DOSSIER TRAPIANTI Il dibattito attorno all’etica

EDUCARE AL DONO


È possibile conciliare il rispetto della volontà del donatore e la necessità

della solidarietà? Sì, attraverso l’educazione. Perché il fine è un fine superiore: sottrarre altri a morte sicura.

Di fronte alla gravità dei problemi relativi ai trapianti, emerge, oggi più che mai, l’esigenza di avere un quadro etico di riferimento, il più possibile unitario e convincente, in grado di dissipare i pregiudizi emotivi mediante i dati scientifici e la rigorosa riflessione razionale. Le questioni etiche si traducono anche in questioni bio-giuridiche. In tale ambito gli interessi coinvolti in un trapianto d’organo sono essenzialmente:
• la libertà della determinazione del donatore da vivo e la certezza della irreversibilità del processo del suo morire nel caso di espianto da cadavere;
• la libertà di scelta;
• la dignità e la salute del donatore nel caso di espianto da vivente;
• l’interesse alla salute del ricevente e quindi adeguata probabilità dell’efficacia terapeutica dell’intervento;
• la tutela dei sentimenti dei parenti;
• un criterio di giustizia nella assegnazione della risorsa «organo trapiantabile».
Alcune problematiche etiche si impostano e si risolvono in relazione a scelte tecniche, alla luce delle scienze biologiche e mediche (es. corrette procedure di espianto e di reimpianto). Altre sono di natura propriamente bioetica, sia per i principi che per le regole giuridiche (es. scelte circa la necessità dell’assenso del donatore prima della sua morte).
Altre, infine, mescolano conoscenze scientifiche, suscettibili per loro natura di revisione, e presuppongono antropologie filosofiche e posizioni morali (es.definizione del momento in cui il processo del morire diventa irreversibile e la sua connessione con il concetto di persona umana).

Il dibattito sul consenso è strettamente legato alla modalità di reperimento degli organi.
Sotto il profilo squisitamente etico è necessario elaborare una tesi che si orienti verso il rispetto della libertà del soggetto donatore, ma anche in spirito di solidarietà verso chi ha bisogno degli organi per la sua sopravvivenza. A questi risultati, prima che attraverso atti coercitivi e complesse legislazioni, si deve giungere con l’educazione.
Il corpo diventa lo spazio e il momento in cui la persona si rivela e si realizza come dono. Spendendo il proprio tempo, le energie, la salute, ed anche la vita, la persona incarna la sua identità di dono. Non solo in vita, ma anche con la possibilità di disporre (o permettendo che altri decidano) del proprio corpo e dei propri organi anche dopo la morte.
Sul piano etico non è soltanto l’intenzionalità oblativa che rende tale atto straordinario, ma soprattutto è la persona stessa che viene donata affinché altri siano sottratti a morte sicura e riacquistino la salute.
Il dono esige strutturalmente la gratuità più assoluta e l’altruismo come forma squisita di solidarietà non tanto per filantropia, umanitarismo o legami parentali, quanto come espressione trasparente di offerta.
Scriveva Giovanni Paolo II: «Il trapianto presuppone una decisione anteriore, esplicita, libera e consapevole. È una decisione di offrire, senza alcuna ricompensa, una parte del corpo di qualcuno per la salute e il benessere di un’altra persona. In questo senso, l’atto medico del trapianto rende possibile l’oblazione del donatore, quel dono sincero di sé che esprime la nostra essenziale chiamata all’amore e alla comunione. Amore, comunione, solidarietà e rispetto assoluto per la dignità della persona umana costituiscono l’unico legittimo contesto del trapianto d’organi» (1).
La scelta morale del trapianto trova unanime e trasversale consenso all’interno delle diverse religioni. Essa costituisce un atto di alta qualità morale, perché pone la cura dell’altro come fine ultimo. Il criterio fondamentale, cui fare riferimento, è il rispetto e la promozione dell’uomo in quanto uomo.
L’essere umano deve intendersi sempre e solo come un fine, mai come un mezzo. Qualunque intervento medico, deve volgersi, pertanto, al bene dell’uomo, ma non deve mai strumentalizzare un uomo al servizio di un altro.
Nel caso, ad esempio nel trapianto di rene, il donatore si sottopone a grandi disagi e sacrifici, che vengono accettati nella logica del dono di sé, per il bene e la vita del prossimo.
Alla luce dei criteri di priorità, scelte drammatiche e tragiche si presentano agli operatori sanitari nella assegnazione degli organi, che si rendono disponibili per i trapianti.
Alcuni ritengono che in queste decisioni debbano essere esclusi o penalizzati nella lista di attesa coloro che attendono un organo per una patologia riconducibile alle loro abitudini di vita (ad es. gli alcornolisti da trapianti di fegato e i tabagisti da trapianto di polmone). Questa strada eticamente discutibile condurrebbe soltanto ad un’eccessiva intromissione nella vita privata dei pazienti e sottoscriverebbe una spiegazione scientificamente erronea dell’insorgenza delle malattie, che dipendono da molteplici fattori e non da una sola causa. La valutazione che presiede all’individuazione di priorità deve essere legata a considerazioni di ordine strettamente clinico e, dunque, al beneficio dell’intervento per il malato.
La necessità di disporre di criteri, a cui uniformarsi e a cui fare riferimento, rende di grande utilità l’accesso ed il potenziamento dei Comitati etici e bioetici presso le istituzioni sanitarie.
Il trapianto si pone al servizio della vita, nel senso di difenderla e di favorirla. È questa la logica positiva che ne ha favorito l’enorme progresso registrato in questi ultimi anni.

Ciononostante, alcuni aspetti necessitano di essere tenuti costantemente presenti.
Ad esempio, può sembrare scontata la liceità del trapianto che viene fatto e motivato per un prolungamento della vita di un malato non altrimenti curabile. Si deve però considerare che, anche nell’ipotesi di un beneficio per il paziente che riceve l’organo, si viene talora a richiedere una qualche menomazione del donatore nel caso in cui questo sia vivente.
Si afferma nell’ultimo catechismo: «Il trapianto di organi è moralmente accettabile col consenso del donatore e senza rischi eccessivi per lui» (2).
Salvatore Privitera aggiunge: «Abbiamo il dovere morale di non compiere l’azione moralmente errata, ma non quello di compiere l’atto moralmente retto, quando non compiendolo, non provochiamo conseguenze negative. Nessuno è tenuto a mutilare, fisiologicamente o psicologicamente, se stesso per recare beneficio ad altri» (3).
Diversa ovviamente è la donazione dei propri organi da morto. In questo caso essa è moralmente doverosa, in quanto non vi è più alcun danno nel donatore, mentre grandi sono i benefici di chi riceve. Inoltre, l’etica dei trapianti è indispensabile che coinvolga l’équipe medica. A prescindere dalla sua preparazione e dalla sua formazione tecnico-scientifica, alta deve essere potenzialmente la possibilità di riuscita dell’intervento; il sacrificio del donatore non deve essere inutile.
La vita è sacra e, come tale, può venir sottoposta ad un trattamento rischioso ed invasivo soltanto se vi sono fondate speranze di successo. Sono, pertanto, da bandire quelle finalità esclusivamente sperimentali, in cui si antepone la ricerca all’attenzione nei confronti del malato.
La donazione, per sua natura, rimanda alla libertà e alla responsabilità. È in tale contesto che deve essere letta, partendo da una adeguata interpretazione della fisicità. Il corpo non può essere inteso semplicemente come un complesso di organi, tessuti, funzioni, senza un ulteriore riferimento alla dimensione psichica e spirituale.
Le attuali scienze antropologiche sono particolarmente efficaci nel presentare il corpo come manifestazione dell’individuo, anzi come strumento della sua realizzazione. E poiché l’identità della persona è di essere «dono» e la sua finalità è «donarsi», il corpo è veramente umano quando diventa lo spazio nel quale la persona si rivela e si realizza come dono che si fa dono.
La strada che conduce a questo atteggiamento libero e responsabile passa attraverso una continua educazione al significato della donazione. Rientra in questa opera educativa favorire e alimentare il senso umano della solidarietà.
La visione cristiana dell’esistenza offre un contributo nuovo ed originale: la donazione di organi, in vita e dopo la morte, è una forma secondo la quale vivere concretamente il comandamento della carità: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Giovanni, 15,13).

Enrico Larghero


Note:
(1) Giovanni Paolo II, su L’Osservatore Romano, 21 giugno 1991.
(2) Compendio catechismo della chiesa cattolica, n.476, San Paolo, LEV 2005.
(3) S. Privitera e coll., opera citata, p.108.

Enrico Larghero




DOSSIER TRAPIANTI Diagnosi ed accertamento della morte

QUANDO MUORE IL CERVELLO


Quando è possibile procedere all’espianto di un organo? L’accertamento

della morte deve essere rigoroso per evitare abusi (in nome della scienza
o del profitto) e sbagli. Oggi si ritiene che il sistema migliore sia quello
della «morte cerebrale»: un individuo è morto quando muore il suo cervello.

Secondo il comune pensare, la concezione prevalente di morte è essenzialmente di tipo «cardio-respiratorio». Un individuo è morto quando non respira ed il cuore non batte più. Tale criterio appare oggi superato. La nuova definizione di morte integra e supera questo primo concetto con una nuova definizione, quella di «morte cerebrale»: l’individuo è morto quando muore il suo cervello.
Alla fine degli anni ’60 il trapianto di cuore realizzato da Baard segnò una trasformazione radicale della riflessione sui problemi etici dei trapianti: l’espianto del cuore doveva essere realizzato, per la riuscita dell’intervento, con un organo mantenuto in vita, sia pure artificialmente attraverso la circolazione extracorporea. Diveniva in questo modo essenziale poter ricorrere, per l’accertamento della morte, al criterio della cessazione totale dell’attività cerebrale e non del battito cardiaco.
Uno dei quesiti che fu posto all’attenzione della ricerca medica nel 1968 dalla «Commissione Harvard» fu la revisione dei criteri per la definizione di morte.
Tali criteri sono stati poi codificati in Italia dalla legge n.578 del 29 dicembre 1993 e dal relativo regolamento di esecuzione del 22 agosto 1994, n.582.

Il sospetto di morte cerebrale può esser avanzato quando si rilevano: stato di incoscienza; assenza di riflessi del capo e del collo (ossia corneale, fotomotore, oculocefalico ed oculo-vestibolare), nonché reazioni a stimoli dolorifici nel territorio di innervazione del nervo trigemino; assenza di respirazione spontanea dopo sospensione della ventilazione artificiale; silenzio elettrico cerebrale documentato mediante elettroencefalogramma.
Il decreto applicativo n.582 del 1994 consente di stabilire con certezza quali siano i parametri cui fare riferimento per accertare l’avvenuto decesso. Dopo sei ore di accertata morte cerebrale (12 per i bambini e 24 per i neonati) si può dar luogo ad una sicura definizione e certificazione di morte, anche nei casi in cui, grazie al supporto medico rianimatorio, altri fenomeni vitali, come quelli cardiocircolatori e respiratori, sono ancora in atto.
Per accertare la morte clinica non sono sufficienti di per sé la perdita di coscienza per l’insorgere del cosiddetto «coma profondo» (che non comporta necessariamente la previsione di irreversibilità), né la cessazione dell’attività elettrica del cervello («elettroencefalogramma piatto»), perché tale segnale si riferisce soltanto all’attività della parte estea, della corteccia cerebrale. Occorre l’inattività dei centri interni, più profondi, dell’encefalo (bulbo, ponte, ecc.), ovvero di quei centri responsabili dell’unificazione delle funzioni organiche: è il caso, detto dagli esperti, «coma dépassé», nel quale non esiste più speranza di ripresa della vita cosciente e di relazione.
Ha ben scritto Elio Sgreccia: «Si ha morte clinica quando si constata la cessazione irreversibile delle attività non soltanto della corteccia cerebrale per un certo numero di ore, ma anche dei centri cerebrali interni cornordinatori delle funzioni organiche, quali la respirazione, il battito cardiaco, i riflessi nervosi» (1).
Pazienti in tali condizioni cliniche vengono mantenuti in vita grazie all’esistenza di strutture sanitarie complesse, quali le terapie intensive. In tali reparti il monitoraggio dei parametri vitali, il controllo ed il mantenimento del battito cardiaco e della funzione circolatoria, l’utilizzo di ventilatori per il supporto alla respirazione, tengono in vita malati in condizioni gravissime.
In tal modo, pazienti clinicamente morti, ovvero con morte cerebrale, possono essere sottoposti ad un eventuale espianto.

È necessario fugare molte perplessità sollevate riguardo ad una condizione affine alla morte cerebrale, cioè il quadro definito di coma. In questa situazione, causata da molteplici fattori patologici o traumatici, si verifica un obnubilamento dello stato di coscienza, per cui il paziente non reagisce più agli stimoli estei, compresi quelli dolorosi.
Il coma non deve esser considerato una malattia: è sempre l’espressione di un processo, che direttamente o indirettamente ha coinvolto il cervello e ne ha causato una riduzione funzionale tale da produrre incoscienza.
Un primo elemento da porre in evidenza è, in questi casi, l’incompletezza della compromissione funzionale: un’attività cerebrale residua è infatti sempre presente e può essere registrata tramite elettroencefalogramma. Un secondo elemento è la reversibilità: dopo alcune settimane alcuni pazienti ricominciano ad aprire gli occhi e riacquistano funzioni, come quella respiratoria ed intellettiva, la consapevolezza di sé e dell’ambiente circostante.
Nei casi restanti, invece, il coma può divenire irreversibile e lo stato di vigilanza apparente prende il nome di stato vegetativo persistente (Psv). Ciò avviene quando le lesioni riportate danneggiano le funzioni più complesse del cervello, ma risparmiano le strutture, sede delle funzioni vegetative. In quest’ultimo caso si verifica talvolta il recupero funzionale della corteccia cerebrale prima silente e quindi la ripresa, seppur lenta e graduale, delle funzioni superiori. Alla luce di questi dati, appare quanto mai pericoloso il dibattito attuale circa la possibilità di ritenere questi soggetti candidabili all’espianto.

La morte quindi deve identificarsi con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo.
«L’espianto… senza rispettare i criteri oggettivi ed adeguati di accertamento della morte del donatore… è una delle forme più subdole di eutanasia» (2).
Oggi, oltre all’elettroencefalogramma, molti esami strumentali, più modei e sofisticati, permettono di documentare l’assenza di flusso ematico cerebrale. Tali metodi sono: l’angiografia, la scintigrafia, il doppler trans-cranico, la Tac e infine la Pet (tomografia ad emissione di positroni). L’assenza di flusso implica inequivocabilmente la morte cerebrale, cioè del centro unificatore e cornordinatore dell’organismo.
Tale definizione, strettamente scientifica, trova conferma in un’affermazione della Pontificia Accademia delle scienze: «Una persona è morta quando ha subìto una perdita irreversibile di ogni capacità di integrare e di cornordinare le funzioni fisiche e mentali del corpo».
In queste condizioni, però, un essere umano, con l’estremo dono di sé, può diventare ancora una volta sorgente di vita.

Enrico Larghero


Note:
(1) E. Sgreccia, Sono tre i principi che vanno rispettati, su Avvenire, 14 novembre 1985.
(2) Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, 1995.

BOX: Opinione pubblica e trapianti

Quali sono i limiti?

Esistono dei limiti nella medicina? Esiste un limite ai trapianti? Questi gli interrogativi che frequentemente ci poniamo, quando constatiamo che il progresso scientifico abbatte barriere sino a ieri insuperabili. Sono interrogativi elementari, ma non per questo privi di buon senso, di quella sapienza che è sollecita nel custodire il valore della vita ed il suo significato.
A tutti è nota la situazione attuale: le possibilità di trapianto si estendono sempre di più, nuove frontiere si schiudono sotto i nostri occhi. Al di là delle tecniche ormai convalidate, pare di essere talvolta di fronte ad una «medicina trapiantista», frutto di una «mentalità trapiantista».
Diversi aspetti, tuttavia, inquietano l’opinione pubblica. Ad esempio, la necessità di avere a disposizione un maggior numero di organi può indurre medici senza scrupoli a non essere rigorosi nell’accertamento della morte. Le ragioni della medicina dei trapianti possono generare una «cultura della predazione».
Molte sono ancora le paure ancestrali della profanazione dei corpi, molti i timori su possibili abusi compiuti in nome della scienza. La confusione, spesso derivante anche dalla disinformazione e da una certa malasanità, può essere parzialmente superata con l’educazione e richiamando i principi etici fondamentali della questione.
La vera soluzione al problema è da ricercarsi in una capillare opera di sensibilizzazione che serva alla diffusione di una nuova cultura, affinché la donazione divenga sempre più un atto libero, gratuito e spontaneo, a cominciare dalla donazione del sangue.
Il trapianto è forse l’unico settore della sanità che non può esistere senza la partecipazione di tutti. Inizia e termina nell’ambito della società, è talmente complesso da non poter essere lasciato ad una libera interpretazione, necessita di un’attenta regolamentazione, rappresenta una «cartina di tornasole» per poter definire il valore di una società.
La diffusione della cultura del dono può condurre al superamento, eticamente problematico, del silenzio-assenso, coinvolgendo tutti, indipendentemente dalle convinzioni personali, a praticare questa nobile forma di solidarietà nella ricerca del bene comune.

Enrico Larghero




DOSSIER TRAPIANTI Riflessioni

LA SOFFERENZA E IL TABU’ DELLA MORTE


Aumenta l’aspettativa di vita e, allo stesso tempo, la cronicizzazione delle malattie, nonché l’eventualità dell’accanimento terapeutico. Ciò che non cambia mai è la nostra paura di fronte alla sofferenza. E, in ultima analisi, l’impreparazione dell’uomo davanti alla malattia, alla morte e alla fragilità umana.

Tra le varie conquiste dell’ultimo secolo, un posto di rilievo spetta alla medicina ed ai suoi progressi. La scienza, se da un lato ha prolungato le aspettative di vita, dall’altro ha generato problematiche relative alla cronicizzazione delle malattie e questioni inerenti le fasi cosiddette «terminali» dell’esistenza.
È emersa quindi, in modo sempre più crescente, l’esigenza di disciplinare adeguatamente le condizioni estreme della vita, per evitare i pericoli dell’accanimento terapeutico, che l’incalzante sviluppo tecnologico rende sempre più possibile.
La crescente paura di fronte a situazioni di sofferenza che si protraggono senza alcuna speranza, il diminuito senso di fede, l’enfatizzazione dei mass media di casi limite hanno ulteriormente favorito la diffusione del living will.
L’espressione living will (o testamento biologico, o direttive anticipate) indica le manifestazioni di volontà con le quali gli individui possono decidere a quali trattamenti sanitari essere sottoposti, qualora dovessero trovarsi privi della capacità di esprimere direttamente la propria volontà al personale sanitario.
Fondate sul principio di autonomia e nate come conseguenza alla diffusione del consenso informato, le direttive anticipate sono sempre revocabili. Talvolta l’interessato nomina un tutore come interprete delle sue volontà circa le cure accettate e le eventuali modalità della propria morte.
Possono rientrare, invece, tra le terapie rifiutate, la rianimazione cardio-polmonare, la respirazione meccanica, la nutrizione e l’idratazione artificiale e, meno frequentemente, la terapia antibiotica, le emotrasfusioni, l’emodialisi.

I diversi testamenti vigenti nel mondo variano notevolmente sia nello spirito che nello stile e risentono dei diversi orientamenti antropologici di fondo. Mutano anche le disposizioni contenute in ogni documento: si va dalla domanda dell’eutanasia attiva (Olanda), alla richiesta di terapie intensive per il prolungamento della vita (stato dell’Indiana), passando per il rifiuto sia dell’eutanasia che dell’accanimento terapeutico (Conferenza episcopale spagnola).
La promozione del testamento biologico negli Stati Uniti e in altri paesi anglosassoni viene quasi sempre fatta dai promotori dell’eutanasia e dalle associazioni che lavorano per la sua legalizzazione. Sembra più che giustificato, dunque, il sospetto che molte volte il living will venga proposto e interpretato come una «punta di lancia» per promuovere la «cultura della morte». Negli ultimi anni è stato utilizzato in base a ragioni anche economiche, per giustificare la sospensione dei trattamenti medici in pazienti inabili, ma che non sono malati terminali.
In molti paesi, invece, tra cui l’Italia, le direttive anticipate non hanno ancora trovato codificazione legale e sono, invece, oggetto di controversie e di accesi confronti.
Intanto il termine testamento per questi documenti è improprio perché si riferisce ad un comportamento da realizzare prima della morte del testante. Inoltre, il consenso informato e la figura del rappresentante fiduciario, costituiscono due punti controversi e di difficile interpretazione. Non potendo evidentemente prevedere tutte le possibili situazioni e condizioni in cui si potrà trovare il paziente, le dichiarazioni scritte si tengono necessariamente sul generico, offrendo indicazioni di massima che dovranno essere variamente interpretate ed applicate dai sanitari. La legge non può codificare tutta la realtà medica, molte condizioni cliniche sono imprevedibili, il divenire della scienza presenta continuamente situazioni inedite, apre scenari inquietanti un tempo inimmaginabili, quali gli stati vegetativi permanenti.

Una sovramedicalizzazione della malattia e della morte porta a conseguenze anche sul piano etico. I conflitti morali inerenti a questi problemi sono frequenti ed inevitabili, ma necessitano di risposte concrete: garantire il diritto alla vita di ogni malato attraverso «cure proporzionate», rendere il dolore più sopportabile, ricorrendo alla terapia antalgica e alle cure palliative, garantire la libertà di scelta del paziente (articolo 32 della Costituzione italiana), ma non legalizzare la richiesta di porre fine alla sua esistenza.
Secondo l’insegnamento della chiesa, alla «qualità della vita» devono anteporsi la «sacralità della vita» e la sua dignità. Non vi sono esistenze prive di valore. Il testamento biologico può essere affrontato solo inserito in questo contesto più ampio e l’orizzonte nel quale lo si deve collocare è principalmente culturale. La società contemporanea ha creato il tabù della morte, quasi che questo momento non faccia più parte dell’esistenza. Tale concetto è bandito nei luoghi di cura, non solo tra i malati ed i loro parenti, ma anche tra i sanitari.
I temi della malattia, della fragilità umana ci colgono oggi impreparati. Accompagnare la sofferenza e trae da essa un senso resta comunque un dovere di tutti, a prescindere dalla fede religiosa o dell’ideologia, anche in un mondo che tende a rimuovere questa realtà ricorrendo, ad esempio, alle direttive anticipate, vissute come antidoto alla sofferenza, ma che diventano, invece, se strumentalizzate, anticamera dell’eutanasia.
Alcuni anni fa erano in molti a pensare che il testamento biologico avrebbe risolto alcune importanti questioni inerenti alle problematiche di fine vita. Oggi quell’ottimismo è lontano.
Il diritto prioritario del paziente a gestire la cura della sua esistenza va coniugato con il dovere di tutelare la propria vita, poiché questa non si possiede, ma si identifica con la stessa persona e, per il credente, è un dono di Dio che l’individuo deve valorizzare e non può arbitrariamente distruggere: «Le leggi che autorizzano l’aborto e l’eutanasia si pongono… contro il bene del singolo e contro il bene comune e, pertanto, sono del tutto prive di autentica validità giuridica» (Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, n.72).

BOX 1

Il commercio di organi

Le cause del commercio di organi (*) sono molteplici, ma si possono ricondurre ad una sola: la carenza di organi disponibili.
Nonostante tutte le proibizioni dei governi, degli organismi inteazionli come il Parlamento Europeo e l’ONU, il traffico di organi è tuttora in certi Paesi del Terzo Mondo una pratica molto diffusa. Rapporti di organizzazioni nazionali e di organizzazioni non governative, lo confermano. I mass media, pur meno di quanto dovrebbero, se ne occupano.
La disponibilità di chirurghi senza scrupoli ha consentito la nascita di un traffico illecito, probabilmente limitato ai reni. Questi vengono acquistati a costi irrisori (indicativamente 1000 dollari a Bombay, 2000 a Manila, 3000 in Moldavia, 10.000 in America Latina) e poi rivenduti, insieme al costo dell’intervento eseguito clandestinamente, a cifre che oscillano tra i 100.000 e i 200.000 dollari.
Tale fenomeno, un vero e proprio crimine contro l’umanità, dovrebbe essere punibile e perseguibile in ogni paese del mondo. Chiunque accetti, anche se sofferente, di sfruttare la povertà altrui, si rende egualmente colpevole di un gravissimo reato.
Alcuni propongono, come via d’uscita alla carenza di organi, un compenso economico, legalmente riconosciuto per il donatore. Tale strada, oltre che moralmente riprovevole, è anche molto pericolosa, poiché può aprire la porta ad un’allocazione iniqua degli organi, fondata cioè sulla possibilità di pagare da parte di pazienti più abbienti e non sulla reale urgenza medica.
L’atto della donazione deve scaturire da una libera scelta, escludendo ogni costrizione e deve essere evitata ogni forma di speculazione (opportunamente la legge italiana sancisce che in vita si possa cedere un rene, ma solo a titolo gratuito).
Il corpo umano o le sue parti non possono essere oggetto di commercializzazione. La selezione dei riceventi deve fondarsi sulle necessità dei pazienti e non sulla base di criteri economici o di qualsivoglia altra natura.

(*) Sull’argomento si leggano gli articoli pubblicati sulla monografia di MC di ottobre-novembre 2005 a firma Guido Sattin ed Enrico Larghero.

Enrico Larghero




DOSSIER TRAPIANTI Alcune considerazioni conclusive

IL FUTURO E LE SUE FRONTIERE


Oggi il trapianto non è più un «tentativo estremo». Per il domani le maggiori aspettative sono riposte nelle cellule staminali e negli organi bio-artificiali. Senza dimenticare che scienza ed arte medica non sono sovrane assolute.

I trapianti d’organo, superata la fase pionieristica degli anni ‘60, costituiscono ormai una realtà. Oggi il trapianto è a tutti gli effetti un’opzione terapeutica, pur molto sofisticata e complessa, ma che deve essere considerata un intervento di routine, non un «tentativo estremo». Oggi l’80% dei pazienti che ha subìto un trapianto di rene, a cinque anni dall’intervento conduce una vita normale, libera dalla schiavitù della dialisi.
La sopravvivenza a lungo termine nei Centri all’avanguardia è ormai significativa: 75% a 5 anni per il trapianto di cuore; 80% per il trapianto di fegato nell’adulto. Questi dati confortanti ci dimostrano come la costante ricerca clinica e sperimentale ha condotto al perfezionamento e alla standardizzazione della tecnica chirurgica, all’affinarsi delle modalità di trattamento perioperatorio e della terapia del rigetto. In particolare per quest’ultimo aspetto, eccezionale è stato il ruolo svolto dall’introduzione della ciclosporina (in eventuale associazione ai corticosteroidi) che, rivoluzionando gli schemi immunosoppressivi precedenti, ha permesso di controllare il rigetto e di limitare in modo considerevole gli effetti collaterali negativi dei farmaci precedentemente utilizzati.
Ad esempio, la ciclosporina in microemulsione, ultima evoluzione del farmaco, consente di ridurre di un ulteriore 15-20% i casi di rigetto acuto.
In tutto il mondo sono attualmente operativi più di 1.650 Centri che hanno effettuato oltre 350.000 trapianti di rene, 1.600 di pancreas, 5.600 di rene e pancreas, 40.000 di fegato, 189 di intestino e multiviscerali, 36.000 di cuore e 4.200 di polmone. Per quanto riguarda la sopravvivenza, la maggiore è stata di 32 anni nella chirurgia sostitutiva renale, di 25 anni in quella epatica e di 21 in quella cardiaca, di 16 anni in quella di pancreas, di 14 anni in un trapianto combinato di rene e pancreas, di 12 anni per cuore e polmone, di 10 anni per il polmone singolo e di 8 dopo trapianto bilaterale del polmone.
Questi valori sono molto significativi soprattutto in relazione al fatto che, ad esempio per le patologie cardiache, mentre il 100% dei pazienti selezionati non trapiantati muore entro 6 mesi, l’80% di quelli trapiantati riprende a lavorare e a condurre una vita normale entro un anno.
I progressi nel settore dei trapianti si susseguono rapidamente e, mentre si allunga la lista degli organi e di altre parti del corpo trapiantabili, aumentano le conoscenze per il trapianto da vivente di parte del fegato (split-liver = fegato diviso), con l’asportazione di una porzione del lobo destro del fegato del donatore e successivo trapianto nel ricevente. Dal momento che il tessuto epatico è capace di rigenerarsi, nel giro di poche settimane le due parti divise ricostituiscono un organo pienamente funzionante.
Recenti sono i trapianti di mani e di avambracci, anche a distanza dalla loro amputazione, e dei multitrapianti (rene-pancreas; cuore-polmoni o addirittura trapianto della quasi totalità degli organi addominali).
Si profilano interventi ingegneristici, come impianti di porzioni di DNA e di geni, nel tentativo di risolvere l’incompatibilità genetica ed il rigetto. Si va inoltre elevando l’età clinicamente idonea sia per il donatore che per il ricevente, e quindi aumentano i soggetti coinvolti.

Quale è dunque l’ostacolo all’ulteriore diffusione dei trapianti? La risposta è ormai ben nota a tutti: la scarsità di organi disponibili. Rispetto alle esigenze ed anche con miglioramenti legislativi e sanitari, pare, a giudizio degli addetti, che non si giungerà mai al pareggio tra domanda e offerta. Questo elemento ha determinato a cascata una serie di problemi drammatici ed a forte contenuto etico, quali la donazione a pagamento, il commercio di organi, l’uso di tessuti fetali.
L’occhio del futuro si rivolge, da un lato alla costruzione di organi artificiali impiantabili e miniaturizzati, dall’altro all’utilizzo di organi di animali, anche se in questi ultimi casi di xenotrapianto, incombe minaccioso il pericolo del rigetto acuto.
Ricerche a tal proposito sono attualmente in corso, anche in relazione alle nuove scoperte tecnologiche della modea genetica, con l’eventuale utilizzo di animali transgenici, in particolare dei suini.
Secondo l’autorevole parere dei clinici del settore, l’avanzamento della ricerca e la prospettiva di sviluppo degli xenotrapianti costituiranno probabilmente il futuro della trapiantologia.
Anche la chiesa cattolica ha accettato, come via sperimentale per tentare di sopperire alla grave carenza di organi, gli xenotrapianti. Lo stesso Giovanni Paolo II, nell’agosto del 2000 nel corso di un Convegno a Roma organizzato dalla Transplantation Society aveva definito «moralmente accettabili» i trapianti da animale a uomo. La medesima posizione era stata ribadita dalla Pontificia accademia per la vita in un documento ufficiale, frutto di una serie di incontri tra i maggiori esperti di trapiantologia e di bioetica, laici e cattolici. Durante un incontro nel 2001 in Vaticano, si era giunti alla conclusione di accettare gli xenotrapianti dopo una accurata sperimentazione pre-clinica (da animale a animale), fino al raggiungimento di risultati sufficientemente positivi, tali da poter accedere alla sperimentazione sull’uomo.

Ancora più affascinanti sono gli studi che mirano alla creazione di tessuti e di organi, a partire dalle cellule staminali.
Tali cellule, venute alla ribalta in occasione del recente referendum sulla fecondazione medicalmente assistita, rappresentano, almeno potenzialmente, la terapia di molte patologie attualmente incurabili, quali ad esempio il morbo di Parkinson e l’Alzheimer. La loro peculiarità consiste nell’essere in grado di riparare danni tessutali in ogni organo. La tecnica a cui si potrebbe ricorrere è appunto quella del cosiddetto «trapianto cellulare», analogo al procedimento utilizzato per il midollo osseo. La fonte principale delle cellule staminali è l’organismo dell’adulto; vengono escluse quelle embrionali, per problemi legislativi (legge n.40 del 2004), etici (l’embrione è persona e come tale non manipolabile) e scientifici, (in quanto potenzialmente cancerogene).
L’ultima frontiera da esplorare sarà quella degli organi bio-artificiali. Nei laboratori all’avanguardia si lavora alla progettazione ed alla realizzazione di organi artificiali, o al perfezionamento di quelli già esistenti, come nel caso del cuore e del fegato. Tali apparecchiature, sempre più perfezionate, saranno in grado di sostituire, temporaneamente o addirittura in modo permanente, organi irrimediabilmente malati.
Tuttavia, queste innumerevoli possibilità tecniche, seppur entusiasmanti, rischiano di diventare criterio, misura e contenuto di ogni scelta, se non interagiscono con l’etica.
Un «corpo», infatti, non è semplicemente un complesso di organi e di tessuti manipolabili arbitrariamente con interventi demolitori-sostitutivi, ma è il corpo di una persona.
Da un lato l’uomo con le sfide tecnico-scientifiche è espressione della sua vocazione a continuare nel tempo la creazione. È mediante questa azione che egli riuscirà a completare e a finire ciò che di incompiuto, di labile e di imperfetto resta nel suo essere, in ordine alla sua piena realizzazione, lottando contro ogni limitazione e imperfezione.
Dall’altro, emerge un referente etico fondamentale che è la persona umana, nella totalità della sua esistenza, della sua dimensione corporea, psichica e spirituale, nei suoi valori di ragione, libertà, coscienza, affettività, religiosità, solidarietà sociale, nella sua capacità di formare una comunità in spirito d’amore e di giustizia.
Anche per i trapianti, come per le altre frontiere della vita, la scienza e l’arte medica non sono sovrane assolute, ma trionfano nella loro grandezza solo nel momento in cui si pongono umilmente al servizio dell’uomo, nel rispetto della sua dignità.
Dietro ai trapianti non vi sono soltanto problemi medici, ma ancor più morali. In futuro i trapianti occuperanno un posto sempre più importante, ma ciò richiede che si sviluppi una cultura della solidarietà e del dono, realizzando un singolare e talora eroico servizio alla vita.
Come scrisse Giovanni Paolo II: «Grazie alla scienza e alla formazione professionale e alla dedizione di medici e operatori sanitari… si presentano nuove e meravigliose sfide. Siamo sfidati ad amare il nostro prossimo in modi nuovi; in termini evangelici ad amare sino alla fine».

Enrico Larghero

Enrico Larghero




DOSSIER TRAPIANTI Glossario minimo

GLOSSARIO MINIMO

Anencefalia: mancato sviluppo del cervello durante lo sviluppo fetale. La difficoltà di reperire piccoli organi da utilizzare per il trapianto nei bambini ha suggerito il ricorso al prelievo di organi da feti o da neonati anencefalici. Non si tratta in generale di «buoni donatori», sia per l’immaturità degli organi che per l’elevata incidenza di malformazioni. Tuttavia, non vi sono remore di ordine etico al prelievo di organi dopo la morte, una volta che sia stato superato il problema dell’accertamento della stessa, data l’obiettiva difficoltà ad utilizzare dei criteri convenzionati nell’adulto e nel bambino.

Autotrapianto: tessuto trasferito da una sede all’altra dello stesso organismo (ad esempio, trapianto di osso per stabilizzare una frattura).

Cellula Staminale: si definisce staminale una cellula ad uno stadio precoce di sviluppo, la quale può dare origine sia ad altre cellule staminali che a una progenie di cellule differenziate di tessuti specifici (ad esempio cellule ematiche, nervose, muscolari). Le cellule staminali possono essere totipotenti, se sono in grado di generare qualsiasi tessuto, oppure pluripotenti, se possono dare vita a progenie cellulari solo di alcuni specifici tessuti. Il trapianto di cellule staminali rappresenta una potenzialità terapeutica per molte malattie attualmente difficilmente curabili (morbo di Parkinson, Alzheimer, diabete), o per le quali le terapie sono poco efficienti o caratterizzate da una scarsità di risorse (come i trapianti d’organo).

Ciclosporina: farmaco immunosoppressore che agisce bloccando la risposta anticorpale (azione dei linfociti T) utilizzato soprattutto per la prevenzione del rigetto.

Coma: dal greco koma, sonno profondo. Stato di incoscienza, a volte irreversibile in cui è assente qualsiasi risposta a stimoli estei. Il soggetto è privo di contatto con l’ambiente circostante, non ha consapevolezza di se stesso e può perdere alcune funzioni vegetative.

Donatore: organismo umano da cui si preleva un organo a scopo di trapianto.

Emodialisi: (o rene artificiale) procedura attraverso la quale è possibile la depurazione del sangue da tutte le scorie in esso contenute, mediante un apposito macchinario. È utilizzata nell’insufficienza renale.

Eterotrapianto o xenotrapianto: trapianto di un organo prelevato da un organismo appartenente a un’altra specie e detto anche trapianto eterologo (ad esempio: tra scimpanzé e uomo).

Immunosoppressori: farmaci che sono somministrati per controllare la reazione del rigetto. Prototipo di una nuova generazione di tali farmaci è la ciclosporina introdotta nella pratica clinica nel 1978, che ha permesso di combattere con maggiore efficacia rispetto al passato il fenomeno del rigetto. L’associazione tra questi farmaci ed i corticosteroidi ha notevolmente migliorato le prospettive di successo in questo campo.

Ingegneria genetica: scienza che studia ed applica tecnologie avanzate allo scopo di manipolare geni per studiae funzioni e interazioni, ottenere combinazioni non presenti in natura e combattere i problemi legati al rigetto.

Isotrapianto: trapianto tra individui geneticamente uguali (gemelli omozigoti).

Istocompatibilità, (antigeni di): complesso di molecole presenti sulla superficie cellulare che condizionano l’istocompatibilità, ossia la capacità di convivenza di cellule di organismi differenti. Tali geni costituiscono il complesso maggiore di istocompatibilità (MHC) che codifica la produzione di proteine leucocitarie. Durante la crescita embrionale, l’organismo impara a riconoscere le proteine proprie (self) ed evita così di mettere in atto meccanismi di difesa verso queste. Nel corso della vita, qualsiasi proteina estranea (non self) verrà aggredita ed eliminata dal sistema immunitario. Tale fenomeno si verifica a carico degli organi trapiantati con il rigetto. Per tale motivo il donatore deve essere «compatibile» al massimo grado con il ricevente ed i consanguinei hanno perciò maggiori possibilità di esserlo.

Morte cerebrale: stato di morte del cervello che coincide con la morte del soggetto, cioè con la cessazione dell’insieme delle funzioni vitali.

Omotrapianto: trapianto di un organo prelevato da un organismo appartenente alla stessa specie, cioè quella umana.

Protocollo chirurgico: descrizione delle tecniche e delle modalità relative alle operazioni di espianto, conservazione e trapianto di un organo e di un tessuto.

Ricevente: paziente beneficiario dei tessuti o degli organi da parte del donatore.

Rigetto: reazione immunitaria che si verifica nei confronti di un tessuto trapiantato e che ne determina l’incapacità di sopravvivere. La reazione di rigetto è tanto più forte quanto maggiore è la differenza genetica tra donatore e ricevente.
• Rigetto iperacuto: si manifesta immediatamente dopo il trapianto a seguito di una risposta immunitaria intensa e precoce conseguente a una pregressa sensibilizzazione degli antigeni del soggetto donatore da cui è stato prelevato l’organo da trapiantare.
• Rigetto acuto: si verifica quando la morte dei tessuti trapiantati avviene ad una settimana circa dal trapianto, è questo infatti il periodo di tempo necessario perché si sviluppi la risposta immunitaria.
• Rigetto cronico: in questo caso il fenomeno ha un decorso più lento e dilatato nel tempo.

Tipizzazione: identificazione delle caratteristiche della tipologia delle cellule o di un tessuto corporeo attraverso l’identificazione di alcuni antigeni in essi presenti. Le differenti combinazioni di questi antigeni permettono di distinguere le differenti tipologie da trapiantare.

Transgenico: organismo vegetale o animale modificato mediante l’introduzione di geni che provengono da specie simili o differenti.

Trapianto: intervento chirurgico con cui si innesta in un organismo detto «ospite» un organo o tessuto prelevato da un altro organismo detto «donatore».

(a cura di Enrico Larghero)


ASSOCIAZIONI PER LA DONAZIONI DI ORGANI

• Aido, Associazione italiana donatori di organo
nata a Bergamo il 26 febbraio del 1973, ha la sede nazionale in via Novelli 10/a, 24122 Bergamo – tel. 035.222167
• Admo, Associazione donatori midollo osseo
via Aldini 72 – 20157 Milano –
tel. 02. 39001170
• Aned, Associazione nazionale emodializzati
sede nazionale in via Hoepli 3,
20121 Milano – tel. 02.8057927

• Anerc, Associazione neuropatici emodializzati e trapiantati
via Scudillo 24, 80131 Napoli –
tel. 081.5453322
• Aitf, Associazione italiana trapiantati di fegato
fondata a Torino nel 1988,
ha sede presso l’Ospedale Molinette, corso Bramante 88, 10126 Torino –
tel. 011.6336374
• Anto, Associazione nazionale trapiantati di organo
via Vittorio Emanuele II 27,
25122 Brescia – tel. 030.2971957

Bibliografia essenziale:

• Aramini M., Di Nauta, Etica dei trapianti di organi, Edizioni Paoline, Milano 1998
• Bollettino dell’Associazione Anestesisti, Rianimatori Ospedalieri Italiani (AAROI), nn.1-8- 2005
• Bompiani A.,Sgreccia E., Trapianti d’organo, Vita e Pensiero, Milano 1989
• Casciani C.U., Valori etici e scientifici nella ricerca del trapianto d’organo, in Ghetti V. (a cura), Etica nella ricerca biomedica, F.Angeli, Milano 1991
• Civetta J.M., Trattato di rianimazione e terapia intensiva, Antonio Delfino Editore, Roma 2000
• Crepaz P, La donazione di organi, Città Nuova, Roma 2003
• Lamb D., Il confine della vita. Morte cerebrale ed etica dei trapianti, il Mulino, Bologna 1987
• Morris P., I trapianti. Uno sguardo etico, Sapere 2000, Roma 2003
• Perico G., I trapianti umani verso la nuova normativa, in Id, Problemi di etica sanitaria, Edizioni Ancora, Milano 1992
• S.Privitera e coll., La donazione di organi. Storia etica legge, Città Nuova, Roma 2004
• Puca A., Trapianto di cuore e morte cerebrale del donatore (aspetti etici), Edizioni Camilliane, Torino 1993
• Romano E., Anestesia generale e clinica, UTET, Torino 2004
• Sgreccia E., Bioetica e trapianti d’organo sull’uomo, in Id., Manuale di Bioetica: I. Fondamenti ed etica biomedica, Vita e Pensiero, Milano 1994
• Sherwin B.Nuland, Storia della medicina. Dagli antichi greci ai trapianti d’organo, Mondatori, Milano 2004
• Spagnolo A.G., Bioetica nella ricerca e nella prassi medica, Edizioni Camilliane, Torino 1997
• Tettamanzi D., Il trapianto di organi, in Id., Bioetica. Nuove frontiere per l’uomo, Piemme, Casale Monferrato 1990

Siti internet:
• www.daivaloreallavita.it
• www.trapianto-giornatanazionale.it
• www.donalavita.net (*)
(*) campagna di sensibilizzazione finanziata dalla Regione Piemonte e realizzata dall’agenzia Armando Testa, ideatrice del «cuore infiocchettato»

Enrico Larghero




DOSSIER TRAPIANTI Storia e introduzione alla problematica

TRAPIANTI,
DALLA LEGGENDA ALLA REALTÀ

Il mito dell’eterna giovinezza o la possibilità di prolungare la vita e restituire la salute attraverso la sostituzione di organi o tessuti malati con organi e tessuti sani ha stimolato la medicina e da sempre anche la fantasia popolare.
La storia dei trapianti ha origini nella leggenda, in Cina. Si narra che nel III secolo a.C. un chirurgo, Pien Chi’ao, scambiò i cuori di due soldati addormentati. Nel II secolo d.C. sempre un chirurgo cinese Ua T’o realizzò trapianti di visceri utilizzando per l’anestesia sostanze vegetali.
In Occidente, invece, la nascita dei trapianti viene fatta risalire dalla tradizione al III secolo d.C. quando J. da Varaquine nella Leggenda aurea narra che i santi Cosmo e Damiano sostituirono la gamba cancrenosa del loro sacrestano con l’arto di un etiope deceduto il giorno precedente. Francois Rabelais nel 1552 immaginò nel suo surreale Pantagruel un autotrapianto totale di testa; in particolare, nella ricostruzione del cranio di un nobile moscovita ferito in duello, si utilizzarono addirittura frammenti del cranio di un cane.

La storia scientifica dei trapianti inizia invece nel 1902, quando un chirurgo francese, Alexis Carrel, mette a punto a Lione una tecnica efficace e sicura per suturare le arterie e i vasi sanguigni, dimostrando in questo modo di poter collegare un organo estraneo, alla circolazione di un organismo ricevente. Per tale contributo, nel 1915, primo e finora unico chirurgo, otterrà il Premio Nobel. Lo stesso prestigioso riconoscimento fu assegnato cinquant’anni più tardi all’inglese Peter Medawar, le cui scoperte segnarono una seconda tappa fondamentale nella storia dei trapianti. Lo scienziato, dagli studi di anatomia, orientò le sue indagini sulle reazioni immunitarie dell’organismo dopo un innesto di cute in pazienti gravemente ustionati durante i bombardamenti di Londra della II guerra mondiale. Pose in questo modo le basi della compatibilità genetica tra individui consanguinei e quindi dello sviluppo dell’immunologia dei trapianti e del correlato problema del rigetto, cioè a quel complesso di reazioni biologiche in base al quale l’organismo tende a rifiutare l’organo trapiantato, riconoscendolo come estraneo.
Jean Dausset, allievo di Medawar, proseguì queste ricerche, dimostrando che un trapianto aveva maggiori possibilità di riuscita se il sistema anticorpale dei donatori era il più possibile simile a quello del ricevente, ponendo così le basi per i successivi studi sulla «compatibilità». Tali ricerche condussero l’équipe del professor Murray ad eseguire, il 23 dicembre 1954, a Boston il primo trapianto di rene fra gemelli omozigoti. L’identità genetica tra donatore e ricevente permise di evitare la reazione di rigetto determinando l’esito positivo dell’intervento, anche in assenza dei molti farmaci immunosoppressori, scoperti ed applicati nella pratica clinica solo successivamente.
Negli anni seguenti furono eseguiti un gran numero di trapianti da donatore vivente con risultati sempre più soddisfacenti. Nel 1963 Hardy compie il primo trapianto di polmone.
Nello stesso anno, dopo lunghissima sperimentazione, il chirurgo americano Thomas Starzl eseguì a Denver il primo trapianto di fegato, anche se il paziente morì, purtroppo, nel giro di poche ore. Si dovettero attendere alcuni anni per raggiungere una sopravvivenza sufficientemente lunga e considerare affidabile tale trapianto.
Nel 1966, Kelly e Lillehei furono gli autori del primo trapianto di pancreas a Minneapolis e l’anno successivo, a Città del Capo, Christian Baard eseguì il primo trapianto di cuore polarizzando in quell’occasione l’attenzione di tutti i mass media e dell’opinione pubblica mondiale.
Questo intervento rappresentò una «pietra miliare» e fu proprio in tale circostanza che si diede avvio ad un ampio dibattito sulla donazione degli organi. Nel 1968, un Comitato della Harvard Medical School, stabilì i criteri per la definizione del concetto di «morte cerebrale», che saranno da quel momento in poi universalmente condivisi.
I successi ottenuti determinarono una ampia diffusione della pratica dei trapianti, ingenerando nuove aspettative per l’umanità. Il problema principale, tuttavia, rimaneva legato al rigetto, fino a che la scoperta della molecola della ciclosporina, con la sua applicazione dal 1979, rivoluzionò la terapia immunosoppressiva. Durante gli anni ’80, Thomas Starzl, associando la ciclosporina agli steroidi, migliorò radicalmente le possibilità di successo dei trapianti di rene, fegato e cuore. Le percentuali di sopravvivenza, a un anno dall’intervento, passarono dal 20 al 70%!
L’ultima frontiera nella storia dei trapianti è quella aperta nel 1998 a Lione da Jean-Michel Dubeard con il primo innesto di mano e di avambraccio, creando i presupposti per una nuova e futura disciplina.

Nonostante i successi dal punto di vista clinico, biologico, farmacologico e chirurgico, un problema ancora da risolvere è legato alla carenza di donatori e di organi disponibili. Gli scienziati si sono orientati verso possibili soluzioni alternative e avveniristiche, come gli organi artificiali (emodialisi, cuore artificiale), gli xenotrapianti (trapianto da animale a uomo) e le cellule staminali (potenzialmente in grado di riprodurre qualunque tessuto) che non hanno però finora dato risultati soddisfacenti in termini di applicabilità, di aumento della sopravvivenza, di qualità della vita, ma sollevando, al contempo, scottanti problematiche bioetiche.
Un nuovo scenario si è quindi aperto davanti all’uomo: una possibilità di ridare vita a chi non ha più speranza, ma anche di ingenerare altre occasioni di sofferenza e di morte, quando i criteri morali, relegati in secondo piano, non sono considerati in tutta la loro importanza e complessità.

Enrico Larghero

Enrico Larghero




DOSSIER CINEMA AFRICANO Presentazione

L’Africa c’è, è viva, anche culturalmente. E lo dimostra la straordinaria produzione cinematografica, fiction e documentari, lungo e cortometraggi, video per la tv e serie televisive.
La settima arte si confronta sul continente ai problemi di finanziamenti, scarsa presenza di centri di formazione e, soprattutto, difficile o inesistente distribuzione
(i film africani hanno difficoltà a essere presentati nelle sale africane). Ma gli addetti ai lavori vedono queste piuttosto come sfide per il futuro.
Così, ogni due anni, si incontrano al Festival panafricano del cinema
e della televisione di Ouagadougou (Fespaco) per mostrare il meglio della produzione, per scambiare, per fare progetti.
Una settimana di delirio cinematografico, che ha visto quest’anno un’elevata qualità
nelle diverse competizioni.
I temi sono quelli cari a questa cinematografia, fatta di registi e attori impegnati. Un cinema spesso sociale, talvolta di denuncia. Tematiche come i conflitti e la loro risoluzione, i problemi del dopo guerra e della riconciliazione nazionale. Ma anche il dovere della memoria, la riflessione sul passato dell’Africa e sulla colonizzazione.

Spesso presente è il rapporto tra Africa ed Europa: il dialogo cercato, l’incontro e lo scontro tra le culture, inteso come il capirsi o non capirsi affatto. Il tema del potere, la famiglia (soprattutto il rapporto genitori-figli), l’infanzia e l’Aids.
Dal Maghreb al Sudafrica, passando per l’Africa dell’Ovest (che con
il Senegal e il Burkina Faso è un po’ la culla della cinematografia africana), il Congo, l’Angola.
E il Fespaco del 2005 sancisce che è giunto il grande momento del cinema anglofono, soprattutto sudafricano, che mostra una buona maturità.
È del Sudafrica il grande vincitore del Festival, Zola Maseko, con il suo Drum, sull’apartheid degli anni ’50 nel suo paese.
Per molti esperti il 2005 è anche il cinquantenario della nascita del cinema dell’Africa nera. Così organizzatori del Fespaco hanno offerto al pubblico una preziosa retrospettiva con la proiezione di opere difficilmente rintracciabili.
Un’Africa che parla di sé, si racconta. Un’Africa culturale, spesso trascurata in Europa, dove la si associa solo a sanguinosi conflitti e a genocidi. Un continente culturale che si mette in scena e potrebbe, grazie al grande schermo, smantellare almeno un po’ quegli stereotipi così forti con i quali la caratterizziamo.

Marco Bello




DOSSIER CINEMA AFRICANO L’Africa va in scena

«Il dialogo tra l’Africa e il resto del mondo è un dovere. Dobbiamo riconciliarci. Siamo in grado di parlarci e avere ognuno il proprio posto». Queste parole del principe Kouma N’Dumbe, professore camerunese alle università di Berlino e Yaoundé, riassumono la forza del messaggio del 19° Festival panafricano del cinema e della televisione di Ouagadougou (Fespaco).
Il «principe» è uno dei protagonisti del film Il malinteso coloniale di Jean Marie Teno. Un messaggio che sembra dire: ci siamo anche noi come popoli, come culture, sappiamo esprimerci, comunicare. Abbiamo il dovere di dialogare con gli altri continenti. Il cinema e l’audiovisivo sono eccellenti mezzi per farlo e noi li sappiamo usare. Guardateci.
Ogni due anni, dal 1973, Ouagadougou, capitale di uno dei paesi più poveri del mondo, il Burkina Faso, accoglie per una settimana l’evento cinematografico più importante del continente. Per questa edizione sono state circa 170 le opere proiettate, di cui 20 lungometraggi e 20 cortometraggi nelle competizioni ufficiali, 6 nella categoria dedicata alla diaspora africana e 22 film nella sezione Tv e video (18 fiction/documentari e 4 serie televisive). Fuori competizione corto e lungometraggi di Africa, Caraibi, Pacifico, ma anche una sezione dedicata ai film del mondo, con lo Sguardo sul cinema tedesco, che ha riproposto alcune pellicole di Margarethe Von Trotta.
Il 2005 è, secondo molti, il 50° anniversario del cinema africano, che avrebbe origine con Afrique sur seine (1955) del senegalese Paulin Soumanou Vieyra. Proprio per questo, gli organizzatori del Fespaco hanno presentato una «Retrospettiva sui 50 anni del cinema dell’Africa nera». I fortunati festivalieri hanno avuto a disposizione una selezione di 22 titoli storici, come lo stesso film di Vieyra, alcune opere di Sembène Ousmane (l’ultra ottuagenario senegalese, presente al festival, sempre impassibile con la sua pipa), Oumarou Ganda, Ababacar Samb Makharam, Gaston Kaboré, solo per citae alcuni.
Nell’insieme, un cartello non solo di quantità, ma di particolare qualità, assicurano i critici. «Abbiamo trovato un livello molto alto di qualità e una ricchezza eccezionale in questi film» dichiara Souheil Benbarka (vincitore del Fespaco 1973), presidente della giuria lungometraggi.
Ma il Fespaco è anche uno straordinario momento di incontro per tutti coloro che lavorano o si interessano al settore. Registi, attori, produttori, critici e semplici fans hanno la possibilità di incontrarsi, scambiare, prendere contatti per progetti futuri. È in qualche modo il termometro del cinema africano: cosa c’è sul mercato, cosa si è fatto in questi due anni, dove stiamo andando, quale crescita? Ma anche occasione di rilancio, costruzione e progettazione.

Atmosfera da Cinema

Il salone dello storico Hotel Independence di Ouagadougou è gremito di gente: cineasti, produttori, attori e cinefili, venuti dall’Africa e dall’Europa. A guardarli bene hanno tutti qualcosa di particolare. Neri, bianchi, mulatti, vestiti in modo stravagante o appariscente, con elaborate acconciature. Un gigante con la barba bianca indossa il costume tradizionale dei dogon, popolo del Mali di antiche origini.
Si parlano, si ritrovano, si filmano. Qualcuno riesce a incontrare il suo attore preferito, a fotografarlo, a ottenere un’intervista. Sullo sfondo di decine di cartelloni di film, africani e non, grandi o piccoli appiccicati sulle pareti in ogni spazio libero.
Fuori, il caldo del Sahel è ormai arrivato e supera i 40 gradi all’ombra nelle ore di punta (il salone ha l’aria condizionata). Ma i festivalieri si incontrano un po’ ovunque in città: si spostano, spesso a piedi, da un cinema all’altro, da una sala quasi climatizzata alla successiva. Accaldati, sudati, con i volti arrossati (gli europei), ma impavidi del sole battente, si difendono ingurgitando acqua da bottiglie di plastica.
La capitale del Burkina Faso si colora e si anima nella settimana della festa del cinema, e anche quest’anno si sono stimate dalle 4 alle 5 mila presenze.
Anche al Centro culturale francese si incontrano attori e registi e si può visitare il Mica (Mercato internazionale del cinema e televisione africani), un’esposizione di operatori nel settore video e cinema, giunta alla sua 12a edizione.
Ma sono le sale cinematografiche il cuore pulsante della manifestazione. Due grandi sale con aria condizionata (che fatica, vista la quantità di pubblico), due cinema all’aperto e due allestimenti temporanei, anch’essi estei, per godersi i 35 gradi serali. La partecipazione è alta, sia di burkinabé che di stranieri e i cinema sono spesso stracolmi.
Alla sua 19a edizione, il Fespaco è stato, per la prima volta, segnato dal lutto: due ragazze sono morte nella ressa allo stadio per assistere alla cerimonia di apertura. Oltre una decina sono stati i feriti: schiacciati, soffocati. Il caldo ha fatto la sua parte. Un fatto drammatico che dà la dimensione della partecipazione popolare, ma anche della difficoltà o talvolta della leggerezza delle autorità, sorprese a gestire un evento dall’eccezionale afflusso.

I protagonisti

Ma quali sono i film che i festivalieri si raccontano e si consigliano l’un l’altro di andare a vedere in un tour de force cinematografico? L’edizione ha mostrato una forte partecipazione, in quantità e qualità, del cinema anglofono, in particolare sudafricano.
«Questo premio è un enorme onore per il cinema sudafricano, e per il suo popolo, per la sua bellezza, forza, resistenza nella lotta e vittoria di uno dei più brutali regimi del xx secolo» afferma commosso Zola Maseko, regista di Drum e vincitore assoluto del Fespaco 2005, pochi istanti dopo aver ritirato lo Stallone d’oro di Yennenga in uno stadio stracolmo.
Ex militante del braccio armato dell’African National Congress (Anc), Maseko è riuscito a fare un film forte ed emotivo, sulla storia vera del giornale Drum e del giornalista Henry Nxumalo. Ambientato nel Sudafrica degli anni ’50, quando il regime di apartheid si inaspriva, il film racconta una società stratificata e la presa di coscienza di alcune persone contro l’ingiustizia.
I film sudafricani, presenti con quattro titoli nella sezione lungometraggi, hanno anche fatto il pieno di premi. «È un giusto riconoscimento per un cinema che è molto avanzato – dice Idrissa Ouedraogo, il più noto regista e produttore burkinabé -. Noi, in Africa dell’Ovest, dobbiamo metterci al passo e migliorare il nostro livello se vogliamo competere con loro».
Drum conquista anche il premio della migliore scenografia, mentre Zulu love letter di Ramadan Souleman ottiene il premio speciale Unione europea, perché «ben rappresenta i valori dell’Ue» e la miglior interpretazione femminile, con la brava Pamela Monvete Marimbe.
Il film di Souleman presenta un Sudafrica dopo apartheid, alle prese con il suo passato che ritorna, la voglia di riconciliazione, ma anche di verità sui crimini commessi e la difficile convivenza tra vittime e carnefici di un tempo. Ma è anche la storia del rapporto, difficile, tra madre e figlia. «Questo film è un ringraziamento alle donne, che in Sudafrica hanno sempre continuato a tenere in piedi le famiglie. A loro dobbiamo un contributo notevole nella lotta di liberazione» dichiara il regista.
Lo scanzonato Max and Mona di Teddy Mattera (vedi riquadro) si aggiudica il premio Oumarou Ganda, con un film allegro, tecnicamente ben fatto, che mostra in modo grottesco le differenze tra la campagna e la città, e come la tradizione trovi il posto nella modeità. Mattera, con un’aria di giovinetto ribelle, urla al pubblico: «Respect Africa! Il miglior premio è essere qui».
Beat the Drum, sul tema dell’Aids, di David Hickson, da qualcuno dato per favorito, si è dovuto accontentare di un paio di premi speciali (erano in tutto 22 assegnati da istituzioni di ogni genere) tra cui quello dell’Associazione cattolica mondiale per la comunicazione (Signis).

Il Maghreb in forze

Ma sui grandi schermi di questa settimana fantastica di Ouagadougou si sono rincorse senza sosta, come di consueto, immagini di realizzatori dell’Africa dell’Ovest (Burkina Faso in testa) e del Centro, senza dimenticare il grande contributo del cinema maghrebino (film tunisini, algerini e marocchini sono in cartellone).
Di questi ultimi, ben rappresentati nelle competizioni ufficiali, con 6 lungometraggi e 8 cortometraggi, è Hassan Benjelloum, marocchino, con La camera nera, che si piazza meglio, aggiudicandosi il secondo posto assoluto: Stallone d’argento di Yennenga. Anche in questo caso, il tema è quello del dovere della memoria e della riconciliazione.
Il contesto sono le repressioni del regime marocchino degli anni ’70, sulle quali, oggi, c’è molto dibattito politico nello stesso Marocco. «Abbiamo svolto un’inchiesta, intervistando ex detenuti, ex torturatori, famiglie di detenuti e responsabili del regime dell’epoca. Poi abbiamo fatto un adattamento libero per il film – spiega il regista -. La reazione del pubblico in Marocco è stata positiva. La nuova generazione è rimasta sorpresa. Ignoravano tutto ciò. Non fa ancora parte della storia ufficiale del paese».
E continua: «Queste cose sono successe anche in Algeria, Europa, Africa. E succedono oggi a detenuti in prigioni segrete del mondo». È un film scottante quello di Benjelloum, ma attuale, «universale», sottolinea il regista.

La guerra, e dopo?

Il conflitto e postconflitto sono altri due temi principali del cinema africano di oggi. Un ottimo esempio è il film dell’angolano Zezé Gamboa, con Un eroe, unica opera lusofona nella competizione ufficiale, che si aggiudica il premio della migliore immagine (vedi riquadro).
Nella Luanda del dopo guerra, Vitorio è un militare smobilitato; dopo 15 anni sotto le armi, senza una gamba persa su una mina, si ritrova a dormire in strada e nell’infruttuosa ricerca della famiglia dispersa e di un lavoro. Si muove in una Luanda di bambini di strada, di gente disperata alla ricerca dei parenti.
«Il mio è un cinema sociale – dice Gamboa -, non necessariamente di denuncia, ma che vuole presentare situazioni reali». Egli vuole suggerire ai politici del suo paese che bisogna fare di più: «La guerra è finita da due anni e il potere deve arrivare a dare alla gente l’accesso all’acqua e altri servizi di base».
E deve fare di tutto per reintegrare i reduci portatori di handicap. «Vitorio è doppiamente eroe: è stato eroe di guerra; ora è eroica la lotta quotidiana per sopravvivere e reinserirsi nella società. La sua storia rappresenta quella di tantissimi angolani di oggi». Gamboa non solo fa riflettere sul malessere che ha portato la guerra nel suo paese, e le guerre in generale, ma cerca di fornire delle piste di soluzioni.
La regista burkinabé, Fanta Regina Nacro, in La notte della verità mette in scena la propria idea sulla risoluzione dei conflitti (vedi riquadro). In un paese qualsiasi, due etnie dai nomi di fantasia si combattono. Da una parte il presidente, dall’altra il colonnello capo delle forze ribelli. La guerra è stata dura, le atrocità molte. La gente è stanca. I due capi organizzano, allora, un incontro per suggellare la pace. Incontro che avviene in un’unica notte, nella quale il passato recente riaffiora, con storie personali e vendette: la pace sembra compromessa a più riprese. Anche qui è forte il tema della riconciliazione nazionale.
Una storia che è un suggerimento perfetto alla vicina Costa d’Avorio, ma calza a pennello anche per il Burundi, l’Uganda e ogni conflitto che devasta il continente. La giuria è sensibile al tema della pace e La notte della verità vince il premio per la miglior sceneggiatura (oltre a un paio di premi speciali).

Africa-Europa

Il tema del rapporto tra Africa ed Europa, o l’incontro-scontro tra culture, è una costante nella cinematografia africana: anche quest’anno è ben rappresentato al Fespaco.
La nigeriana Branwen Okpako lo presenta in Valle degli innocenti, mettendo in scena africani immigrati in Europa o afro-europei.
Zéka Laplaine, della Repubblica democratica del Congo, con il suo Il giardino di papà preferisce raccontare gli stereotipi delle paure che gli europei hanno dell’Africa e degli africani, attraverso un film opprimente, ma talvolta comico, interamente girato di notte: una coppia di sposi francesi va in viaggio di nozze in Congo, dove lui è cresciuto, ma con il quale ha ormai perso il contatto. Lui si comporta goffamente, mettendo in luce un atteggiamento quasi razzista. Lei, a contatto per la prima volta con la realtà africana, alla fine di innumerevoli disavventure arriverà a capirla meglio.
Jean Marie Teno, documentarista affermato, ma anche regista di fiction, vuole approfondire questo tema in chiave storica con il suo Il malinteso coloniale (vedi intervista). Documentario di 87 minuti, girato tra Germania, Sudafrica, Namibia e Camerun, è quasi un’inchiesta volta a dimostrare la storica influenza negativa delle missioni cristiane (in questo caso i protestanti tedeschi in Namibia) nello sviluppo dell’Africa di oggi. Una serie interminabile di interviste a professori e ricercatori, ma anche a uomini di chiesa, come il vescovo anglicano di Swakopmund, il vecchissimo archivista della diocesi, memoria vivente di quasi un secolo di missione.
Interviste in tedesco, inglese, francese, il film è impegnativo e vuole condurre lo spettatore all’assunzione della tesi del regista. Mancano di fatto argomenti contraddittori e resta debole la voce della chiesa africana. «È un lavoro di memoria sul continente – spiega il regista – e la gente vuole questo. Penso che il cinema sia un buon mezzo per raggiungere il grande pubblico, anche su tematiche difficili».

Il più amato

Ma qual è il film che più è piaciuto al popolo del Fespaco? Il Premio del pubblico se l’è aggiudicato Tasuma (il fuoco) del burkinabé Daniel Kollo Sanou, che si aggiudica anche il terzo premio assoluto, lo Stallone di bronzo di Yennenga, oltre a due premi speciali (Onu e Cedeao).
Tasuma è la storia di Sogo Sanon, 65enne, ex combattente nell’esercito francese in Indocina e Algeria. Tornato in patria, lotta per ottenere la pensione militare dall’amministrazione francese; ma si scontra con una burocrazia pesante e una lunghissima attesa. Il tema è molto sentito tra gli anziani combattenti dell’Africa Occidentale, che dopo aver servito la Francia in epoca coloniale sui fronti del mondo (spesso contro patrioti che cercavano l’indipendenza, ma anche per liberare paesi occupati durante la prima e seconda guerra mondiale), si vedono discriminati rispetto ai loro colleghi francesi.
Tasuma, che aveva già ricevuto l’apprezzamento del pubblico burkinabé, ha così conosciuto una consacrazione internazionale. Farcito di humor tipico dei registi del Burkina, presenta uno spaccato di vita di questo paese.
«Gli ex combattenti sono dei pionieri delle indipendenze. Sono i primi che sono usciti dal sistema coloniale e hanno visto altre realtà. Sul campo non erano discriminati. C’è stata una certa presa di coscienza da parte loro. Hanno contribuito allo sviluppo economico del paese. Sono molto considerati nei loro villaggi» spiega il regista, lui stesso figlio di un ex combattente. Il film sembra chiedere giustizia per questi vecchietti, che a volte si incontrano nei villaggi più sperduti, fieri delle loro medaglie sempre attaccate alla casacca.
«Non è stato mio obiettivo fare del cinema di rivendicazione o di contestazione. Ho voluto, innanzitutto, rendere omaggio a questi eroi dell’Africa che, anche se sono stati al servizio di un’amministrazione coloniale, hanno pure servito cause nobili, come la liberazione della Francia dal nazismo».
Kollo Sanou ci ha messo 15 anni a fare questo film; un mese per girarlo. Si è scontrato con il maggior problema del cinema africano: i finanziamenti: «Non è facile trovare i fondi per fare un film. Il Burkina è un po’ un’eccezione: abbiamo il Fespaco, le autorità sono disponibili ad appoggiare i nostri progetti. Abbiamo attrezzature professionali, ma i soldi mancano sempre. Negli anni ’70 fino al ‘90, esisteva un fondo di promozione all’attività cinematografica, finanziato con una tassa presa su ogni biglietto venduto. Ora non esiste più.
Cerchiamo i soldi al Nord: Unione europea, Goveo francese, Agenzia della francofonia, e altre istituzioni. Ma è necessario avere un produttore basato al Nord. Dieci anni fa il produttore gestiva il finanziamento accordato. Talvolta questi fondi subiscono malversazioni: ho conosciuto due casi in cui i soldi sono stati utilizzati in altro modo. Il fatto è che non c’è troppa fiducia nei registi africani. Purtroppo a ragione, talvolta».
Adesso le cose stanno un po’ cambiando: «Ora c’è più fiducia. I finanziatori inviano i soldi direttamente nei nostri paesi. Si sono resi conto che è bene incoraggiare i cineasti in Africa, non solo quelli immigrati».

Ma chi li vede?

Un’altra grossa difficoltà che incontrano i film africani è la distribuzione. «Sì, questo è un vero problema – spiega Zezé Gamboa -. Arriviamo alla fine del film e non abbiamo i soldi per la promozione. Essa è cara; ma un film esiste grazie anche a essa. Altrimenti restiamo in un ghetto: veniamo nei festival, ma ci si ferma qui. A mio avviso, il film deve avere una vita molto più larga: deve circolare in Africa e poi nel resto del mondo. Ma questo è oggi molto difficile».
Anche Teddy Mattera è di questa opinione, sebbene la situazione del Sudafrica sia differente: «Abbiamo lo stesso problema nei paesi anglofoni, non ci sono i distributori presenti in Europa. Nel nostro paese solo la South African Broadcasting Corporation (Sabc) fa distribuzione. Dobbiamo trovare agenti di vendita per entrare nel mercato britannico o nord americano. E questo è possibile».

I l tema del Fespaco di quest’anno è stato «Formazione e questione della professionalizzazione». Molti cineasti africani impiegano nei loro film parenti e amici. Questo non fa bene al cinema dice Gamboa: «Il cinema è una questione tecnica; bisogna saperlo fare, non si può improvvisare. Servono persone competenti. Si può essere formati a scuola o sul campo. In Angola, dato che non abbiamo abbastanza cinema, è difficile imparare sul campo. Servono le scuole. La formazione è fondamentale. In Africa i professionisti ci sono, attori e tecnici, lavorano bene, occorre impiegarli. È molto difficile fare del cinema in Africa: se i nostri professionisti non hanno possibilità, di cosa potrebbero vivere? In Burkina è stata fondata una scuola, ma in Africa lusofona non l’abbiamo ancora. È con iniziative del genere che possiamo dare voglia ai giovani di fare cinema».
Allude a Imagine, centro polivalente fondato a Ouagadougou dal cineasta burkinabé Gaston Kaboré, che offre la possibilità di formazione e perfezionamento nei mestieri legati al cinema, televisione e multimediale.
Lo storico cinema Oubri nel centro di Ouagadougou non si può dire che abbia un’acustica ultra modea. Talvolta si fa fatica a seguire i dialoghi. Qualche zanzara può infastidire durante la proiezione sotto il cielo saheliano.
Una scala ripidissima ci porta nella cabina di proiezione. Qui, due proiettori un po’ antiquati, accuditi da due simpatici tecnici, fanno girare grosse bobine di pellicola. «È Drum, è stato premiato poche ore fa» dice uno di loro.
È l’ultima proiezione del Fespaco 2005, quella dei film che hanno vinto. In questa cabina, con queste persone e queste macchine, ci sentiamo un po’ dentro la storia del cinema.

BOX 1

L’uomo che faceva piangere

Cresciuto in uno sperduto villaggio sudafricano Max Bua è mandato dalla famiglia a Johannesburg, per studiare e diventare un «dottore bianco». Arriva nella megalopoli con una capra, Mona, e i soldi faticosamente raccolti per iscriversi all’università. Ingenuo e impreparato alle regole di quella società, è fagocitato dalla città multiforme.
Max, però, ha una dote magica particolare: sa far piangere la gente a comando. Lo zio, un poco di buono, sempre alle prese con i gangsters, fiuta l’affare e lo fa diventare un «piangitore professionista»; diventa suo manager e ne vende i servizi ai più svariati funerali della città. Dopo una serie di successi, Max fallisce il funerale più importante: quello del fratello del gangster. Una fuga rocambolesca porterà al lieto fine: Max non solo si salva, ma riesce a recuperare i soldi per l’università, che si erano volatilizzati dopo il suo primo incontro con lo zio.
Con una buona dose di autornironia, il regista presenta uno spaccato di Sudafrica di oggi e delle sue contraddizioni: «Ho scelto di mostrare tre ambienti molto diversi: campagna, città e township, per far capire allo spettatore la psicologia di Max, che attraversa questa società, ma alla fine si integra nella nuova realtà». Ci racconta Mattera.
Il film mescola modeità e tradizione, spiritualità e materialismo. «Penso siano i migliori strumenti per creare contraddizione. C’è pure il fatto che vivo in una città con molto materialismo, ma che resta profondamente spirituale e caratterizzata da molteplici sfaccettature. Per esempio, i gangsters a Johannesburg sono vegetariani».
Ma perché questa idea dei funerali? «Penso che ci sia ancora un po’ di speranza per l’umanità. Con la morte di qualcuno abbiamo la possibilità di riscoprire la nostra propria mortalità».
Teddy Mattera sembra lui stesso uscito da un suo film. Giovanile e trasgressivo, ma non più giovane, è quasi timido di fronte al microfono. Dopo gli studi di cinema in Usa ed Europa, ha esordito con il film Hoop Dreams, che ha ricevuto una nomination agli Oscar del ’93. Lavora molto su documentari e cortometraggi. Sul cinema sudafricano, a confronto con le altre produzioni del continente, dice: «Spero che il nostro ruolo non sia quello di diventare imperialisti culturali, perché il pericolo c’è, ma piuttosto catalizzatori importanti, per rigenerare questo settore. Abbiamo la possibilità di offrire formazione e strutture ben organizzate. Abbiamo più mezzi degli altri paesi dell’Africa e siamo arrivati al livello commerciale con i nostri film».

Max and Mona, di Teddy Mattera – Sudafrica 2004 – 98 minuti.

BOX 2

Cos’è FESPACO

Il Festival panafricano del cinema e della televisione di Ouagadougou (Fespaco) nasce nel 1969 nella capitale del Burkina Faso, per iniziativa di un gruppo di cinefili. È poi istituzionalizzato il 7 gennaio 1972 come struttura pubblica nell’ambito del ministero burkinabé della Cultura.
A partire dalla 6a edizione diventa biennale: un appuntamento fisso dell’ultima settimana di febbraio degli anni dispari. È il più importante evento del suo genere sul continente africano.
Gli obiettivi principali del Festival sono favorire la diffusione delle opere del cinema africano, permettere contatti e scambi tra i professionisti del settore e contribuire al progresso e alla salvaguardia del cinema in quanto mezzo di espressione, educazione e coscientizzazione.
Oltre al festival biennale le altre attività principali sono la cinemateca africana (archivio di film, base dati e cinema mobile) e varie pubblicazioni sul tema. Il Fespaco organizza anche il Mica (Mercato internazionale del Cinema e della televisione africani), una borsa di programmi audiovisivi africani e sull’Africa, in concomitanza con il festival.
Le altre attività sono proiezioni a scopo non lucrativo nelle zone rurali, in partenariato con ng (organizzazioni non governative), associazioni, scuole. Il Fespaco promuove il cinema africano nelle manifestazioni e sedi inteazionali.

BOX 3

DOPPIO EROISMO

Il regista angolano Zezé Gamboa presenta uno spaccato di quello che è il suo paese, in particolare la capitale Luanda, a due anni dalla fine di una guerra lunghissima e fratricida. Un eroe è un film «sociale», spiega, «perché si interessa di problemi sociali» e non «di denuncia»; vuole inviare un messaggio forte, soprattutto ai politici dell’Angola: «Il potere in carica deve riuscire a dare l’accesso all’acqua e altri servizi di base a tutta la popolazione. Inoltre la reinserzione dei combattenti è un dovere dei politici».
Vitorio ha passato 15 anni in guerra e ora si ritrova senza una gamba (persa su una mina), senza famiglia né lavoro. Vivacchia nella Luanda dei disperati, bambini di strada, mutilati, uomini e donne in cerca dei parenti dispersi. Lui è un uomo integro e cerca di reinserirsi nella società. Una notte gli rubano addirittura la protesi. Nel tentativo di ritrovarla, dopo una serie di incontri sfortunati, approda in una trasmissione della radio nazionale, a colloquio con il ministro, a rappresentare le altre migliaia di ex combattenti. È con questo mezzo che il regista manda il suo messaggio.
Secondo Gamboa, Vitorio è doppiamente eroe: è stato decorato in guerra, e poi «rappresenta i molti angolani che si battono tutti i giorni per sopravvivere. In Angola c’è gente che vive con meno di un dollaro al giorno. Riuscire a vivere così è già talmente difficile, che trovo eroico qualcuno che torna dalla guerra, cerca lavoro, dorme nella strada e nonostante questo conserva una certa integrità: questo è eroismo».

Il tema del dopo guerra riguarda la ricostruzione, non solo delle case, ma delle vite umane. «Quello di Vitorio – continua il regista – non è solo un caso angolano, ma ha una dimensione universale, può succedere ovunque e a chiunque dopo la guerra: la gente è distrutta psicologicamente. È ciò che capita in Cecenia e che capiterà in Iraq, dopo quello che sta succedendo».
Gamboa è particolarmente attento alla problematica dei mutilati di guerra: «Bisogna fare scuole di mestieri, impiegarli nei lavori. Anche se sono portatori di handicap possono fare molto per la società. Ci sono molti lavori adatti. Ma il problema è che la maggioranza di questa gente è partita molto giovane per la guerra e quando ritornano sono già uomini, ma non sanno fare nulla. Bisogna quindi insegnare loro, dare loro degli strumenti affinché si possano sentire integrati nella società». E il primo responsabile di tutto ciò è il governo, non gli aiuti inteazionali.
E a Vitorio capita proprio questo. Dopo la sua trasmissione radiofonica in cui chiede giustizia e la sua gamba di plastica, il ministro si muove e gli trova un lavoro: diventa addirittura autista. «Questo è un film, una fiction – dice Gamboa -. In realtà, se avessi fatto un documentario, il protagonista continuerebbe a dormire in strada e non avrebbe la possibilità di lavorare. Con il cinema possiamo anche sognare».

O Heroi, di Zezé Gamboa – Angola 2004 – 97 minuti.

BOX 3

La pace viene da dentro

Un film forte, sulla risoluzione dei conflitti, quello della regista burkinabé Fanta Regina Nacro. In un paese africano senza nome, due etnie si sono combattute in una guerra atroce, finché la stanchezza sembra prevalere. I due capi, il presidente della repubblica e il colonnello ribelle, decidono di finirla con la guerra fratricida e d’incontrarsi, con le loro truppe, per discutere della pace. Ma non è facile: nell’arco della notte la pace viene messa più volte in pericolo da odi e vendette personali, che hanno origine nello stesso conflitto.
«La notte della verità è l’istante in cui ci si guarda allo specchio e si vede la profondità di se stessi. Nella quotidianità questo si perde». Eccolo, secondo la regista, il senso del film e il motivo per l’impostazione. «Tutto si svolge in un luogo chiuso, la caserma, con una storia lenta, volutamente, perché è così che si preparano le cose più atroci».
E di scene truculente se ne vedono, come l’assassinio, alla fine del film, del colonnello, che diventa uno dei tanti montoni rosolati su un gigantesco spiedo. Uccisione tramata e voluta dalla moglie del presidente, che ha perso il figlio a causa della guerra. Ma la saggezza del capo di stato e della consorte del colonnello prevale. Una raffica di mitra liberatoria abbatte la prima donna e afferma la pace.
Primo lungometraggio fiction di Fanta Regina Nacro, il film è un’opera impegnata e presenta un personale modello di risoluzione dei conflitti: «Non ho voluto situare il film in un paese reale, affinché fosse una storia universale, specchio di altre situazioni. Vorrei che ogni individuo faccia uno sforzo personale e si preoccupi della pace. Se siamo arrivati a certe atrocità, in Africa come in Europa, è ora di riflettere su come non caderci più».
Nel film, i militari, compreso il colonnello, sono veri soldati burkinabé, non attori professionisti. Questo mostra una volontà politica oltre che un esempio quasi unico nel suo genere. «Il colonnello Teo è nella realtà il comandante Moussa Cissé, che ha servito come volontario delle Nazioni Unite in Burundi. In quel paese ha visto cose orribili e quando gli raccontai la storia mi disse: “Ho bisogno di fare questo film”. Era un po’ preoccupato per la sua performance e anche per la scena finale della morte. Ma il desiderio di recitare e portare qualcosa di suo gli ha fatto vincere la paura».
L e donne hanno un ruolo determinante nella storia. La moglie del presidente rischia seriamente di compromettere la pace, mentre quella del colonnello lo appoggia nella sua scelta. «La donna ha grande responsabilità – spiega la regista -. Deve essere cosciente del potere che ha nelle sue mani e della possibilità di orientare e far cambiare le cose. La moglie del colonnello suggerisce cosa bisogna fare affinché le atrocità cessino. È un ruolo forte, che simbolizza quello delle donne del mondo. Danno la vita, ma sono le prime vittime del conflitto, nel quale perdono i figli. Ma la donna è forte: sa quello che vuole ottenere e come ottenerlo».
In quanto a geopolitica, Fanta Regina ha deciso di non considerare le complesse influenze inteazionali che spesso caratterizzano i conflitti: «Ogni volta che c’è una guerra è sempre la geopolitica che prende il sopravvento. Io vorrei portare il popolo ad appropriarsi del conflitto, per prendere esso stesso la decisione di mettervi fine, senza dover sempre aspettare che la politica prenda la decisione».
Per questo tutti noi siamo come le pecore di un gregge, manipolati dall’alto; e il film finisce quando il matto del villaggio Tamoto, «che rappresenta la nostra coscienza», libera le pecore, che scappano in tutte le direzioni. È un altro invito dell’autrice alla società civile a essere più presente e incisiva in materia di risoluzione di conflitti e promozione della pace.

A proposito del Fespaco, Fanta Regina Nacro afferma che, per il pubblico è un’opportunità di vedere immagini che vengono d’altrove, per i registi è l’occasione di incontrare altri professionisti del settore, ma, soprattutto, «offre la possibilità di far passare idee forti, che abbiamo da comunicare. Oggi, malgrado le difficoltà di produzione e di distribuzione, noi africani riusciamo a far nostro questo mestiere. Sono più ottimista che in passato, perché vedo che anche con pochi mezzi, abbiamo colto la sfida di fare cinema e ci riusciamo».
Sulla risoluzione dei conflitti? «Non ho delle risposte. Abbiamo voluto dare qualche pista di speranza, ma non abbiamo la verità dentro di noi. Io e il mio sceneggiatore siamo entrambi cristiani: da qui l’idea di un sacrificio forte (quello del colonnello, ndr) per trovare la strada dell’ottimismo e di una nuova speranza per gli esseri umani».

BOX 4

Drammatico metissage

Un giovane cornoperante francese, Patrik, torna in un villaggio sperduto del Burkina Faso. È accompagnato da sua figlia Martine, bimba meticcia di 7 anni. La scusa del ritorno è la riparazione di un pozzo artesiano, installato da Patrik proprio 7 anni prima. La gente del villaggio lo accoglie freddamente. Ma c’è qualcosa in più: mentre è al lavoro, una giovane sordomuta, Kaya, rapisce la bimba e fugge nella savana.
Il film diventa la storia di questa fuga disperata e dell’inseguimento da parte di Patrik, aiutato da un gruppo di uomini del villaggio. Il rapporto tra Kaya, che rappresenta la tradizione e i costumi africani, e Martine, con la sua educazione e abitudini europee, che lo spettatore scoprirà essere la figlia della donna. Patrik aveva avuto una relazione con Kaya, decidendo poi unilateralmente di strappare la figlia appena nata alla madre per portarla in Francia. Dal trauma la donna aveva perso la parola. Un bellissimo dialogo madre-figlia (anche se Kaya è muta), che si crea poco a poco, così come Martine si spoglia del suo essere europea per africanizzarsi.
Nel frattempo Patrik è costretto a vivere nella boscaglia con il gruppo di africani, con l’obiettivo comune di trovare le fuggitive.
L’epilogo, in una notte di luna piena, è drammatico. Martine, affetta da un male incurabile dalla nascita, muore tra le braccia di Kaya incredula.
Per riparare alla sua azione del passato, Patrik è convinto dal vecchio saggio Tonkolo a compiere un rito che assicurerà a Kaya nuovamente un posto al villaggio. In caso contrario sarà cacciata. Patrik riesce, e il film termina con la sua partenza, in un’atmosfera rilassata, come se un vecchio problema avesse trovato soluzione.

«Non ho utilizzato la morte per risolvere la storia: ho giocato sul fatto che la piccola era malata fin dall’inizio, ma sua madre non lo sapeva. Volevo mostrare come le conseguenze degli atti degli adulti si possono ripercuotere su degli innocenti – specifica la regista Apolline Traoré -. Il padre e la madre hanno fatto i loro sbagli, e poi chi paga è la bambina. Anche negli altri miei film gli attori principali muoiono, io ho una certa sensibilità verso la morte stessa, legata alla spiritualità. Dopo una morte resta qualcosa di presente, non lo si può vedere né toccare, ma influenza il nostro mondo materiale nel quale ci battiamo ogni giorno. Abbiamo tutti paura della morte e cosa viene dopo. È un sentimento che può essere una cosa molto importante che noi esseri umani di oggi abbiamo tendenza a dimenticare».
Nel film è continuo il tema del rapporto tra europei e africani. Abbiamo chiesto alla regista se pensa a un incontro o a uno scontro tra culture. «Le due cose: incontro di due culture che finalmente si capiscono, madre e figlia, hanno conflitti, ma poi si ritrovano. Rispetto a padre e madre, sono due culture che cercano di capirsi, ma non ci sono riuscite, si sono separate e c’è stato un dramma. I due casi sono possibili».
Anche nel gruppo degli inseguitori, gli africani parlano tra loro criticando i bianchi. «È una caricatura di qualcosa di reale, rispetto a come pensano certi africani degli europei. Volevo mostrare questi pensieri. Anche se alcuni pensano così e certi europei, come lo stesso Patrik, hanno preconcetti sugli africani, ci può essere una unione d’intenti: di fronte a qualsiasi problema si possano trovare, i personaggi riescono a lavorare insieme».
Allora la bambina può essere vista come anello di congiungimento tra le due culture? «Martine si africanizza con la madre, perché non ha scelta, è obbligata, è un adattamento. La cosa importante è che la piccola non aveva mai avuto l’influenza di una donna: è cresciuta con il padre. Se una donna le dà attenzione, lei la accoglie, perché ha bisogno di presenza femminile».
Perché Sotto il chiaro di luna? «Dalle mie parti esiste un mito: è nelle notti di luna piena che escono e si manifestano i geni, gli spiriti. Così solo in una notte di luna piena sono rivelati i segreti di questa storia».

Sous la clarté de la lune, di Apolline Traoré – Burkina Faso 2004, 90 minuti.

Marco Bello




DOSSIER CINEMA AFRICANO Il malineteso coloniale

Incontro con Jean Marie Teno 

Jean Marie Teno è un noto documentarista che ha pure realizzato diversi film fiction. Il malinteso coloniale, girato nel 2004 tra Germania, Sudafrica, Namibia e Camerun vuole indagare sull’influenza della missione cristiana, avamposto di colonizzazione, sullo sviluppo dell’Africa.
Il malinteso è proprio questo legame ambiguo che ha portato il continente alla deriva.
Camerunese, ma vive da tempo in Europa, Teno vuole mostrare che il rapporto tra Africa ed Europa ha bisogno di essere rinnovato.
E per farlo occorre tornare indietro nella storia e fare quello che lui chiama «dovere di memoria».

Perché ha fatto un film su missione e colonialismo?

Il mondo è totalmente globalizzato e il rapporto Africa-Europa condiziona enormemente la situazione odiea del continente. Fare un film su questo tema è chiedersi qual è il posto dell’Africa nel mondo. Posto non invidiabile, quasi un vicolo cieco. Bisogna interrogarsi sulle ragioni che l’hanno portata a questa situazione. Penso che l’incontro tra Europa e Africa, avvenuto anche attraverso la religione e i missionari, sia in parte responsabile dell’impasse in cui ci troviamo oggi. Volevo mostrarlo nel film.

Lei ha parlato di un «dovere di memoria» per il continente.

Sono successe in Africa cose gravi, atroci. C’è stata la tratta negriera, la colonizzazione, e tutte le volte che sono finite, si è detto: bravi è finito, non lo facciamo più, dimentichiamo tutto. Senza mai pensare alle cause. Come possiamo andare avanti senza guardare, esaminare ciò che è successo? È come preparare dei crimini futuri: giriamo pagina senza dire nulla. Il dovere di memoria è necessario, affinché gli africani possano trovare il rispetto in loro stessi, e cominciare ad avere un vero rapporto, più sano, con gli altri.

È una questione di riconciliazione o di restituzione di qualcosa che l’Europa ha preso agli africani?

No, per nulla. Perché il dovere di memoria è importante per qualcuno e non per gli altri? In Europa se ne parla sempre, per esempio per l’olocausto. Intanto è l’Africa che continua a soffrire, chiusa nella sua miseria. In Europa il razzismo tocca sempre più gli africani. Il dovere di memoria è importante perché la gente si renda conto di quello che l’Africa ha attraversato da lungo tempo. Aiuta a capire perché la gente ha certe attitudini e comportamenti e a metterli in questione. Quando si sa quello che è successo, si può vedere il ridicolo delle proprie azioni, cambiare attitudine, raggiungere un dialogo paritario, in modo che la gente possa guardarsi in faccia senza che ci siano complessi di superiorità o inferiorità.

Secondo lei gli europei hanno paura dell’Africa?

Molti lo dicono: hanno una cattiva coscienza rispetto a tante cose che immaginano ma non possono capire. Così la paura dell’Africa viene da tale memoria soffocata. L’Africa è stata saccheggiata e violentata, ma una parte della storia non è per nulla stata assunta. Se la gente non si riconosce in questa storia e non dice: siamo spiacenti, le stesse cose continueranno, magari in modo più nascosto con le istituzioni inteazionali. Finché non lo avremo riconosciuto, continueremo ad avere rapporti molto falsi con l’Africa.

Lei vive da molto tempo in Europa.

E allora?

Come si trova?

Bene. Vivo anche nello sguardo degli altri l’immagine dell’Africa. Non si è discriminati 24 ore su 24; ma in Francia la discriminazione esiste: è dappertutto. Non nei testi ufficiali, ma nelle istituzioni. E gli africani la subiscono. A livello politico pochissimi neri arrivano in alto. C’è un «soffitto di vetro» che fa sì che un nero sia sempre l’ultimo a essere promosso, anche se ha competenza. C’è sempre un razzismo strisciante.

Nel film si parla di «colonizzazione delle menti» oltre che delle terre. Le chiese africane che si formano dopo le chiese missionarie, possono avere un ruolo in tale decolonizzazione spirituale?

Non ho pensato a questo. Nella chiesa della Namibia per esempio, qualcuno parla di rivendicazioni e lotte, ma allo stesso tempo restano molto attaccati alla chiesa come istituzione. Non so se può avere questo ruolo, perché credo che si debbano rimettere in questione un certo numero di concetti, e non sono sicuro che l’istituzione lo faccia. Ma la chiesa nella sua lotta per la dignità dell’uomo ha fatto molto. Le chiese della Namibia e del Sudafrica hanno fatto un lavoro enorme per la lotta contro l’apartheid. Non so se si possono decolonizzare le menti, perché la chiesa resta un luogo di formattazione del pensiero. E il modello è quello occidentale. Ma almeno la parola di Dio non è più uno strumento di oppressione.

Nel film lei dice che i missionari furono identificati come i migliori «civilizzatori», nel momento in cui si voleva civilizzare per occupare le terre degli africani. Vede dei lati positivi della missione?

Non sono uno specialista della missione. Cerco di mettere in fila gli elementi di una riflessione. Quando i missionari sono visti come i vettori della colonizzazione, in quanto i migliori civilizzatori, possono esserci aspetti positivi, ma il risultato finale resta negativo e non abbiamo bisogno di cercare. In qualche modo hanno contribuito ad affondare l’Africa dov’è oggi. Ad esempio hanno imparato le nostre lingue. Ma grazie a questo hanno aiutato la penetrazione coloniale che è stata alla fine una catastrofe per noi.

Vede differenze tra la missione protestante e quella cattolica? E la penetrazione dell’Islam?

Non mi preoccupo dell’impatto dell’Islam, non faccio uno studio comparato dell’impatto delle differenti religioni sull’Africa. I missionari cristiani (cattolici e protestanti) hanno avuto un’influenza reale, duratura e profonda nella vita in Africa. E vediamo gli effetti oggi, che di fatto sono definitivi. Tutta la civiltà europea diceva che la cristianizzazione e la civilizzazione europea andavano insieme. Guardate quello che c’è qui: è grazie all’Europa che siamo dove siamo.

Come immaginate un’Africa senza missione cristiana?

Non serve a nulla. Sono cose che esistono. La domanda è: cosa fare per uscie? Ma non ho risposte. Sono solo un cineasta. Ci son altri che possono trovare soluzioni, come il professore Kumou e altri che intervengono nel film. Io posso solo prendere le parole della gente e darle al grande pubblico per una riflessione sulla storia.

Perché la Namibia?

È stato uno degli elementi essenziali nel dispositivo. Parliamo dell’Europa, come se la storia iniziasse a Auschwitz. C’è una continuità nella storia, ma c’è una tendenza a tagliare quello che è avvenuto prima. Volevo ritornare al fatto che i primi campi di concentramento sono stati in Africa (contro gli herero, ndr) e anche al ruolo che i missionari hanno giocato nel paese. Ho lavorato sulla missione di Renania. Ho potuto mostrare che c’è stata una rivolta, il ruolo dei missionari in questa guerra, durante e dopo e nell’installazione dell’amministrazione tedesca. È rappresentativo di quello che i francesi e gli inglesi hanno fatto in altri paesi. Ma la colonizzazione tedesca è stata la più corta. Possiamo dire che con gli altri è stato peggio. Inoltre la Germania ha fatto un lavoro su se stessa, ci sono documenti. Cosa che gli altri paesi non hanno fatto, e continuano a vivere come se nulla sia successo. •

Marco Bello




DOSSIER CINEMA AFRICANO Film

Cinquant’anni di cinema a sud del Sahara

All’inizio furono film di propaganda coloniale. Poi, negli anni che preparano le indipendenze, nascono le prime pellicole autenticamente africane. Che mostrano l’identità culturale e le profonde aspirazioni dei pionieri. Con un unico obiettivo: la decolonizzazione degli schermi.

La storia del cinema d’Africa nera è allo stesso tempo antica e recente. Molto antica se ci si riferisce ai film d’ispirazione africana, ovvero girati in Africa e aventi il continente come tema. A 10 anni dalla nascita della cinematografia (1895), inizia il cinema coloniale (1905) e in seguito quello «etnografico».
Attraverso questi tipi di cinema gli occidentali hanno impostato il loro sguardo sulla rappresentazione dell’Africa a partire dagli africani. Per il colonizzatore gli africani hanno iniziato a fare cinema nel 1929 con il film Samba, qualificato dalla stampa dell’epoca come il primo film francese fatto da neri.

Le origini
Il secondo periodo, più recente, inizia negli anni ’50 con la crisi coloniale e il movimento per l’indipendenza. Il 1955 è un momento fondamentale per la storia dei rapporti tra i popoli colonizzati di Africa e Asia. La conferenza di Bandoeng (Indonesia) permette ai popoli di rivendicare i propri diritti all’emancipazione e valorizzazione della loro immagine.
Gli intellettuali africani, in particolare gli scrittori, non sono rimasti al margine di questa rivendicazione e hanno fatto sentire la loro voce. Un gruppo di studenti dell’Africa subsahariana, amanti del cinema, fondò nel ’52 il «Gruppo africano del cinema». Ne facevano parte Paulin Soumanou Vieyra (1925-1987), Jaques Mélo Kane, Robert Cristan e Mamadou Sarr (1926- 1990). Per loro «non c’era dubbio che solo la sovranità nazionale dei paesi africani avrebbe permesso l’espressione cinematografica della realtà autenticamente africana».
In questo spirito e contesto fu realizzato da Paulin Soumanou Vieyra e i suoi amici il primo film dell’Africa nera: Afrique sur Seine (Africa sulla Senna), interamente girato e montato da africani su una realtà africana: la vita dei neri a Parigi. Tale data è legittimamente considerata l’inizio di una vera appropriazione della propria immagine da parte degli africani.
Alcune fonti considerano il 1937 come anno del primo film africano, con il documentario La morte di Rasalama del malgascio Raberono; altri citano il 1953 con la realizzazione di Mouramani del guineano Mamdi Touré, come anno di nascita del cinema africano. Queste opere sono oggi introvabili e non si sa se le équipes di realizzazione erano interamente africane.
Ciononostante, gli storici del cinema ammettono che il 1955 segna veramente l’inizio della storia del cinema africano. «Il cinema dell’Africa nera non ha cominciato la sua vera crescita che sotto il sole delle indipendenze» e si è particolarmente sviluppato nel corso degli anni ’70. Mentre negli anni ’80, una tendenza al rinnovo delle forme estetiche e narrative si manifesta e contribuisce al riconoscimento internazionale verso questo cinema.

Il grande vecchio
I due primi decenni sono segnati dai film girati in Senegal e il realizzatore Sembène Ousmane impone il suo stile. Sviluppa temi come le difficoltà della gente del popolo in Borrom sarret (1963), considerato come il primo cortometraggio autenticamente africano; denuncia il neocolonialismo in La noire (1966), considerato come il primo lungometraggio di fiction, denuncia la nuova borghesia africana in Xala (1974).
Il contrasto tra tradizione e modeità è trattato in Kodou di Ababacar Samb Makharam (1971) e in Muna moto (1975) di Dikongué Pipa del Camerun, mentre in Concerto per un esilio di Désiré Ecaré della Costa d’Avorio (1968) descrive gli strascichi della decolonizzazione.
Dalla fine degli anni ’60 fino all’inizio degli ’80, i cineasti liberano la loro immaginazione per proporre al pubblico altri generi e altre forme narrative: parodia weste in Le retour d’un aventurier (1966) di Oumarou Ganda del Niger; commedia in Boubou cravate (1973) e Pousse-pousse di Daniel Kamwa, Camerun; melodramma in Love brewed in the african pot di Kwah Ansah del Ghana (1980); film d’azione con Cameroun connection di Alphonse Béni (Camerun, 1985); film musicali come Naitou di Moussa Kiémoko Diakité della Guinea (1982) e Adjan ogun di Ola Balogun della Nigeria (1975). Solo per citae alcuni.

Nuove tendenze
La rottura con una forma narrativa classica per una ricerca formale arriva con Touki Bouki di Djibril Diop Mambéty nel 1974. Questa tendenza alla quale sembra identificarsi la nuova generazione di cineasti dell’Africa nera, che emerge poi dagli anni ’90, non rimette in causa la caratteristica fondamentale di un cinema in presa diretta con le realtà quotidiane degli africani.
I cineasti di tutte le generazioni che continuano a raccontare l’Africa nonostante le crescenti difficoltà di finanziamento, restano animati da un’ambizione vecchia di 50 anni: decolonizzare la cultura dell’immagine. •

*Clément Tapsoba, burkinabé, è giornalista e critico cinematografico al Fespaco e presidente della Federazione africana dei critici di cinema (Facc). (Articolo liberamente tradotto da M. Bello).

Marco Bello