DOSSIER KOSSOVOLa sfida continua

Incontro con padre Teodosio

La presenza di preti e suore a Pec e Decani, culle della civiltà serba e slava, trascende il significato religioso: è una lezione per tutti i popoli che vogliono resistere all’ingiustizia, all’odio, alla barbarie. Ma fino a quando durerà?

Un ricordo speciale meritano gli incontri avuti nell’antico patriarcato ortodosso di Pec e con padre Teodosio, vescovo ausiliare del Kosovo, nel monastero di Decani.
In questi due luoghi la sensazione di spiritualità è di una intensità che ammutolisce. Sono vere e proprie «culle» non solo della storia e cultura serba, ma due tesori e patrimoni dell’umanità. Sarebbe un crimine imperdonabile all’Occidente, se si permettesse la loro distruzione.
I 148 luoghi religiosi, tra chiese e monasteri ortodossi, attaccati o distrutti dal marzo 1999 a oggi, non lasciano molto spazio all’ottimismo.
Dalle conversazioni avute con le anziane suore incontrate a Pec e dalle parole del padre di Decani ho raccolto amarezza e pessimismo circa il futuro di quei luoghi. Tutti danno quasi per scontato l’arrivo di altri assalti e violenze nei prossimi mesi e la condanna alla distruzione di questi due antichi luoghi sacri.
Pec e Decani sono importanti non solo per i credenti, ma hanno pure un forte significato di identità di un intero popolo: quello serbo in particolare e quello slavo in generale. La presenza di queste figure rimaste in questi luoghi, accanto al proprio popolo, condividendone le sofferenze e il destino, si traduce, in tante persone ivi incontrate (anche laici e non praticanti) in un forte sentimento di identità nazionale e di resistenza patriottica all’oppressione e ingiustizia.


Non è facile per noi occidentali, ormai così lontani da valori e sensazioni interiori, comprendere quanto sia importante la cultura nella vita e nel tessuto sociale del popolo slavo. Preti e monaci restano accanto al proprio popolo non solo per sostenee la fede religiosa; il loro ruolo ha un significato molto più vasto per la popolazione che vive nel contesto attuale del Kosovo.
«Lei ha detto che è venuto qui perché la ritiene un’azione per la giustizia e la verità – mi spiega padre Teodosio -. Ebbene, noi siamo qui, nelle nostre dimore, nella nostra terra, con il compito di resistere contro la sopraffazione, la violenza, l’odio, l’ingiustizia. Per impedire che quando toeranno, e presto toeranno, possano distruggere tutta la magnificenza e la storia millenaria che lei stesso ha visto e ha sentito nella visita al monastero.
Nella loro opera di distruzione, essi non lasceranno solo pietre e macerie, ma dovranno anche lasciare nella terra le nostre vite. Essa resterà seminata di sangue libero e giusto. Solo così non riuscirà loro di estirpare le radici della storia e dell’identità del nostro popolo serbo, che in queste terre ha la propria genesi, da oltre 800 anni, e che tanto ha dato e pagato in sofferenze per la libertà di tutte le popolazioni.
Solo in questo modo, un giorno il nostro popolo potrà ritornare e riprendere il suo posto nei propri focolari, nelle proprie case e nella propria terra. Se noi non resistiamo e scappiamo di fronte all’ingiustizia e alla violenza, non ci potrà più essere futuro per un intero popolo, perché nella cenere delle distruzioni, non ci sarebbero più neanche le nostre radici, la nostra identità, la nostra storia.
Si vive una volta sola. È vero, qui noi siamo dei prigionieri, ma restiamo uomini liberi, perché siamo nel giusto e quindi liberi dentro l’anima, come penso sia lei, che è venuto sino a qui per testimoniare attraverso la solidarietà, anche un atto di giustizia e verità, sfidando la violenza, la sopraffazione, l’oppressione.
Adesso siamo fratelli; le nostre strade sono comuni. Come ha potuto vedere, siamo soli, isolati; eppure da oggi siamo già meno soli di ieri, perché lei è venuto ed è qui con noi, circondato e minacciato insieme a noi. Grazie di essere venuto.
Vada in pace e serenità, questa gente non la dimenticherà mai più, e se può, torni presto, prima che sia troppo tardi, per poterci ancora vedere. Saremo qui fino all’ultimo per testimoniare la giustizia, la verità, la dignità, la libertà di esistere per ogni essere umano… e per la pace.
Arrivederci, perché so che toerà».


Il mattino della ripartenza, tra saluti, abbracci forti, stretti, caldi di una umanità vera, sincera… provo ancora dei brividi sulla pelle e dentro l’anima. Altrettanto commovente è l’immagine della gente che, nell’ora in cui si forma il convoglio settimanale, si mette sul bordo della strada e, senza rumori o clamori, aspetta in silenzio che il convoglio si muova: allora alza semplicemente la mano per salutare, non qualcuno in particolare, ma semplicemente chi parte, chi esce, chi va via.
In quei volti e quegli occhi di donne, uomini, ragazzi non ci sono nemmeno lacrime, c’è come un vuoto: il vuoto colmo di tutta l’ingiustizia subita, le menzogne e le falsità sentite, le difficoltà, il senso di solitudine, la stanchezza di vivere.
Chi parte prova la sensazione di lasciare qualcuno dietro di sé. Anzi, chi se ne va si sente peggio di chi resta, perché è come lasciare indietro amici, compagni, fratelli prigionieri, con radici e condivisioni comuni, frammenti di vita vissuti pienamente nei suoi aspetti più intensi, duri e profondi.
Ho sentito, quel mattino, di lasciare «lì dentro», in quella prigione a cielo aperto, una parte di me… pensando già a quando ritornare.


«Non è importante cosa o quanto lei ha portato. Per noi la cosa più bella e importante è che lei sia venuto, e che siamo qui, insieme» ho sentito ripetere in vari incontri.
Non sono righe intrise di retorica o tragicità. Le scrivo con fredda lucidità e massimo realismo, benché vengano dal profondo del mio essere. Ho ancora negli occhi e nel cuore i loro visi, parole, sguardi, dolore, il loro annichilimento e stanchezza di vita, ma anche l’instancabile ricerca della speranza, di un futuro vivibile, la loro grande dignità.
Queste esperienze restano scolpite nella mia coscienza e mi danno forza per restare al loro fianco e non lasciarli soli nella loro battaglia per la verità e giustizia calpestate.
Questa relazione di viaggio è stata faticosa, non tanto per le difficoltà materiali, ma per la fatica dell’anima, che in questi anni è stata messa sempre più a dura prova dalle realtà che incontro, conosco, condivido e dalle immense ombre di tristezza e stanchezza. Ombre che, come nebbia avvolgente, assediano pensieri, emozioni, speranze, fino a cambiare le sensazioni quotidiane. Ma la coscienza della lotta per la giustizia e la verità, è sempre più forte e lucida.
I versi del poeta partigiano crornato Ivan Goran Kovacic (1913-1943) sono più eloquenti delle mie parole:

«Di colpo il vento
mi portò dal villaggio
l’odore dell’incendio
e in quell’odore rivissi ogni ricordo:
le vendemmie e le nozze e le danze, le veglie, i funerali, i lamenti;
ciò che la vita semina
e la morte raccoglie.
Ma dove sono
le brevi giornie d’un tempo:
il riverbero dei vetri,
il nido della rondine,
lo stridere di una chiave
dentro la serratura,
un raggio di sole
che indora la porta di casa».

Enrico Vigna




DOSSIER ANZIANI Introduzione – I limiti della natura (e della società)

«È difficile – fa dire ad Adriano la scrittrice Marguerite Yourcenar (1) – rimanere imperatore in presenza di un medico; difficile anche conservare la propria essenza umana: l’occhio del medico non vede in me che un aggregato di umori, povero amalgama di linfa e di sangue, e per la prima volta, stamane, m’è venuto in mente che il mio corpo, compagno fedele, amico sicuro e a me noto più dell’anima, è solo un mostro subdolo che finirà per divorare il padrone. Basta… Il mio corpo mi è caro; mi ha servito bene, e in tutti i modi, e non starò a lesinargli le cure necessarie. (…) Avrò in sorte di essere il più curato dei malati. Ma nessuno può oltrepassare i limiti prescritti dalla natura».
Già, i limiti prescritti dalla natura. Ma quali sono questi limiti, oggi? Si sono spostati molto in avanti per merito della scienza e del progresso tecnico-scientifico, che hanno ridotto la mortalità infantile (dal 200 al 10 per mille rispetto al 1900) e le malattie infettive; hanno trovato cure efficaci per molte patologie; hanno migliorato le condizioni igieniche e sanitarie.

Nel dossier sui giovani (MC, gennaio 2005) avevamo sottolineato la differenza tra i ragazzi del Nord e quelli del Sud del mondo. Anche per gli anziani vale la stessa osservazione. Per dirla in termini più appropriati: si parla di una transizione demografica caratterizzata da alti tassi di natalità e di mortalità a bassi tassi dell’una e dell’altra. Questo passaggio è però diverso o molto diverso a seconda del paese considerato.
In particolare, il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione riguarda i paesi (cosiddetti) sviluppati. Nella maggioranza dei paesi del Sud anziani non si diventa semplicemente perché si muore prima. È sufficiente leggere le statistiche sull’aspettativa di vita, per concludere che la durata della vita dipende molto dalla ricchezza (materiale) del paese dove si vive. Il Giappone è il paese con l’attesa di vita maggiore: 85,23 anni per le donne e 78,32 per gli uomini. Un’età che addirittura si dimezza in molti paesi africani: in Sierra Leone, ad esempio, arriva a 34 anni.
Non è di poco conto anche la differenza in anni (circa 7) tra maschi e femmine rispetto all’attesa di vita alla nascita. Tuttavia, anche qui Nord e Sud del mondo sono divisi. In molti paesi (in Africa, ma anche in India, Bangladesh e in altri) le donne vivono meno degli uomini perché le morti da parto sono ancora molto diffuse. D’altra parte, sulle statistiche mondiali influiscono anche altri fattori (come le guerre, la diffusione dell’Hiv, eccetera). Insomma, oltrepassare i limiti prescritti dalla natura spesso si può, ma non ovunque. E, dove si può, possono subentrare altri «limiti», teoricamente meno problematici perché imposti dalla società, ma non per questo meno importanti dato che influiscono enormemente sulla «qualità» della vecchiaia (2).

Nelle società occidentali si sta assistendo ad un progressivo smantellamento dello «stato sociale», quello che anche in Italia (forse per confondere le idee) viene definito «welfare». In quest’ambito, rientrano le pensioni e l’assistenza medica pubblica.
Lo stato (questo stato) vuole dare sempre meno risorse allo stato sociale. E cerca di giustificare ciò con una serie di ragionamenti. Primo: le spese pubbliche debbono ridursi per consentire una riduzione delle tasse e, di conseguenza, una maggiore disponibilità di reddito personale. Secondo: è dovere dello stato responsabilizzare gli individui, che debbono essere incentivati a stipulare assicurazioni personali (cioè private) sia per garantirsi una pensione per la vecchiaia sia per un’assistenza sanitaria (3). Altra parola molto gettonata in quest’epoca di neoliberismo e pensiero unico è quella di «sussidiarietà»: l’obiettivo è di ridurre quanto più possibile l’intervento dello stato, per esaltare l’individuo e le sue capacità. Detta così sembrerebbe una filosofia ragionevole, ma in realtà essa nasconde la liberazione degli istinti egoistici, con il risultato di aumentare le disparità e l’emarginazione di larghe fasce sociali. E lo stato da attore diventa comparsa, in scena soltanto per fare beneficenza.
Martellante è poi la propaganda contro il sistema pensionistico: «insostenibile», ci ripetono fino all’ossessione (più che sospetta). Sulle pensioni si arrovellano i governi di tutto il mondo, ma soprattutto di quello occidentale (cioè dove le pensioni esistono effettivamente). Nessuno nega che, cambiando la struttura demografica della società (più anziani, meno giovani), non cambi anche il rapporto pensioni/contributi. Tuttavia, sembra che, attraverso la revisione del sistema pensionistico, politici ed economisti perseguano anche altri scopi, soprattutto in Italia, dove il sistema è già stato sostanzialmente riformato negli anni Novanta (4).
Perentoria la definizione che dà il settimanale The Economist (5): «Le pensioni statali furono istituite quando la vecchiaia coincideva con la povertà per la maggior parte delle persone, cui esse offrivano soluzioni patealistiche e collettive». Il giornale inglese, i politici e gli economisti dovrebbero chiedere un parere spassionato ai milioni di anziani italiani che hanno una pensione inferiore a 500 euro al mese (tabella di pagina 24).
Altri ricevono di più, un po’ di più… «Guardi – ci ha detto una signora, mostrandoci il cedolino della propria pensione -, dopo 35 anni di lavoro mi danno 567,19 euro. Capite perché, alla mia età, sono costretta a lavorare ancora?». Certo che capiamo…
«Il welfare – si legge nell’ultimo rapporto di Sbilanciamoci (6) – è una conquista storica che ha permesso maggiore benessere, sicurezza, opportunità. È uno strumento che realizza i diritti sociali ed il principio di eguaglianza (…). Di fronte all’imposizione delle politiche neoliberiste, del dominio del mercato e dell’ideologia del privato e delle privatizzazioni, il welfare rappresenta un’alternativa di civiltà».

Né autunno, né primavera: perché abbiamo scelto un titolo così? Volevamo essere equidistanti sia rispetto alla mitizzazione della vecchiaia («è la più bella delle età dell’uomo») sia rispetto alla sua visione più triste («è la fine della vita»).
Lo scorso fine marzo, i due principali quotidiani italiani hanno parlato ampiamente di anziani, come presumibilmente faranno sempre di più in futuro, considerato l’invecchiamento della società. Nel primo caso, la Repubblica raccontava la vita in una cittadella per anziani costruita nei pressi di Orlando, in Florida, in puro stile statunitense. Nella «Disneyland degli eterni ragazzi – ha scritto Vittorio Zucconi (7) – non ci sono ambulatori, né cimiteri, è proibito ammalarsi e tanto meno morire, non ci sono anziani malati, degenti, assistenze sanitarie, tonfi e sibili di macchine per la respirazione o patologie visibili che possano inquinare il sogno».
Nel secondo caso, il Corriere della Sera raccontava che a Milano su 1.298.778 abitanti ci sono 214.908 persone oltre i 70 anni e 92.000 di queste vivono da sole. «Ogni anno – proseguiva l’articolo (8) – la città diventa più vecchia e i servizi offerti non stanno al passo delle necessità. Anche quest’inverno una decina di persone sono morte in solitudine, in alcuni casi sono passati giorni prima che qualcuno se ne accorgesse».
Già, la solitudine degli anziani. A dare credito alle pubblicità della televisione o delle riviste non esisterebbe. L’importante sono i prodotti da vendere a questa fascia della popolazione: dentiere inamovibili, assorbenti straordinari, creme taumaturgiche per le rughe, pillole miracolose per sprizzare energia e vitalità. Dicevamo: né autunno, né primavera. Intendendo che tra la Disneyland geriatrica della Florida e la solitudine di Milano, magari si può trovare un modus vivendi più consono alla dignità, se non proprio alla felicità, forse più difficile da raggiungere.
Pensioni, sanità, assistenza, solitudine sono questi, dunque, i limiti che determinano la «qualità» della vita della persona anziana nelle società occidentali. Società quasi a «crescita zero» (anche su questo punto occorrerebbe soffermarsi) per le quali, da almeno un decennio, sono fondamentali i flussi migratori. Affermazione quest’ultima che farà rabbrividire qualcuno, ma che, allo stato delle cose, è difficilmente negabile. Sono infatti gli immigrati che garantiscono (o garantiranno) il ricambio generazionale, l’allargamento della base contributiva e – ne parliamo anche in questo dossier (pagina 40) – l’assistenza domiciliare alla popolazione anziana.

Abbiamo iniziato con la scrittrice francese Marguerite Yourcenar, vogliamo finire ancora con i poeti, che da sempre hanno la capacità di sintetizzare in poche, lucidissime parole l’essenza della vita. Terenzio scrisse che «la vecchiaia è di per se stessa una malattia». Probabilmente era un’esagerazione già a quel tempo (secondo secolo avanti Cristo) e, a maggior ragione, lo è oggi. Forse perché, come scrisse Sofocle, «nessuno ama tanto la vita come l’uomo che sta invecchiando».
Sofocle penserebbe di aver ragione se potesse vedere quanti anziani oggi frequentano i corsi dell’«Università della terza età», una delle poche istituzioni pro-anziani della società modea. Ma, allo stesso tempo, penserebbe di avere torto se potesse vedere quanti anziani frequentano le mense dei poveri, quanti a metà mese non hanno più un euro per campare dignitosamente.

Note:
(1) Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano, Einaudi.
(2) Federazione nazionale pensionati Cisl, Anziani 2003-2004. Realtà ed attese, Edizioni Lavoro, Roma 2004.
(3) Ivan Cavicchi, La privatizzazione silenziosa della sanità, Datanews Editrice, Roma 2003.
(4) Sbilanciamoci, Cambiamo finanziaria 2004, Roma 2003.
(5) Numero del 16 febbraio 2002.
(6) Sbilanciamoci, Cambiamo finanziaria 2005, Roma 2004. MC ne ha parlato sul proprio numero di gennaio.
(7) Su la Repubblica del 27 marzo.
(8) Sul Corriere della sera del 26 marzo.

BOX 1
Speranza di vita alla nascita
(in anni – dati del 2002)

Paesi europei 78

in Africa:
Angola 39
Zimbabwe 37
Lesotho 35
Sierra Leone 34

in Asia:
Afghanistan 43
Cambogia 56

in America Latina:
Haiti 53

Box 2

ITALIA

Popolazione anziana (*)

italiani sopra i 65 anni 11.200.000 19,2%
di cui non auto-sufficienti 1.970.000

vita media per gli uomini 78 anni
vita media per le donne 82 anni

tasso di natalità 9,3 per mille abitanti
nel 2002; era
11,7 per mille abitanti
nel 1980

(*) rilevazione Istat, 2003

Pensioni (importi medi mensili) (*)

pensioni di 137,18 euro 1.847.940

pensioni di 399,66 euro 5.449.145

pensioni di 582,64 euro 3.300.295

(…) (scaglioni intermedi)

pensioni di 3.916,26 euro 45.434

N. totale di pensioni 14.412.240

(*) dati Inps al 1 gennaio 2003 (foiti da Fnp-Cisl)

Paolo Moiola




DOSSIER ANZIANI La difficile ricerca della felicità

Come il Prodotto interno lordo non può bastare a misurare la ricchezza di una società, così la speranza di vita non basta a misurae la salute. Fin dove benessere e felicità coincidono? Riflessioni a voce alta, senza risposte certe.

Gli ospedali erano pieni in quest’ultimo inverno. Erano pieni di anziani con polmoniti, insufficienze respiratorie e cardiache. Più degli altri anni.
Gli ospedali sono pieni di anziani, così come lo sono le vie della città, le piazze dei paesi, i bar dei borghi nelle campagne, le chiese; e quando non si vedono è perché sono chiusi nelle loro case, gli anziani, nei luoghi che li ospitano, nelle case di riposo, negli ospizi e lo sono di più al nord che al sud. Nella nostra società sempre più vecchia.
La storia ci ha portato ad invecchiare; quella storia che, seguendo vie tortuose, ha trasformato le culture, le ha mischiate fra loro, ne ha create di nuove anche e specialmente intorno al Mediterraneo. Eppure continuiamo a stupirci nel vedere barche piene di giovani attraversare le acque del nostro mare. Ci stupiamo a vedere file di pulmini pieni di giovani fare la spola fra l’Ucraina e le nostre terre. Ci allarmiamo a vedere le nostre strade invase da giovani venditori senegalesi di borse fabbricate da moltitudini di giovani cinesi. E ancora: giovani venditori di caldarroste cingalesi, giovani filippini con accendini e binocoli. Ci stupiamo nel vedere giovani peruviani raccogliersi nelle piazze nelle ore libere dai lavori domestici nelle case dei nostri vecchi.
«La parte più povera del Mediterraneo – anche questa è una contraddizione del nostro mare – avrà più giovani, e quella più ricca più vecchi».
Così scrive Predrag Matvejevic nel suo «Breviario Mediterraneo», una raccolta di pensieri che smuove la nostra anima e risveglia la nostra voglia di viaggiare e capire, anche solo e semplicemente il mare che ci circonda.
Non sono i nostri genitori ad invecchiare, non sono i nostri nonni. Siamo tutti noi, il nostro paese, la nostra Europa che invecchiamo, lamentandoci però dei giovani stranieri che arrivano a riempire quegli spazi che lasciamo vuoti.

Sono medico e forse vi dovrei parlare delle demenze vascolari, degli ictus cerebrali, delle neoplasie, delle insufficienze respiratorie, delle insufficienze renali, dei nostri vecchi che cadono e si fratturano. Forse dovrei darvi dei numeri, raccontarvi della prevenzione, delle cure, della riabilitazione. Magari potrei raccontare una storia, ma sarebbe una delle tante che ciascuno di noi vive o ha vissuto con i propri cari.
Invece di tutto questo, voglio proporre soltanto una riflessione.
Vi sono studi che indicano che, superato un certo livello di ricchezza, il benessere complessivo delle società, non aumenta ed anzi tende a diminuire.
Le conclusioni di World Values Survey – una ricerca sulla soddisfazione della propria esistenza, realizzata tra il 1990 e il 2000 in oltre 65 stati -, indicano che il denaro e la felicità hanno la tendenza a conciliarsi fino a un reddito annuo (a persona) di circa 13.000 dollari (a parità di potere d’acquisto del 1995). Oltre quel reddito le entrate aggiuntive indicano solo modesti aumenti della felicità.
Gli psicologi sono molto chiari non solo nel definire il range di ricchezza entro il quale ci si sente felici, ma anche nel descrivere che cosa effettivamente contribuisce alla soddisfazione nella vita. Gli studi suggeriscono che le persone felici tendono ad avere relazioni solide e appaganti, buona salute e un lavoro soddisfacente. Nelle frenetiche società industriali questi fattori sono sempre più causa di tensione, e la gente spesso usa il consumo come surrogato di fonti genuine di felicità (1).
Si riscopre così un filone antico della ricerca economica, quello che contesta l’efficacia del Prodotto interno lordo come misuratore del benessere sociale (perché, per esempio, non calcola i costi dell’inquinamento o della criminalità).
Daniel Kahneman dell’Università di Princeton, il primo professore di psicologia ad aver vinto un premio Nobel per l’economia (nel 2002), ha annunciato il National well-being account, un indice della felicità da inserire fra i parametri che misurano il grado di sviluppo di un paese, a fianco di reddito, indebitamento, disoccupazione.
Il governo britannico, informa il Financial Times, è peraltro già all’opera. Il Cabinet Office ha pubblicato un rapporto intitolato «Life Satisfaction» che conclude che la ricerca della gratificazione individuale è sicuramente così importante da giustificare un intervento diretto dello stato per favorirla. Non solo denaro, ma servizi per l’infanzia, attenzione per gli anziani, campagne per favorire la solidarietà e il riscatto dei diseredati.
L’idea di benessere come traguardo personale e politico è sempre più un luogo comune che compare ovunque: dalle riviste divulgative alle pubblicazioni ufficiali delle organizzazioni multinazionali, come «The Well-being of Nations» dell’Ocse (2001) e «Ecosystems and Human Well-being» del Millennium Ecosystem Assessment (2003). Anche la Camera dei comuni canadese ha usato quel termine all’interno del «Canada Well-being Measurement Act», approvato nel giugno 2003.
Le definizioni del concetto variano, ma tendono a concentrarsi attorno ad alcuni temi:
• le basi per la sopravvivenza, che comprendono cibo, alloggio e mezzi di sussistenza;
• la buona salute, sia personale che in termini di ambiente naturale sano;
• le buone relazioni sociali, che comprendono l’esperienza della coesione sociale e la rete sociale di sostegno;
• la sicurezza, intesa come sicurezza delle persone e delle proprietà;
• la libertà, che comprende la capacità di raggiungere il potenziale di sviluppo.
In buona sostanza, il termine «benessere» indica un’elevata qualità della vita, nella quale le attività giornaliere vengono svolte senza condizionamenti e con minor stress. Le società orientate al benessere danno più importanza all’interazione con la famiglia, gli amici, la natura e sono più attente ad appagare la creatività che ad accumulare beni. Esse enfatizzano lo stile di vita in armonia con la salute: la propria, quella degli altri e quella del mondo naturale; hanno una visione del vivere molto più profonda rispetto a buona parte delle persone.

La riflessione che propongo, senza dae una risposta, è allora questa.
Così come la ricchezza (misurata con il Prodotto interno lordo, Pil), oltre ad un certo reddito non produce automaticamente più benessere inteso come «felicità», anche la salute (misurata come «speranza di vita» o «età media»), oltre ad un certo livello non produce più benessere.
La riflessione potrebbe essere ancora più profonda ed arrivare a proporre una ipotesi ancora più contraddittoria; oltre ad un certo livello di età media della popolazione, la sofferenza degli anziani ed il costo della società per alleviarla potrebbe portare ad una regressione del benessere ed addirittura della ricchezza.
Mio figlio, se Dio lo vorrà, avrà due genitori anziani a cui accudire; i miei genitori hanno 5 figli che possono intervenire. La vecchiaia mia e di mia moglie, sarà più felice di quella dei miei genitori?
Forse, nella nostra società, dovremmo sviluppare il concetto di sobrietà. Sobrietà nei consumi, sobrietà nella nostra domanda di salute, sobrietà nell’uso della natura, sobrietà nel turismo, ed invece concentrarci maggiormente nello sviluppo, questo sì illimitato, dei beni immateriali: la cultura, l’arte, il pensiero, i rapporti e le relazioni umane.
Forse, dopo il medioevo dell’utopia della crescita economica illimitata, dovremo sviluppare un rinascimento del benessere umano, senza però dimenticarci di chi ancora non ha potuto raggiungere il minimo per una sopravvivenza dignitosa. •

(1) Fonte: «State of the World 2004» (Consumi) del Worldwatch Institute, a cura di Gianfranco Bologna, Capitolo 8.



Guido Sattin, medico ospedaliero




DOSSIER ANZIANI Vivere da anziani costa molto

In Italia per invecchiare bene occorrono soldi e cioè pensioni adeguate alle numerose necessità. Che tra l’altro aumentano in misura considerevole per gli oltre 2 milioni di anziani non autosufficienti.

Parlare e scrivere di loro: degli over 65. Tanto se ne parla, tanto se ne discute. Tanti sono intorno a noi, tra noi, tantissimi sono prossimi a quell’età. In Italia, infatti, il 18% della popolazione ha più di 65 anni.
Il 90% delle donne e l’80% degli uomini nati in Italia raggiungono e superano la soglia anagrafica dei 65 anni.
Lo scorso marzo, a Roma, si è concluso il Forum sulla Terza Età, che ha visto relatori della classe politica, amministrativa, universitaria e medica. Un’indagine svolta su fronti diversi dalla quale è emersa l’importanza, nell’età geriatrica, della qualità della vita, dell’autonomia con buoni rapporti interpersonali, dell’essere attivi, socializzando in relazioni amicali presso strutture religiose, sedi para-universitarie, centri sportivi.
Sono stati intervistati in questo studio 1.500 anziani e ben il 51% ha sottolineato come la condizione di benessere sia l’attività. Fare le cose che piacciono, ma che spesso sono negate in una quotidianità fatta di doveri, responsabilità familiari, professionali e problematiche economiche.
Sì, perché fare le cose che piacciono implica la necessità di un’adeguata copertura pensionistica. Il 28% degli anziani intervistati considera peggiorata la propria condizione economica rispetto ai precedenti 5 anni. A mio avviso, in questo senso è assolutamente necessaria da parte della classe politica al governo una rivalutazione ed un adeguamento economico delle pensioni d’anzianità.
Vivere la maggior età costa molto. Costa l’autonomia domiciliare; costa l’alimentazione corretta; costano i molti farmaci in fascia «C»; costa la presenza di un supervisore che spesso, anche se si è autonomi, si assume per facilitare la propria quotidianità; costa la comunicazione (telefoni, cellulari, telesoccorsi); costano gli ausilii (apparecchi acustici, lenti visive, attrezzature ortopediche, protesi e cure odontorniatriche, modifiche strutturali nel proprio domicilio per evitare cadute a terra ed eliminare barriere architettoniche).
Insomma, invecchiare è un impegno anche economico.

Fondamentale è il ruolo informativo del medico di base, davanti ad un paziente ultrasessantacinquenne che si mostra molto presente, coraggioso e intraprendente nel percorso terapeutico.
Nella tipologia caratteriale che il medico di base affronta quotidianamente (parlo nelle vesti di medico di famiglia), l’over 65 è il paziente che ha più fiducia nel parere del proprio curante e che richiede spiegazioni semplici e precise sulla propria situazione clinica.
Di fronte all’anziano il comportamento sanitario deve essere quanto mai attento perché la Terza Età è spesso sinonimo di pluri-patologia. Patologie non spesso invalidanti, ma che si sovrappongono e quindi si potenziano, per le quali il curante deve fare una classificazione e impostare una terapia efficace e facile da gestire.
Più difficile è approcciarsi con le patologie invalidanti dell’anziano: difficile per il soggetto, per la famiglia, per il mondo sanitario. Occorre allora affrontare i rapporti interpersonali all’interno della famiglia che si vorrebbe presente e unita nell’obiettivo di cura dell’anziano; occorre dare all’anziano un luogo adatto, cornordinare i progetti assistenziali, infermieristici, medici, socio-sanitari.
Mi riferisco a quel 20% della popolazione anziana che è disabile: sono oltre 2 milioni le persone non autosufficienti nel nostro paese. La letteratura medica definisce anziano fragile il soggetto con più di 65 anni, che presenta un’aumentata vulnerabilità a eventi avversi con grave rischio e potenzialità di non auto-sufficienza.
Ora la medicina generale con le «unità valutative geriatriche» identifica l’anziano fragile attraverso tests clinici e neuro-psicologici, permettendo allo stesso soggetto di accedere ad una rete di servizi capaci di prendersene carico (servizi domiciliari e residenziali). Identificare la sua fragilità e risolverla, questo è l’obiettivo.
Penso, ad esempio, ad anziani soli e disalimentati con rischio di cadute e osternoporosi. Allora i servizi sociali programmeranno i pasti a domicilio, si programmerà una fisioterapia e ausilii a domicilio. Penso a pazienti vasculopatici con tono dell’umore depresso: bisogna monitorare i controlli vascolari ed approntare una terapia farmacologica.
In conclusione, si tratta di mettere in atto le opportune strategie di prevenzione, cura e programmazione sanitaria affinché sulla «Terza età» non pesi mai un atteggiamento fatalistico e passivo. •

Emilia Valerio, medico di base e geriatra




DOSSIER ANZIANI “Io, settantenne molto arrabbiata”

La pensione, le ricette, le medicine, i prezzi: lo sfogo di una pensionata come tante.

Io sono una pensionata con il «super minimo», dove però di super c’è soltanto il nome. Nella mia situazione ci sono tantissime signore vedove e, ogni volta che ci incontriamo, concludiamo che non possiamo più andare avanti così. Il nostro Presidente dice che ha abbassato le tasse, ma a chi? Ai pensionati medio-alti o agli industriali abbassando l’Irpef del 3-4%, per noi cittadini normali il reddito non è aumentato di certo, anzi è vero il contrario.
Vorrei parlare, per esempio, dei problemi della sanità, che dobbiamo quotidianamente affrontare. Per poterci curare noi anziani, affetti da osternoporosi, artrosi, ecc. dobbiamo spesso ricorrere a terapie alternative, per evitare di ingerire dei medicinali antinfiammatori che ci rovinerebbero lo stomaco. Possiamo farlo, ma a nostre spese per almeno il 50%.
Nelle Asl hanno tagliato diverse prestazioni terapeutiche e sono aumentati i costi del tichet sulle ricette mediche. Prima si pagavano 2.000 lire per la prescrizione di 2 farmaci, oggi si pagano 2 euro per la prescrizione di un solo farmaco. Per fare alcune terapie strumentali di fisioterapia: biodinamica, radioterapia, occorre spendere dai 100 ai 200 euro. E che dire dei farmaci salva-vita? Hanno tolto le pastiglie per la pressione, per la labirintite. Per farla breve: per curarci dobbiamo comprare le medicine al banco. I costi si aggirano sui 500-600 euro all’anno.
Ma il signor Presidente ci consola dicendoci di mettere da parte gli scontrini di cassa della farmacia perché abbiamo diritto alla fiscalizzazione detraibile del 19%. Ci consiglia, inoltre, di fare la dieta, così ci passano tutti i malanni. Noi anziani vogliamo rispondere al Presidente, che tagliando lo stato tutte le risorse per curarci, a noi rimangono pochi spiccioli per tirare avanti… fino a fine mese.
La nostra pensione non ce l’hanno aumentata in base al costo della vita, al passaggio dalla lira all’euro e all’indice Istat. Senza dimenticare, voglio sottolinearlo con forza, che a noi la pensione non ce la regala nessuno: per essa abbiamo lavorato e versato i contributi. •

Grazia Sergi




DOSSIER ANZIANI “Aggiungere vita agli anni, non anni alla vita”

Ci sono persone che sopravvivono con 420 euro mensili.
Ecco perché è impellente risolvere il problema delle «3 “A”»: assistenza, alimentazione, abitazione.

Siamo una società che invecchia, la presenza degli anziani nella comunità richiede condizioni particolari di organizzazione sociale, tenuto conto che la «vecchiaia» è un universo frammentato e diversificato: ci sono bisogni legati al reddito, alla salute, al sesso (le donne vivono più a lungo degli uomini, sono la maggioranza degli ospiti delle case di riposo) e, ovviamente, alle pregresse esperienze di vita. Sovente gli anziani sono considerati soggetto debole per l’invecchiamento psico-fisico che crea senso di smarrimento ed inadeguatezza di fronte alle nuove tecnologie (computer, meccanizzazione di molti servizi) o al mondo giovanile che tende ad emarginare la terza età. Si arriva fino all’esclusione sociale con conseguente senso di inutilità, perdita di identità e progettualità per il futuro.
Come vivono gli anziani rispetto al reddito? Anche qui ci sono notevoli differenze: creano problemi le basse pensioni (si veda la tabella di pagina 24) con le quali non si riesce ad arrivare a fine mese, in particolar modo per chi deve provvedere anche alle spese per l’affitto. Ci sono sacche di povertà tra gli anziani, ad esempio i cosiddetti «incapienti», che avendo un reddito minimo (fino a 6.000 euro all’anno) non pagano Irpef, ma non hanno neppure la possibilità di adire ad alcune previdenze, come le deduzioni previste dalla legge.
L’aumento dei prezzi, a fronte di pensioni tendenzialmente stabili, ha creato notevoli difficoltà: come è noto la quarta settimana del mese vede una restrizione nei consumi, anche alimentari, nei supermercati come nella piccola distribuzione (conoscono bene il problema i banchi alimentari, legati alla Caritas che provvedono a molti bisogni di famiglie e anziani).
A fronte di questo quadro piuttosto nero di emarginazione sociale dell’anziano sta una «terza età» dove gli anziani sono una risorsa culturale ed esperienziale da valorizzare, partecipando attivamente alla vita sociale, ad associazioni culturali, di turismo, di tempo libero.
Per tutti gli anziani, ci sono un problema, una paura e una difficoltà prevalenti: il problema maggiore è la tutela della salute; la paura prevalente è la non autosufficienza, la difficoltà di ogni giorno è la solitudine.
In ogni regione d’Italia una forte percentuale della spesa pubblica va alla sanità e all’assistenza. I servizi domiciliari, nati perché l’anziano possa vivere al proprio domicilio anche durante la malattia sono del tutto insufficienti. Occorre lavorare per il ben-essere degli anziani, di ogni persona nella sua integrità fisica e spirituale con la sua partecipazione alla vita sociale e alle scelte politiche.

Di fronte a tutti questi problemi cosa fanno le Organizzazioni sindacali dei pensionati? Come Federazione dei pensionati della Cisl abbiamo, ormai da anni, sollevato il problema delle «3 A»: Assistenza, Alimentazione, Abitazione.
Sono le aree in cui si manifestano i maggiori disagi degli anziani, a cui si può porre rimedio con la ricerca di un paniere di spese adatto alle esigenze di vita dell’anziano; politiche abitative che tengano conto del reddito degli anziani. In materia di sanità, che il federalismo sta rendendo molto diversa da regione a regione, abbiamo chiesto al governo un fondo sociale certo, mentre, a livello regionale, abbiamo spinto per l’adozione dei Lea, cioè dei «livelli essenziali di assistenza». I pensionati della Cisl ,inoltre, hanno chiesto l’apertura di un tavolo per l’istituzione di un fondo per la non autosufficienza che consenta alle famiglie di provvedere ai bisogni economici degli anziani e non solo: handicap fisico e psichico rientrano in quest’area.
Le istituzioni pubbliche, nonostante le manifestazioni organizzate e le molteplici iniziative territoriali, non hanno dato risposte. In una finanziaria come quella del 2005 quale spazio hanno i problemi degli anziani?
Come sindacato dei pensionati dobbiamo lavorare per difendere la dignità dell’anziano, tutelarlo nella difesa del potere d’acquisto delle pensioni, nel garantire servizi sanitari ed assistenziali pubblici perché l’anziano si sente a pieno titolo protagonista della vita sociale e politica, ha vivissima coscienza di essere stato protagonista ed interprete della ricostruzione economica e morale dell’Italia del dopo-guerra. •

Marisa Carmazzi Romano




DOSSIER ANZIANI “Il futuro è dietro di noi”

La civiltà di una nazione si misura dall’attenzione che ha per gli anziani. Ma oggi prevale la «legge della giungla».

«La vecchiaia stessa è una malattia» diceva il poeta latino Terenzio (Phormio, 575) e prima di lui il comico greco Apollodoro di Caristo (fram. 20) e dopo di lui Seneca (Epistula 108,28) e Cicerone (De senectute 11,35). Questa mentalità che identifica la vecchiaia con la malattia («Chi ha degli anni ha dei malanni»), dall’antichità passando attraverso il Medio Evo si è diffusa a macchia d’olio nella cultura della civiltà occidentale fino ai nostri giorni (cf. A. Manzoni, I Promessi Sposi 38,27; J. W. Goethe von, Faust 2,2, ecc.) a testimoniare che una civiltà può anche essere frenetica e frettolosa, ma può anche non arrivare da nessuna parte e concludere nulla.
L’Occidente invecchia sempre più, le nascite non saldano le morti e già oggi le pensioni degli anziani italiani sono garantite dal lavoro degli immigrati. La Liguria è la regione più vecchia d’Italia che anticipa ciò che nel prossimo futuro sarà la norma dell’Italia: nazione prevalentemente di anziani, la cui sopravvivenza e previdenza sociale dipenderà dal lavoro degli immigrati.

NEL MONDO FALSO DELLA TV E DELLA PUBBLICITÀ

La in-cultura del falso mondo proposto da tv e pubblicità è popolato da volti giovani e longilinei e se per sbaglio appare un anziano è sempre scattante e… finto. Gli anziani di norma e per stile di vita sono persone serie, ma c’è sempre qualche eccezione a confermare la regola come, ad esempio, lo stesso presidente del consiglio, dal quale ci aspetteremmo un atteggiamento posato e riflessivo per il ruolo che ricopre e per rispetto dell’età.
Siamo costretti invece a subire il ridicolo di cui si copre quando si comporta da sciocco che non accetta di invecchiare, ricorrendo a tecniche di lifting o a trapianti di finti capelli per nascondere l’età e dare di sé un’immagine non vera. In linea con questa falsa concezione della vita, ha proposto al suo partito di arruolare 1.000 giovani tra i 30 e 35 anni per mandarli «in missione», come i testimoni di Geova, a due a due a fare propaganda in vista delle prossime elezioni politiche. Egli non vede che un popolo di giovani, arditi e forti purché sottomessi alla sua obbedienza «cieca sorda e muta». La serietà è come la fiducia del formaggio Galbani: o uno ce l’ha o non ce l’ha.
Gli anziani sono persone serie, chi arruola mercenari che devono rispettare la dieta per apparire sempre giovani e appetibili non solo non sa invecchiare, ma s’illude di deformare la realtà che invece resta sempre più grande di lui. Il pesce puzza dalla testa e il paese ne paga le conseguenze, specialmente gli anziani e tra questi quelli più deboli, quelli ammalati. Non vale cioè che si è, ma solo ciò che si fa credere di essere. Gli anziani che fanno lifting per apparire quello che non sono, restano vecchi-bambini che non sono mai cresciuti e probabilmente devono sfogare repressioni infantili o condizioni di povertà di cui si vergognano e che quindi pensano di nascondere dietro una finta faccia che deforma il vero volto nascosto.
La nostra civiltà del fare e dell’apparire guarda agli anziani come ad un «problema» non solo perché sono sempre più tanti, ma anche perché campano più a lungo, divenendo un costo sempre più gravoso. La tanto strombazzata riforma delle pensioni si può ridurre ad un solo fatto: bisogna convincere la gente a lavorare più a lungo e a vivere con meno salario. È questa la logica che da dietro le quinte ha governato la presa in giro della riduzione delle tasse. A fronte di pochi euro di non-tasse si distende una lunga lista di aumenti e rincari che vanno a pesare (sarà un caso?) solo sugli stipendi fissi e sulle pensioni degli anziani: aumentano beni di prima necessità come la luce, il gas, l’acqua; aumentano le spese sanitarie, dal momento che molti medicinali della fascia A (gratuita) sono passati alle fasce successive (a pagamento); aumentano le autostrade e il carburante con conseguente aumento dei trasporti e quindi dei generi alimentari che viaggiano su ruota; aumenta il riscaldamento domestico, mentre i Comuni non possono più garantire assistenza domiciliare e sostegno economico agli anziani poveri.

ARRIVARE A FINE MESE
Lo stato civile che si prende cura dei cittadini anziani che per tutta la loro vita hanno contribuito con il lavoro e attività diverse a fare crescere l’economia e la società, oggi sta scomparendo e abbandona gli anziani alla deriva della vita. Questa è la legge della giungla dove sopravvive chi è più forte, mentre oggi, con la politica sostenuta dal governo Berlusconi, sopravvive solo chi è ricco e diventa sempre più ricco. D’altra parte si è mai visto un ricco fare gli interessi dei poveri? O un finto anziano, che usa scarpe speciali per aumentare di uno o due centimetri la sua piccolezza, fare gli interessi degli anziani veri? La stessa società che si ubriaca di efficienza giovanilistica, quando pensa all’anziano non può che vederlo, oltre che un problema, anche come «ospedalizzato/malato» e quindi un costo grave per la spesa sanitaria.
Oggi una persona non può correre il lusso di diventare anziano e di ammalarsi: entra subito in un limbo, terra di nessuno, dove la fatica di vivere diventa anche terrore di sopravvivere. Molti anziani non arrivano alla fine del mese, come molti operai, molte famiglie monoreddito e molti ragazzi senza lavoro perché precari a vita. Uno Stato di diritto e un governo decente dovrebbero porre gli anziani e il loro stile di vita in cima ai propri pensieri e alle proprie scelte economico-sociali. La civiltà di una nazione si misura dall’attenzione che ha per gli anziani che custodiscono la memoria collettiva.

COME UN POZZO D’ACQUA FRESCA E DISSETANTE
Accanto all’anziano «problema» e «malato» vi è, infine, l’anziano «ricoverato» in qualche ospizio con nomi pomposi che promettono serenità, pace, oasi… e chi più ne ha più ne metta, mentre si rivelano frequentemente piccole carceri, quando non sono autentici lager, dove gli anziani sono depositati come un pacco inservibile, in attesa che la morte venga a liberare loro dal peso della vita e i parenti dal peso del mantenimento, pronti sempre ad intascare l’eredità eventuale.
Pochi mettono in rilievo che l’anziano è una risorsa non solo di valore per la grande testimonianza che può dare della sua vita e per il contributo che ha dato alla costruzione della società, ma anche in senso strettamente economico: i nonni «badanti» dei nipoti; i mariti o le mogli «badanti» dei rispettivi congiunti anziani o malati; i pensionati che mantengono figli e nipoti disoccupati o con problemi finanziari; anziani dediti al volontariato, allo studio e alla ricerca.
Il mondo degli anziani è un pozzo profondo da cui sgorga ancora acqua fresca e dissetante. Bisogna saperla vedere con le antenne «rabdomanti» della verità e dell’attenzione alla persona per poterla gustare e assaporare perché gli anziani non sono solo il passato. Essi sono il nostro presente e anche il nostro futuro, quel futuro che è sempre dietro di noi ad illuminare il nostro presente. Lo ha capito molto bene un «vecchio», Giovanni Paolo II che il 1 ottobre 1999 scrisse una Lettera agli anziani molto toccante e affettuosa. Si sa, gli anziani tra loro si commuovono facilmente e si capiscono al volo, anche senza parole, perché ad essi basta solo uno sguardo.
Ha scritto il papa:

«Che cosa è la vecchiaia? Di essa a volte si parla come dell’autunno della vita… seguendo l’analogia suggerita dalle stagioni e dal susseguirsi delle fasi della natura… Se… l’infanzia e la giovinezza sono il periodo in cui l’essere umano è in formazione, vive proiettato verso il futuro, e, prendendo consapevolezza delle proprie potenzialità, imbastisce progetti per l’età adulta, la vecchiaia non manca dei suoi beni, perché – come osserva san Girolamo – attenuando l’impeto delle passioni, essa “accresce la sapienza, dà più maturi consigli“ (Commento ad Amos 2, Introduzione). In un certo senso, è l’epoca privilegiata di quella saggezza che in genere è frutto dell’esperienza… È ben nota, poi la preghiera del Salmista: “Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore“ (Sal 90/89, 12)… [Gli anziani] sono custodi della memoria collettiva, e perciò interpreti privilegiati di quell’insieme di ideali e di valori comuni che reggono e guidano la convivenza sociale. Escluderli è come rifiutare il passato, in cui affondano le radici del presente, in nome di una modeità senza memoria. Gli anziani, grazie alla loro matura esperienza, sono in grado di proporre ai giovani consigli ed ammaestramenti preziosi. Gli aspetti di fragile umanità, connessi in maniera piú visibile con la vecchiaia, diventano in questa luce un richiamo all’interdipendenza ed alla necessaria solidarietà che legano tra loro le generazioni, perché ogni persona è bisognosa dell’altra e si arricchisce dei doni e dei carismi di tutti” (nn. 5 e 10)».

E NELLA BIBBIA…
Giovani e adulti dimenticano spesso che la giovinezza è una «malattia», che passa presto con gli anni, ma lo sapeva bene l’uomo biblico che scrive «giovinezza e capelli neri sono un soffio» (Qoelet 11,10) e dall’altra riva gli fa eco il sapiente che aggiunge: «Vecchiaia veneranda non è la longevità, né si calcola dal numero degli anni; ma la canizie per gli uomini sta nella sapienza e un’età senile è una vita senza macchia» (Sapienza 4,8-9).
Quando c’è la civiltà che si esprime nella cultura della persona, non si fa più questione di età, di giovinezza o di anzianità, si guarda solo alla qualità della vita per ogni stagione che l’avventura umana comporta. •

Paolo Farinella




DOSSIER ANZIANI Una perla per l’ultimo miglio

Non è un ricovero, né un ospizio, né un ospedale camuffato. Non ha nomi fasulli. Non chiede «rette», né contributi pubblici. A Genova, abbiamo visitato la casa per anziani delle «Piccole sorelle dei poveri». E…

A Genova, in via Corridoni 6, abbiamo trovato una perla: un luogo di accoglienza per anziani che non è un ricovero, né un ospizio, né un ospedale camuffato e non ha nomi fasulli. Non è nulla di tutto ciò che siamo abituati a vedere quando si parla di ricoveri per anziani… È semplicemente una casa che gli stessi anziani chiamano «casa mia», perché non sono ospiti paganti o posteggiati in attesa della morte, ma persone che vivono godendo ogni giorno di tutte le opportunità che la vita offre, anche nella lentezza del tempo e del camminare propri della vecchiaia. Abbiamo incontrato persone anziane giorniose e allegre nella loro vecchiaia.
Siamo stati liberi di visitare tutti i locali, d’incontrare gli anziani, di chiedere quello che volevamo, senza alcuna limitazione. Abbiamo conversato con Esperia, Rosa, Amelia. E con Giacomo di 100 anni e 4 mesi, ancora sulla breccia a coltivare il giardino e a potare rose. Tutti ci hanno detto, con il sorriso nel cuore e sul volto, che non si sentono in «ricovero», ma a «casa mia».
Siamo rimasti impressionati dalla vitalità e dalla gaiezza di questi «vecchietti» affatto in riposo, perché ognuno di loro partecipa alla gestione della casa con un ruolo personale, secondo le capacità anche fisiche.
L’edificio, costruito all’inizio del secolo scorso, si innalza su tre piani e ad ogni piano vi sono camerette singole o doppie, sale d’incontro e una sala da pranzo per piano. Non esiste un refettorio unico, dove radunare tutta la «truppa», ma si mangia a gruppi, per piano, come in una famiglia allargata. I tavoli sono a 4 posti e sono i normali tavoli che si trovano nelle sale delle nostre famiglie. Nulla richiama un collegio o un ospizio. Le sale sono preparate dagli stessi anziani e la cura anche nei minimi particolari dimostra la sensibilità e l’attenzione che tutti hanno.

Suor Maria Rosa, come si chiama la casa in cui ci troviamo?
«Istituto “Piccole sorelle dei poveri”. In alcune case è stata aggiunta anche la dizione “Casa mia”, perché non vogliamo che sia un ospizio, ma ogni anziano deve poter dire: qui è “casa mia”. Questa aggiunta non è un vezzo, ma esprime una realtà perché veramente gli anziani che vivono con noi sentono la casa come “casa loro”. È un’esperienza che viviamo quando gli anziani per qualsiasi motivo vanno fuori, presso parenti e spesso dicono: “No, no, portatemi a casa mia”».

Qual è il motivo del nome «Piccole sorelle dei poveri»?
«È il nome originario, voluto fin dall’inizio dell’opera (1839) dalla nostra fondatrice, Jeanne Jugan, che ha pensato a noi come “Sorelle degli anziani poveri”».

Ci sta dicendo che siete nate per servire come sorelle i poveri, specialmente gli anziani?
«Sì, esattamente. Siamo nate per accogliere gli anziani soli e poveri. La nostra congregazione formata oggi da oltre 3 mila sorelle e sparsa in tutti i 5 continenti, ha un’opera unica: assistere gli anziani e in particolare gli anziani poveri, di cui vogliamo essere ”sorelle”, come in una famiglia».

Voi per accettare qualcuno ponete una condizione: deve essere veramente povero. Cosa vuol dire «povero»?
«Non avere troppi soldi. In poche parole, essere veramente povero» (il tono della voce di suor Maria sottolinea il «veramente povero»).

Facciamo un esempio: se una persona anziana possiede uno o due appartamenti frutto del risparmio di una vita per assicurarsi una buona vecchiaia voi non lo accettate?
«Di regola, no».

Cosa gli consigliate?
«Di cercarsi un’altra soluzione dove può impegnare i suoi averi e goderseli».

Se una persona anziana vi dicesse: io vi dò i miei appartamenti o i miei averi in cambio della vostra assistenza fino alla morte, voi cosa fate?
«Abitualmente non accettiamo, perché se accettassimo, piano piano diventeremmo le “Piccole sorelle dei ricchi”. Ospitiamo circa 80 persone e, se tutti avessero uno o due appartamenti o risparmi per centinaia di migliaia di euro…, noi ci troveremmo a gestire un patrimonio enorme e verremmo meno all’ideale della fondatrice che ci volle espressamente “Sorelle dei poveri”. Non dobbiamo, non possiamo aiutare chi ha sufficienti mezzi di vita. Noi esistiamo per aiutare coloro che non hanno mezzi per sostenersi: i poveri, senza appartamenti, senza rendite e a volte anche senza pensione».

Vi rendete conto che siete una mosca bianca in mezzo ad un sistema di interesse economico che ruota attorno alla vita degli anziani, dal momento che le case per anziani sorgono dovunque e a costi enormi?
«Sì, lo sappiamo, ma sappiamo anche che nessuno ci crede… (le due sorelle sorridono come chi ne ha sentite tante). Nessuno crede che la nostra vita è vivere di carità perché oggi la gente crede che tutto si fa per i soldi. Si è smarrito il senso della gratuità. Le persone che vengono qui (forse pensano di dovere discutere sulla “retta” e tirare allo sconto), si meravigliano che non facciamo questione di soldi, perché non esiste “retta” o mensile, ma poniamo l’unica condizione essenziale per noi: che la persona richiedente sia veramente povera».

A questo punto abbiamo smarrito tutte le domande che avevamo preparato e restiamo in silenzio davanti a queste due donne, apparentemente fragili, ma solide nella loro chiarezza e ispirazione. Ci viene voglia di alzarci e andarcene in silenzio perché abbiamo la consapevolezza che ogni parola in più sia inutile e superflua. Ci sentiamo catapultati in un altro mondo e ci vengono in mente le parole di Gesù a Pilato in Gv 18,36: «Il mio Regno non è di questo mondo».
In mezzo ad una città che vive una vita frenetica all’inseguimento del denaro; con mezza città che cerca di vendere (non importa cosa) all’altra mezza che deve comprare e tutto ruota attorno ai soldi, senza i quali la vita non si capisce, queste due donne che non sanno di economia, non sono esperte di macrosistemi, non conoscono le leggi del mercato, con la loro scelta di vita non solo contestano, ma stravolgono il sistema economico che ci vuole adoratori del moloch denaro e servi delle leggi di mercato dentro il perverso sistema capitalistico che avvantaggia i ricchi e schiaccia i poveri.
Qui, davanti a queste due «sorelle dei poveri», Maria Rosa e Antonina, si capisce l’importanza e la forza della nudità delle parole di Gesù: «Non potete servire a due padroni… non potete servire Dio e Mammona» (Lc 16,13).
Le sorelle devono capire il nostro disagio perché ci vengono in soccorso e suor Maria Rosa, la superiora, aggiunge:

«Per statuto non possiamo avere convenzioni con gli enti pubblici e non possiamo accettare contributi statali per il nostro servizio, non abbiamo rette, ma da 165 anni serviamo gli anziani poveri come ha cominciato la nostra fondatrice, quando nell’inverno del 1839 prese con sé una vecchia abbandonata e mezza morta di freddo e le diede la sua stanza e il suo letto; e poi una seconda vecchia e poi un’altra… senza fine. Per mantenere queste persone e garantire loro una dignità elevata, prestò servizio presso alcune famiglie, ma il suo lavoro non bastava e allora… si fece questuante e cominciò a chiedere l’elemosina, in base al principio che se Dio manda i poveri, Dio stesso se ne prenderà cura attraverso la disponibilità di anime buone e generose. Chiedere l’elemosina significa non avere sicurezze di alcun genere e dipendere totalmente da Dio attraverso la carità del prossimo».

Ci state dicendo che vi mantenete con la questua che chiedete ogni giorno?
«Gli anziani che vivono con noi contribuiscono al loro mantenimento come a casa loro: danno la loro pensione (quasi sempre la minima) tranne il 10% che resta a ciascuno per le piccole spese personali, ma la pensione non basta per la gestione di una casa grande con tante persone per cui quello che manca è integrato dalla questua che due sorelle ogni giorno vanno a chiedere per la città. Abbiamo avuto una persona che ha vissuto qui per oltre un anno senza pensione perché non ne aveva l’età: era ed è un vero povero e aveva diritto di stare con noi».

Avete dei benefattori?
«Sì, abbiamo famiglie amiche che ci aiutano con un impegno mensile. Altri benefattori ci aiutano in tanti altri modi: per esempio, al mercato generale di frutta e verdura con i generi alimentari, offerte tramite CCP o, a volte, con qualche lascito… La fantasia della carità è inesauribile e noi lo sappiamo da 165 anni. Se siamo arrivati fin qui, vuol dire che “il trucco” funziona. Per questo dobbiamo essere “Sorelle povere”, perché il giorno in cui diventassimo “ricche”, questo flusso di grazia e di generosità si seccherebbe. Il senso della nostra opera e della nostra vita poggia tutto sulla Provvidenza, nella quale crediamo e della quale vogliamo vivere noi e gli anziani che il Signore manda a noi».

Qual è il segreto, oltre il carisma della fondatrice, per mantenere una realtà complessa come la vostra così a lungo?
«La fiducia, la fiducia che la nostra madre ha avuto nella Provvidenza e che ha trasmesso a noi e che noi cerchiamo di custodire con scrupolo. Le due sorelle che ancora oggi vanno fuori a chiedere l’elemosina sono anche l’espressione di questa continuità con la nostra madre perché come lo fu per lei, anche per noi la questua è un atto di fede in Dio e nel prossimo».

Dovete vedee di tutti i colori, immaginiamo!
«A volte, ma non importa. (suor Maria Rosa s’illumina e aggiunge:) Un giorno la nostra fondatrice uscì a chiedere l’elemosina e un signore le diede uno schiaffo, ma lei senza scomporsi rispose: “Signore, questo schiaffo è per me. Ora, la prego, mi dia qualcosa per i poveri”. Ecco, questo deve essere lo stile, se vogliamo vivere il vangelo».

E riuscite a fare fronte a tutte le spese necessarie per adeguarvi alle severe normative di legge?
«Abbiamo sempre difficoltà che è quasi la regola con cui il Signore ci mette ogni giorno alla prova, se veramente vogliamo dipendere totalmente da lui. Siamo state obbligate a fare lavori straordinari di adeguamento alle normative imposte dallo stato e i costi sono stati elevatissimi. A Milano, per esempio, non potendo sostenere simili spese, siamo state obbligate a chiudere la casa. Ogni tanto riceviamo una spinta, quasi un colpo d’ala che ci permette di fare qualcosa di più: un benefattore che morendo ci lascia un appartamento o qualcosa che noi vendiamo subito per impegnare il ricavato in quello che serve. Cose di questo tipo».

Possiamo dire che il fulcro del vostro sistema economico resta la questua (e la sua implicita provvisorietà) per le strade o tra le famiglie amiche?
«Per capire questo bisogna sapere che della nostra fondatrice non possediamo né scritti né opere né carte di alcun genere. Abbiamo solo una firma col nome di religiosa, suor Maria della Croce, posto in un atto del capitolo generale del 19 giugno 1865, quando fu chiamata a dirimere la questione che angustiava la congregazione: accettare rendite perpetue o rifiutarle. La fondatrice senza esitazione indica la rotta da seguire e il consiglio invia una circolare a tutte le case: “La congregazione non potrà possedere nessuna rendita, nessun introito fisso”. Questa decisione significava rinunciare immediatamente ad un lascito perpetuo di 4.000 franchi dell’epoca».

Quali sono i criteri dell’accoglienza?
«Come già detto, la nostra opera è unica e quindi possiamo accogliere solo anziani, singoli o in coppia, purché siano poveri. Soltanto per i poveri abbiamo il diritto di chiedere l’elemosina, e i 5 euro (o anche meno) che riceviamo in elemosina dobbiamo sempre spenderli per loro».

Chi è l’anziano «tipo» che chiede di vivere con voi?
«Inizialmente entrano anziani autosufficienti, che naturalmente restano qui fino alla morte, per cui se diventano non autosufficienti li assistiamo secondo le necessità. L’autosufficienza iniziale è importante perché aiuta l’anziano ad inserirsi in un ambiente che per quanto gradevole e sereno è sempre una novità da scoprire e accettare».

Il personale che assiste gli anziani come è composto?
«Siamo più di 3.000 sorelle sparse in tutto il mondo, tranne dove c’impediscono di fare le questuanti. In questa casa, a Genova, siamo 13 sorelle di cui alcune anziane e 32 dipendenti laici estei stipendiati che si occupano della lavanderia, della cucina, delle pulizie e dell’assistenza a 80 anziani, 45 donne e 35 uomini più tre coppie di sposi che vivono insieme e anche due anziani sacerdoti, un lombardo e un sanremese. Attualmente in Europa la chiesa attraversa una crisi di vocazioni, e così anche la nostra congregazione, mentre abbiamo vocazioni in India, Colombia, Cile, Filippine, America, Africa, ecc.».

Il rapporto tra personale e anziani è 1 a 2. Nemmeno negli alberghi di lusso si ha un rapporto così ottimale.
«Noi garantiamo un’assistenza 24 ore su 24 e per noi l’anziano è sempre al primo posto, al posto d’onore. Teniamo molto all’igiene personale e alla pulizia dell’ambiente, di ogni ambiente e questo esige presenza e attenzione. Tra il personale vi sono anche infermieri, perché gli anziani hanno sempre qualche problema di salute».

Vivono in stanze singole o multiple?
«Abbiamo 48 camere singole e 16 doppie molto grandi. Quasi tutti gli anziani autosufficienti vivono nelle singole. Gli ammalati e quelli che necessitano di assistenza particolare sono nelle doppie. Ognuno ha personalizzato la camera con i propri mobili, compreso il letto e l’arreda secondo il proprio gusto».

Qual è la giornata tipo dell’anziano in questa «casa mia»?
«Riguardo alla giornata, al mattino ognuno si alza quando vuole: chi si alza alle 6,00, chi alle 7,00 o alle 8,00. Non c’è un orario comune. La colazione si consuma tra le 8,00 e le 9,00. Mano a mano che gli anziani si alzano le sorelle aiutano coloro che ne hanno bisogno o quelli che non possono muoversi a fare colazione. C’è chi sistema le sale da pranzo, chi va’ fuori per commissioni come andare in farmacia, alla posta, ecc.; chi va’ nel laboratorio di cucito dove si sistema la biancheria personale; chi accudisce il giardino o altre piccole cose».

Avete anche l’orto, oltre al giardino?
«No! L’orto è impegnativo e necessiterebbe di più persone per una sana gestione. Per i nostri anziani sarebbe troppo pesante, quindi abbiamo ripiegato sul giardino che richiede altri ritmi e impegni, senza ansia. Del giardino si occupa oggi Giacomo di 100 anni e 4 mesi insieme ad altri due che possono farlo. Poi cerchiamo di valorizzare ciò che facevano nella vita, per cui se un anziano ha fatto il falegname o il calzolaio o l’imbianchino, o altro… qui esercita la sua professionalità misurata sulle sue forze e sempre in modo libero, organizzandosi il tempo secondo le proprie esigenze. Stiamo attente, perché vi sia un equilibrio tra i vari momenti della giornata».

Per voi tutto ciò è anche un valore aggiunto economico…
«Non è questo il fine. Lo scopo principale consiste nel fatto che gli anziani abbiano un’occupazione per sentirsi ed essere utili e non rinchiudersi in se stessi e magari passare tanto tempo davanti alla televisione. Per un’anziana che non poteva fare nulla, per esempio, una suora ha inventato un lavoro: farle tagliare la lana con cui riempire i cuscini che vengono venduti per aiutare le missioni indiane».

Qual è il rapporto con il territorio del quartiere?
«Gli anziani autosufficienti escono, entrano, vanno e vengono come vogliono, senza alcuna limitazione. Vanno a comprarsi il giornale; vanno in centro anche solo a passeggio; sbrigano commissioni. Se questa è una casa lo deve essere a tutti gli effetti. Da fuori, oltre i parenti viene qualcuno, non troppi. Vi è qualche gruppo che ci frequenta che è diventato amico con il quale si è instaurato un rapporto di amicizia. Per esempio, a carnevale è venuto un gruppo che ha animato tutto il pomeriggio riunendo insieme bambini, giovani e anziani».

Come vivono gli anziani che sono qui il legame con la famiglia di origine?
«Dipende. Normalmente è buono perché i parenti mantengono i rapporti e vengono a trovarli. Vi sono anche persone che non hanno più nessuno, ma hanno amici che di tanto in tanto vengono a fare una visita. Inoltre, si è creata una rete di amicizia qui dentro per cui non c’è nessuno veramente solo».

… e il distacco dalla famiglia?
«Cerchiamo sempre che sia l’anziano o anziana a volere venire qui. A questo scopo chiediamo a tutti di fare un periodo di esperienza: se si trovano bene, possono decidere di restare, diversamente se ne tornano a casa. Nessuno finora se n’è tornato da dove proveniva. Vi sono anche anziani che si rendono conto di non potere più badare a se stessi e allora decidono di venire da noi e questi hanno una motivazione personale già in partenza».

Ospitate anche persone per un tempo determinato?
«Se possiamo sì, ma di regola non possiamo, perché la camera di ciascuno è personalizzata. Per cui, se un anziano va in famiglia per un mese, non possiamo ospitare un altro e metterlo nella sua camera: non ci sembra giusto. È una questione di dignità e di rispetto».

Qual è l’atteggiamento degli anziani di fronte alla sofferenza e alla morte?
«Varia da persona a persona e in base alla nostra esperienza dipende molto dall’educazione con cui un anziano o anziana è cresciuta. C’è di tutto: c’è attenzione ammirevole, c’è motivazione religiosa, c’è anche rassegnazione. Gli anziani sono persone con le stesse contraddizioni di tutti gli altri».

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Con Esperia , Rosa e Giacomo

Incontriamo alcuni anziani con i quali scambiamo qualche parola. «Io sono Paolo e lei è Cristina. Siamo venuti a conoscere questo luogo e a vedere come ci si sta». Le due anziane che ci stanno davanti ridono. Chiediamo il loro nome: «Io sono Esperia Roccatagliata di Genova, genovese al 100% fin dal 1300. Il cognome stesso lo dice». «Io sono Rosa Virdis e sono della Sardegna, ma vivo a Genova da oltre 50 anni».
Il nome “Esperia” è un programma: in spagnolo significa “speranza”, mentre “Rosa” richiama le rose del vostro giardino. È da molto che abitate qui?
Esperia: «Da 4 anni, ma frequentavo questa casa da 12 anni, specialmente per venire a trovare amici, oggi invece sono io ad abitare qui e altri vengono a trovare me».
Rosa: «Io da 5 anni al 3 di febbraio e qui sto bene».
Siete contente di stare qui?
Esperia: «D’incanto direi. Guardi che posto! Sembra di essere in una villa patronale… da bambina abitavo qui vicino e passavo davanti al cancello. Ma credevo che fosse una scuola senza sapere che un giorno sarebbe diventata casa mia. Sono contenta di essere qui».
Rosa: «Oh, sì, sto proprio bene!».
Di cosa vi occupate?
Esperia: «Sono specializzata in cucito e sono addetta al rammendo perché tutti devono essere lavati, puliti, stirati. Ordinati, insomma».
Rosa: «Preparo due volte al giorno la tavola e poi vado in laboratorio a piegare la biancheria».
Avete parenti?
Esperia: «Ho un figlio e due nipoti, ma vivono a Milano».
Rosa: «Io ho 5 figli (3 femmine e 2 maschi). Mi vogliono bene, però io ho voluto venire qua».
Incontriamo Giacomo di 100 anni e 4 mesi su un triciclo elettrico, arzillo e dritto come un cipresso. Ci dice che è emiliano e che si occupa del giardino. Alcuni giorni addietro ha potato le rose, che sono il suo orgoglio e la sua passione.
Andando ancora avanti, incontriamo altri anziani e anziane: chi in camera, chi a conversare, chi si sta già preparando per andare a letto. È sera ed ormai è tardi. Un’altra cosa che ci ha impressionato: per la casa abbiamo visto solo tre persone davanti alla tv, ma stavano chiacchierando tra loro.

Credevamo di entrare in un posto di «vecchi», abbiamo visitato una casa piena di vitalità, dove si respira un clima umano straordinariamente pacifico. Non abbiamo visto un anziano o un’anziana triste, ma sempre persone contente e giocose. Toiamo a casa con il sole nel cuore e la gratitudine per avere avuto il dono di incontrare anziani felici e persone come le «Piccole Sorelle dei Poveri» che riconciliano con il mondo e con Dio.
Pa.F. e M.C.P.

Paolo Farinella e Cristina Pantone




DOSSIER ANZIANI Jeanne Jugan e le “Piccole sorelle dei poveri”

Le «Piccole sorelle dei poveri» sono nate 160 anni or sono nella Francia nord occidentale, in Bretagna, a Saint-Servan, 70 km a nord di Rennes. Furono fondate da Jeanne Jugan, nata a Cancale, un vicino villaggio di pescatori nel 1792, tredici anni dopo la rivoluzione francese. Secondogenita di quattro fratelli, per aiutare la madre rimasta vedova del marito marinaio mai più ritornato da un viaggio di pesca, Jeanne, ancora adolescente, va a servizio nelle case. È la vita che le indica la strada.
Quando la giovane inizia l’avventura di servire gli anziani, che lei definiva «un’opera non ancora conosciuta», è la seconda metà del XIX secolo e l’avvento della società industriale e del capitalismo selvaggio. Sono gli anni che vedono lo sviluppo vertiginoso delle banche. Scrisse A. Dumas (figlio) che «la borsa diventò per quelle generazioni ciò che erano le cattedrali per il Medio Evo». C’è la corsa a depositare denaro nelle banche e la ricchezza accumulata nelle mani dei ricchi genera miseria tra la povera gente. Lo sfruttamento nelle miniere e nelle industrie tessili e manifatturiere o nei latifondi è la causa della povertà che si diffonde a macchia d’olio. Molti marinai, come il padre di Jeanne, vivono di pesca in mare aperto e spesso non tornano più a casa, lasciando vedove e figli senza sostegno e senza futuro, prede privilegiate della miseria e dei profittatori.
Nel 1832 nella cittadina di Saint-Servan, dove vive Jeanne Jugan, l’ufficio di beneficenza del comune aiuta oltre 2.000 poveri. Nel 1837, cinque anni dopo, diventano oltre 3.500 su una popolazione di 9.000 abitanti. Oltre un terzo degli abitanti cade in miseria senza che nessuno si occupi di loro. L’unica istituzione prospera è la banca che assicurava rendite per un futuro senza problemi. Non esistono previdenze, stato sociale, servizi di alcun genere, ma solo l’ufficio di carità in qualche comune.

Per contestare un mondo fondato sul «dio denaro», che si nutre della miseria generata dallo sfruttamento dei poveri, nel 1842 Jeanne Jugan fonda la congregazione delle «Piccole sorelle dei poveri» con l’unico scopo di assistere e servire gli anziani poveri, di cui vuole essere sorella. Qui sta il motivo del nome della sua opera: «piccole sorelle», cioè non padrone, non responsabili, non capi, non direttrici, ma solo «sorelle» che devono essere anche «piccole», perché di fronte ai poveri si deve stare in ginocchio. Il «povero» è Dio in persona e come si serve e si ama Dio si deve servire e amare i «poveri». Amare e servire i poveri come una familiare, una sorella, fu la vocazione di Jeanne a cui non solo resta fedele durante tutta la sua lunga vita (visse 86 anni), ma alla quale sono coerenti ancora oggi le oltre 3.000 suore sparse in tutti e cinque i continenti.
Per mantenersi vivono di «questua»: dipendono cioè ogni giorno dalla carità del prossimo. In un mondo di false certezze, Jeanne dichiara con la sua vita che tutto è provvisorio e che durante la provvisorietà della vita, «nessun uomo è un’isola», perché tutti sono interdipendenti e responsabili gli uni degli altri: nessuno può vivere da solo, ricco o povero, perché da soli siamo solo capaci di perderci, mentre insieme possiamo salvarci, condividendo la mensa della vita e il panorama della dignità.
Chi sceglie e ama il povero che aveva detto: «Avevo fame… avevo sete… ero nudo… senza casa… e mi avete assistito… Quando Signore?… Tutte le volte che lo avete fatto ad un povero lo avete fatto a me…» (Mt 25, 34-40), non può perdersi dietro gli onori del mondo, ma può consumarsi soltanto nell’amore e nel servizio dei poveri, immagine e sacramento di Dio.
Alcuni mesi prima di morire, Leone XIII, il papa dell’enciclica Rerum Novarum (1891), la prima enciclica di carattere sociale, approva le costituzioni della nuova congregazione fondata da una donna che ascoltando i bisogni del suo tempo, sa anticipare tutti i principi della dottrina sociale della chiesa, facendo la scelta privilegiata dei poveri come via maestra della fedeltà al Dio del vangelo (Rerum Novarum, 2; Conc. Ecum. Vat. II, Apostolicam Actuositatem, 8/944; Gaudium et Spes, 27/1403-04).
Oggi di fronte alle file degli indigenti che affollano le strade delle nostre città chiedendo l’elemosina; oggi di fronte alla massa di immigrati che bussa alle nostre porte per mangiare le briciole che cadono dalla mensa dei ricchi gaudenti, la figura di Jeanne Jugan si staglia come una lucerna sul candelabro (Mt 5,15) a ricordare che gli anziani non sono merce scadente da cestinare, ma sono lampade ad olio preziosissime, di pregiata fattura che illuminano la vita anche di coloro che non sanno vedere.

Jeanne è una semplice popolana che grida con la sua vita di silenzio e di piccolezza la dirompente profezia di non lasciarsi ammaliare dalla corsa all’arricchimento facile, causa di tante sofferenze e ingiustizie, ma vi si oppone con il coraggio dei profeti biblici che si ergono contro gli idoli, armati soltanto della loro vita che insieme ad ogni affanno gettano sul loro Dio (Sal 55/5,23).
Avendo scelto Dio come Signore unico, Jeanne, profeta dell’economia utopica non può avere padroni, ma per scelta sa farsi serva degli anziani poveri, cioè di quell’umanità che non conta, ma sulla quale i padroni di ogni tempo costruiscono la loro ingiusta ricchezza (Lc 16,9).
Muore nel 1879 a 86 anni, dimenticata da tutti, messa in un angolo da chi si appropriò della sua opera negandole anche il titolo di «fondatrice». Al prete che le rubò i meriti e la sua opera, privandola anche della autorità sulla congregazione, disse: «Voi mi avete rubato l’opera mia, ma io ve la dono con tutto il cuore», consapevole che Dio l’aveva chiamata non alla gloria, ma al servizio dei poveri.
Paolo Farinella

Gli indirizzi
Le «Piccole Sorelle dei Poveri»
in Italia sono a:
• Genova, Via Filippo
Corridoni 6 (foto a lato)
• Torino, Corso Francia 180
• Firenze, Via Andrea
del Sarto 15
• Bologna, Via Emilia
Ponente 4
• Messina, Via Emilia 25
• Acireale, Viale dello Ionio 34
• Roma, Piazza San Pietro
in Vincoli 6 (Casa provinciale)
• Marino (Roma), Corso Vittoria
Colonna 72 (Noviziato).

Paolo Farinella




DOSSIER ANZIANI “Cara anziana, caro anziano…”

Qualsiasi politica pubblica per gli anziani deve considerare che questi non sono dei «terminali passivi», ma una «risorsa». Per sé e per gli altri.

Sono assistente sociale da 11 anni ed ho avuto la grande opportunità di iniziare il mio percorso professionale in una Casa di riposo a Genova, nel quartiere di Quezzi. I miei studi di servizio sociale a Roma e l’esperienza di vita acquisiti hanno preparato e predisposto la mia sensibilità professionale ad accogliere con attenzione l’esperienza che si stava schiudendo per me.
Non ho avuto il privilegio di vedere invecchiare i miei genitori perché sono morti in età giovanile (57 anni la mamma e 60 anni il papà). Devo a loro, però, il dono del rispetto per i «vecchi» e la «vecchiaia»: in sintesi, il rispetto per la vita. Forse è anche qualcosa di più del riconoscimento di una stima: è il valore della persona.
Il mio primo lavoro fu, appunto, nella Casa di riposo di Genova, che accoglieva un gruppo di 60 anziani, fra uomini e donne, anche coppie, autosufficienti e parzialmente autosufficienti, pensionati fuoriusciti dal circuito lavorativo. Dagli anni Settanta in poi l’Opera nazionale pensionati d’Italia (Onpi) era l’ente preposto a garantire una continuità di vita ai pensionati fino al loro trapasso (1). Nel 1994 lo scenario della popolazione genovese era il seguente: 660.000 abitanti con una popolazione anziana di circa 200.000 unità di cui l’80% anziani dai 60 ai 100 anni. Tre grandi istituti cittadini accoglievano una popolazione di 1.000 anziani autosufficienti, non autosufficienti e parzialmente autosufficienti.
Attoo a questi istituti di lunga degenza ruotavano una serie di servizi e soprattutto molto volontariato. L’anziano comincia ad acquisire un suo peso politico a livello nazionale: diventa un «problema» sociale (riforma delle pensioni) e sanitario (stato di cronicità se anziano disabile). Si moltiplicano i convegni, i seminari e i forum perché il panorama nazionale di un’Italia che invecchia senza avere le risorse adeguate per sostenere l’invecchiamento della popolazione è uno scenario temibile e difficile da governare.
Viene recuperata, in termini generali, una prospettiva che rischiava e rischia di andare in disuso: la prevenzione. Gli studi sociali delineano la rete delle relazioni dell’anziano (tecnicamente definita network). Un programma di prevenzione dovrebbe considerare i bisogni primari di socializzazione e di integrazione della persona anziana (famiglia / parentela / vicini di casa / amici/ colleghi e comunità locale / operatori sociali / operatori sanitari / operatori volontari) con lo scopo di permettere all’anziano di riscoprirsi «risorsa» di aiuto per sé e per gli altri.
Forse è necessario ricordare che uno dei principi fondamentali del Servizio sociale è l’autodeterminazione della persona in difficoltà. L’anziano non può più essere un «terminale passivo» di una politica d’intervento. Una politica preventiva valorizza una serie di interventi sociali quali l’informazione, l’aspetto psicologico, l’attivazione e il cornordinamento di interventi volontari, l’utilizzo possibile di ricoveri temporanei, di centri diui, che potranno consentire all’anziano e ai suoi familiari di condurre un’esistenza vivibile, protetta sufficientemente, ma aiutata nei momenti di emergenza.

Il nuovo millennio si è aperto, dal punto di vista legislativo, con l’emanazione di una nuova legge per la realizzazione di un sistema integrato di interventi sociali e sanitari, la legge quadro n. 328/2000. Essa tutela il diritto soggettivo dei cittadini di beneficiare di prestazioni non solo di natura economica, ma più estesamente sociale (art. 2), proponendosi di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i cittadini alla vita del paese.
Il principio sottostante è la sussidiarietà in base al quale convergono e collaborano attori sociali, pubblici e privati, impegnati nella promozione e tutela del diritto di cittadinanza di ogni singolo individuo. Ciò segna il passaggio dal sistema dei servizi sociali pubblici (DPR 616/77) al sistema di interventi e servizi sociali a rete, in cui l’offerta di servizi nasce da una programmazione partecipata, segnata dalla presenza congiunta ed integrata di soggetti istituzionali diversi ed organizzazioni che non abbiano scopo di lucro. Questo cambiamento di logica riconosce un potere alla persona e nel nostro caso alla persona anziana che potrà finalmente accedere direttamente ad una serie di informazioni e di prestazioni utili ad una serena esistenza. •

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ISTRUZIONE ALL’USO DEI SERVIZI SOCIALI

A chi chiedere

Una persona in difficoltà e quindi anche un anziano può rivolgersi presso l’assessorato ai servizi sociali del proprio comune di residenza per chiedere il recapito dell’Ufficio di servizio sociale più vicino alla propria zona di residenza. Generalmente a questo scopo sono attivi numeri verdi (gratuiti). Esistono anche «Sportelli del cittadino» che, in città grandi come Torino, Genova, ecc., sono dislocati in diversi punti della città offrendo tutte le informazioni necessarie.
All’ufficio di servizio sociale occorre chiedere un appuntamento con un/una assistente sociale che equivale ad un primo contatto definito tecnicamente Colloquio di segretariato sociale. È questo il momento in cui si dischiudono le porte alla conoscenza delle informazioni, delle prestazioni e dei servizi già attivi sul territorio dove si risiede.
Per correttezza è bene chiarire che per le richieste specificamente di carattere sanitario come ad esempio l’istruzione della pratica per il riconoscimento dell’invalidità civile, esistono già da qualche anno sul territorio nazionale gli U.R.P. (Ufficio di relazioni con il pubblico) dell’Azienda sanitaria locale, dove è possibile avere a disposizione personale che affianca la persona in difficoltà nell’istruire la pratica stessa. Ovviamente questi ultimi uffici sono preposti per tutte le informazioni a carattere sanitario.

Cosa chiedere

È doverosa una premessa. Gli interventi di seguito elencati riguardano una serie di prestazioni previste per legge.
Ogni Regione, però, ha facoltà di agevolare maggiormente un tipo di prestazione e questo in base al prevalere di una determinata situazione di necessità rispetto ad altre Regioni, per cui può prevedere interventi innovativi che concorrono alla risoluzione della difficoltà insorta.
Le prestazioni universalmente riconosciute sono:
• Informazioni di carattere generale sull’assistenza agli anziani e informazioni su procedura per inserimento (anche temporaneo) di anziani in residenze protette e residenze sanitarie-assistite.
• Assistenza domiciliare diretta, foita direttamente dal Comune.
• Assistenza domiciliare indiretta, foita indirettamente attraverso Cooperative convenzionate.
• Assegno servizi: si tratta di un contributo economico sotto forma di assegno fornito dal Comune per sostenere parte dei costi, per esempio, di una eventuale badante. L’importo dell’assegno servizi è calcolato in base al reddito della famiglia.
• Affido anziani: accompagnatore/trice per anziani soli, bisognosi di compagnia e di svolgere qualche piccola attività (spese, accompagnamento a visite specialistiche e altro).
• Contributo economico: concesso in casi straordinari.
Quale documentazione presentare
Al primo colloquio è sufficiente esibire il proprio documento di identità.
Eventuali documentazioni aggiuntive verranno richieste dall’assistente sociale relativamente al tipo di prestazione scelta.
M.C.P.

Maria Cristina Pantone