DOSSIER ZAMBIAPaese di contrasti

Un ricco passato grazie alle miniere di rame, un povero presente a seguito di scelte politiche sbagliate, un futuro reso incerto dall’incidenza dell’Hiv: questo è lo Zambia, la cui capitale, Lusaka, è tutto e il contrario di tutto. Ville circondate da alte mura vivono accanto alle casupole dal tetto di lamiera. A separarle, le strade sterrate e piene di solchi dei compound, le bidonvilles africane, che i pulmini affrontano con sussulti e rigurgiti. Di là le belle case, con portico e giardino e norme igieniche adeguate. Di qua, una realtà fatta di privazioni: niente acqua potabile, niente luce elettrica, niente scuole, niente presidi sanitari. I bambini giocano con i piedi nelle fogne.
Non siamo nella periferia, siamo nel centro della città. La povertà dei quartieri di Matero, Lilanda, Kalingalinga… convive con la ricchezza di via dell’Indipendenza. Un’indipendenza doppia, perché questa parte si è affrancata prima dalla colonizzazione poi dalla miseria.
Ai lati delle strade la maggior parte della gente va a piedi, portando in testa un fagotto con l’essenziale. Povera umanità che percorre chilometri per andare al mercato; chilometri la mattina presto per andare a messa.
Uomini, donne e bambini sfilano silenziosi davanti alle vetrine delle concessionarie, che tengono in bella mostra gli ultimi modelli della Mercedes. Ma nessuno potrà mai permettersi un’automobile con l’economia informale: pochi frutti della terra venduti dietro a banchetti improvvisati o seduti sui marciapiedi. Il governo chiude un occhio sulle norme igieniche non rispettate, sulle licenze inesistenti. Le tasse nell’erario dello stato entrano grazie ai due enormi centri commerciali situati poco più in là. Vendono proprio di tutto. Uno shampoo costa sugli 8 euro; una famiglia del compound vive con meno di un euro al giorno.

Lo Zambia è un paese dove esiste la corruzione, ma esiste anche la denuncia. È un paese dove il gran numero di nascite non riesce a compensare la mortalità infantile; dove i bisogni minimi non sono assicurati. L’educazione pubblica si affianca a quella delle scuole parrocchiali; gli 8 euro all’anno a testa stanziati dal Ministero della salute sono un’inezia. Per fortuna ci sono i missionari e le organizzazioni inteazionali che cercano di garantire un minimo di assistenza sanitaria a tutti. I volontari suppliscono alla carenza di personale medico.
Prevenire l’Hiv è la parola d’ordine dei manifesti lungo le strade, ma non tutta la gente è in grado di leggere. Lo sanno bene i pubblicitari di professione; così, accanto, i cartelli che promuovono coca-cola e telefonini, utilizzano le immagini: donne fascinose dagli abiti eleganti. Anche questo stride.
Nei locali di ritrovo i ballerini coinvolgono il pubblico con i loro movimenti sensuali. Gli zambiani la musica ce l’hanno dentro. E la portano anche nelle chiese dove, con chitarre e maracas animano le messe. Al ritmo degli spiritual, esprimono la loro interiorità. Ecco che il profano ha lasciato il posto al sacro.

È calda l’estate zambiana, la terra inaridisce, la vegetazione appassisce. Fino a che sopravvengono le piogge torrenziali. Acqua, benedetta o maledetta. Quell’acqua, elemento primordiale che da sempre porta la vita, qui porta la morte, porta il colera.
Non c’è molto turismo in questo paese, ma non si può dire che non ci sia scelta. Chi va in ostello e chi all’Hotel Continental, solo 400 stanze e un ingresso fiabesco. E per chi ancora non si accontenta, basta scendere a Livingston: 600 chilometri ben vengano per dormire all’Hotel Royal, 600 euro a notte, naturalmente sempre a un passo dal compound. Nell’hotel i bianchi, nel compound i neri.
Lo Zambia è un paese complesso. Secondo un missionario servono almeno tre anni per raccapezzarsi: il primo si impara a respirare; il secondo a capire; il terzo si può cominciare a fare qualcosa.

Romina Gobbo




DOSSIER ZAMBIAPaese dei balocchi

A pochi passi dal centro di Lusaka, sorgono quasi una di fronte all’altra due imponenti costruzioni, circondate da un mare di automobili. Sono Shoprite e Arcades due centri commerciali più esclusivi della capitale. Accolgono nelle loro modee strutture negozi di ogni genere, farmacie, supermercati e persino, nel caso di Arcades, l’unica pista da bowling di tutta la città. Un autentico «paese dei balocchi».
Shoprite, catena sudafricana di supermercati che ha invaso lo Zambia, è una brillante espressione di quella che viene definita «economia formale», ovvero l’economia delle imprese, banche, negozi, liberi professionisti, lontana anni luce dall’economia «informale», fatta di mercati sulla strada e di prezzi improvvisati, cui si affidano la maggior parte degli zambiani.
Jeep, berline, auto sportive affollano i parcheggi. Sono le auto della «Lusaka bene»: politici, uomini dell’alta finanza, funzionari di ambasciate e Ong, medici affermati e banchieri. A Shoprite possono trovare di tutto, dal pacchetto di caramelle alla villa con piscina nel verde della savana, dal set da golf alle vitamine per il cane. Arrivano con i loro fuoristrada, parcheggiano e si affrettano all’interno del centro commerciale.
Fuori dal parcheggio, alcuni fra i venditori di strada li seguono con lo sguardo finché varcano le porte dello Shoprite. È la loro presenza, non i cartelli luminosi, a indicare la vicinanza del centro commerciale. Più ci si avvicina alla struttura più il numero di tali venditori diventa consistente. Arrivano a piedi o a bordo dei tipici furgoncini blu e si appostano in fila lungo la strada di accesso al parcheggio.
Stanno al loro posto, mai si azzarderebbero a entrare in quel paradiso dello shopping. Costretti a vivere con 40 euro al mese e schiacciati da un’inflazione al 20%, si concedono almeno il «lusso quotidiano» di osservare: guardano chi entra e chi esce, al momento opportuno si avvicinano a turisti e uomini d’affari. Propongono giornali, frutta, occhiali da sole, un passaggio in taxi, una coca cola, vestiti e accessori. Se va bene intascano pochi spiccioli e la sicurezza che «anche oggi si mangerà qualcosa»; se va male si preparano a rincorrere il prossimo cliente.

Se non fosse per i prezzi in kwacha, entrando a Shoprite ci si dimenticherebbe di essere in Zambia. Tutto ricorda i grandi centri commerciali europei. I turisti lo frequentano volentieri, perché vi trovano tutti i prodotti a loro familiari.
Tra i numerosi negozi presenti troviamo una delle farmacie più foite e costose di tutto lo Zambia. Qui possiamo trovare qualsiasi tipo di medicinale, non solo per gli uomini ma anche per gli animali: su uno scaffale di legno troviamo vitamine, confezioni di shampoo, balsamo e lozioni per cani e gatti. Accanto scopriamo tutto il necessario per gli atleti: integratori, sali minerali, persino pastiglie di creatina e aminoacidi. Non mancano cosmetici e prodotti di bellezza.
Una confezione di crema solare costa 95 mila kwacha, circa 16 euro, tanto quanto guadagna mediamente un operaio in 6 giorni. Tutto questo in una regione dove è presente un solo ospedale distrettuale statale situato nella vicina città di Kafue che da solo deve rispondere alle esigenze di 240 mila persone.
Percorrendo il corridoio principale del centro commerciale, sorvegliato da guardie armate, scorgiamo un negozio di elettrodomestici, un bar, una giornielleria, alcuni negozi di vestiti, un centro per l’abbonamento alla tv satellitare e una banca. Alcuni dei «miti» che fanno ormai parte della fantasia dei bambini dei paesi ricchi sono sbarcati anche qui: l’uomo ragno e tutti i suoi gadget fanno la loro bella figura nel reparto giocattoli. I bambini più «fortunati» possono persino aspirare a una Ferrari telecomandata. Un «lusso» da 470 mila kwacha, circa 78 euro.
Alla cassa una signora bionda sistema le borse nel carrello ed esce dal supermarket. Sale sulla sua auto e si dirige velocemente verso l’uscita. Passa accanto ai venditori che gli porgono i loro prodotti e si immette nella strada principale, inconsapevole di aver varcato ancora una volta il confine tra due mondi.

Per trovare un po’ d’Africa non resta che andare nel negozio di Cd (a onor del vero, vende più cassette che compact disc): tanta musica tradizionale e tanti artisti locali. Fra tanti nomi per noi semisconosciuti spuntano i Beatles e, a sorpresa, Andrea Bocelli.
Poco distante, il centro scommesse richiama curiosi e affezionati: sul muro, un manifesto invita a partecipare al concorso che sceglierà il volto della campagna pubblicitaria di una nota marca di cellulari. Al negozio di articoli sportivi si possono trovare le magliette dei più famosi club sportivi inglesi, accanto a palloni da rugby e mazze da cricket. Proprio di fronte, l’agenzia immobiliare promette ville da sogno appena fuori città. Piscina, ampi giardini, in un caso persino la dependance per la servitù.
Michele Luppi – Roberta Voltan

Michele Luppi – Roberta Voltan




DOSSIER ZAMBIAIl treno della globalizzazione

La business community zambiana, formata da uomini e donne d’affari, dipinge il paese come un cantiere aperto, dove le possibilità sono molte e i progressi tangibili. Ma dietro al 5% di crescita del Pil, si impongono altri numeri, con cui 9 milioni di zambiani su 10 devono fare i conti.

«Benvenuti in Zambia, paradiso degli investitori. Lusaka Stock Exchange, un motore della crescita economica. Diventa azionista oggi!». La borsa di Lusaka vuole fare colpo su chi conta. Per questo ha comprato lo spazio pubblicitario sopra le casupole del controllo-passaporti all’aeroporto di Lusaka. Le valigie arrivano subito, i carrelli sono lì, pronti. Al tavolo dei finanzieri si aspetta pochissimo e la domanda «qualcosa da dichiarare?» è più che altro una formalità. Di militari, neanche l’ombra. Pochi e defilati i poliziotti.
Fuori, nel parcheggio e tra le aiuole, i taxi blu sono a disposizione per portarti in centro. Lungo il percorso dall’Airport road alle vie commerciali che sfociano nella centralissima Cairo road, c’è una sfilata di cartelloni pubblicitari. Fondi pensione, servizi finanziari e assicurazioni offrono alti rendimenti e un futuro tranquillo a chi rientra nell’esclusivo club di chi ha soldi.

PARADISO DEGLI INVESTITORI

E ci sono anche le pubblicità dei telefonini, della fresca birra Mosi e della Parmalat, mentre la Chilanga Cement esibisce un possente operaio culturista, pronto a cementificare tutto il paese. Questi cartelloni sono l’emblema di un’economia dinamica, in costruzione, di un’Africa che non vuole arrivare in ritardo, ma competere e sedersi al banchetto dell’economia globale.
Sono più di 10 anni che nel paese c’è un’economia di mercato. La business community zambiana, formata da uomini e donne d’affari, dipinge il paese come un cantiere aperto, dove le possibilità sono molte e i progressi sono tangibili. E anche remunerativi.
Girando il paese questa verità viene fuori, come la faccia luminosa della luna. Il prodotto interno lordo annuale è di oltre 4 miliardi di dollari. Secondo i calcoli dell’ultima legge finanziaria, nel 2004 il Pil ha quasi replicato la crescita dello scorso anno pari al 5%, un tasso che desterebbe l’invidia di molti governi del nord del mondo, e che non sembra destinato a scendere.
«Negli ultimi anni l’economia è migliorata. Stanno arrivando più investitori stranieri e prodotti di alta qualità, che competono con quelli locali» dice Sherry Thole, direttore generale della banca Intermarket, accogliendoci nella sala consigliare ovale al primo piano della Farmers House. Il palazzo è in pieno centro. La sala è piacevolmente climatizzata e attraverso il vetro fumé si intravvede scorrere il traffico polveroso.
È dal 1991 che in Zambia è stata introdotta un’economia di mercato, ci spiega. Prima c’era un sistema socialista. Poi le imprese statali sono state smantellate da un massiccio programma di privatizzazioni e i gruppi stranieri, sudafricani in primis, sono quelli che riescono a cogliere meglio le opportunità di investimento. Inoltre, i tassi di interesse sono scesi e ora consentono alle imprese di ottenere prestiti a costi ragionevoli.
Faustine Kabwe, fiscalista e consulente di livello internazionale, è ottimista circa le prospettive di crescita del suo paese e dell’Africa in generale. «Investire in Africa – dice – è estremamente profittevole». Ovviamente anche lui parla dell’economia emersa; di quella misurabile dalle statistiche. Di quella che si quota al Lusaka Stock Exchange (Luse).
I settori che oggi trainano l’economia sono il turismo (ne è un esempio il boom che sta attraversando la città di Livingstone, l’ex capitale che ora sembra rivivere una seconda primavera); l’agricoltura con il fiorente business dei fiori per l’esportazione; e anche le miniere di rame che beneficiano del recente recupero dei prezzi.
Stando alle classificazioni settoriali dell’ufficio di statistica, nel biennio 2003-2004, il settore costruzioni ha evidenziato una crescita di oltre il 30%, seguito dall’industria estrattiva e del cemento (+17%), dal comparto manufatturiero (+12,7%), mentre il settore turistico, alberghi, bar e ristoranti inclusi, è salito del 12%. Fanalino di coda, con un più 2,2%, sono i servizi sociali e alla persona.

L’ECONOMIA INFORMALE

Ma la luna ha anche una faccia oscura, che in questo caso è molto più grande di quella che brilla. Dietro a questo 5% di crescita del Pil, si impongono infatti altri numeri che danno presto l’idea della difficile realtà con cui 9 milioni di zambiani su 10 devono fare i conti.
Il tasso di disoccupazione oscilla tra il 60 e l’80% e il costo della vita raddoppia ogni 5 anni. I contrasti restano forti, perché l’economia di mercato è riuscita ad apportare i suoi benefici solo a pochi.
La Thole, sui quaranta, donna raffinata, studi universitari, una carriera che l’ha vista lavorare nella Banca centrale e nel colosso finanziario britannico Barclays, è tra questi pochi. Lo è anche Kabwe, con una vita tra Londra, Lusaka e New York. Entrambi fanno parte della classe dirigente del paese, di quelli che hanno un posto prenotato sul treno della globalizzazione.
Ma la gente comune sta fuori, aggrappata alle carrozze: per vivere si arrangia, giorno per giorno. Si chiama economia informale. Per incontrarla basta uscire da Farmers House e percorrere Cairo Road, la strada che nei disegni coloniali doveva unire Il Cairo a Città del Capo. A ogni angolo c’è qualche donna avvolta nel chitenge (il vestito tradizionale), che vende pomodori, manghi, o altre piccole cose.
Al City Market, il mercato coperto di Lusaka, sciami di giovani ragazzotti smerciano sacchetti di plastica, con su stampata l’effigie di Rambo. Mentre c’è anche chi passa la giornata in un colorato chiosco di legno, dove affitta il suo telefono cellulare. Vicino alla ferrovia o lungo le strade si incontrano le donne spaccasassi. Loro per vivere spaccano pietre per fare la ghiaia. Sono l’ultimo anello di quella catena che è la fiorente industria delle costruzioni.
Ma anche chi trova un posto di lavoro sicuro, non può stare tranquillo. Henry Mwango un tempo era impiegato all’Olivetti. Aggiustava macchine da scrivere ed era felice. Poi l’azienda ha chiuso i suoi uffici in Zambia e lui si è trovato solo a fronteggiare il grande salto tecnologico verso il personal computer. Non ce l’ha fatta. Da più di dieci anni è disoccupato.
La maggior parte delle famiglie vive con un reddito estremamente basso. I soldi che entrano sono spesi in gran parte per mangiare, poi viene il resto. E spesso i primi a fae le spese sono i bambini. «Non ho i soldi» è la risposta di Susan Mwandu per spiegarci perché non riesce a mandare a scuola tutti i suoi 9 figli. Lei deve occuparsi anche della madre malata, due nipoti e il marito disoccupato. I pochi euro al giorno della sua attività di venditrice di pomodori non bastano.

DAL SOGNO SOCIALISTA DI KAUNDA
ALLE PRIVATIZZAZIONI DI CHILUBA

La storia economica dello Zambia, come paese libero dal dominio coloniale britannico, comincia 40 anni fa. Le condizioni generali non potevano essere più favorevoli: lotta per l’indipendenza breve e poco cruenta, prezzi del rame altissimi, consistenti aiuti inteazionali.
In questa situazione il padre della nazione, Kenneth Kaunda, poté fare pesanti investimenti nell’educazione e nel sociale. Kafue con la sua industria chimica che garantiva occupazione per tutti era una città modello. Vivibile e ordinata. Le miniere statali nel Copperbelt, oltre a dare lavoro, costruivano ospedali, strade, e scuole per la popolazione.
Ma il «sogno socialista» di Kaunda non durò molto. Negli anni ‘70 i prezzi delle materie prime, tra cui il rame (vitale per lo Zambia), crollarono, mentre le tensioni geopolitiche inteazionali spingevano il petrolio alle stelle.
L’impatto fu devastante per tutti i paesi dell’Africa, impegnati in quegli anni nella titanica impresa di diversificare la propria economia, per coniugare l’indipendenza politica con quella economica. In Zambia, le politiche di spesa pubblica continuarono, alimentandosi con deficit sempre maggiori. Alla fine degli anni ‘80 il debito pubblico era salito a livelli insostenibili.
Nel 1991 con l’avvento del multi-partitismo, il nuovo presidente, il sindacalista Frederick Chiluba, diede avvio a un aggressivo e controverso piano di privatizzazioni. Il paese si è aperto così ai capitali e alle merci straniere. Sotto le pressioni del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, miniere, industria del cemento e altri pezzi dell’apparato parastatale furono ceduti ai privati. In qualche caso vi furono delle vere e proprie liquidazioni.
Quel che ne seguì fu un rapido aumento della disoccupazione e un allargamento del divario tra poveri e ricchi. Oggi gli impianti chimici di Kafue sono pressoché improduttivi, mentre nei compound di Ndola e Kitwe, nel Copperbelt, i servizi sociali e pubblici di una volta non sono che un miraggio.

PRIVATIZZAZIONI SOTTO LA LENTE

Nel 1992 nasceva la Zambian Privatisation Agency (Zpa), l’ente per le privatizzazioni. Da allora più di 250 società pubbliche sono state cedute. Ma l’attività della Zpa va avanti e rimane ancora un lungo elenco di aziende in vendita: telecom, azienda elettrica, poste, alcuni tratti di ferrovia, assicurazioni…
È la Zpa che dà il via libera a ogni transazione e che affida a esperti (avvocati o altri professionisti) i negoziati con i privati. Il governo decide invece quali società pubbliche vendere e in che tempi. Dopo i negoziati, il team di esperti fa una raccomandazione che la Zpa generalmente approva, tenendo conto del prezzo, competenze e altri fattori.
Finora il bilancio economico delle privatizzazioni è contrastato. Talvolta l’azienda da cedere era talmente malgestita che era difficile trovare un compratore, ma in altri casi la fretta ha portato a delle vere e proprie svendite. Il caso più eclatante di regalo fu quello del cemento: la Chilanga Cement. Ora l’industria cementifera è controllata dal colosso francese Lafarge, che comprò nel 2000 dalla CDC Capital Partners, che a sua volta aveva comprato a un prezzo stracciato. Ora Lafarge detiene un’importante fetta del settore cementifero dell’Africa australe. Altra svendita fu quella della compagnia dello zucchero. Adesso è in mano ai sudafricani.
Menzione a parte meritano le miniere di rame, pilastro dell’economia zambiana. Esse furono cedute in ritardo a causa delle loro implicazioni sociali, ma soprattutto per i delicati equilibri politici che celavano. Quando vennero vendute, però, era veramente il momento sbagliato. I prezzi del rame erano vicini ai minimi storici.
Anche i più convinti assertori dell’economia di mercato ora lo riconoscono e fanno luce sulle pressioni degli organismi inteazionali. La Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale erano creditori del governo e non avevano più intenzione di concedere ulteriori finanziamenti. Visto che il bilancio pubblico era in perdita, era necessario che il governo trovasse in fretta altre risorse per ripagare i propri debiti. La vendita dei giornielli di famiglia venne presentata come l’unica strada percorribile.

I PREZZI VOLANTI

I prezzi in Zambia sono un’entità fluttuante, sfuggente. Oggi con un’inflazione al 20% (in Italia è attorno al 2%) non può che essere così. Una decina di anni fa la situazione era anche peggiore.
La percezione del costo della vita dipende, però, da quanto si guadagna. Nel paese delle cascate e delle miniere, la gamma è molto ampia. Si va dalle diverse migliaia di euro al mese del funzionario dell’Unione europea ai 35 euro che un casual worker si deve far bastare per la moglie e i sei figli a carico. Un insegnante si prende 50 euro.
C’è poi una grande differenza tra chi guadagna in kwacha, la moneta nazionale, e chi in valuta estera. Chi ha dollari, euro o rand sudafricani non deve preoccuparsi più di tanto dell’inflazione.
Proprio l’incremento vertiginoso dei prezzi ha fatto diventare le monete di metallo una rarità: sono letteralmente sparite dalla circolazione. Di metallo sono rimasti solo i gettoni telefonici, ormai minacciati anch’essi di estinzione dal diffondersi dei cellulari. Gira soltanto carta, molta carta. Per comprarti un biglietto dell’autobus devi tirar fuori un malloppo di bigliettoni. Si va dal pezzo da venti ai tagli da cinquecento, mille, diecimila e cinquantamila kwacha. Un euro sono seimila kwacha, un dollaro circa quattromila.
Ma quanto costa la vita? Ancora una volta dipende. A Lusaka se hai la Visa, o l’American Express puoi andare nei centri commerciali Arcades o Shoprite. Altrimenti vai negli affollatissimi City Market e Soweto Market, per le strade o nei piccoli mercatini dei quartieri popolari. Qui si può contrattare.
La maggior parte delle persone in Zambia vive con quei 35-50 euro al mese, circa 200-250 mila kwacha. Con un reddito così, beni come un computer (20 mesi di lavoro), un set di mazze da golf (10 mesi), gioco della playstation (2 mesi), scarpe da calcio (1 mese), sono inaccessibili.
Quello che si può fare con un reddito così è affittarsi una casa in un compound. A Lusaka costa circa 50 mila kwacha al mese. Il resto viene speso per mangiare. Nshima (polenta) e fagioli sono l’alimento base. Con quello che avanza si possono mandare i figli a scuola. Ma non al prestigioso Baobab college, dove un trimestre costa oltre mille dollari. Ossia quattro milioni di kwacha. •

BOX 1
Spaccapietre

SPACCAPIETRE

Strade affollate, clacson che suonano, voci, e là, in mezzo alla gente, nella confusione, riesci a scorgere, quasi fossero celate da una tenda invisibile che le nasconde dallo sguardo dei curiosi, loro, quelle donne che con pazienza e dignità, ogni giorno, spezzano con un movimento sincronizzato le pietre che la loro terra regala o, a seconda dei punti di vista, loro sottraggono ad essa.
Sono centinaia le donne di Lusaka che si guadagnano il pane quotidiano con questo strano mestiere, spaccano pietre, in diversi formati, per venderle ai costruttori, 2.000 kwacha a sacchetto, (circa mezzo euro) così sfamano le loro famiglie, così passano le loro giornate, sotto un sole cocente, tra la polvere, colpendo ritmicamente con un martelletto le grandi pietre grigie, quel grigio che ricopre tutto e che contrasta con il colore della loro pelle, dei loro vestiti, dei loro sogni.

Elena Martelli

Danilo Masoni




DOSSIER ZAMBIAAids: generazione devastata

Nel 1999 il 20% della popolazione era infetta; solo l’1% può accedere alla cura antiretrovirale; 1 milione i bambini orfani a causa della malattia. La generazione tra i 25-40 anni è decimata.

Malata di tubercolosi, magrissima, Rose, 42 anni, non mangia perché non riesce a deglutire, spesso vomita. La figlia abita vicino, ma non va mai a trovarla. Si vergogna. Della tubercolosi? No! La tbc è probabilmente solo una complicazione dell’abbassamento delle difese immunitarie dovuto all’Hiv. In altre parole, dell’Aids, la nuova «peste» che sta devastando l’Africa meridionale, portandosi via piano piano tutte le risorse migliori.
Gli stati dell’Africa australe contano le più alte percentuali di infezioni da Hiv/Aids al mondo. Lo Zambia è uno dei paesi più colpiti. Il 42% delle donne in età fertile sono sieropositive, con alto rischio in caso di gravidanza. Il 90% dei bimbi sieropositivi contrae il virus dalla madre.
Fino al 1999 il 20% dell’intera popolazione dello Zambia era sieropositivo; oggi la percentuale è scesa al 16%: l’abbassamento è dovuto all’incremento dei morti, ma anche alla minore incidenza dell’infezione, grazie al molto lavoro di prevenzione fatto in questi anni, sia sul piano dell’informazione che su quello della prevenzione più strettamente medica.
Ma il rischio persiste, anche per tutti coloro che necessitano di sangue, perché i sistemi di trasfusione sono poco sicuri.

EMERGENZA SANITARIA

In Zambia la gente è abituata a convivere con la morte. L’età media della popolazione è 42 anni. Si muore per dissenteria, per un’eia, un’appendicite, di parto, per quelle che in Europa sono semplici indisposizioni e per complicazioni alle quali gli ospedali locali, per carenza di attrezzature o farmaci, non riescono a far fronte. La radiografia è rotta, il paziente muore. Il liquido della flebo entra in circolo troppo velocemente, il paziente muore.
Il 10% dei bambini non arriva a un anno; il 17% muore prima dei cinque, soprattutto per malaria (428 casi su mille) e tubercolosi (180 casi su mille). I bambini che riescono a sopravvivere spesso soffrono di patologie legate alla malnutrizione.
È l’emergenza sanitaria, alla quale lo Zambia deve fare fronte con 756 medici governativi (uno ogni 13.200 abitanti nelle città e uno ogni 40 mila nelle aree rurali; in Italia ce n’è uno ogni 100 abitanti) e 10.500 tra infermieri e paramedici (1 ogni 10 mila abitanti). Una delle tante conseguenze della povertà.
L’altissimo debito estero, oltre 7 miliardi di dollari, continua infatti a sottrarre fondi alle strutture sanitarie e sociali. Il bilancio del Ministero della salute per il 2003 è stato di circa 83 milioni di euro all’anno, 8 euro a persona.
Conseguenze sociali
Stigma e discriminazione non permettono a chi è sieropositivo di condurre una vita «normale». La generazione dei 25-40enni, quindi la fascia attiva e più colpita, è decimata, con conseguenze devastanti sui minori.
Negli ultimi anni il numero degli orfani in Zambia è aumentato a dismisura: oggi i minorenni che hanno perso uno o entrambi i genitori sono oltre un milione: il 10% del totale della popolazione. Di questi, circa 630 mila sono rimasti orfani a causa dell’Aids, che colpisce in particolar modo le persone fra i 25 e i 40 anni.
Più del 50% dei bambini senza genitori ha meno di 15 anni. Fra i bambini che frequentano la scuola, gli orfani sono il 48%.
Nel paese non esistono strutture destinate a ospitare i bambini che hanno perso i genitori: fino a pochi anni fa, erano i nonni o gli zii a farsi carico di loro, accogliendoli in famiglia. Oggi questo passaggio non è più «automatico»: il numero degli orfani continua a crescere e spesso le reti parentali non riescono a sostenere da sole tutti i bambini che si ritrovano senza genitori. Ci sono nonni che, ritrovandosi con cinque o più nipoti orfani, riescono ad accogliee in casa solo due o tre, lasciando «sulla strada» gli altri.
Le comunità parrocchiali si stanno interrogando sul «problema orfani» che si pone in questo momento con grave urgenza. Una delle risposte possibili è quella di affidare gli orfani a coppie o vedove che già hanno figli propri, ma che scelgono di «allargare» la loro famiglia. In cambio della loro disponibilità queste persone ricevono dalla parrocchia un contributo per poter sostenere i figli adottivi.

INIZIATIVE PROMOSSE

L’attenzione verso il problema dell’Aids è alta; numerose sono le iniziative sia da parte dello stato, per quanto riguarda le campagne di prevenzione, sia da parte della comunità sociale.
Tali programmi di prevenzione promuovono e incoraggiano l’apertura e il riconoscimento pubblico della malattia, ma c’è ancora molta strada da fare in tal senso. Non è raro che all’interno dello stesso nucleo familiare non si sia a conoscenza della malattia di uno dei membri. Soprattutto nelle zone rurali o nei compound, la malattia è tenuta ancora nascosta, sia per evitare di essere vittime di ghettizzazione, sia perché, dichiarando di essere infetti da tubercolosi (prima e quasi certa conseguenza dell’infezione) e non da Hiv, si è certi di accedere al programma nazionale almeno per la cura della Tbc.
Alle carenze dello stato tentano di supplire le organizzazioni di volontariato e i missionari. Si occupano degli orfani, organizzano scuole comunitarie per garantire l’istruzione di base, aprono ospedali, promuovono campagne di informazione contro l’Hiv, sostengono i care giver, i volontari locali che 2-3 volte a settimana percorrono chilometri a piedi per dare assistenza a domicilio ai malati cronici.
Per fortuna la Zambia ha i suoi angeli custodi (vedi riquadro). Ne abbiamo incontrati due: Astrid Paganini e suor Egidia Di Luca, francescana missionaria, infermiera, presente dal 1960.
Suor Egidia è la responsabile dell’unico ospedale ortopedico, situato nella capitale Lusaka. «Abbiamo cominciato nel ‘95 con 6 posti letto: ora sono 40 – spiega -. Dal 1995 a giugno 2004, sono state effettuate 5.500 operazioni. Ai malati diamo cibo e assistenza, a volte anche il trasporto per riportarli a casa. Per i bambini è tutto gratuito. Facciamo anche le protesi».
Astrid, medico, presente dal 2003 con il marito e i quattro figli, lavora volontariamente nell’ospedale distrettuale governativo di Kafue, a un’ora di strada da Lusaka. Le domandiamo come si difende il paese dall’Aids. «Si promuovono molte campagne di sensibilizzazione, anche le strade sono piene di cartelli informativi, ma non è facile, perché prima di tutto si tratta di un problema culturale. La gente sa che può evitare il contagio con il preservativo, ma lo usa troppo poco. Innanzitutto, perché impedisce la procreazione. Poi perché è difficile associare un atto con una malattia, che magari si manifesta molti anni dopo.
Le conseguenze non sono immediatamente evidenti. A volte chi decide per il test è già all’ultimo stadio e non possiamo fare più nulla. Ma anche verso il test c’è una certa disaffezione. Le donne temono le ire dei mariti che, in caso di sieropositività, le accuserebbero sicuramente di infedeltà coniugale. La morte, poi, in ogni caso, arriva in giovane età. La si accetta con serena rassegnazione. Per la gente sapere che è sopraggiunta a causa dell’Aids o di qualcos’altro è uguale. Anzi, a volte preferisce che l’Aids non venga diagnosticato, perché servirebbe solo a provocare depressione, viste le difficoltà di cura.
Nel paese solo 15 mila pazienti, l’1% di tutti i malati, sono curati con farmaci antiretrovirali, in grado di rallentare la progressione della malattia. Ogni ospedale aderisce a un programma per ridurre la trasmissione del virus da madre a figlio; questo tipo di cura nel 50% dei casi ha successo, ma è molto costosa. Un mese di cura per una persona costa 8 dollari, sempre troppo per una popolazione il cui 75% vive con meno di un euro al giorno.
I tre pilastri su cui si basano le campagne di prevenzione sono: ABC, ovvero A come astinenza; B come be faithful (fedeltà coniugale); in ultima istanza, C come condom. Bisognerebbe cominciare nelle scuole a insegnare la prevenzione; e bisognerebbe utilizzare maggiormente il counseling, servizio di consulenza per le coppie, visto che l’Hiv ha molte implicazioni, non solo legate alla salute, ma anche all’impatto sociale».
Il governo ha diviso lo Zambia in distretti sanitari, a ognuno dei quali destina mensilmente dei soldi. C’è un ufficio distrettuale dove sono situate la direzione generale e la logistica. In ogni distretto ci sono alcuni health centers, che funzionano come i medici di base. Rappresentano il primo gradino del sistema sanitario al quale ci si deve sottoporre obbligatoriamente. Solo se non si è riusciti a risolvere il problema lì, si ricorre all’ospedale.
Una «piaga» dello Zambia è la cosiddetta «fuga dei cervelli». Medici e infermieri sono attratti dagli stipendi più elevati offerti dai paesi circostanti e anche dall’Europa. Chi rimane, o è professionalmente meno bravo, o comunque è meno motivato.
L’ospedale dove opera Astrid è l’unico in un distretto di 240 mila abitanti. Vi lavorano 110 persone tra personale sanitario e non. La struttura è sorta nel settembre 2003 per volere di don Antonio Novazzi e della comunità. Accoglie, in quattro reparti distinti, uomini, donne, bambini e puerpere. Nonostante questo, il 50% delle donne ancora partorisce in casa con l’aiuto di altre donne. Ci sono: laboratorio, radiologia, sala operatoria, cappella per i funerali, perché sarebbe molto più oneroso per i familiari trasportare i morti altrove.
Facendo di necessità virtù, don Antonio ha avviato una falegnameria, dove vengono costruite bare e vendute a costo simbolico, così che tutti possano avere una sepoltura dignitosa. Lavorare in questa terra significa anche questo.

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WILLY AMISI

Il giorno della laurea erano in 84, ora in Zambia sono rimasti solo in 12. Gli altri colleghi hanno lasciato il paese, preferendo Europa e Stati Uniti.
Epidemiologo, 33 anni, madre congolese e padre zambiano, sorriso aperto, il dott. Amisi ha fatto gli studi superiori in Belgio, dove ha trascorso l’adolescenza al seguito del padre diplomatico. Ha una laurea in medicina, conseguita all’Università dello Zambia in 6 anni anziché nei 7 di corso, una specializzazione in epidemiologia, ottenuta in Giappone grazie a una borsa di studio.
«Dopo aver visto tanti paesi e conosciuto diverse realtà, ho deciso di tornare a esercitare la professione di medico in Zambia». Se gli si chiede il perché, il suo sorriso diventa più luminoso: «Devo essere onesto: questa è la mia patria e questo è il mio paese, mi sembra giusto stare qui. Ma soprattutto qui ho possibilità che altrove i miei colleghi non hanno».
Il suo stipendio è molto più basso di quello di un medico che eserciti in un ospedale europeo, ma qui egli ha la possibilità di fare ricerca. Inoltre è membro della Southen Africa Hiv Clinic and Society, associazione professionale che decide sui protocolli di trattamento dei malati di Aids, terapie e distribuzione delle medicine nella zona dell’Africa meridionale, membro di vari comitati e associazioni sanitarie nazionali.
«Lo so – dice sempre senza malizia -, forse un discorso del genere mi fa sembrare un imperatore. Una volta laureato ho fatto un anno di inteato presso l’ospedale universitario di Lusaka. Avevo scelto: avrei esercitato in una realtà statale o comunitaria. Volevo avere contatto con la gente che quotidianamente si rivolge a un ospedale. La situazione sanitaria dello Zambia è grave, moltissimi sono i malati di Aids e coloro che arrivano in ospedale quando è troppo tardi o che non arrivano affatto. Il mio lavoro vuole soprattutto basarsi sulla prevenzione. È mia ambizione portare la salute prima che la gente si ammali. In Africa non basta curare; bisoga fare in modo che sempre meno persone si ammalino».
Poi il volto di Willy Amisi si oscura un poco: «Ho scelto il mio paese perché credo fermamente che altrove non potrei stare bene come qui, perché credo che il mio destino mi voglia qui; ma vedo in Zambia tanti problemi che stentano a trovare una soluzione. Mancano farmaci, strutture, infermiere, ma si assiste a grandi sprechi. C’è chi ha grandi automobili e chi non può pagare le medicine, chi muore perché non c’è il farmaco che lo curi. Amo la politica privata e far sapere la mia opinione, ma non amo i partiti e la politica politicante, non è quella che farà il futuro dello Zambia».

Benedetta Musumeci

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Angeli custodi
Astrid Medema è nata in Olanda 38 anni fa. Sposata con il milanese Franco Paganini, madre di 4 figli, medico dal 1992, con un corso di formazione per lavorare negli ospedali rurali del Sud del mondo, è in Zambia dal settembre 2003, dopo una precedente esperienza nel 1995. Conta di fermarsi nel paese per 2-3 anni.
Un bell’impegno per una madre di quattro figli.
«Ancora prima di scegliere di fare medicina, sapevo di voler andare nel Sud del mondo. L’ho messo subito in chiaro quando ho incontrato mio marito. E lui mi ha capito. Ai figli qualche volta mancano l’Italia, i nonni, la televisione… ma si sono integrati bene. Vanno a scuola con i ragazzi del posto, hanno i loro amici».
Cosa significa essere medico in un paese del Sud del mondo?
«Mi piace molto il mio lavoro e sono convinta di essere molto più utile qui che in Europa. È dura, perché il carico di lavoro è enorme. Siamo solo due medici nell’ospedale e facciamo un po’ di tutto, dalla logistica alla contabilità. Poi c’è l’aspetto psicologico. Ci sono situazioni per le quali non ti senti all’altezza. Vedi persone che muoiono quando sai che in altri paesi si potrebbe salvarle. Allora ti senti addosso una grande responsabilità. A volte ti scoraggi, perché mancano i mezzi; tante volte mi è capitato di piangere perché non ce l’ho fatta. A forza di rapportarsi alla morte, si diventa più duri, più cinici. Altrimenti non si potrebbe continuare a lavorare. Ma se uno sceglie medicina, dovrebbe venire qui a svolgere il suo lavoro. Qui se non ci sei tu, non c’è nessun altro».

Suor Egidia Di Luca è in Zambia da 44 anni. È arrivata nel febbraio 1960 quando aveva appena 19 anni. È originaria di San Cipriano d’Aversa (CE) e dal 1958 appartiene alla congregazione delle suore francescane missionarie di Assisi. Partita da Venezia in nave con due consorelle, è giunta a Beira in Mozambico dopo 19 giorni di navigazione. Un viaggio lungo e disagevole e pochissime informazioni sulla destinazione.
L’impatto con l’Africa è stato duro?
«Non conoscevamo la lingua; eravamo in una casetta nella foresta, senza luce, con pochi farmaci e tantissima gente che veniva a farsi curare. Di giorno eravamo infermiere e di notte sarte, per vestire i bambini, quasi tutti nudi. Ci sono stati anche momenti brutti. In un periodo venivamo continuamente attaccate: rubavano, ci tagliavano i fili del telefono… Quella volta ho rischiato l’esaurimento e sono tornata in Italia per un po’. In Italia ho avuto un incidente gravissimo: quattro mesi di ospedale e un anno per riprendermi. Mi sconsigliavano di tornare in Africa, ma questa è la mia casa».
Grazie al diploma di infermiera, dal 1995 suor Egidia gestisce l’unico ospedale ortopedico dello Zambia, che si trova nella capitale. «Quando mi sono ripresa dall’incidente, sono ripartita. Arrivata qui, ha cominciato a farsi strada l’idea dell’ospedale. Abbiamo acquistato un edificio dell’ex presidente Kaunda e poi, un po’ alla volta, l’abbiamo fatto ristrutturare. Le prime operazioni i medici le facevano in ginocchio, per terra. Poi le cose sono migliorate. Abbiamo avuto molti contributi dall’estero».
Una vita lontana dal paese di origine e dai propri cari, mai pentita?
«Ora che sono anziana (64 anni, ndr) sento di più la fatica, ma non mi sono mai pentita della scelta. Quando ho deciso di partire avevo 19 anni e i miei genitori non erano d’accordo. Il distacco è stato difficile; ero molto legata a mamma e papà. Quando la nave si è staccata dal porto sembrava che mi si spezzasse il cuore. Mio padre mi guardava impietrito. Poi, nel tempo, è passata. Ho trascorso quasi tutta la vita in Zambia, con tanta soddisfazione, anche perché la gente mi ha sempre voluto bene. Questo ospedale è tutta la mia vita».
Ro.Go.

Romina Gobbo




DOSSIER ZAMBIASolidarietà – Carezze a domicilio

Il programma di lotta all’Aids, promosso dalla diocesi di Lusaka, coinvolge migliaia di volontari.

Legato il foulard rosso sulla testa, sistemata la grossa borsa grigia sulla spalla, Mami Monica saluta la nipotina e si incammina lungo la strada polverosa. Questa mattina percorrerà a piedi 10 km, sotto la canicola africana, per portare aiuto alle persone che assiste nel suo quartiere. Questo non è per lei un giorno eccezionale, ma la normalità. Ormai da anni ripete gli stessi gesti due o tre volte alla settimana.
Mami Monica è una delle 75 caregivers (assistenti volontari) che a Kafue partecipano al Community Home Based Care Program (programma di assistenza domiciliare comunitario). Vi collabora dal 1993, quando, dopo la morte del marito si è trasferita a Kafue, dove oggi vive con la famiglia. Abita nel Chawama compound, un quartiere povero ma dignitoso, con piccole case di mattoni, circondate dagli alberi di mango, non ammassate ma disposte ordinatamente.
I l Community Home Based Care Program dell’arcidiocesi di Lusaka nasce ufficialmente nel 1994 per dare una struttura di cornordinamento a tutti i progetti nati spontaneamente sul territorio per combattere il dilagante problema dell’Hiv. Già alla fine degli anni ’80, infatti, all’interno di alcune comunità erano nati i primi gruppi di volontari che nel 1992 iniziarono le prime attività assistenziali. Due anni dopo, i responsabili sentirono l’esigenza di unificare gli sforzi, dando vita ad un unico grande progetto.
Oggi il programma è una realtà consolidata che conta sessanta sedi e coinvolge circa 3.500 volontari, offrendo assistenza domiciliare a 12 mila persone.
Il Community Home Based Care Program prevede 5 aree d’intervento: assistenziale, medica, formativa, amministrativa e assistenza agli orfani. Ogni area ha un suo supervisore.
«Il nostro obiettivo – afferma Kennedy Mpandamwike, responsabile del programma – è quello di fornire alla persona un’assistenza olistica (holistic care), ovvero un intervento che non mira soltanto alla cura fisica e materiale della persona, ma anche a quella spirituale e psicologica».
Un aspetto importante del programma è quello della prevenzione. È stato infatti attivato un progetto sul cambiamento delle abitudini, che prevede una formazione sulla sessualità responsabile. Le varie sedi sono legate alle realtà parrocchiali dell’arcidiocesi e sono gestite da un manager agent e da un cornordinatore.
L’organizzazione opera sul territorio attraverso dei volontari, i «caregivers». Ogni volontario assiste tre o quattro pazienti che visita regolarmente due o tre volte alla settimana. I volontari devono necessariamente operare nella zona in cui abitano. «È bello pensare che una persona si prenda cura di chi gli vive accanto – afferma Kennedy Mpandamwike -; questo ci permette di contare su persone che conoscono approfonditamente le situazioni in cui sono chiamati ad operare».
Il programma prevede la distribuzione gratuita di cibo e di medicine: le medicine per i malati di Tbc sono finanziate dall’Organizzazione mondiale della sanità. I volontari sono seguiti nella loro attività dai vari responsabili che organizzano momenti periodici di verifica. Alcuni di questi incontri prevedono attività di formazione con psicologi e religiosi.
Il personale del programma non è interamente volontario ma vi sono anche medici e infermieri stipendiati. A loro, però, è chiesto, prima di essere assunti, di svolgere tre mesi di volontariato in modo da iniziare a conoscere le dinamiche dell’organizzazione. L’intero progetto è finanziato da donazioni provenienti da varie Ong, come Cafod, Cristian Aid, Comice Relief (Inghilterra), Misereor (Germania), Catholic Relief Service (Usa) e Irish Aid (Irlanda).

A rriviamo alla casa di Mami Monica percorrendo la strada principale che collega Lusaka a Kafue. Poche centinaia di metri dopo il centro della città svoltiamo a sinistra imboccando una strada sterrata.
Mami Monica ci attende davanti alla porta di casa e ci invita ad entrare. Insieme a lei c’è Moses, un altro volontario. Ci accomodiamo nel piccolo salotto. Alle pareti sono appese le foto della sua numerosa famiglia (3 figli, 6 figlie e 24 nipoti), accanto al poster di Ronaldo.
«Non è facile trovare il tempo di assistere queste persone e per noi donne è ancora più dura, ma è una cosa che sentiamo dentro» ci confida Monica. Lei infatti, come la maggior parte delle donne di Kafue, è costretta a lavorare per poter sfamare la famiglia. Gestisce un piccolo banchetto al mercato del compound, dove vende legumi e pomodori.
Moses ci racconta del particolare legame che con il tempo si riesce ad instaurare con il paziente e i suoi familiari. «Quando vai da loro, gli dai la luce» ripete.
Seguiamo i due caregivers lungo la strada che porta verso Cassengere, il compound vicino a Chawama, dove si trova la casa della prima assistita: si chiama Rosebanda. L’abitazione è formata da un’unica piccola stanza, coperta da un tetto di lamiera, che rende l’aria soffocante. Ad attenderci sulla porta troviamo il marito e una vicina di casa. Entriamo nella stanza e troviamo la paziente seduta sul letto. È malata di Tbc e da alcuni giorni non riesce a mangiare. La Tbc ha attecchito facilmente nel suo corpo debilitato dall’Aids.
Monica si siede accanto a lei e le tiene la mano. Ad un tratto la donna comincia a piangere: la sua unica figlia, che vive a Lusaka, si rifiuta di venirla a trovare. L’Aids è ancora troppo spesso visto come uno stigma, una colpa, un qualcosa di cui vergognarsi. Monica cerca di consolarla sussurrandogli alcune parole all’orecchio. Non comprendiamo il senso di queste parole, ma il suo sguardo e le carezze sono quelle di una madre che accudisce il proprio bambino.
Dopo alcuni minuti Monica afferra la borsa ed estrae un pacco di farina arricchita con vitamine e zuccheri e lo consegna al marito della donna. Prima di uscire sostiamo un attimo in silenzio e Moses pronuncia una preghiera per la donna. «Signore ti preghiamo aiuta questa donna, sappiamo che a te nulla è impossibile» sospira a bassa voce.
Oltre a portare cibo e medicinali, insieme al sostegno psicologico, i caregivers aiutano i familiari dei malati nelle faccende domestiche. «Il nostro ruolo – spiega Moses usciti dalla casa – è sempre quello di mettere in contatto queste persone lasciate sole con i parenti. Vedere la famiglia che si riavvicina al malato è una cosa meravigliosa».

R iprendiamo il cammino lungo la strada in salita e arriviamo alla casa del secondo paziente. È assistita da una delle figlie, anch’essa malata di Aids.
Mami Monica e Moses si siedono vicino alla donna e conversano con lei. Quindi la caregiver estrae dalla borsa farina, medicine e un unguento e consegna tutto alla figlia. Dopo aver invocato l’aiuto di Dio, usciamo per continuare il cammino e visitare l’ultima casa.
Vi arriviamo in pochi minuti, ma la donna che dovevamo incontrare sta riposando. Monica decide di proseguire verso casa; ci toerà più tardi. Imbocchiamo un sentirnero in discesa che dalla collina ci riporta verso il nostro pulmino. Salutiamo e ringraziamo Mami Monica e Moses. Prima di lasciarci chiediamo a Moses qual è il significato della parola Chawama. «Cosa buona» risponde sorridendo. Non poteva essere altrimenti.

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JOHN HOSPICE

Al John Hospice si va per morire, ma si va anche per imparare a vivere. Per 4 mesi, uomini, donne e bambini vengono accolti nell’ospedale per affrontare serenamente la malattia in ogni stadio della sua evoluzione. I pazienti vengono curati e assistiti nello spirito che anima il progetto Kara Counselling.
Nato inizialmente come consultorio, questo progetto, di cui John Hospice fa parte, si è espanso fino alla creazione di ospedali che danno la possibilità ai malati più gravi di ottenere le cure necessarie a una degna sopravvivenza, o a una morte dignitosa, quelle cure che l’home based care non può arrivare a fornire.
Grazie al sostegno di vari donatori, come le fondazioni Elthon John, Bill Clinton, Christian Aid e Comice Relief, possono essere effettuate analisi, come i Cd-4, e somministrate medicine costose, garantendo un miglioramento delle condizioni del paziente.
«Sta molto meglio grazie alle cure, prima di venire qui era irriconoscibile» dice Josef, mentre accarezza i capelli della sua bimba di soli 4 anni, che porta ancora intorno alla bocca i segni devastanti della malattia. Tanti bambini come lei hanno riavuto la possibilità di vivere una vita normale, almeno per un poco. «Ma tra qualche giorno dobbiamo andare via e non ho più soldi per curarla» continua il padre.
L’Aids colpisce senza guardare in faccia nessuno: lo sanno bene i malati, i medici e i volontari al John Hospice; ogni giorno lottano per ridare un volto sereno alla vita e alla morte.



Michele Luppi




DOSSIER ZAMBIAGuardando al futuro

Con i missionari fidei donum ambrosiani

Arrivati nel 1961 nello Zambia (allora Rhodesia del nord), per prestare assistenza religiosa agli italiani impegnati nella costruzione della diga di Kariba, i missionari fidei donum della diocesi si sono presto occupati della popolazione circostante. Oggi sono presenti in sei parrocchie: due nella diocesi di Lusaka e quattro in quella di Monze.

«Essere cristiani è una cosa buona, importante, perché è Dio che ti dà la forza per risolvere i problemi» dice Mary. «Ogni mattina alle 6 vado a messa; se parto senza essere andata prima a messa è come se mi mancasse qualcosa» dice Sherry.

FEDE VIVA ED ENTUSIASTA


Mary e Sherry: due persone molto diverse. La prima è una povera donna che vende pomodori al mercato; la seconda, una ricca banchiera. Sono accomunate dalla fede intensa.
Questo è abbastanza consueto nello Zambia, «dove la fede è una cosa viva, capace di fare sacrifici, una fede che si entusiasma – spiega Olinto Ballarini, prete fidei donum della diocesi di Milano, nel paese da 14 anni e da cinque procuratore dell’arcidiocesi di Lusaka -. Qui, quando si celebra l’eucaristia, si celebra la vita».
«Questa gente vive la fede come qualcosa che riempie loro la vita – incalza don Antonio Novazzi, responsabile della parrocchia di Kafue, a pochi chilometri da Lusaka -. Gli zambiani pregano assieme con grande profondità ed entusiasmo. Quando assistono a una celebrazione eucaristica lo fanno con forte coinvolgimento interiore, ma anche in maniera attiva: ballano e cantano a gran voce».
La gente crede sinceramente, ma a volte le omelie non bastano. D’altra parte, una chiesa giovane come quella zambiana ha bisogno di diffondere il più possibile il proprio messaggio. Ha bisogno di visibilità, anche per manifestare la propria vitalità alle altre religioni che stanno prendendo piede. Servono immagini, segni, simboli. E che cosa c’è di più significativo di una chiesa?

PUNTO DI RIFERIMENTO

Per questo, nell’arcidiocesi di Lusaka, in Pope Square, proprio nel centro della città, sta sorgendo una cattedrale dedicata al Bambin Gesù. Ce ne parla don Olinto. «La cattedrale celebrerà la gloria di Dio, sarà il luogo del dialogo tra Dio e l’uomo, il centro della comunione di tutti i cristiani con il vescovo. Sarà un punto di riferimento per la comunità, che giornisce con gli sposi che si apprestano a celebrare il matrimonio e piange con i familiari che stanno vivendo un lutto. Per me la chiesa è un luogo di consolazione per gente che ha bisogno di essere rincuorata, motivata. Sarà la casa di tutti; il povero e il bisognoso troveranno in questo luogo supporto e consolazione. Qui ci si potrà donare agli altri, dare la vita per i fratelli. L’edificio sarà bello, fatto per aprire il cuore».
Con 22 metri di altezza, una superficie coperta di 2.400 metri quadrati, un’arcata di 15 metri e 2.000 posti a sedere, sarà anche maestosa. «Certo – riprende don Olinto -. Si dovrà vedere da lontano, come un faro che indica la direzione. Per questo, sulla sommità della facciata, è stata issata una croce in ferro alta sette metri e mezzo. La chiesa sarà anche molto luminosa, con la luce che entrerà dall’alto e si espanderà in tutto l’edificio. La forma ricorda due mani in posizione orante».
I lavori procedono abbastanza speditamente. Al momento della nostra visita (novembre 2004) sono al 60% dell’intera opera: fondamenta e sovrastruttura sono complete; travature in acciaio e tetto quasi sistemati; sono iniziati i lavori in muratura e sta per essere installato l’impianto elettrico; poi toccherà alle rifiniture. Buona parte del materiale in metallo, comprese le lamiere per la copertura, provengono dal Sudafrica. I portali e lavori in legno, invece, vengono dalla falegnameria della Saint Ambrose training center, una scuola di formazione professionale di Kafue gestita da volontari italiani.
L’altare fu realizzato in occasione della venuta di Giovanni Paolo ii nel 1989. Al santo padre l’arcivescovo di Lusaka J. Medardo Mazombwe chiese di benedire la prima pietra della cattedrale, la cui costruzione è iniziata poi ufficialmente nel 2000, su disegno dell’architetto Ron Kirby.
Simbolo nel simbolo è il crocifisso in legno di rose, che sarà situato dietro l’altare. Vi sta lavorando un giovane scultore locale, Charles Chambata. Il corpo del Cristo, nero, è deposto su una croce alta quasi due metri. Sul capo del Salvatore la corona di spine è in metallo.
La conclusione dei lavori della cattedrale è attesa per l’estate 2005. Il tempio sacro costerà un milione e mezzo di dollari. Contributi sono arrivati da organizzazioni inteazionali inglesi, italiane, tedesche, olandesi e dalla Conferenza episcopale italiana. Anche le chiese sorelle, le organizzazioni cattoliche, le parrocchie della diocesi, la gente zambiana hanno collaborato molto.

SPERANZA NEI GIOVANI

Nell’area circostante la cattedrale, saranno realizzati la curia, un teatro, un centro giovanile per 400 ragazzi, alcuni alloggi per studenti e gli uffici pastorali. Ci saranno anche una casa per i preti e una per i volontari. In questo complesso si svilupperanno attività sociali e culturali.
La diocesi di Lusaka, 62 mila kmq e 2,6 milioni di abitanti, conta oltre 850 mila cattolici, 4 vescovi (titolare e ausiliare e due emeriti), 800 tra preti e religiosi, 2 mila laici e 3,5 mila volontari locali, distribuiti in 55 parrocchie.
A queste, presto se ne aggiungerà un’altra. «Si chiamerà Saint Moritz, in ricordo di Maurizio, un giovane geometra di Como – racconta don Olinto -. In occasione di un suo viaggio in Zambia, un padre missionario gli aveva chiesto di disegnargli una chiesa e lui aveva abbozzato un primo progetto. Qualche tempo dopo la tragedia: si è inaspettatamente tolto la vita. Ho incontrato la mamma, qualche tempo fa, mi ha espresso il desiderio di quella chiesa. La stiamo realizzando».
La collaborazione tra la mamma di Maurizio e don Olinto rispecchia, sul piano privato, quella assolutamente vitale per lo sviluppo del paese subsahariano tra istituzioni locali e inteazionali. «Tutte le iniziative di solidarietà sono buone – continua il sacerdote -, non solo la cancellazione del debito, ma anche gli scambi commerciali».
Don Olinto, come vede il futuro? «La vera speranza di questo paese sono i giovani. Anche per quanto riguarda la salute della popolazione. A partire dai giovani che sopravviveranno all’Aids, verrà fuori una nuova generazione, più forte. Questa è la vitalità dello Zambia. Un fervore di cui la nuova cattedrale vuole essere segno evidente».

ARTEFICI DEL PROPRIO FUTURO

Dal centro di Lusaka ci spostiamo a Lilanda compound, un polmone della capitale che vive e respira indipendentemente dalla città. Quanti bambini corrono, sorridono, quanta vita per le strade sterrate, le piccole abitazioni, i baracchini dove si vende di tutto! Nel bel mezzo di questo mondo una scuola, un’aula colorata e accogliente, allegra, banchi e sedie nuovi, quadei, penne, stoffe, pennelli e pittura.
All’interno di Lilanda abbiamo conosciuto suor Rita Serao: è tra questi bambini che lei, suora comboniana, ha iniziato il suo progetto di scuola professionale per ragazze orfane tra i 15 e i 18 anni. «Creare la possibilità di un lavoro è ciò che può dargli la spinta per continuare a lottare e ad andare avanti anche in mezzo a molte difficoltà» comincia suor Rita a spiegarci lo scopo del suo lavoro nel compound.
«Sono le ragazze che educheranno i figli: introdurle nella società significa educare un’intera famiglia – continua la suora -. Dobbiamo dare loro un’educazione di base e insegnare un mestiere con il quale, uscite dalla scuola, potranno vivere; cercheremo di rendere le ragazze capaci di gestire una piccola attività, in modo da diventare indipendenti economicamente».
Il progetto è partito nel mese di novembre 2004; le ragazze sono circa 50 e l’obiettivo è formarle a livello umano, spirituale e accademico, cercando di far emergere i talenti artistici e le proprie predisposizioni, inoltre si propongono di creare borse di studio per ragazze orfane che non hanno ancora l’età per frequentare la scuola secondaria.
«La situazione di queste ragazze è spesso drammatica, troppo spesso sono vittime di abusi sessuali – spiega suor Rita -. Noi cerchiamo di dare loro anche un’assistenza psicologica e conduciamo una formazione di prevenzione contro l’Hiv, inoltre provvediamo a fornire loro un pasto giornaliero. Alla fine del corso, che durerà due anni, le ragazze riceveranno un’assistenza di micro credito per poter iniziare concretamente un’attività commerciale».
Tale progetto nasce proprio all’interno del compound, a stretto contatto con la vita quotidiana delle ragazze, del loro mondo; non vengono sradicate dalla comunità, ma hanno la possibilità di crescere e di essere educate proprio all’interno, là dove porteranno i frutti del loro studio e successivamente del loro lavoro.
A qualche chilometro dalla capitale, a Kafue, ce n’è un altro molto simile, gestito anch’esso da italiani: il Saint Ambrose training center (scuola professionale). La prima cosa che colpisce arrivando al centro è il laboratorio di falegnameria, i lavori dei ragazzi sono eccezionali, mobili di altissima qualità, creati con legname pregiato di cui lo Zambia è ricco: teck, ebano, rosewood.
Pietro Radaelli, volontario del Celim (Centro laici italiani per le Missioni, Milano), ci racconta il progetto di scuola creato a Kafue, in cui ragazzi e ragazze sono avviati al lavoro attraverso corsi di cucito, informatica, falegnameria, elettricità e meccanica.
«Quello che cerchiamo di fare – racconta Pietro – è insegnare loro un mestiere per avere uno sbocco nel mondo del lavoro; tutti gli insegnanti sono zambiani, molti dei quali usciti proprio da questa scuola. Il nostro obiettivo è quello di consegnare loro la gestione dell’istituto, entro il 2007, perché diventino essi stessi gli artefici del proprio futuro».

SCUOLA COMUNITARIA

A Kafue e Mazabuka i preti fidei donum di Milano gestiscono due Community School. Con questo nome si intendono scuole gratuite per bambini e ragazzi che non hanno la possibilità di pagarsi l’istruzione e che spesso provengono da situazioni difficili, nella metà dei casi sono orfani di entrambi i genitori. Benché non siano sovvenzionate dallo stato, le Community School sono riconosciute a livello nazionale: alla fine della terza media gli alunni affrontano l’esame statale, ricevono il diploma e possono accedere alle classi superiori.
Il problema dell’istruzione sta diventando sempre più grave in Zambia. Durante la presidenza di Kaunda, cioè fino alla metà degli anni ‘90 l’istruzione era gratuita e garantita a tutti; ora, invece, le scuole statali sono diventate a pagamento; inoltre gli studenti devono pagarsi la divisa e il materiale scolastico. Molti in questi ultimi anni hanno abbandonato gli studi e sempre meno famiglie riescono a mandare i loro bambini a scuola.
Nella scuola di Mazabuka abbiamo incontrato Brian, un ragazzo che, accompagnandosi con la chitarra, ci fa ascoltare la canzone che ha scritto per la sua patria nel 40° anniversario dell’indipendenza. Nelle sue parole traspare il senso di tanti suoi sacrifici e sofferenze.
Brian ha 18 anni; è orfano e, come racconta padre Maurizio Canclini, è determinato e testardo nel pretendere per sé un futuro migliore. Lo sta cercando e ottenendo proprio a Mazabuka dove riceve un’istruzione e affina le sue grandi doti di artista. Infatti, oltre a comporre canzoni, Brian ha dipinto i murales che abbelliscono le aule della sua scuola.
La scuola comunitaria di Mazabuka, piccola città a circa 200 km a sud di Lusaka, è un progetto per ragazzi orfani, con abitazioni ed edifici scolastici, gestito dal Coe (Centro orientamento educativo), un’associazione milanese di laici volontari cristiani impegnati nella formazione integrale degli adolescenti.
«È proprio in questo periodo – spiega padre Maurizio – che i ragazzi devono essere educati, non solo nelle materie scolastiche, ma soprattutto sui problemi della vita; per questo abbiamo deciso di fare campagne per la prevenzione del virus Hiv e sensibilizzare i giovani su questa piaga che ha lasciato senza entrambi i genitori la metà di loro».
La scuola va dall’asilo alle nostre medie; poi i ragazzi hanno la possibilità di proseguire con corsi di pittura, scultura o informatica, a cui possono accedere anche gli estei con il pagamento di 50 mila kwacha a livello (circa 10 euro). «Questo ci permette di raccogliere un po’ di fondi per la scuola – spiega padre Maurizio – e pagare i 22 insegnanti, tutti zambiani. La vendita delle opere prodotte nei corsi di arte ci consentono di pagare gli artisti».
La scuola comunitaria di Kafue, dove vive da tanti anni padre Antonio Novazzi, è un’altra storia. Nata negli anni ‘70 come città industriale modello, ma soffocata dai problemi causati dal crollo economico e dalle nuove leggi di mercato, Kafue rimane solo un sogno del passato; tante persone non hanno più speranza in un futuro migliore.
Molti giovani gravitano intorno alla parrocchia di padre Antonio e tanti hanno la possibilità di studiare grazie proprio alla Community School. «Le liste di attesa per entrare in questa scuola sono lunghissime: quasi 400 ragazzi studiano da noi – racconta padre Antonio -. Ma ci vogliono fondi per mandare avanti un progetto come questo. Scuole come queste nascono soprattutto dall’esigenza di dare un’istruzione ai ragazzi orfani, quindi l’insegnamento è gratuito; chiediamo solo una collaborazione nella realizzazione e nel mantenimento degli edifici scolastici sia da parte dei genitori, quando ci sono, che dei ragazzi. Inoltre, è nata l’idea di fornire un servizio a pagamento di mulino, per macinare il grano e il mais: oltre ad aiutare la scuola rende la comunità partecipe e responsabile delle attività».
La Community School di Kafue è nata nel 1999, quando padre Antonio chiese ai ragazzi che avevano terminato la scuola superiore di aiutarlo nell’insegnamento, coniugando così il loro lavoro con la solidarietà nei riguardi della comunità e dei propri figli. «Abbiamo cominciato a riunire gli alunni sotto una pianta – racconta padre Antonio -, poi sotto le verande e, dopo due anni, abbiamo deciso di raccogliere fondi per costruire una vera scuola: così è partito il progetto».
Benché la vita sia difficile per tutti in Zambia, per bambini e adolescenti essa non è affatto spensierata. Anzi, proprio alla loro età vivono i drammi più grandi, come la morte dei genitori, la malattia, la fame. È qui che entrano in gioco persone come padre Maurizio e padre Antonio, persone che spendono la loro vita per aiutare questi giovani a emergere dalla situazione in cui si trovano, a crearsi un futuro che, grazie anche a loro, potrà essere migliore.

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NON PIÙ ORFANI

Ha 48 anni e un sorriso che lascia il segno: è Theresa Chilesh. Quando ha saputo che la comunità di Kafue cercava persone disposte ad adottare bambini rimasti orfani a causa dell’Aids, si è subito offerta e, a ottobre 2004, è diventata la prima «abitante» del Children’s home village a Kafue: un villaggio destinato a ospitare coppie o vedove che scelgono di accogliere bambini rimasti senza famiglia e senza tetto. Altre coppie si preparano a occupare le altre case del villaggio in costruzione. Quando il progetto del villaggio sarà completato, ospiterà 50 bambini, distribuiti in 10 famiglie.
Nella sua casa, semplice, ma dignitosa, Theresa è la nuova mamma di Clifford, 11 anni, figlio di un suo fratello, e Maxwel, 9 anni, vissuto per un mese da solo nella foresta, rifiutato dai suoi nonni. A novembre è arrivato Gift, il più piccolo. È malato e la nuova mamma ne è molto preoccupata.
Theresa ci racconta pure la sua storia personale: sposata nel 1972, rimasta vedova nel 1992, si trasferì con i due figli a casa dei genitori. Quando il «pane» cominciò a scarseggiare, tentò la fortuna a Kafue. Qui è riuscita a sopravvivere raccogliendo il pesce che i pescatori spesso abbandonano lungo il fiume, per noncuranza o perché ubriachi. Non sempre la fortuna era benigna: a volte doveva pagare il pesce, soddisfacendo le voglie dei pescatori. Una brutta storia che Theresa ha lasciato alle spalle.
Ora la comunità parrocchiale si è stretta attorno alla sua nuova famiglia. Per sostenere i tre bambini, le viene garantito un piccolo assegno mensile.

A Mazabuka, 55 km a sud di Kafue, la comunità parrocchiale locale, affidata al fidei donum milanese don Maurizio Canclini, sta sperimentando da due anni un altro progetto a favore degli orfani, soprattutto adolescenti. Sono 5 casette, chiamate «Arche»; formano un piccolo villaggio su una proprietà della parrocchia; ogni Arca ospita una decina di ragazzi orfani. Nelle Arche i ragazzi imparano a convivere, gestire le piccole faccende domestiche, rispettare ciascuno i tempi degli altri. A volersi bene. Su di loro veglia lo «zio»: un ragazzo di qualche anno più grande degli altri, cui viene affidata dalla parrocchia la responsabilità di ogni casa.
La vita nelle Arche cerca a fatica di assumere colori e contorni della quotidianità. Durante il giorno i ragazzi vanno a scuola o al lavoro; alla sera si ritrovano tutti insieme. A volte la serata scorre serena, altre volte nascono attriti e piccoli litigi. Nell’Arca n. 3 è spesso la chitarra dell’energico Brian, che ha un grande talento di pittore e coltiva ambizioni di successo, ad accompagnare le serate degli altri ragazzi.
I giovani delle Arche sono ormai 52. Fra di loro, 13 ragazze, che condividono una delle cinque case. Fra gli «zii» che vegliano sui ragazzi ce n’è uno del tutto speciale: si chiama Celeste. Quando è arrivato dall’Italia, un anno fa, doveva fermarsi solo un mese. Invece «zio» Celeste è ancora lì, a fare da angelo custode ai «suoi» ragazzi. Mangia, dorme, vive con loro, in una delle cinque Arche. Condivide con loro le ristrettezze e la fatica del vivere insieme. Organizza la coltivazione dell’orto, la cura del pollaio e la gestione del barbershop, tre attività che la parrocchia ha affidato alle Arche con l’obiettivo di responsabilizzare i ragazzi.
Mentre parla della vita nelle Arche, arriva un ragazzo che gli racconta concitato di una piccola rissa in cui è stato coinvolto. Celeste lo ascolta, poi lo rimprovera. La scommessa di recuperare i ragazzi a una vita normale è un sentirnero in salita, ma lungo la strada già i primi fiori stanno sbocciando.

Roberta Voltan

Romina Gobbo e Elena Martelli




DOSSIER KOSSOVO”Tradimento nell’anima – Introduzione

Cos’è un enclave? Un territorio, un villaggio, una ristretta area completamente chiusa, dove si sono rifugiati gli ultimi serbi e non-albanesi che, dopo i bombardamenti del 1999, non hanno accettato di essere cacciati dalla propria terra e scappare in Serbia o altrove. Sono alcune decine di migliaia. Dati ufficiosi parlano tra 80 e 100 mila i serbi e non albanesi rimasti, di cui la stragrande maggioranza di essi è concentrata a Mitrovica e nella sua provincia confinante con la Serbia.
Nelle enclave vivono barricati, circondati da mezzi militari della Kfor (Forza militare di pace in Kosovo, guidata dalla Nato) e spesso da filo spinato, in una condizione di prigionieri e assediati. Nessuno può uscire, se non sotto scorta militare in autobus collettivi e solo per emergenze, pena il rischio di venire ammazzati.
«Qui, chi non impazzisce non è normale» c’era scritto sul muro di una scuola dell’enclave serba di Gracanica… prima che fosse distrutto anche il muro.
Come era la vita… prima del 1999? Ce lo racconta un ex operaio della fabbrica Zastava, Milko. Sono frammenti di avvenimenti e verità, nascoste o falsificate per «formare» una opinione pubblica occidentale consenziente alla «necessità della guerra umanitaria».

«Il nostro vicino di casa era albanese. Per oltre 30 anni abbiamo vissuto da buoni vicini e amici, in tutte le vicende della vita quotidiana. Anche prima del ’99, quando gli estremisti albanesi facevano protestare per maggiori diritti e più autonomia, ogni loro famiglia era obbligata a partecipare in qualche modo alle manifestazioni, sotto le minacce dell’Uck (Esercito di liberazione del Kosovo) che a quei tempi era clandestino, ma commetteva numerose aggressioni e attacchi, soprattutto contro quegli albanesi che si mostravano indifferenti o distaccati di fronte a tali proteste.
Di fatto nessuno di loro poteva esimersi dal farle, altrimenti gli ammazzavano gli animali, bruciavano i campi o, peggio, attaccavano casa o persone, se sapevano che erano addirittura contrari. Così, per non incorrere in questo, anche i nostri vicini facevano scioperi della spesa o non mandavano a scuola i bambini, non pagavano le bollette e altre cose.
Ma l’accordo tra noi era che, in quei periodi, gli facevamo noi la spesa, badavamo ai campi o alle bestie, se bisognava portarle fuori, gli procuravamo medicine o altre piccole commissioni o fabbisogni giornalieri. Questo per dare l’idea di come era la vita di tutti i giorni; e ciò valeva anche tra le altre famiglie del villaggio. Amici e buoni vicini per 30 anni.

Con l’intensificarsi delle violenze e degli assalti, la mia famiglia fuggì profuga in Serbia, ma io rimasi, vivendo nei boschi intorno alla casa, sperando che non la bruciassero. Ma una sera aspettai il mio amico al suo ritorno dai campi, cercando il momento in cui nessuno ci potesse vedere, piché se si sapeva che un albanese parlava con un serbo, rischiava di essere ucciso dall’Uck. Avevo pensato di regalargli la mia mucca prima che venisse rubata dai terroristi.
Quella sera, lo chiamai, ma lui non mi salutò più; mi guardava come fossi un fantasma, uno sconosciuto. Il fratello, che era venuto dall’Albania, mi insultò e minacciò, urlandomi che avrebbero ammazzato tutti i serbi e che sarei dovuto andarmene via subito se non volevo morire. Ma non è stato tanto questo, lui non era un mio amico; è stato guardare negli occhi una persona con cui hai vissuto accanto per 30 anni ed essa faceva finta di non conoscermi. So che forse era per paura o terrore di essere considerato amico dei serbi, per paura di quelli dell’Uck, per salvare la propria famiglia, la propria casa, la terra… Ma in quel momento, quella sera, in quel sentirnero sulle nostre terre, sui nostri campi, che ogni sera percorrevamo insieme per tornare dalle nostre famiglie… quella sera ho pianto.
Ho compreso fino in fondo che nulla sarebbe più potuto tornare come prima, mai più. Non solo perché si stava vivendo una situazione spaventosa, non solo perché quello è stato il tradimento di 30 anni di amicizia, ma perché è stato un tradimento nell’anima. Eravamo sempre stati amici, i bambini cresciuti insieme, feste fatte insieme, aiuti reciproci e questo non lo si potrà più dimenticare.
Ma non si potrà più tornare come prima. Ci hanno traditi, forse per paura del terrore dell’Uck, forse per opportunismo, per prendersi le nostre case e terre, forse, forse, forse… Ma nulla e nessuno potrà cancellare cosa è successo e cosa ci hanno fatto. Noi non lo dimenticheremo mai e neanche i nostri figli».

Sono tornati i tempi drammaticamente descritti dal poeta serbo V. Petkovic Dis (1880-1917) all’inizio del Novecento:
«… I tempi neri della distruzione sono arrivati.
Sono gonfiati la feccia, il vizio, la malvagità.
Il marcio puzzo del declino si è levato.
Tutti gli eroi e i poeti sono morti.
Le tane, i covi e i canali sono scoperchiati,
i sotterranei sono elevati al sole del giorno.
Tutti subdoli, tutti maledetti, tutti piccoli…».

Enrico Vigna




DOSSIER KOSSOVOSe questa… è vita

Viaggio nelle enclavi del Kosovo

L’enclave di Gorazdevac, dove sopravvivono circa 760 persone, è un esempio della situazione dei serbi in Kosovo: senza servizio sanitario, senza lavoro, senza alcun diritto, mentre abbondano provocazioni e vessazioni di ogni genere.

Negli ultimi 6 anni ho seguito costantemente e da vicino le vicende della regione che gli albanesi chiamano Kosovo e i serbi Metohija. La realtà, constatata nel vivo della vita quotidiana sul posto, ha superato qualsiasi analisi, valutazione o cognizione di causa.
Le parole dette da un militare italiano, in una chiacchierata informale, possono dare un’idea della realtà delle enclavi: «Per un mese, dal mio arrivo sul posto, sono rimasto scioccato da cosa vedevo e conoscevo circa le enclavi e la vita in esse…». Parole di un militare, membro di truppe di occupazione straniera.

Viaggio sotto scorta

Sono stato in Kosovo dal 13 al 18 gennaio 2005. Insieme al sottoscritto, invitato dalla comunità dell’enclave di Gorazdevac, facevano parte della delegazione due sindacalisti della fabbrica automobilistica Zastava di Pec e le due responsabili dell’Ufficio adozioni inteazionali dello stesso sindacato.
Abbiamo portato contributi economici raccolti dal Progetto Sos Kosovo, lanciato nel dicembre scorso dall’Associazione Sos Yugoslavia, oltre a doni in dolciumi e vestiario con il contributo del sindacato stesso.
Il viaggio è stato possibile grazie alla scorta della Kfor, che ci ha permesso di andare a visitare e incontrare anche le realtà di Pec e Decani, oltre a Mitrovica, cittadina con la più alta concentrazione della comunità serba.
Il ruolo della scorta, soprattutto nella prima notte, ma anche al ritorno, se ne è andata un po’ per conto suo, lasciandoci spesso lontani e abbastanza indifesi ed esposti a eventuali violenze, se si esclude il soldatino del contingente rumeno, che saliva con noi sul furgone col suo mitragliatore, quasi più grande di lui.
Bisogna dire che l’unica funzione reale è quella di formale deterrente, dato lo spaventoso livello di odio e violenza che viene manifestato lungo le strade da ragazzini e non, al passaggio di macchine scortate, che hanno il significato della presenza di serbi o… amici dei serbi, che porterebbe allo stesso non piacevole risultato se si finisse in mezzo alla gente. Nella normalità accadono soltanto gestacci, minacce, sputi sui vetri o sassi volanti; altre volte, come il novembre scorso, lo stesso convoglio è stato attaccato con bottiglie molotov e, a dicembre, con una sassaiola: in entrambi i casi sono stati distrutti i bus e provocati numerosi feriti non gravi.
La scorta come spesso in questi 6 anni, non è riuscita a impedire nulla e nemmeno a identificare nessuno delle decine di assalitori albanesi. A detta della gente del posto, ogni volta che gli estremisti albanesi attaccano, la Kfor si defila o si allontana, per poi ricomparire quando gli avvenimenti prendono una piega incontrollabile.
A onore della verità, questo finora non è successo nella difesa dell’antico patriarcato di Pec e al monastero di Decani, dove ci è stato detto dell’impeccabile e finora decisivo compito difensivo svolto dal contingente italiano contro le orde criminali per evitae la distruzione.

Situazione sanitaria nelle enclavi

In quella di Gorazdevac, dove sopravvivono circa 760 persone, la sanità è una stanza adibita ad ambulatorio, con la presenza di una dottoressa del posto che vive all’interno dell’enclave. In altre enclavi viene portato un medico sotto scorta una o due volte la settimana per incontrare la gente.
Non vi sono strumenti né macchinari per fare esami. Mancano praticamente ogni tipo di medicine, salvo quando arrivano quelle donate. Nel nostro viaggio abbiamo portato tre scatole di medicinali; erano alcuni mesi che non ricevevano nulla. Ma le nostre medicine non erano specifiche, bensì frutto di una raccolta generica, forse di poca utilità.
In caso di malattia occorre fare una richiesta 72 ore prima alla Kfor (Forza militare di pace in Kosovo), per essere portati sotto scorta all’ospedale di Mitrovica Nord e ricevere cure o fare controlli ed esami. E questo per casi urgenti; per il resto si può aspettare anche mesi.
Ma, non essendoci farmaci specifici né interventi di pronto soccorso, in quei tre giorni di attesa si può anche morire: è successo a vari anziani con problemi cardiaci e a bambini bisognosi di ricovero immediato.
A ciò si aggiungono le drammatiche conseguenze dei «bombardamenti umanitari» con l’uranio impoverito: l’argomento è top secret; non si hanno dati, cifre o numeri. Ma è entrato normalmente nella vita della popolazione kosovara, albanesi e serbi, questa volta in modo unitario e paritario. Per «liberarli» li hanno investiti con centinaia di tonnellate di proiettili «arricchiti di uranio impoverito».
Dalle mappe del Dipartimento delle pubbliche informazioni dell’Onu risulta praticamente uranizzata l’intera area, in ogni suo angolo: l’inquinamento della terra e delle falde acquifere è praticamente ufficiale; tanto che l’uso dell’acqua dei rubinetti è sconsigliata anche solo per lavarsi i denti, figurarsi per dissetarsi o fare da mangiare.
Gli stessi soldati della Kfor hanno l’ordine di non bere acqua fuori dalle loro basi: all’interno viene usata esclusivamente acqua minerale.
Ma a chi non ha soldi per fare scorte di acqua minerale per tutti gli usi e a chi, come i prigionieri delle enclavi, può procurarsela solo periodicamente e in modiche quantità, quale destino gli spetta?
Intanto, si sa ufficiosamente che sia tra i neonati degli ultimi tempi, che nelle stesse nascite di animali, sono centinaia i casi di deformazioni e malattie, legate all’uranio impoverito.
Ha denunciato il padre francescano J. M. Benjamin: «Il 70% della regione del Kosovo e il 30% della Serbia sono contaminati. È scandaloso e riprovevole il comportamento dei mass media di tutto il mondo nei confronti dell’uranio impoverito… Ancora una volta gli organi di informazione si mostrano asserviti ai dettami del potere che, come d’abitudine, rende noto solo quanto conviene ai suoi scopi».

Lavoro e scuola nelle enclavi

L’unica possibilità di lavoro è offerta da piccoli appezzamenti di terra estei alle case, ma interni alla zona protetta. L’enclave, infatti, è formata da due zone. La prima è quella in cui vive la comunità, con le case non distrutte o incendiate, in un diametro vitale di circa 1 km: è la fascia più controllata e vigilata (vi è anche il campo militare della Kfor); da qui nessuno può entrare o uscire senza permesso.
La seconda è formata da campi e boscaglia che circondano il villaggio: anche questa si estende per circa un altro chilometro, con una seconda linea più estea di vigilanza della Kfor; ma è meno controllata e quindi più pericolosa.
In quest’area gli uomini vanno ogni giorno a lavorare un pezzo di terra, con il rischio, come più volte successo in questi anni, di rimanere vittime dei cecchini, di incursioni terroristiche improvvise o delle mine disseminate dall’Uck.
L’economia della comunità si basa esclusivamente su questi orti familiari e sull’allevamento di qualche animale per il sostentamento familiare. Altre entrate sono le pensioni degli anziani (50-60 euro), erorate dalla Serbia, e il sussidio mensile di disoccupazione (60 euro, che scadrà a settembre 2005) degli unici 17 ex lavoratori della Zastava di Pec, che dal marzo ’99 non possono più recarsi al loro posto di lavoro, colpevoli di essere serbi.
Nell’enclave vi è soltanto un piccolo bazar, rifornito periodicamente di prodotti su richiesta, e un bar, dove non vi sono neanche le sedie.
Nell’enclave di Gorazdevac, vi è solo la scuola elementare, con un centinaio di bambini, la presenza di alcuni maestri e un ottimo direttore. L’Unmik (Missione Onu per l’amministrazione ad interim del Kosovo) voleva sostituirlo con uno più «fiduciario» ai suoi interessi ed esigenze amministrative, ma la comunità si è opposta con forti proteste perché restasse nel suo incarico.
La vita dei bambini ruota tutta intorno alle ore passate nella scuola, dove tutto è vecchio e manca ogni cosa, dalla cancelleria alle attrezzature. Il resto delle loro giornate, da 6 anni a questa parte, è in casa o nelle strade sterrate del villaggio; essi non devono assolutamente andare in prossimità delle ultime case, per non rischiare di venire colpiti da eventuali cecchini.
Nell’agosto del 2003, un gruppo di ragazzi dell’enclave era andato a poche decine di metri per bagnarsi in un torrente, quando, dal bosco, fu bersagliato con raffiche di mitra: due ragazzi furono assassinati; altri quattro feriti, due dei quali sono invalidi permanenti.
I ragazzi delle enclavi che vogliono proseguire gli studi delle scuola superiore o l’università hanno una sola possibilità: recarsi nella cittadina di Mitrovica nord. Vi si recano all’inizio della settimana con l’autobus scortato dalla Kfor, dormono presso parenti o nella casa dello studente e rientrano al venerdì. Per gli studi universitari la cosa più semplice è dare solo gli esami senza frequentare.


In balia del razzismo etnico

A riguardo dei diritti c’è poco da dire: chi vive nelle enclavi è di fatto un prigioniero; soprattutto è un essere umano senza nessun tipo di diritti umani, civili o sociali.
In Kosovo, oggi, vige una situazione di apartheid. Chi non è di origini schipetare (albanesi) sopravvive in una sorta di limbo, fondato sul razzismo etnico: sono negati il diritto al lavoro, a essere curati, all’istruzione, alla spesa anche solo per il sostentamento alimentare della propria famiglia, alla libertà di movimento, al diritto del proprio credo religioso.
Persino la continua e provocatoria interruzione della foitura dell’acqua e dell’elettricità, sono usate per rendere impossibile l’uso dei frigoriferi (per affamare la gente, poiché le scorte alimentari marciscono), delle radio e tv, dei telefoni, unico filo virtuale di comunicazione col mondo reale, impedendo praticamente anche una allucinante normalità.
In compenso la Compagnia elettrica kosovara sta mandando a tutte le famiglie serbe ancora presenti le bollette con gli arretrati di tutti questi anni: bollette che arrivano anche a 1.000 euro.

Storie di ordinaria ingiustizia

In pochi giorni siamo stati subissati da centinaia di storie di vessazioni, come quella di un contadino bastonato a sangue, arrestato perché indicato da un albanese come un criminale, in prigione per tre anni, senza avvocati né alcun tipo d’interrogatorio, poi rilasciato e minacciato di morte affinché abbandonasse il Kosovo.
Un’altra storia riguarda una madre di 5 figli, aiutata dalla nostra Associazione. I banditi dell’Uck le hanno ucciso il marito e bruciato la casa. I resti dell’abitazione si trovano, ora, ai lati della base della Kfor, che le impedisce di tornare a viverci per motivi di sicurezza militare. Anche se diroccata, è l’unica cosa che le rimane e tornarvi è meglio che continuare a vivere in case di altri. Ha deciso di piantare una tenda dove c’era la casa e la Kfor dovrà cacciarla con la forza insieme ai suoi bambini.
Altre storie riguardano il comportamento della Kfor. Durante il capodanno degli albanesi, alcuni di loro erano andati verso l’enclave sparando raffiche di mitra e lanciando granate. La gente dell’enclave protestò presso la Kfor perché intervenisse per sequestrare le armi (visto che le enclavi erano state minuziosamente perquisite); ma i soldati, indispettiti, hanno intimato ai serbi di rientrare nelle case e di non insegnare a loro cosa dovevano fare. Durante il capodanno ortodosso, invece, i soldati accorsero e requisirono ai bambini serbi dell’enclave alcuni petardi con cui giocavano… perché disturbavano.
Oppure la storia di un anziano, padre di un giovane che è venuto in Italia in cerca di lavoro e ora è in regola con i documenti. Il figlio lo ha invitato in Italia per rivedersi dopo 5 anni e prima che il genitore muoia. Per andarci avrebbe bisogno del timbro del consolato italiano di Pristina; ma il vecchio non può uscire dall’enclave e andare a Pristina: essendo serbo lo possono ammazzare.
Ci vorrebbero giorni e mesi interi per raccontarle tutte; le storie riportate bastano per dare un’idea della situazione allucinante, da antico Far West, ma che accadono nel 2005.

Attenzione: cambiare la targa!

Prima di avventurarsi per le strade del Kosovo è di norma sostituire le targhe delle auto: una vettura con la vecchia matricola federale sarebbe subito attaccata; gli occupanti potrebbero finire ammazzati.
Lo abbiamo fatto anche noi, pur avendo la scorta armata della Kfor: cacciavite e copia taroccata di una targa kosovara e via, nel regno della democrazia e della civiltà portate dall’Occidente.
E tutto con buona pace di quei «primitivi e caveicoli» cittadini kosovari che, fino al 1999, a qualsiasi etnia autoctona del Kosovo Metohija appartenessero, potevano andare dove volevano e con chi volevano.
Sostituire la targa a seconda delle zone in cui ci si trova è reato in tutti i paesi della terra, come lo era in Kosovo 6 anni fa. Ma, paradossalmente, l’invito è quasi un ordine dato dalla Kfor, altrimenti i soldati non rispondono della vita di chi non lo fa. Anzi, ci sono zone dove si è autorizzati a girare senza targa… Viva il Kosovo «libero»!
A parte i bla bla bla occidentali su libertà e democrazia: è il diritto alla vita stessa che viene negato oggi in questa parte d’Europa. Chi cerca di perseguire anche uno solo di quei diritti ritenuti basilari per una minima convivenza umana in qualsiasi paese del pianeta, in Kosovo rischia di essere assassinato.
Vita quotidiana colma di terrore, angoscia, vessazioni materiali e morali, tensioni devastanti per la psiche dei bambini e degli adulti: questo è oggi la provincia del Kosovo Metohija; questo è il risultato dell’aggressione alla Repubblica federale jugoslava di 6 anni fa, con la «guerra umanitaria» e «bombardamenti etici», per portare in quella regione, dicevano, i «diritti» e impedire le violenze o, addirittura, i genocidi.

Enrico Vigna




DOSSIER KOSSOVODomande (in attesa di risposte)

Sfido chiunque a dimostrare, dati e documentazioni alla mano, che uno solo dei diritti negati oggi ai serbi e alle minoranze non albanesi del Kosovo, fosse negato prima del marzo 1999 alle varie minoranze che vivevano lì da secoli.
Erano 14 quelle riconosciute prima. Oggi quante sono? Inoltre, non va dimenticato che anche alcune decine di migliaia di kosovari albanesi sono dovuti scappare in Serbia per non essere uccisi, perché considerati jugoslavisti.
Ha detto Dragan, un ex lavoratore della Zastava di Pec: «La democrazia dell’occidente, è una parola vuota, falsa, un linguaggio che non riusciamo a capire. La democrazia l’avevamo prima, perché ognuno aveva il proprio lavoro, la propria terra, le proprie tradizioni e feste, la propria religione e le proprie chiese, diritti e doveri sanciti per tutti. Oggi c’è solo distruzione, odio, violenza, terrore, criminalità. Ecco cosa ha portato qui la democrazia occidentale».

Dov’era il genocidio? Dove sono le fosse comuni, i massacri, gli stupri di massa, le persecuzioni, i diritti negati? Domande a cui, oggi, risponde solo il silenzio da parte di tutti coloro che si sentirono arruolati nella lotta del bene contro il male. Dove naturalmente il bene era la Nato, le bombe umanitarie, politici e mass media occidentali, persino grandi parti del movimento pacifista, che pur con qualche distinguo ritennero «necessario» fermare «demoni», violentatori, assassini… ovviamente rigorosamente serbi.
Oggi che la sbornia collettiva mass-mediatica è dimostrata, è sotto gli occhi di chiunque vuole capire, vuole pensare con la propria testa… dove sono quelle anime candide della politica e della disinformazione, che scrivevano e declamavano in televisione la loro indignazione contro le ingiustizie e la violenza?
Dove sono e cosa dicono o scrivono dei seguenti dati ben documentati: oltre 300 mila profughi di tutte le etnie, ma nella stragrande maggioranza serbi, scacciati dalla propria terra; più di 3 mila desaparecidos assassinati o rapiti, dal marzo ’99 a oggi, e ormai dati per uccisi dalle stesse forze inteazionali; centinaia di migliaia di case sono state bruciate e distrutte; 148 monasteri e luoghi di culto ortodosso, vere e proprie culle non solo della storia del popolo serbo, ma dell’intera umanità, sono stati attaccati o distrutti dalle forze terroristiche dell’Uck, il grande alleato dell’occidente.
Cosa scrivono e dicono di un popolo, quello serbo, obbligato a scappare dalle proprie case e dalla propria terra, per non morire; costretto a sopravvivere in un regime quotidiano di terrore e di apartheid, in campi di concentramento a cielo aperto, circondati e assediati? L’unica loro colpa è l’appartenenza etnica.
Quella regione che dicevano «liberata» è, oggi, indicata da tutti gli esperti investigativi inteazionali come il crocevia e lo snodo di tutti i traffici illegali, dalla droga alle armi, dalla prostituzione al traffico di organi.

Con questo dossier mi faccio «voce», come mi è stato richiesto, di un popolo senza più voce, né giornali, né televisioni, umiliato, vessato, violentato anche moralmente dalle falsità e menzogne della «disinformazione strategica» (annunciata e rivendicata come arma di guerra dallo stesso Pentagono).
Vorrei lanciare un appello-invito a giornalisti, operatori dei mass media, esponenti istituzionali o politici, onesti e liberi professionalmente, che ritengono ancora un dovere fare un’informazione corretta, indipendente, forse anche scomoda, sul campo. Intendo dare una disponibilità completa, organizzativa e logistica a chi voglia incontrare, intervistare, conoscere, domandare e informarsi, senza limiti o preclusioni di alcun tipo, per cercare attraverso documentazioni e testimonianze dirette la realtà storica dei fatti.
Faremo pervenire questo appello personalmente a un elenco di personalità del campo mediatico e informativo e attenderemo anche solo un riscontro e lo renderemo pubblico.

Enrico Vigna




DOSSIER KOSSOVOSerbi del Kossovo, palestinesi d’Europa

Presente e futuro del Kosovo: aspetti politici

Dopo 5 anni di amministrazione Onu, la situazione economica è catastrofica, la pulizia etnica anti-serba continua, i kosovari albanesi parlano di indipendenza e «Grande Albania», con la prospettiva di una nuova guerra balcanica.
Intanto prosperano le mafie d’ogni tipo.

Dalla conoscenza della situazione sul campo emerge un dato di fatto: le divisioni intee alle comunità delle enclavi. All’opera di frammentazione e disgregazione di tali comunità non sono estranee le forze di occupazione: ciò rende loro tutto più semplice; ma tutto è più complicato per chi vuole resistere.
In una situazione di miseria e sfacelo totale dal punto di vista sociale, bastano poche centinaia di euro o banali facilitazioni e agevolazioni, per dividere e spaccare la gente.
Una delle cause che spacca in due le comunità delle enclavi, per esempio, è l’imposizione di rappresentanti indicati dalla Kfor: una parte rifiuta di riconoscere chi non è indicato o eletto direttamente dalla gente (vedi riquadro), altri accettano con rassegnazione per non indispettire gli occupanti e non aggravare ulteriormente la situazione di vita quotidiana.
Le comunità del Kosovo nutrono grande sfiducia anche verso i propri rappresentanti ufficiali presso l’Amministrazione temporanea del Kosovo, come i due Ivanovic (Milan e Ivan) e la stessa Rada Trajkovic, leaders del Consiglio nazionale serbo del Nord Kosovo. In ogni colloquio avuto, nessuno ha mostrato convincimento o adesione a queste figure. Si sente chiaramente l’assenza di una vera e riconosciuta leadership sul campo, che riesca a dare indicazioni e prospettive positive e costruttive, per far uscire il popolo serbo kosovaro da una situazione di annichilimento e totale sconfitta.
Ancora più profonde sono le distanze e l’estraniamento dai partiti politici di Belgrado, la dimostrazione si è avuta con il totale rifiuto a votare nelle elezioni dello scorso anno e nelle precedenti l’affluenza era stata la più bassa storicamente.
Un altro umore palpabile nelle enclavi è la profonda ostilità verso la comunità internazionale, ritenuta colpevole di tutto quanto è successo, più responsabile persino dell’estremista albanese. Questo, tra l’altro, nel 1998 era stato praticamente debellato, sia politicamente che militarmente: ma poi è stato assunto e diretto dalle centrali estere e la partita è stata capovolta, portando il Kosovo nell’abisso sociale e umano in cui è ora.
In ogni dove, qualsiasi persona con cui si parli, lavoratore o contadino, rappresentante di comunità o religioso, risuona lo stesso ritornello: «Siamo soli, ci hanno abbandonato tutti, si sono dimenticati di noi».
Non è una cantilena retorica né una piaggeria, ma una lettura della posta in gioco, fatta da uomini semplici, ma «coscienti e intelligenti» della propria situazione, legata ad eventi e dinamiche inteazionali da cui dipendono il presente e, soprattutto, il loro futuro.

I «Guardiani del Ponte»

La città di Mitrovica è in una situazione molto particolare e diversa, per molti aspetti, dal resto del Kosovo. Prima di tutto, qui si stanno concentrando migliaia di serbi molto determinati, che non vogliono abbandonare la propria terra e vivere da profughi lontani. Anche numericamente rappresentano una realtà non facile da addomesticare. In secondo luogo, la città ha alle spalle una zona ancora controllabile e sicura, che la unisce alla Serbia. Inoltre, la popolazione è molto unita e determinata a resistere fino in fondo ai futuri assalti che verranno.
Secondo l’Osce (Organizzazione sulla sicurezza e la cooperazione in Europa) e l’Unmik, la popolazione riconosce e ha nei «Guardiani del Ponte» una valida e radicata forza di autodifesa. Si tratta di un’associazione di volontariato civile costituita dopo i bombardamenti Nato del 1999, per proteggere la comunità della parte nord di Mitrovica e impedire le incursioni degli estremisti albanesi attraverso il ponte sul fiume Ibar che unisce le due parti della città.
Più volte la Kfor ha cercato di smantellare questa associazione. Ma, nonostante le indagini e tentativi di criminalizzarla, essa è circondata dalla totale solidarietà della popolazione, che la rende impenetrabile alle infiltrazioni di investigatori che vogliono scoprie le strutture intee e il funzionamento.
Alcuni suoi esponenti ufficiali, che si definiscono membri dell’«Associazione dei cittadini di San Dimitrije», hanno dichiarato che l’obiettivo è la protezione dagli attacchi degli estremisti albanesi contro la popolazione civile e l’assistenza umanitaria per i più poveri. Stime ufficiose dell’Osce e dell’Unmik, ritengono che i militanti a tempo pieno siano 400-500, con una capacità di mobilitazione rapida di 4-5000 persone.
Nell’incontro avuto con un esponente dei Guardiani del Ponte, è emersa con lucidità la lettura della situazione e delle prospettive future, insieme alla determinazione, per nulla emotiva, di lottare per la propria sopravvivenza come popolo. La loro coscienza politica (non in senso di partiti) e di identità nazionale indica in Mitrovica quella che sarà l’ultima trincea della resistenza del popolo serbo kosovaro, per impedire l’annientamento nel Kosovo pulito etnicamente.
La loro forza di mobilitazione ha portato al ponte migliaia di persone, notte e giorno, per protestare contro l’arroganza verso la popolazione civile da parte delle truppe Kfor, prima quelle americane, poi quelle tedesche. Dopo giorni di assedio, per non aggravare ulteriormente una situazione già ad altissima tensione, l’Unmik le ha sostituite con un contingente francese.
Altrettanto fondamentale è stata la mobilitazione dei «Guardiani» durante le violenze del marzo 2004, impedendo alle orde degli estremisti albanesi di assaltare la zona nord, in una vera e propria battaglia campale durata tre giorni lungo il fiume Ibar e attorno alla città.

Rischio effetto domino

L’indipendenza entro la metà del 2006 è ormai una scadenza «ufficiosa», neanche più nascosta. Se ne discute in istituzioni locali e inteazionali e tra la gente. A luglio dello scorso anno, lo pseudo-parlamento di Pristina ha votato alcuni emendamenti alla costituzione federale della provincia, tra cui il diritto a indire un referendum per l’indipendenza.
Il problema per tutti è come farla passare e accettare senza combattimenti e altro sangue. Un evento del genere potrebbe risvegliare forti sentimenti patriottici, di dignità e identità nazionali nella stessa Serbia; tali sentimenti potrebbero saldarsi a quelli della resistenza dei serbi kosovari, gettando benzina su una situazione che le forze inteazionali denunciano ad alto rischio conflittuale, capace di far precipitare i Balcani in una nuova spirale di guerra.
Così verrebbero stravolti tutti i disegni di pacificazione armata pianificati in questi anni di occupazione da parte della Nato e delle forze occidentali. Si riproporrebbe uno scenario di «instabilità regionale», autentico rompicapo per la «comunità internazionale». Non è in gioco solo il Kosovo, ma tutta l’area balcanica.
Tale avventura provocherebbe un effetto domino. A nord coinvolge la Serbia meridionale, dove recentemente è stato deciso di dispiegare ulteriori forze dell’esercito serbo, per il susseguirsi di atti provocatori del cosiddetto Esercito di liberazione del Presevo, Medvedja e Bujanovac. Questi «liberatori», oltre a chiedere apertamente la secessione di tali regioni dalla Serbia e l’unificazione col Kosovo albanese, sembrano essersi legati all’Armata nazionale albanese, che a sua volta mira alla costruzione della «Grande Albania».
Anche nella provincia del Sangiaccato, sono ormai migliaia i serbi e i rom che, sotto minacce e violente pressioni da parte degli estremisti albanesi, stanno lasciando la città di Novi Pazar e villaggi circostanti; qui, tra l’altro, dopo numerose e violente dimostrazioni degli estremisti, è stato concordato il ritiro dalla città dell’esercito serbo.
Ma «l’instabilità regionale» coinvolge anche la Macedonia: in molte aree del paese è ancora in vigore il coprifuoco e, da anni, la minoranza albanese cerca la secessione e l’unificazione con il Kosovo e l’Albania.
Un eventuale ribaltamento del «giocattolo Kosovo» potrebbe coinvolgere anche la Grecia, dove dall’anno scorso si è formato un partito della minoranza albanese che rivendica il nord del paese come territorio albanese e predica la separazione.
Non bisogna dimenticare la zona a sud del Montenegro, abitata in grande maggioranza da albanesi. Questi, l’anno scorso, hanno ottenuto una serie di agevolazioni giuridiche, economiche, doganali, linguistiche, evidente riscossione del sostegno dato dall’ex Uck a Djukanovic, attuale presidente montenegrino. Di fatto, per potersi affermare, il presidente ha stipulato patti non solo con la mafia pugliese (come risulta da incriminazioni e mandati di cattura emessi dalla procura di Bari), ma anche con la mafia albanese, indicata dalla Dea (Agenzia antidroga statunitense), come strumento operativo di controllo economico e militare dell’Uck.

Europa-USA: strategie diverse

È evidente che, sotto la cenere di quell’area, la posta in gioco è molto alta e va ben al di là dei diritti della comunità serba e non albanese della regione kosovara. Perciò i negoziati, che in questo 2005 dovrebbero definire lo «status finale» del protettorato Kosovo, contengono aspetti e implicazioni politiche estremamente delicate: esse riguardano i futuri assetti geostrategici di tutta la regione balcanica, cui sono coinvolti pienamente i rapporti tra l’Europa e il gendarme americano, insieme alle loro rispettive mire e interessi.
Per questo appaiono sempre più marcate le contraddizioni tra le strategie Usa da una parte e quelle di Germania e Francia dall’altra. Esse emergono sia negli aspetti politico-amministrativi della regione che nella sponsorizzazione di alleati locali privilegiati. Ma anche negli aspetti di investimenti economici e processi di ricostruzione mire e obbiettivi strategici appaiono diversi.
Non meno diversificati si rivelano gli approcci alla situazione e alle problematiche concrete dal punto di vista militare, come nel caso scoppiato a Mitrovica, nel marzo 2004: dopo giorni di violenza, le leali relazioni instauratesi con il contingente francese, hanno impedito alle forze fasciste albanesi di conquistare la parte nord della città, permettendo alla comunità serba di dispiegare le misure difensive e ricacciare al di là del fiume Ibar gli assalitori.
Il ruolo e le funzioni della Kfor e dell’Unmik, reggenti del «protettorato» Kosovo, sono chiari e precisi agli occhi di tutti: se da un lato sono la garanzia minima all’esistenza fisica delle enclavi, dall’altro rappresentano solo un processo di transizione all’indipendenza, prospettiva ormai pubblica e dichiarata di tutte le forze politiche albanesi kosovare.
In virtù di tale funzione, il rapporto con le comunità serbe e non albanesi è fondato sul concetto di pace armata: o queste accettano lo status quo, seppur illegittimo, o il ricatto di lasciare campo libero alle bande criminali e fasciste albanesi.
È chiaro che i rapporti di forza sul campo non sono solo a sfavore, ma proprio non esistono minimamente; e il fatto di restare a vivere nelle enclavi è una forma di resistenza civile a una situazione di fascismo e razzismo legittimati, in quanto tutto parte da una motivazione fondata sulla base etnica.
Finora la Kfor non ha permesso di distruggere definitivamente le ultime comunità serbe rimaste; ha impedito gli attacchi finali ai due monasteri di Pec e Decani, difendendoli più volte con le armi. Tuttavia, essa resta una forza straniera di occupazione e il «garante» de facto del processo di pulizia etnica perpetrata dal marzo ’99 ad oggi dalle bande criminali dell’Uck, per spianare la strada verso l’indipendenza.

Le risoluzioni del 99

In una situazione internazionale, dove i padroni del mondo stabiliscono, in base ai propri interessi, non solo ciò che è bene e ciò che è male, ma anche quali popoli devono vivere e quali devono morire, è terribilmente complesso trovare, oggi, una soluzione realistica e praticabile.
La popolazione serbo kosovara e non albanese chiede il ritorno dell’esercito e della polizia serbi. Ma è evidente che la Serbia di oggi, in ginocchio economicamente e socialmente, genuflessa ai dictat della Nato, non abbia la forza né la volontà di imporre tale ritorno. Il governo non va al di là di qualche dichiarazione di circostanza a uso elettorale e per mantenere la pace sociale; mentre le forze progressiste e patriottiche sono troppo deboli per farsi vettori di un progetto così grande.
L’obiettivo su cui dare battaglia politica può essere solo l’applicazione della Risoluzione 1244 dell’Onu del 1999, che sancisce la sovranità federale della Serbia Montenegro sulla regione, la presenza della polizia e dell’esercito serbo a garanzia e protezione della legalità costituzionale di tutte le etnie e il diritto al ritorno delle centinaia di migliaia di profughi di tutte le minoranze costrette a fuggire e profughe.
Oggettivamente questa è l’unica possibilità, in alternativa al piano di «cantonizzazione», opzione ormai apertamente sostenuta anche all’interno della «comunità internazionale», come definitivo seppellimento di ipotesi di sovranità e diritti nazionali: obiettivi validi ormai non solo per la Serbia e il Kosovo, ma per qualsiasi popolo o paese «renitente» o «resistente» all’ordine mondiale targato Usa.
Per quanto l’applicazione delle Risoluzioni Onu, data la situazione attuale, possa sembrare irreale, il problema Kosovo non riguarda solo la Serbia, ma deve richiamare la responsabilità di quella Comunità internazionale che lo ha causato. Le forze dei paesi occidentali, che si dicono impegnate nel difendere gli interessi dei popoli, dovrebbero almeno sostenere questa battaglia, come risarcimento morale e politico per non essere state capaci di impedire la guerra di aggressione e distruzione della Jugoslavia.

Geostrategia occidentale

Odio e terrore sono stati pianificati e programmati come parte fondante del progetto per la pulizia etnica del Kosovo, in vista della costruzione della Grande Albania, da parte delle forze terroriste e secessioniste anti-jugoslave dell’Uck. Ma le loro mire sono diventate funzionali ai piani geostrategici dell’Occidente e dell’imperialismo della Nato, nella sua marcia verso la Russia.
Molto semplicemente e banalmente, non poteva restare una Serbia non allineata e non asservita, nelle retrovie di una Europa orientale, ormai tutta occupata ed egemonizzata dalla Nato e dal Fondo monetario, fino ai confini russi, (escluse Bielorussia e Moldavia). Ciò spiega la presenza della base Usa di Bondsteel, la più grande dai tempi del Vietnam, su terreni confiscati con metodi brutali e per 99 anni.
Cosa ci fanno decine di migliaia di marines? Forse per timore di qualche migliaio di vecchi, donne e bambini delle enclavi, o per assistere «spiritualmente» gli albanesi kosovari che, tra le altre cose, si dichiarano musulmani e hanno costruito una moschea chiamata… Bin Laden? E Camp Goldsmith, l’altra base che stanno costruendo, è forse anch’essa per salvaguardare i diritti, democrazia, libertà?
È evidente a tutti che sono in gioco questioni strategiche, corridoi energetici, risorse, «investimenti», privatizzazioni selvagge e illegali, pezzi di industrie e miniere locali. Altro che genocidi, fosse comuni, diritti, democrazia, libertà.
Come ha scritto F. Battistini sul Corriere della Sera il 28-11-04: «Cinque anni dopo, sono ancora introvabili le fosse comuni denunciate all’epoca. Dal ’99 a oggi, l’Unione Europea ha già speso 2 miliardi e 877 milioni di euro, il più grande investimento mai fatto all’estero, senza contare il costo dei 18 mila soldati della missione Kfor-Nato, senza alcun risultato».
Queste non sono analisi, supposizioni o interpretazioni, ma realtà fatta anche di cifre, dati, atti e fatti documentati e scolpiti nella storia.
Per quei popoli, però, tale storia ha un prezzo di miseria, devastazione umana e sociale, umiliazioni e vessazioni che si protrarranno per generazioni, con una eredità di odio e violenze che non potranno essere placate con buoni propositi, scuse formali o intendimenti compassionevoli. Occorrerà che la «storia» renda giustizia per il popolo serbo e jugoslavo: anche se questo richiederanno altri prezzi da pagare.

Sotto il pugno di Dio

Stando così le cose, non so se esiste un avvenire per i serbi e le altre minoranze perseguitate nel Kosovo. È probabile che quelle decine di migliaia di bambini, donne, giovani che vivono ancora nelle poche enclavi rimaste, dovranno, nella stragrande maggioranza, lasciare le loro case, la terra e la stessa vita. Molti hanno dichiarato che resteranno per resistere e morire, perché è giusto così secondo loro. Rimane una sola alternativa: restare per morire nella propria terra, o abbandonare tutto e vivere da profughi.
A togliere ogni illusione si era aggiunta la nomina a primo ministro del governo di Pristina di Ramush Haradinaj, ex comandante dell’Uck, per il quale il Tribunale internazionale dell’Aja aveva pronto un mandato per crimini di guerra contro la popolazione serba. (L’8 marzo scorso il premier si è dimesso da primo minitro e attualmente è detenuto nelle carceri del Tribunale penale internazionale dell’Aja, ndr).
È un paradosso: il politico che doveva garantire la sicurezza e la vita dei serbi nel Kosovo è tra le figure di spicco dei crimini e della pulizia etnica perpetrati in quelle terre. Egli era comandante dell’unità denominata Cipat, operante nella zona di Decani: sotto il suo comando gli squadroni della morte hanno compiuto centinaia di crimini efferati.
Per l’esattezza, Haradinaj è accusato ufficialmente di aver assassinato direttamente 67 serbi e di avee ordinato l’uccisione di altri 267.
Tra i kosovari è noto anche come «pugno di dio» sia per le capacità pugilistiche che per le sue pratiche intimidatorie di spogliare e pestare a sangue serbi e nemici, attaccarli a dei pali e trascinarli per le strade soprattutto di Pristina.
Nel 2000 ha avuto un conflitto a fuoco con le truppe russe della Kfor, che gli impedirono di assaltare e bruciare le case di un enclave serbo. Dimessa poi l’uniforme, si presentava con cravatte e vestiti firmati dai migliori stilisti occidentali.
Capo dell’Alleanza per il Futuro del Kosovo, da lui fondata nel ’99, alle elezioni di ottobre 2004 ha preso l’8% dei voti, ma è divenuto primo ministro coalizzandosi con la Lega democratica del Kosovo, partito di I. Rugova, beniamino di politici e mass media occidentali, paladino della non violenza e dei diritti umani.
Una bella alleanza: un presunto gandhiano con un criminale assassino accertato, arrivato al potere, tra l’altro, dopo una faida sanguinosa tra i due partiti, con la morte di oltre 70 albanesi appartenenti ai due clan. Poi, grazie probabilmente all’interesse reciproco della spartizione del potere e suoi derivati, è scoppiata la pace e l’unità.
D’altronde l’anno scorso (31-7-04), in un’intervista al giornale tedesco Der Spiegel, l’ex premier kosovaro albanese ed ex compare di Rugova, B. Bukoshi, ha denunciato che il governo kosovaro si basa su strutture e pratiche mafiose ed è totalmente inquinato dalla criminalità. E ha portato una sfilza di dati: ministri che assumono 200 persone della propria famiglia in uffici pubblici; bandi e concorsi senza esami, ma con liste già precostituite di coloro che saranno assunti; riciclaggio di denaro sporco attraverso privatizzazioni ed espropriazioni di beni statali e privati serbi…
Questo è il Kosovo oggi, secondo i dati inteazionali.

Enrico Vigna