DOSSIER KOSSOVO”Tradimento nell’anima – Introduzione

Cos’è un enclave? Un territorio, un villaggio, una ristretta area completamente chiusa, dove si sono rifugiati gli ultimi serbi e non-albanesi che, dopo i bombardamenti del 1999, non hanno accettato di essere cacciati dalla propria terra e scappare in Serbia o altrove. Sono alcune decine di migliaia. Dati ufficiosi parlano tra 80 e 100 mila i serbi e non albanesi rimasti, di cui la stragrande maggioranza di essi è concentrata a Mitrovica e nella sua provincia confinante con la Serbia.
Nelle enclave vivono barricati, circondati da mezzi militari della Kfor (Forza militare di pace in Kosovo, guidata dalla Nato) e spesso da filo spinato, in una condizione di prigionieri e assediati. Nessuno può uscire, se non sotto scorta militare in autobus collettivi e solo per emergenze, pena il rischio di venire ammazzati.
«Qui, chi non impazzisce non è normale» c’era scritto sul muro di una scuola dell’enclave serba di Gracanica… prima che fosse distrutto anche il muro.
Come era la vita… prima del 1999? Ce lo racconta un ex operaio della fabbrica Zastava, Milko. Sono frammenti di avvenimenti e verità, nascoste o falsificate per «formare» una opinione pubblica occidentale consenziente alla «necessità della guerra umanitaria».

«Il nostro vicino di casa era albanese. Per oltre 30 anni abbiamo vissuto da buoni vicini e amici, in tutte le vicende della vita quotidiana. Anche prima del ’99, quando gli estremisti albanesi facevano protestare per maggiori diritti e più autonomia, ogni loro famiglia era obbligata a partecipare in qualche modo alle manifestazioni, sotto le minacce dell’Uck (Esercito di liberazione del Kosovo) che a quei tempi era clandestino, ma commetteva numerose aggressioni e attacchi, soprattutto contro quegli albanesi che si mostravano indifferenti o distaccati di fronte a tali proteste.
Di fatto nessuno di loro poteva esimersi dal farle, altrimenti gli ammazzavano gli animali, bruciavano i campi o, peggio, attaccavano casa o persone, se sapevano che erano addirittura contrari. Così, per non incorrere in questo, anche i nostri vicini facevano scioperi della spesa o non mandavano a scuola i bambini, non pagavano le bollette e altre cose.
Ma l’accordo tra noi era che, in quei periodi, gli facevamo noi la spesa, badavamo ai campi o alle bestie, se bisognava portarle fuori, gli procuravamo medicine o altre piccole commissioni o fabbisogni giornalieri. Questo per dare l’idea di come era la vita di tutti i giorni; e ciò valeva anche tra le altre famiglie del villaggio. Amici e buoni vicini per 30 anni.

Con l’intensificarsi delle violenze e degli assalti, la mia famiglia fuggì profuga in Serbia, ma io rimasi, vivendo nei boschi intorno alla casa, sperando che non la bruciassero. Ma una sera aspettai il mio amico al suo ritorno dai campi, cercando il momento in cui nessuno ci potesse vedere, piché se si sapeva che un albanese parlava con un serbo, rischiava di essere ucciso dall’Uck. Avevo pensato di regalargli la mia mucca prima che venisse rubata dai terroristi.
Quella sera, lo chiamai, ma lui non mi salutò più; mi guardava come fossi un fantasma, uno sconosciuto. Il fratello, che era venuto dall’Albania, mi insultò e minacciò, urlandomi che avrebbero ammazzato tutti i serbi e che sarei dovuto andarmene via subito se non volevo morire. Ma non è stato tanto questo, lui non era un mio amico; è stato guardare negli occhi una persona con cui hai vissuto accanto per 30 anni ed essa faceva finta di non conoscermi. So che forse era per paura o terrore di essere considerato amico dei serbi, per paura di quelli dell’Uck, per salvare la propria famiglia, la propria casa, la terra… Ma in quel momento, quella sera, in quel sentirnero sulle nostre terre, sui nostri campi, che ogni sera percorrevamo insieme per tornare dalle nostre famiglie… quella sera ho pianto.
Ho compreso fino in fondo che nulla sarebbe più potuto tornare come prima, mai più. Non solo perché si stava vivendo una situazione spaventosa, non solo perché quello è stato il tradimento di 30 anni di amicizia, ma perché è stato un tradimento nell’anima. Eravamo sempre stati amici, i bambini cresciuti insieme, feste fatte insieme, aiuti reciproci e questo non lo si potrà più dimenticare.
Ma non si potrà più tornare come prima. Ci hanno traditi, forse per paura del terrore dell’Uck, forse per opportunismo, per prendersi le nostre case e terre, forse, forse, forse… Ma nulla e nessuno potrà cancellare cosa è successo e cosa ci hanno fatto. Noi non lo dimenticheremo mai e neanche i nostri figli».

Sono tornati i tempi drammaticamente descritti dal poeta serbo V. Petkovic Dis (1880-1917) all’inizio del Novecento:
«… I tempi neri della distruzione sono arrivati.
Sono gonfiati la feccia, il vizio, la malvagità.
Il marcio puzzo del declino si è levato.
Tutti gli eroi e i poeti sono morti.
Le tane, i covi e i canali sono scoperchiati,
i sotterranei sono elevati al sole del giorno.
Tutti subdoli, tutti maledetti, tutti piccoli…».

Enrico Vigna




DOSSIER KOSSOVOSe questa… è vita

Viaggio nelle enclavi del Kosovo

L’enclave di Gorazdevac, dove sopravvivono circa 760 persone, è un esempio della situazione dei serbi in Kosovo: senza servizio sanitario, senza lavoro, senza alcun diritto, mentre abbondano provocazioni e vessazioni di ogni genere.

Negli ultimi 6 anni ho seguito costantemente e da vicino le vicende della regione che gli albanesi chiamano Kosovo e i serbi Metohija. La realtà, constatata nel vivo della vita quotidiana sul posto, ha superato qualsiasi analisi, valutazione o cognizione di causa.
Le parole dette da un militare italiano, in una chiacchierata informale, possono dare un’idea della realtà delle enclavi: «Per un mese, dal mio arrivo sul posto, sono rimasto scioccato da cosa vedevo e conoscevo circa le enclavi e la vita in esse…». Parole di un militare, membro di truppe di occupazione straniera.

Viaggio sotto scorta

Sono stato in Kosovo dal 13 al 18 gennaio 2005. Insieme al sottoscritto, invitato dalla comunità dell’enclave di Gorazdevac, facevano parte della delegazione due sindacalisti della fabbrica automobilistica Zastava di Pec e le due responsabili dell’Ufficio adozioni inteazionali dello stesso sindacato.
Abbiamo portato contributi economici raccolti dal Progetto Sos Kosovo, lanciato nel dicembre scorso dall’Associazione Sos Yugoslavia, oltre a doni in dolciumi e vestiario con il contributo del sindacato stesso.
Il viaggio è stato possibile grazie alla scorta della Kfor, che ci ha permesso di andare a visitare e incontrare anche le realtà di Pec e Decani, oltre a Mitrovica, cittadina con la più alta concentrazione della comunità serba.
Il ruolo della scorta, soprattutto nella prima notte, ma anche al ritorno, se ne è andata un po’ per conto suo, lasciandoci spesso lontani e abbastanza indifesi ed esposti a eventuali violenze, se si esclude il soldatino del contingente rumeno, che saliva con noi sul furgone col suo mitragliatore, quasi più grande di lui.
Bisogna dire che l’unica funzione reale è quella di formale deterrente, dato lo spaventoso livello di odio e violenza che viene manifestato lungo le strade da ragazzini e non, al passaggio di macchine scortate, che hanno il significato della presenza di serbi o… amici dei serbi, che porterebbe allo stesso non piacevole risultato se si finisse in mezzo alla gente. Nella normalità accadono soltanto gestacci, minacce, sputi sui vetri o sassi volanti; altre volte, come il novembre scorso, lo stesso convoglio è stato attaccato con bottiglie molotov e, a dicembre, con una sassaiola: in entrambi i casi sono stati distrutti i bus e provocati numerosi feriti non gravi.
La scorta come spesso in questi 6 anni, non è riuscita a impedire nulla e nemmeno a identificare nessuno delle decine di assalitori albanesi. A detta della gente del posto, ogni volta che gli estremisti albanesi attaccano, la Kfor si defila o si allontana, per poi ricomparire quando gli avvenimenti prendono una piega incontrollabile.
A onore della verità, questo finora non è successo nella difesa dell’antico patriarcato di Pec e al monastero di Decani, dove ci è stato detto dell’impeccabile e finora decisivo compito difensivo svolto dal contingente italiano contro le orde criminali per evitae la distruzione.

Situazione sanitaria nelle enclavi

In quella di Gorazdevac, dove sopravvivono circa 760 persone, la sanità è una stanza adibita ad ambulatorio, con la presenza di una dottoressa del posto che vive all’interno dell’enclave. In altre enclavi viene portato un medico sotto scorta una o due volte la settimana per incontrare la gente.
Non vi sono strumenti né macchinari per fare esami. Mancano praticamente ogni tipo di medicine, salvo quando arrivano quelle donate. Nel nostro viaggio abbiamo portato tre scatole di medicinali; erano alcuni mesi che non ricevevano nulla. Ma le nostre medicine non erano specifiche, bensì frutto di una raccolta generica, forse di poca utilità.
In caso di malattia occorre fare una richiesta 72 ore prima alla Kfor (Forza militare di pace in Kosovo), per essere portati sotto scorta all’ospedale di Mitrovica Nord e ricevere cure o fare controlli ed esami. E questo per casi urgenti; per il resto si può aspettare anche mesi.
Ma, non essendoci farmaci specifici né interventi di pronto soccorso, in quei tre giorni di attesa si può anche morire: è successo a vari anziani con problemi cardiaci e a bambini bisognosi di ricovero immediato.
A ciò si aggiungono le drammatiche conseguenze dei «bombardamenti umanitari» con l’uranio impoverito: l’argomento è top secret; non si hanno dati, cifre o numeri. Ma è entrato normalmente nella vita della popolazione kosovara, albanesi e serbi, questa volta in modo unitario e paritario. Per «liberarli» li hanno investiti con centinaia di tonnellate di proiettili «arricchiti di uranio impoverito».
Dalle mappe del Dipartimento delle pubbliche informazioni dell’Onu risulta praticamente uranizzata l’intera area, in ogni suo angolo: l’inquinamento della terra e delle falde acquifere è praticamente ufficiale; tanto che l’uso dell’acqua dei rubinetti è sconsigliata anche solo per lavarsi i denti, figurarsi per dissetarsi o fare da mangiare.
Gli stessi soldati della Kfor hanno l’ordine di non bere acqua fuori dalle loro basi: all’interno viene usata esclusivamente acqua minerale.
Ma a chi non ha soldi per fare scorte di acqua minerale per tutti gli usi e a chi, come i prigionieri delle enclavi, può procurarsela solo periodicamente e in modiche quantità, quale destino gli spetta?
Intanto, si sa ufficiosamente che sia tra i neonati degli ultimi tempi, che nelle stesse nascite di animali, sono centinaia i casi di deformazioni e malattie, legate all’uranio impoverito.
Ha denunciato il padre francescano J. M. Benjamin: «Il 70% della regione del Kosovo e il 30% della Serbia sono contaminati. È scandaloso e riprovevole il comportamento dei mass media di tutto il mondo nei confronti dell’uranio impoverito… Ancora una volta gli organi di informazione si mostrano asserviti ai dettami del potere che, come d’abitudine, rende noto solo quanto conviene ai suoi scopi».

Lavoro e scuola nelle enclavi

L’unica possibilità di lavoro è offerta da piccoli appezzamenti di terra estei alle case, ma interni alla zona protetta. L’enclave, infatti, è formata da due zone. La prima è quella in cui vive la comunità, con le case non distrutte o incendiate, in un diametro vitale di circa 1 km: è la fascia più controllata e vigilata (vi è anche il campo militare della Kfor); da qui nessuno può entrare o uscire senza permesso.
La seconda è formata da campi e boscaglia che circondano il villaggio: anche questa si estende per circa un altro chilometro, con una seconda linea più estea di vigilanza della Kfor; ma è meno controllata e quindi più pericolosa.
In quest’area gli uomini vanno ogni giorno a lavorare un pezzo di terra, con il rischio, come più volte successo in questi anni, di rimanere vittime dei cecchini, di incursioni terroristiche improvvise o delle mine disseminate dall’Uck.
L’economia della comunità si basa esclusivamente su questi orti familiari e sull’allevamento di qualche animale per il sostentamento familiare. Altre entrate sono le pensioni degli anziani (50-60 euro), erorate dalla Serbia, e il sussidio mensile di disoccupazione (60 euro, che scadrà a settembre 2005) degli unici 17 ex lavoratori della Zastava di Pec, che dal marzo ’99 non possono più recarsi al loro posto di lavoro, colpevoli di essere serbi.
Nell’enclave vi è soltanto un piccolo bazar, rifornito periodicamente di prodotti su richiesta, e un bar, dove non vi sono neanche le sedie.
Nell’enclave di Gorazdevac, vi è solo la scuola elementare, con un centinaio di bambini, la presenza di alcuni maestri e un ottimo direttore. L’Unmik (Missione Onu per l’amministrazione ad interim del Kosovo) voleva sostituirlo con uno più «fiduciario» ai suoi interessi ed esigenze amministrative, ma la comunità si è opposta con forti proteste perché restasse nel suo incarico.
La vita dei bambini ruota tutta intorno alle ore passate nella scuola, dove tutto è vecchio e manca ogni cosa, dalla cancelleria alle attrezzature. Il resto delle loro giornate, da 6 anni a questa parte, è in casa o nelle strade sterrate del villaggio; essi non devono assolutamente andare in prossimità delle ultime case, per non rischiare di venire colpiti da eventuali cecchini.
Nell’agosto del 2003, un gruppo di ragazzi dell’enclave era andato a poche decine di metri per bagnarsi in un torrente, quando, dal bosco, fu bersagliato con raffiche di mitra: due ragazzi furono assassinati; altri quattro feriti, due dei quali sono invalidi permanenti.
I ragazzi delle enclavi che vogliono proseguire gli studi delle scuola superiore o l’università hanno una sola possibilità: recarsi nella cittadina di Mitrovica nord. Vi si recano all’inizio della settimana con l’autobus scortato dalla Kfor, dormono presso parenti o nella casa dello studente e rientrano al venerdì. Per gli studi universitari la cosa più semplice è dare solo gli esami senza frequentare.


In balia del razzismo etnico

A riguardo dei diritti c’è poco da dire: chi vive nelle enclavi è di fatto un prigioniero; soprattutto è un essere umano senza nessun tipo di diritti umani, civili o sociali.
In Kosovo, oggi, vige una situazione di apartheid. Chi non è di origini schipetare (albanesi) sopravvive in una sorta di limbo, fondato sul razzismo etnico: sono negati il diritto al lavoro, a essere curati, all’istruzione, alla spesa anche solo per il sostentamento alimentare della propria famiglia, alla libertà di movimento, al diritto del proprio credo religioso.
Persino la continua e provocatoria interruzione della foitura dell’acqua e dell’elettricità, sono usate per rendere impossibile l’uso dei frigoriferi (per affamare la gente, poiché le scorte alimentari marciscono), delle radio e tv, dei telefoni, unico filo virtuale di comunicazione col mondo reale, impedendo praticamente anche una allucinante normalità.
In compenso la Compagnia elettrica kosovara sta mandando a tutte le famiglie serbe ancora presenti le bollette con gli arretrati di tutti questi anni: bollette che arrivano anche a 1.000 euro.

Storie di ordinaria ingiustizia

In pochi giorni siamo stati subissati da centinaia di storie di vessazioni, come quella di un contadino bastonato a sangue, arrestato perché indicato da un albanese come un criminale, in prigione per tre anni, senza avvocati né alcun tipo d’interrogatorio, poi rilasciato e minacciato di morte affinché abbandonasse il Kosovo.
Un’altra storia riguarda una madre di 5 figli, aiutata dalla nostra Associazione. I banditi dell’Uck le hanno ucciso il marito e bruciato la casa. I resti dell’abitazione si trovano, ora, ai lati della base della Kfor, che le impedisce di tornare a viverci per motivi di sicurezza militare. Anche se diroccata, è l’unica cosa che le rimane e tornarvi è meglio che continuare a vivere in case di altri. Ha deciso di piantare una tenda dove c’era la casa e la Kfor dovrà cacciarla con la forza insieme ai suoi bambini.
Altre storie riguardano il comportamento della Kfor. Durante il capodanno degli albanesi, alcuni di loro erano andati verso l’enclave sparando raffiche di mitra e lanciando granate. La gente dell’enclave protestò presso la Kfor perché intervenisse per sequestrare le armi (visto che le enclavi erano state minuziosamente perquisite); ma i soldati, indispettiti, hanno intimato ai serbi di rientrare nelle case e di non insegnare a loro cosa dovevano fare. Durante il capodanno ortodosso, invece, i soldati accorsero e requisirono ai bambini serbi dell’enclave alcuni petardi con cui giocavano… perché disturbavano.
Oppure la storia di un anziano, padre di un giovane che è venuto in Italia in cerca di lavoro e ora è in regola con i documenti. Il figlio lo ha invitato in Italia per rivedersi dopo 5 anni e prima che il genitore muoia. Per andarci avrebbe bisogno del timbro del consolato italiano di Pristina; ma il vecchio non può uscire dall’enclave e andare a Pristina: essendo serbo lo possono ammazzare.
Ci vorrebbero giorni e mesi interi per raccontarle tutte; le storie riportate bastano per dare un’idea della situazione allucinante, da antico Far West, ma che accadono nel 2005.

Attenzione: cambiare la targa!

Prima di avventurarsi per le strade del Kosovo è di norma sostituire le targhe delle auto: una vettura con la vecchia matricola federale sarebbe subito attaccata; gli occupanti potrebbero finire ammazzati.
Lo abbiamo fatto anche noi, pur avendo la scorta armata della Kfor: cacciavite e copia taroccata di una targa kosovara e via, nel regno della democrazia e della civiltà portate dall’Occidente.
E tutto con buona pace di quei «primitivi e caveicoli» cittadini kosovari che, fino al 1999, a qualsiasi etnia autoctona del Kosovo Metohija appartenessero, potevano andare dove volevano e con chi volevano.
Sostituire la targa a seconda delle zone in cui ci si trova è reato in tutti i paesi della terra, come lo era in Kosovo 6 anni fa. Ma, paradossalmente, l’invito è quasi un ordine dato dalla Kfor, altrimenti i soldati non rispondono della vita di chi non lo fa. Anzi, ci sono zone dove si è autorizzati a girare senza targa… Viva il Kosovo «libero»!
A parte i bla bla bla occidentali su libertà e democrazia: è il diritto alla vita stessa che viene negato oggi in questa parte d’Europa. Chi cerca di perseguire anche uno solo di quei diritti ritenuti basilari per una minima convivenza umana in qualsiasi paese del pianeta, in Kosovo rischia di essere assassinato.
Vita quotidiana colma di terrore, angoscia, vessazioni materiali e morali, tensioni devastanti per la psiche dei bambini e degli adulti: questo è oggi la provincia del Kosovo Metohija; questo è il risultato dell’aggressione alla Repubblica federale jugoslava di 6 anni fa, con la «guerra umanitaria» e «bombardamenti etici», per portare in quella regione, dicevano, i «diritti» e impedire le violenze o, addirittura, i genocidi.

Enrico Vigna




DOSSIER KOSSOVODomande (in attesa di risposte)

Sfido chiunque a dimostrare, dati e documentazioni alla mano, che uno solo dei diritti negati oggi ai serbi e alle minoranze non albanesi del Kosovo, fosse negato prima del marzo 1999 alle varie minoranze che vivevano lì da secoli.
Erano 14 quelle riconosciute prima. Oggi quante sono? Inoltre, non va dimenticato che anche alcune decine di migliaia di kosovari albanesi sono dovuti scappare in Serbia per non essere uccisi, perché considerati jugoslavisti.
Ha detto Dragan, un ex lavoratore della Zastava di Pec: «La democrazia dell’occidente, è una parola vuota, falsa, un linguaggio che non riusciamo a capire. La democrazia l’avevamo prima, perché ognuno aveva il proprio lavoro, la propria terra, le proprie tradizioni e feste, la propria religione e le proprie chiese, diritti e doveri sanciti per tutti. Oggi c’è solo distruzione, odio, violenza, terrore, criminalità. Ecco cosa ha portato qui la democrazia occidentale».

Dov’era il genocidio? Dove sono le fosse comuni, i massacri, gli stupri di massa, le persecuzioni, i diritti negati? Domande a cui, oggi, risponde solo il silenzio da parte di tutti coloro che si sentirono arruolati nella lotta del bene contro il male. Dove naturalmente il bene era la Nato, le bombe umanitarie, politici e mass media occidentali, persino grandi parti del movimento pacifista, che pur con qualche distinguo ritennero «necessario» fermare «demoni», violentatori, assassini… ovviamente rigorosamente serbi.
Oggi che la sbornia collettiva mass-mediatica è dimostrata, è sotto gli occhi di chiunque vuole capire, vuole pensare con la propria testa… dove sono quelle anime candide della politica e della disinformazione, che scrivevano e declamavano in televisione la loro indignazione contro le ingiustizie e la violenza?
Dove sono e cosa dicono o scrivono dei seguenti dati ben documentati: oltre 300 mila profughi di tutte le etnie, ma nella stragrande maggioranza serbi, scacciati dalla propria terra; più di 3 mila desaparecidos assassinati o rapiti, dal marzo ’99 a oggi, e ormai dati per uccisi dalle stesse forze inteazionali; centinaia di migliaia di case sono state bruciate e distrutte; 148 monasteri e luoghi di culto ortodosso, vere e proprie culle non solo della storia del popolo serbo, ma dell’intera umanità, sono stati attaccati o distrutti dalle forze terroristiche dell’Uck, il grande alleato dell’occidente.
Cosa scrivono e dicono di un popolo, quello serbo, obbligato a scappare dalle proprie case e dalla propria terra, per non morire; costretto a sopravvivere in un regime quotidiano di terrore e di apartheid, in campi di concentramento a cielo aperto, circondati e assediati? L’unica loro colpa è l’appartenenza etnica.
Quella regione che dicevano «liberata» è, oggi, indicata da tutti gli esperti investigativi inteazionali come il crocevia e lo snodo di tutti i traffici illegali, dalla droga alle armi, dalla prostituzione al traffico di organi.

Con questo dossier mi faccio «voce», come mi è stato richiesto, di un popolo senza più voce, né giornali, né televisioni, umiliato, vessato, violentato anche moralmente dalle falsità e menzogne della «disinformazione strategica» (annunciata e rivendicata come arma di guerra dallo stesso Pentagono).
Vorrei lanciare un appello-invito a giornalisti, operatori dei mass media, esponenti istituzionali o politici, onesti e liberi professionalmente, che ritengono ancora un dovere fare un’informazione corretta, indipendente, forse anche scomoda, sul campo. Intendo dare una disponibilità completa, organizzativa e logistica a chi voglia incontrare, intervistare, conoscere, domandare e informarsi, senza limiti o preclusioni di alcun tipo, per cercare attraverso documentazioni e testimonianze dirette la realtà storica dei fatti.
Faremo pervenire questo appello personalmente a un elenco di personalità del campo mediatico e informativo e attenderemo anche solo un riscontro e lo renderemo pubblico.

Enrico Vigna




DOSSIER KOSSOVOSerbi del Kossovo, palestinesi d’Europa

Presente e futuro del Kosovo: aspetti politici

Dopo 5 anni di amministrazione Onu, la situazione economica è catastrofica, la pulizia etnica anti-serba continua, i kosovari albanesi parlano di indipendenza e «Grande Albania», con la prospettiva di una nuova guerra balcanica.
Intanto prosperano le mafie d’ogni tipo.

Dalla conoscenza della situazione sul campo emerge un dato di fatto: le divisioni intee alle comunità delle enclavi. All’opera di frammentazione e disgregazione di tali comunità non sono estranee le forze di occupazione: ciò rende loro tutto più semplice; ma tutto è più complicato per chi vuole resistere.
In una situazione di miseria e sfacelo totale dal punto di vista sociale, bastano poche centinaia di euro o banali facilitazioni e agevolazioni, per dividere e spaccare la gente.
Una delle cause che spacca in due le comunità delle enclavi, per esempio, è l’imposizione di rappresentanti indicati dalla Kfor: una parte rifiuta di riconoscere chi non è indicato o eletto direttamente dalla gente (vedi riquadro), altri accettano con rassegnazione per non indispettire gli occupanti e non aggravare ulteriormente la situazione di vita quotidiana.
Le comunità del Kosovo nutrono grande sfiducia anche verso i propri rappresentanti ufficiali presso l’Amministrazione temporanea del Kosovo, come i due Ivanovic (Milan e Ivan) e la stessa Rada Trajkovic, leaders del Consiglio nazionale serbo del Nord Kosovo. In ogni colloquio avuto, nessuno ha mostrato convincimento o adesione a queste figure. Si sente chiaramente l’assenza di una vera e riconosciuta leadership sul campo, che riesca a dare indicazioni e prospettive positive e costruttive, per far uscire il popolo serbo kosovaro da una situazione di annichilimento e totale sconfitta.
Ancora più profonde sono le distanze e l’estraniamento dai partiti politici di Belgrado, la dimostrazione si è avuta con il totale rifiuto a votare nelle elezioni dello scorso anno e nelle precedenti l’affluenza era stata la più bassa storicamente.
Un altro umore palpabile nelle enclavi è la profonda ostilità verso la comunità internazionale, ritenuta colpevole di tutto quanto è successo, più responsabile persino dell’estremista albanese. Questo, tra l’altro, nel 1998 era stato praticamente debellato, sia politicamente che militarmente: ma poi è stato assunto e diretto dalle centrali estere e la partita è stata capovolta, portando il Kosovo nell’abisso sociale e umano in cui è ora.
In ogni dove, qualsiasi persona con cui si parli, lavoratore o contadino, rappresentante di comunità o religioso, risuona lo stesso ritornello: «Siamo soli, ci hanno abbandonato tutti, si sono dimenticati di noi».
Non è una cantilena retorica né una piaggeria, ma una lettura della posta in gioco, fatta da uomini semplici, ma «coscienti e intelligenti» della propria situazione, legata ad eventi e dinamiche inteazionali da cui dipendono il presente e, soprattutto, il loro futuro.

I «Guardiani del Ponte»

La città di Mitrovica è in una situazione molto particolare e diversa, per molti aspetti, dal resto del Kosovo. Prima di tutto, qui si stanno concentrando migliaia di serbi molto determinati, che non vogliono abbandonare la propria terra e vivere da profughi lontani. Anche numericamente rappresentano una realtà non facile da addomesticare. In secondo luogo, la città ha alle spalle una zona ancora controllabile e sicura, che la unisce alla Serbia. Inoltre, la popolazione è molto unita e determinata a resistere fino in fondo ai futuri assalti che verranno.
Secondo l’Osce (Organizzazione sulla sicurezza e la cooperazione in Europa) e l’Unmik, la popolazione riconosce e ha nei «Guardiani del Ponte» una valida e radicata forza di autodifesa. Si tratta di un’associazione di volontariato civile costituita dopo i bombardamenti Nato del 1999, per proteggere la comunità della parte nord di Mitrovica e impedire le incursioni degli estremisti albanesi attraverso il ponte sul fiume Ibar che unisce le due parti della città.
Più volte la Kfor ha cercato di smantellare questa associazione. Ma, nonostante le indagini e tentativi di criminalizzarla, essa è circondata dalla totale solidarietà della popolazione, che la rende impenetrabile alle infiltrazioni di investigatori che vogliono scoprie le strutture intee e il funzionamento.
Alcuni suoi esponenti ufficiali, che si definiscono membri dell’«Associazione dei cittadini di San Dimitrije», hanno dichiarato che l’obiettivo è la protezione dagli attacchi degli estremisti albanesi contro la popolazione civile e l’assistenza umanitaria per i più poveri. Stime ufficiose dell’Osce e dell’Unmik, ritengono che i militanti a tempo pieno siano 400-500, con una capacità di mobilitazione rapida di 4-5000 persone.
Nell’incontro avuto con un esponente dei Guardiani del Ponte, è emersa con lucidità la lettura della situazione e delle prospettive future, insieme alla determinazione, per nulla emotiva, di lottare per la propria sopravvivenza come popolo. La loro coscienza politica (non in senso di partiti) e di identità nazionale indica in Mitrovica quella che sarà l’ultima trincea della resistenza del popolo serbo kosovaro, per impedire l’annientamento nel Kosovo pulito etnicamente.
La loro forza di mobilitazione ha portato al ponte migliaia di persone, notte e giorno, per protestare contro l’arroganza verso la popolazione civile da parte delle truppe Kfor, prima quelle americane, poi quelle tedesche. Dopo giorni di assedio, per non aggravare ulteriormente una situazione già ad altissima tensione, l’Unmik le ha sostituite con un contingente francese.
Altrettanto fondamentale è stata la mobilitazione dei «Guardiani» durante le violenze del marzo 2004, impedendo alle orde degli estremisti albanesi di assaltare la zona nord, in una vera e propria battaglia campale durata tre giorni lungo il fiume Ibar e attorno alla città.

Rischio effetto domino

L’indipendenza entro la metà del 2006 è ormai una scadenza «ufficiosa», neanche più nascosta. Se ne discute in istituzioni locali e inteazionali e tra la gente. A luglio dello scorso anno, lo pseudo-parlamento di Pristina ha votato alcuni emendamenti alla costituzione federale della provincia, tra cui il diritto a indire un referendum per l’indipendenza.
Il problema per tutti è come farla passare e accettare senza combattimenti e altro sangue. Un evento del genere potrebbe risvegliare forti sentimenti patriottici, di dignità e identità nazionali nella stessa Serbia; tali sentimenti potrebbero saldarsi a quelli della resistenza dei serbi kosovari, gettando benzina su una situazione che le forze inteazionali denunciano ad alto rischio conflittuale, capace di far precipitare i Balcani in una nuova spirale di guerra.
Così verrebbero stravolti tutti i disegni di pacificazione armata pianificati in questi anni di occupazione da parte della Nato e delle forze occidentali. Si riproporrebbe uno scenario di «instabilità regionale», autentico rompicapo per la «comunità internazionale». Non è in gioco solo il Kosovo, ma tutta l’area balcanica.
Tale avventura provocherebbe un effetto domino. A nord coinvolge la Serbia meridionale, dove recentemente è stato deciso di dispiegare ulteriori forze dell’esercito serbo, per il susseguirsi di atti provocatori del cosiddetto Esercito di liberazione del Presevo, Medvedja e Bujanovac. Questi «liberatori», oltre a chiedere apertamente la secessione di tali regioni dalla Serbia e l’unificazione col Kosovo albanese, sembrano essersi legati all’Armata nazionale albanese, che a sua volta mira alla costruzione della «Grande Albania».
Anche nella provincia del Sangiaccato, sono ormai migliaia i serbi e i rom che, sotto minacce e violente pressioni da parte degli estremisti albanesi, stanno lasciando la città di Novi Pazar e villaggi circostanti; qui, tra l’altro, dopo numerose e violente dimostrazioni degli estremisti, è stato concordato il ritiro dalla città dell’esercito serbo.
Ma «l’instabilità regionale» coinvolge anche la Macedonia: in molte aree del paese è ancora in vigore il coprifuoco e, da anni, la minoranza albanese cerca la secessione e l’unificazione con il Kosovo e l’Albania.
Un eventuale ribaltamento del «giocattolo Kosovo» potrebbe coinvolgere anche la Grecia, dove dall’anno scorso si è formato un partito della minoranza albanese che rivendica il nord del paese come territorio albanese e predica la separazione.
Non bisogna dimenticare la zona a sud del Montenegro, abitata in grande maggioranza da albanesi. Questi, l’anno scorso, hanno ottenuto una serie di agevolazioni giuridiche, economiche, doganali, linguistiche, evidente riscossione del sostegno dato dall’ex Uck a Djukanovic, attuale presidente montenegrino. Di fatto, per potersi affermare, il presidente ha stipulato patti non solo con la mafia pugliese (come risulta da incriminazioni e mandati di cattura emessi dalla procura di Bari), ma anche con la mafia albanese, indicata dalla Dea (Agenzia antidroga statunitense), come strumento operativo di controllo economico e militare dell’Uck.

Europa-USA: strategie diverse

È evidente che, sotto la cenere di quell’area, la posta in gioco è molto alta e va ben al di là dei diritti della comunità serba e non albanese della regione kosovara. Perciò i negoziati, che in questo 2005 dovrebbero definire lo «status finale» del protettorato Kosovo, contengono aspetti e implicazioni politiche estremamente delicate: esse riguardano i futuri assetti geostrategici di tutta la regione balcanica, cui sono coinvolti pienamente i rapporti tra l’Europa e il gendarme americano, insieme alle loro rispettive mire e interessi.
Per questo appaiono sempre più marcate le contraddizioni tra le strategie Usa da una parte e quelle di Germania e Francia dall’altra. Esse emergono sia negli aspetti politico-amministrativi della regione che nella sponsorizzazione di alleati locali privilegiati. Ma anche negli aspetti di investimenti economici e processi di ricostruzione mire e obbiettivi strategici appaiono diversi.
Non meno diversificati si rivelano gli approcci alla situazione e alle problematiche concrete dal punto di vista militare, come nel caso scoppiato a Mitrovica, nel marzo 2004: dopo giorni di violenza, le leali relazioni instauratesi con il contingente francese, hanno impedito alle forze fasciste albanesi di conquistare la parte nord della città, permettendo alla comunità serba di dispiegare le misure difensive e ricacciare al di là del fiume Ibar gli assalitori.
Il ruolo e le funzioni della Kfor e dell’Unmik, reggenti del «protettorato» Kosovo, sono chiari e precisi agli occhi di tutti: se da un lato sono la garanzia minima all’esistenza fisica delle enclavi, dall’altro rappresentano solo un processo di transizione all’indipendenza, prospettiva ormai pubblica e dichiarata di tutte le forze politiche albanesi kosovare.
In virtù di tale funzione, il rapporto con le comunità serbe e non albanesi è fondato sul concetto di pace armata: o queste accettano lo status quo, seppur illegittimo, o il ricatto di lasciare campo libero alle bande criminali e fasciste albanesi.
È chiaro che i rapporti di forza sul campo non sono solo a sfavore, ma proprio non esistono minimamente; e il fatto di restare a vivere nelle enclavi è una forma di resistenza civile a una situazione di fascismo e razzismo legittimati, in quanto tutto parte da una motivazione fondata sulla base etnica.
Finora la Kfor non ha permesso di distruggere definitivamente le ultime comunità serbe rimaste; ha impedito gli attacchi finali ai due monasteri di Pec e Decani, difendendoli più volte con le armi. Tuttavia, essa resta una forza straniera di occupazione e il «garante» de facto del processo di pulizia etnica perpetrata dal marzo ’99 ad oggi dalle bande criminali dell’Uck, per spianare la strada verso l’indipendenza.

Le risoluzioni del 99

In una situazione internazionale, dove i padroni del mondo stabiliscono, in base ai propri interessi, non solo ciò che è bene e ciò che è male, ma anche quali popoli devono vivere e quali devono morire, è terribilmente complesso trovare, oggi, una soluzione realistica e praticabile.
La popolazione serbo kosovara e non albanese chiede il ritorno dell’esercito e della polizia serbi. Ma è evidente che la Serbia di oggi, in ginocchio economicamente e socialmente, genuflessa ai dictat della Nato, non abbia la forza né la volontà di imporre tale ritorno. Il governo non va al di là di qualche dichiarazione di circostanza a uso elettorale e per mantenere la pace sociale; mentre le forze progressiste e patriottiche sono troppo deboli per farsi vettori di un progetto così grande.
L’obiettivo su cui dare battaglia politica può essere solo l’applicazione della Risoluzione 1244 dell’Onu del 1999, che sancisce la sovranità federale della Serbia Montenegro sulla regione, la presenza della polizia e dell’esercito serbo a garanzia e protezione della legalità costituzionale di tutte le etnie e il diritto al ritorno delle centinaia di migliaia di profughi di tutte le minoranze costrette a fuggire e profughe.
Oggettivamente questa è l’unica possibilità, in alternativa al piano di «cantonizzazione», opzione ormai apertamente sostenuta anche all’interno della «comunità internazionale», come definitivo seppellimento di ipotesi di sovranità e diritti nazionali: obiettivi validi ormai non solo per la Serbia e il Kosovo, ma per qualsiasi popolo o paese «renitente» o «resistente» all’ordine mondiale targato Usa.
Per quanto l’applicazione delle Risoluzioni Onu, data la situazione attuale, possa sembrare irreale, il problema Kosovo non riguarda solo la Serbia, ma deve richiamare la responsabilità di quella Comunità internazionale che lo ha causato. Le forze dei paesi occidentali, che si dicono impegnate nel difendere gli interessi dei popoli, dovrebbero almeno sostenere questa battaglia, come risarcimento morale e politico per non essere state capaci di impedire la guerra di aggressione e distruzione della Jugoslavia.

Geostrategia occidentale

Odio e terrore sono stati pianificati e programmati come parte fondante del progetto per la pulizia etnica del Kosovo, in vista della costruzione della Grande Albania, da parte delle forze terroriste e secessioniste anti-jugoslave dell’Uck. Ma le loro mire sono diventate funzionali ai piani geostrategici dell’Occidente e dell’imperialismo della Nato, nella sua marcia verso la Russia.
Molto semplicemente e banalmente, non poteva restare una Serbia non allineata e non asservita, nelle retrovie di una Europa orientale, ormai tutta occupata ed egemonizzata dalla Nato e dal Fondo monetario, fino ai confini russi, (escluse Bielorussia e Moldavia). Ciò spiega la presenza della base Usa di Bondsteel, la più grande dai tempi del Vietnam, su terreni confiscati con metodi brutali e per 99 anni.
Cosa ci fanno decine di migliaia di marines? Forse per timore di qualche migliaio di vecchi, donne e bambini delle enclavi, o per assistere «spiritualmente» gli albanesi kosovari che, tra le altre cose, si dichiarano musulmani e hanno costruito una moschea chiamata… Bin Laden? E Camp Goldsmith, l’altra base che stanno costruendo, è forse anch’essa per salvaguardare i diritti, democrazia, libertà?
È evidente a tutti che sono in gioco questioni strategiche, corridoi energetici, risorse, «investimenti», privatizzazioni selvagge e illegali, pezzi di industrie e miniere locali. Altro che genocidi, fosse comuni, diritti, democrazia, libertà.
Come ha scritto F. Battistini sul Corriere della Sera il 28-11-04: «Cinque anni dopo, sono ancora introvabili le fosse comuni denunciate all’epoca. Dal ’99 a oggi, l’Unione Europea ha già speso 2 miliardi e 877 milioni di euro, il più grande investimento mai fatto all’estero, senza contare il costo dei 18 mila soldati della missione Kfor-Nato, senza alcun risultato».
Queste non sono analisi, supposizioni o interpretazioni, ma realtà fatta anche di cifre, dati, atti e fatti documentati e scolpiti nella storia.
Per quei popoli, però, tale storia ha un prezzo di miseria, devastazione umana e sociale, umiliazioni e vessazioni che si protrarranno per generazioni, con una eredità di odio e violenze che non potranno essere placate con buoni propositi, scuse formali o intendimenti compassionevoli. Occorrerà che la «storia» renda giustizia per il popolo serbo e jugoslavo: anche se questo richiederanno altri prezzi da pagare.

Sotto il pugno di Dio

Stando così le cose, non so se esiste un avvenire per i serbi e le altre minoranze perseguitate nel Kosovo. È probabile che quelle decine di migliaia di bambini, donne, giovani che vivono ancora nelle poche enclavi rimaste, dovranno, nella stragrande maggioranza, lasciare le loro case, la terra e la stessa vita. Molti hanno dichiarato che resteranno per resistere e morire, perché è giusto così secondo loro. Rimane una sola alternativa: restare per morire nella propria terra, o abbandonare tutto e vivere da profughi.
A togliere ogni illusione si era aggiunta la nomina a primo ministro del governo di Pristina di Ramush Haradinaj, ex comandante dell’Uck, per il quale il Tribunale internazionale dell’Aja aveva pronto un mandato per crimini di guerra contro la popolazione serba. (L’8 marzo scorso il premier si è dimesso da primo minitro e attualmente è detenuto nelle carceri del Tribunale penale internazionale dell’Aja, ndr).
È un paradosso: il politico che doveva garantire la sicurezza e la vita dei serbi nel Kosovo è tra le figure di spicco dei crimini e della pulizia etnica perpetrati in quelle terre. Egli era comandante dell’unità denominata Cipat, operante nella zona di Decani: sotto il suo comando gli squadroni della morte hanno compiuto centinaia di crimini efferati.
Per l’esattezza, Haradinaj è accusato ufficialmente di aver assassinato direttamente 67 serbi e di avee ordinato l’uccisione di altri 267.
Tra i kosovari è noto anche come «pugno di dio» sia per le capacità pugilistiche che per le sue pratiche intimidatorie di spogliare e pestare a sangue serbi e nemici, attaccarli a dei pali e trascinarli per le strade soprattutto di Pristina.
Nel 2000 ha avuto un conflitto a fuoco con le truppe russe della Kfor, che gli impedirono di assaltare e bruciare le case di un enclave serbo. Dimessa poi l’uniforme, si presentava con cravatte e vestiti firmati dai migliori stilisti occidentali.
Capo dell’Alleanza per il Futuro del Kosovo, da lui fondata nel ’99, alle elezioni di ottobre 2004 ha preso l’8% dei voti, ma è divenuto primo ministro coalizzandosi con la Lega democratica del Kosovo, partito di I. Rugova, beniamino di politici e mass media occidentali, paladino della non violenza e dei diritti umani.
Una bella alleanza: un presunto gandhiano con un criminale assassino accertato, arrivato al potere, tra l’altro, dopo una faida sanguinosa tra i due partiti, con la morte di oltre 70 albanesi appartenenti ai due clan. Poi, grazie probabilmente all’interesse reciproco della spartizione del potere e suoi derivati, è scoppiata la pace e l’unità.
D’altronde l’anno scorso (31-7-04), in un’intervista al giornale tedesco Der Spiegel, l’ex premier kosovaro albanese ed ex compare di Rugova, B. Bukoshi, ha denunciato che il governo kosovaro si basa su strutture e pratiche mafiose ed è totalmente inquinato dalla criminalità. E ha portato una sfilza di dati: ministri che assumono 200 persone della propria famiglia in uffici pubblici; bandi e concorsi senza esami, ma con liste già precostituite di coloro che saranno assunti; riciclaggio di denaro sporco attraverso privatizzazioni ed espropriazioni di beni statali e privati serbi…
Questo è il Kosovo oggi, secondo i dati inteazionali.

Enrico Vigna




DOSSIER KOSSOVOLa sfida continua

Incontro con padre Teodosio

La presenza di preti e suore a Pec e Decani, culle della civiltà serba e slava, trascende il significato religioso: è una lezione per tutti i popoli che vogliono resistere all’ingiustizia, all’odio, alla barbarie. Ma fino a quando durerà?

Un ricordo speciale meritano gli incontri avuti nell’antico patriarcato ortodosso di Pec e con padre Teodosio, vescovo ausiliare del Kosovo, nel monastero di Decani.
In questi due luoghi la sensazione di spiritualità è di una intensità che ammutolisce. Sono vere e proprie «culle» non solo della storia e cultura serba, ma due tesori e patrimoni dell’umanità. Sarebbe un crimine imperdonabile all’Occidente, se si permettesse la loro distruzione.
I 148 luoghi religiosi, tra chiese e monasteri ortodossi, attaccati o distrutti dal marzo 1999 a oggi, non lasciano molto spazio all’ottimismo.
Dalle conversazioni avute con le anziane suore incontrate a Pec e dalle parole del padre di Decani ho raccolto amarezza e pessimismo circa il futuro di quei luoghi. Tutti danno quasi per scontato l’arrivo di altri assalti e violenze nei prossimi mesi e la condanna alla distruzione di questi due antichi luoghi sacri.
Pec e Decani sono importanti non solo per i credenti, ma hanno pure un forte significato di identità di un intero popolo: quello serbo in particolare e quello slavo in generale. La presenza di queste figure rimaste in questi luoghi, accanto al proprio popolo, condividendone le sofferenze e il destino, si traduce, in tante persone ivi incontrate (anche laici e non praticanti) in un forte sentimento di identità nazionale e di resistenza patriottica all’oppressione e ingiustizia.


Non è facile per noi occidentali, ormai così lontani da valori e sensazioni interiori, comprendere quanto sia importante la cultura nella vita e nel tessuto sociale del popolo slavo. Preti e monaci restano accanto al proprio popolo non solo per sostenee la fede religiosa; il loro ruolo ha un significato molto più vasto per la popolazione che vive nel contesto attuale del Kosovo.
«Lei ha detto che è venuto qui perché la ritiene un’azione per la giustizia e la verità – mi spiega padre Teodosio -. Ebbene, noi siamo qui, nelle nostre dimore, nella nostra terra, con il compito di resistere contro la sopraffazione, la violenza, l’odio, l’ingiustizia. Per impedire che quando toeranno, e presto toeranno, possano distruggere tutta la magnificenza e la storia millenaria che lei stesso ha visto e ha sentito nella visita al monastero.
Nella loro opera di distruzione, essi non lasceranno solo pietre e macerie, ma dovranno anche lasciare nella terra le nostre vite. Essa resterà seminata di sangue libero e giusto. Solo così non riuscirà loro di estirpare le radici della storia e dell’identità del nostro popolo serbo, che in queste terre ha la propria genesi, da oltre 800 anni, e che tanto ha dato e pagato in sofferenze per la libertà di tutte le popolazioni.
Solo in questo modo, un giorno il nostro popolo potrà ritornare e riprendere il suo posto nei propri focolari, nelle proprie case e nella propria terra. Se noi non resistiamo e scappiamo di fronte all’ingiustizia e alla violenza, non ci potrà più essere futuro per un intero popolo, perché nella cenere delle distruzioni, non ci sarebbero più neanche le nostre radici, la nostra identità, la nostra storia.
Si vive una volta sola. È vero, qui noi siamo dei prigionieri, ma restiamo uomini liberi, perché siamo nel giusto e quindi liberi dentro l’anima, come penso sia lei, che è venuto sino a qui per testimoniare attraverso la solidarietà, anche un atto di giustizia e verità, sfidando la violenza, la sopraffazione, l’oppressione.
Adesso siamo fratelli; le nostre strade sono comuni. Come ha potuto vedere, siamo soli, isolati; eppure da oggi siamo già meno soli di ieri, perché lei è venuto ed è qui con noi, circondato e minacciato insieme a noi. Grazie di essere venuto.
Vada in pace e serenità, questa gente non la dimenticherà mai più, e se può, torni presto, prima che sia troppo tardi, per poterci ancora vedere. Saremo qui fino all’ultimo per testimoniare la giustizia, la verità, la dignità, la libertà di esistere per ogni essere umano… e per la pace.
Arrivederci, perché so che toerà».


Il mattino della ripartenza, tra saluti, abbracci forti, stretti, caldi di una umanità vera, sincera… provo ancora dei brividi sulla pelle e dentro l’anima. Altrettanto commovente è l’immagine della gente che, nell’ora in cui si forma il convoglio settimanale, si mette sul bordo della strada e, senza rumori o clamori, aspetta in silenzio che il convoglio si muova: allora alza semplicemente la mano per salutare, non qualcuno in particolare, ma semplicemente chi parte, chi esce, chi va via.
In quei volti e quegli occhi di donne, uomini, ragazzi non ci sono nemmeno lacrime, c’è come un vuoto: il vuoto colmo di tutta l’ingiustizia subita, le menzogne e le falsità sentite, le difficoltà, il senso di solitudine, la stanchezza di vivere.
Chi parte prova la sensazione di lasciare qualcuno dietro di sé. Anzi, chi se ne va si sente peggio di chi resta, perché è come lasciare indietro amici, compagni, fratelli prigionieri, con radici e condivisioni comuni, frammenti di vita vissuti pienamente nei suoi aspetti più intensi, duri e profondi.
Ho sentito, quel mattino, di lasciare «lì dentro», in quella prigione a cielo aperto, una parte di me… pensando già a quando ritornare.


«Non è importante cosa o quanto lei ha portato. Per noi la cosa più bella e importante è che lei sia venuto, e che siamo qui, insieme» ho sentito ripetere in vari incontri.
Non sono righe intrise di retorica o tragicità. Le scrivo con fredda lucidità e massimo realismo, benché vengano dal profondo del mio essere. Ho ancora negli occhi e nel cuore i loro visi, parole, sguardi, dolore, il loro annichilimento e stanchezza di vita, ma anche l’instancabile ricerca della speranza, di un futuro vivibile, la loro grande dignità.
Queste esperienze restano scolpite nella mia coscienza e mi danno forza per restare al loro fianco e non lasciarli soli nella loro battaglia per la verità e giustizia calpestate.
Questa relazione di viaggio è stata faticosa, non tanto per le difficoltà materiali, ma per la fatica dell’anima, che in questi anni è stata messa sempre più a dura prova dalle realtà che incontro, conosco, condivido e dalle immense ombre di tristezza e stanchezza. Ombre che, come nebbia avvolgente, assediano pensieri, emozioni, speranze, fino a cambiare le sensazioni quotidiane. Ma la coscienza della lotta per la giustizia e la verità, è sempre più forte e lucida.
I versi del poeta partigiano crornato Ivan Goran Kovacic (1913-1943) sono più eloquenti delle mie parole:

«Di colpo il vento
mi portò dal villaggio
l’odore dell’incendio
e in quell’odore rivissi ogni ricordo:
le vendemmie e le nozze e le danze, le veglie, i funerali, i lamenti;
ciò che la vita semina
e la morte raccoglie.
Ma dove sono
le brevi giornie d’un tempo:
il riverbero dei vetri,
il nido della rondine,
lo stridere di una chiave
dentro la serratura,
un raggio di sole
che indora la porta di casa».

Enrico Vigna




DOSSIER ANZIANI Introduzione – I limiti della natura (e della società)

«È difficile – fa dire ad Adriano la scrittrice Marguerite Yourcenar (1) – rimanere imperatore in presenza di un medico; difficile anche conservare la propria essenza umana: l’occhio del medico non vede in me che un aggregato di umori, povero amalgama di linfa e di sangue, e per la prima volta, stamane, m’è venuto in mente che il mio corpo, compagno fedele, amico sicuro e a me noto più dell’anima, è solo un mostro subdolo che finirà per divorare il padrone. Basta… Il mio corpo mi è caro; mi ha servito bene, e in tutti i modi, e non starò a lesinargli le cure necessarie. (…) Avrò in sorte di essere il più curato dei malati. Ma nessuno può oltrepassare i limiti prescritti dalla natura».
Già, i limiti prescritti dalla natura. Ma quali sono questi limiti, oggi? Si sono spostati molto in avanti per merito della scienza e del progresso tecnico-scientifico, che hanno ridotto la mortalità infantile (dal 200 al 10 per mille rispetto al 1900) e le malattie infettive; hanno trovato cure efficaci per molte patologie; hanno migliorato le condizioni igieniche e sanitarie.

Nel dossier sui giovani (MC, gennaio 2005) avevamo sottolineato la differenza tra i ragazzi del Nord e quelli del Sud del mondo. Anche per gli anziani vale la stessa osservazione. Per dirla in termini più appropriati: si parla di una transizione demografica caratterizzata da alti tassi di natalità e di mortalità a bassi tassi dell’una e dell’altra. Questo passaggio è però diverso o molto diverso a seconda del paese considerato.
In particolare, il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione riguarda i paesi (cosiddetti) sviluppati. Nella maggioranza dei paesi del Sud anziani non si diventa semplicemente perché si muore prima. È sufficiente leggere le statistiche sull’aspettativa di vita, per concludere che la durata della vita dipende molto dalla ricchezza (materiale) del paese dove si vive. Il Giappone è il paese con l’attesa di vita maggiore: 85,23 anni per le donne e 78,32 per gli uomini. Un’età che addirittura si dimezza in molti paesi africani: in Sierra Leone, ad esempio, arriva a 34 anni.
Non è di poco conto anche la differenza in anni (circa 7) tra maschi e femmine rispetto all’attesa di vita alla nascita. Tuttavia, anche qui Nord e Sud del mondo sono divisi. In molti paesi (in Africa, ma anche in India, Bangladesh e in altri) le donne vivono meno degli uomini perché le morti da parto sono ancora molto diffuse. D’altra parte, sulle statistiche mondiali influiscono anche altri fattori (come le guerre, la diffusione dell’Hiv, eccetera). Insomma, oltrepassare i limiti prescritti dalla natura spesso si può, ma non ovunque. E, dove si può, possono subentrare altri «limiti», teoricamente meno problematici perché imposti dalla società, ma non per questo meno importanti dato che influiscono enormemente sulla «qualità» della vecchiaia (2).

Nelle società occidentali si sta assistendo ad un progressivo smantellamento dello «stato sociale», quello che anche in Italia (forse per confondere le idee) viene definito «welfare». In quest’ambito, rientrano le pensioni e l’assistenza medica pubblica.
Lo stato (questo stato) vuole dare sempre meno risorse allo stato sociale. E cerca di giustificare ciò con una serie di ragionamenti. Primo: le spese pubbliche debbono ridursi per consentire una riduzione delle tasse e, di conseguenza, una maggiore disponibilità di reddito personale. Secondo: è dovere dello stato responsabilizzare gli individui, che debbono essere incentivati a stipulare assicurazioni personali (cioè private) sia per garantirsi una pensione per la vecchiaia sia per un’assistenza sanitaria (3). Altra parola molto gettonata in quest’epoca di neoliberismo e pensiero unico è quella di «sussidiarietà»: l’obiettivo è di ridurre quanto più possibile l’intervento dello stato, per esaltare l’individuo e le sue capacità. Detta così sembrerebbe una filosofia ragionevole, ma in realtà essa nasconde la liberazione degli istinti egoistici, con il risultato di aumentare le disparità e l’emarginazione di larghe fasce sociali. E lo stato da attore diventa comparsa, in scena soltanto per fare beneficenza.
Martellante è poi la propaganda contro il sistema pensionistico: «insostenibile», ci ripetono fino all’ossessione (più che sospetta). Sulle pensioni si arrovellano i governi di tutto il mondo, ma soprattutto di quello occidentale (cioè dove le pensioni esistono effettivamente). Nessuno nega che, cambiando la struttura demografica della società (più anziani, meno giovani), non cambi anche il rapporto pensioni/contributi. Tuttavia, sembra che, attraverso la revisione del sistema pensionistico, politici ed economisti perseguano anche altri scopi, soprattutto in Italia, dove il sistema è già stato sostanzialmente riformato negli anni Novanta (4).
Perentoria la definizione che dà il settimanale The Economist (5): «Le pensioni statali furono istituite quando la vecchiaia coincideva con la povertà per la maggior parte delle persone, cui esse offrivano soluzioni patealistiche e collettive». Il giornale inglese, i politici e gli economisti dovrebbero chiedere un parere spassionato ai milioni di anziani italiani che hanno una pensione inferiore a 500 euro al mese (tabella di pagina 24).
Altri ricevono di più, un po’ di più… «Guardi – ci ha detto una signora, mostrandoci il cedolino della propria pensione -, dopo 35 anni di lavoro mi danno 567,19 euro. Capite perché, alla mia età, sono costretta a lavorare ancora?». Certo che capiamo…
«Il welfare – si legge nell’ultimo rapporto di Sbilanciamoci (6) – è una conquista storica che ha permesso maggiore benessere, sicurezza, opportunità. È uno strumento che realizza i diritti sociali ed il principio di eguaglianza (…). Di fronte all’imposizione delle politiche neoliberiste, del dominio del mercato e dell’ideologia del privato e delle privatizzazioni, il welfare rappresenta un’alternativa di civiltà».

Né autunno, né primavera: perché abbiamo scelto un titolo così? Volevamo essere equidistanti sia rispetto alla mitizzazione della vecchiaia («è la più bella delle età dell’uomo») sia rispetto alla sua visione più triste («è la fine della vita»).
Lo scorso fine marzo, i due principali quotidiani italiani hanno parlato ampiamente di anziani, come presumibilmente faranno sempre di più in futuro, considerato l’invecchiamento della società. Nel primo caso, la Repubblica raccontava la vita in una cittadella per anziani costruita nei pressi di Orlando, in Florida, in puro stile statunitense. Nella «Disneyland degli eterni ragazzi – ha scritto Vittorio Zucconi (7) – non ci sono ambulatori, né cimiteri, è proibito ammalarsi e tanto meno morire, non ci sono anziani malati, degenti, assistenze sanitarie, tonfi e sibili di macchine per la respirazione o patologie visibili che possano inquinare il sogno».
Nel secondo caso, il Corriere della Sera raccontava che a Milano su 1.298.778 abitanti ci sono 214.908 persone oltre i 70 anni e 92.000 di queste vivono da sole. «Ogni anno – proseguiva l’articolo (8) – la città diventa più vecchia e i servizi offerti non stanno al passo delle necessità. Anche quest’inverno una decina di persone sono morte in solitudine, in alcuni casi sono passati giorni prima che qualcuno se ne accorgesse».
Già, la solitudine degli anziani. A dare credito alle pubblicità della televisione o delle riviste non esisterebbe. L’importante sono i prodotti da vendere a questa fascia della popolazione: dentiere inamovibili, assorbenti straordinari, creme taumaturgiche per le rughe, pillole miracolose per sprizzare energia e vitalità. Dicevamo: né autunno, né primavera. Intendendo che tra la Disneyland geriatrica della Florida e la solitudine di Milano, magari si può trovare un modus vivendi più consono alla dignità, se non proprio alla felicità, forse più difficile da raggiungere.
Pensioni, sanità, assistenza, solitudine sono questi, dunque, i limiti che determinano la «qualità» della vita della persona anziana nelle società occidentali. Società quasi a «crescita zero» (anche su questo punto occorrerebbe soffermarsi) per le quali, da almeno un decennio, sono fondamentali i flussi migratori. Affermazione quest’ultima che farà rabbrividire qualcuno, ma che, allo stato delle cose, è difficilmente negabile. Sono infatti gli immigrati che garantiscono (o garantiranno) il ricambio generazionale, l’allargamento della base contributiva e – ne parliamo anche in questo dossier (pagina 40) – l’assistenza domiciliare alla popolazione anziana.

Abbiamo iniziato con la scrittrice francese Marguerite Yourcenar, vogliamo finire ancora con i poeti, che da sempre hanno la capacità di sintetizzare in poche, lucidissime parole l’essenza della vita. Terenzio scrisse che «la vecchiaia è di per se stessa una malattia». Probabilmente era un’esagerazione già a quel tempo (secondo secolo avanti Cristo) e, a maggior ragione, lo è oggi. Forse perché, come scrisse Sofocle, «nessuno ama tanto la vita come l’uomo che sta invecchiando».
Sofocle penserebbe di aver ragione se potesse vedere quanti anziani oggi frequentano i corsi dell’«Università della terza età», una delle poche istituzioni pro-anziani della società modea. Ma, allo stesso tempo, penserebbe di avere torto se potesse vedere quanti anziani frequentano le mense dei poveri, quanti a metà mese non hanno più un euro per campare dignitosamente.

Note:
(1) Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano, Einaudi.
(2) Federazione nazionale pensionati Cisl, Anziani 2003-2004. Realtà ed attese, Edizioni Lavoro, Roma 2004.
(3) Ivan Cavicchi, La privatizzazione silenziosa della sanità, Datanews Editrice, Roma 2003.
(4) Sbilanciamoci, Cambiamo finanziaria 2004, Roma 2003.
(5) Numero del 16 febbraio 2002.
(6) Sbilanciamoci, Cambiamo finanziaria 2005, Roma 2004. MC ne ha parlato sul proprio numero di gennaio.
(7) Su la Repubblica del 27 marzo.
(8) Sul Corriere della sera del 26 marzo.

BOX 1
Speranza di vita alla nascita
(in anni – dati del 2002)

Paesi europei 78

in Africa:
Angola 39
Zimbabwe 37
Lesotho 35
Sierra Leone 34

in Asia:
Afghanistan 43
Cambogia 56

in America Latina:
Haiti 53

Box 2

ITALIA

Popolazione anziana (*)

italiani sopra i 65 anni 11.200.000 19,2%
di cui non auto-sufficienti 1.970.000

vita media per gli uomini 78 anni
vita media per le donne 82 anni

tasso di natalità 9,3 per mille abitanti
nel 2002; era
11,7 per mille abitanti
nel 1980

(*) rilevazione Istat, 2003

Pensioni (importi medi mensili) (*)

pensioni di 137,18 euro 1.847.940

pensioni di 399,66 euro 5.449.145

pensioni di 582,64 euro 3.300.295

(…) (scaglioni intermedi)

pensioni di 3.916,26 euro 45.434

N. totale di pensioni 14.412.240

(*) dati Inps al 1 gennaio 2003 (foiti da Fnp-Cisl)

Paolo Moiola




DOSSIER ANZIANI La difficile ricerca della felicità

Come il Prodotto interno lordo non può bastare a misurare la ricchezza di una società, così la speranza di vita non basta a misurae la salute. Fin dove benessere e felicità coincidono? Riflessioni a voce alta, senza risposte certe.

Gli ospedali erano pieni in quest’ultimo inverno. Erano pieni di anziani con polmoniti, insufficienze respiratorie e cardiache. Più degli altri anni.
Gli ospedali sono pieni di anziani, così come lo sono le vie della città, le piazze dei paesi, i bar dei borghi nelle campagne, le chiese; e quando non si vedono è perché sono chiusi nelle loro case, gli anziani, nei luoghi che li ospitano, nelle case di riposo, negli ospizi e lo sono di più al nord che al sud. Nella nostra società sempre più vecchia.
La storia ci ha portato ad invecchiare; quella storia che, seguendo vie tortuose, ha trasformato le culture, le ha mischiate fra loro, ne ha create di nuove anche e specialmente intorno al Mediterraneo. Eppure continuiamo a stupirci nel vedere barche piene di giovani attraversare le acque del nostro mare. Ci stupiamo a vedere file di pulmini pieni di giovani fare la spola fra l’Ucraina e le nostre terre. Ci allarmiamo a vedere le nostre strade invase da giovani venditori senegalesi di borse fabbricate da moltitudini di giovani cinesi. E ancora: giovani venditori di caldarroste cingalesi, giovani filippini con accendini e binocoli. Ci stupiamo nel vedere giovani peruviani raccogliersi nelle piazze nelle ore libere dai lavori domestici nelle case dei nostri vecchi.
«La parte più povera del Mediterraneo – anche questa è una contraddizione del nostro mare – avrà più giovani, e quella più ricca più vecchi».
Così scrive Predrag Matvejevic nel suo «Breviario Mediterraneo», una raccolta di pensieri che smuove la nostra anima e risveglia la nostra voglia di viaggiare e capire, anche solo e semplicemente il mare che ci circonda.
Non sono i nostri genitori ad invecchiare, non sono i nostri nonni. Siamo tutti noi, il nostro paese, la nostra Europa che invecchiamo, lamentandoci però dei giovani stranieri che arrivano a riempire quegli spazi che lasciamo vuoti.

Sono medico e forse vi dovrei parlare delle demenze vascolari, degli ictus cerebrali, delle neoplasie, delle insufficienze respiratorie, delle insufficienze renali, dei nostri vecchi che cadono e si fratturano. Forse dovrei darvi dei numeri, raccontarvi della prevenzione, delle cure, della riabilitazione. Magari potrei raccontare una storia, ma sarebbe una delle tante che ciascuno di noi vive o ha vissuto con i propri cari.
Invece di tutto questo, voglio proporre soltanto una riflessione.
Vi sono studi che indicano che, superato un certo livello di ricchezza, il benessere complessivo delle società, non aumenta ed anzi tende a diminuire.
Le conclusioni di World Values Survey – una ricerca sulla soddisfazione della propria esistenza, realizzata tra il 1990 e il 2000 in oltre 65 stati -, indicano che il denaro e la felicità hanno la tendenza a conciliarsi fino a un reddito annuo (a persona) di circa 13.000 dollari (a parità di potere d’acquisto del 1995). Oltre quel reddito le entrate aggiuntive indicano solo modesti aumenti della felicità.
Gli psicologi sono molto chiari non solo nel definire il range di ricchezza entro il quale ci si sente felici, ma anche nel descrivere che cosa effettivamente contribuisce alla soddisfazione nella vita. Gli studi suggeriscono che le persone felici tendono ad avere relazioni solide e appaganti, buona salute e un lavoro soddisfacente. Nelle frenetiche società industriali questi fattori sono sempre più causa di tensione, e la gente spesso usa il consumo come surrogato di fonti genuine di felicità (1).
Si riscopre così un filone antico della ricerca economica, quello che contesta l’efficacia del Prodotto interno lordo come misuratore del benessere sociale (perché, per esempio, non calcola i costi dell’inquinamento o della criminalità).
Daniel Kahneman dell’Università di Princeton, il primo professore di psicologia ad aver vinto un premio Nobel per l’economia (nel 2002), ha annunciato il National well-being account, un indice della felicità da inserire fra i parametri che misurano il grado di sviluppo di un paese, a fianco di reddito, indebitamento, disoccupazione.
Il governo britannico, informa il Financial Times, è peraltro già all’opera. Il Cabinet Office ha pubblicato un rapporto intitolato «Life Satisfaction» che conclude che la ricerca della gratificazione individuale è sicuramente così importante da giustificare un intervento diretto dello stato per favorirla. Non solo denaro, ma servizi per l’infanzia, attenzione per gli anziani, campagne per favorire la solidarietà e il riscatto dei diseredati.
L’idea di benessere come traguardo personale e politico è sempre più un luogo comune che compare ovunque: dalle riviste divulgative alle pubblicazioni ufficiali delle organizzazioni multinazionali, come «The Well-being of Nations» dell’Ocse (2001) e «Ecosystems and Human Well-being» del Millennium Ecosystem Assessment (2003). Anche la Camera dei comuni canadese ha usato quel termine all’interno del «Canada Well-being Measurement Act», approvato nel giugno 2003.
Le definizioni del concetto variano, ma tendono a concentrarsi attorno ad alcuni temi:
• le basi per la sopravvivenza, che comprendono cibo, alloggio e mezzi di sussistenza;
• la buona salute, sia personale che in termini di ambiente naturale sano;
• le buone relazioni sociali, che comprendono l’esperienza della coesione sociale e la rete sociale di sostegno;
• la sicurezza, intesa come sicurezza delle persone e delle proprietà;
• la libertà, che comprende la capacità di raggiungere il potenziale di sviluppo.
In buona sostanza, il termine «benessere» indica un’elevata qualità della vita, nella quale le attività giornaliere vengono svolte senza condizionamenti e con minor stress. Le società orientate al benessere danno più importanza all’interazione con la famiglia, gli amici, la natura e sono più attente ad appagare la creatività che ad accumulare beni. Esse enfatizzano lo stile di vita in armonia con la salute: la propria, quella degli altri e quella del mondo naturale; hanno una visione del vivere molto più profonda rispetto a buona parte delle persone.

La riflessione che propongo, senza dae una risposta, è allora questa.
Così come la ricchezza (misurata con il Prodotto interno lordo, Pil), oltre ad un certo reddito non produce automaticamente più benessere inteso come «felicità», anche la salute (misurata come «speranza di vita» o «età media»), oltre ad un certo livello non produce più benessere.
La riflessione potrebbe essere ancora più profonda ed arrivare a proporre una ipotesi ancora più contraddittoria; oltre ad un certo livello di età media della popolazione, la sofferenza degli anziani ed il costo della società per alleviarla potrebbe portare ad una regressione del benessere ed addirittura della ricchezza.
Mio figlio, se Dio lo vorrà, avrà due genitori anziani a cui accudire; i miei genitori hanno 5 figli che possono intervenire. La vecchiaia mia e di mia moglie, sarà più felice di quella dei miei genitori?
Forse, nella nostra società, dovremmo sviluppare il concetto di sobrietà. Sobrietà nei consumi, sobrietà nella nostra domanda di salute, sobrietà nell’uso della natura, sobrietà nel turismo, ed invece concentrarci maggiormente nello sviluppo, questo sì illimitato, dei beni immateriali: la cultura, l’arte, il pensiero, i rapporti e le relazioni umane.
Forse, dopo il medioevo dell’utopia della crescita economica illimitata, dovremo sviluppare un rinascimento del benessere umano, senza però dimenticarci di chi ancora non ha potuto raggiungere il minimo per una sopravvivenza dignitosa. •

(1) Fonte: «State of the World 2004» (Consumi) del Worldwatch Institute, a cura di Gianfranco Bologna, Capitolo 8.



Guido Sattin, medico ospedaliero




DOSSIER ANZIANI Vivere da anziani costa molto

In Italia per invecchiare bene occorrono soldi e cioè pensioni adeguate alle numerose necessità. Che tra l’altro aumentano in misura considerevole per gli oltre 2 milioni di anziani non autosufficienti.

Parlare e scrivere di loro: degli over 65. Tanto se ne parla, tanto se ne discute. Tanti sono intorno a noi, tra noi, tantissimi sono prossimi a quell’età. In Italia, infatti, il 18% della popolazione ha più di 65 anni.
Il 90% delle donne e l’80% degli uomini nati in Italia raggiungono e superano la soglia anagrafica dei 65 anni.
Lo scorso marzo, a Roma, si è concluso il Forum sulla Terza Età, che ha visto relatori della classe politica, amministrativa, universitaria e medica. Un’indagine svolta su fronti diversi dalla quale è emersa l’importanza, nell’età geriatrica, della qualità della vita, dell’autonomia con buoni rapporti interpersonali, dell’essere attivi, socializzando in relazioni amicali presso strutture religiose, sedi para-universitarie, centri sportivi.
Sono stati intervistati in questo studio 1.500 anziani e ben il 51% ha sottolineato come la condizione di benessere sia l’attività. Fare le cose che piacciono, ma che spesso sono negate in una quotidianità fatta di doveri, responsabilità familiari, professionali e problematiche economiche.
Sì, perché fare le cose che piacciono implica la necessità di un’adeguata copertura pensionistica. Il 28% degli anziani intervistati considera peggiorata la propria condizione economica rispetto ai precedenti 5 anni. A mio avviso, in questo senso è assolutamente necessaria da parte della classe politica al governo una rivalutazione ed un adeguamento economico delle pensioni d’anzianità.
Vivere la maggior età costa molto. Costa l’autonomia domiciliare; costa l’alimentazione corretta; costano i molti farmaci in fascia «C»; costa la presenza di un supervisore che spesso, anche se si è autonomi, si assume per facilitare la propria quotidianità; costa la comunicazione (telefoni, cellulari, telesoccorsi); costano gli ausilii (apparecchi acustici, lenti visive, attrezzature ortopediche, protesi e cure odontorniatriche, modifiche strutturali nel proprio domicilio per evitare cadute a terra ed eliminare barriere architettoniche).
Insomma, invecchiare è un impegno anche economico.

Fondamentale è il ruolo informativo del medico di base, davanti ad un paziente ultrasessantacinquenne che si mostra molto presente, coraggioso e intraprendente nel percorso terapeutico.
Nella tipologia caratteriale che il medico di base affronta quotidianamente (parlo nelle vesti di medico di famiglia), l’over 65 è il paziente che ha più fiducia nel parere del proprio curante e che richiede spiegazioni semplici e precise sulla propria situazione clinica.
Di fronte all’anziano il comportamento sanitario deve essere quanto mai attento perché la Terza Età è spesso sinonimo di pluri-patologia. Patologie non spesso invalidanti, ma che si sovrappongono e quindi si potenziano, per le quali il curante deve fare una classificazione e impostare una terapia efficace e facile da gestire.
Più difficile è approcciarsi con le patologie invalidanti dell’anziano: difficile per il soggetto, per la famiglia, per il mondo sanitario. Occorre allora affrontare i rapporti interpersonali all’interno della famiglia che si vorrebbe presente e unita nell’obiettivo di cura dell’anziano; occorre dare all’anziano un luogo adatto, cornordinare i progetti assistenziali, infermieristici, medici, socio-sanitari.
Mi riferisco a quel 20% della popolazione anziana che è disabile: sono oltre 2 milioni le persone non autosufficienti nel nostro paese. La letteratura medica definisce anziano fragile il soggetto con più di 65 anni, che presenta un’aumentata vulnerabilità a eventi avversi con grave rischio e potenzialità di non auto-sufficienza.
Ora la medicina generale con le «unità valutative geriatriche» identifica l’anziano fragile attraverso tests clinici e neuro-psicologici, permettendo allo stesso soggetto di accedere ad una rete di servizi capaci di prendersene carico (servizi domiciliari e residenziali). Identificare la sua fragilità e risolverla, questo è l’obiettivo.
Penso, ad esempio, ad anziani soli e disalimentati con rischio di cadute e osternoporosi. Allora i servizi sociali programmeranno i pasti a domicilio, si programmerà una fisioterapia e ausilii a domicilio. Penso a pazienti vasculopatici con tono dell’umore depresso: bisogna monitorare i controlli vascolari ed approntare una terapia farmacologica.
In conclusione, si tratta di mettere in atto le opportune strategie di prevenzione, cura e programmazione sanitaria affinché sulla «Terza età» non pesi mai un atteggiamento fatalistico e passivo. •

Emilia Valerio, medico di base e geriatra




DOSSIER ANZIANI “Io, settantenne molto arrabbiata”

La pensione, le ricette, le medicine, i prezzi: lo sfogo di una pensionata come tante.

Io sono una pensionata con il «super minimo», dove però di super c’è soltanto il nome. Nella mia situazione ci sono tantissime signore vedove e, ogni volta che ci incontriamo, concludiamo che non possiamo più andare avanti così. Il nostro Presidente dice che ha abbassato le tasse, ma a chi? Ai pensionati medio-alti o agli industriali abbassando l’Irpef del 3-4%, per noi cittadini normali il reddito non è aumentato di certo, anzi è vero il contrario.
Vorrei parlare, per esempio, dei problemi della sanità, che dobbiamo quotidianamente affrontare. Per poterci curare noi anziani, affetti da osternoporosi, artrosi, ecc. dobbiamo spesso ricorrere a terapie alternative, per evitare di ingerire dei medicinali antinfiammatori che ci rovinerebbero lo stomaco. Possiamo farlo, ma a nostre spese per almeno il 50%.
Nelle Asl hanno tagliato diverse prestazioni terapeutiche e sono aumentati i costi del tichet sulle ricette mediche. Prima si pagavano 2.000 lire per la prescrizione di 2 farmaci, oggi si pagano 2 euro per la prescrizione di un solo farmaco. Per fare alcune terapie strumentali di fisioterapia: biodinamica, radioterapia, occorre spendere dai 100 ai 200 euro. E che dire dei farmaci salva-vita? Hanno tolto le pastiglie per la pressione, per la labirintite. Per farla breve: per curarci dobbiamo comprare le medicine al banco. I costi si aggirano sui 500-600 euro all’anno.
Ma il signor Presidente ci consola dicendoci di mettere da parte gli scontrini di cassa della farmacia perché abbiamo diritto alla fiscalizzazione detraibile del 19%. Ci consiglia, inoltre, di fare la dieta, così ci passano tutti i malanni. Noi anziani vogliamo rispondere al Presidente, che tagliando lo stato tutte le risorse per curarci, a noi rimangono pochi spiccioli per tirare avanti… fino a fine mese.
La nostra pensione non ce l’hanno aumentata in base al costo della vita, al passaggio dalla lira all’euro e all’indice Istat. Senza dimenticare, voglio sottolinearlo con forza, che a noi la pensione non ce la regala nessuno: per essa abbiamo lavorato e versato i contributi. •

Grazia Sergi




DOSSIER ANZIANI “Aggiungere vita agli anni, non anni alla vita”

Ci sono persone che sopravvivono con 420 euro mensili.
Ecco perché è impellente risolvere il problema delle «3 “A”»: assistenza, alimentazione, abitazione.

Siamo una società che invecchia, la presenza degli anziani nella comunità richiede condizioni particolari di organizzazione sociale, tenuto conto che la «vecchiaia» è un universo frammentato e diversificato: ci sono bisogni legati al reddito, alla salute, al sesso (le donne vivono più a lungo degli uomini, sono la maggioranza degli ospiti delle case di riposo) e, ovviamente, alle pregresse esperienze di vita. Sovente gli anziani sono considerati soggetto debole per l’invecchiamento psico-fisico che crea senso di smarrimento ed inadeguatezza di fronte alle nuove tecnologie (computer, meccanizzazione di molti servizi) o al mondo giovanile che tende ad emarginare la terza età. Si arriva fino all’esclusione sociale con conseguente senso di inutilità, perdita di identità e progettualità per il futuro.
Come vivono gli anziani rispetto al reddito? Anche qui ci sono notevoli differenze: creano problemi le basse pensioni (si veda la tabella di pagina 24) con le quali non si riesce ad arrivare a fine mese, in particolar modo per chi deve provvedere anche alle spese per l’affitto. Ci sono sacche di povertà tra gli anziani, ad esempio i cosiddetti «incapienti», che avendo un reddito minimo (fino a 6.000 euro all’anno) non pagano Irpef, ma non hanno neppure la possibilità di adire ad alcune previdenze, come le deduzioni previste dalla legge.
L’aumento dei prezzi, a fronte di pensioni tendenzialmente stabili, ha creato notevoli difficoltà: come è noto la quarta settimana del mese vede una restrizione nei consumi, anche alimentari, nei supermercati come nella piccola distribuzione (conoscono bene il problema i banchi alimentari, legati alla Caritas che provvedono a molti bisogni di famiglie e anziani).
A fronte di questo quadro piuttosto nero di emarginazione sociale dell’anziano sta una «terza età» dove gli anziani sono una risorsa culturale ed esperienziale da valorizzare, partecipando attivamente alla vita sociale, ad associazioni culturali, di turismo, di tempo libero.
Per tutti gli anziani, ci sono un problema, una paura e una difficoltà prevalenti: il problema maggiore è la tutela della salute; la paura prevalente è la non autosufficienza, la difficoltà di ogni giorno è la solitudine.
In ogni regione d’Italia una forte percentuale della spesa pubblica va alla sanità e all’assistenza. I servizi domiciliari, nati perché l’anziano possa vivere al proprio domicilio anche durante la malattia sono del tutto insufficienti. Occorre lavorare per il ben-essere degli anziani, di ogni persona nella sua integrità fisica e spirituale con la sua partecipazione alla vita sociale e alle scelte politiche.

Di fronte a tutti questi problemi cosa fanno le Organizzazioni sindacali dei pensionati? Come Federazione dei pensionati della Cisl abbiamo, ormai da anni, sollevato il problema delle «3 A»: Assistenza, Alimentazione, Abitazione.
Sono le aree in cui si manifestano i maggiori disagi degli anziani, a cui si può porre rimedio con la ricerca di un paniere di spese adatto alle esigenze di vita dell’anziano; politiche abitative che tengano conto del reddito degli anziani. In materia di sanità, che il federalismo sta rendendo molto diversa da regione a regione, abbiamo chiesto al governo un fondo sociale certo, mentre, a livello regionale, abbiamo spinto per l’adozione dei Lea, cioè dei «livelli essenziali di assistenza». I pensionati della Cisl ,inoltre, hanno chiesto l’apertura di un tavolo per l’istituzione di un fondo per la non autosufficienza che consenta alle famiglie di provvedere ai bisogni economici degli anziani e non solo: handicap fisico e psichico rientrano in quest’area.
Le istituzioni pubbliche, nonostante le manifestazioni organizzate e le molteplici iniziative territoriali, non hanno dato risposte. In una finanziaria come quella del 2005 quale spazio hanno i problemi degli anziani?
Come sindacato dei pensionati dobbiamo lavorare per difendere la dignità dell’anziano, tutelarlo nella difesa del potere d’acquisto delle pensioni, nel garantire servizi sanitari ed assistenziali pubblici perché l’anziano si sente a pieno titolo protagonista della vita sociale e politica, ha vivissima coscienza di essere stato protagonista ed interprete della ricostruzione economica e morale dell’Italia del dopo-guerra. •

Marisa Carmazzi Romano