DOSSIER ANZIANI “Nonanona!” (Il grido delle badanti rumene)

«Il vecchietto dove lo metto» cantava Domenico Modugno. Quel vecchio ritornello dolce-amaro nasconde un problema che oggi è serio e sempre più diffuso. Attualmente la soluzione più in voga pare quella dell’affidamento a donne extracomunitarie, soprattutto dell’Est europeo (Romania, Ucraina, Moldavia) e del Sudamerica (Perù, Ecuador). Sono le «badanti» di cui sono piene le nostre città. E senza le quali ci sarebbero grossi problemi.

Nelle case italiane, soprattutto delle regioni settentrionali, il ritornello «nonanona!» è diventato una consuetudine. È il modo in cui le assistenti familiari, più popolarmente indicate come badanti, chiamano le nonne, o i nonni, che assistono. Pronunciato in modo gentile ma deciso è una specie di richiamo all’ordine.
L’allungamento dell’età biologica rapportato ad una scarsa considerazione sociale dell’anziano (negata, ma effettiva) ha creato una zona d’ombra nella quale i vecchi sono chiamati a vivere non già un meritato riposo, ma una sorta di calvario finale caratterizzato da solitudine, abbandono, tristezza ed un frustrato desiderio di morte, vista come una liberazione.

LA CONOSCENZA, RICCHEZZA DEGLI ANZIANI
La funzione degli anziani è stata storicamente quella di produrre conoscenza. Chi poteva farlo meglio di loro? Chi meglio di un vecchio deportato può spiegare cosa sia stato il nazismo? Una conoscenza legata ai sentimenti ed al ricordo, lontana dalla cultura nozionistica.
Nel mondo del progresso-sviluppo-crescita tale ricchezza immateriale è superflua. Il nonno, un tempo capotavola, ha inesorabilmente preso la via del soprammobile ingombrante. Tutte quelle storie sui partigiani e i fascisti, la povertà, la frutta rubata dagli alberi, il dialetto, che un tempo inchiodavano nipoti più o meno grandi perché realmente avventurose sono diventate noiose, inutili, improduttive.
La famiglia di per sé in via di disintegrazione a causa delle continue e corpose dosi di individualismo somministrate dal modello «culturale» imperante, non riesce o non vuole dedicare il molto tempo che gli anziani chiedono. Il lavoro, la carriera, gli amici, il sesso, i divertimenti, l’affitto, le mille preoccupazioni che infarciscono la vita del cittadino moderno non danno molta possibilità di scelta… «Non ho tempo!». Stesso discorso da parte dello Stato che, teoricamente, dovrebbe garantire a tutti i cittadini dignitose opportunità di vita. Ma tutti i governi hanno sempre trattato gli anziani come parassiti che chiedono pensioni troppo esose, si ammalano troppo e non producono.
Gli olandesi, nel loro sconcertante pragmatismo, hanno risolto il problema. Gli uomini e le donne intorno a 70-75 anni sono consapevoli di essere un peso per la società e autonomamente si ritirano in centri per anziani, di solito ultra confortevoli. Dicono di essere felici di tale scelta e viverla come una conquista.
In Italia, il retaggio della famiglia patriarcale resiste creando lo scontro tra drastiche risoluzioni pratiche e crisi di coscienza.

CLANDESTINE, MA INDISPENSABILI
«Il vecchietto dove lo metto, dove lo metto non si sa, non c’è posto, non c’è posto per carità!», cantava Domenico Modugno. Un ritornello dolce amaro che apparentemente ha trovato una soluzione equa per nuove e vecchie esigenze. Quale? Angela, Elena, Maria, Sandra e molte altre sono ragazze giunte dai paesi dell’Est, soprattutto da Romania e Ucraina e loro sono «la soluzione» al «problema» (esiste una definizione più politicamente corretta?) del nonno. Sono le badanti, o collaboratrici familiari. Un esercito (solo in provincia di Torino sono 35.000) di lavoratrici che si prende cura delle persone anziane.
Il 90% è extracomunitaria, il 91% sono donne. Il 77% di loro ha la licenza media, il 15% la licenza elementare. Ragazze sì, ma anche donne adulte. Il 58% ha un’età compresa tra i 30 ed i 50 anni.
Applicando tali statistiche alla realtà torinese risulta che una famiglia su dieci ricorre al loro aiuto per assistere i nonni.
Molti analisti sostengono che sia l’ennesimo passo verso la totale privatizzazione del sistema sociale.
La badante vive in casa dell’anziano non più autosufficiente o con grosse difficoltà. Cucina i pasti, provvede a lavarlo, somministra medicine, vigila che non combini pasticci e ascolta in maniera professionale le storie del passato raccontate a oltranza. Fungono anche da difesa definitiva contro il pericolo delle truffe cui sono sottoposti molti anziani che vivono da soli.
Il boom di richieste di tale figura professionale sta portando ad un flusso continuo di ragazze che, lasciata la famiglia nei paesi di origine, giungono come clandestine ma già con un lavoro sicuro.

E LO STIPENDIO VA A CASA
Lo stipendio varia. Da un minimo 750 euro ad un massimo di 1.200, dipende dall’impegno che necessita la persona da assistere, se sono regolarizzate o meno, se devono lavorare anche il fine settimana. La tredicesima e la liquidazione finale vengono quasi sempre riconosciute. Il vitto e l’alloggio sono ovviamente offerti dalla famiglia.
Non tutte sono interessate alla regolarizzazione in quanto consapevoli di non essere considerate come un pericolo. «La polizia italiana non cerca noi che siamo sempre chiuse in casa e non rappresentiamo alcun pericolo per gli italiani. Economicamente poi non guadagneremmo nulla perché i versamenti fatti li perderemmo, in quanto un po’ tutte desideriamo solamente fare un buon gruzzolo e tornare a casa» dice Elena, badante-compagna di vita di Caterina anziana signora torinese.
La buona retribuzione ricevuta unita ad una semi mancanza di spese ha portato la categoria badanti ad essere un cliente ambitissimo dai trasportatori di soldi. Gli stipendi vengono di solito pagati in contanti, ed il gruzzolo che si forma viene nascosto in casa. La propensione al risparmio è elevatissima. Sono soprattutto le clandestine che ricorrono ai corrieri informali per spedire i soldi a casa con i quali riescono a mantenere tutta la famiglia. I bidoni esistono ma meno di quanto si possa immaginare.

LA STRANA COPPIA
Le dinamiche che si creano all’interno della strana coppia badante-nonno possono risultare bizzarre. Non sempre rose e fiori, talvolta un amore-odio reso vivibile dalle abili mosse diplomatiche dei parenti coinvolti, interessati che la convivenza sia pacifica quindi fruttuosa per tutti. Il rapporto di lavoro si conclude con la morte dell’assistito, e la famiglia del caro estinto solitamente non esita ad aiutare la badante con la quale ha creato un rapporto quasi familiare.
Racconta sempre Angela delle sue esperienze lavorative vicine ai nonni: «La vita da badante è faticosa. Il nostro impegno è continuo e, il peggioramento delle condizioni dell’anziano può talvolta risultare pesantissimo per tutti. Io temo molto di più il degrado psicologico che quello fisico perché difficilmente gestibile. Mi è capitato infatti che il nonno che assistevo non mi riconoscesse più e avesse crisi di panico. Oppure in altre occasioni che facesse resistenza passiva. È sicuramente un lavoro molto duro».
Eccolo dunque il popolo invisibile delle badanti. Talvolta capiscono male l’italiano, ma apprendono con impegno. Alcune imparano anche il dialetto.
La «soluzione badante» può essere un buon punto d’equilibrio tra la casa di riposo, non amata dagli italiani, e la vita in famiglia del nonno che comporterebbe sacrifici difficilmente sopportabili nell’epoca modea.

Maurizio Pagliassotti




DOSSIER ANZIANI “Se non incontro lo specchio non mi accorgo di essere vecchia”

Una donna descrive il suo invecchiare come sintesi della sua vita insieme ad altri vecchi che ama (marito, madre, parenti e amici) e se fisicamente non può più andare per mare e per monti, il suo cuore vola verso alture un tempo impensabili, ma solo ora possibili.

Il sentirnero dell’Alta Via si snoda dolce ed ombroso sul crinale. Da una parte, il bosco scende ripido verso Coreglia, mentre la corona dei monti, oati dell’ultima neve, ti circonda come un abbraccio; dall’altra parte, il bosco scende e si perde nel golfo color smeraldo.
L’ombra dei lecci è discreta e ospitale. Eppure facciamo fatica a camminare e ogni tanto dobbiamo sedere su qualche sasso e intanto ormai ogni gesto, ogni sguardo, ogni avvenimento mentre lo viviamo si fa già ricordo. Senza dircelo, sappiamo che ogni attimo ha un sapore che va vissuto intensamente con tutti i sensi tesi a raccoglierlo e spesso in queste nostre camminate sempre più facili e lente ci ripassiamo i ricordi: nevicate, tramonti, campi di girasoli e di lavanda, laghetti ghiacciati, mari in burrasca, grotte e musei, quadri e libri… tante finestre nel nostro cuore che si spalancano giorniose riportandoci il gusto della festa.
Altri ricordi, altri dolori e difficoltà ci riportano a giorni di lotte e di battaglie. Non sempre vinte, ma comunque superate con onore perché sono state la nostra scuola di vita alla quale ci siamo temprati come piccoli soldati e ora ci brillano in cuore come medaglie.
È stato il crinale sul quale abbiamo sempre un po’ gustato l’avventura dell’esistenza che ora ci dà ancora il senso del nostro andare. Un equilibrio sempre più precario: sul versante in ombra, le delusioni, i rimpianti del «poteva essere diverso», del desiderio di essere più capiti e più amati, la nostalgia; ma, dall’altra parte, il sole e il richiamo a vivere leggeri come bambini nell’attimo che viene, pronti a dare, amare sempre e per primi come si può e come si è capaci, ma sempre al meglio di noi stessi, come se la passione per la vita fosse intatta e immacolata.
Non voglio, comunque, rinunciare all’ombra che mi fa risaltare il sole e me lo fa più cercare e amare. Non voglio rinunciare a niente di questa vita impastata di albe e tramonti che mi propone ancora mille curiosità e mille possibilità di «imparare».
Imparare a tenermi dritta su questo sentirnero dove vedi la vetta sempre più vicina e sempre più in alto. Quando entro in un ospedale o in una cosiddetta «Casa di riposo», allora la vetta si fa impervia e mi terrorizza. Sarò in grado di raggiungere «quella» vetta? Nell’avere bisogno di tutto, sarò in grado di abbandonarmi totalmente, di continuare a ringraziare, di non aspettarmi nulla dagli altri nel continuare a servire Dio nell’offerta di ogni debolezza?

È la «Casa di riposo» che mi attira ora come luogo di pensiero e di meditazione: che cosa è «casa» e che cosa è «riposo»? Penso alla mia «casa» come luogo di rifugio e di raccolta di oggetti, libri, abitudini, riti, ma anche al distacco con cui, in questi ultimi tempi, vado coltivando il mio cercar «casa» nel mio cuore. Così come cerco il riposo standomene tranquilla nella mia solitudine interiore alla ricerca continua dell’amico di sempre e per sempre. Ce la farò?
La mia vita intanto scorre senza sosta con mille impegni e tra mille difficoltà e spesso è mattina e sera, è Natale e Pasqua e il tempo si fa sempre più breve e veloce perché è di nuovo compleanno.
L’amore per i «miei» (marito, genitori, figli, nipoti) mi dà una cadenza di servizio che mi scalda (e mi distrugge di fatica). L’amore con i fratelli di fede mi nutre e mi fa sentire così compagna in questo viaggio, così impegnata verso la mèta. Leggere nei loro volti le mie stesse tensioni, paure, coraggi, mi commuove, mi consola, mi travolge in una fusione di cuori sempre più profonda.
Anche le lacrime sono nuove, sono di pietà e di misericordia, lacrime di attesa. Il dolore per questo povero mondo dove poveri piccoli uomini pensano di poter dettare leggi e uccidere e arricchire come se la vecchiaia e la morte non potessero sfiorarli. Mi mette in cuore una grande nostalgia del cuore di Dio, dove trovare ancora il senso del futuro e della Speranza e anche un desiderio di preghiera e riparazione.
La mia vita è piena e se non m’incontro con lo specchio, non mi accorgo d’essere vecchia. Del resto alle mie prime rughe, la mia nipotina Chiara, un giorno mi ha detto: «Nonna, che bello!, ti sono venuti tutti i raggi intorno agli occhi». •

Luisa del Piatto




DOSSIER ANZIANI “La vecchiaia piombò in casa nostra e vi pose dimora”

Quando la vecchiaia è sofferenza e dolore fisico. Quando la morte è il dono più atteso. Questo è il racconto di una storia personale ed intima. Abbiamo pensato di pubblicarlo perché crediamo che in molti potrebbero ritrovarsi in queste righe e soprattutto in questi sentimenti.

Ho visto invecchiare mia mamma. L’ho vista morire. Ho sempre pensato che mia mamma Rosa fosse eterna e incapace di invecchiare. Non ero pronto a vederla trasformata, quasi di colpo, in una donna curva, fragile e col bastone, lei che è sempre stata una quercia, capace di affrontare ogni tempesta e uragano con grinta straordinaria. No, non ero pronto!
Da prete ho vissuto tanta parte della mia vita tra gli anziani, accompagnandoli nel lento declino fino alla morte. Ho sempre amato e stimato gli anziani che ho incontrato lungo la mia strada. Con loro mi trovavo a mio agio, anche se spesso impotente di fronte alle loro necessità. La mamma, no! Non l’ho mai immaginata, vecchia e malata. Nel mio subconscio, semplicemente non poteva: è la mamma! Ancora oggi non riesco a parlarne «al passato», perché, anche se morta, la vedo e la contemplo nella sua vecchiaia e nella sua giovinezza.

MAMMA ROSA
Rosa è una quercia stabile che nessuna tempesta di vento può scuotere nella solidità della sua forza e stabilità. È lei che dà sempre sicurezza e prospetta soluzioni. Non si smarrisce mai davanti alle difficoltà ed ha sempre il coraggio di sapere ricominciare daccapo.
La mamma non ha studiato, è arrivata alla quarta elementare negli anni ’30 in pieno regime fascista. Non può più frequentare la classe quinta perché «mista» e i suoi genitori preferiscono toglierla da scuola piuttosto che mandare una bambina in mezzo ai ragazzi maschi. Erano i tempi.
La mamma ha uno spiccato senso del sapere e della conoscenza. Legge, legge, legge, divorando libri. Nella sua vecchiaia ha tre passatempi: il lavoro ad uncinetto o a maglia in cui è artista (non ho mai comprato un maglione, avendoli sempre avuti «originali» e… «fatti a mano»). Devo a lei l’inesauribile sete di studio e di ricerca che mi porto dentro. Ricordo che quand’ero bambino, attorno al fuoco nel braciere (dove mettevamo patate e salsicce dentro la carta stagnola), lei ci leggeva romanzi o raccontava quelli che aveva appena letto. Insieme al latte mi fece succhiare il gusto della lettura e mi trasmise la curiosità del sapere.
Quando la vecchiaia comincia a diventare pesante per i dolori, seduta nella sua poltrona, là accanto al calorifero, ogni giorno legge il giornale dando valutazioni politiche di alta pertinenza. Difficilmente sbaglia diagnosi. Pensare a lei e pensarla sempre giovane e sempre efficiente significa anche pensare la mia vita con una assicurazione di garanzia senza fine.
Nel 1982, a 57 anni, la mamma, madre di cinque figli maschi, perde il terzogenito, Santo di 31 anni con moglie di 29 e due figli di 6 e 3. Santo muore in un incidente sul lavoro: schiacciato da un treno, mentre sostituiva un collega in ritardo. Ricordo quel giorno come adesso. Era domenica 28 marzo e stavo andando all’altare. Ebbi la notizia. Mi feci sostituire e corsi a casa dei miei genitori. Mentre andavamo in macchina sul luogo della tragedia, annunciai loro il vangelo della morte: Santo è morto.
Da quel momento la vita di mio papà e di mia mamma cambiò. Per sempre. Tutto si trasformò. Il cimitero divenne il santuario del pellegrinaggio perenne e la vecchiaia piombò in casa nostra e vi pose dimora.
Nel 1995 all’età di 79 anni muore mio papà, Giuseppe. La mamma ha 70 anni. Finché ha potuto ha continuato ad andare al cimitero come ad un appuntamento vitale, luogo di energia e di forza. Non va al cimitero, ma va ad un appuntamento importante: incontrare il figlio e il marito. Poi lentamente, invecchiando giorno dopo giorno, comincia a diradare, sostituendo le visite con la celebrazione della messa nell’anniversario della morte e nel giorno di compleanno. Oggi mi rendo conto che la sua vecchiaia ebbe inizio in quella domenica, 28 marzo 1982. La morte del figlio a cui diede la vita è l’inizio della sua morte, lenta e inesorabile che passa attraverso il torchio della vecchia per spremere da lei ogni goccia di vita, una ad una.
Gli ultimi dieci anni della vita di mamma Rosa sono un tormento e una palestra di dolore fisico: la consunzione della spina dorsale non solo l’ingobbisce e la rende storta, ma deforma anche le ossa della spina dorsale, i cui dischi appuntiti a coda di rondine premono in maniera costante e sistematica sui nervi causando un dolore ininterrotto che nessuna terapia sa lenire. Donna resistente al dolore fisico, è capace di soffrire in silenzio per non disturbare e non preoccupare noi figli. Si lamentava quando non ne poteva più. Ultimamente il lamento è diventato abituale, seppure impercettibile. Continua a lavorare a maglia finché le mani e le forze glielo permettono. Conservo ancora oggi le tovaglie d’altare o altri paramenti ricamate da lei su misura: un vero capolavoro!
Nell’agosto del 2004 cade in casa e si spezza il femore con conseguente operazione, riabilitazione e ritorno alla vita non più normale. Ora cammina storta, appoggiandosi al bastone sostegno, ma anche sicurezza incerta. La rottura del femore è un colpo decisivo, un giro di boa.
La guardo e la vedo invecchiata ancora di più. Ai miei occhi non appare più la donna vigile e attenta, piena di grinta e di voglia di lottare, la donna che mi teneva testa in ogni circostanza e situazione, la donna indistruttibile ed «eterna» che avevo sempre coltivato dentro di me. Ora vedo, per la prima volta, una vecchietta ricurva, sofferente che invoca la morte come un dono; vedo una donna instabile fisicamente, ma che sa di non potere morire perché c’è ancora un problema che attende e necessita la sua presenza; ancora una volta, come dieci anni prima, all’età di 70 anni compiuti, di fronte alla tragedia che si abbatte sulla famiglia, schiacciata, ma non oppressa, smarrita ma per nulla sconfitta, vedo una donna che ha la forza di dire ai figli: «Rimbocchiamoci le maniche e ricominciamo daccapo». Vuole morire, ma non può e resiste nonostante la sua giornata sia diventata una lenta agonia senza nemmeno un’ora di respiro. S’immola fino alla fine. Oltre la fine.
Fa la comunione ogni volta che vado a trovarla, perché ora non può partecipare alla messa domenicale e quella in Tv non le piace, anche se la segue. Prima di essere operata al femore mi chiede il sacramento dell’olio: bisogna essere pronti a qualsiasi evenienza. Il suo desiderio è la morte, la sua condanna è la vita. Nel frattempo, arriva l’ultimo regalo: un tumore al fegato e un riversamento polmonare e addominale. Gli ultimi due mesi di vita. Una vecchiaia lacerata, strappata pezzo per pezzo, senza risparmiare nulla. Un tormento per lei e per noi che l’assistevamo impotenti. Scorticata come san Bartolomeo.
Mi dice che hanno un bel dire coloro che inneggiano all’allungamento della vita visto come traguardo di civiltà. Vedendo se stessa invecchiata in mezzo ad altri vecchi che stanno anche peggio di lei, sì, con la vita allungata, ma in mezzo a sofferenze indescrivibili, fisiche e morali, commenta: non si è allungata la vita, prolungano la sofferenza. Ancora una volta non aveva sbagliato diagnosi.
Circondata da una siepe di affetto e di presenza, non possiamo lenire il suo dolore e fermare il suo invecchiare lento e inesorabile davanti ai nostri occhi e alla nostra impotenza che inconsciamente chiede al Signore il miracolo impossibile. Forse avevamo paura per noi stessi più che per lei: la certezza che sarebbe morta e che quindi ci sarebbe stata tolta, ci rendeva più vecchi di lei, più incurvati, più fragili e più piccoli. Eravamo sempre presenti perché volevamo godercela più a lungo possibile, sapendo che ogni giorno poteva essere rapita al nostro sguardo, ma non al nostro cuore.

L’ULTIMO NATALE
Quando a Natale del 2004 avemmo la sentenza che non sarebbe arrivata oltre i tre mesi, decidemmo di portarla a casa sua, nel suo ambiente, nel suo angolo di cucina, dove trascorreva il tempo che ormai era scandito solo dal dolore e dall’attesa della morte. Assistita dall’«Associazione Gigi Ghiotti», sotto morfina 24 ore su 24, camminammo insieme incontro alla morte perché lei era a conoscenza del suo male e del suo destino. Camminava a fatica e il giorno di Natale, volle vestirsi di tutto punto e sedersi a tavola con figli e nipoti. Disse: «Voglio dirvi due cose. Primo: siamo alla fine. Secondo: chiedo perdono a tutti se ho fatto del male e se l’ho fatto non l’ho fatto apposta».
Scavata nel volto e lenta nei movimenti, aveva ancora il timbro di una voce decisa e solenne, indomita e autorevole. Invecchiata, ma non vecchia! Figli, nipoti e nuore presenti abbiamo avuto la certezza che stavamo vivendo il vero Natale. Con una differenza: non nasceva in casa nostra un bambino, ma una donna anziana, malata di tumore e consapevole di morire, stava rinascendo lei e ci coinvolgeva nella sua rinascita. Ci sembrava di ascoltare il messaggio del natale di Betlemme: non celebrate la mia nascita perché «Io-Sono» da sempre, celebrate piuttosto la vostra ri-nascita di creature nuove. Accanto alla culla del Bambino c’è la croce della mamma anziana e malata che sta andando per rinascere ad una nuova vita insieme al marito e al figlio. La culla e la croce. Era solita ripetere una filastrocca che sua mamma le aveva insegnato da piccola: «Quando nacqui, una voce mi disse: “tu sei nata a portar la tua croce”». La culla e la croce furono la dimensione della mia mamma che nella sua vita coniugò due soli verbi: soffrire e servire. Nacque per soffrire, soffrì vivendo.
La mamma con la sua richiesta di perdono e con la sua trasparenza di vecchiaia divenuta semplicità di bambina, esercitò il suo alto magistero di vita perché in un istante unificò il tempo e l’eternità, fondendoli insieme. Una donna anziana che sta per morire e ancora capace di generare senza calcoli e senza interessi. Gratuitamente visse, gratuitamente si accomiata da se stessa, ma non da noi che ancora non vogliamo credere che la fine sia vicina.
Fu impressionante scoprire come la mamma, anziana e malata, bambola di pezza in mani altrui e incapace ormai anche di leggere, fosse ancora il fulcro di contenimento di quanti la circondavano. Attoo a lei fragile e decadente anziana senza più movimenti autonomi, in balia di dipendenza dagli altri per ogni esigenza e necessità, ruotano i figli, le nuore, i nipoti e la pronipote di due anni con il fratellino in arrivo. Il futuro è appeso al gancio della vecchiaia che lo culla e lo custodisce come un tesoro prezioso. La vecchia sterile partorisce sette volte, oltre il tempo, oltre ogni speranza, a dispetto della morte. La donna forte di cui il libro dei Proverbi 31,10 tesse l’elogio è qui davanti a noi. È la mamma: «La donna forte chi la troverà?». Noi l’abbiamo trovata.
Di fronte alla prospettiva della morte, sa dire: «Facciamo quello che Dio vuole» e senza saperlo trasforma in vita le parole dell’alleanza del Sinai in Es 24,7: «Ciò che il Signore ha detto, noi faremo e ascolteremo» e del Padre nostro: «Sia fatta la tua volontà» di Mt 6,10.
Come il popolo del Sinai, la mamma prima ha fatto e poi ha ubbidito. Antico e Nuovo Testamento, insieme in un unico progetto, Isaia 53 e Mt 6: «Come un agnello condotto al macello, come pecora muta davanti ai suoi tosatori non aperse bocca… Padre… venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà».
Il 6 gennaio, solennità dell’epifania, inizia l’ultimo tratto della via crucis, dolorosa e terribile. La vecchiaia e la malattia diventano crocifissione: il male prende la lingua e la bocca con atroci dolori che nemmeno la morfina sa lenire. Non può inghiottire e deglutire nulla. Non può fare nemmeno la comunione, che ormai da giorni è il suo unico nutrimento.
Ho pregato Dio che prendesse me al suo posto o desse a me i suoi dolori e le sue sofferenze e che se questo non era possibile, che la facesse morire, ma che in ogni modo ponesse fine ad uno scorticamento disumano che a me pareva gratuito e perverso. Se lì c’era Dio, non sapevo come c’era.
In quei giorni ho pensato alle vittime delle torture in Iraq ad Abu Graib e in tutti i luoghi dell’orrore delle guerre dimenticate, ma in pieno esercizio in ogni parte del mondo. Ho pregato, ho pregato, ma il Signore non ha ascoltato il grido di un figlio che voleva solo che fosse alleggerita un poco la sofferenza della sua vecchia mamma.
Mai come in quei momenti ho capito il Giobbe della bibbia e l’urlo di Gesù sulla croce, quando grida il suo abbandono al Padre. Da quel giorno seduto accanto a lei mentre invecchiava, soffriva e si trasformava, cominciai a preparare l’omelia del suo funerale o meglio del suo «Ad-Dio» e del nostro «Arrivederci», mentre guardavo la mamma ormai vecchia, malata e moribonda.
Quel giorno ebbi la certezza che la vecchiaia avrebbe avuto il sopravvento sulla speranza e che la mamma sarebbe morta. Quel giorno fu il giorno più lungo per l’anima mia che si rifiutava di accettare questa certezza, nonostante desiderassi la sua morte per non vederla più soffrire. Si può desiderare la morte per amore? Oh, sì se si può! Con la mamma ho provato anche questo contrasto di desideri: la morte e la vita contemporaneamente. Il tutto e il nulla. Il vuoto e il pieno.

OLTRE LA VITA E LA MORTE
Finalmente dopo otto giorni, nella bibbia numero simbolico che celebra il Messia, il 14 di gennaio 2005 alle ore 17,00, la mamma muore tra le braccia dei figli presenti. Mai morte fu liberazione come questa. Noi figli respirammo subito un sollievo per lei e godemmo che non soffrisse più, ma restammo orfani, nonostante siamo adulti e io sulla soglia dell’anzianità.
Il momento della morte coincideva con l’inizio del sabato ebraico, il giorno che per la liturgia cristiana inizia, ma non termina perché si prolunga nella domenica, il giorno del Signore, illuminato dalla risurrezione, giorno senza tramonto perché Dio stesso e l’agnello sono la sua luce e il suo riposo. È il giorno dove la vecchiaia si fonde con la giovinezza, la notte con l’alba, il buio con la luce e Dio stesso diventa la sintesi del paolino «Tutto in tutti» (1 Cor 12,6).
Dice una leggenda ebraica che in ogni generazione vi sono nascosti 36 giusti, sconosciuti gli uni agli altri e a chiunque; 36 come gli anni di Isacco quando dovette essere immolato da Abramo sul monte Moria per obbedire ad un ordine di Dio. Il giusto Isacco fu sostituito dal montone procurato da Dio stesso. La leggenda sta ad insegnare che ogni generazione sta in piedi perché poggia su 36 colonne di «giusti» nascosti che con il loro silenzio, la loro sofferenza, il loro dolore e la loro vecchiaia vissuta con dignità, reggono il peso dell’umanità in modi e stili a noi incomprensibili e per la nostra sensibilità spesso inaccettabili. Di questi giusti credo che buona parte siano anziani con il fardello della solitudine e della malattia, del silenzio e, a volte, dell’abbandono. Essi sono l’icona vivente della nostra società faticosamente in cammino verso la morte che non accettano come parte della vita. Verso la vita. Oltre la vita e la morte.
La mia mamma fu per la sua e la nostra generazione una di questi 36 giusti nascosti, ma eletti da Dio e associati al mistero della sua croce. Mistero di dolore e di morte che genera la risurrezione degli altri. Prego Iddio di farmene degno. Per sempre. •

Paolo Farinella




DOSSIER ANZIANI “Anch’io gli ho voluto bene… (ma senza retorica)”

La vecchiaia, la malattia, la morte del papa.

«In quei giorni», all’inizio di gennaio 2004, quando mia mamma iniziava «la fine del principio», anche il papa appariva sempre più sofferente, iniziando per lui «il principio della fine». Ho vissuto contemporaneamente la malattia e la morte della mamma carnale e la malattia e il declino del padre (nella fede). Il rapporto del papa con la malattia ha permesso ai malati di guardarla e viverla in modo più dinamico e vitale, mentre ai sani ha insegnato che la malattia non è una maledizione, ma un momento della vita da cogliere come tappa inevitabile che diventa occasione evangelica di conversione e redenzione. Il magistero profetico che il papa ci ha lasciato è che anche la malattia e la morte sono «tempi» di Dio.
«In quei giorni» ho visto il papa invecchiare, aggravarsi e morire insieme a mia mamma; l’ho accompagnato all’ospedale, gli sono stato accanto nella convalescenza post-operatoria e ho visto realizzarsi in lui la profezia di Gesù a Pietro: «Quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi» (Gv 21,18). Mai la sua presenza è stata così intensa e profonda come quando le sue finestre hanno messo in luce la sua assenza fisica. Malato nel suo letto come un vecchio qualsiasi, egli è stato un assente-presente in mezzo al suo popolo orante, in mezzo ai giovani che durante la vita ha curato come la pupilla dei suoi occhi.
Dice il Qoelet 3,1 che «c’è un tempo per ogni cosa». Verrà il tempo della valutazione globale del pontificato di papa Giovanni Paolo, del suo significato religioso e politico, oggi è ancora il tempo del silenzio e della preghiera, il tempo per cogliere quattro «segni dei tempi» di «quei giorni» di grazia e peccato.

Il primo «segno» è stata la reazione spontanea del popolo e dei popoli alla notizia dell’aggravarsi del papa. Per un momento, si è avuta la percezione che il mondo intero fosse unito nella preghiera, attraversato da sentimenti di unità, superando di colpo divisioni e fratture, odio e lacerazioni secolari. Insieme alla folla dei giovani che spontanea affollava piazza S. Pietro, popoli interi, culture e religioni senza distinzione di lingua, di colore o sistema politico avanzavano in corteo attorno al letto del vecchio papa morente, dando fisicamente la testimonianza che un altro mondo era possibile: il mondo della pace e della frateità per cui «questo» papa aveva messo in gioco se stesso e la sua credibilità. Attoo a quel letto, per un breve tempo, tutto il mondo cessava di sbranarsi per essere «uno» come dovrebbe essere, come forse sarà. Tutti parlavano la stessa lingua. Il secondo «segno» è stato lo scempio dell’ostensione del papa e il comportamento dei media. «In quei giorni» essi lo hanno sbranato e impietosi ne hanno mostrato brandelli di carne senza la pietas che si deve ai malati terminali. Ho penato per lui, quando lo ho visto vittima e protagonista nel tritacarne dei media che lo esigevano a qualunque costo per mostrarlo alle folle. Quanta pena nel vedere che i «prossimi» del papa permettevano lo scempio di dissetare la morbosità spastica delle tv piuttosto che custodirlo con amore filiale nel mantello della riservatezza e del pudore. Il papa alla finestra che si sforza di parlare con la scena atroce del microfono offerto e sùbito ritirato, mi è parso come l’agnello muto davanti alla folla dei suoi tosatori di cui parla Is 53. Toa alla memoria la figura di Noè, le cui scomposte nudità il figlio irrispettoso Cam irrise mostrandole ai suoi fratelli Set e Jafet che, invece, si rifiutarono di partecipare alla sconcia esposizione. Essi con gesti sacrali coprirono il padre e lo custodirono salvaguardando la sua dignità, il suo decoro e la decenza dei figli stessi (Gen 9,22-25). Attoo al papa, ho visto emergere la tribù di Cam e sconfiggere i sentimenti di Set e Jafet. Il terzo «segno» è stato offerto da preti e religiosi che hanno affollato le trasmissioni tv che ripetevano sempre noiosamente le stesse cose fino a provocare un rigetto per overdose. I suoi figli primogeniti, preti, vescovi e religiosi, che avrebbero dovuto stare in silenzio immersi nella preghiera con e per il «padre» agonizzante, sedevano comodi e ciarlieri in tutti i salotti tv che fino a qualche ora prima erano stati il tempio pagano dell’effimero e dell’immoralità. Il papa muto e orante bruciava senza consumarsi come il roveto di Mosè e il clero mediatico partecipava all’abbuffata di Sodoma e Gomorra, celebrata da quei giornalisti, officianti del vacuo e delle vane parole che il 31 marzo scorso, addirittura nella tv di stato, ritardarono la «prima» notizia dell’improvviso aggravarsi del papa (che era un vero scornop giornalistico) per non turbare il «porta a porta» elettorale del presidente del consiglio, che ammanniva prosopopea, sapendo che il papa stava morendo. Un’occasione perduta per un meschino calcolo di bottega. Il quarto «segno» è stata la reazione dei politici nostrani e dei potenti. Coloro che hanno voluto la guerra preventiva contro ogni diritto e contro lo stesso papa che, inutilmente, l’aveva dichiarata immorale, hanno affollato compunti e dolenti le messe «importanti» (cioè riprese dalle tv), spendendosi in elogi e ringraziamenti al papa «grande», artefice della storia e uomo degli sconvolgimenti inteazionali. Da nessuno ho sentito dire, anche una sola volta, che «questo» è stato il papa che ha condannato la guerra e che si è speso fino allo spasimo per evitare un conflitto di religione. Nessuno ha detto che è stato il solo a distinguere tra terrorismo e musulmanesimo. Molti hanno messo in evidenza con enfasi solo il suo ruolo nella caduta del comunismo, dimenticandosi di ricordare che, proprio in America, il papa aveva condannato severamente il capitalismo mercantile e il liberalismo senza anima e colmo di ingiustizia. Ho rivisto fino alla nausea le immagini della visita del papa al parlamento italiano (14.11.2002), dove, applauditissimo, aveva chiesto un segno di clemenza per i detenuti. Il papa, anche da morto, aspetta ancora una risposta.

Da parte del papa resta la figura gigante di un credente che non ha avuto paura né della sofferenza, né della malattia e tanto meno della vecchiaia che ha saputo vivere e piegare alla sua volontà indomita. Né la vita né la morte lo hanno posseduto, ma egli si è abbandonato nelle braccia dell’una e dell’altra con la docilità di chi sa che entrambe sono un dono di Colui che lo ha chiamato a rendere ragione della morte durante la sua vita e della vita nel momento della sua malattia e della morte. La sua ultima parola è stata un sussurrato «Amen!» come sigillo di adesione alla volontà di Dio, compiuta fino in fondo. Ancora una volta e per sempre resta per noi il suo sguardo morente rivolto verso la finestra vuota quasi a volersi precipitare tra la folla di giovani che lo accompagnava nella morte: «Sono venuto a cercavi. Siete venuti a trovarmi. Grazie». Quelle parole sono state, ancora, una carezza e un bacio dati a ciascuno.
Mia mamma è morta all’inizio di sabato, il papa alla fine del sabato (2 aprile) e al principio della domenica «delle vesti bianche» che egli aveva dedicato alla «Divina Misericordia», quasi a dire che il mondo intero è circondato e assediato dalla misericordia/tenerezza di Dio.
A distanza di un mese, resta dentro di noi come marchio di fuoco l’eco della sua voce profetica che annuncia le stesse parole del Risorto: «Non abbiate paura!» per sfumare nell’abbandono filiale e senza riserve nel grembo della Madre: «Totus tuus!». •

Paolo Farinella




DOSSIER ANZIANI Glossario essenziale

Vita quotidiana:

attesa di vita: indicatore demografico che illustra in modo sintetico quanti anni di vita ci aspettano. È detto anche «speranza di vita» o, più semplicemente, «vita media». Il Giappone ha l’attesa di vita più lunga, seguito dall’Italia.
badante: termine di recente introduzione con cui si indicano le persone, di norma extracomunitarie, che si prendono cura delle persone anziane.
pensione: prestazione economica previdenziale prevista dalla legge in favore di determinati soggetti, di norma lavoratori che hanno raggiunto una certa età.
ospizio: nome popolare (e non proprio elegante) per indicare le case di riposo per anziani.
dipendenza (non-autosufficienza): la dipendenza è una condizione nella quale si trovano alcune persone che, per ragioni legate alla mancanza o alla perdita di autonomia fisica, psichica o intellettuale, hanno bisogno di un’assistenza e/o di grossi sostegni per compiere quelle azioni legate alla vita quotidiana. Per le persone anziane la dipendenza può essere aggravata o essere causata dalla mancanza di integrazioni sociali, di relazioni affettive e di risorse economiche sufficienti (definizione del Consiglio d’Europa).

Patologie:
osternoporosi: malattia caratterizzata dalla riduzione della massa ossea e da alterazioni della microarchitettura del tessuto osseo, che portano ad un’accentuata fragilità dello scheletro e a un maggior rischio di fratture ossee. La frattura del femore è la conseguenza forse più funesta dell’osternoporosi ed è una delle cause principali di disabilità negli anziani. Il 12-20% delle persone con una frattura del femore è destinato a morire entro un anno dall’evento e la mortalità cresce progressivamente con l’avanzare dell’età.
arteriosclerosi: processo di alterazione degenerativa delle arterie con progressiva modificazione del vaso sanguigno (perdita di elasticità, indurimento ed ispessimento delle pareti, restringimento del lume), dovuta principalmente alla formazione di placche (ateromi). È considerata un importante fattore di rischio per le ischemie. In genere, si pensa all’arteriosclerosi come ad un processo tipico dell’età avanzata: gli anziani che faeticano, che non hanno più memoria, che non riconoscono i parenti. In realtà, essa inizia già nel periodo infantile.
demenza: compromissione delle capacità di affrontare i problemi quotidiani. La malattia di Alzheimer è la causa più comune di demenza.
malattia di Alzheimer: malattia caratterizzata da un declino progressivo e globale delle funzioni intellettive, associato a un deterioramento della personalità e della vita di relazione. Dopo la diagnosi restano 8-12 anni di vita, caratterizzati da un decadimento progressivo, da problemi clinici intercorrenti e da crescenti bisogni assistenziali.
malattia di Parkinson: malattia cronico-degenerativa del sistema nervoso centrale (Snc), che compare in età matura. I pazienti parkinsoniani presentano una compromissione dell’equilibrio (ad esempio, frequenti cadute o importanti barcollamenti), deambulazione difficoltosa, tremori (spesso soltanto unilaterali; ad esempio, ad una mano).
disturbi del sonno: il ciclo sonno-veglia cambia molto a seconda delle età. Se il neonato dorme dalle 16 alle 20 ore al giorno, l’anziano arriva a 5-6. Nell’età avanzata tendono ad aumentare i risvegli durante la notte così come cresce la frequenza degli addormentamenti durante il giorno. Si calcola che il 20% degli anziani (soprattutto donne) faccia uso di sonniferi, ovvero di farmaci che, in dosi opportune, facilitano l’insorgenza del sonno attraverso un’azione sul Snc.
incontinenza urinaria: si intende la perdita involontaria delle urine. Se si esaminano le persone con più di 75 anni che vivono a domicilio, troviamo che circa il 10% di esse presenta un quadro di incontinenza urinaria saltuaria o persistente. Nelle istituzioni geriatriche e nei reparti ospedalieri può raggiungere e superare il 50%.
artrosi: processo degenerativo a carico della cartilagine articolare (il tessuto che riveste l’interno delle articolazioni), che si assottiglia con il passare degli anni. Tale processo infiammatorio comporta dolore, immobilità e deformazione delle ossa.

Fonte: Istituto di ricerche farmacologiche «Mario Negri», Milano

Paolo Moiola e Giuseppina de Cesare




DOSSIER VIETNAM -I Montagnard: i più tartassati e… dimenticati

CACCIA APERTA… AL CRISTIANO

I francesi li chiamarono montagnard (montanari)
e gli americani storpiarono il nome in yards;
i vietnamiti li chiamano moi (selvaggi)
e il governo nguoi dan toc (popolo tribale).
Essi si definiscono degar, «figli delle montagne». Sono uno dei popoli più antichi del sud-est asiatico e vivono nella penisola indocinese da oltre 2 mila anni.

I montagnard rappresentano una quarantina di differenti gruppi aborigeni, appartenenti ai ceppi linguistici mongolo-tibetano e malese-polinesiano. La maggioranza vive nel Vietnam centrale; numerosi sono in Cambogia, molto meno in Laos. I due gruppi principali sono i bahnar (circa 400 persone) e i jarai (300 mila), seguono i rhade, koho, sedang, bru, pacoh, katu, jeh, cua, halang, hre, rongao, monom, roglai, cru, mnong, lat, sre, nop, maa, stieng…

TRA DUE FUOCHI
I montagnard non sono sempre stati sulle montagne. Più di 2 mila anni fa, occupavano gran parte del sud dell’Indocina, da Hué a punta Ca Mau. Sui monti furono spinti progressivamente dall’espansione di popolazioni più forti e numerose: dal sud i cham, di origine hindu, dal nord i vietnamiti, di origine cinese.
Alla fine del secolo xvii, quando i vietnamiti conquistarono anche il regno meridionale dei cham, i montagnard si trovarono definitivamente relegati tra gli altipiani centrali del Vietnam, dove trovarono rifugio e vissero in pace per molte generazioni, sviluppando le coltivazioni e l’allevamento del bestiame.
I vietnamiti, pur continuando la loro espansione, non si avventurarono mai tra i monti, anche perché li credevano infestati da spiriti, che avvelenavano i ruscelli che scendevano da quelle montagne, provocando la malaria.
Gli unici a entrare e vivere nel loro territorio furono i missionari, che vi impiantarono scuole e avviarono l’evangelizzazione.
I francesi fissarono i confini tra la colonia vietnamita e i due regni di Cambogia e Laos, sotto il proprio protettorato, frenando così l’espansione dei vietnamiti. Nel 1895 entrarono anche nel territorio dei montagnard, ma riconobbero loro il diritto sulle terre che occupavano e coltivavano. Nei negoziati del 1946, fu ratificato il diritto di essere nazione, chiamata Pays montagnards du Sud Indochinois (paese dei Montagnard dell’Indocina del sud).
Nella prima guerra indocinese tra francesi e indipendentisti (1946-54), i montagnard furono presi tra i due fuochi e, con la fine del colonialismo, videro i vietnamiti prendere il controllo del loro territorio, si sentirono chiamare moi (selvaggi) e subirono lo stesso trattamento avuto dagli indiani in America o dagli aborigeni in Australia: massacri, sfruttamento delle risorse, privazione di ogni diritto.
In quegli anni la popolazione dei montagnard contava 3 milioni di persone. Se avesse avuto la possibilità di crescere con lo stesso tasso di incremento del resto del paese, oggi sarebbe più che raddoppiata. I superstiti sono tra i 700 e gli 800 mila.
La resistenza
Finita la prima guerra indocinese i montagnard non volevano stare con il Vietnam del nord e neppure con quello del sud. Nel 1957 nacque il movimento Bajaraka, che chiedeva pacificamente l’autonomia del loro territorio. Il governo sud-vietnamita, però, represse brutalmente il movimento e imprigionò i loro leaders.
Durante la seconda guerra di Indocina (1963-1975), i montagnard si dimostrarono fortemente anticomunisti e si schierarono con i governi sostenuti dagli statunitensi. E quando gli americani entrarono in guerra, 40 mila montagnard si arruolarono dalla loro parte, nella speranza di vedere riconosciute le richieste di autonomia politica, sociale e culturale.
Il territorio diventò un sicuro rifugio per l’esercito vietnamita e i montagnard si trovarono di nuovo tra due fuochi: l’85% dei loro villaggi furono rasi al suolo da bombardamenti e rappresaglie d’ambo le parti.
Nel 1969, tra le popolazioni cristiane delle montagne nacque un altro movimento: il Fronte unificato di lotta delle razze oppresse (Fulro). Tale movimento rappresentava politicamente le minoranze etniche presso il governo di Saigon e faceva parte di quella «terza forza», che manifestava per la pace e non voleva né il governo militare filoamericano né un regime comunista come nel Vietnam del nord.
La vittoria dei comunisti spazzò via tutte le formazioni pacifiche e democratiche: il Fulro, insediatosi in Cambogia, continuò la resistenza militare fino al 1992, quando gli ultimi 400 membri furono consegnati alle Nazioni Unite.
Oggi 800 montagnard, rifugiati negli Usa, continuano a tener desta la speranza di libertà di quelle centinaia di migliaia di connazionali sopravvissuti ai genocidi e che non hanno mai accettato di sottostare al giogo del regime comunista, nonostante le decisioni prese dalla comunità internazionale.

COLPEVOLI DI ESSERE CRISTIANI
A Kontum, nel cimitero dell’istituto delle Missioni estere di Parigi, si possono contare più di 200 tombe di missionari e suore francesi che hanno dato la vita per gli indigeni. I missionari cattolici e protestanti, infatti, sono stati quasi gli unici, con alcuni funzionari dell’epoca coloniale, a interessarsi di loro, aprendo scuole e ospedali, istituti tecnici e professionali.
Gran parte dei montagnard sono cristiani. Negli anni ‘70 essi costituivano quasi il 40% dei cristiani sudvietnamiti. Le diocesi di Kontum, Ban Me Thuot e Dalat avevano propri sacerdoti e parrocchie, con tante conversioni e vocazioni.
Con la riunificazione del paese e il trionfo di Ho Chi Minh (1975), il regime comunista di Hanoi ha nazionalizzato le terre dei montagnard, non riconoscendo nessun diritto sui territori che abitavano da millenni. Centinaia di villaggi sono stati distrutti e spostati su terre meno fertili per far posto alle piantagioni di caffè di proprietà dello stato.
Il governo comunista non li ha mai sopportati, prima perché si erano alleati con gli americani, poi perché molti di loro sono cristiani e adesso anche perché l’unico interesse del governo è prendere le loro terre.
Mai rassegnati al regime oppressivo e persecutorio, i montagnard hanno fatto numerose manifestazioni pubbliche per reclamare l’indipendenza e il ritorno alle loro terre ancestrali e alla libertà religiosa.
Nel febbraio 2001, 20 mila persone manifestarono contro il governo. Ma secondo alcuni, è possibile che il governo abbia ordinato ai suoi quadri di suscitare tali proteste, per poter decimare tutti i capi dei montagnard, attirandoli nella trappola.
Sta il fatto che, con l’impiego di migliaia di poliziotti e soldati, i manifestanti furono dispersi; alcuni rimasero uccisi e, nelle settimane seguenti, centinaia di leader politici e religiosi furono arrestati e poi condannati a pene comprese fra i 3 e 12 anni di prigione.
L’organizzazione Human Right Watch (Hrw) ha documentato gravissime violazioni dei diritti umani ai danni della popolazione dei montagnard: arresti, detenzione e interrogatori arbitrari, torture della polizia e, più in generale, ripetute violazioni dei diritti alla libertà religiosa, restrizioni sui viaggi; rimpatri forzosi di coloro che avevano cercato di fuggire nella vicina Cambogia. Sempre secondo Hrw un centinaio di persone sono ancora detenute a causa di quella manifestazione.

«PASQUA DI SANGUE»
Più spietata fu la repressione della vigilia di pasqua, 10 aprile 2004. Oltre 130 mila cristiani, provenienti dai più sperduti villaggi, avevano raggiunto Buon Ma Thuot, capoluogo provinciale degli altipiani, per pregare e protestare pacificamente davanti agli edifici del partito comunista vietnamita contro la repressione religiosa e la confisca delle loro terre. Lo slogan era: «Felice giorno, Cristo è risorto!».
Le forze governative impedirono il raduno con le armi, causando centinaia di feriti e 10 morti (2 secondo il governo). La «pasqua di sangue» fu seguita dalla «caccia al cristiano», facendo salire a 400 il numero dei morti, secondo il Partito radicale.
L’incertezza delle cifre è dovuto al fatto che il governo ha chiuso l’area a tutti gli stranieri e giornalisti. Ma le notizie trapelano attraverso i fuggiaschi che riescono a raggiungere Phnom Penh, in Cambogia, dove esiste un rifugio per loro, sotto la protezione delle Nazioni Unite.
Centinaia di manifestanti sono stati arrestati, processati e condannati a vari anni di prigione a seconda delle accuse: turbativa dell’ordine pubblico, resistenza alla polizia, incitamento alla protesta, favoreggiamento della fuga oltre confine, attentato alla sicurezza e unità nazionale… I processi sono ancora in corso; l’ultimo di cui si ha notizia ha avuto luogo nel gennaio scorso.
Testimoni oculari, intervistati nei campi dei rifugiati in Cambogia, hanno parlato anche di uccisioni, varie forme di «crocifissione», iniezioni letali, pestaggi, trattamenti degradanti, cerimonie pubbliche in cui sono imposte dichiarazioni di fedeltà alla bandiera vietnamita e di ripudio della fede cristiana.

DIMENTICATI DA TUTTI
Nonostante l’allontanamento di preti, pastori e missionari, i montagnard continuano a tenere viva la loro fede grazie all’attività dei laici; seguono la preghiera liturgica ascoltando Radio Veritas, che ritrasmette da Manila i programmi della redazione vietnamita della Radio vaticana. In vari villaggi hanno ricostruito chiese di legno al posto di quelle distrutte dalla furia comunista.
Ma, più delle atrocità di cui sono vittime, i montagnard paventano il silenzio che regna sulla loro sorte. Non è solo il regime a nascondere i propri misfatti; ma anche l’opinione pubblica internazionale resta insensibile alle loro sofferenze. I paesi occidentali continuano a firmare accordi di cooperazione con il Vietnam, che includono solenni clausole sul rispetto dei diritti umani; dopo di che le clausole vengono ignorate e i finanziamenti arrivano regolari a foraggiare la tirannia.
C’è di più: i cristiani montagnard si sentono dimenticati anche dai loro fratelli di fede.

Benedetto Bellesi




DOSSIER VIETNAM -Intervista a Marie Tran Thi Huyen, missionaria laica

FARSI ABORIGENI FRA GLI ABORIGENI

Missionaria laica vietnamita, 67 anni, Marie Tran Thi Huyen lavora da 40 anni tra i chau ma e k’ho, gruppi etnici delle regioni montuose attorno a Bao Loc.
Intervistata da Uca News, parla della esperienza ed esigenze di adattamento alla vita della gente nei villaggi indigeni.

Ci racconti qualcosa della vostra équipe di lavoro.
Il nostro gruppo, chiamato «Famiglia dei testimoni di Cristo» è formato da 15 persone e fa parte del Centro di evangelizzazione degli aborigeni di Bao Loc, fondato dal padre Laurence Pham Giao Hoa, 85 anni, che dal 1958 svolge l’attività missionaria tra le minoranze etniche della regione.
È un gruppo laicale, ma i suoi membri, che da molti anni si sono uniti a padre Hoa, hanno scelto volontariamente di vivere una vita di celibato e povertà al servizio dell’evangelizzazione delle minoranze etniche. Nel 2002 il nostro gruppo è stato ufficialmente riconosciuto dal vescovo di Da Lat.

Qual è il vostro metodo di evangelizzazione?
In generale non rimaniamo sempre nello stesso posto, ma ci spostiamo di villaggio in villaggio. Scegliamo una famiglia presso cui dimorare. Lavoriamo insieme, mangiamo e dormiamo sul pavimento di bambù, intorno al fuoco come tutta la famiglia.
Poi cerchiamo di incontrare e conoscere altre famiglie, di guadagnare la simpatia e la fiducia delle persone più importanti della comunità, specie i gia lang, i capi villaggio.
Una volta che la gente ha iniziato a considerarci come membri delle loro famiglie, è più facile che si apra all’ascolto di quanto vogliamo comunicare loro. A questo punto iniziamo a usare immagini cattoliche per spiegare i fondamenti del catechismo e la figura di Gesù, e cerchiamo dei laici cattolici kinh (maggioranza vietnamita) che possano essere buoni padrini dei catecumeni. I semi del vangelo sono cresciuti in questo modo.
Inoltre, abbiamo un buon numero di collaboratori che ci aiutano nell’insegnamento del catechismo alle minoranze etniche che appartengono alle 25 parrocchie di Bao Loc.

Quali altre attività portate avanti nei villaggi?
Insegniamo canti e catechismo agli adulti e ai bambini, prepariamo le coppie al matrimonio, aiutiamo le donne durante il periodo della gestazione, al momento del parto, curiamo i loro bambini e accompagniamo gli infermi all’ospedale. Inoltre, insegniamo alla gente a confezionare i propri abiti e aiutiamo le spose ad acconciarsi i capelli e farsi belle. Soprattutto ci uniamo alla gente nel lavoro nei loro campi.

Quali sono le sfide che avete affrontato?
La difficoltà più grande è la malaria. Io stessa sono stata più volte in fin di vita a causa di questa malattia. Prima del 1975, in piena guerra, era terribilmente pericoloso evangelizzare nelle comunità indigene. I soldati Sud e Nord Vietnam ci tenevano entrambi sotto controllo e ci minacciavano: sospettavano che lavorassimo come spie. I comunisti ci arrestarono tre volte, minacciando di ucciderci. Ci proibirono categoricamente di continuare il nostro lavoro religioso nei villaggi indigeni.
Dopo il 1975 non fummo più arrestati; ma continuarono le restrizioni dei nostri movimenti e attività. Tuttavia siamo ritornate nei villaggi di nascosto e abbiamo continuato a predicare la buona notizia ai nostri fratelli e sorelle indigene. Alcuni catechisti locali ci hanno aiutato nell’insegnare il catechismo e in altre attività apostoliche.

Incontrate difficoltà nel vivere in mezzo agli indigeni?
Non è facile abituarsi al loro stile di vita. Anche condividere un pasto con loro a volte è un grande problema: essi puliscono i piatti con le loro gonne; mangiono il riso condito con sale grosso, pesce essiccato di basso prezzo, mam (salsa di pesce) e sangue di bufalo. Alcuni anni fa, a una esponente del nostro gruppo fu offerto un piatto di girini, cucinati in salsa di pesce.
Inoltre, dobbiamo rispettare le loro credenze e costumi tradizionali: essi credono che la vita delle persone, soprattutto dei malati, dipenda dagli yang (divinità) e sia sotto il loro influsso. I parenti dell’infermo uccidono un pollo o una capra come offerta agli yang; il sangue dell’animale viene spalmato sulla fronte del paziente, sulle porte e su un altare. Spesso il malato è portato allo sciamano per essere sottoposto alle sue cure, compensate con qualche dono.
Quando muore qualcuno, gli abitanti del villaggio non possono visitare la famiglia del defunto per 100 giorni per paura della morte. Tutte le cose appartenenti al defunto vengono poste accanto alla tomba, il corpo avvolto in fasci di bambù e trasportato al cimitero.
Intanto insegniamo alla gente, passo dopo passo, come curare l’igiene personale, come trattare il cibo in modo sano e accudire ai malati con uno spirito di servizio.

Cosa le ha insegnato l’esperienza vissuta nelle comunità indigene?
Prima di tutto che dobbiamo farci indigeni fra gli indigeni: vivere con loro, mangiare con loro, parlare il loro idioma e, soprattutto, dobbiamo amarli. Sono molto contenti che impariamo la loro lingua e si sentono orgogliosi quando possono insegnarcela. Questa è senza dubbio la via più rapida per conquistarsi l’affetto e la fiducia della gente.
Quando andiamo in un villaggio e parliamo la lingua del posto, siamo accolti come parenti. Se domandiamo qualcosa in vietnamita, la gente spesso tace o evita di rispondere.
Sono persone che non amano i ragionamenti complessi, formalità e cerimonie. Sono semplici, onesti, molto sinceri e fedeli. Per questo non possiamo mai tradire la loro fiducia. Se si manca, anche una sola volta, alla parola data, si perde per sempre la fiducia che hanno posto in noi.
(da Asia Focus)

Asia Focus




DOSSIER VIETNAM Una foglia di fico (introduzione)

Nell’immaginario collettivo il Vietnam resta legato alla lunga e sanguinosa guerra cosiddetta «americana», che infiammò e divise il mondo per 15 anni (1960-1975). In qualcuno rimangono anche le tragiche immagini dei boat people, che affrontarono l’oceano su fragili imbarcazioni per fuggire al regime comunista (1975-1979) e alla miseria (1988-1990).
Oggi il Vietnam occupa il 101° posto nell’Indice dello sviluppo umanitario. Negli ultimi anni è passato dall’isolazionismo internazionale all’apertura alla comunità mondiale, dall’economia pianificata del socialismo a un sistema economico più aperto, simile alla Cina. Ma ben poco è cambiato nel campo della libertà e diritti umani, che continuano a essere negati e calpestati.

Grande come l’Italia, ma con oltre 80 milioni di abitanti, il Vietnam si estende lungo la parte orientale della penisola indocinese. Geograficamente è costituito da tre regioni: a nord il Tonchino, quasi un’appendice geografica della Cina; al centro la lunga e stretta fascia dell’Annam; al sud la regione della Cocincina.
Per quasi un millennio, a partire dal secolo 3° a.C., il Tonchino fu vassallo dell’impero cinese, che vi impose le proprie istituzioni politiche e culturali, compresi gli ideogrammi per la lingua vietnamita, il pensiero di Confucio, gusti artistici e musicali.
Una serie di sollevamenti a intermittenza cercarono invano di scrollarsi di dosso il dominio cinese, finché nel 939 le forze vietnamite di Ngo Quyen riuscirono a sconfiggere le truppe di occupazione e a instaurare uno stato monarchico indipendente. Seguirono varie dinastie che rintuzzarono le mire di vecchi e nuovi invasori: nei secoli xi e xii resistettero ai cham e ai mongoli di Gengis Khan; nel xv e xvi secolo respinsero i cinesi delle dinastie Ming e Ching, nel xviii i khmer, finché estesero il loro territorio verso il sud, fino a comprendere la foce del Mekong dando origine al Dai Viet (Grande Viet).
Intoo al 1620, per le rivalità tra clan di corte Trinh e Nguyen, la monarchia cominciò a perdere potere e il Dai Viet fu diviso in due zone di influenza: il nord dominato dai Trinh, con capitale Hanoi; il sud dagli Nguyen, con capitale Hué. I contrasti tra nord e sud si inasprirono con l’arrivo degli europei, giunti nel sud-est asiatico per motivi commerciali e per diffondervi il cristianesimo.
Dalla fine del 1600, per oltre un secolo, le alleanze dei vari feudatari con gli europei si alternarono a violente proteste contro gli stranieri, sfociando nella persecuzione contro i cristiani, finché il territorio fu riunificato sotto un unico regno (1789), per opera dei fratelli Tay Son. Poco tempo dopo, Nguyen Anh, unico sopravvissuto degli Nguyen del sud, con l’aiuto dei francesi riprese il sopravvento e nel 1802 si autoproclamò imperatore e ribattezzò il paese con il nome attuale: Vietnam (1804).

La dinastia Nguyen, temendo intromissioni della Francia nei suoi affari, riprese la persecuzione contro i missionari e i vietnamiti convertiti, fino all’esecuzione di alcuni cristiani. Quando vennero lesi anche gli interessi commerciali e militari francesi, Napoleone iii inviò varie spedizioni punitive, finché il Vietnam fu costretto a cedere la Cocincina alla Francia (1860) e poi accettare il protettorato sulle altre due regioni, Annam e Tonchino, che diventarono parte dell’Unione Indocinese, insieme al Laos e la Cambogia.
Nonostante i tentativi di modeizzazione introdotti dal sistema coloniale, i vietnamiti furono ben presto delusi: l’imperatore fu posto sotto tutela, la maggioranza della popolazione fu esclusa dall’amministrazione e privata della libertà politica, di associazione e di espressione. Ad arricchirsi erano solo i colonizzatori e una ristretta élite di vietnamiti e cinesi. Il malcontento causò l’apparire di movimenti nazionalisti e rivoluzionari. Nel 1927 venne costituito il Partito nazionalista vietnamita; nel 1930 Ho Chi Minh fondò a Hong Kong il Partito comunista di Cambogia, Laos e Vietnam, che ben presto si divise in tre sezioni nazionali.
Durante la seconda guerra mondiale il Vietnam fu occupato dai giapponesi. I comunisti diedero vita al Viet Minh (Lega per l’indipendenza) e organizzarono la resistenza, cornoperando con gli alleati, senza nascondere l’intenzione di sbarazzarsi anche del regime coloniale. Di fatto, dopo la capitolazione del Giappone, Ho Chi Minh lanciò l’appello all’insurrezione nazionale: il partito comunista si insediò ad Hanoi e proclamò l’indipendenza della Repubblica democratica del Vietnam (1945).
Nei negoziati del marzo 1946, la Francia, che controllava ancora la Cocincina, riconobbe l’indipendenza del Vietnam nell’ambito della Unione francese, aspettando l’occasione per restaurare il dominio coloniale: in giugno dello stesso anno, i francesi formarono un governo guidato dall’imperatore Bao Dai, ultimo regnante della dinastia Nguyen.
Per quasi otto anni (1946-1954), le forze del Viet Minh, guidate dal generale Giap, combatterono una sanguinosa guerriglia, culminata nella battaglia di Dien Bien Phu, in cui i francesi furono definitivamente sconfitti. La conferenza di Ginevra (20 giugno 1954) sancì la fine della colonia francese e divise provvisoriamente il Vietnam in due stati indipendenti, con l’impegno di tenere votazioni generali nel 1956, per riunire il paese sotto un unico governo.
A nord del 17° parallelo si formò la Repubblica democratica del Vietnam, capeggiata da Ho Chi Minh e appoggiata da Urss e Cina; a sud la Repubblica del Vietnam, guidata dal filo-occidentale Ngo Dinh Diem, sotto l’ombrello francese, poi degli Stati Uniti.

Gli sviluppi politici non consentirono lo svolgimento delle elezioni previste dagli accordi di Ginevra. A Saigon, capitale del sud, Diem rovesciò Bao Dai e instaurò un regime autoritario e repressivo, alienandosi l’appoggio di buona parte della popolazione. Gli oppositori del regime (democratici, socialisti, nazionalisti e marxisti) si unirono nel Fronte di liberazione nazionale (Fln), detti «vietcong», per riprendere la guerriglia, con l’appoggio del governo di Hanoi.
Iniziava così la «seconda resistenza» contro i governi militari che si succedettero a Saigon e soprattutto contro gli Stati Uniti, i quali all’inizio foirono armi e consiglieri militari allo stato del sud, poi entrarono direttamente nel confitto (1965), fino a contare 580 mila soldati effettivi. Sul Vietnam furono scaricate più bombe di quelle lanciate in tutta la seconda guerra mondiale e furono sperimentate armi chimiche e batteriologiche.
La lunga e sanguinosa guerra si concluse soltanto nel 1975, col ritiro statunitense e l’occupazione del sud da parte dei vietcong e dell’esercito nordvietnamita: nord e sud furono riuniti nella nuova Repubblica socialista del Vietnam; Saigon, mutò il nome in Ho Chi Minh.

La drammatica situazione ereditata dalla lunga guerra, le crescenti tensioni intee, le politiche attuate dal nuovo regime provocarono esodi di massa: 1 milione e 300 mila persone lasciarono il paese con imbarcazioni di fortuna (i cosiddetti boat people), altri si rifugiarono nei paesi confinanti. Problemi di frontiera con Laos e Cambogia, riaccesero le mire espansionistiche dei comunisti vietnamiti verso i due paesi. Alla fine del 1978 occuparono la Cambogia e vi insediarono un governo filovietnamita.
Le proteste inteazionali provocarono l’isolamento del paese e l’embargo dei paesi occidentali. La lentezza della ricostruzione, la collettivizzazione dell’agricoltura e nazionalizzazione delle imprese aggravarono i problemi sociali ed economici: nel 1986 l’inflazione arrivò al 700%. E riprese l’esodo di circa 800 mila boat people.
Con la salita al potere di dirigenti riformisti e, soprattutto, cessati gli aiuti sovietici in seguito al collasso dell’Urss, il Vietnam ritirò le sue truppe dalla Cambogia (1989) e imboccò la strada delle riforme economiche. Per attirare gli investimenti stranieri, la nuova Costituzione, adottata nel 1992, rinunciava al marxismo-leninismo e riconosceva la proprietà privata.
Tutto ciò ha consentito al paese di uscire dall’isolamento internazionale e ristabilire rapporti diplomatici con molti paesi europei e asiatici, attirando così investimenti stranieri. Dall’inizio del 1994 anche gli Stati Uniti hanno revocato l’embargo economico e ristabilito legami diplomatici, permettendo al Vietnam di accedere ai crediti del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale per ricostruire e sviluppare il paese.
Negli ultimi anni, sull’esempio della Cina, il Vietnam ha aperto i battenti al libero mercato e firmato un importante accordo commerciale anche con gli Stati Uniti, favorendo una forte accelerazione della crescita economica. Tuttavia resta ancora profondo il fossato tra il sud, più sviluppato, e il nord, dove molti milioni di persone vivono con un’agricoltura di sussistenza e il cui sviluppo è ancora condizionato, oltre che da gravi inondazioni, dai drammatici effetti delle armi chimiche usate dagli Stati Uniti durante la guerra.

Nelle città e nelle aree dove è in corso il processo di modeizzazione il regime è costretto a mostrare agli stranieri una faccia più rispettabile, rispetto al passato; ma nelle zone rurali e lontane da occhi indiscreti continua la politica di oppressione.
La Costituzione del Vietnam ribadisce il ruolo unico di guida del Partito comunista, il quale mantiene saldamente il controllo su tutti gli aspetti della società vietnamita. Senza contare che anche l’ordinamento giudiziario, pur essendo basato sul sistema francese, continua a ispirarsi alla dottrina giuridica marxista.
Ma da quando il governo ha adottato il sistema capitalista, nessun comunista crede più all’ideologia comunista, ma solo al potere e al denaro, molto denaro (ma guai a dirlo apertamente!). Tale ideologia, ormai, è diventata la «foglia di fico» per opprimere e seminare terrore, sfruttare il popolo e, soprattutto, per coprire la piaga di una corruzione dilagante, mai vista in tutta la storia del Vietnam.
B.B.

Benedetto Bellesi




DOSSIER VIETNAM Ultima legge in materia di fede e religione.

È tutto… sotto controllo

Il 15 novembre 2004 in Vietnam è entrata in vigore l’Ordinanza sulle credenze e le religioni. È tutta basata sul sistema di «richiesta e concessione»: il perfido sistema «del bastone e della carota». Così lo stato controlla tutto: personale e attività, fino al sentimento religioso, compreso quello legato ai culti tradizionali del paese.

Dopo 6 anni di gestazione, il 18 giugno 2004 il Comitato permanente dell’Assemblea nazionale ha approvato i 6 capitoli e 41 articoli dell’Ordinanza sulle credenze e religioni. La legge è entrata in vigore il 15 novembre dello stesso anno.
Il documento ribadisce il principio costituzionale della libertà religiosa: «Ogni cittadino può seguire o non seguire una religione», ma tale premessa è oscurata negli articoli successivi: in essi si «permettono» diverse attività, ma sempre e solo dopo previa «autorizzazione» governativa.
Il controllo statale si esercita a 3 livelli: distrettuale, provinciale e nazionale. I primi 2 livelli sono gestiti dai Comitati del popolo, mentre l’ultimo è di competenza dell’Ufficio per gli affari religiosi e del primo ministro. Il Fronte patriottico è un altro mezzo di controllo. I suoi membri hanno il dovere di «incoraggiare i fedeli e i religiosi ad applicare l’ordinanza» e possono partecipare alla «stesura e supervisione» di ulteriori ampliamenti all’Ordinanza.

LIBERTÀ RELIGIOSA… PERMESSA
In base a tale legge, ogni organizzazione, per vivere, deve essere riconosciuta e registrata presso gli uffici per gli affari religiosi. Lo stesso vale per «congregazioni, conventi e forme di vita religiosa in comune».
Per quanto riguarda l’educazione, si possono istituire scuole per la formazione di personale religioso, ma solo dietro autorizzazione del primo ministro. In questi istituti lo stato stabilisce anche i programmi didattici e extra didattici e seleziona gli iscritti. Obbligatorio l’insegnamento della storia e delle leggi del Vietnam.
Attività e iniziative dei gruppi religiosi riconosciuti vanno programmate annualmente e si possono eseguire solo dopo autorizzazione governativa. Eventi fuori programma devono avere l’approvazione degli uffici per gli affari religiosi, come pure feste, riti, credenze, congressi e conferenze.
Anche l’ecumenismo, la collaborazione, l’unità, il trasferimento, la distribuzione del personale, ecc… nelle varie organizzazioni cadono sotto il controllo dello stato: tutto deve essere comunicato e approvato dalle autorità governative.
Ordinazioni, promozioni e nomine all’interno delle gerarchie religiose, sono regolate dai «codici e dalle procedure delle singole comunità». I candidati, però, vengono valutati dallo stato, che ne giudica la validità dal punto di vista morale e civico.
Pubblicazioni, stampa e diffusione di materiale religioso necessitano di autorizzazione. Produzione e vendita di oggetti per il culto e la pratica religiosa devono rispettare le regolamentazioni governative.
La predicazione è permessa solo nei luoghi di culto, anche questi stabiliti dalle autorità statali.
Per quanto concee le proprietà, le terre dove sono situati edifici religiosi devono essere utilizzati in modo regolare e permanente. Il rischio possibile, in caso di inadempimento, e la confisca delle terre stesse.

LIBERTÀ RELIGIOSA… SOSPESA
Il testo dell’Ordinanza prevede anche la possibilità di «sospendere» la libertà religiosa. Le motivazioni che possono spingere il governo ad adottare tale provvedimento sono vaghe e si prestano a diverse interpretazioni e strumentalizzazioni.
La legge dice che la libertà religiosa in Vietnam viene sospesa nei casi in cui «minacci l’unità dello stato» (secondo il testo, infatti, ecclesiastici e religiosi «devono» insegnare ai fedeli «i valori della patria e il rispetto delle leggi»), sia «contraria ai buoni costumi, minacci «la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico», rappresenti un pericolo per «la vita, la dignità, l’onore e la proprietà».
La nuova Ordinanza suggerisce alle comunità religiose l’impegno nei problemi sociali, incoraggiandole «a prendersi cura dei bambini, dei malati, dei poveri e dei disabili», ma sempre «in accordo con le regolamentazioni statali».
L’Ordinanza, inoltre, prevede che chi è stato in prigione per motivi religiosi e ha finito di scontare la pena può tornare a svolgere attività quali preghiera, evangelizzazione, partecipazione a funzioni solo dopo l’approvazione dell’Ufficio affari religiosi.

MEGLIO AL TEMPO DI HO CHI MINH
Anche se l’Ordinanza è in vigore dal novembre scorso, il testo della legge era stato presentato in via provvisoria nel dicembre 2000. Fin da allora ci sono state reazioni negative, interventi e suggerimenti da parte del clero ed episcopato cattolico, pastori protestanti e monaci buddisti, ma senza alcun risultato.
I vescovi della provincia di Ho Chi Minh hanno affermato: «La libertà religiosa è un diritto; e un diritto non si accontenta di un sistema che funziona per domande e concessioni dell’autorizzazione».
Stesso concetto è stato ribadito di recente da mons. Etienne Nguyen Nhu The, vescovo di Hué. Egli afferma che l’Ordinanza «non segna un’apertura sufficiente» per la piena libertà religiosa nel paese, perché «restiamo dentro un principio contrario alla libertà religiosa: quello di chiedere permesso e ottenere concessioni dal governo» in tema di libertà, di credo e di culto.
«Bisogna sempre domandare al governo la possibilità di fare ogni cosa – continua mons. Nguyen Nhu The -. Se il governo non dà il permesso, non si può fare niente». Di conseguenza «la chiesa non può organizzarsi come dovrebbe. Non abbiamo il diritto di organizzarci come vorremmo; bisogna sempre essere autorizzati in ogni scelta e decisione: per questo non c’è ancora piena libertà».
Durante l’assemblea generale di fine settembre 2004, la Conferenza episcopale vietnamita ha scritto una lettera all’Ufficio degli affari religiosi del governo di Hanoi affermando che «la nuova legge sulla vita religiosa è ancora inscritta in un sistema di “richiesta e concessione” in tema di libertà religiosa. Questa situazione non è ancora quella di una piena libertà, perché si è ancora sotto controllo».
In molti ritengono la legge sulle credenze e le religioni ancor più restrittiva delle precedenti norme. Il cardinale Jean-Baptiste Pham Minh Man, arcivescovo di Ho Chi Minh, ha definito l’Ordinanza «peggiore della legge di Ho Chi Minh del 1955», giudicata più liberale di quella attuale, ma di fatto mai applicata.
Secondo padre André Mals, delle Missions Etrangères de Paris (Mep), per molti anni missionario in Vietnam, poi espulso dal governo di Hanoi, nel paese c’è una restrizione liberticida verso le religioni e un netto peggioramento per la libertà religiosa: «Finora si voleva controllare la pratica pubblica dei vari culti. Ora si decide di determinare direttamente il sentimento religioso delle persone».

PERICOLO… PERSECUZIONE
Critici verso la legge sono soprattutto i gruppi di cristiani protestanti, che ne hanno lamentato la pericolosità. Il reverendo Pham Dinh Nhan, capo degli evangelici del Vietnam ha avvertito che «l’Ordinanza creerà problemi e disuguaglianze soprattutto a riguardo dei luoghi di culto e di preghiera».
Tale legge mira «a bandire in modo definitivo le case che abbiamo dovuto adibire a chiese e che dal 1975 aspettano un riconoscimento statale – rincara il pastore -. Molti articoli dell’Ordinanza foiscono alle autorità locali una giustificazione legale alla persecuzione delle chiese in Vietnam».
Dalla fine della guerra, nel 1975, il governo ha chiuso o convertito ad altri scopi molti luoghi religiosi. Il reverendo Pham ha di recente invitato i fedeli a digiunare e pregare 3 giorni al mese, da settembre a novembre, affinché il governo cancelli l’Ordinanza, metta fine a «pregiudizi e persecuzioni» contro la chiesa e le sue attività.
La pesante repressione governativa è visibile nelle aree rurali più che nelle grandi città; ma soltanto perché il governo, impegnato nella ricostruzione del paese, non vuole attirare l’attenzione dei suoi partner commerciali e delle autorità inteazionali sul mancato rispetto dei diritti umani.

* Per gentile concessione di Asia News.

BOX 1

Alcuni aricoli dell’ordinanaza

Art. 1 – Il cittadino ha il diritto di godere della libertà di credenza e religione e di aderire o meno a una religione. Lo stato garantisce la libertà di credenza e religione dei cittadini. Niente può minare questo diritto.

Art. 16 – Il primo ministro approva le organizzazioni religiose che operano in molte province e città sotto la diretta amministrazione del governo centrale.
Il presidente del Comitato del popolo di una provincia o città… approva le organizzazioni religiose che operano principalmente in tale provincia o città. La registrazione delle attività religiose e la procedura per riconoscere le organizzazioni religiose devono essere approvate dal governo.

Art. 17 – La fondazione, divisione, fusione e unificazione di gruppi religiosi locali devono essere approvate dal Comitato del popolo provinciale.

Art. 18 – Convegni e conferenze di organizzazioni religiose locali hanno bisogno dell’approvazione del Comitato provinciale del distretto. Per convegni o conferenze a livello nazionale è necessaria l’approvazione dell’Ufficio per gli affari religiosi del governo centrale.

Art. 21 –
Capi di conventi religiosi hanno la responsabilità di registrare presso il Comitato del popolo del villaggio i nuovi membri reclutati.

Art. 22 – Ordinazioni, promozioni, nomine, elezioni… devono essere concordate in antecedenza con l’Ufficio per gli affari religiosi del governo centrale.
Le organizzazioni religiose hanno la responsabilità di registrare i loro candidati e informare gli uffici competenti della dimissione e rimozione di ecclesiastici.

Art. 23 – Trasferimento di ecclesiastici o religiosi da un luogo all’altro devono essere notificati al Comitato del popolo del distretto nel luogo di partenza e registrare presso quello del luogo di destinazione.

Art. 24 – L’apertura di scuole per la formazione di operatori religiosi deve essere autorizzata dal primo ministro.
Ogni reclutamento per tali scuole deve essere fatto secondo principi pubblici e regole approvate, e deve offrire agli studenti libertà di arruolamento.
La storia e le leggi del Vietnam sono soggetti obbligati del programma scolastico per la formazione degli operatori religiosi.

Art. 33 – Lo stato incoraggia e provvede condizioni favorevoli per le organizzazioni religiose perché si impegnino nel prendersi cura di bambini fisicamente e mentalmente disabili; assistano i centri sanitari per i poveri, disabili, persone colpite da Hiv/Aids, lebbrosi o handicappati mentali; aiutino lo sviluppo di scuole infantili e prendano parte in altre attività a scopo umanitario o caritativo.

(Asia Focus)

Marta Allevato




DOSSIER VIETNAM La chiesa cattolica: martirio e profezia

Nel segno della croce

Non esiste in Asia una chiesa tanto perseguitata da secoli e così radicata nella cultura del popolo come quella vietnamita. Fecondata dal sangue dei martiri, essa resiste all’asfissiante controllo del regime comunista, per non essere asservita al potere e conservare la sua natura profetica.

Secondo la notizia tramandata dagli Annali imperiali della corte annamita, I-ne-Khu (Ignazio) fu il primo missionario che, nel 1533, predicò il vangelo nella provincia di Nam Dinh (Tonchino) e fu subito colpito da un editto di proscrizione. Nel 1580 ci riprovarono, nella Cocincina, alcuni francescani delle Filippine, ma anche la loro opera fu presto cancellata.
Ufficialmente la chiesa vietnamita nasceva il giorno di pasqua del 1615, quando due gesuiti, il napoletano Francesco Buzzoni e il portoghese Diego Carvalho, approdarono a Tourane (Cocincina) e celebrarono la messa con un gruppo di cristiani giapponesi esiliati dal loro paese natale. L’anno seguente la comunità contava 300 neofiti.
La presenza missionaria era scarsa e discontinua, poiché tutto dipendeva da una nave portoghese, che ogni anno portava da Macao merci e doni ai sovrani del Tonchino e della Cocincina, i due regni ostili in cui, già in quel tempo, era divisa la penisola indocinese.
Nel 1626 altri gesuiti arrivarono ad Hanoi e avviarono l’evangelizzazione del Tonchino. Uno di essi era il pistorniese Baldinotti. Un giorno, questi assistette a una curiosa rappresentazione teatrale all’aria aperta per la popolazione cinese di Hanoi: un personaggio vestito da portoghese, con una pancia enorme, da cui entrava e usciva un piccolo vietnamita. Si fece spiegare la scena: era una parodia del battesimo cristiano, in cui si «rinasce portoghesi».

L’APOSTOLO DEL TONCHINO
Il vero fondatore della chiesa vietnamita fu il gesuita francese Alessandro de Rhodes (1583-1660). Esperto matematico, eminente linguista, padre de Rhodes arrivò a Hué nel 1625; due anni dopo passò ad Hanoi ed ebbe subito grande successo: con un orologio e un’opera di matematica di Matteo Ricci incantò il re, che fece edificare una chiesa ad Hanoi; battezzò la sorella del monarca; convertì nel primo anno 200 vietnamiti, in maggioranza bonzi, altri 2.000 nel secondo, più di 3.000 il terzo anno.
Ma nel 1630 fu espulso. Si stabilì a Macao, dove mantenne i contatti, tramite i missionari che potevano entrare nel paese, con i catechisti che vi aveva formato. Tra il 1640 e il 1645 toò in Cocincina e fu espulso altre tre volte: la terza fu imprigionato e bandito dal paese sotto pena di morte. E non mise più piede nel paese.
Inviato a Roma come procuratore (1649), sollecitò Propaganda fide perché ordinasse preti locali e istituisse la gerarchia, nominando vicari apostolici per l’Indocina, in modo da sottrarre l’attività della chiesa dal sistema del padroado portoghese. Fece conoscere in Italia e in Francia quel campo di missione, procurando personale e altri aiuti: dopo 50 anni di evangelizzazione c’erano 300 mila cattolici in Tonchino e altri 500 mila in Cocincina.
Tale successo è dovuto alla notevole bontà naturale della gente, che il missionario ricambiò con profondo e rispettoso amore. Per prima cosa, de Rhodes affrontò lo studio della lingua, arrivando a possederla perfettamente. Vero colpo di genio fu la trascrizione dei suoni della lingua parlata con le lettere dell’alfabeto latino, al posto degli ideogrammi cinesi, scrittura inaccessibile alle folle.
La lingua parlata, nella trascrizione in caratteri latini, permetteva la comunicazione delle idee religiose e le novità scientifiche dell’Occidente in modo comprensibile anche al popolo semplice. La stessa lingua diventò uno strumento letterario con cui i vietnamiti cominciarono a esprimere la propria cultura, attraverso opere scritte di religione, storia, poesia, legislatura…, per la prima volta staccata dalla letteratura cinese.
Sullo stile di adattamento praticato dai gesuiti a Pechino, padre de Rhodes si immerse totalmente nella vita e mentalità del popolo, per trovare i mezzi più consoni a trasmettere i valori evangelici: nella sua catechesi sfruttava gli elementi culturali locali, come poesia e spettacoli religiosi; rispettava i riti dei defunti, che riteneva «molto innocenti e senza danno per la santità della religione»; si preoccupava di presentare il messaggio cristiano in modo che non desse l’impressione di essere una dottrina straniera o una «legge dei portoghesi».
Geniale fu pure l’idea di evangelizzare i vietnamiti mediante i vietnamiti. A tale scopo fondò la Congregazione dei catechisti: li istruiva nella conoscenza e nella pratica della fede; li addestrava nella medicina; dava personalmente l’esempio, insegnando il catechismo e soccorrendo poveri e malati. Dopo un periodo di formazione, emettevano i voti di povertà, di celibato e obbedienza.
I catechisti vivevano nella stessa casa con i missionari e il personale della missione, formando una sola famiglia cristiana e apostolica. Oltre ad istruire la gente, esercitavano tutte le funzioni che non richiedevano il sacerdozio. Nasceva così una chiesa quasi autosufficiente dal punto di vista dell’evangelizzazione, che continuò anche in assenza dei missionari. Di fatto, dopo l’espulsione dei missionari dalla Cocincina (1645) e dal Tonchino (1663), furono i catechisti a mantenere viva la chiesa in Vietnam, nonostante le ricorrenti maree di persecuzioni e martirio.
centomila martiri
Alcuni incidenti banali offrono la chiave di lettura delle successive ostilità contro i cristiani: abbattutasi una forte siccità in una zona, la popolazione cacciò i missionari, con questa accusa: «Con il pretesto di insegnare la via del cielo, rovinano la nostra terra». Nella concezione vietnamita, infatti, cielo e terra erano elementi che esprimevano una visione della vita sulla quale era costruito l’intero tessuto sociale, che la predicazione cristiana sembrava mettere in pericolo.
Lo stesso de Rhodes e il compagno padre Márquez, per aver battezzato alcuni moribondi, furono accusati dagli stregoni di possedere «un’acqua di morte che avrebbe spopolato il regno». Nel 1629 il re del Tonchino emanò tre editti per proibire ai vietnamiti di farsi battezzare e di avvicinare i missionari, rimandati a Macao con la prima nave portoghese. L’accusa ai cristiani di minare le fondamenta dello stato dura ancora oggi.
Nella Cocincina gli olandesi sparsero una calunnia infame: i missionari di Macao erano l’avanguardia della conquista portoghese. Nel 1640 i missionari furono tutti espulsi. De Rhodes e compagni ritornarono a più riprese, finché il re proibì ai suoi sudditi di «abbracciare la legge predicata» dagli europei e di frequentare i missionari.
E cominciò la persecuzione. Nel 1645 il catechista Andrea, fu pescato in casa dei missionari e condannato alla decapitazione. La stessa sorte toccò a Ignazio e Vincenzo, altri due importanti catechisti. Un altro centinaio di cristiani persero la vita nelle ondate persecutorie che seguirono fino alla fine del secolo.
Le difficoltà della presenza di missionari stranieri rendeva più che mai urgente la creazione del clero locale. Nel 1668 arrivarono due vicari apostolici, che ordinarono preti due catechisti, uno in Tonchino e l’altro in Cocincina. Nello stesso periodo fu fondato l’istituto femminile delle «Amanti della croce».
Le ordinazioni si moltiplicarono per tutto il secolo seguente; si registrò una forte espansione cristiana, specie al nord. Ma proseguirono pure le persecuzioni, con fasi altee, prima in Cocincina, poi in Tonchino, facendo circa 30 mila martiri tra i cristiani vietnamiti e missionari stranieri.
I cristiani godettero di un periodo di relativa tolleranza a partire dal 1802, quando le due regioni furono riunite sotto un unico imperatore Gia Long. Questi salì al potere con l’aiuto di un contingente di soldati francesi, inviato su sollecitazione del vicario apostolico, mons. Pietro Pigneau de Behaine.
Alla morte di Gia Long (1820), il successore Minh Mang pose le basi per una nuova ondata di persecuzione. Dichiaratosi «figlio del cielo», padre e madre del suo popolo, pontefice, legislatore e giudice assoluto, impose al Vietnam una politica di isolamento e, nel 1833, ordinò a tutti i cristiani di «abbandonare» la religione straniera. E poiché questi non rinnegavano la fede, la persecuzione si abbatté su di loro con particolare virulenza in un clima di terrore.
Il terrore cessò nel 1840 e gli incidenti furono saltuari sotto il nuovo imperatore Thieu Tri. Gli successe Tu Duc (1847) che proclamò un’amnistia generale. Ma l’anno dopo scatenò una nuova persecuzione che, col trascorrere degli anni, sfociò in autentici massacri (1851-1862).
Nonostante le persecuzioni e uccisioni, distruzione di chiese ed esilio di cristiani, la missione perdurò, anzi fece progressi. In quasi 50 anni ci furono oltre 70 mila martiri, che, sommati a quelli del secolo precedente, fanno più di 100 mila. Di questa schiera di eroi, 117 furono beatificati in date differenti e tutti canonizzati nel 1988: 8 vescovi e 21 missionari stranieri, 37 preti indigeni, 20 catechisti e seminaristi, 1 suora e 20 altri cristiani.

DAL COLONIALISMO AL COMUNISMO
Con l’occupazione francese dell’Indocina (1886) cessarono le persecuzioni sanguinose. Ciò permise alla chiesa vietnamita di espandersi, fino a diventare la più importante tra le chiese in Asia (quasi il 10% della popolazione), dopo quella delle Filippine.
Ma non finirono le difficoltà per la comunità cattolica: da una parte la politica anticlericale della Francia del tempo ne condizionava il lavoro; dall’altra i nazionalisti vietnamiti continuavano a presentare il cristianesimo come una religione straniera, con l’aggravante, ora, del sospetto di favorire la colonizzazione.
Tali sospetti furono enfatizzati dal partito di Ho Chi Minh, tanto che, nel 1931, un prete vietnamita e alcuni cristiani furono massacrati dai comunisti in un villaggio dell’Annam.
Il peggio per i cristiani è cominciato con la fine del colonialismo (1955), quando il paese fu diviso in due: nel nord, nella «Repubblica democratica» di Ho Chi Minh, cominciarono subito le purghe contro coloro che non si mostravano entusiasti del nuovo regime, facendo 1 milione e mezzo di morti. I cristiani furono i primi bersagli.
Oltre 860 mila nord vietnamiti fuggirono nel sud: di essi più di 676 mila (75%) erano cattolici. L’esodo di altri milioni continuò negli anni seguenti e durante la guerra del 1963-75, periodo in cui i vietnamiti cattolici si sono dimostrati fortemente anti-comunisti e, quindi, favorevoli ai governi sostenuti dagli Stati Uniti.
La successiva unificazione del paese, nel 1975, sotto il regime comunista del nord, segnò un’ulteriore pagina di sofferenza e di emarginazione per i cattolici vietnamiti: chiusura di tutti i seminari e noviziati; confisca delle scuole; incarcerazione del vescovo coadiutore di Saigon, ingerenze del governo negli affari della chiesa, espulsione del delegato apostolico, impedimenti ai vescovi di comunicare con la Santa Sede.
Nel 1989 il card. Roger Etchegaray, inviato speciale del papa, poté visitare 10 delle 25 diocesi del Vietnam. Tale visita è servita in certo senso per sbloccare la situazione, avviando un dialogo col regime comunista. In seguito, una decina di delegazioni del Vaticano si sono recate ad Hanoi per trattare con il governo; nell’ultima, in giugno 2001, sembra che le autorità vietnamite si siano mostrate più aperte e cordiali rispetto alle visite precedenti.
Ora in Vaticano si parla di «segnali di buona volontà» provenienti da Hanoi. L’ultimo è del gennaio 2005: negli incontri tra il presidente vietnamita Tran Duc Luong e quello della camera italiana, Ferdinando Casini, in visita al Vietnam, Tran ha affermato che «non vi sono contrasti tra Hanoi e Vaticano» e che per i «rapporti diplomatici» tra i due è solo «questione di tempo».
I mezzi di comunicazione di stato hanno dato risalto a tale evento, usando espressamente i «rapporti diplomatici»: per alcuni sarebbe quasi un impegno da parte del governo vietnamita. Ma altri sospettano che si tratti della solita carota, per imbonire l’opinione internazionale e nascondere il solito bastone.
chiese piene
Negli anni successivi all’unificazione, la politica del governo marxista-stalinista mirava a distruggere la chiesa cattolica. Poi, sull’esempio della Cina, ha cercato di fondare una specie di chiesa patriottica, chiamata «Associazione dei cattolici patriottici»; ma senza successo: i pochi aderenti sono solo a Ho Chi Minh.
Non potendo sopprimerla, e grazie ai mutamenti politici seguiti alla caduta del muro di Berlino, lo stato non considera più la chiesa «oppio» del popolo, ma continua a essere sospettoso e cerca di asservirla alla sua causa, usando il bastone e la carota.
Alcune chiese e proprietà confiscate nel passato, ormai ridotte in uno stato fatiscente, sono restituite con solenni cerimonie ufficiali. In tali occasioni partecipano sempre eminenti personalità del regime, che elogiano e incoraggiano l’opera della chiesa, soprattutto perché si prende cura di handicappati, ospedali, lebbrosari, orfanotrofi, asili infantili e altre opere sociali.
Ma intanto lo stato continua a mantenere il pieno controllo su tutte le attività caritative, sociali, educative e culturali della chiesa, specialmente quelle rivolte ai giovani.
Ancora più asfissiante è il fiato del regime sul collo del personale ecclesiastico: lo stato controlla le nomine episcopali e le ordinazioni sacerdotali; gli spostamenti di vescovi, preti, religiosi, suore anche per fini pastorali; le ammissioni e la formazione dei seminaristi, alcuni dei quali devono aspettare anche 10 anni prima di poter essere ammessi.
Nonostante le restrizioni, continua la fioritura di vocazioni sacerdotali e religiose, specialmente nella vita consacrata femminile. In ogni diocesi sono almeno 100 giovani disponibili a entrare in seminario, ma i seminari concessi dal governo sono appena 6 e ciascuna diocesi non può mandarvi più di 10 seminaristi ogni due anni.
Ma il problema più grande, riguarda la formazione e l’aggioamento del clero. Il governo impone ai seminaristi lo studio della filosofia marxista-leninista, materia normalmente riservata ai membri del partito comunista.
Nonostante il clima di ostilità in cui vive, la chiesa vietnamita è viva, attiva, entusiasta della propria fede: la pratica religiosa è altissima (80-90%); i laici continuano con coraggio il loro impegno nella chiesa e nella vita sociale. Continuano le conversioni, perfino tra le fila degli impiegati statali, col rischio di perdere il lavoro o almeno di essere considerati impiegati di serie «B».

PROFEZIA A RISCHIO?
Un giorno il regime comunista sparirà anche dal Vietnam, come è avvenuto in altri paesi. Ma come sarà la chiesa vietnamita, quando riavrà la sua piena libertà? L’interrogativo che si pone anche padre Chan Tin, redentorista vietnamita di 84 anni.
Egli denuncia l’«arsenale giuridico» con cui il governo soffoca la libertà religiosa, ma lamenta anche la «rassegnazione» della chiesa vietnamita nell’accettare l’ingerenza del potere nei suoi affari, illusa dagli scampoli di apparente libertà.
«Il fatto che lo stato esige la sua previa approvazione nella formazione, nomina e collocamento interno alla chiesa – spiega padre Chan -, fa sì che quanti lavorano nella chiesa e per la chiesa siano, alla lunga, alla mercé del potere, pronti a conformarsi alle sue esigenze. Senza contare che, dai ruoli guida nella chiesa, rimangono escluse le persone più competenti e capaci di autentica testimonianza cristiana. Alla fine la chiesa diverrà a poco a poco un docile strumento nelle mani del potere. Una volta giunto a questo stadio, il potere potrà lasciarle libertà totale, perché essa non avrà altra capacità che quella di eseguire gli ordini del partito e dello stato».
Tale politica sottile e peiciosa, lamenta padre Chan, sta minando alla radice il carattere profetico della missione della chiesa, la quale si accontenta di vedere le chiese strapiene la domenica, ma che di fronte a certi casi di abuso di potere, rimane in silenzio o al più accenna a qualche timida protesta.
«La politica religiosa di questo regime sta snaturando la chiesa cattolica e le altre chiese del paese – confessa padre Chan -. Temo che quando esso sarà passato, la mia chiesa non sarà più una chiesa autentica; che essa non possa più andare a testa alta, fiera dei suoi sacrifici e del suo coraggio, come lo ha fatto nel passato, gloriandosi delle centinaia di migliaia di martiri».
Più ottimista è il messaggio che Giovanni Paolo ii ha affidato ai vescovi del Vietnam, durante la visita ad limina, alla fine di gennaio 2004. Per la prima volta il governo vietnamita ha «concesso» a tutti di recarsi a Roma. «Quando farete ritorno al vostro nobile paese – ha detto il papa -, fate sapere ai vostri sacerdoti, religiosi, religiose, catechisti, fedeli laici e specialmente ai giovani, che il papa prega per loro e li incoraggia ad affrontare le sfide che pone il vangelo, prendendo esempio dai santi e dai martiri che li hanno preceduti lungo il cammino della fede e il cui sangue versato rimane un seme di vita nuova per l’intero paese…
La vitalità e il coraggio dei laici vietnamiti che anche oggi vivono e celebrano la loro fede in condizioni spesso difficili, la decisione altrettanto coraggiosa dei sacerdoti nell’annuncio del vangelo, come pure la fioritura delle vocazioni alla vita consacrata, specialmente nella vita religiosa femminile, sono fattori molto importanti per il futuro della chiesa in questo paese dalla storia così spesso travagliata».

Benedetto Bellesi