La salute non può essere un businessLavorare in un Dipartimento di salute mentale
I «matti» non sono più quelli di una volta. Nelle strutture arrivano disoccupati, poveri, extracomunitari, drogati. Anche la società non è più la stessa: l’1 per cento della popolazione mondiale è affetta da schizofrenia; circa il 15-20 per cento da depressione; una percentuale ancora più alta da ansia. Lavorare sulla salute mentale è sempre più difficile. Ma un principio dovrebbe rimanere saldo ed immutabile: la salute non può essere un campo dove cercare il profitto.
La giornata lavorativa sta terminando, nel fatiscente caseggiato adibito ad ambulatorio psichiatrico, lì al primo piano. Da sotto si sente salire per le scale l’odore del cibo preparato al centro diuo.
I due infermieri rimasti guardano lo psichiatra seduto di fronte, i gomiti appoggiati sulla scrivania e le mani a reggere la testa appesantita da una interminabile serie di colloqui.
Una delle infermiere e lo psichiatra responsabile del centro diuo si conoscono da venti anni, da quando, giovani e carichi di entusiasmo, si erano trovati a lavorare insieme, in quello stesso quartiere della periferia torinese così cambiato negli anni.
Quando capita che i due si incontrino con un po’ di tempo a disposizione per parlarsi, succede talvolta che si mettano a parlare dei bei tempi andati, quando c’erano più risorse, più energie, quando la psichiatria era un argomento di primaria importanza e quando tutto era migliore.
Anche i «matti» non sono più quelli di una volta. Ormai negli ambulatori arriva di tutto e i bisogni sono sempre più complessi: disoccupazione, povertà, extracomunitari, e poi quanti pazienti usano anche droghe assortite, una volta non era tutto così incasinato.
Morena e Ugo non sono poi così vecchi, una cinquantina d’anni lo psichiatra, 43 l’infermiera e sono ancora innamorati del loro mestiere, certo non delle condizioni in cui si trovano ad operare.
Quando nel 1985 hanno iniziato a lavorare insieme, l’équipe era composta da 3 medici a tempo pieno, una psicologa, un assistente sociale (e per un certo periodo addirittura due), 6 infermieri a tempo pieno ed i casi attivi erano circa 300, quasi tutti di chiara pertinenza psichiatrica, per i quali attivare le risorse di personale ed economiche (sussidi, una tantum, borse lavoro, soggiorni) a disposizione.
Un bel mix tra i 2 vecchi infermieri che avevano vissuto da protagonisti la fase propedeutica alla chiusura dei manicomi con la famosa legge 180 (conosciuta come legge Basaglia) e il resto del personale, tutto alle prime esperienze, amalgamati dalla responsabile che, pur ancora giovane, aveva lavorato anch’essa in manicomio, permettevano all’équipe di sentirsi parte di un progetto forte, con una salda base ideologica e con valori morali ed etici che permettevano di esprimersi in un’atmosfera di creatività, ma anche di efficienza.
Sarebbe ora interessante vedere come si è trasformata quell’équipe: al momento un medico a tempo pieno che sta scoppiando per il carico lavorativo, un medico che si occupa anche di ricerca e quindi dedica metà tempo all’attività clinica con i pazienti, e un terzo medico che al momento non c’è perché in gravidanza e comunque per quel terzo posto negli ultimi anni si sono avvicendati, per motivi diversi, ma costituendo un dato che comunque dovrebbe far riflettere, 5 medici e un sesto sta arrivando.
Da un anno è finalmente tornata l’assistente sociale, figura professionale che per un paio d’anni era mancata, mentre gli infermieri sono quattro più una a 15 ore. La figura dello psicologo è presente: una. Insomma, un’équipe assolutamente indebolita, mentre il carico lavorativo, ovvero il numero dei pazienti in cura che necessitano di visite regolari e abbastanza ravvicinate, è aumentato di molto, diciamo almeno del 30% in questi 20 anni.
Per non parlare di quello che succede nei tui in ospedale, quando dal pronto soccorso si viene chiamati per affrontare situazioni di marginalità di gran lunga superiori alle reali competenze cliniche.
Dunque, cos’è la psichiatria oggi? Come funziona un Dipartimento di salute mentale? Proviamo a raccontarlo.
EVOLUZIONE
O INVOLUZIONE?
Credo che ormai non esistano più dubbi sui danni che sta causando il modello neoliberista. Questa non è la sede per soffermarci, ma sicuramente una serie di contraccolpi li respiriamo anche nell’ambito del nostro lavoro di operatori della salute mentale.
Il neoliberismo promuove il «Dio-mercato» e riduce tutto a merce, come tale monetizzabile. Persino l’acqua si vuole privatizzare (1).
Che c’entra questa storia con la psichiatria? C’entra: basta considerare la salute mentale come un terreno di profitto.
Dunque, l’oggetto di cui si occupa la psichiatria, ovvero la salute mentale, rappresenta un fenomeno complesso articolato su almeno tre livelli: quello biologico, quello sociale e quello psicologico.
Negli anni, a seconda della cultura dominante, si è enfatizzato un aspetto piuttosto che un altro: fino alla seconda metà degli anni Sessanta, per esempio, l’aspetto primario era quello del controllo sociale e gli ospedali psichiatrici, i manicomi, ben assolvevano questo compito.
Le forti spinte di rinnovamento sociale veicolate dal movimento dell’ormai mitico Sessantotto fecero sì che in quegli anni l’accento fosse posto prevalentemente sul ruolo della società come «fabbrica della follia» (2).
Le caratteristiche insite nel movimento di demanicomializzazione, l’atmosfera di libertà e impegno che si respiravano funzionarono da collante e diedero una forte identità agli operatori della salute mentale: lavorare in psichiatria significava sentirsi protagonisti di un cambiamento epocale che ridava dignità e soggettività al malato psichiatrico, essere per la creatività, l’impegno e la solidarietà contro i vecchi modelli di reclusione, violenza, negazione dei diritti (3).
Un forte senso di appartenenza caratterizzava gli operatori di quegli anni, con la sensazione che quello che si faceva non era solo un lavoro, ma un impegno sociale fondamentale per determinare i futuri orientamenti del nostro stile di vita. D’altro canto la psichiatria era un argomento «a la page» e lo status di operatore in questo campo era fonte di riconoscimento e interesse.
Ricordo quelli che sono stati i miei veri maestri, i vecchi infermieri, come li chiamavamo, che ci raccontavano gli orrori dei manicomi e ci mostravano più con l’esempio che con le parole il senso del lavorare con la persona che si affidava a noi.
Scivolo su questo terreno infido, dove rischio di diventare retorico perché è un ideale che sento di aver ereditato da loro, come se mi avessero dato il testimone dei loro sogni di rinnovamento e delle loro lotte. Ecco perché mi permetto di ricordare Pino, che era stato il protagonista della rivolta contro la violenza medica (4), ma anche Augusto, Meo, Carlo e poi mi fermo scusandomi con quelli che non cito, ma l’elenco sarebbe troppo lungo.
GLI ANNI NOVANTA: L’«IO» SOSTITUISCE IL «NOI»
Poi gli anni Novanta, quelli della stasi: i protagonisti della chiusura dei manicomi vanno in pensione, portandosi dietro i loro ideali e lasciandoci con un po’ di idee sulla necessità dell’approccio integrato, che tenga conto di tutti e tre gli aspetti citati in precedenza.
Intanto la società cambia, le multinazionali diventano sempre più padrone della scena politica. Banca mondiale, Fondo monetario internazionale (Fmi) e Organizzazione mondiale del commercio (Omc) esasperano la logica del profitto. promuovono la figura del vincente, ci colonizzano l’immaginario e ci convincono che la scienza e le operazioni finanziarie in borsa ci porteranno alla felicità.
Si impone il pensiero unico: mangiamo allo stesso modo (magari Mc Donald’s), vestiamo allo stesso modo, pensiamo (o non pensiamo) allo stesso modo, compriamo di tutto e di più e promuoviamo la competizione.
L’«io» si sostituisce al «noi», il tessuto sociale si scolla, la solidarietà si perde o al massimo viene promossa dalle banche (quelle stesse che danno un grande aiuto alla devastazione del pianeta, ad esempio finanziando gli oleodotti in Amazzonia o i fabbricanti di armi).
Allora, se tutto è merce, perché non può esserlo anche la salute?, pensano le multinazionali del farmaco, che iniziano a difendere con i denti i cosiddetti «brevetti».
Difenderli, perché in India, in Thailandia, in Brasile e in altri paesi del Sud si producono farmaci a basso prezzo (circa 10 volte in meno del prezzo praticato dalle multinazionali), nonostante le molecole chimiche appartengano alle ditte, tutte rigorosamente nordamericane ed europee, che le hanno scoperte e che non vogliono vedere ridotti i propri guadagni.
Assoldati i migliori avvocati, le multinazionali attaccano: «Come vi permettete di produrre senza la nostra autorizzazione i farmaci che noi abbiamo scoperto e per di più a venderli sottocosto?».
Certo, la concorrenza è – stando ai canoni del mercato neoliberista – «sleale», ma permette che almeno 8 milioni di persone l’anno possano accedere a cure altrimenti troppo costose, salvandosi la vita per malattie che in Occidente ormai non sono più causa di morte.
«Ma noi usiamo i soldi per fare ricerca», ribattono le multinazionali, salvo poi scoprire che degli incassi megamiliardari solo una piccola parte viene reinvestita in ricerca, diciamo il 20%, mentre il resto è puro profitto.
Tra l’altro, della quota spesa per la ricerca la parte maggiore è investita per malattie tipiche delle società ricche: diabete, obesità e via discorrendo.
A proposito di obesità (5), che razza di società è la nostra, che spacciamo per portatrice di valori contro il rischio di un «meticciato» catastrofico (come ha sentenziato il presidente Pera, la seconda carica dello stato italiano) e che riesce a produrre obesi e bulimici quando un miliardo di persone vivono con un dollaro al giorno e muoiono di fame?
PSICOFARMACI: UTILI (CON MOLTI «SE» E MOLTI «MA»)
Stabilito che la salute può rappresentare un business, anche la salute mentale può esserlo.
In fondo, l’1% della popolazione mondiale è ammalata di schizofrenia, circa il 10-15% di depressione e poi c’è sempre l’ansia che è un bel terreno di lavoro.
Si tratta solo di trovare la strada giusta, per esempio favorire la ricerca delle neuroscienze, in fondo questo è un campo ancora poco esplorato e conosciuto.
Una volta analizzati fino alle più piccole sfumature i recettori cerebrali, potremo preparare psicofarmaci sempre più sofisticati, che differiscono tra loro per cose minime.
Così per ogni classe vai con la fantasia: per gli inibitori della serotonina che bene funzionano nella depressione ecco un gran numero di molecole, ognuna poi prodotta da più case farmaceutiche e così tra Seropram, Sereupin, Seroxat, Fluoxeren, Prozac, Maveral, Fevarin, il cittadino si perde. Attenzione, non che questi farmaci non funzionino. Anzi, sono una grande scoperta.
Dov’è il trucco, allora? A più livelli, direi: da un lato creare una medicalizzazione eccessiva dei problemi, dall’altro una fiducia totale e acritica nel progresso delle neuroscienze. Ma – si può obiettare – c’è la preparazione dei medici e la deontologia? Vero, però consideriamo due aspetti.
Da un lato come si svolge il lavoro dei medici (6), condizionati da una ricerca finanziata dalle multinazionali e da un aggioamento gestito soprattutto dagli informatori farmaceutici (7). Dall’altro, guardo alle scuole di specialità, dove i futuri psichiatri vengono prevalentemente abituati a ragionare in termini di sintomi e in cui – mi si permetta di esagerare – le emozioni rischiano di essere considerate «tempeste chimiche».
Manca solo un passaggio, ormai ed è quello di riprendere il concetto neoliberista del vincente, della fiducia nella scienza, un modello di mondo dove è bandito il dolore, dove non si parla della morte come di un aspetto della vita, ma – al contrario – dove la si esorcizza cercando di restare eterni giovani trapiantandosi i capelli, facendosi spianare le rughe, livellare l’addome, rimodellare il seno, le labbra, il naso e via discorrendo. E se per caso c’è un incidente di percorso allora via con la soluzione magica del farmaco!
Ma negare la morte significa promuovere un mondo falso, negare la sofferenza significa negare la compassione, la solidarietà, la dimensione spirituale, il diritto per tutti di reclamare i diritti negati.
Intendiamoci: non nego l’utilità dei vari psicofarmaci (si veda la tabella), che io stesso uso e anche con buoni risultati. Quello che mi spaventa è l’uso improprio delle categorie diagnostiche non tanto da parte degli psichiatri, che al massimo si adeguano, ma dalla «costruzione collettiva» nella mente delle persone comuni. In tal modo, si arriva a confondere il dolore con la malattia, a scindere la sofferenza dal neurotrasmettitore chimico in difetto, a isolare la malattia del singolo dalla crisi della società in cui ci muoviamo e della quale siamo impregnati.
E allora si ricorre in maniera sempre più massiccia agli psicofarmaci, che, tra l’altro, hanno costi sempre più elevati, non giustificati dai miglioramenti, peraltro inoppugnabili (non tanto in termini di efficacia, quanto in termini di minori effetti collaterali).
OLTRE I PREGIUDIZI E GLI STEREOTIPI
Piccola riflessione: e se in psichiatria invece di parlare solo di guarigione imparassimo a parlare di qualità della vita?
Lo psichiatra allora non è più il professionista della sofferenza, così come la sofferenza non è più una malattia di cui quasi vergognarsi, ma un bagaglio della grande valigia della vita. Allora un altro concetto è importante: quello di evitare le categorie, le generalizzazioni.
In quest’ottica non esistono più gli schizofrenici e gli psichiatri, i depressi e gli infermieri, i disturbi di personalità e gli psicologi, ma persone diverse che fanno la medesima professione o che hanno la stessa malattia.
In questo modo, possiamo meglio realizzare la soggettività di ciascuno, premessa importante per poter continuare ad esistere agli occhi degli altri in quanto individui con la nostra unicità fatta di biologia, di costituzione, di temperamento, ma anche di incontri, di esperienze e storie che nessun altro ha uguali alle nostre.
Così parleremo di persone che esercitano la professione di medici o di infermieri, così come parleremo di persone ammalate di schizofrenia o di depressione e questo ci permetterà di evitare generalizzazioni che sono alla base dei pregiudizi e degli stereotipi: «gli schizofrenici sono violenti e imprevedibili», «gli psichiatri sono eccentrici e particolari». Modalità per impedire il reale incontro con l’altro che è la grande magia della vita, anche quando la generalizzazione è in positivo tipo: «i matti hanno un’intelligenza e una sensibilità eccezionali» o «gli psichiatri sono studiosi e profondi».
Scopriremo così che esistono psichiatri simpatici e altri antipatici, schizofrenici intelligenti e no, infermieri spiritosi ed infermieri noiosi, matti generosi ed altri gretti.
Allo stesso modo occorre riflettere insieme sullo stato di salute del mondo in cui viviamo, con le sue devastazioni ambientali,i cibi adulterati, l’aumento della povertà, la crisi industriale, i conflitti etnici e religiosi, le guerre preventive perché, come diceva il psicoanalista James Hillman nel suo libro dal titolo provocatorio «Cento anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio» (8), non si può non far entrare nella stanza della terapia quello che succede fuori, se no si rischia di promuovere una cultura solipsistica, di ripiegamento su se stessi che è già il grande dramma della nostra società occidentale così impregnata di narcisismo e quindi di perdita di contatto con il proprio sé più intimo e con la dimensione empatica verso l’altro.
Evitiamo anche, per quanto possibile, di chiuderci nelle nostre specificità, impariamo a promuovere la cultura della mescolanza e della curiosità per le differenze degli altri, insieme al rispetto nel piacere della reciprocità.
Bisogna poter procedere nella direzione della condivisione consapevole, insieme alla scoperta che, come con amici abbiamo ripetuto in quella meravigliosa esperienza che è stato, nel 2002, il primo forum piemontese itinerante della salute mentale: «La psichiatria non è solo il luogo tetro della sofferenza e della solitudine, ma anche il luogo dove recuperare solidarietà, senso d’appartenenza e capacità di provare piacere!».
Non a caso il sottotitolo del forum, più come augurio che come provocazione, recitava «Divertirsi insieme è terapeutico!».
L’operatore della salute, lo psichiatra in particolare secondo le rigide gerarchie del sogno fasullo del neoliberismo, non è quindi il dispensatore di formule scientifiche o di ricette che allontanano il dolore con una pastiglia (meglio se costosa) quanto piuttosto un compagno di strada nella costruzione di percorsi individuali e collettivi. Per andare dove? Verso il migliore dei mondi possibili, quello dove le differenze siano ricchezze e non ostacoli e dove, come recitano gli indigeni dell’Ezln messicano per bocca del loro portavoce, il subcomandante Marcos, si possa «camminare al passo degli ultimi», dove «si cammini domandando» per arricchirsi nel confronto e non irrigidirsi sulle proprie convinzioni e dove si eserciti il «comandare obbedendo», perché chi ha una posizione di potere deve obbedire ai bisogni di chi sta sotto e lo ha eletto come portavoce.
È un’utopia quella di un mondo che contenga tutti i mondi, come affermano gli amici zapatisti?
Bisogna essere dei «visionari pratici», come dice Alberto Oliveira, il giovane psicologo che nel «Borda», il gigantesco e fatiscente manicomio maschile di Buenos Aires, è riuscito ad aprire una radio che ormai trasmette su scala nazionale in tutta l’Argentina e che ha succursali in America Latina, ma anche in Europa, (compresa l’esperienza di «Radio 180», a Mantova).
In questo periodo di crisi dello stato del benessere (welfare state) e di congiuntura internazionale (di cui l’immigrazione, la disoccupazione e la perdita del tessuto sociale rappresentano alcuni degli epifenomeni), le istituzioni sociali sempre più hanno dovuto prendersi cura di ciò che la base sociale non riesce ad affrontare.
Allora, se lo stato del benessere, «costruito» per rispondere a bisogni primari, è da sempre costretto ad occuparsi di ogni cosa, non viene difficile immaginare come in tempo di crisi, il pronto soccorso di un ospedale pubblico possa diventare il contenitore di tutti i disperati e gli emarginati, portando problematiche extra-cliniche che funzionano da ulteriori stressors su di un personale già al limite del collasso.
Ecco, perché non è pensabile che l’équipe del pronto soccorso, soprattutto il personale infermieristico, non abbia uno spazio continuativo e regolare dove provare a metabolizzare i vissuti e le difficoltà, reali e simboliche: intendo uno spazio di supervisione psicologica.
Dal momento che non esistono le competenze umanitarie, che sono doti e bagaglio personale che non s’imparano sui libri, ma nei banchi di scuola della vita, ritengo che la professionalità dello psichiatra in queste situazioni consista nella capacità di orizzontarsi nel groviglio emozionale, lavorando, come si dice in linguaggio tecnico, sul «controtransfert».
Nel carico di angoscia io devo capire quale emozioni passano per la testa della persona che ho di fronte, perché solo così posso capie i bisogni e la risposta ad essi.
Per fare questa operazione io devo però discriminare tra ciò che appartiene a me e ciò che appartiene all’altro: se percepisco rabbia, è legata al mio modo di sentire o è veramente quello che mi passa l’altro? E ancora: è una rabbia destata dal comportamento della persona di fronte a me che evoca miei problemi o è rabbia che appartiene davvero a lei?
Per esemplificare, se io sento di avere un problema con la sottomissione e l’incapacità di farmi le mie ragioni, una persona con gli stessi meccanismi, mi scatenerà una rabbia e un fastidio incredibili, perché funziona da specchio per qualcosa di mio che non voglio accettare, anzi che nego con forza.
Se io invece fossi in grado di accettarmi per quello che sono, o se per lo meno sapessi il mio modo di funzionare in senso psichico, potrei confrontarmi con un problema analogo portato da un’altra persona senza scaricare su di lei la rabbia e l’odio per quella parte buia di me che non accetto al punto di non vederla neppure.
Pertanto, la capacità di analizzare il mosaico emozionale attribuendo a ciascuno la sua parte (per quanto possibile, non stiamo parlando di operazioni puramente tecniche, c’è sempre la contaminazione del nostro essere umani) permette una partecipazione «ripulita», ma empatica al dolore delle persone che chiedono aiuto alle mie specifiche competenze.
Ovviamente l’aspetto tecnico è comunque secondario a quello umano: il dolore è un luogo di assoluta solitudine, al quale potersi avvicinare con il dovuto rispetto, ma senza la paura paralizzante.
L’ANSIA DI VIVERE
(E DI POSSEDERE)
Il nostro stile di vita è purtroppo sempre più centrato sull’affermazione e sull’efficientismo, illudendoci che fama e ricchezza ci possano evitare la malattia, il dolore e la morte.
L’ansia di vivere e di possedere ci rendono sempre più fragili di fronte al nostro e altrui dolore. Questo materialismo che non voglio etichettare (dategli la connotazione che preferite) ci ha tolto la capacità di assumerci il peso del dolore degli altri: per non vedere il fallimento del sogno di onnipotenza imposto dal nostro modello di vita cerchiamo subito una soluzione tecnica.
Allora possiamo illuderci di chiamare lo specialista, lo psichiatra in questo caso, che con il suo sapere rimetta le cose a posto, tutto sotto controllo, perpetuando un modello di fuga dalla nostra condizione di uomini, per farci diventare quello che è il nostro ruolo.
Allora non ci saranno più uomini e donne spaventati o arrabbiati o estroversi o solitari o generosi o avidi, ma avremo invece medici capaci o incapaci, manager di ghiaccio o falliti, studenti primi della classe o incapaci e l’imperativo sarà sempre e solo «essere all’altezza, sempre e comunque, costi quel che costi».
E allora anche il confronto con il dolore dell’altro sarà insopportabile o perché dovremo dimostrare di essere all’altezza di gestire senza farci coinvolgere, con la generosità fredda di un Rambo, oppure perché rischieremo di entrare in contatto con la nostra piccola, fragile umanità.
Il nostro bagaglio professionale ci può e deve aiutare, quello che importa è sentirsi uomo tra gli uomini, sentirsi in «compassione», nel senso di patire insieme, ma insieme trovare la forza per accettare la nostra fragilità e l’angoscia di morte che ne deriva.
Possiamo evocare la pietas cristiana o citare Madre Teresa di Calcutta o ricordare un personaggio più laico come Che Guevara nella lettera ai figli («occorre che sappiate sentire la sofferenza di ogni uomo come se fosse la vostra»). Certo è che dobbiamo ritrovare un senso nella nostra civiltà, altrimenti arriveremo all’aberrazione di pensare che lo psichiatra è lo «specialista della sofferenza».
FERMARE LA DERIVA VERSO LA MEDICALIZZAZIONE
Se la legge 180 era stata resa possibile dai fermenti di quegli anni e dalle lotte politiche degli anni ’60-’70, inserendosi nel medesimo filone, è ora importante «contestualizzare» la situazione della psichiatria rispetto a quello che succede nel mondo (9).
Nell’ottica neoliberista, colpire i deboli non è un progetto, quanto la logica conseguenza di un modello che riduce a merce qualsiasi cosa.
Come insegnano gli amici boliviani, l’acqua non è una risorsa (termine che sottende la possibilità di mercificare) quanto un bene comune e come tale da condividere con solidarietà e nel rispetto di tutti.
Difendere la legge 180 (10) e la psichiatria pubblica significa, pertanto, difendere lo stato sociale, ma è anche importante capire come farlo per essere al passo dei tempi anche nelle lotte.
Quello che stiamo imparando dal movimento dei movimenti è la necessità di unirsi per «cambiare il mondo senza prendere il potere». Come farlo? Creando un mondo dove fare incontri per scambiare identità e per mescolarsi, contaminarsi e conoscersi, scambiare esperienze e opportunità tra diversi che siano uniti da due sole discriminanti ferree: «no» alla guerra e «no» all’esclusione creata dal modello neoliberista. Mentre il modello alternativo deve cercare di rispondere alla filosofia del «pensare globalmente, agire localmente».
Pertanto, pur tenendo conto delle differenze tra i vari dipartimenti di salute mentale, risulta chiara l’importanza di contrastare il pericoloso restringimento del concetto di cura sul versante medico-biologico, mentre il resto viene declassato a contorno.
Un recente studio di Emanuela Terzina, ricercatrice presso il dipartimento di epidemiologia clinica dell’Istituto Mario Negri ci dimostra come a livello predittivo la diagnosi conti relativamente poco sulla prognosi (5%), a confronto con la presenza di una rete sociale che incide per il 35% sull’andamento della malattia.
La ricerca scientifica, totalmente in mano alle multinazionali e all’università, deve spostare l’interesse sulla formazione, fermando la deriva verso la medicalizzazione.
La rivisitazione del paradigma di malattia in psichiatria deve ricordarci quanto avvenuto, per esempio, rispetto alla tubercolosi, ove le abitazioni insalubri sono state individuate come importanti tanto quanto l’agente patogeno.
IL MANICOMIO
È DENTRO DI NOI
Siamo partiti dal nostro ambulatorio psichiatrico, lì al primo piano. Siamo passati ai danni prodotti dal neoliberismo su ogni aspetto della vita e dunque anche sulla salute, troppo spesso mercificata. Abbiamo parlato della trasformazione della psichiatria e sulla sua eccessiva medicalizzazione, a scapito del contesto, che invece è essenziale.
In una vita da cui è bandito il dolore, esorcizzata la morte, esaltata la filosofia del vincente, il manicomio è dentro di noi, nel nostro dividere il mondo in buoni e cattivi (11), in giusto e sbagliato, senza appelli, né legittimi dubbi.
Ugo Zamburru