollari, cifra superiore agli investimenti delle aziende e agli aiuti governativi per lo sviluppo.

(fonte: Banca San Paolo)

Le scuole

• Nel 2003-2004 sono stati 282.683 gli alunni immigrati presenti nelle scuole italiane.

• Sono 50 mila in più rispetto all’anno precedente. Nel 2011-12 si pensa saranno circa 600 mila.

• Le città con il maggior numero di studenti immigrati sono Milano, Roma e Torino.

• Presenze di alunni stranieri nelle scuole:
Albania: 49.965
Marocco: 42.126
Romania: 27.627
Cina: 15.610
Ecuador: 10.674

• Scuole frequentate
(in percentuale):
– infanzia: 19,4
– primaria: 40,8
– medie: 23,9
– superiori: 15,9.
La percentuale di minori che frequentano le scuole superiori è ancora ridotta. Gli africani scelgono le scuole professionali; gli americani e gli europei non comunitari, le scuole tecniche.

• Nel 2003 si sono laureati 2.794 studenti stranieri.

Bibliografia
"Una scuola in comune", a cura di Graziella Giovannini e Luca Queirolo Palmas, edizioni Fondazione Agnelli, Torino 2002;
"La pelle giusta", Paola Tabet, edizioni Einaudi, Torino 1997;
"Seconde generazioni", a cura di Maurizio Ambrosini e Stefano Molina, edizioni della Fondazione Agnelli, Torino 2004;
Dossier statistico Caritas, Roma 2004;
"La fatica di integrarsi", Maurizio Ambrosini, edizioni Il Mulino, Bologna 2001;
"Verso un’educazione interculturale", a cura di Laura Operti e Laura Cometti, edizioni Bollati Boringhieri, Torino 1992;
"Cultura araba e società multietnica", a cura di Laura Operti, Irrsae Piemonte-Bollati Boringhieri, Torino, 1998;
"Il sistema scolastico in prospettiva interculturale", Angelo Negrini, Emi editrice, Bologna 1998;
"Animo da guerriero", Daniela Palumbo, edizioni Paoline, Milano 1999;
"Khaleb, piccolo amico arabo", Daniela Palumbo, edizioni Paoline, Milano 1999;
"Lexico minimo – vocabolario interculturale illustrato", Emi editrice, Bologna;
"Voci di donna in un hammam", Angela Lano, Emi editrice, Bologna 2002;
"Dall’integrazione all’intercultura", Davide Rigallo e Simonetta Sulis, editrice L’Harmattan Italia, Torino 2003;
"Gli immigrati in Italia", Roberto Magni, Edizioni Lavoro, Roma 1995;
"La dignità dell’emigrare", a cura di Lucia Bianco e Carmine Lanni, Ega editrice, Torino 2000;
"Pantanella. Un canto lungo la strada", Mohsen Melliti, edizioni Lavoro, Roma, 1992;
"Islam e stato italiano", a cura di Elvio Arancio, Gabriele Mandel, Roberto Hamza Piccardo, edizioni Cerriglio, Torino 2003;
"I diritti di chi non ha diritti. Migrazioni di ieri e di oggi", a cura di Ada Lonni, Edizioni dell’Orso, Alessandria 1995;
"Sogni di realtà: Alma Lavoro. Percorsi di pari opportunità. Esperienze di inserimento lavorativo qualificato di donne immigrate", a cura dell’Associazione Alma Terra, Torino 2004;
"Neanche nei nostri sogni più folli: storia di un percorso di pari opportunità. Migranti impiegate in banca", a cura di Maria Viarengo e Ferzaneh Gavahi, Associazione Alma Terra, Torino 2004.

Fotografie
Tutte le fotografie di questo dossier sono di Michele D’Ottavio, eccetto quelle delle pagine 28 (archivio), 37 (Pagliassotti) e 40-41 (Pagliassotti).

Angela Lano




DOSSIER GIAPPONEIntroduzione

 

HIROSHIMA E NAGASAKI

I loro nomi saranno uniti per sempre, memoriale e monito di come l’uomo sia capace di una incredibile distruzione e autodistruzione: Hiroshima e Nagasaki.
Ricordare i nomi delle due città giapponesi, le sole al mondo ad aver subito il bombardamento atomico, significa «aborrire la guerra nucleare e impegnarsi per il futuro e per la pace», rifiutare la «potenza nucleare come mezzo per mantenere l’equilibrio del potere attraverso l’equilibrio del terrore» affermava Giovanni Paolo ii il 25 febbraio 1981, davanti al Peace Memorial di Hiroshima.
Lo sanno tutti cosa è capitato in quelle due città; ma conviene sempre rinfrescare la memoria.

I l 25 luglio 1945, una gelida nota del comando militare Usa dirama il seguente comunicato: «La 20a unità delle forze aeree sgancerà la sua prima bomba speciale, appena le condizioni atmosferiche lo permetteranno, all’incirca dopo il 3 agosto 1945, su uno di questi obiettivi: Hiroshima, Kokura, Niigata, Nagasaki. Per permettere agli scienziati militari e civili di registrare gli effetti dell’esplosione, un ulteriore velivolo accompagnerà l’aeroplano che trasporterà la bomba».
Il lunedì 6 agosto mattino, un quadrimotore B29, battezzato Enola Gay, si leva in volo da Tinian, con a bordo 12 uomini di equipaggio e il Little Boy (bambino, ragazzino): si tratta di una bomba lunga tre metri e 5 tonnellate di peso, caricata con 10 kg di uranio 235, la cui potenza distruttiva è valutata in 13 mila tonnellate di Tnt (trinitrotoluolo-toluene).
L’obiettivo non è precisato nel piano di volo; lo sceglierà uno degli aerei meteorologici che lo precedono, a seconda delle condizioni atmosferiche. All’altezza di Iwo Jima, arriva l’atteso bollettino: «Nagasaki coperto totalmente, Hiroshima visibilità dieci miglia».
Alle 7.59 l’aereo raggiunge l’obiettivo; alle 8,15 il pilota Thomas Wilson Ferebee apre il portellone e lascia cadere nel vuoto il Little Boy. La bomba scende in picchiata. L’aereo ha 45 secondi per allontanarsi. Gli uomini sottovoce contano i secondi, poi un lampo accecante: si eleva una sfera di fuoco del diametro di 600 metri, il cui centro ha una temperatura di 100 milioni di gradi.
Dopo 7 secondi un rimbombo assordante rompe l’innaturale silenzio. Dal punto dello scoppio si sprigiona una colonna di fumo, vapore e polvere, che s’innalza verso il cielo e dilata la sua cima fino ad assumere la forma di un fungo. L’esplosione demolisce gli edifici nel raggio di tre chilometri; la devastazione si allarga su una superficie di dodici chilometri quadrati: saltano le condutture, scompaiono intere strade, dal cielo cadono goccioloni enormi e viscidi; le acque dei canali straripano invadendo il deserto di macerie.
In pochi istanti 71 mila giapponesi sono vaporizzati; 20 mila moriranno nella notte; altri 60 mila nel corso dell’anno; oltre 100 mila i feriti, su una popolazione di circa 245.000 abitanti.
In quella «fine del mondo», come è ribattezzato quel 6 agosto 1945, si vedono i sopravvissuti vagare come fantasmi, pelli bruciate che si staccano dai corpi, madri che stringono al petto i figli carbonizzati, disperati che si suicidano.
Oltre 4.800 reperti, conservati nel Museo della bomba atomica di Hiroshima, parlano ancora degli effetti devastanti di quell’inferno.
Il 9 agosto, alle ore 12.00, Bock’s Car, un altro B29, sgancia la seconda bomba atomica, al plutonio, detta Fat Man (grassone, ciccione), questa volta su Nagasaki. Gli effetti sono identici: la città interamente distrutta, 41 mila morti e 70 mila ustionati gravi, anch’essi destinati a una lunga agonia.
Ai morti e feriti delle due bombe vanno aggiunte le devastanti conseguenze genetiche su migliaia di migliaia di altre persone, su animali e piante dei territori circostanti prodotte dalle esplosioni nucleari.

I l 14 agosto 1945 l’imperatore giapponese firma la resa. Gli americani continuano l’occupazione fino al 1948. Il trattato di San Francisco del 1951 restituisce formalmente la sovranità ai nipponici e la possibilità di ricostituire una forza militare di polizia, ma la politica giapponese rimane subalterna alle direttive di Washington, nonostante le proteste di piazza degli anni ‘70.
Anzi, il filo che lega il Giappone agli Usa diventa sempre più solido, fino ad appoggiare la guerra in Afghanistan e inviare truppe in Iraq.
Dal 3 novembre 1946, data di nascita della Costituzione giapponese, nessun soldato delle Forze di difesa interna ha messo piede fuori dall’isola. L’articolo 9 sancisce: «Aspirando sinceramente a una pace internazionale basata sull’ordine e la giustizia, la popolazione giapponese rinuncia per sempre alla guerra come un diritto sovrano della nazione e all’uso della forza per sedare le dispute internazionali».
Il premier Koizumi, però, si è creato una legge di durata biennale che prevede la possibilità d’inviare truppe per «speciali misure di intervento umanitario e di ricostruzione» nelle zone devastate dalla guerra. Così un contingente di 1.000 soldati è atterrato a Balad, in Iraq, a fianco degli americani.
Il tabù è rotto. Ma cosa pensano i cittadini giapponesi del fatto di trovarsi a combattere a fianco della stessa potenza che ha fatto vedere loro la «fine del mondo» e che sta sperimentando nuove armi nucleari miniaturizzate, ma altrettanto devastanti di quelle di 60 anni fa?
B.B.

B.B.




DOSSIER GIAPPONE… E la chiamarono

Richieste di pace del Giappone prima del lancio delle bombe

Recenti documenti rivelano che l’ecatombe di Hiroshima e Nagasaki poteva essere evitata: il delirio di onnipotenza degli scienziati, il cinismo degli Alleati, la corsa al bottino tra Usa e Urss resero vani i tentativi diplomatici.

Alamogordo, New Mexico: 16 luglio 1945, ore 5, 29 minuti e 45 secondi del mattino.
La terra sussulta in un ultimo spasmo. Poi un bagliore accecante si sprigiona dalle sue viscere, come se un nuovo sole dovesse essere partorito. Pochi secondi dopo, tornato il silenzio, una voce riprende a parlare:
«Ora sono diventato morte, il distruttore dei mondi».
Versi della Bhagavad Gita, ma chi li pronuncia non è Vishnu, bensì J. Robert Oppenheimer, lo scienziato direttore di Los Alamos, nei cui laboratori è stata progettata e costruita la prima bomba atomica.
La citazione sacra non era solo il frutto dell’emozione del momento. La manipolazione e l’«addomesticamento» dell’atomo, avevano creato nelle menti della società scientifica, militare e politica statunitense, un senso di onnipotenza che portava ad innalzare l’uomo al pari di Dio. Non è certo un caso che, nella storia della più terribile arma di distruzione di massa ideata dalla «bestia umana», i riferimenti religiosi trabocchino.
«Come sono uno Oriente e Occidente
Nella piattezza delle carte e mia
Così la morte e la resurrezione».
Questa poesia di John Donne, intitolata Inno al Signore mio Dio nella mia infermità, aveva convinto Oppenheimer a dare al test di Alamogordo il nome di «Trinità».
La bomba, agli occhi di molti, tra cui lo stesso Oppenheimer, sarebbe stata così potente da mietere talmente tante vittime, che i giapponesi avrebbero chiesto la resa e posto finalmente fine alla guerra del Pacifico. L’uomo era colui che aveva creato la morte e la resurrezione. Il nuovo Dio in terra.
E il 16 luglio 1945, l’era nucleare ebbe inizio. Un’era lastricata di vite umane, ma che, come dimostrano i documenti recentemente resi noti dal Dipartimento di Stato americano, avrebbe potuto essere ben diversa, se solo si fosse voluto aprire uno spiraglio di dialogo.

IL CONTO ALLA ROVESCIA
Il 9 marzo 1945, gli Stati Uniti avevano lanciato su Tokyo un raid con 325 bombardieri, radendo al suolo 267 mila edifici e uccidendo in poche ore 89 mila persone, con la speranza che questo inducesse il governo imperiale alla resa immediata.
L’obiettivo di Roosevelt era quello di evitare una Yalta asiatica, così da impedire la spartizione delle sfere d’influenza con l’Urss di Stalin.
Il 12 maggio, quattro giorni dopo la fine della guerra in Europa, il rappresentante giapponese in Svizzera, Shunichi Kase, fece sapere a William Donovan, direttore dell’Ufficio servizi strategici, che il suo governo sperava di «trovare un accordo che permettesse di cessare le ostilità». Era il primo dei numerosi segnali di trattativa lanciati dai nipponici agli Alleati.
Ma a quel tempo, il comitato atto a scegliere gli obiettivi dei lanci atomici (si parlava già al plurale), si era riunito indicando una serie di città su cui scatenare la furia atomica: Kyoto, Hiroshima, Kokura e Niigata. Di queste se ne sarebbero scelte due. Il conto alla rovescia era partito e il punto di non ritorno superato.
Già il 1 giugno 1945 il Comitato ad interim affermava che la «selezione finale degli obiettivi è una decisione essenzialmente militare. L’opinione del Comitato è che le bombe devono essere usate contro il Giappone il più presto possibile; devono essere usate contro una fabbrica di guerra, circondata dalle case dei lavoratori e devono essere usate senza avvertimenti».
Il 31 maggio, l’Ufficio dei servizi strategici, ricevette da un diplomatico giapponese in Portogallo una proposta di pace in cui, come unica condizione richiesta, non apparisse il termine «resa incondizionata».
Sulla base di questi nuovi sviluppi, lo stesso giorno, John McCloy, assistente al segretario della guerra Henry Stimson, suggeriva al suo diretto superiore di iniziare a intavolare negoziati con il Giappone, eliminando, appunto, l’espressione avversata da Tokyo: «Resa incondizionata – affermava McCloy -, è una frase che implica la perdita della faccia e io mi chiedo se non potremo rivolgerci al Giappone senza l’uso di tale termine».
Lo stesso Joseph Grew, vice segretario di Stato, confidò a Truman, succeduto alla Casa Bianca il 12 aprile subito dopo la morte di Roosevelt, che «il più grande ostacolo alla resa incondizionata del Giappone è la convinzione che una resa in questi termini porterebbe alla distruzione e alla rimozione permanente dell’imperatore e dell’istituzione imperiale. Se riuscissimo a dare qualche indicazione ai giapponesi che essi, una volta arresi e resi impotenti militarmente, potranno da soli determinare il futuro della loro struttura politica, affronteranno la possibilità di arrendersi salvando la faccia».
EVITARE L’UMILIAZIONE
Sul fronte scientifico, Leo Szilard, assieme a Walter Bartky e Harold Grey, tutti scienziati che avevano lavorato al «Progetto Manhattan», chiesero al segretario di Stato Jimmy Byes di mostrare a una delegazione giapponese il potenziale distruttivo della bomba atomica, in modo da facilitare eventuali trattative di pace.
La stessa richiesta, questa volta diretta a Stimson, venne ripetuta il 27 giugno 1945 dal sottosegretario della Marina Ralph Bard.
All’inizio di luglio, la volontà di Tokyo a porre la parola fine alla guerra si fece più concreta. Una serie di dispacci tra il ministro degli Esteri Shigenoria Togo e l’ambasciatore imperiale a Mosca, Sato, furono intercettati dai servizi statunitensi. In queste missive, Togo chiedeva a Sato di conferire urgentemente con il ministro degli Esteri sovietico, Molotov, per avviare una serie di colloqui:
«Dato che stiamo segretamente prendendo in considerazione la fine della guerra – scriveva Togo -, deve estendere la nostra volontà alla Russia, perché si faccia portavoce (presso gli Alleati) della nostra volontà.
Sua Maestà l’Imperatore, preoccupato del fatto che la presente guerra porta gioalmente grandi sacrifici ai popoli di tutte le potenze belligeranti, desidera dal suo cuore che essa termini velocemente. Ma dato che l’Inghilterra e gli Stati Uniti insistono sulla resa incondizionata, (…) l’Impero giapponese non ha altra alternativa se non quella di combattere con tutte le sue forze per l’onore e l’esistenza della madrepatria. Sua Maestà è profondamente recalcitrante a versare altro sangue tra i popoli di entrambi i fronti; per questa ragione, ed è questo il suo desiderio, chiede di restaurare la pace il più presto possibile per il bene dell’umanità».
I messaggi tra i due diplomatici continuarono per tutto il mese, captati dagli statunitensi.
Vista la riluttanza di Mosca nell’incontrare l’inviato imperiale, il 13 luglio Togo spronò Sato a perorare la causa di pace presso il Cremlino:
«Chiarisca che l’incontro con l’inviato speciale permetterà a Stalin di conquistare la reputazione di paladino della pace mondiale e, inoltre, siamo pronti ad accettare tutte le richieste dei russi in Estremo Oriente».
Ci furono delle aperture anche verso gli Stati Uniti, sulla base di intercettazioni giapponesi di messaggi tra ufficiali della marina americana:
«Il 19 (luglio), il capitano della Marina, Zacharias, ha detto che il Giappone ha due sole alternative:
1. essere sottomesso a una pace imposta dopo essere stato distrutto;
2. arrendersi senza condizioni e ricevere i benefici della Carta Atlantica.
Il fatto che gli americani abbiano alluso alla Carta Atlantica, è particolarmente degno di attenzione in questo periodo. È impossibile per noi accettare la resa incondizionata (…) ma è nostra intenzione informarli (…) che non vi sono obiezioni alla restaurazione della pace sulla base della Carta Atlantica. Il vero punto critico è l’insistenza del nemico di imporre la resa incondizionata. Se l’America e l’Inghilterra si fossilizzano su questo punto, l’intero progetto si infrangerà inevitabilmente su questo scoglio».
L’ambasciatore Sato rispose a Togo che era impossibile chiedere ai sovietici di rompere l’intendimento con gli Alleati circa la resa incondizionata.
TRIONFA LA LINEA DURA
Ma anche nel fronte alleato continuarono a esserci delle obiezioni sulla linea dura mantenuta da Washington e Londra. Il 9 giugno George Marshall, capo dello staff militare, scrisse un memorandum a Stimson, in cui si chiedeva di «cessare di parlare di resa incondizionata del Giappone e cominciare a definire i nostri veri obiettivi in termini di difesa e di disarmo»; mentre il 18 giugno l’ammiraglio William Leahy, sul suo diario personale annotava che «una resa del Giappone può essere discussa entro i termini che possono essere accettati dal Giappone e che soddisfino pienamente il desiderio di difesa dell’America contro una futura aggressione trans-pacifica».
Infine, il 20 giugno 1945 anche l’US Strategic Bomb Survey notava che «l’Imperatore, appoggiato dal premier, dal ministro degli Esteri e da quello della Marina, è favorevole alla pace; il ministro dell’Esercito e i due capi dello Staff Militare, invece, non concordano».
Ma l’evento che avrebbe potuto cambiare le sorti della guerra giunse il 7 luglio. Quel giorno Byes ricevette dal vice segretario di Stato, Joseph Grew, un telegramma che lo informava di un’apertura formulata dall’addetto militare giapponese a Stoccolma, generale Onodera, il quale offriva un negoziato di pace con gli Alleati, nel caso gli Stati Uniti avessero garantito il mantenimento dell’istituzione imperiale.
Ma oramai Truman e il suo staff avevano preso una decisione da cui non volevano recedere. A nulla valse l’estremo tentativo di Leo Szilard e altri 155 scienziati del Progetto Manhattan, che, il giorno dopo il Trinity Test, scrissero una petizione al presidente in cui lo si invitava a «esercitare il suo potere di comandante in capo per far sì che:
1. gli Stati Uniti non ricorreranno all’uso delle bombe atomiche in guerra, a meno che, una volta che i termini imposti siano stati resi pubblici nel dettaglio e portati a conoscenza del Giappone, questi rifiuti di arrendersi;
2. che la decisione di usare o meno le bombe atomiche sia presa da lei in persona, in base alle considerazioni presentate in questa petizione, così come le responsabilità morali involte».
Il 18 luglio, all’apertura della Conferenza di Potsdam, Truman e James F. Byes sondarono l’atteggiamento di Stalin nei confronti di Tokyo. Nel diario di Walter Brown, assistente speciale di Byes, si legge: «Stalin ha rivelato che il Giappone ha chiesto di mandare una missione a Mosca per un colloquio di pace. Ha inoltre detto che l’Imperatore non vuole continuare lo spargimento di sangue, ma esclude ogni termine che indichi una resa incondizionata. JFB (James F. Byes) ha chiesto a Stalin se c’era qualche mutamento nella politica russa verso la resa incondizionata. Stalin ha replicato: “Nessun cambiamento”; inoltre ha riferito che, a meno che Stati Uniti e Gran Bretagna abbiano altri suggerimenti, risponderà che non c’è nulla di specifico nella proposta giapponese e non c’è bisogno di una conferenza. Stalin ha affermato di credere che il Giappone pensi che la Russia stia entrando in guerra perché ha visto troppi movimenti di truppe russe al confine. Infine Stalin ha informato che non saranno pronti ad attaccare il Giappone prima del 15 agosto».
PER NON SPARTIRE IL BOTTINO
Il 15 agosto! Occorreva quindi stringere i tempi per evitare di dividere il bottino con Mosca.
Il 21 luglio, infatti, Truman autorizzò l’uso delle bombe atomiche. Quattro giorni dopo lo stesso Presidente ricordò nel suo diario: «Ho riferito al segretario della Guerra Stimson di usarle (le bombe atomiche) in modo che gli obiettivi siano militari e non le donne e i bambini. Anche se i giapponesi sono selvaggi, rudi, crudeli e fanatici, noi, in quanto leaders del mondo, per il bene comune non possiamo lanciare queste terribili bombe sulla vecchia capitale o sulla nuova».
Il 26 luglio la Dichiarazione di Potsdam intimava di «proclamare la resa incondizionata immediatamente di tutte le Forze Armate giapponesi».
Il capitolo era ormai chiuso.
Il 6 agosto 1945, 9 giorni prima del termine predetto da Stalin dell’entrata in guerra dell’Urss contro il Giappone, «Little Boy» venne sganciata su Hiroshima.
L’8 agosto Mosca dichiarò guerra a Tokyo e il giorno successivo, il 9 agosto 1945, il B-29 Bockscar, alle 9 e 44 del mattino sorvolò Kokura per sganciare «Fat Man».
Ironia della sorte: la città era avvolta dal fumo dei bombardamenti scatenati dai raids americani in una città limitrofa. Fu così che venne ridisegnato l’obiettivo: non più Kokura, ma Nagasaki.
L’ecatombe era compiuta. •

Piergiorgio Pescali