QUALI SPERANZE PER L’ALBANIA?

Quando Madre Teresa, nel 1979, ricevette il Premio Nobel, si espresse così: «Ho sempre nel cuore il mio popolo albanese e prego Dio affinché la Sua pace ed il Suo amore siano nei nostri cuori, in ogni famiglia».
Madre Teresa era albanese. Se si segue l’evolversi della sua opera, si comprende che se non fosse stata albanese non sarebbe stata Madre Teresa, senza nulla togliere al valore dell’opera di Dio nelle vicende umane. Anzi, si potrebbe dire che Dio affidò questa sua opera proprio ad una albanese, perché ne conosceva bene le caratteristiche: la determinazione, la testardaggine nel perseguire quanto prefissato e deciso, l’instancabilità di fronte alle difficoltà di qualsiasi genere.
Madre Teresa era una donna albanese. Da quando misi piede la prima volta nel paese, nel luglio 1991, mi sono convinto che la speranza dell’Albania passerà attraverso la donna. Dalla catastrofe del comunismo feudale di Enver Hoxha, il quale, volendo proporre «l’uomo nuovo socialista» in realtà gli ha negato qualsiasi dimensione spirituale, la donna albanese è uscita molto più integra ed affidabile del suo compagno. Essa riesce ad essere più attenta all’essenziale e ad avere una visione meno dispersiva e più definita nel perseguire uno scopo. Questo sembrerà un’eresia a tanti uomini albanesi, convinti che solo l’uomo sia capace di prendere buone decisioni. Parlo delle convinzioni che mi sono fatto in questi anni e parlo soprattutto di un paese che ha il suo futuro solo nell’integrazione europea. Ad accompagnarlo su questa strada, penso che le donne albanesi avranno più successo degli uomini.
Madre Teresa era una donna albanese «emigrante». La valorizzazione dell’esperienza migratoria albanese è un elemento determinante, sia per fondare su basi sicure e solide la definitiva rinascita del paese, sia nel facilitargli il percorso dell’integrazione.
Ora toccherebbe alla politica intervenire per prima sul fenomeno migratorio, con misure che ne contrastino, nel medio termine, i risvolti negativi che pure esistono. Innanzitutto nel valutare la capacità del paese a «rincorrere» il cammino dell’Europa. Bisogna non dimenticare mai che l’emigrazione ha interessato il 20% della popolazione albanese (dato ufficiale del censimento del 2001), cui va aggiunta l’alta percentuale di famiglie della migrazione intea, non inferiore al 12-13%. Ora bisognerebbe immaginare cosa potrebbe succedere in Italia se emigrassero 11 milioni e mezzo di abitanti ed allo stesso tempo altri 7 milioni abbandonassero la campagna per la città…
Oltre a questi dati, poi, occorre considerare anche che il 56% degli emigrati albanesi ha il diploma di scuola media superiore ed il 12% la laurea universitaria. Il paese, cioè, deve anche fare i conti con una disponibilità di energie e di competenze limitata e con la mancanza di stabilità sociale intea.
Il ritorno degli emigrati sarà un elemento di grande importanza per lo sviluppo del paese, perché potranno mettere a disposizione le competenze acquisite, il valore delle relazioni intessute, i loro capitali e dare un impulso definitivo e stabile alla crescita economica e sociale. Di estrema importanza, inoltre, è il loro patrimonio di esperienza nei diversi paesi in cui operano normalmente le forme organizzate della cosiddetta società civile.
La speranza di domani, infine, non può non tener conto anche della necessità che le istituzioni inteazionali assumano un atteggiamento meno superficiale nei confronti di popoli poco conosciuti (e per questo spesso anche poco apprezzati) come gli albanesi. Mustafà Nano, stimato opinionista albanese, sinteticamente dice: « …il dilemma è che noi vogliamo entrare in Europa, ma non siamo capiti dall’Europa».

Pier Paolo Ambrosi




Matti come loro o come noi?

Quando McMurphy domanda all’amico Harding quale sia lo scopo della terapia con l’elettroshock, questi gli risponde: «Ma per il bene del paziente, si capisce. Tutto quello che fanno qui è per il bene del paziente. (…) Non sempre si ricorre all’Est (Elettro-shock-terapia, ndr) a titolo punitivo, come è solita fare la nostra infermiera, e nemmeno si tratta di puro sadismo da parte del personale. Numerosi malati ritenuti inguaribili sono stati riportati in contatto con la realtà grazie all’elettroshock, così come altri hanno fatto progressi con la lobotomia e la leucotomia. L’elettroshock terapia presenta alcuni vantaggi: è poco costosa, rapida, del tutto indolore. Causa soltanto una sorta di attacco epilettico».
Sono righe tratte da Qualcuno volò sul nido del cuculo, romanzo (1) ambientato in un ospedale psichiatrico dell’Oregon, ma è dall’Italia che conviene partire quando si parla di disagio mentale. La psichiatria italiana è infatti nota a livello internazionale per le innovazioni introdotte con la riforma della legge 180 del 1978, anche nota come «legge Basaglia», dal nome del suo ideatore.
Diceva lo psichiatra veneziano (2): «La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere». E ancora: «Il manicomio è nato storicamente a difesa dei sani. Le mura servivano, quando l’assenza di terapie rendeva impossibile la guarigione, ad escludere, isolare la follia perché non invadesse il nostro spazio» (3).
Quella di Franco Basaglia è stata una riforma rivoluzionaria e, come tale, anche oggetto di critiche. Ma quasi sempre non a causa dei suoi contenuti, bensì per la sua inadeguata applicazione (4).
«Scrivo ancora contro la legge 180. Quando finirà questa pagliacciata della libertà obbligatoria? I matti non li vuole nessuno e, abbandonati a se stessi, si stanno estinguendo. Sì, estinguendo, ma per suicidio o ricovero in manicomio giudiziario. E soprattutto quello che fa schifo è che vogliono far passare questa situazione per liberatoria. Il sottoscritto, dopo 9 ricoveri “volontari”, non sa più dove sbattere la testa. E così tanta gente che conosco e che non fa altro che ripresentarsi tutte le settimane ai centri di igiene mentale. Vi piace la libertà? Tenetevela, ma per piacere ridateci la possibilità di difenderci da voi normali, di mettere un muro tra noi e voi».
Non sappiamo se questa lettera, apparsa sul quotidiano la Repubblica nel 1988, sia stata effettivamente scritta da un paziente o invece sia soltanto il prodotto di un oppositore della legge Basaglia. Ciò non toglie che essa, nella sua crudezza, descriva un problema possibile, che di norma nasce quando la 180 è applicata male.
«La malattia psichiatrica – scrive Benedetto Saraceno, direttore del Dipartimento salute mentale e tossicodipendenze dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms/Who) – ha caratteristiche che la rendono diversa dalla maggior parte delle altre malattie e, dunque, l’uguaglianza tra i cittadini (e tra i cittadini malati) va ricercata nella uguaglianza di diritti e opportunità, ma non nella uguaglianza delle risposte assistenziali. Un malato psichiatrico non ha bisogno di “letti in ospedale”, ma di opportunità di vita alternative all’ospedale e spesso anche alla famiglia di origine; ha bisogno di residenzialità, di lavoro, di presa in carico, di affetto, di autonomia».

L e patologie mentali sono correlabili al contesto sociale ed economico nel quale si vive? La risposta pare affermativa. Ad esempio, si è visto che le psicosi migliorano più facilmente nei paesi in via di sviluppo, ove il contesto comunitario è più accogliente e i meccanismi di esclusione meno rigidi (5).
Secondo lo psichiatra statunitense Richard Waer (6), il cambiamento di ruolo, la perdita di status e l’incertezza occupazionale possono accrescere il rischio di sviluppare la schizofrenia. In particolare, per alcuni gruppi, come gli «scolarizzati disoccupati» nei paesi industrializzati, i «poveri urbanizzati» nei paesi in via di sviluppo.
Nei paesi ricchi si è trovata una possibile, parziale soluzione con gli psicofarmaci (si veda la tabella di pagina 31). Ad essi si fa sempre più ricorso, a volte perché sono utili, a volte perché fortissima è la pressione delle multinazionali farmaceutiche.
Nel gennaio del 2003 la «Food and Drug Administration» (Fda), l’agenzia federale che vigila sulla salute degli statunitensi, ha dato il via libera alla somministrazione del Prozac, il più famoso dei farmaci antidepressivi, a bambini e adolescenti dai 7 anni in su (7). Molti specialisti hanno messo in guardia sugli effetti collaterali (tra cui una diminuzione della crescita) derivanti dall’assunzione dell’antidepressivo. Altri hanno applaudito alla novità. Altri ancora hanno trovato una risposta certamente più banale ma senz’altro molto vera: la Eli Lilly, l’azienda statunitense produttrice del Prozac, aveva necessità di allargare i confini di un mercato ormai saturo.

S ono passati più di duemila anni da quando Aristotele e Galeno spiegavano la follia a partire dallo squilibrio dei quattro umori presenti nel corpo umano: sangue, flegma, bile gialla e bile nera. L’eccesso di uno di questi umori veniva considerato la «causa» della follia.
Oggi, a guardare il mondo che ci circonda, nella dialettica normalità-pazzia vale la saggezza di Bertoldo (8). Quando il re gli chiede: «Qual è la più grande pazzia dell’uomo?», Bertoldo risponde: «Il reputarsi savio».

Paolo Moiola




La salute non può essere un businessLavorare in un Dipartimento di salute mentale

I «matti» non sono più quelli di una volta. Nelle strutture arrivano disoccupati, poveri, extracomunitari, drogati. Anche la società non è più la stessa: l’1 per cento della popolazione mondiale è affetta da schizofrenia; circa il 15-20 per cento da depressione; una percentuale ancora più alta da ansia. Lavorare sulla salute mentale è sempre più difficile. Ma un principio dovrebbe rimanere saldo ed immutabile: la salute non può essere un campo dove cercare il profitto.

La giornata lavorativa sta terminando, nel fatiscente caseggiato adibito ad ambulatorio psichiatrico, lì al primo piano. Da sotto si sente salire per le scale l’odore del cibo preparato al centro diuo.
I due infermieri rimasti guardano lo psichiatra seduto di fronte, i gomiti appoggiati sulla scrivania e le mani a reggere la testa appesantita da una interminabile serie di colloqui.
Una delle infermiere e lo psichiatra responsabile del centro diuo si conoscono da venti anni, da quando, giovani e carichi di entusiasmo, si erano trovati a lavorare insieme, in quello stesso quartiere della periferia torinese così cambiato negli anni.
Quando capita che i due si incontrino con un po’ di tempo a disposizione per parlarsi, succede talvolta che si mettano a parlare dei bei tempi andati, quando c’erano più risorse, più energie, quando la psichiatria era un argomento di primaria importanza e quando tutto era migliore.
Anche i «matti» non sono più quelli di una volta. Ormai negli ambulatori arriva di tutto e i bisogni sono sempre più complessi: disoccupazione, povertà, extracomunitari, e poi quanti pazienti usano anche droghe assortite, una volta non era tutto così incasinato.
Morena e Ugo non sono poi così vecchi, una cinquantina d’anni lo psichiatra, 43 l’infermiera e sono ancora innamorati del loro mestiere, certo non delle condizioni in cui si trovano ad operare.
Quando nel 1985 hanno iniziato a lavorare insieme, l’équipe era composta da 3 medici a tempo pieno, una psicologa, un assistente sociale (e per un certo periodo addirittura due), 6 infermieri a tempo pieno ed i casi attivi erano circa 300, quasi tutti di chiara pertinenza psichiatrica, per i quali attivare le risorse di personale ed economiche (sussidi, una tantum, borse lavoro, soggiorni) a disposizione.
Un bel mix tra i 2 vecchi infermieri che avevano vissuto da protagonisti la fase propedeutica alla chiusura dei manicomi con la famosa legge 180 (conosciuta come legge Basaglia) e il resto del personale, tutto alle prime esperienze, amalgamati dalla responsabile che, pur ancora giovane, aveva lavorato anch’essa in manicomio, permettevano all’équipe di sentirsi parte di un progetto forte, con una salda base ideologica e con valori morali ed etici che permettevano di esprimersi in un’atmosfera di creatività, ma anche di efficienza.
Sarebbe ora interessante vedere come si è trasformata quell’équipe: al momento un medico a tempo pieno che sta scoppiando per il carico lavorativo, un medico che si occupa anche di ricerca e quindi dedica metà tempo all’attività clinica con i pazienti, e un terzo medico che al momento non c’è perché in gravidanza e comunque per quel terzo posto negli ultimi anni si sono avvicendati, per motivi diversi, ma costituendo un dato che comunque dovrebbe far riflettere, 5 medici e un sesto sta arrivando.
Da un anno è finalmente tornata l’assistente sociale, figura professionale che per un paio d’anni era mancata, mentre gli infermieri sono quattro più una a 15 ore. La figura dello psicologo è presente: una. Insomma, un’équipe assolutamente indebolita, mentre il carico lavorativo, ovvero il numero dei pazienti in cura che necessitano di visite regolari e abbastanza ravvicinate, è aumentato di molto, diciamo almeno del 30% in questi 20 anni.
Per non parlare di quello che succede nei tui in ospedale, quando dal pronto soccorso si viene chiamati per affrontare situazioni di marginalità di gran lunga superiori alle reali competenze cliniche.
Dunque, cos’è la psichiatria oggi? Come funziona un Dipartimento di salute mentale? Proviamo a raccontarlo.
EVOLUZIONE
O INVOLUZIONE?

Credo che ormai non esistano più dubbi sui danni che sta causando il modello neoliberista. Questa non è la sede per soffermarci, ma sicuramente una serie di contraccolpi li respiriamo anche nell’ambito del nostro lavoro di operatori della salute mentale.
Il neoliberismo promuove il «Dio-mercato» e riduce tutto a merce, come tale monetizzabile. Persino l’acqua si vuole privatizzare (1).
Che c’entra questa storia con la psichiatria? C’entra: basta considerare la salute mentale come un terreno di profitto.
Dunque, l’oggetto di cui si occupa la psichiatria, ovvero la salute mentale, rappresenta un fenomeno complesso articolato su almeno tre livelli: quello biologico, quello sociale e quello psicologico.
Negli anni, a seconda della cultura dominante, si è enfatizzato un aspetto piuttosto che un altro: fino alla seconda metà degli anni Sessanta, per esempio, l’aspetto primario era quello del controllo sociale e gli ospedali psichiatrici, i manicomi, ben assolvevano questo compito.
Le forti spinte di rinnovamento sociale veicolate dal movimento dell’ormai mitico Sessantotto fecero sì che in quegli anni l’accento fosse posto prevalentemente sul ruolo della società come «fabbrica della follia» (2).
Le caratteristiche insite nel movimento di demanicomializzazione, l’atmosfera di libertà e impegno che si respiravano funzionarono da collante e diedero una forte identità agli operatori della salute mentale: lavorare in psichiatria significava sentirsi protagonisti di un cambiamento epocale che ridava dignità e soggettività al malato psichiatrico, essere per la creatività, l’impegno e la solidarietà contro i vecchi modelli di reclusione, violenza, negazione dei diritti (3).
Un forte senso di appartenenza caratterizzava gli operatori di quegli anni, con la sensazione che quello che si faceva non era solo un lavoro, ma un impegno sociale fondamentale per determinare i futuri orientamenti del nostro stile di vita. D’altro canto la psichiatria era un argomento «a la page» e lo status di operatore in questo campo era fonte di riconoscimento e interesse.
Ricordo quelli che sono stati i miei veri maestri, i vecchi infermieri, come li chiamavamo, che ci raccontavano gli orrori dei manicomi e ci mostravano più con l’esempio che con le parole il senso del lavorare con la persona che si affidava a noi.
Scivolo su questo terreno infido, dove rischio di diventare retorico perché è un ideale che sento di aver ereditato da loro, come se mi avessero dato il testimone dei loro sogni di rinnovamento e delle loro lotte. Ecco perché mi permetto di ricordare Pino, che era stato il protagonista della rivolta contro la violenza medica (4), ma anche Augusto, Meo, Carlo e poi mi fermo scusandomi con quelli che non cito, ma l’elenco sarebbe troppo lungo.

GLI ANNI NOVANTA: L’«IO» SOSTITUISCE IL «NOI»

Poi gli anni Novanta, quelli della stasi: i protagonisti della chiusura dei manicomi vanno in pensione, portandosi dietro i loro ideali e lasciandoci con un po’ di idee sulla necessità dell’approccio integrato, che tenga conto di tutti e tre gli aspetti citati in precedenza.
Intanto la società cambia, le multinazionali diventano sempre più padrone della scena politica. Banca mondiale, Fondo monetario internazionale (Fmi) e Organizzazione mondiale del commercio (Omc) esasperano la logica del profitto. promuovono la figura del vincente, ci colonizzano l’immaginario e ci convincono che la scienza e le operazioni finanziarie in borsa ci porteranno alla felicità.
Si impone il pensiero unico: mangiamo allo stesso modo (magari Mc Donald’s), vestiamo allo stesso modo, pensiamo (o non pensiamo) allo stesso modo, compriamo di tutto e di più e promuoviamo la competizione.
L’«io» si sostituisce al «noi», il tessuto sociale si scolla, la solidarietà si perde o al massimo viene promossa dalle banche (quelle stesse che danno un grande aiuto alla devastazione del pianeta, ad esempio finanziando gli oleodotti in Amazzonia o i fabbricanti di armi).
Allora, se tutto è merce, perché non può esserlo anche la salute?, pensano le multinazionali del farmaco, che iniziano a difendere con i denti i cosiddetti «brevetti».
Difenderli, perché in India, in Thailandia, in Brasile e in altri paesi del Sud si producono farmaci a basso prezzo (circa 10 volte in meno del prezzo praticato dalle multinazionali), nonostante le molecole chimiche appartengano alle ditte, tutte rigorosamente nordamericane ed europee, che le hanno scoperte e che non vogliono vedere ridotti i propri guadagni.
Assoldati i migliori avvocati, le multinazionali attaccano: «Come vi permettete di produrre senza la nostra autorizzazione i farmaci che noi abbiamo scoperto e per di più a venderli sottocosto?».
Certo, la concorrenza è – stando ai canoni del mercato neoliberista – «sleale», ma permette che almeno 8 milioni di persone l’anno possano accedere a cure altrimenti troppo costose, salvandosi la vita per malattie che in Occidente ormai non sono più causa di morte.
«Ma noi usiamo i soldi per fare ricerca», ribattono le multinazionali, salvo poi scoprire che degli incassi megamiliardari solo una piccola parte viene reinvestita in ricerca, diciamo il 20%, mentre il resto è puro profitto.
Tra l’altro, della quota spesa per la ricerca la parte maggiore è investita per malattie tipiche delle società ricche: diabete, obesità e via discorrendo.
A proposito di obesità (5), che razza di società è la nostra, che spacciamo per portatrice di valori contro il rischio di un «meticciato» catastrofico (come ha sentenziato il presidente Pera, la seconda carica dello stato italiano) e che riesce a produrre obesi e bulimici quando un miliardo di persone vivono con un dollaro al giorno e muoiono di fame?

PSICOFARMACI: UTILI (CON MOLTI «SE» E MOLTI «MA»)

Stabilito che la salute può rappresentare un business, anche la salute mentale può esserlo.
In fondo, l’1% della popolazione mondiale è ammalata di schizofrenia, circa il 10-15% di depressione e poi c’è sempre l’ansia che è un bel terreno di lavoro.
Si tratta solo di trovare la strada giusta, per esempio favorire la ricerca delle neuroscienze, in fondo questo è un campo ancora poco esplorato e conosciuto.
Una volta analizzati fino alle più piccole sfumature i recettori cerebrali, potremo preparare psicofarmaci sempre più sofisticati, che differiscono tra loro per cose minime.
Così per ogni classe vai con la fantasia: per gli inibitori della serotonina che bene funzionano nella depressione ecco un gran numero di molecole, ognuna poi prodotta da più case farmaceutiche e così tra Seropram, Sereupin, Seroxat, Fluoxeren, Prozac, Maveral, Fevarin, il cittadino si perde. Attenzione, non che questi farmaci non funzionino. Anzi, sono una grande scoperta.
Dov’è il trucco, allora? A più livelli, direi: da un lato creare una medicalizzazione eccessiva dei problemi, dall’altro una fiducia totale e acritica nel progresso delle neuroscienze. Ma – si può obiettare – c’è la preparazione dei medici e la deontologia? Vero, però consideriamo due aspetti.
Da un lato come si svolge il lavoro dei medici (6), condizionati da una ricerca finanziata dalle multinazionali e da un aggioamento gestito soprattutto dagli informatori farmaceutici (7). Dall’altro, guardo alle scuole di specialità, dove i futuri psichiatri vengono prevalentemente abituati a ragionare in termini di sintomi e in cui – mi si permetta di esagerare – le emozioni rischiano di essere considerate «tempeste chimiche».
Manca solo un passaggio, ormai ed è quello di riprendere il concetto neoliberista del vincente, della fiducia nella scienza, un modello di mondo dove è bandito il dolore, dove non si parla della morte come di un aspetto della vita, ma – al contrario – dove la si esorcizza cercando di restare eterni giovani trapiantandosi i capelli, facendosi spianare le rughe, livellare l’addome, rimodellare il seno, le labbra, il naso e via discorrendo. E se per caso c’è un incidente di percorso allora via con la soluzione magica del farmaco!
Ma negare la morte significa promuovere un mondo falso, negare la sofferenza significa negare la compassione, la solidarietà, la dimensione spirituale, il diritto per tutti di reclamare i diritti negati.
Intendiamoci: non nego l’utilità dei vari psicofarmaci (si veda la tabella), che io stesso uso e anche con buoni risultati. Quello che mi spaventa è l’uso improprio delle categorie diagnostiche non tanto da parte degli psichiatri, che al massimo si adeguano, ma dalla «costruzione collettiva» nella mente delle persone comuni. In tal modo, si arriva a confondere il dolore con la malattia, a scindere la sofferenza dal neurotrasmettitore chimico in difetto, a isolare la malattia del singolo dalla crisi della società in cui ci muoviamo e della quale siamo impregnati.
E allora si ricorre in maniera sempre più massiccia agli psicofarmaci, che, tra l’altro, hanno costi sempre più elevati, non giustificati dai miglioramenti, peraltro inoppugnabili (non tanto in termini di efficacia, quanto in termini di minori effetti collaterali).

OLTRE I PREGIUDIZI E GLI STEREOTIPI

Piccola riflessione: e se in psichiatria invece di parlare solo di guarigione imparassimo a parlare di qualità della vita?
Lo psichiatra allora non è più il professionista della sofferenza, così come la sofferenza non è più una malattia di cui quasi vergognarsi, ma un bagaglio della grande valigia della vita. Allora un altro concetto è importante: quello di evitare le categorie, le generalizzazioni.
In quest’ottica non esistono più gli schizofrenici e gli psichiatri, i depressi e gli infermieri, i disturbi di personalità e gli psicologi, ma persone diverse che fanno la medesima professione o che hanno la stessa malattia.
In questo modo, possiamo meglio realizzare la soggettività di ciascuno, premessa importante per poter continuare ad esistere agli occhi degli altri in quanto individui con la nostra unicità fatta di biologia, di costituzione, di temperamento, ma anche di incontri, di esperienze e storie che nessun altro ha uguali alle nostre.
Così parleremo di persone che esercitano la professione di medici o di infermieri, così come parleremo di persone ammalate di schizofrenia o di depressione e questo ci permetterà di evitare generalizzazioni che sono alla base dei pregiudizi e degli stereotipi: «gli schizofrenici sono violenti e imprevedibili», «gli psichiatri sono eccentrici e particolari». Modalità per impedire il reale incontro con l’altro che è la grande magia della vita, anche quando la generalizzazione è in positivo tipo: «i matti hanno un’intelligenza e una sensibilità eccezionali» o «gli psichiatri sono studiosi e profondi».
Scopriremo così che esistono psichiatri simpatici e altri antipatici, schizofrenici intelligenti e no, infermieri spiritosi ed infermieri noiosi, matti generosi ed altri gretti.
Allo stesso modo occorre riflettere insieme sullo stato di salute del mondo in cui viviamo, con le sue devastazioni ambientali,i cibi adulterati, l’aumento della povertà, la crisi industriale, i conflitti etnici e religiosi, le guerre preventive perché, come diceva il psicoanalista James Hillman nel suo libro dal titolo provocatorio «Cento anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio» (8), non si può non far entrare nella stanza della terapia quello che succede fuori, se no si rischia di promuovere una cultura solipsistica, di ripiegamento su se stessi che è già il grande dramma della nostra società occidentale così impregnata di narcisismo e quindi di perdita di contatto con il proprio sé più intimo e con la dimensione empatica verso l’altro.
Evitiamo anche, per quanto possibile, di chiuderci nelle nostre specificità, impariamo a promuovere la cultura della mescolanza e della curiosità per le differenze degli altri, insieme al rispetto nel piacere della reciprocità.
Bisogna poter procedere nella direzione della condivisione consapevole, insieme alla scoperta che, come con amici abbiamo ripetuto in quella meravigliosa esperienza che è stato, nel 2002, il primo forum piemontese itinerante della salute mentale: «La psichiatria non è solo il luogo tetro della sofferenza e della solitudine, ma anche il luogo dove recuperare solidarietà, senso d’appartenenza e capacità di provare piacere!».
Non a caso il sottotitolo del forum, più come augurio che come provocazione, recitava «Divertirsi insieme è terapeutico!».
L’operatore della salute, lo psichiatra in particolare secondo le rigide gerarchie del sogno fasullo del neoliberismo, non è quindi il dispensatore di formule scientifiche o di ricette che allontanano il dolore con una pastiglia (meglio se costosa) quanto piuttosto un compagno di strada nella costruzione di percorsi individuali e collettivi. Per andare dove? Verso il migliore dei mondi possibili, quello dove le differenze siano ricchezze e non ostacoli e dove, come recitano gli indigeni dell’Ezln messicano per bocca del loro portavoce, il subcomandante Marcos, si possa «camminare al passo degli ultimi», dove «si cammini domandando» per arricchirsi nel confronto e non irrigidirsi sulle proprie convinzioni e dove si eserciti il «comandare obbedendo», perché chi ha una posizione di potere deve obbedire ai bisogni di chi sta sotto e lo ha eletto come portavoce.
È un’utopia quella di un mondo che contenga tutti i mondi, come affermano gli amici zapatisti?
Bisogna essere dei «visionari pratici», come dice Alberto Oliveira, il giovane psicologo che nel «Borda», il gigantesco e fatiscente manicomio maschile di Buenos Aires, è riuscito ad aprire una radio che ormai trasmette su scala nazionale in tutta l’Argentina e che ha succursali in America Latina, ma anche in Europa, (compresa l’esperienza di «Radio 180», a Mantova).
In questo periodo di crisi dello stato del benessere (welfare state) e di congiuntura internazionale (di cui l’immigrazione, la disoccupazione e la perdita del tessuto sociale rappresentano alcuni degli epifenomeni), le istituzioni sociali sempre più hanno dovuto prendersi cura di ciò che la base sociale non riesce ad affrontare.
Allora, se lo stato del benessere, «costruito» per rispondere a bisogni primari, è da sempre costretto ad occuparsi di ogni cosa, non viene difficile immaginare come in tempo di crisi, il pronto soccorso di un ospedale pubblico possa diventare il contenitore di tutti i disperati e gli emarginati, portando problematiche extra-cliniche che funzionano da ulteriori stressors su di un personale già al limite del collasso.
Ecco, perché non è pensabile che l’équipe del pronto soccorso, soprattutto il personale infermieristico, non abbia uno spazio continuativo e regolare dove provare a metabolizzare i vissuti e le difficoltà, reali e simboliche: intendo uno spazio di supervisione psicologica.
Dal momento che non esistono le competenze umanitarie, che sono doti e bagaglio personale che non s’imparano sui libri, ma nei banchi di scuola della vita, ritengo che la professionalità dello psichiatra in queste situazioni consista nella capacità di orizzontarsi nel groviglio emozionale, lavorando, come si dice in linguaggio tecnico, sul «controtransfert».
Nel carico di angoscia io devo capire quale emozioni passano per la testa della persona che ho di fronte, perché solo così posso capie i bisogni e la risposta ad essi.
Per fare questa operazione io devo però discriminare tra ciò che appartiene a me e ciò che appartiene all’altro: se percepisco rabbia, è legata al mio modo di sentire o è veramente quello che mi passa l’altro? E ancora: è una rabbia destata dal comportamento della persona di fronte a me che evoca miei problemi o è rabbia che appartiene davvero a lei?
Per esemplificare, se io sento di avere un problema con la sottomissione e l’incapacità di farmi le mie ragioni, una persona con gli stessi meccanismi, mi scatenerà una rabbia e un fastidio incredibili, perché funziona da specchio per qualcosa di mio che non voglio accettare, anzi che nego con forza.
Se io invece fossi in grado di accettarmi per quello che sono, o se per lo meno sapessi il mio modo di funzionare in senso psichico, potrei confrontarmi con un problema analogo portato da un’altra persona senza scaricare su di lei la rabbia e l’odio per quella parte buia di me che non accetto al punto di non vederla neppure.
Pertanto, la capacità di analizzare il mosaico emozionale attribuendo a ciascuno la sua parte (per quanto possibile, non stiamo parlando di operazioni puramente tecniche, c’è sempre la contaminazione del nostro essere umani) permette una partecipazione «ripulita», ma empatica al dolore delle persone che chiedono aiuto alle mie specifiche competenze.
Ovviamente l’aspetto tecnico è comunque secondario a quello umano: il dolore è un luogo di assoluta solitudine, al quale potersi avvicinare con il dovuto rispetto, ma senza la paura paralizzante.

L’ANSIA DI VIVERE
(E DI POSSEDERE)

Il nostro stile di vita è purtroppo sempre più centrato sull’affermazione e sull’efficientismo, illudendoci che fama e ricchezza ci possano evitare la malattia, il dolore e la morte.
L’ansia di vivere e di possedere ci rendono sempre più fragili di fronte al nostro e altrui dolore. Questo materialismo che non voglio etichettare (dategli la connotazione che preferite) ci ha tolto la capacità di assumerci il peso del dolore degli altri: per non vedere il fallimento del sogno di onnipotenza imposto dal nostro modello di vita cerchiamo subito una soluzione tecnica.
Allora possiamo illuderci di chiamare lo specialista, lo psichiatra in questo caso, che con il suo sapere rimetta le cose a posto, tutto sotto controllo, perpetuando un modello di fuga dalla nostra condizione di uomini, per farci diventare quello che è il nostro ruolo.
Allora non ci saranno più uomini e donne spaventati o arrabbiati o estroversi o solitari o generosi o avidi, ma avremo invece medici capaci o incapaci, manager di ghiaccio o falliti, studenti primi della classe o incapaci e l’imperativo sarà sempre e solo «essere all’altezza, sempre e comunque, costi quel che costi».
E allora anche il confronto con il dolore dell’altro sarà insopportabile o perché dovremo dimostrare di essere all’altezza di gestire senza farci coinvolgere, con la generosità fredda di un Rambo, oppure perché rischieremo di entrare in contatto con la nostra piccola, fragile umanità.
Il nostro bagaglio professionale ci può e deve aiutare, quello che importa è sentirsi uomo tra gli uomini, sentirsi in «compassione», nel senso di patire insieme, ma insieme trovare la forza per accettare la nostra fragilità e l’angoscia di morte che ne deriva.
Possiamo evocare la pietas cristiana o citare Madre Teresa di Calcutta o ricordare un personaggio più laico come Che Guevara nella lettera ai figli («occorre che sappiate sentire la sofferenza di ogni uomo come se fosse la vostra»). Certo è che dobbiamo ritrovare un senso nella nostra civiltà, altrimenti arriveremo all’aberrazione di pensare che lo psichiatra è lo «specialista della sofferenza».

FERMARE LA DERIVA VERSO LA MEDICALIZZAZIONE

Se la legge 180 era stata resa possibile dai fermenti di quegli anni e dalle lotte politiche degli anni ’60-’70, inserendosi nel medesimo filone, è ora importante «contestualizzare» la situazione della psichiatria rispetto a quello che succede nel mondo (9).
Nell’ottica neoliberista, colpire i deboli non è un progetto, quanto la logica conseguenza di un modello che riduce a merce qualsiasi cosa.
Come insegnano gli amici boliviani, l’acqua non è una risorsa (termine che sottende la possibilità di mercificare) quanto un bene comune e come tale da condividere con solidarietà e nel rispetto di tutti.
Difendere la legge 180 (10) e la psichiatria pubblica significa, pertanto, difendere lo stato sociale, ma è anche importante capire come farlo per essere al passo dei tempi anche nelle lotte.
Quello che stiamo imparando dal movimento dei movimenti è la necessità di unirsi per «cambiare il mondo senza prendere il potere». Come farlo? Creando un mondo dove fare incontri per scambiare identità e per mescolarsi, contaminarsi e conoscersi, scambiare esperienze e opportunità tra diversi che siano uniti da due sole discriminanti ferree: «no» alla guerra e «no» all’esclusione creata dal modello neoliberista. Mentre il modello alternativo deve cercare di rispondere alla filosofia del «pensare globalmente, agire localmente».
Pertanto, pur tenendo conto delle differenze tra i vari dipartimenti di salute mentale, risulta chiara l’importanza di contrastare il pericoloso restringimento del concetto di cura sul versante medico-biologico, mentre il resto viene declassato a contorno.
Un recente studio di Emanuela Terzina, ricercatrice presso il dipartimento di epidemiologia clinica dell’Istituto Mario Negri ci dimostra come a livello predittivo la diagnosi conti relativamente poco sulla prognosi (5%), a confronto con la presenza di una rete sociale che incide per il 35% sull’andamento della malattia.
La ricerca scientifica, totalmente in mano alle multinazionali e all’università, deve spostare l’interesse sulla formazione, fermando la deriva verso la medicalizzazione.
La rivisitazione del paradigma di malattia in psichiatria deve ricordarci quanto avvenuto, per esempio, rispetto alla tubercolosi, ove le abitazioni insalubri sono state individuate come importanti tanto quanto l’agente patogeno.

IL MANICOMIO
È DENTRO DI NOI

Siamo partiti dal nostro ambulatorio psichiatrico, lì al primo piano. Siamo passati ai danni prodotti dal neoliberismo su ogni aspetto della vita e dunque anche sulla salute, troppo spesso mercificata. Abbiamo parlato della trasformazione della psichiatria e sulla sua eccessiva medicalizzazione, a scapito del contesto, che invece è essenziale.
In una vita da cui è bandito il dolore, esorcizzata la morte, esaltata la filosofia del vincente, il manicomio è dentro di noi, nel nostro dividere il mondo in buoni e cattivi (11), in giusto e sbagliato, senza appelli, né legittimi dubbi.

Ugo Zamburru




Quando la psichiatria percorre altre stradeStorie ed esperienze torinesi

Le strutture di salute mentale sono troppo spesso scollegate dalla cittadinanza.
Ciò favorisce l’espulsione e l’indifferenza. E, nel contempo, deprime la solidarietà.
Per questo, a Torino, un gruppo di operatori ha tentato di agire concretamente
per far cambiare l’«immaginario collettivo» della follia.
E, nonostante le inevitabili difficoltà, i risultati non sono mancati…

Questa è la storia di un progetto che potremmo chiamare «Il Kiosko, il Cafè Neruda e altre meraviglie». La nascita del progetto. Un bel giorno di alcuni anni fa con due amici psichiatri, Tiraferri e Braccia, si discuteva sulla necessità di aprire nuovi sbocchi ad una psichiatria, la nostra perlomeno, in debito d’ossigeno, priva di creatività e massacrata dalla drastica riduzione delle risorse legata alla crisi del «welfare state».
Ci dicevamo che quello a cui assistevamo era un sistema che, 20 anni dopo la chiusura dei manicomi, aveva prodotto una «trans-istituzionalizzazione»: la creazione di queste piccole strutture «bonsai», gli ambulatori della salute mentale, sortiva come unico effetto un atteggiamento di delega rispetto alla gestione del benessere psichico. Non si era quindi riusciti ad attuare quella saldatura con la comunità locale che era negli intenti, così di fatto gli ambulatori di salute mentale risultavano (e risultano tuttora) ancora troppo scollegati dalla cittadinanza, rendendo difficile il lavoro di prevenzione e di inclusione. Ne sono derivati una cronicizzazione di comportamenti passivi e richiedenti, nonché uno scollamento dal tessuto sociale, elementi che hanno favorito atteggiamenti espulsivi o di indifferenza, perdendo due formidabili fattori spontanei di terapia: la solidarietà ed il senso di appartenenza.
Quello che ci proponevamo era quindi di favorire un processo di riconoscimento e supporto alle reti informali della solidarietà primaria (amici, vicini, parenti) e secondaria ( volontariato, associazionismo, etc.), favorendo la costituzione di una comunità «competente», ovvero in grado di attivare le proprie risorse e capacità di fronte ai problemi che si trova ad affrontare, in questo caso nel campo della salute mentale. Con un gruppetto di infermieri nel 1998 abbiamo organizzato una festa di quartiere presso la polisportiva Centrocampo di via Petrella. Al termine dell’evento, abbiamo organizzato un corso di informazione che, nel marzo del 1999, ha portato alla nascita dell’associazione Vol.p.i. (Volontari psichiatrici insieme).
Il cornordinamento tra volontari ed operatori ha permesso una serie di iniziative (uscite serali, mercati per vendere le opere prodotte al Centro diuo, soggiorni estivi), ma nel tempo alcune fortunate occasioni ci hanno consentito di sviluppare un percorso più articolato, partito da queste riflessioni:
1. quando la persona colpita da malattia psichiatrica è in fase di compenso clinico, occorre dargli la possibilità di fare esperienza della e nella vita, mentre troppo spesso la malattia lo porta ad un isolamento sociale ed affettivo;
2. è necessario riattivare il sentimento dell’identità collettiva veicolandola con la riscoperta del piacere dell’aggregazione intorno a obiettivi condivisi e di cui sentirsi tutti protagonisti;
3. è fondamentale lavorare sul pregiudizio rispetto alla malattia mentale, favorendo la mescolanza e la prossimità che portano allo scambio di identità;
4. occorre ritrovare un ruolo sociale attraverso una vera riabilitazione che consiste, all’interno di strutture specialistiche, nell’apprendere nuove abilità o nel recuperare quelle perse con l’insorgere della malattia, per poterle poi trasferire all’esterno come competenze lavorative.
A quel punto è nato il progetto «Catering», che recava in sé le riflessioni sopra elencate, nell’intento di affrontare la psichiatria come lo spazio dove recuperare solidarietà, creatività e senso di appartenenza. Appariva riuscito, quindi, il tentativo di far percorrere dalla psichiatria una strada alternativa al disagio e alla sofferenza.

Il gruppo Catering ovvero «Il pranzo è serviito»
È nel 2001 che, grazie ad un finanziamento ottenuto mediante un bando, alcuni operatori insieme a dei volontari Vol.p.i. decidono di allestire un progetto definito «Il pranzo è servito».
Il progetto risulta così strutturato: 8 persone vengono affidate ad un cuoco-tutor che per due mesi lavora per affinare le capacità culinarie dei pazienti. Divisi a rotazione in camerieri e cuochi, gli 8 pazienti preparano quindi tre pasti a settimana presso il Centro diuo, pasti ai quali mediamente partecipano una ventina di persone. L’esperienza viene replicata l’anno successivo fino a quando, nel giugno 2003, si tiene la prima cena aperta all’esterno: poiché «Amnesty Inteational» sta conducendo una campagna sulla terribile situazione dei manicomi bulgari, noi proponiamo di tenere una conferenza presso il Centro diuo con un pasto interamente preparato dal nostro gruppo Catering (8 pazienti, 2 operatori, 6 volontari) al prezzo concordato di 10 euro. Inizia quindi il percorso di mescolanza, e gli ottimi esiti ci inducono a proseguire e potenziare il progetto, fino al riconoscimento della società italiana di psichiatria, che nel giugno 2004 ci affida il buffet per un convegno che prevede la partecipazione di oltre 200 persone.
Contestualmente iniziano le cene bimensili presso «Cafè Neruda« e «Casseta Popular« (storici circoli Arci di Torino), che mettendo a disposizione dei pazienti la cucina, consentono l’affinamento delle abilità e della compattezza del gruppo, unitamente ad un notevole aumento dell’autostima da parte dei pazienti. La testimonianza diretta dei fruitori delle cene (60/70 ad evento) ha consentito un cambiamento nell’«immaginario collettivo della follia», vissuta non solo più in termini di pericolosità o imprevedibilità, ma anche come una malattia dietro la quale si celano personalità e risorse da scoprire.

Il Kiosko
Novembre 2003, fa freddo a Torino. Siamo in una stanza della Circoscrizione 6, a discutere con una serie di associazioni su di un progetto di riqualifica della nostra periferia.
Seduta al tavolo con me c’è anche Maria Grazia, presidente delle Vol.p.i. In questa sede giunge la proposta di affidarci in gestione il bar della polisportiva Centrocampo e, nel marzo 2004, parte subito l’esperienza: dal lunedì al sabato dalle 16 alle 24 e la domenica dalle 8.30 alle 13.
Dietro il banco un membro Vol.p.i. (ruotano in una dozzina) e due pazienti (una quindicina). Le regole di convivenza si decidono nel gruppo lavoro che si tiene ogni giovedì e i compensi vengono erogati in base agli incassi e alle ore lavorate. Il Kiosko diventa luogo di aggregazione: si mettono dei tavolini all’aperto e il sentore di autentica mescolanza appare forte.
Il nuovo progetto Kiosko si muove nella direzione giusta. A molti le somme guadagnate sembrerebbero irrisorie, ma per i pazienti sono il tramite per dei piccoli lussi: una bibita quando si esce la sera o la possibilità di offrire un caffè ad amici, parenti, operatori. A febbraio il freddo torinese taglia il volto ai pazienti, ma nei loro occhi continua a leggersi la volontà di essere presenti, e di fronte al cedimento di un volontario sono quegli stessi occhi a far sentire un pò meno il freddo…

Il Cafè Neruda
È in quello stesso locale dove fummo ospiti col progetto Catering, che nel 2004 prende l’avvio il terzo progetto delle Vol.p.i.: il proprietario del locale ce ne offre la gestione nel suo complesso. Tra mille difficoltà, il 29 settembre siamo pronti: dietro il bancone non solo più membri Vol.p.i. e pazienti, ma chiunque sia interessato al progetto e abbia abilità da condividere.
Obiettivi dell’attività sono, come sempre, la promozione dell’autonomia dei pazienti mediante la creazione di un lavoro che generi retribuzione, nonché il rafforzamento delle relazione sociali. Fondamentale è il contenimento della vulnerabilità legata alla malattia (per via della minor resistenza agli stress) attraverso l’organizzazione non rigida dei tui né al Kiosko né al Neruda, mentre il collegamento con il gruppo di lavoro settimanale consente l’elaborazione di problemi e vissuti così come la condivisione di giornie e successi.
Per i volontari Vol.p.i. l’esperienza rappresenta un modo per sentirsi co-protagonisti del miglioramento della qualità della vita dei pazienti, così come era avvenuto anche per tutti gli altri progetti; per i pazienti, ancora una volta, è un mezzo terapeutico: il lavoro che dà una retribuzione, che riempie qualche ora altrimenti vuota, che consente di relazionarsi con l’esterno perché «diversi» sono loro per noi come noi per loro.

Così, sull’onda dell’entusiasmo dei pazienti, mi lascio trasportare dai sogni e immagino che la risposta alla crisi che tutto investe, possa essere per noi la creazione di un’autonomia attraverso una ricerca creativa di lavoro, come le microimprese del Sud del mondo: le panetterie solidali, gli orti collettivi, i refettori popolari. Mi immagino tutti insieme nei nostri orti, nei circoli, nelle piazze, ma poi mi fermo perché il mio sogno non diventi un delirio.
Da ottobre 2004 un altro circolo Arci, l’«Oato di te», ci consente di continuare il sogno mentre il Neruda è ormai una parentesi chiusa dalla quale abbiamo imparato tanto ma che, sia pure a malincuore, abbiamo dovuto abbandonare… La complessità dei progetti gestiti talvolta ingenera responsabilità e stress anche su noi operatori e volontari, ma negli occhi dei pazienti sempre si ritrova la forza per ricominciare a sognare.

Ugo Zamburru




Salve buonasera grazie e arrivederci

Il Centro diuo è un posto particolare dove la terapia principale consiste nello stare insieme per parlare, ascoltare, fare le piccole cose della quotidianità.
Perché il pregiudizio e l’esclusione sociale siano meno pesanti.

La follia di Cosimo Piovasco di Rondò, il protagonista del «Barone Rampante» di Italo Calvino, trovava spazio in un’infinita distesa di alberi, tra parenti facoltosi e impalpabili storie d’amore con bionde chiome attraenti dai nomi di fiori dolci e sottili.
Niente di simile per il «matto» dei giorni nostri. No, il Centro diuo è una sede decisamente più terrena, così descrivibile: una piccola Asl un po’ speciale con dei pazienti molto, molto colorati e le pareti in festa.
È strano entrare in questo ambiente apparentemente incolto, disomogeneo e confusionario. È un flusso continuo di stimoli, appena si varca la soglia che vuole dividere i matti dai normodotati. Il Centro diuo è un vulcano carico di personalità, malattie e realtà diverse, ognuna con la stessa dignità e volontà di essere. Subito si viene investiti da mille domande, travolgimenti emotivi e fisici, abbracci, strette di mano, saluti più o meno calorosi, sguardi fugaci che scrutano il vestito del nuovo arrivato le scarpe la borsa, nel tentativo di riconoscere qualcosa di familiare e partecipare all’accoglienza del nuovo venuto. Anna, vecchia e giovane ballerina del Balôn (mercato popolare che raccoglie il più vasto panorama di differenze in Torino), ti invita caldamente a ballare con lei, accompagnando la musica con ancheggiamenti e singolari passi di danza… Paolo ti parla di quando era medico, che poi è diventato alcolista, ma ora ne è uscito e vorrebbe un lavoro, sinonimo di dignità e normalità; mentre mi parla sento forte il suo alito di birra, e non capisco se parli di ex alcolismo per convincere me o se stesso. Poi c’è Irma, non parla tanto, quanto basta per lamentarsi di 248 euro di sussidio che non possono essere sufficienti per chi ha la pretesa di fare due pasti al giorno.
Come loro mille altri, desiderosi di raccontarsi e dividere un pò la noia degli stessi problemi di sempre…

Il Centro diuo è uno spazio piccolo, adatto ad un ambiente familiare, dove poco più di 40 persone al giorno fanno pranzo e cena, mentre altre 20 si alternano nelle attività che scandiscono le giornate di molti di loro.
Nell’aria si respira calore, l’ambiente, spoglio e un po’ trasandato, trova vita negli occhi di medici e operatori, che più che un mestiere paiono aver scelto una vocazione… Qui ognuno si racconta attraverso un vestito, una mania, un movimento fisico ricorrente, un tic ossessivo… E il Centro si riempie di rumori e silenzi che si alternano secondo una disordinata sequenza. E tutti trovano qui il proprio spazio, più o meno confortevole, nelle attività terapeutiche, nei gruppi lavoro, nello sport, nel gruppo lettura, nello «spazio Donna»… Sì, perché qui come altrove le donne sono uguali e diverse da tutte e parlano di amore, di sensazioni fisiche, di sesso e dei problemi di tutte le donne, forse non di cellulite e make-up, ma qui tutti i mesi bisogna confrontarsi con le difficoltà economiche, con i pregiudizi e con gli psicofarmaci, e il tempo per le follie modee manca.
Sui volti di molti di loro il tempo si è fermato e alle volte la sensazione è che abbia vinto la loro natura puerile, come confrontarsi con eterni bambini, pensieri confusi (apparentemente incomprensibili) e capricci, e nell’essersi fermato è il tempo stesso che gli infligge l’eterna condanna ad essere diversi, incompleti, incompresi, ignorati.
Tutto parla di loro nel Centro, i disegni dell’arte terapia, qualche trofeo sportivo, i colori, i rumori e la musica, variegata come loro; arrivare in questo spazio pieno di diversità induce a ritrovarsi e a cercare di esprimersi.
Ogni gesto qui si carica di culto, apparecchiare la tavola diventa una tappa del percorso di crescita e di cura, in esso risiede la consapevolezza degli altri, del numero di commensali che dividono con te il pasto, e la conta delle posate e dei bicchieri diventa uno dei mezzi attraverso cui recepire l’«altro», in una costante lotta contro l’individualismo, l’alterazione patologica persistente del nostro sistema che vive e si nutre del culto di sé e dei propri oggetti.

Davide passeggia ininterrottamente lungo il corridoio del Centro diuo (qualche metro invero!), e quando qualcuno esce saluta cordialmente con un «Salve buonasera grazie e arrivederci», secondo una formula che è difficile ricondurre a questioni di mera rigida educazione… Come Gianfranco che comunica con tono alto e a tratti imponente, muovendo ricordi che spaziano probabilmente ben più lontano di quanto alcuni di noi sappiano fare (spesso per via del timore di ridare vita a speranze perdute e a volti senza rughe sinonimo di libertà e ricchezza…), e se vuole parlare parla, indipendentemente dalla presenza o meno di un interlocutore; nessuna distinzione apparente tra il sentire e l’ascoltare (qualcuno si è riconosciuto?), così io parlo con Simonetta, un’infermiera minuta con gli occhi pieni della storia di ognuno di loro, lui mi guarda e dice: ”l’acqua potabile di Pecetto, è ancora potabile anche se prima era l’acqua del mago dei fiori, ora non più ma adesso è ancora buona” e in una impalpabile alienazione intima, mia personale evidentemente, ritrovo una strana sensazione di comunione col mio mondo. Più comprensibile e forse più significativa dello stesso straniamento di fronte ad una scatola nera che parla ininterrottamente nell’infimo tentativo – certo non del tutto fallito… – di omologare istupidire generare ignoranza o artefatte forme di conoscenza, e la spiccata propensione alla solitudine trionfa incontrovertibilmente.
Una giornata al Centro diuo: una tensione costante verso il tentativo di comprendere la logica di un saluto troppo complesso e tortuoso, di un mago dei fiori che forse appartiene ai suoi ricordi e riemerge casualmente o forse no.
Amo pensare che nei meandri complessi e talvolta ingestibili della loro mente si celi una logica illogica, o una logica incomprensibile, o una illogicità talvolta eccentrica e creativa… guardare e vivere i matti è come essere affetti da una miopia in cui si cela la difficoltà a capire se il mondo vero è quello con gli occhiali o senza, se i due mondi sono affini e complementari e in quali di questi la dimensione umana trovi più libertà e autonomia.

Essere matti vuol dire sentire le voci e non riuscire a liberarsene. Essere matti vuol dire avere le allucinazioni e rasentare in preda ad esse talvolta anche la violenza.
Essere matti vuol dire vivere la diversità come una condanna in una ricetta medica, in un sorriso mai rubato, nella vergogna di essere fruitori di sussidi. Essere matti vuol dire anche subire un decadimento fisico, perché gli psicofarmaci rovinano i denti, fanno cadere i capelli e spesso inibiscono l’atto sessuale, riducendo drasticamente la possibilità di condurre una vita normale, un lavoro, una famiglia, dei figli.
Essere matti vuol dire spesso essere identificati con la violenza e subire la vergogna e il pregiudizio della diversità come elemento negativizzante. Essere matti vuol dire essere vittime, per ragioni di familiarità o meno, di una fra le malattie più invalidanti socialmente.
Ma essere matti vuol dire anche essere stati fra i più grandi produttori di arti e musiche di tutti i tempi, nelle espressioni più acute ed esasperate della dimensione interiore.
Essere matti vuol dire anche forse vivere un autentico culto della differenza nelle sue forme più deliranti e creative, come un viso struccato nell’esasperante tentativo di sembrare ciò che si è, come un colore sbagliato in un disegno sbagliato, come un discorso sconclusionato in una stanza vuota o in una strada piena ma ugualmente vuota….
Essere matti, forse, vuol dire anche pensare che un domani un matto possa essere considerato un malato come tanti, come un insulino-dipendente, come un ventenne che trascorre le proprie giornate a lasciarsi vivere dalla Tv, come un malato di Aids, come un portatore di bypass.
Se così fosse, allora domani vorrei svegliarmi in un mondo di matti, dove le malattie non siano più un virus che si trasmette con una stretta di mano, ma un infelice evento nella vita degli altri che induca quantomeno a rispettarli e forse anche a diventare noi stessi un tramite per la tanto agognata «normalità», come uno stipendio per un cassaintegrato Fiat, la televisione spenta per la nuova generazione, uno spazio caldo per un mendicante a rischio assideramento.

Nadia Greco




Riaffermare il valore delle personeL’esperienza della cooperativa Agape (1)

È più di una «convivenza guidata». È un’esperienza di «welfare comunitario», che va oltre la pura cura e riabilitazione. Avviene ad «Agape, Madre dell’accoglienza», una comunità laica ma con una forte impronta evangelica.

Nella riabilitazione psichiatrica il concetto di «convivenza guidata» in una prospettiva educativa e cognitivo-emozionale riveste, in alcuni passaggi del processo psico-socio-riabilitativo, un ruolo centrale nello sviluppo dei processi di autonomia.
La possibilità di affrontare esperienze emotivamente intense di convivenza familiare e di avvio ad esperienze lavorative e di autosufficienza nella gestione quotidiana della vita, in una casa e in un contesto «normali», è un passaggio fondamentale. È una tappa indispensabile nel percorso di soggetti con storie di disagio, desocialità, marginalità istituzionale, o con disturbi del comportamento e della personalità in fase di iniziale compenso. Attraverso di essa le persone affrontano, in una condizione esistenziale ed abitativa «normale», le difficoltà dell’autosufficienza e dell’«empowerment» personale.

RISORSE, NON PESI

Le diverse linee di intervento progettuali-individuali, fanno riferimento alla necessità di riaffermare il concetto di «valore delle persone».
Riaffermare il valore vuol dire ricostruire strumenti di aiuto che permettano di riscoprire le persone deboli come una risorsa e non come un peso. Il luogo presso cui alloggiano gli individui è, a tutti gli effetti, una casa, un’abitazione rurale o urbana dove convivono, badando quasi autonomamente ai propri bisogni logistici, da 5 a 10 persone supportate da alcune figure educatoriali e psicologiche. Questi ospiti provvedono a tutti i momenti della quotidianità come i pasti, la pulizia, la manutenzione degli spazi. Inoltre, almeno per una parte di loro, è possibile partecipare ad attività lavorative e/o di formazione in campo agricolo e zootecnico biologico, silvo-colturale e di tutela del territorio nell’ambito di una cornoperativa sociale.
Il modello di riferimento per la organizzazione si rifà al concetto di un «comunitarismo forte» senza escludere gli aspetti professionali e deontologici delle attività proposte, delle «tecniche», dei saperi e del «saper fare». L’obiettivo è certamente quello di un pieno recupero dell’autonomia personale, del godimento dei diritti e della «cittadinanza», in stretta integrazione con l’équipe territoriali e del sociale, per la costruzione di un vero «welfare comunitario».
Quando parliamo di welfare non ci riferiamo solamente alla tutela delle fasce più deboli, ma al fine fondamentale che è quello di valutare l’insieme dei rapporti e la qualità dei processi di integrazione che riguardano tutti i cittadini. Esercizio dei diritti civili e sociali, giustizia sociale, parità delle opportunità, consistenza e qualità delle relazioni tra le persone, valorizzazione delle risorse dei singoli, questi sono i contenuti del «welfare». Non sono solamente le risorse economiche che concorrono alla produzione del nostro «welfare», ma sono soprattutto le risorse umane autonomamente impiegate dai singoli individui, dalle famiglie, dai gruppi a determinare una migliore qualità della vita e quindi maggior benessere. Pensiamo soltanto all’importanza delle attività di cura e educazione, ai flussi relazionali ed affettivi che vengono garantiti dalla famiglia, dalla solidarietà diffusa sul territorio, al vicinato, all’impiego capillare e determinante del volontariato in alcune gravi situazioni di emarginazione sociale e di sofferenza. Queste risorse umane sono l’ossatura principale del nuovo «welfare».
Parliamo di convivenza in frateità, pur tra i diversi carichi da sostenere, secondo un’ispirazione che si può definire «monastica», dove gli operatori e i cosiddetti utenti camminano insieme. Condividendo, sia sul piano del progetto di vita, sia su quello dell’affettività e delle emozioni, un’ispirazione che si definisce giorno per giorno, in un dialogo di crescita e conoscenza reciproca nella libera proposta dell’annuncio evangelico.
L’ispirazione della comunità nel suo progetto educativo è comunque laica e non confessionale, perché tesa a valorizzare la ricchezza delle identità, delle pluralità e delle diversità, nell’ascolto dei singoli bisogni, nel rispetto e nella valorizzazione di tutte le fedi, opinioni e posizioni, purché rispettose della libertà, responsabilità amorevole e dignità dell’uomo e della donna.

RECUPERARE L’AUTONOMIA PERSONALE

Nel quadro normativo vigente, «Agape, Madre dell’accoglienza» Onlus è da ritenersi in tutto e per tutto una cornoperativa di tipo A, che gestisce specifiche e variate forme di residenzialità riabilitativa centrate sulla persona.
Tutti gli inserimenti effettuati nel percorso comunitario di Agape sono da considerarsi rigorosamente «progetti individuali». Sia che si tratti di percorsi definiti dal Dipartimento di salute mentale di provenienza, sia che avvengano nella dimensione di accreditamento attuata con il comune di Torino e con alcune Asl (1, 2, 3, 4) della regione Piemonte per disabili comportamentali, valutati dalle Unità valutative handicap; sia che si tratti di doppie diagnosi con relativo coinvolgimento dei servizi di tossicodipendenza e di algologia; sia – infine – che si tratti di soggetti inviati dall’autorità giudiziaria provenienti da case circondariali o da Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), e sottoposti a misure di sicurezza.
La compresenza di problematiche differenziate e variegate all’interno di uno stesso piccolo nucleo abitativo-esperienziale, è nella nostra valutazione più una ricchezza che un problema. La multiproblematicità e l’inclassificabilità all’interno della stessa persona e tra persone, favorisce a nostro giudizio le relazioni, l’affettività, la complementarietà solidale delle differenti e irriducibili storie personali. Una selezione spesso più burocratica o casuale, che nosografica o razionale a nostro parere, separa artificialmente ciò che la vita, così come gli spazi e i territori esistenziali e storici uniscono e spingono all’incontro-confronto, esattamente come in una famiglia allargata o in una comunità evolutiva. Rimanendo nella logica di voler realizzare un «welfare» comunitario si realizzano percorsi individuali di alta, media, bassa intensità inerenti a linee progettuali: formazione/lavoro, casa/habitat sociale, socialità/affettività.
Il budget di cura mira alla de-istituzionalizzazione e al recupero dell’autonomia personale. In questo modo si vuol sviluppare un programma di passaggio progressivo da forme prevalentemente sanitarie o di risposta in emergenza al bisogno socio–assistenziale a forme partecipate ed organiche al tessuto sociale. Lo spirito che guida la realizzazione di tali progetti è legato ad uno schema «fraterno», orientato da concetti etici e valori forti d’ispirazione cristiana, secondo un modello educativo ed emozionale intensamente comunitario, con valori dell’ecologia «profonda» e di un «umanesimo integrale», evocato dalla rivelazione e dalla sua profezia di liberazione. La comunità anima l’eucaristia nell’Abbazia di Santa Maria di Vezzolano (tutte le domeniche alle 18.00), la scuola di gregoriano, l’adorazione eucaristica, il laboratorio d’icone nel corso della settimana, ed altri momenti liturgici, culturali, formativi e artistico-espressivi.
Circa all’evoluzione ed alla fuoriuscita dal percorso «Agape, Madre dell’accoglienza», tendiamo a sottolineare che come esperienza sia già in sé da intendersi come post-istituzionale e post-psichiatrica, rappresentando un laboratorio-atelier di stili di vita comunitari, non necessariamente considerabili a tempo, già oltre la marginalità e la «diversità». Si sottolinea peraltro che parte di coloro che costituiscono l’anima del progetto cornoperativo sono del tutto autosufficienti produttivamente, e non provenienti da esperienze cliniche ed istituzionali, ma si muovono in un ambito di scelte di forte ispirazione valoriale di tipo comunitario.
È scontato che, se coloro che hanno esaurito l’esperienza risocializzante di Agape, intenderanno permanere all’interno di questo disegno, come stile di vita di welfare comunitario, la cornoperativa operante sul territorio come nicchia economica-sociale, dovrà dare il segno della non sporadicità ed episodicità di questo cammino.
Tendiamo quindi a configurare un’ipotesi operativa di tipo sociologica ed antropologica di più vasto respiro, rispetto alla pura cura e riabilitazione. Piuttosto, aspirazione ad una profezia che si realizza, anche con il suo colore di utopia concreta e di sogno ben radicato nel reale.

UNA RETE DI «CASE DI FRATERNITÀ»

Gli inserimenti abitativi sono realizzati secondo le indicazioni regionali, in piccoli nuclei in rete, da noi definiti «case di frateità», ove gli operatori sono accompagnati nella quotidianità e nei singoli progetti da operatori dipendenti con presenza quotidiana diua e nottua, supportati da servizi centralizzati di terapia e riabilitazione (medico-sanitari, psichiatrici, psicologico-clinici, psicoterapeutici, pastorali) concordati con il servizio e inseriti nel progetto individuale.
Il modello organizzativo a «piccole case in rete», garantisce – a nostro giudizio – il massimo dell’umanizzazione e della personalizzazione, ma soprattutto la percezione da parte di tutti (ospiti, operatori, famiglie, servizi) che non si tratta di una piccola istituzione totale e neppure di una «comunità protetta» per post-acuti. Bensì ha tutti gli effetti di una casa, con una convivenza guidata e supportata, inserita armonicamente in una rete integrata di persone, relazioni, affetti, organizzati anche in molti momenti di attività comune tra i vari nuclei.
A partire dalla celebrazione eucaristica settimanale nell’Abbazia di Vezzolano, animata regolarmente dalla comunità, seguita e preceduta da momenti ludici di festa e d’incontro, che coinvolgono anche volontari, famiglie, amici.

LE PERSONE

Alla cornoperativa aderiscono insieme, secondo schemi normativi vigenti, soggetti disagiati e personale terapeutico ed educatoriale, realizzando esperienze lavorative comuni in ambiti diversi e spesso attinenti alla valorizzazione agricola e naturalistica del territorio.
È previsto l’impiego del medico-psichiatra con funzione di cornordinatore del progetto, del responsabile pastorale, dell’amministratore delegato, del consigliere responsabile della logistica, del consigliere responsabile delle relazioni istituzionali, del supervisore etico, del responsabile dell’assistenza legale, di psicologi responsabili dei programmi riabilitativi e dei progetti individuali, del supervisore esterno dell’organizzazione dei progetti, e di animatori di comunità (operatore socio sanitario, educatore professionale, animatore sociale, formatori).
Abbiamo usato il termine animatore in quanto rende più comprensibile il ruolo delle persone. L’animatore è un «operatore» che nelle strutture guida i gruppi nei processi evolutivi, gestendo le loro dinamiche intee, stimolando la partecipazione ed il coinvolgimento dei singoli. Sa far emergere i bisogni e le risorse dei singoli gruppi, promovendo attente azioni di deistituzionalizzazione e autonomia. Organizza e gestisce, anche in collaborazione con esperti, attività che, favorendo l’espressività, la creatività, e la comunicazione possono costruire momenti educativi e spazi sociali. Inoltre l’animatore utilizza come strumento operativo nella valutazione del funzionamento sociale, nella pianificazione di interventi individualizzati e nella valutazione degli esiti raggiunti strumenti di valutazione obiettiva e di controllo di qualità, ad esempio la V.a.d.o. (Valutazione di abilità e definizione degli obbiettivi).
Tali istrumenti sono oggetto di discussione e valutazione nelle riunioni periodiche. L’animatore attiva una rete di rapporti con agenzie, servizi sociosanitari, realtà territoriali e le istituzioni sempre in un ottica di tipo preventiva e psico-socio-riabilitativa, nella verifica di qualità richiesta dai percorsi dell’accreditamento pubblico.
La dizione «fratello di roccia» nell’accezione delle «pietre scartate» tese a diventare «testata d’angolo» della concezione evangelica, sottolinea l’appartenenza allo stesso vissuto ispirato ad un comunitarismo forte, piuttosto che ad una rigida distinzione operatore-ospite. Il «fratello di roccia» condivide innanzitutto la vita e la quotidianità con un carico di responsabilità ispirate a quella «accoglienza ed assunzione dei bisogni dell’altro nell’incontro», che fa parte dell’anima profonda del progetto.

L’INCONTRO CON IL MISTERO

Nel modello di Agape, l’incontro con l’altro è la realizzazione di un mistero che apre tutti (figure professionali e non) all’incontro con il mistero e l’assoluto. Dal mistero dell’incontro all’incontro con il mistero e ritorno.
Ben lontani da una visione rigida, dogmatica e men che mai confessionale o integralista, il cammino di ricerca di tutti si manifesta nella ricerca di un percorso di vita e d’identità con-diviso, fortemente ispirato al senso personale della Buona notizia evangelica. Anch’essa ben lungi dal costituire un elemento di divisione tra operatori e ospiti, credenti e non, diviene invece un metodo di assunzione ed accoglienza dell’assoluta centralità dell’altro-persona in ogni momento ed in ogni passaggio del cammino e del recupero di autonomie, abilità sociali, autosufficienza, produttività e cittadinanza attiva.
La formazione e supervisione degli animatori-fratelli di roccia è affidata a riunioni periodiche delle singole équipe di casa con gli psicologi, lo psichiatra e il direttore educativo-spirituale. È presente inoltre una supervisione estea, sia di tipo professionale, psicologico-clinico e psichiatrico, che di orientamento etico pastorale ed educativo. Vengono attivati periodicamente corsi di riqualificazione affidati ad agenzie estee su progetti validati in sede regionale e nazionale. Importante nella vita della comunità è anche l’apporto realizzato dai soci volontari e da realtà associative ecclesiali e laiche che partecipano periodicamente alla vita della comunità (Caritas-Scuola d’Accoglienza Diocesi di Asti, gruppi missionari legati ai missionari della Consolata). Sono sede di formazione professionale e d’animazione spirituale, l’Abbazia di Vezzolano, la casa natale di San Giuseppe Cafasso in Castel-
nuovo Don Bosco e il Monastero del Rul in Albugnano, dov’è ubicata la sede amministrativa.
La cornoperativa è convenzionata come sede di formazione con la Scuola di psicologia e psicoterapia dell’Università di Siena, sede di tirocini e supervisione. Ha in corso un progetto per la formazione sulla «pet-therapy» in collaborazione con l’Università di Torino.

VIVERE IN «CASA»

Il lavoro in «comunità» è fondato sulla multidisciplinarietà, svolto da diverse categorie professionali, medici – psichiatri, psicologi, educatori, operatori di supporto, animatori e volontari.
La meta è la riduzione del «malessere» personale, il recupero e lo sviluppo delle abilità, il reinserimento sociale e la ri-umanizzazione della persona che chiede aiuto. Proprio per questo principio di «accoglienza» e «cura» che l’organizzazione dei programmi deve essere flessibile e al servizio del «trattamento».
La scelta di vivere in una «casa» fa sì che ogni individuo partecipa in maniera attiva, a quelle che sono le mansioni domestiche; in quanto per poter preparare un pranzo, ad esempio, ci si deve mettere nella condizione di dover modulare le proprie esigenze con quelle altrui e cercare un punto di incontro e di organizzazione lavorativa nel vero senso della parola. Questo porta a confrontarsi con se stesso e con gli altri e costruire una gerarchia di bisogni che non sono più individuali ma diventano «bisogni comunitari».
Tutto ciò implica un’apertura agli altri ed un aumento della capacità di ascoltare l’altro da me. Il gestire la «casa» permette di riappropriarsi di un’organizzazione mentale e psicologica che vanno al di là del riassettare o cucinare. Ogni persona, in base alle proprie caratteristiche e predisposizioni svolge dei compiti, che vanno dall’occuparsi dei luoghi, formare legami, ricostruire storia, attaccamento e radicamento, fino ad attività estee di tipo agricolo, zootecnico o di tutela dell’ambiente.
Tutto questo permette di attivare una serie di «dinamiche», che riguardano la sfera estea ed intea del soggetto. In questo modo durante l’arco della giornata il singolo individuo ha la possibilità di potersi mettere in contatto con se stesso e con il mondo, di rielaborare i suoi vissuti, e di generalizzare le abilità acquisite.
Le attività strutturate sottoposte a verifica sono:
– attività educative verso i bisogni personali e di comunità;
– terapia psicologica individuale e di gruppo-integrata con farmacoterapia psichiatrica o legata alle necessità della medicina delle dipendenze o ad altre necessità sanitarie;
– percorso di musico e danza terapia;
– teatro terapia e psicodramma;
– «pet-therapy» e attività con animali;
– logoterapia;
– attività di psicomotricità e attività creative ed espressive;
– arteterapia e laboratori artigianali;
– attività ecoambientali e agricolo-zootecniche;
– lavori socialmente utili di manutenzione del territorio in collaborazione con enti pubblici locali territoriali;
– attività ludiche, gite, viaggi e vacanze educative;
– formazione professionale al lavoro anche attraverso la scuola o appositi enti accreditati;
– momenti liturgici, incontro spirituale e preghiera – catechesi, formazione e revisione di vita personale.
Questo permette di avere continui feedback e fa sì che l’organizzazione sia sempre in continua evoluzione per riuscire a trovare sempre il giusto progetto per ogni singolo individuo, adeguato allo specifico tempo del cammino.
La cornoperativa dopo una prima fase di attivazione riabilitativa introduce i singoli soggetti in attività produttiva estea presso aziende agricole o di ricezione turistica o di ristorazione della zona con contratti e relazioni personali tra l’ospite ed il datore di lavoro esterno o tramite lavori socialmente utili realizzati dalle cornoperative presso enti pubblici della zona, come comuni o le comunità collinari (come raccolta differenziata della carta, manutenzione aree verdi o manufatti pubblici).
In questa fase, l’ospite che lo desidera può acquisire la qualifica di socio o socio lavoratore della cornoperativa.
UN «MONTE ATHOS
DELLE DIVERSITÀ»

La cornoperativa si avvia ad accogliere attualmente nelle sue 8 case di frateità circa una cinquantina di ospiti, occupando stabilmente con contratti di lavoro o contratti a progetto più di 20 operatori professionali nelle diverse qualifiche, affiancati da consulenti e volontari.
Rispetto agli assetti di vita nelle case di frateità, dopo aver sperimentato l’organizzazione a coabitazione completa (tipo «casa famiglia»), si è valutato che le autonomie personali e l’armonia complessiva dell’assetto sia garantita meglio da una contiguità discreta di operatori, che abitano con le loro famiglie in un’area circumlimitrofa alle case d’accoglienza ed a una rotazione in tuo con ampi momenti di condivisione della quotidianità, ma anche della festa e della relazione umana, su progetti esistenziali condivisi.
Non è indifferente il fatto che molti operatori siano legati tra loro da relazioni familiari, che esaltano sostanzialmente e simbolicamente questa specifica dimensione di comunità di famiglie accoglienti in cammino, con gli amici di una più ampia famiglia allargata.
Questo modello originale di case di frateità in rete (di città e di campagna), è reso possibile dalle normative legislative e amministrative vigenti. Vi si valorizzano infatti, la individualizzazione e personalizzazione dei percorsi rispetto alle grandi aggregazioni troppo istituzionalizzanti e marginalizzanti.
Il baricentro geografico dell’esperienza è inserito provvidenzialmente in un’area di grande bellezza e di forte impatto paesaggistico e simbolico, come l’Alto astigiano, contrassegnato da luoghi di forte dimensione spirituale ed estetica. Intriso di romanico, di percorsi di pellegrinaggio e di boschi incontaminati, ma soprattutto segnato dalle tracce dei grandi santi sociali e mistici piemontesi (il Cafasso, Don Bosco, l’Allamano, Domenico Savio, il cardinal Massaia).
Aspiriamo a vedere in questa sorta di «monastero del cuore», policentrico, diffuso e dislocato, fatto d’incontri e di recupero di autonomia e libertà, un piccolo «Monte Athos delle diversità», che si fanno ricchezza e delle pietre scartate che ricostruendosi, costruiscono e realizzano la casa e il regno dell’uomo e del Dio vivente che abita con lui.
Comunità pellegrina nel deserto e sulla strada che pone qui la sua tenda perché: «Signore, come stiamo bene qui…».

Alessandro Meluzzi




Le pietre scartateL’esperienza della cooperativa Agape (2)

Una società malata di competitività sfoa sempre più persone con disagi affettivi e di comportamento. Troppe sono le «pietre scartate» verso le quali deve andare la solidarietà del credente. Occorre agire affinché, in terra, il «paradiso» non sia accessibile sempre e soltanto ai soliti fortunati.
«La pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo, ecco l’opera del Signore» (Salmo 118, 22-23).
Le parole del salmista, che si ritrovano anche nel vangelo di Marco (12, 11-12) sono fondamentali per chi, come i missionari in qualsiasi momento e in qualsiasi situazione, desiderano proclamare il «Regno di Dio», non solo a parole ma soprattutto con i fatti, incominciando dagli ultimi.
Le pietre scartate non sono «privilegio» del Sud del mondo; chi osserva con occhio attento e vigile può facilmente constatare che la loro presenza è ovunque nella nostra quotidianità.
Papa Giovanni XXIII ci ha spiegato nella «Pacem in terris» che i segni dei tempi non sono segni posti da Dio nel cielo, ma cose compiute dagli uomini sulla terra. In questa enciclica il Santo padre elencava tanti aspetti positivi del momento storico che si viveva; ma c’è anche il retro della medaglia, ci sono gli eventi negativi compiuti dagli uomini, da noi tutti, che seminano abbandono, disprezzo, segregazione. Sono segni presenti nella nostra società che continuamente provoca «pietre scartate» verso le quali siamo chiamati ad annunciare, con interventi di accoglienza, la Buona notizia del vangelo.
Le case di frateità «Agape, Madre dell’accoglienza» sono luoghi in cui si concentrano le più diversificate storie di disagio e dissocialità: situazioni precarie, che producono marginalità e disturbi di comportamento e di personalità. Sono povertà estreme dove l’affetto e l’accoglienza sono state bandite. Sono storie frutto di una società sempre più egoista ed edonista dove vale solo il bello, il vincente, il tornaconto economico. In questa piramide, in negativo, sono tanti gli esclusi che popolano il nostro quotidiano, il cristianesimo si è ridotto ad una etichetta invece di un coinvolgimento con il cuore e un impegno di vita. Davanti a questa urgenza dilagante c’è bisogno di persone che sappiano «curvarsi» davanti al fratello ferito e abbandonato ai cigli delle strade. L’evangelista Luca attraverso la parabola del «Buon samaritano» ci presenta l’essenzialità del vangelo con le parole finali della parabola: «Va’ e anche tu fa lo stesso» (Lc 10,37).
Don Milani, il priore della Barbiana, davanti ai suoi ragazzi «montanari», segregati ed esclusi dalla scuola ufficiale e senza possibilità di inserimento nella vita sociale, aveva coniato il motto «I care» (mi interessa!). Gli interessava la vita di quei singoli ragazzi che vivevano nell’abbandono e nell’esclusione, ne fece la sua forza profetica con una adesione e un compromesso personale e rispondendo ad una sfida del suo tempo.
S. Giuseppe Cafasso, patrono dei carcerati e «perla del clero italiano», definisce le pietre scartate, (i condannati a morte) «i miei santi impiccati». Il suo eroico ministero e la sua vicinanza fisica a questi assassini incalliti, a questi derelitti della società, donò a ciascuno di loro, l’esperienza della solidarietà iniettando nei loro cuori la speranza evangelica che Gesù ci ha donato dalla croce: «Oggi sarai con me in paradiso». La gratuità della salvezza è di tutti. Il Cafasso ha sempre insistito, nella formazione del clero del suo tempo, affinché ogni azione di preghiera, di studio, di impegno del vissuto nella semplicità dell’ordinario senza cercare lo straordinario, formassero la vita e coniassero lo spirito dei futuri pastori in profondità! Bisogna avere sempre come obiettivo i bisogni del tempo, del luogo e soprattutto delle persone. Nella carità non c’è spazio per sfaccendati e accidiosi; la forza dei santi e dei profeti è soprattutto di «dire e fare». Davanti al pericolo di tante parole… «Signore, Signore», S. Giacomo ci allerta: «Come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta» (Gs 2,26).
Ad ogni cristiano dovrebbe interessare la vita dei fratelli dimenticati che il vangelo mette ai primi posti. La società, malata di primi posti per emergere e di competitività sfrenata per ingordigia, sfoa continuamente e sempre più forme di disagio affettivo e disturbi comportamentali, il «paradiso terrestre» promesso a tutti è accessibile solo ai soliti fortunati. La solidarietà senza misura, traboccante e continua per gli ultimi della terra, gli amici di Dio, è la risposta e l’impegno di tutti coloro che hanno cercato il Signore con cuore sincero.
«Agape, Madre dell’accoglienza» è un impegno, un tentativo di risposta a chi si trova in difficoltà psichiche vivendo esclusioni e segregazioni. Persone che gridano il loro dolore e che sono definite disturbate e pericolose, sono messe al bando il più delle volte anche dalle proprie famiglie.
Desideriamo dire a questo mondo isolato, calpestato ed escluso che ci «interessa, ci sta a cuore» la loro dignità di esseri umani fragili e bisognosi di accoglienza. Una fragilità che si incontra con la nostra fragilità fatta di paure, di prevenzioni, di fughe e di trascuratezza. Il vangelo di Marco nel capitolo 5, 1-20, ci parla di Gesù che incontra il «folle»; un uomo aggressivo, isolato dagli altri, che provoca paura… Gesù si avvicina, lo incontra, lo sguarisce, lo libera, lo riabilita… rompe il cerchio della solitudine e dell’esclusione nello stargli accanto ascoltando il suo grido, accogliendo il suo bisogno e rispondendo alle necessità di affetto.
La vita umana vale più di ogni altro bene, lo scriviamo sui muri, nei libri, sulle magliette, negli slogan pubblicitari, lo sosteniamo anche con il referendum, ma davanti al fratello bisognoso, che chiama e grida rispondiamo come Caino: «Sono forse io custode di mio fratello?» Gn 4,9. La sopravvivenza di chi si trova nella difficoltà non fa parte del nostro impegno di vita e deleghiamo ad altri le responsabilità. Molte volte la ricerca smodata di rituali eccessivi, inebriata dal fumo dell’incenso, da canti sofisticati, perfino con l’eccessiva abbondanza di suppellettili liturgiche… può appagare il nostro ego e il nostro contatto con Dio che costruiamo a immagine e somiglianza di noi stessi, facendoci dimenticare il fratello bisognoso, abbandonandolo proprio sul sagrato del tempio in cui ci rifugiamo.
Il nodo della questione è il nostro coinvolgimento personale, «metterci del proprio», non tanto in soldi o intenzioni, ma mettendoci del proprio tempo e del proprio cuore. «Mettersi in gioco» per difendere la sacralità di ogni vita umana soprattutto quella debole, quella che da sola non si regge, quella che più riflette l’amore e la fragilità di Dio incarnato in mezzo a noi nelle sembianze e nei cuori di questi fratelli «speciali». Molte volte la paura ci paralizza, l’egoismo ci frena e la nostra arroganza ci fa cambiare strada perché percorrere la strada di Gerico porterebbe a cambiare l’itinerario della nostra stessa vita, questo disturba troppo il nostro quieto vivere che difendiamo ad oltranza.
Nelle frateità «Agape» si cerca di celebrare la fragilità della vita così com’è davanti alla mensa quotidiana con le giornie e dolori di tutti e davanti all’Eucaristia domenicale avvolta dalla ragnatela di tanti nostri dubbi ma soprattutto vissuta come evento ci rinnova la forza della solidarietà con la certezza che Dio continua a camminare con noi nei sentirneri dubbiosi della vita come fece con i discepoli di Emmaus.
È un lavoro impari per le nostre forze e le tante debolezze che accompagnano gli operatori, i volontari, i professionali, ma tutti desiderosi di fare, di buttarsi sporcandosi le mani e purificando il cuore, tutto questo con la certezza che Dio ama ogni vita e aiuta i cuori generosi. È un lavoro non facile per nessuno; ogni giorno bisogna ricostruire quello che si è tentato di realizzare il giorno prima. È come la tela di Penelope che di giorno si fa e di notte si disfa. Ogni mattina c’è l’impegno di ricominciare! Proprio come fa il Signore con ciascuno di noi.
San Vincenzo de’ Paoli ha detto: «Donare fa bene, soprattutto a colui che dona». Intraprendiamo questa gara a fare del bene. Ne usciremo più ricchi davanti a Dio, soddisfatti con noi stessi, utili e necessari a chi ne ha bisogno.

Orazio Anselmi




Ma che missione è lavorare con i «matti»?

Questa domanda mi viene rivolta spesse volte da molti colleghi e da tanti amici. Domanda che spesso mi pongo e a cui rispondo semplicemente: «… e perché no?». Certamente non sempre è facile lasciare situazioni ed organizzazioni scontate come varie attività di animazione missionaria in parrocchie o nelle scuole, uscire da strutture protette come gli oratori e le case religiose. Può sembrare non logico, certamente «non è normale». La vera pazzia è proprio questo cambiamento: «Mettersi in gioco», 24 ore al giorno. È un ritmo che ti cambia la vita, i programmi, le abitudini. Certamente erano ritmi incalzanti anche quando si lavorava nelle «favelas brasiliane»; però, ogni tanto, esisteva qualche parentesi, momenti per sé. Interagire con la «pazzia» ti prende a tempo pieno, a tutto raggio, a 360 gradi.
Ad ogni momento fatti e situazioni «provvidenziali» possono bussare alla tua porta con tutta la loro drammacità e repentinità ed hanno il sopravvento su tutto. Si cambia continuamente scenario: la notte si trasforma in giorno; una festa in dramma da pronto soccorso; l’euforia di momenti felici in una caduta libera d’angosce senza precedenti.
Le giornate sono piene d’imprevisti e di non soluzioni che ci avvicinano, in parte, ai tempi di stare con i poveri delle periferie del mondo; il tuo tempo, le tue cose cessano di esistere, ci si trova davanti al grande vortice dell’immediato, si nuota in balia del necessario, si interviene nella necessità di «tutti per uno». Il lavoro quotidiano con i «nostri amici», membri esclusi della nostra società, dove anche le proprie famiglie abdicano davanti ad un impegno troppo eccessivo, diventa un lavoro continuo, di giorno si costruisce e di notte il più si disfa. L’unica certezza è che ogni giorno c’è da ricominciare… Ogni mattino non si sa come sarà la sera. Ogni sera non si coglie quasi mai i segni di come sarà il risveglio.
«Tutto è grazia», diceva Beanos nel suo romanzo «Il curato di campagna». Questo lo possiamo sostenere anche noi! Possiamo dire che «tutto diventa provvidenziale«, in cui esistono pochi «distinguo», dove non c’è spazio per «ripudi o delazioni«. Di fatto, tutto è possibile, in ogni momento e a qualsiasi ora, proprio come la «provvidenza«.
Madre Teresa di Calcutta ci invita a sentirci delle «piccole matite« nella mano di Dio, possiamo scrivere perfino qualcosa di interessante, ma è sempre il Signore che ci guida. Don Tonino Bello pone l’accento dicendo che: «Vivere non è trascinare… strappare… rosicchiare la Vita. Vivere è aver la certezza di avere un partner grande come Dio».
Con queste certezze possiamo rilevare che è il Signore colui che ci dona i poveri, i pazzi, gli ultimi. Tutto questo ci è stato dato probabilmente per incanalarci nell’unica via della salvezza attraverso la carità, vissuta e servita nell’umiltà e nella mitezza di cuore, senza trascurare la perseveranza quotidiana.
In ogni momento, in ogni situazione, in ogni luogo geografico il Signore ci attende e ci fa passare per la « via di Gerico». A noi rimane la scelta di fuggire, cambiare strada… o l’impegno di fermarci e chinarci presso il fratello bisognoso che ci immette nel progetto della salvezza trovando il senso della nostra vita e quella degli altri.
Per un missionario è sempre l’ora della «carità». Credo che sia una delle cose più belle e significative riuscire a mescolare la propria vita con quelle dei fratelli bisognosi; sono tante «pietre scartate« che il Signore pone sul nostro cammino.

Orazio Anselmi




DOSSIER TRAPIANTI Storia e introduzione alla problematica

TRAPIANTI,
DALLA LEGGENDA ALLA REALTÀ

Il mito dell’eterna giovinezza o la possibilità di prolungare la vita e restituire la salute attraverso la sostituzione di organi o tessuti malati con organi e tessuti sani ha stimolato la medicina e da sempre anche la fantasia popolare.
La storia dei trapianti ha origini nella leggenda, in Cina. Si narra che nel III secolo a.C. un chirurgo, Pien Chi’ao, scambiò i cuori di due soldati addormentati. Nel II secolo d.C. sempre un chirurgo cinese Ua T’o realizzò trapianti di visceri utilizzando per l’anestesia sostanze vegetali.
In Occidente, invece, la nascita dei trapianti viene fatta risalire dalla tradizione al III secolo d.C. quando J. da Varaquine nella Leggenda aurea narra che i santi Cosmo e Damiano sostituirono la gamba cancrenosa del loro sacrestano con l’arto di un etiope deceduto il giorno precedente. Francois Rabelais nel 1552 immaginò nel suo surreale Pantagruel un autotrapianto totale di testa; in particolare, nella ricostruzione del cranio di un nobile moscovita ferito in duello, si utilizzarono addirittura frammenti del cranio di un cane.

La storia scientifica dei trapianti inizia invece nel 1902, quando un chirurgo francese, Alexis Carrel, mette a punto a Lione una tecnica efficace e sicura per suturare le arterie e i vasi sanguigni, dimostrando in questo modo di poter collegare un organo estraneo, alla circolazione di un organismo ricevente. Per tale contributo, nel 1915, primo e finora unico chirurgo, otterrà il Premio Nobel. Lo stesso prestigioso riconoscimento fu assegnato cinquant’anni più tardi all’inglese Peter Medawar, le cui scoperte segnarono una seconda tappa fondamentale nella storia dei trapianti. Lo scienziato, dagli studi di anatomia, orientò le sue indagini sulle reazioni immunitarie dell’organismo dopo un innesto di cute in pazienti gravemente ustionati durante i bombardamenti di Londra della II guerra mondiale. Pose in questo modo le basi della compatibilità genetica tra individui consanguinei e quindi dello sviluppo dell’immunologia dei trapianti e del correlato problema del rigetto, cioè a quel complesso di reazioni biologiche in base al quale l’organismo tende a rifiutare l’organo trapiantato, riconoscendolo come estraneo.
Jean Dausset, allievo di Medawar, proseguì queste ricerche, dimostrando che un trapianto aveva maggiori possibilità di riuscita se il sistema anticorpale dei donatori era il più possibile simile a quello del ricevente, ponendo così le basi per i successivi studi sulla «compatibilità». Tali ricerche condussero l’équipe del professor Murray ad eseguire, il 23 dicembre 1954, a Boston il primo trapianto di rene fra gemelli omozigoti. L’identità genetica tra donatore e ricevente permise di evitare la reazione di rigetto determinando l’esito positivo dell’intervento, anche in assenza dei molti farmaci immunosoppressori, scoperti ed applicati nella pratica clinica solo successivamente.
Negli anni seguenti furono eseguiti un gran numero di trapianti da donatore vivente con risultati sempre più soddisfacenti. Nel 1963 Hardy compie il primo trapianto di polmone.
Nello stesso anno, dopo lunghissima sperimentazione, il chirurgo americano Thomas Starzl eseguì a Denver il primo trapianto di fegato, anche se il paziente morì, purtroppo, nel giro di poche ore. Si dovettero attendere alcuni anni per raggiungere una sopravvivenza sufficientemente lunga e considerare affidabile tale trapianto.
Nel 1966, Kelly e Lillehei furono gli autori del primo trapianto di pancreas a Minneapolis e l’anno successivo, a Città del Capo, Christian Baard eseguì il primo trapianto di cuore polarizzando in quell’occasione l’attenzione di tutti i mass media e dell’opinione pubblica mondiale.
Questo intervento rappresentò una «pietra miliare» e fu proprio in tale circostanza che si diede avvio ad un ampio dibattito sulla donazione degli organi. Nel 1968, un Comitato della Harvard Medical School, stabilì i criteri per la definizione del concetto di «morte cerebrale», che saranno da quel momento in poi universalmente condivisi.
I successi ottenuti determinarono una ampia diffusione della pratica dei trapianti, ingenerando nuove aspettative per l’umanità. Il problema principale, tuttavia, rimaneva legato al rigetto, fino a che la scoperta della molecola della ciclosporina, con la sua applicazione dal 1979, rivoluzionò la terapia immunosoppressiva. Durante gli anni ’80, Thomas Starzl, associando la ciclosporina agli steroidi, migliorò radicalmente le possibilità di successo dei trapianti di rene, fegato e cuore. Le percentuali di sopravvivenza, a un anno dall’intervento, passarono dal 20 al 70%!
L’ultima frontiera nella storia dei trapianti è quella aperta nel 1998 a Lione da Jean-Michel Dubeard con il primo innesto di mano e di avambraccio, creando i presupposti per una nuova e futura disciplina.

Nonostante i successi dal punto di vista clinico, biologico, farmacologico e chirurgico, un problema ancora da risolvere è legato alla carenza di donatori e di organi disponibili. Gli scienziati si sono orientati verso possibili soluzioni alternative e avveniristiche, come gli organi artificiali (emodialisi, cuore artificiale), gli xenotrapianti (trapianto da animale a uomo) e le cellule staminali (potenzialmente in grado di riprodurre qualunque tessuto) che non hanno però finora dato risultati soddisfacenti in termini di applicabilità, di aumento della sopravvivenza, di qualità della vita, ma sollevando, al contempo, scottanti problematiche bioetiche.
Un nuovo scenario si è quindi aperto davanti all’uomo: una possibilità di ridare vita a chi non ha più speranza, ma anche di ingenerare altre occasioni di sofferenza e di morte, quando i criteri morali, relegati in secondo piano, non sono considerati in tutta la loro importanza e complessità.

Enrico Larghero

Enrico Larghero




DOSSIER TRAPIANTI Lo stato dell’arte

UN’ATTESA LUNGA TRE ANNI

Rene, fegato e cuore sono gli organi più trapiantati. Ma ci sono anche polmoni, pancreas, intestino. Nel mondo sono 500 mila le persone che si sono sottoposte a trapianto. Tra i molti in attesa, ogni giorno ne muoiono 9.
Ed è proprio la scarsità d’organi disponibili uno dei fattori che maggiormente limita l’espansione di questa straordinaria tecnica terapeutica.

Il trapianto ha segnato il passaggio dalla chirurgia demolitiva (asportazione di un organo malato) a quella sostitutiva (sostituzione dell’organo malato con uno sano). Il trapianto può essere omologo (della stessa specie) o eterologo (tra specie diverse); rispetto al donatore, «ex vivo» (da donatore vivente, come nel caso del rene) o «ex cadavere» (come nel caso del cuore, del polmone, etc.); può essere infine a seconda del materiale usato, «naturale» o «artificiale».
Nell’ultimo ventennio farmacologia e tecniche chirurgiche, unite all’evoluzione delle conoscenze dell’immunologia e dell’istocompatibilità, sono state determinanti nel garantire un progresso rapido e continuo in questo campo.
Oltre quarant’anni fa, quando è iniziata l’avventura dei trapianti d’organo, venivano utilizzati solo organi espiantati da consanguinei viventi e da cadaveri con cuore non battente.
Attualmente, più dell’80% dei pazienti che vengono trapiantati ritornano ad avere una soddisfacente qualità di vita e si sottraggono a terapie invalidanti come l’emodialisi, si salvano da malattie come la cirrosi epatica e le cardiopatie. In tutto il mondo, oltre mezzo milione di persone è stato sinora sottoposto a trapianto.
La scarsità d’organi disponibili ha raggiunto ormai livelli di crisi, divenendo l’unico vero fattore limitante ad ogni ulteriore espansione di questo straordinario strumento terapeutico. Ancora oggi, 9 pazienti in attesa di trapianto muoiono ogni giorno. Nell’Europa occidentale vi sono, ad esempio, circa 40.000 pazienti in attesa di trapianto di rene, mentre il numero di donatori è stabile intorno a 5.000. Sul fronte della donazione, la Spagna continua a guidare la classifica dei paesi europei più «generosi». Ma il secondo posto conquistato dall’Italia, considerando che siamo partiti con dieci anni di ritardo rispetto ai cugini spagnoli, è senza enfatici nazionalismi, sicuramente motivo di grande soddisfazione.
Il numero dei donatori per milione di abitanti è in continua ascesa. L’Italia, nel 2004, ha continuato infatti, a scalare la classifica europea con 21,1 donatori per milione di abitanti, dietro alla Spagna con 34,6 donatori. Il numero dei trapianti effettuati è salito da 2.756 nel 2003 a 3.216 nel 2004, con un incremento del 16,7% e una sopravvivenza ad un anno superiore alle medie europee. Risultati grazie ai quali l’Italia è anche il terzo paese al mondo, dietro Usa e Spagna, con la maggiore attività nel settore. Per quanto riguarda il tipo di organo, il trapianto di rene è in assoluto il più realizzato in Italia come all’estero; seguono i trapianti di fegato e quelli di cuore.

Ecco alcuni dati. Nel 2004 sono stati realizzati 1.745 trapianti di rene. A guidare la classifica con 104 interventi a testa sono l’Azienda ospedaliera di Padova e l’Ospedale Molinette di Torino.
I trapianti di fegato sono stati 1.016. Le Molinette di Torino ne ha realizzati 145, altri 99 sono gli interventi dell’Azienda ospedaliera di Pisa ed 88 quelli degli Ospedali riuniti di Bergamo.
Gli interventi di trapianto di cuore sono stati 353. In testa, l’Ospedale S.Matteo di Pavia con 51 trapianti, seguito dall’Azienda ospedaliera di Bologna con 43, il Monaldi di Napoli con 36 trapianti e il Niguarda di Milano con 33.
I trapianti di polmone sono stati 82; per il pancreas si sono registrati 94 interventi ed infine 7 i trapianti di intestino effettuati.
Ma dalla fotografia «scattata» dal Centro nazionale trapianti il 5 maggio 2005 emergono anche alcune zone d’ombra. Le liste di attesa restano, infatti, ancora troppo lunghe: sono 6.554 i pazienti in attesa di un rene, 1.460 quelli in attesa di fegato, 636 in attesa di cuore, 210 in attesa di pancreas e 254 di polmone.
Sempre nel 2004, l’attesa media per ogni trapianto si è attestata intorno ai 3 anni. Ma ci sono pazienti che aspettano un trapianto da più di dieci anni…
Nonostante un leggero calo, il numero delle opposizioni alla donazione (29,4% nel 2004) è ancora alto.

Attualmente è infatti ancora in vigore il principio del consenso o del dissenso esplicito, come previsto dall’art.23 della legge n.91 del 1° aprile 1999. Se un cittadino in vita non si esprime, è prevista dalla legge la possibilità per i familiari (coniuge, convivente more-uxorio, figli, genitori) di opporsi al prelievo.
Il settore dei trapianti, ha spiegato l’ex ministro della salute, Girolamo Sirchia, richiede una valida organizzazione ogni giorno dell’anno ed una stretta collaborazione fra diverse équipe mediche, possibile solo dove il sistema sanitario è efficiente.
I molteplici problemi connessi con la donazione di organi richiedono un approccio sempre più globale alla questione. A prima vista sembrerebbe che, essendo il fine chiaramente terapeutico, dopo aver garantito la condizione di accertamento di morte e la sopravvivenza del donatore vivente, il problema etico sarebbe diventato semplice e di facile soluzione.
In realtà, con l’aumento delle richieste, la scarsità dei donatori, la qualità degli organi suscettibili di trapianto, i problemi etici si sono moltiplicati.
Ad esempio, il consenso informato del ricevente, la libertà del donatore e dei parenti, il diritto della società a prelevare gli organi dai cadaveri, a prescindere dal consenso esplicito; ed ancora la liceità di certi trapianti che possono influenzare l’identità del ricevente; la legittimità del trapianto sperimentale; e infine la determinazione dei criteri con cui assegnare gli organi da trapiantare. Sullo sfondo, i grandi interrogativi della bioetica, in tensione tra eterni dilemmi morali e rivoluzionarie scoperte della tecnologia.
Ogni vicenda di trapianto, ora più che mai, fa storia a sé con il suo inenarrabile intreccio di sofferenze e di speranze.

Enrico Larghero


ORGANI E PATOLOGIE:

Cuore
• cardiopatia ischemica
• coronaropatia
• cardiopatie dilatative
(es.miocardiopatia)

Fegato
Tutte le malattie che provocano
insufficienza epatica cronica:
• negli adulti, soprattutto epatite
cronica e cirrosi
• nei bambini, atresìa biliare
congenita

Polmone
• enfisema
• fibrosi cistica
• sarcoidosi
• fibrosi polmonare interstiziale

Rene
Tutte le patologie che provocano
insufficienza renale cronica:
• glomerulopatie
• tubulopatie
• rene policistico

Pancreas
• diabete mellito
• pancreatite cronica
• tumori

Enrico Larghero