Skanderbeg, Enver Hoxha, Sali Berisha

Skanderbeg, l’eroe nazionale albanese, fu considerato dai papi il difensore della cristianità. L’Italia di Mussolini invase l’Albania. Dopo la caduta della dittatura, il passaggio ad un sistema iperliberista fu, per la maggioranza della popolazione, un salto senza rete. Ancora una volta, per comprendere un paese è necessario conoscee la storia.

Diviso in due nel quarto secolo dall’Impero romano, è stato il paese in cui si sono incontrati Oriente ed Occidente, come ha scritto Aurel Plasari. Ed il suo destino, o la sua «fatica di Sisifo», sembra essere stata la ricerca di mantenere l’unità dentro questa divisione tra Oriente ed Occidente.
Il periodo eroico della storia albanese è l’epoca dell’eroe nazionale Gjergj Kastrioti, detto Skanderbeg. Fu considerato dai papi il difensore della cristianità, avendo ripetutamente sconfitto per oltre vent’anni (1444-1468) gli eserciti ottomani, che già da un secolo avevano avviato spedizioni militari per la conquista dei Balcani. I sovrani del tempo lo considerarono anche un abile stratega militare, oltre che un valoroso condottiero, avendo introdotto la cavalleria leggera nell’arte della guerra. Morì nel 1468 dopo aver condotto contro l’esercito islamico 24 famose battaglie, quasi tutte vinte, anche se sempre in condizioni di grande inferiorità numerica. I principi albanesi che presero in mano la sua eredità storica seppero resistere ai turchi per altri vent’anni. Poi fu la definitiva occupazione del paese da parte delle truppe dell’impero ottomano e l’emigrazione in Italia di quanti, nobili e popolo, l’avevano combattuto e non vollero sottomettersi.
Fu il re di Napoli Alfonso d’Aragona a dare loro ospitalità, in riconoscenza dell’aiuto ricevuto da Skanderbeg quando ricorse al suo aiuto per salvare il regno. L’origine della presenza in Italia delle popolazioni albanesi, oggi denominate «arberesh», è di quell’epoca. E tanto per restare in tema, gli albanesi che nei quarant’anni successivi alla morte di Skanderbeg lasciarono il paese e si rifugiarono nei paesi vicini furono circa 200.000, cioè circa un quarto della popolazione dell’epoca. Metà di essi venne in Italia.
Con lo stabilirsi definitivo dei turchi in Albania, fu avviata anche una diffusa islamizzazione, basata soprattutto sulla possibilità di ottenere terre e di non pagare tasse. L’Albania cristiana fin dai primi secoli, poco a poco divenne in maggioranza islamica.
La repubblica di Venezia aveva in Albania una forte presenza e la mantenne per molti secoli. Una serie di castelli che vanno da Scutari, al nord, fino a Butrinto, a sud, testimoniano ancora la sua lunga relazione non solo commerciale con il paese. La parte storica della città di Scutari conserva molte somiglianze con alcuni scorci della Riviera del Brenta. Ancor oggi c’è la «via dei veneziani» e fino al 1997, il molo veneziano del porto fluviale di Scutari era rimasto abbastanza intatto. La politica dei Dogi, tuttavia, non fu mai molto lineare verso l’Albania e numerose volte, la necessità di mantenere i loro commerci, li giustificò dell’alleanza con gli ottomani, a scapito degli interessi degli albanesi. Lo stesso Skanderbeg, come in seguito Lek Dukagjin, dovette combattere contro una temporanea alleanza di Venezia con gli ottomani.
L’Albania fece parte dell’Impero ottomano fino al 1912, quando a Valona i patrioti albanesi innalzarono la bandiera e dichiararono il paese indipendente. Oltre alla religione, la lunga presenza turca ha influenzato la lingua, il modo di vestire, la cucina, il modo di costruire le case, l’organizzazione dei mercati, l’architettura dei ponti. Un certo numero di famiglie albanesi entrarono a far parte della nobiltà ottomana ed ebbero proprie residenze anche ad Istanbul. Nel 1919 l’indipendenza dell’Albania è definitivamente sancita dalla Conferenza di Parigi, dopo la prima guerra mondiale. Nonostante la proclamazione dell’indipendenza del 1912, infatti, Grecia e Serbia avevano deciso di dividersi il paese, con il beneplacito dell’Italia che avrebbe mantenuto Valona, per il controllo del Canale d’Otranto. Grecia, Serbia ed Italia uscirono vincitrici dal conflitto mondiale ed il rischio che l’Albania, appena nata, fosse cancellata dalla carta geografica era effettivo. Furono soprattutto gli sforzi della diplomazia vaticana, (come spiegato a pag.35), che ebbero successo, anche se rimasero loro, per non scontentare del tutto Serbia e Grecia, una parte dei territori abitati da albanesi. Scherzando su questo fatto, gli albanesi diranno poi che l’Albania è un paese che confina con… l’Albania.

IL RE E L’INVASIONE DELL’ITALIA FASCISTA

Garantita definitivamente l’indipendenza, il paese entra in un periodo di instabilità. Spicca in questi anni la figura di Fan Noli, un vescovo ortodosso americano, di origine albanese, che torna in patria ed entra in politica, fino a diventare per breve tempo primo ministro. Prevalgono alla fine le famiglie feudali, Ahmet Zogu è eletto primo ministro e dopo poco si proclama re d’Albania. Ha bisogno di consolidare sia il suo potere che lo stato e trova un interessato sostegno nell’Italia di Mussolini. Tra i suoi obiettivi anche il matrimonio con una donna di sangue blu, per dare un definitivo suggello al suo titolo. Ma gli alleati italiani non lo prendono in seria considerazione su questo e la diplomazia albanese porterà al trono Geraldina, di una nobile famiglia ungherese. L’Albania rinnova ed intensifica nel 1933 la collaborazione con l’Italia, ed avvia un piano di interventi sulle infrastrutture (strade), sull’industria (petrolio) e sulla formazione della pubblica amministrazione e degli apparati dello stato, che gli anziani ancor oggi ricordano con meraviglia.
Nell’aprile del 1939 l’Albania è invasa dall’Italia. Mussolini ritiene che la guerra che Hitler ha appena scatenato sarà breve. Per non sedersi al tavolo dei vincitori in condizioni di inferiorità, decide in pochi giorni di invadere l’Albania. Da paese amico, diventa nemico invaso ed occupato. L’anno successivo dall’Albania l’Italia porta la guerra alla Grecia. Sorgono le formazioni partigiane albanesi, cui concorrono sia i comunisti, sia i nazionalisti. L’8 settembre 1943 i soldati italiani presenti sul suolo albanese sono migliaia. L’esercito tedesco ha l’ordine di invadere in fretta l’Albania per non perdere le posizioni e si accanisce in particolare contro i militari italiani. Alcuni cercano di tornare. Tante famiglie albanesi, soprattutto nelle campagne, li nascondono nelle loro case. Altri si uniscono ai partigiani albanesi.
Finita la guerra ci sarà anche chi rimarrà in Albania.

DALLA DITTATURA AD OGGI

Il 29 novembre 1944 i gruppi partigiani guidati da Enver Hoxha entravano a Tirana. Per l’Albania era la fine della guerra, cominciata con l’occupazione del paese da parte dell’Italia di Mussolini, nell’aprile del 1939. Alla fine della guerra, il paese ha poco più di un milione di abitanti. L’analfabetismo raggiunge il 90%. Enver Hoxha, capo del partito comunista, non si fa molti scrupoli ad eliminare gli avversari politici interni. A livello internazionale si allea subito con Tito.

1948. Per evitare il rischio che l’Albania diventi l’ottava provincia della Jugoslavia, Hoxha abbandona Tito e si allea con la Russia di Stalin. Dieci anni dopo, Krusciov avvia la «destalinizzazione» e manda in pensione tutti i vecchi dirigenti del partito comunista dei paesi satelliti.

1960. Hoxha abbandona anche la Russia, accusandola di revisionismo e si allea l’anno dopo con la Cina, che potrà vantare un fedele alleato in Europa fino al 1978. Quando anche la Cina, morto Mao, modifica la sua linea politica, aprendo agli Stati Uniti, Enver Hoxha abbandona sprezzante anche la Cina ed avvia il paese sul vicolo cieco dell’isolamento internazionale e dell’assoluta autarchia.

1967. È l’anno nel quale l’Albania, unico paese al mondo che costituzionalmente si è dichiarato ateo, a seguito della rivoluzione culturale cinese che qui ebbe il suo parallelo, corona tale rivoluzione con la distruzione fisica di centinaia e centinaia di chiese cattoliche ed ortodosse, monasteri e moschee. La proprietà privata viene rigorosamente proibita.

1985. Il dittatore muore dopo 40 anni di tirannia assoluta e violenta, durante i quali non ha esitato ad eliminare non solo gli avversari, ma anche molti «compagni», via via accusati di tradimento e quindi imprigionati, mandati al confino, o semplicemente «suicidati». Mescolando ideologia e nazionalismo, aveva prospettato la costruzione de «l’uomo nuovo socialista», prospettando la rinascita del popolo albanese dopo i 500 anni di occupazione ottomana e la successiva scarsa considerazione dei paesi occidentali. Quando, nel 1985 Ramiz Alia succede ad Enver Hoxha, il paese è già sulla strada di una irreversibile recessione economica. L’autarchia è sempre meno in grado di dare alla gente il necessario per vivere.

1990. Dopo la caduta del muro di Berlino, l’Albania è l’ultimo paese comunista a mobilitarsi. Nel luglio 1990, a Tirana, circa 4.000 persone occupano le ambasciate dei paesi occidentali e chiedono di poter emigrare. Il braccio di ferro tra governo albanese e governi di Italia, Francia e Germania dura oltre venti giorni. Alla fine, autorizza la partenza dei rifugiati. L’8 dicembre gli studenti occupano l’Università di Tirana ed alcuni professori sono solidarizzano con loro. Alia manda a trattare con il comitato degli studenti e professori, come suo incaricato, il dottor Sali Berisha, primario di cardiologia dell’ospedale di Tirana, già cardiologo personale del dittatore Enver Hoxha. Dopo i primi incontri Sali Berisha lascia l’incarico ricevuto dal presidente e passa dall’altra parte della barricata, aderendo al partito democratico. Sono i segni che ormai il vecchio mondo sta crollando.

1991. Vengono decise le prime elezioni pluraliste per il 31 marzo. Ma a metà marzo molte migliaia di persone danno l’assalto al porto di Durazzo, e sbarcano a Bari: è l’immagine di migliaia di profughi aggrappati alla nave, immortalata in una foto ormai famosa ne «Lamerica». Alle elezioni il partito del lavoro vince grazie al voto delle campagne. I veloci cambiamenti, la fuga di decine di migliaia di persone, la mancanza di mezzi, hanno accelerato il collasso dello stato. L’agricoltura, soprattutto, dove era impegnato oltre il 65% della popolazione e che, in regime di autarchia, doveva garantire la sopravvivenza alla nazione, è praticamente abbandonata. In luglio il parlamento vara la riforma agraria: in ogni villaggio, la terra è distribuita a tutti gli abitanti in parti uguali, sia in quantità che in qualità. La fame era uno spettro reale. I tentativi di fuga con qualsiasi mezzo erano quotidiani.

1992. La situazione è molto tesa ed in alcuni luoghi la gente assalta i foi del pane. Berisha decide di uscire dal governo e chiede nuove elezioni. Vengono fissate per il 22 marzo 1992. Il partito democratico ottiene la maggioranza assoluta del parlamento. In aprile Ramiz Alia rassegna le dimissioni. Nuovo presidente della repubblica è eletto Sali Berisha. Il governo è affidato ad Aleksander Meksi, che resterà primo ministro fino a marzo 1997.
Al paese manca di tutto. Le istituzioni inteazionali e molti paesi europei corrono in aiuto e vengono definite le linee guida della nuova politica economica. Si sceglie la strada della «terapia choc»: liberalizzazione dei prezzi (solo il pane continuerà ad avere un prezzo politico), libero commercio, libero movimento dei capitali, diritto alla proprietà privata e privatizzazione delle attività economiche, prima unicamente dello stato. A mali estremi, estremi rimedi: l’inflazione supera il 250%. Il paese produce pochissimo di quanto ha bisogno e gran parte delle derrate alimentari vengono importate. Ma stipendi e pensioni restano invariati (all’epoca, mediamente, si andava dai 20 ai 40 euro). Per tutti, valga l’esempio di certi professori di università che dopo le lezioni facevano i tassisti o vendevano banane e sigarette sui marciapiedi di Tirana.

1993. In un paese dove tutte le vecchie regole sono sparite e quelle nuove non sono ancora arrivate, l’economia di mercato significava «arrangiarsi», significava «chi vince ha ragione», significava che «far soldi» era l’unica regola valida, non importa «come». Anche le istituzioni inteazionali sostenevano la necessità di «creare la borghesia», unico modo di far poi funzionare l’economia di mercato. Se poi per creare in fretta una borghesia che manca, bisogna chiudere un occhio (o tutti e due) sul come molti si stanno arricchendo, è un problema secondario al momento. Un fenomeno emblematico, cominciato allora, è l’emigrazione verso le città di decine e decine di migliaia di famiglie che abbandonavano la campagna e soprattutto la montagna: le campagne che fino al 1991 circondavano Tirana, Durazzo, Scutari, ed altre città minori, furono invase dalle costruzioni illegali di migliaia di famiglie. Si cominciava con una baracca di legno, poi poco a poco una stanza, poi due, poi quattro… Ciò che conta è potersi costruire una casa,… Strade, luce, acqua, fognature, e poi scuole, servizi sanitari… è il caos più assoluto ed ancor oggi, ad oltre dieci anni di distanza, molti di questi problemi sono irrisolti. L’inflazione scende sotto il 5%, e la moneta si rivaluta addirittura nei confronti della lira e del dollaro.

1996. In maggio ci sono le elezioni politiche. Più che entusiasmo c’è paura: la sera della domenica di fine maggio, quando Sali Berisha proclama la «vittoria», nelle piazze e strade di Tirana non festeggia nessuno, tutti sono in casa. La frode elettorale è palese e l’Ocse non può che denunciarla. La vittoria del partito democratico è stata costruita sui brogli: dalla mancanza delle liste elettorali, alla sostituzione delle ue a voto finito. Alle elezioni amministrative di ottobre, Berisha non ammette gli osservatori dell’Ocse.
1997. L’Albania è spesso citata come modello per gli altri paesi che adottano l’economia di mercato. Di solito è piuttosto difficile mettere assieme in un paese una economia debole con la prosperità, In Albania qualcuno c’è riuscito bene, per alcuni anni. Le società finanziarie (che in Albania saranno chiamate «piramidi»), per convincere gli albanesi ad affidare loro il denaro (spesso le rimesse di un familiare emigrato), hanno rispolverato ed aggiornato il vecchio gioco della catena di sant’Antonio. Si versava, per esempio, un milione di lire e si riceveva, dopo il terzo mese, un interesse dell’8% o più. Cioè a fine anno, con un milione di lire depositato si portavano a casa 720.000 lire solo di interessi! Naturalmente questo ha funzionato finché è stato possibile dare a chi ha cominciato prima, i soldi di chi arriva dopo.
Inutile dire che il grande gioco, mentre distribuiva tanti soldi facili, era anche un efficace strumento per riciclare denaro sporco. I capitali provenienti dallo sfruttamento della prostituzione, dallo smercio di droga, dal traffico di armi, dal contrabbando del petrolio, hanno circolato con estrema facilità.
Fallita la prima nel novembre 1996, tutte le altre «piramidi» seguirono la stessa sorte nel giro di poche settimane. La gente scese in piazza a chiedere conto al governo della mancata tutela. Tra ministri e politici cominciò lo scaricabarile mentre i veri responsabili fecero tempo a rifugiarsi all’estero quasi tutti. Una stima molto prudenziale ha valutato in 1,2 miliardi di dollari (oggi pari a 1 miliardo di euro) la perdita subita dalle famiglie albanesi. Nel sud ci furono episodi di saccheggio dei depositi militari di armi. Lo stesso avvenne poi al Nord. A livello istituzionale è il caos. In quasi tutte le città del paese vengono saccheggiati negozi e magazzini, bruciati edifici, distrutte fabbriche. Il porto di Durazzo è praticamente raso al suolo. L’Università di agraria di Tirana è saccheggiata e distrutta. A Scutari viene bruciato anche il tribunale. È la guerra di tutti contro tutti. Nonostante il coprifuoco, a Tirana la notte si continuerà a sparare ancora per molti mesi. Le prigioni, naturalmente, non furono risparmiate. Fuggito il personale di sorveglianza, i prigionieri sono liberi di andarsene. Tra essi anche Fatos Nano, già segretario del partito socialista nel 1991 e poi accusato da Berisha di malversazione dei primi aiuti e condannato a 12 anni di carcere. Egli però non vuole andarsene dal carcere solo perché la porta è aperta e chiede un provvedimento amministrativo, che Berisha è costretto ad emettere in fretta. Viene intanto affidato al socialista Bashkim Fino il governo provvisorio, che indice nuove elezioni per il 29 giugno. Il partito socialista vince ampiamente, il partito democratico ottiene meno di un terzo dei deputati dell’anno precedente.

1998. I gravi disordini che hanno interessato tutto il paese, hanno indotto molti albanesi ad emigrare e l’Italia è il paese di maggior afflusso e alcune decine di migliaia di profughi arrivano già in marzo. Perso tutto, l’unica speranza è cercare altrove come andare avanti. Si verificano due nuovi fenomeni: ad andarsene in migliaia sono i minori, da soli, e molti tecnici e funzionari, i cosiddetti «quadri». Li accomuna il senso di impotenza e di disperazione: l’Albania non offre più niente a nessuno ed è meglio andarsene. Gran parte dei ragazzi ed adolescenti, di solito di 13 o 14 anni, se ne vanno spinti anche dai genitori, preoccupati dell’assoluta mancanza di prospettive del paese. Chi rimane spesso invidia chi se n’è andato. Ora in Albania ormai non si può più nemmeno sognare.

1999. A fine marzo scoppia la guerra in Kosovo ed in pochi giorni quasi mezzo milione di albanesi del Kosovo si rifugia in Albania. Nonostante lo stato di generale depressione, il paese ha un sussulto e reagisce. Ai kosovari si dà ospitalità ovunque. I rifugiati nei campi profughi sono stimati in 130.000 circa. Il resto, cioè più di 300.000 hanno trovato una qualche forma di ospitalità presso famiglie private, scuole o altre strutture locali. Spesso accade che i rifugiati sono molto più benestanti delle famiglie che li ospitano e si sdebitano pagando l’affitto o facendoli parte degli aiuti che ricevono. In poche settimane il paese è inondato di aiuti pubblici e privati e di associazioni umanitarie.

2000. L’inverno rende ancora più triste ed amara la solita mancanza di energia elettrica disponibile solo in certe ore del giorno e secondo la «fedeltà media» della città nel pagare le bollette. La disoccupazione, la ricerca di un lavoro all’estero come emigrante, la corruzione nei pubblici servizi, le strade impossibili ed il permanere della logica di «chi vince ha ragione» arrivata con l’economia di mercato. A smuovere un po’ le acque con iniziative singolari e fuori dagli standard abituali c’è Edi Rama, ministro della cultura che Fatos Nano ha voluto nel suo governo. È un pittore ed un intellettuale e la sua capacità di comunicare con la gente lo fanno proporre candidato sindaco della capitale, Tirana, alle elezioni amministrative del 1° ottobre 2000: le centinaia e centinaia di costruzioni abusive, costruite nel parco del centro della città, o sui bordi del Lana (il canale che la attraversa da est ad ovest), o su tutti i marciapiedi, ricevono l’ordinanza di demolizione. Fa dipingere edifici grigi ed insignificanti, dando alla città un senso di originale vivacità. Riorganizza tutti i servizi amministrativi, eliminando code, resse, raccomandazioni… Avvia un piano di ristrutturazione urbanistica completa. Tre anni più tardi, la sua rielezione è scontata. Ma soprattutto il suo modo di amministrare ha fatto scuola e molti altri sindaci, da Durazzo a Scutari, da Valona a Korça, hanno preso un po’ di coraggio ed avviato programmi di riorganizzazione dei servizi amministrativi e di riordino urbanistico, prima impensabili.

2001. Sono sempre più gli albanesi che avviano attività produttive e non solo commerciali, come era invece avvenuto prima. L’industria delle costruzioni, in particolare, è in continua crescita e, come sempre, riesce a trascinare un’ampia gamma di indotto. Il turismo, inoltre, è diventata la voce che ha dato maggior impulso alla crescita economica degli ultimi anni. Certo, sorgono dei dubbi sul rischio che dietro a questo ci siano anche finanziamenti poco leciti, riciclaggio di denaro sporco e malavita organizzata, come succede in altri paesi. Ma è innegabile lo slancio che lo sviluppo del paese ha preso dopo il 2000. È avviato anche il processo di riforme di cui lo stato aveva bisogno e che rappresenta il primo adempimento per gli accordi di integrazione che richiede l’adesione all’Unione europea.

2003. Tanta ricchezza accumulata in fretta, tanto benessere, tante macchine, negozi, ristoranti ed hotel di lusso, accanto a tanta povera gente, accanto a chi dona il sangue a pagamento, per poter disporre di tanto in tanto di qualche soldo, ed accanto a chi quotidianamente rovista nei cassonetti delle immondizie per vivere. La politica sembra incapace di svolgere appieno il suo ruolo. Il partito socialista è stato stabilmente al governo dal 1997 al 2005, avendo la maggioranza in parlamento, ma personalismi e beghe intee ne hanno rallentato l’azione. Ciò che di più è mancato alla politica, è stata la capacità di ridare fiducia alla gente come politica in sé, sia a livello di proposta, sia a livello di serietà e correttezza del fare politica.

Pier Paolo Ambrosi




La difficile uscita dalla povertà

L’energia elettrica c’è solo alcune ore al giorno. L’economia informale rappresenta una consuetudine. La sanità pubblica è una catena di corruzione. Il contrabbando, piccolo o grande, è abituale. Viaggio nell’Albania di tutti i giorni.

L’Albania è un paese difficile e complesso dove, come dice un proverbio, anche le cose più strane ed inverosimili sono possibili.
È un paese la cui storia è nata in Europa, ma è vissuta poi 5 secoli sotto l’Impero ottomano. L’ultimo paese europeo a divenire indipendente, sebbene tra i più grandi protagonisti dell’indipendenza della Grecia (1821) figurino gli albanesi. Sempre poco considerato dalle diplomazie degli altri stati, talvolta anche per propria colpa, come quando nel 1919, alla Conferenza di Parigi che seguì la fine della prima guerra mondiale, a perorare la causa dell’Albania si presentarono cinque diverse delegazioni. Ed alla fine fu la diplomazia vaticana ad influire maggiormente per il suo riconoscimento e si può dire che se oggi esiste l’Albania, buona parte del merito va all’opera del Vaticano.

NUOVO GOVERNO, STESSI PROBLEMI

Nell’estate del 2005, appena Sali Berisha assume l’incarico di primo ministro, centinaia di funzionari dei vari ministeri vengono licenziati in tronco, perché sospettati di aver sostenuto o collaborato con il partito socialista! Il Shik (il servizio segreto) è tolto dalla competenza del parlamento e passa al ministero dell’interno, come durante il regime comunista. Toano in patria personaggi fuggiti nel 1997 con il crollo delle «piramidi»; uno di questo giro è addirittura proposto come nuovo ambasciatore negli Stati Uniti, che lo rifiutano!
La vittoria del partito democratico poteva essere, finalmente, l’occasione per un’alternanza davvero «democratica», nonostante i dubbi, ancora una volta, sulla correttezza del voto. Ma così non è stato.
Così si è tornati indietro di nuovo, ancora a dire che «chi vince ha ragione» e chi è più furbo, più scaltro o chi non ha scrupoli avrà successo. Non è sempre così, né lo è per tutti, ma il governo della cosa pubblica si sta trascinando dietro da troppo tempo questa immagine, provocando non solo il malcontento, ma spesso anche l’avversione della gente comune e delle persone oneste.
La vittoria elettorale del partito democratico è stata costruita, a livello di propaganda elettorale, sullo slogan «caccia alla corruzione» e «dimezziamo le tasse alle piccole imprese». Sul primo, visti i precedenti del 1997, è piuttosto difficile credere solo sulla parola e la circostanziata denuncia fatta in parlamento per la collusione tra membri del governo ed ambienti della malavita, non lascia presagire seri risultati in proposito. Sul secondo, già prima che il nuovo governo si insediasse, il Fmi ha messo le mani avanti pubblicamente, impedendo qualsiasi riforma. È cambiato il governo, ma non i problemi, a cominciare da quello dell’energia elettrica. Viene erogata solo per un certo numero di ore al giorno, solitamente le prime ore della giornata e la sera. Quando si avvicina l’inverno, la situazione si aggrava e le ore di sospensione si allungano. Mancando la rete di distribuzione del gas, il riscaldamento domestico si fa con la corrente e quando manca si resta al freddo. Ed è la stessa cosa per gli uffici e per i negozi, per i semafori delle strade e per gli ascensori dei palazzi, per i bar e per tutte le attività produttive, piccole e grandi. Queste per poter continuare l’attività si sono dotate di un generatore.
E poi il problema dell’acqua, che il paese ha in abbondanza ma che non sempre è disponibile, soprattutto come acqua potabile; il problema del sistema fognario, quasi sempre insufficiente o quando non del tutto mancante; il problema delle molte strade ancora dissestate, in particolare nelle zone rurali e dei coperchi dei pozzetti che mancano. E ancora, la sanità pubblica, dove la catena di una corruzione alla luce del sole, raggiunge anche gli addetti ai servizi di pulizia; la mortalità infantile ancora troppo alta; la scuola, che può vantare i più bassi salari e la maggior disaffezione al lavoro del personale, oltre al riaffacciarsi dell’analfabetismo (solo l’88% dei giovani fino a 15 anni sa leggere e scrivere); la disoccupazione, ancora molto alta (ufficialmente il 14%) soprattutto tra i giovani, ma anche conseguenza delle privatizzazioni, passaggio obbligato per gli accordi di integrazione, che hanno provocato migliaia di licenziamenti. Sono tutte le varie facce dell’unico grande problema della povertà, che in Albania interessa in gran parte, ma non solo, le aree rurali.
Nel problema della povertà, un rilievo particolare deve essere fatto per la popolazione rom, che costituisce la parte più emarginata della popolazione albanese. Dall’abitazione, alla frequenza della scuola, dallo sfruttamento minorile, alla prostituzione, dalla disoccupazione all’assistenza sanitaria, le generali condizioni di vita di questo gruppo sono le più misere in assoluto.
Non è la situazione disperata del 1991-92 o del 1997, certamente. E bisogna anche non dimenticare che gli albanesi erano abituati a vivere talmente con poco che è stato ovvio, con la liberalizzazione, l’aumento delle esigenze quotidiane. Negli ultimi cinque anni, il miglioramento delle infrastrutture stradali è stato enorme. Ma la gente vorrebbe maggior impegno e maggior efficacia. Non è stato fatto tutto quello che si poteva fare ed in altri paesi che si sono presentati all’appuntamento con la democrazia in situazioni simili, è stato fatto di più. Romania e Bulgaria, per esempio, hanno già una data fissata per il loro ingresso nell’Unione europea.

L’ARTE DI «ARRANGIARSI»

Secondo gli esperti, l’Albania è in ritardo nel cammino verso l’Ue perché è il paese meno integrato nell’economia europea. Uno dei problemi più dibattuti dagli esperti è la necessità di portare alla luce del sole la grande fetta di economia informale del paese, che è stata stimata pari al 33% del Prodotto interno lordo (Pil).
C’è una economia formale ormai abbastanza strutturata e dinamica: costruzioni, commercio all’ingrosso, commercio al dettaglio, strutture alberghiere, produzione di scarpe e confezioni, lavorazione del legno, molti servizi, eccetera. C’è poi tutto quanto si fa per sopravvivere: piccolo commercio occasionale, ambulante o semi-stabile, di tutti i generi; manutenzioni e riparazioni di auto, elettrodomestici, impianti elettrici, bagni domestici; trasporti di persone e cose, tutte attività non dichiarate, in gran parte tollerate, se non tacitamente approvate, che ufficialmente non esistono e per le quali non si paga nessuna forma di assicurazione o tassa. Ma l’economia informale non è solo questo, è anche fare le stesse cose, avere cioè il medesimo comportamento di «arrangiarsi», anche nell’ampia gamma delle attività dichiarate. Per cui si tende a fare la doppia fattura per la dogana, la doppia fattura per l’Iva, nelle vendite si dichiara un prezzo più basso, le auto entrano con documenti falsi ed il contrabbando, piccolo e grande, è abituale, specie alle frontiere di Grecia e Montenegro.

LA (PESSIMA) DISTRIBUZIONE DEI REDDITI

Ciò che conta è, come al solito, che il quadro macroeconomico tenga bene: l’inflazione nel 2005 è stata calcolata al 2,2%, con un totale di 9,5% negli ultimi quattro anni; la moneta è da anni abbastanza stabile nel cambio con l’euro ed il dollaro americano; il Prodotto interno lordo (Pil) registra una crescita costante negli ultimi anni tra il 5% ed il 6%, ed ha raggiunto, secondo i dati ufficiali del ministero delle finanze del 2004, 1.934 dollari pro capite, cioè più del doppio del 1998.
Questo vorrebbe dire che una famiglia media albanese di quattro persone dovrebbe avere un reddito annuo di oltre 5.800 euro. Ma si sa che la statistica inganna, facendo la media tra chi ha tanto e chi non ha niente. La realtà è che delle circa 880.000 famiglie albanesi, un 20% ha un reddito annuo minimo che supera i 50.000 euro, cioè può permettersi un livello di vita considerato nei paesi europei medio- alto. Sono persone che vestono elegantemente, possiedono auto piuttosto costose e si recano regolarmente all’estero per le vacanze. Poi, secondo i dati della Strategia nazionale per lo sviluppo economico e sociale (del 2002), il 46,6% della popolazione è sotto la soglia di povertà, cioè ha un reddito pro capite che non supera i 1,65 euro al giorno. Per paragonare questo gruppo alle altre famiglie, queste (più del 40%) non vanno oltre i 2.400 euro l’anno. Ma in questo gruppo, sempre secondo i dati ufficiali del 2002, il 17,4% sono famiglie con un reddito annuo che non supera i 1.200 euro. Che le salva c’è il pane, che da oltre dieci anni non subisce variazione di prezzo: un chilo costa 60 lek, meno di 0,50 euro. Così in Albania il consumo medio di pane è almeno quattro volte maggiore di quello dell’Italia ed il pezzo di pane a cassetta di un chilo, della forma di un mattone, è il minimo che entra ogni giorno nelle case.
Anche per questo bisogna dire che l’Albania è un paese complesso e per capire serve un po’ di pazienza e non fa certo male anche un po’ di umiltà. Sono stati fatti passi enormi, economicamente, dalla situazione di collasso generale dello stato del 1991 ad oggi, ma bisogna anche dire che c’è della povera gente che stava meglio prima, o almeno prima era più protetta e sicura. Non è affatto raro vedere negli angoli delle strade di città un signore che mette il telefono a disposizione dei passanti per arrotondare la pensione, o un ragazzo rom che rovista nelle immondizie alla ricerca di bottiglie di vetro o lattine di alluminio. Senza trascurare poi che i circa 700.000 emigrati garantiscono il reddito a buona parte delle altre famiglie, quelle considerate più o meno medie.

SARÀ POSSIBILE CREARE UNA «SOCIETÅ CIVILE»?

Uno degli argomenti che da un po’ di tempo sono oggetto di particolare attenzione, a livello internazionale, riguardo l’Albania ed i Balcani è la necessità di creare la «società civile» come presupposto per lo sviluppo della democrazia. L’Unione europea, in particolare, da alcuni anni stanzia ed investe milioni di euro a questo scopo, per sostenere gruppi di persone ed attività che dovrebbero aiutare la società albanese ad evolversi in tal senso. Cioè essa dovrebbe assumere i valori, le caratteristiche ed i comportamenti delle società degli altri paesi europei in cui le forme di società civile sono già ben sviluppate. L’obiettivo di fondo è lo sviluppo della democrazia nel paese, nelle sue varie forme. Questo sarebbe appunto perseguibile aiutando la crescita della società civile.
Prendendo la cosa alla leggera ed in maniera un po’ scanzonata, potremmo dire che la scaltrezza albanese, dalla disponibilità di fondi che l’argomento prometteva, ha saputo trarre subito il beneficio che cercava. Così sono nate in pochi anni centinaia di associazioni, in tutto il paese, che dovrebbero dimostrare quanto è intenso e rapido l’evolversi positivo della società albanese verso la democrazia dal basso… In pratica, diciamo che tante persone non sono più disoccupate.
In realtà l’argomento è molto serio. Non è questo il luogo per un dibattito su come la democrazia potrebbe avere maggior successo in Albania. Tuttavia, l’attuale fase di transizione della realtà albanese avrebbe bisogno quantomeno di una particolare attenzione. Gli spunti necessari ci vengono dagli stessi albanesi più attenti.
Un’analisi di un altro albanese, attento alla realtà del suo popolo, Edi Rama, dice che la società albanese attuale non è ancora giunta al «livello zero» dello sviluppo democratico, alla soglia minima, cioè, che le permetta poi di scegliere tra più opzioni. Lo dimostra il fatto che pur mutando i partiti di governo, fautori in apparenza di opposte visioni, la politica economica non ha mai mutato indirizzo, sempre strettamente governata dal Fondo monetario internazionale.
A sostegno di quest’analisi, va ricordato che finché una parte importante della popolazione, a causa delle serie condizioni di povertà in cui vive, è praticamente esclusa dal circuito economico, questa non ha alcun legame, né interesse nemmeno verso forme di pratica della democrazia. L’impegno per la quotidiana sopravvivenza la tiene esclusa.
L’equivoco di fondo di quanti oggi cercano di sviluppare forme di pratica democratica in Albania, basandosi su azioni di sostegno alla società civile, è di aver scambiato il risultato con il presupposto. Né più né meno che mettersi a costruire una casa partendo dal tetto.

Pier Paolo Ambrosi




Le parabole di Tirana

Lasciare il villaggio dell’interno dove manca tutto per andare a Tirana, la capitale. E poi da qui tentare il salto verso «Lamerica». È il sogno di moltissimi albanesi. Un sogno diffuso anche attraverso le illusioni proposte dalla televisione (italiana). Un sogno che può diventare realtà. O incubo.

«Il paese dove non si muore mai»: così ha intitolato il suo primo libro la fotografa e pittrice albanese Oela Vorpsi, riferendosi ad un’Albania che forgia corpi robusti e vigorosi, pronti ad affrontare qualsiasi prova. Gli uomini e le donne albanesi, infatti, hanno ossa forti e mani grandi, capaci di dissodare terreni con l’ausilio della sola zappa, e lavare per una vita lenzuola ed asciugamani nella fontana del cortile, con l’acqua gelida, con qualsiasi tempo. Il corpo albanese è un involucro resistente, certo, ma sicuramente non può proteggere l’animo dall’angoscia di vivere sentendosi oppressi, senza libertà, schiacciati da tradizioni forti e radicate, dalla povertà, dal mito dell’Occidente «libero» rispetto alla rigidità della mentalità albanese. Anche in Albania si muore. Di suicidio.
Nel marzo dello scorso anno, nel paese si sono susseguiti a breve tempo i suicidi di 4 adolescenti, 3 dei quali erano ragazze, in una zona in cui il numero dei suicidi era già alto. Le statistiche riferirono di circa 200 persone che si suicidano ogni anno, e di circa 400 tentativi falliti. Un numero rilevante, per un paese di 3 milioni di abitanti. I giornali albanesi di allora additarono, tra le possibili cause, lo stress e la povertà, situazioni familiari difficili, la disoccupazione, l’indifferenza della società e la forte pressione per raggiungere il successo.
Avendo lavorato per un anno, nel 2002, a Gramsh, una cittadina di 15.000 abitanti dell’Albania centro-meridionale, ed avendo sentito, allora, di numerosi casi di suicidio nella zona, posso dire di aver toccato con mano il dramma dei e delle giovani albanesi, la loro perdita della speranza, la mancanza di un lavoro, i salari troppo bassi, come l’incomunicabilità con genitori e insegnanti. Un ulteriore fattore grava, però, sulle loro coscienze: l’opinione della gente, che non perdona, che condanna, e contribuisce così a rendere la realtà soffocante e, quindi, un luogo da cui fuggire. Ad ogni costo.

NEL CUORE ANTICO

Allontanandosi dalla capitale, ci si addentra sempre più nella vera Albania, quella dei villaggi e delle piccole città, dove la cultura e le tradizioni albanesi sono ancora ben radicate in ogni gesto della vita quotidiana. Sono i luoghi che il governo sembra aver dimenticato, o meglio, che conosce ma ignora. Gramsh è uno di questi. Piccola città nascosta tra le montagne (per giungervi da Tirana si percorrono circa tre ore di strade tortuose che attraversano una natura bellissima, fra monti e colline dai colori dell’autunno), dove bambini e vecchi portano al pascolo pecore e mucche, mentre uomini e donne, a piedi, a dorso di un asino o su un furgone, trasportano uova, frutta, verdura e polli vivi dai villaggi, per venderli al mercato. Il disagio e l’emarginazione, tra i giovani, è molto forte, a causa delle notevoli difficoltà sociali ed economiche che incontrano. Dopo la scuola (sempre che ci vadano), hanno ben poche prospettive: dedicarsi alla pastorizia, all’agricoltura, o trovare qualche lavoretto saltuario.
Al tempo del regime, tutta la zona di Gramsh fu scelta dal governo per mandarvi al confino chi non condivideva le idee del Partito. L’economia della città si basava sulla produzione di kalashnikov e di batterie, ma successivamente le fabbriche hanno chiuso ed oggi non c’è più lavoro per nessuno. I ragazzi e gli uomini passano parte delle loro giornate a bere al bar (i casi di violenza in famiglia causati dall’alcolismo sono purtroppo all’ordine del giorno), a giocare al biliardo o al bingo, spendendo quel poco che hanno in un gioco senza fine. Tutti tentano la fortuna con la lotteria americana, che fa vincere ai pochi fortunati un visto per gli Stati Uniti. La maggior parte delle famiglie cerca di sopravvivere con un sussidio economico statale di 3000 lek al mese – circa 25 euro – con il quale riesce a malapena a comprare la farina, il latte e poco altro. La carne si mangia una volta alla settimana, se va bene. In alternativa, formaggio, uova, pomodori, cetrioli, fagioli e byrek, una pasta a sfoglia sottile ripiena di formaggio, carne o verdure.

LA SCUOLA DI ARTAN

La corruzione è alta a tutti i livelli.
Artan, un ragazzo di 26 anni, mi raccontò: «Per passare gli esami alla scuola per corrispondenza, si deve pagare ogni esame. Ho dovuto mettere i soldi dentro al foglio ogni volta che ho sostenuto un esame scritto, e pagato l’insegnante sottobanco per gli orali. L’insegnante prende da parte uno studente e gli dice: “Oggi devi pagare 1.000 lek”. Poi lui lo riferisce agli altri esaminandi. Niente soldi, niente possibilità di passare l’esame. Qui siamo tutti uguali, sia i poveri sia i ricchi, quelli che noi chiamiamo intellettuali e che guardano dall’alto in basso chi, come me, non ha fatto la scuola».
Per chi si chiedesse dove possa trovare la gente comune tutti quei soldi per pagare l’istruzione come le cure mediche, dato che uno stipendio medio si aggira intorno ai 150 euro mensili, la risposta sta nel fatto che la gran parte vive grazie alle rimesse dei numerosi albanesi che vivono all’estero. D’estate, l’unica strada che taglia la città è tutta un viavai di macchine di grossa cilindrata e con targa straniera: sono gli albanesi che tornano a casa per le vacanze, che non possono fare a meno di dare sfoggio del cambiamento di status sociale raggiunto all’estero. Alcuni vengono solo per il periodo necessario per effettuare un matrimonio combinato, per poi ripartire con la fede al dito e l’attesa che la moglie (conosciuta e scelta in due giorni) abbia i documenti necessari per il visto per «Lamerica».
Emigrare resta il sogno di molti giovani, sia che provengano dalle città che dai villaggi. Quasi tutti quelli che ho incontrato, sia ragazzi che ragazze, mi dicevano spesso di voler rimanere in Albania, «per fare qualcosa per il mio paese, per la mia patria, per il futuro dei nostri bambini». Ma poi, parlando, rivelavano sempre il loro desiderio nascosto: quello di partire. Lasciarsi tutto alle spalle, cominciare una vita nuova. O meglio: cominciare finalmente a vivere.

I SOGNI DI XHON

Xhon (pron.Gion), un ragazzo di 30 anni di un villaggio del distretto di Gramsh, un giorno mi ha spiegato cosa volesse dire, per lui, essere albanese: «Tu puoi sperare di viaggiare, di fare esperienze in giro per il mondo, e sai che lo potresti fare, se lo volessi. Qui no. In Albania nessuno può attendersi una vita così, perché per tutta la vita si è come chiusi dentro a un guscio da cui non si può uscire. I sogni restano sogni, e questa mancanza di libertà crea la violenza, la dipendenza dall’alcornol, la spinta a partire clandestinamente per l’Italia, dove però tutto sarà diverso da come noi sogniamo, io lo so, me lo raccontano i miei amici che vivono là. Il problema a trovare una casa ed un lavoro perché albanesi; la difficoltà ad ottenere il permesso di soggiorno. Ma, nonostante questo, preferirei subire tutto questo, piuttosto che vivere morto dentro».
Xhon è uno dei tanti ragazzi che ha cercato di fuggire da una realtà soffocante, in cui non c’era lavoro e si faceva la fame. La sua prima meta è stata la Grecia. «La prima volta che ho cercato di passare il confine avevo 18 anni, nel 1995. Mio padre era sempre ubriaco ed io volevo i soldi per comprare la televisione ed i mobili per la casa. Dopo aver camminato a piedi per 3 o 4 giorni, siamo riusciti a passare il confine di nascosto. Vicino al confine c’era un monastero di suore ortodosse, dove mi avevano detto che ci avrebbero dato dei soldi se avessimo acconsentito di farci battezzare. Loro davano soldi a tutti quelli che si sarebbero fatti battezzare. E così fui battezzato in due giorni, io che non credevo manco in Dio.« Xhon è poi stato subito catturato dalla polizia greca di frontiera e rimandato in Albania. Ha poi tentato di tornarci una seconda volta, dormendo al gelo in mezzo alle tombe di chi, prima di lui, non era riuscito a passare il confine, e rischiando a sua volta di morire sulle montagne che lo separavano dalla sua «vita nuova». Riuscì a rimanere in Grecia un po’ di tempo per guadagnare qualcosa, prima di ritornare in Albania. Dopo aver lavorato per qualche anno per un’ong straniera della sua città, oggi sta tentando di andare in Italia. Dovrà trovare 3.000 euro per pagare qualcuno che, da intermediario, gli procurerà un visto falso (o vero, di un mese) per il Belpaese, «dove finalmente potrò sentirmi libero. Sono disposto a fare qualsiasi lavoro, l’importante è riuscire ad andare via da questo posto in cui non ho speranze di costruirmi un futuro. E poi penso che voi italiani siate più buoni, più aperti di noi, più umani. Noi albanesi siamo razzisti, abbiamo un razzismo interiore, una gelosia gli uni per gli altri che ci divide e ci ammazza, i bianchi dai neri (le persone di etnia rom, ndr), la gente del nord dalla gente del sud, gli intellettuali dagli ignoranti, i ricchi dai poveri. Sì, penso che voi siate più buoni».

«NON È LA RAI»

Spostandosi nella capitale, Tirana, si potrebbe avere l’illusione che per i giovani, qui, tutto sia diverso: le aspettative di vita, il lavoro, il modo di trascorrere il tempo libero, l’apertura mentale delle persone. Le vie brulicano di locali alla moda, molto simili a quelli europei. Passeggiando lungo il lago artificiale della capitale, di domenica pomeriggio, si incontrano numerose famiglie che vanno a spasso con i bambini (tanti), fra chioschetti che vendono pop-co, zucchero filato e semi di girasole, o si sdraiano su coperte adagiate sull’erba, mentre i più piccoli giocano a pallone. Sembra una bella immagine uscita dai miei ricordi di bambina, quando la domenica si andava a fare i pic-nic in montagna con i parenti. Di giorno Tirana sembra un arazzo, con quelle file di palazzi tinteggiati di rosa, verde intenso, giallo, blu e rosso porpora, a portare una ventata di allegria dove prima c’era un susseguirsi monotono di palazzoni del colore del cemento, tipici di tutte le città albanesi. Le immancabili parabole fanno capolino, maestose, dalle finestre e dai balconi di ogni palazzo, anche da quello più fatiscente, o dalla baracca del più povero, a ricordarci che qui il mito dell’Occidente passa attraverso la televisione italiana fin dagli anni ‘80, dai tempi di «Non è la Rai». Non a caso, molti hanno chiamato i loro figli con nomi italiani: Albano (Al Bano e Romina Power riscuotono ancora un enorme successo), Adriano, Raffaella, Gigliola. Ma anche Edison, Cristo e Sandokan. Nomi lontani da quelli dei loro nonni, che evocavano eroi nazionali, fiori e allegria: Mimosa, Rosa, Bellezza, Gioiello, Libertà.
La vita scorre veloce per le strade ancora piene di buche, il fango ti inzacchera le scarpe ad ogni stagione, e la polvere, insieme ad uno smog spaventoso, è capace di toglierti il respiro mentre attendi alla fermata un autobus che giungerà, come sempre, strapieno.
Il costo della vita è equiparabile a quello italiano, nonostante i salari siano notevolmente più bassi rispetto ai nostri. Eppure, la vita nottua dei giovani tiranesi, confinata soprattutto al block, è viva e intensa, con locali di tendenza in cui sorseggiare una bibita alcolica può costare una follia, se paragonata al salario medio del paese.

I VIAGGI DI MANDI

In meno di dieci anni, la popolazione della capitale è passata da 200.000 a 700.000 abitanti. Molte famiglie contadine provenienti dalle zone più povere del Nord si sono riversate qui, nella speranza di poter offrire un futuro migliore ai propri figli. Che invece continuano a sognare di scappare all’estero. Nel gennaio del 2004, nelle acque dell’Adriatico al largo di Valona affondò un gommone carico di disperati che provenivano soprattutto dal nord del paese. In Albania si respirava un clima di grande tensione ed indignazione. Gli albanesi erano stanchi di non avere la possibilità di ottenere un visto per espatriare regolarmente, e di veder morire la propria gente che per sfuggire alla miseria era disposta a rischiare la vita, mettendola nelle mani degli scafisti. A caro prezzo, davvero in tutti i sensi.
Mandi ha 22 anni. Già a 17 ha provato ad andare in Italia col gommone, pagando 700 euro trovati chissà come. «Era fine marzo. Sono dovuto stare in un hotel di Valona per un mese e mezzo prima di partire, perché per gli scafisti non giungeva mai il momento buono per partire. Poi una notte, alle 2 meno 10, siamo partiti. Avevo dato i soldi ad un socio dello scafista, loro si sarebbero poi divisi il compenso. Se il viaggio non fosse andato a buon fine, avrei avuto la possibilità di riprovare ancora 3 volte, prima di avere i miei soldi indietro. Erano presenti dei poliziotti, quando ci siamo imbarcati. Eravamo proprio scortati! Sul gommone eravamo in 37, un mio amico ed io, e delle prostitute accompagnate da alcuni ragazzi. Le ragazze non hanno mai aperto bocca, parlavano solo gli uomini. Uno di loro accompagnava la moglie del fratello. Alle 4 del mattino eravamo a Lecce. Sul gommone con noi viaggiava anche un uomo con il permesso di soggiorno italiano, che, una volta sbarcati, ci ha condotti, a piedi, in un villaggio lì vicino. Ma poi qualcosa dev’essere andato storto perché è arrivata la polizia, che ci ha caricati su un autobus e portati a Bari in una struttura per clandestini. Poi siamo stati tutti imbarcati su un traghetto che ci ha riportati a Valona, dove ci attendeva la polizia». Mandi è stato in Albania per circa un anno, poi ha provato ad andare in Grecia pagando 100.000 lek (800 euro), ma la Grecia non gli piaceva. Così ha provato ad andare in Inghilterra, pagando circa 2.000 euro per un visto Shenghen. «Non so se il visto che mi fecero sul passaporto fosse vero o falso, ma non mi importava, volevo solo partire». Non ce la fece ad entrare in Inghilterra, così dovette tornare. Volle ritentare un’altra volta, pagando 4.000 euro, ma i suoi genitori lo convinsero a restare. «Oggi andare in Gran Bretagna costa 8.000 euro, perché è molto difficile entrare». Mandi, oggi, lavora come tuttofare presso una missione cattolica da circa 4 anni. «Essendo entrato come clandestino, non ho il permesso per tornare in Europa fino al 2007. Mi piace il mio lavoro, ma io voglio fare i soldi, la vita qui costa cara ed i soldi non bastano mai. E quando incontro dei miei amici che invece sono riusciti ad andare all’estero, hanno lavorato e sono tornati, sono invidioso perché loro sono riusciti ed io no. Ma il prossimo anno potrò tentare di nuovo».
Ognuno con la propria storia, con il desiderio di raccontarsi, di condividere con me un pezzo della loro vita spesso sofferente. I ragazzi mi raccontavano della vita di Tirana, delle ragazze più libere di quelle di campagna, dell’opportunità di studiare, dell’ossessione di diventare qualcuno. Ma non tutti desiderano partire per sempre. Durante la sessione di esami per la certificazione della lingua italiana, il primo passo verso il sogno italiano, molti dei ragazzi e delle ragazze mi dissero di volersi iscrivere alle facoltà di giurisprudenza, oppure a quella di scienze politiche, «così poi too e faccio qualcosa per cambiare il mio paese». Chissà se poi toeranno davvero? È stato bello, però, sentire con quanto entusiasmo pronunciavano queste parole, con quanta voglia di combattere una corruzione che va avanti da anni, un sistema che invece di avanzare arretra, che lascia senza luce interi villaggi anche per 12 ore al giorno. Erano quasi tutti diciassettenni, dunque carichi di desiderio di cambiamento, sicuramente meno stanchi dei genitori, che ancora risentono dell’appiattimento perpetrato dal regime comunista e dei periodi che sono seguiti. In Italia bisognerebbe cercare di distruggere il pregiudizio dell’albanese dunque delinquente, oppure ballerino (sulla scia di una nota trasmissione televisiva).
In realtà, ho incontrato molte persone, con cultura, conoscenze, educazione e desiderio di fare qualcosa per la loro patria. Non a caso, le canzoni dei giovani rapper albanesi cantano di amor patrio, bandiera, orgoglio di essere nato albanese. O di aprire le braccia, mettere le ali e volare via. I giovani vogliono agire con i fatti, non solamente a parole. La loro carica interiore, i loro ideali sono solo un inizio, ma da qualche parte bisognerà pur cominciare per cambiare un paese. E chi meglio dei giovani lo può fare? Sicuramente il supporto dei «grandi» non deve mancare, solo loro possono aiutare i giovani a risollevare un paese.

CHE FARANNO I GIOVANI?

Nel 2004 ebbi occasione di partecipare, a Tirana, ad una tavola rotonda dal titolo «Giovani: problema o risorsa?». Mi rimase impresso l’intervento del rappresentante del parlamento dei Giovani, Endri Shabani. Dapprima affermò con rabbia che quando i giovani vengono maltrattati nelle ambasciate, o affogano nei mari tentando una traversata col gommone perché non c’è possibilità di ottenere un visto, essi non avranno mai la possibilità di fare confronti tra la loro società e quella europea, impedendo così alla loro di progredire. Infine concluse raccontando una storiella tipica albanese. Due giovani, giocando con una fionda nel bosco, colpirono un uccellino. Quando lo presero in mano, videro che questo era in agonia, ossia non era né vivo né morto. In quel momento giunse nel bosco un vecchio, che era considerato il saggio del villaggio.
Uno dei ragazzi, per infastidirlo, nascose l’uccellino dietro la schiena e gli chiese: «Dicci, o vecchio saggio, questo uccellino è vivo o morto?». Se il vecchio avesse detto che era morto, il ragazzo gli avrebbe dimostrato che era ancora vivo. Ma se il vecchio gli avesse detto che era ancora vivo, al ragazzo sarebbe bastato stringere un po’ le mani perché l’uccellino morisse. In entrambi i casi, il vecchio non sarebbe più stato considerato il più saggio del villaggio.
Il vecchio, però, nella sua saggezza rispose loro: «Il suo destino è nelle vostre mani». Endri Shabani terminò così il suo intervento: «Insegnanti, direttori, politici e chiunque abbia a che fare con i giovani, considerate il futuro dei giovani come un uccello in agonia, il suo destino si trova nelle vostre mani».

Elisabetta Borda




ISLAMICI, CATTOLICI, ORTODOSSI

Nel corso dei secoli, nella penisola balcanica si sono mescolate numerose etnie e religioni. L’Impero ottomano diffuse l’islam con la forza e la coercizione tra popolazioni tradizionalmente cristiane. Dal 1967 al 1990 l’Albania è stato un paese ufficialmente ateo. Enver Hoxha dichiarò illegale ogni culto religioso, ed ogni pratica religiosa fu messa al bando.
Nel novembre 1990, don Simon Jubani, aiutato da un gruppo di giovani, organizza la celebrazione clandestina di una santa messa, di notte, nel cimitero cattolico di Scutari. Molti dei partecipanti non raggiungono il cimitero per strada, ma passano dai cortili delle case. È dal 1967 che la celebrazione della messa è un reato punibile con la fucilazione. Meno di due mesi più tardi, la notte di natale, la santa messa viene celebrata di nuovo, nello stesso luogo. I fedeli presenti sono almeno tremila.
Dopo la caduta del regime comunista si ha un ritorno alla religione, che vede l’apertura di scuole cattoliche e scuole coraniche, accanto al culto della fede greco-ortodossa. Attualmente in Albania musulmani, cattolici e ortodossi convivono in un clima di tolleranza, al contrario di altri paesi balcanici. Le tre principali fedi religiose sono infatti l’islamismo (70% della popolazione, principalmente sunnita, dislocata in tutto il paese), la chiesa cristiano-ortodossa (18%, nell’Albania meridionale e centrale) e la chiesa romana cattolica (12%, nell’Albania settentrionale e centrale).
Il rispetto delle diverse religioni è sicuramente una delle caratteristiche dell’Albania. Viaggiando per il paese è possibile incontrare moschee, chiese ortodosse, cattoliche e protestanti. Gli osservanti più fedeli della religione islamica spesso si riconoscono dalla caratteristica barba, mentre le donne dal fatto che indossano l’hijab, il velo che ne nasconde i capelli, ma che in alcuni casi copre anche il viso. Pur essendo musulmani, però, tanti albanesi si dichiarano non osservanti.

In Albania, dunque, la convivenza tra religioni diverse è possibile. Il Centro di formazione professionale «Maria Mazzarello» di Tirana ne è la testimonianza. Il centro, gestito dalle suore salesiane, che dal 1992 operano nel paese con interventi volti alla promozione sociale ed alla formazione professionale dei giovani, è stato creato con lo scopo di migliorare le condizioni di vita dei giovani disagiati residenti soprattutto nelle aree periferiche della capitale.
I corsi per segretarie d’azienda, operatrici turistiche, di taglio e cucito, pasticceria e pizzeria, nonché i corsi pomeridiani di inglese e di informatica, rispondono in modo adeguato all’esigenza di formare professionalmente i giovani per poi aiutarli ad introdursi nel mondo del lavoro. Le suore, infatti, al termine dei corsi cercano sempre di aiutare gli studenti a trovare un impiego a seconda delle capacità e delle competenze acquisite. Sorprende ad esempio il fatto che, delle circa 40 ragazze che lo scorso anno hanno terminato i corsi per segretarie ed operatrici turistiche, quasi tutte hanno poi trovato un impiego. Ebbene, la maggioranza degli studenti che frequentano il centro sono musulmani, eppure questo non crea alcun problema, anzi, c’è un libero scambio di opinioni, idee e valori che accomunano i giovani e le suore, in uno scambio reciproco arricchente. La scuola cerca di rispettare quasi tutte le festività religiose: il natale, la pasqua cattolica e quella ortodossa, le feste musulmane.
Anche l’oratorio della missione è aperto a bambini e giovani senza discriminazioni di credo. Il sistema educativo di Don Bosco prevede il «tirar fuori» le potenzialità che ogni giovane si porta dentro, senza escludere nessuno. Don Bosco era solito dire: «In ogni giovane vi è qualcosa di buono». Non si educa imprigionando la libertà, e questo le suore del centro Maria Mazzarello lo sanno bene e lo mettono in pratica ogni giorno con i loro giovani.
Il centro è dotato anche di un convitto per le ragazze che vengono dai villaggi per frequentare la scuola, e non hanno la possibilità economica di prendere un appartamento in affitto. Anche le ragazze del pensionato, benché in gran parte cattoliche perché provenienti dal nord del paese, appartengono a religioni diverse, e convivono serenamente in un clima di grande rispetto. All’incontro settimanale che la direttrice del centro, suor Carolina, tiene con le ragazze del convitto, si parla di amicizia, tolleranza, paure ed amore. Temi che accomunano qualsiasi fede. Capita che le studentesse musulmane ospiti del convitto partecipino addirittura alla messa settimanale celebrata nella cappella delle suore, e preghino insieme alle compagne. Segno che la religione, qui, non conosce fanatismi, e che lo scambio sereno tra fedi diverse è possibile. Basta avere il coraggio di aprirsi e saper rispettare. Senza paura.

Elisabetta Borda




Un salto oltre i pregiudizi

La prima volta che venni in Albania, nell’ottobre di cinque anni fa, partii piena di pregiudizi e fantasie sul Paese delle Aquile ed i suoi abitanti. Ricordo che, mentre attendevo l’aereo che da Bologna mi avrebbe portata a Tirana, guardavo agli albanesi all’imbarco con una certa diffidenza. Il loro abbigliamento spesso fuori moda rispetto a quello italiano, le valigie un po’ sciupate, i clandestini sul mio stesso aereo che venivano rimpatriati, le ragazze col trucco pesante: tutto sembrava contribuire ad alimentare l’immagine degli albanesi che avevo acquisito dai media italiani. È facile, purtroppo, lasciarsi prendere dal senso di superiorità quando si è ignoranti, ovvero quando non si conosce. Io, allora, conoscevo quasi niente del popolo albanese, ed erano tutte immagini derivanti da ciò che i mass media volevano che vedessi.

La prima volta
Il Tupolev dell’Albanian Airlines (i cui interni non erano proprio in condizioni ottimali) mi portò direttamente all’aeroporto Nëne Tereza. Quest’ultimo, allora, era ancora senza nastro trasportatore per le valigie, che quindi venivano buttate alla rinfusa in un angolo, dove era bene affrettarsi a prenderle, prima che qualcun altro lo facesse impropriamente al posto tuo.
Mi bastò un mese per innamorarmi dell’Albania, un paese con tanta voglia di rinascere, di raggiungere, o almeno sfiorare con la speranza, l’Italia e quella ricchezza che emergeva dalla televisione italiana. Mi innamorai di Tirana, con le donne che vendevano banane in Piazza Skanderbeg, le biciclette appese sui muri fuori dalle finestre e tante parabole sui vecchi palazzi con la biancheria stesa.
A Fier e nei villaggi limitrofi fui accolta da famiglie poverissime, che mi donarono quel poco che avevano (l’ospitalità albanese non ha paragoni), e con le quali ho condiviso pranzi poveri di cibo ma ricchi di gioia nell’avere ospite un’italiana. Mi chiesero se fosse vero che tutti gli albanesi, in Italia, facevano gli ingegneri. Questo mi fece sorridere, mentre dentro di me pensavo come fosse semplice comunicare con loro anche senza conoscere la lingua: bastava «aprire il cuore», e tutti ci capivamo. Certo, la situazione economica e sociale era difficile e la vita faticosa, ma forse anche per questo nacque un’amicizia con una ragazza albanese che ancora oggi resta una delle persone a me più care: da me non si sentiva giudicata, con un’italiana poteva sfogarsi, senza sentirsi oppressa dall’opinione della gente capace di marchiarti a vita.
Dovetti lasciare l’Albania dopo solo un mese, con una grande voglia di tornarci ed un’immagine divertente di cui fui spesso spettatrice dal mio balcone: la gente che si puliva le scarpe nelle pozzanghere sotto il mio palazzo. Non ne capii l’utilità (la scarpa rimaneva comunque sporca, se non peggio), così come di tante altre cose di cui ancora oggi faccio fatica a cogliere il senso: il toccarsi il naso quando qualcuno ti fa un complimento, il leggere i fondi di caffè ogni giorno per indovinare il tuo destino, l’utilizzo del raki per qualsiasi mal di denti-gola-testa-schiena, da bere o da strofinare sulla parte dolente, o il pensare e dire la parola «Marshallah!» quando vedi un bambino o una donna bella, per scacciare il malocchio.

Il ritorno
Ed oggi eccomi di nuovo qui, questa volta a Tirana, esattamente cinque anni dopo. È il 3 novembre, giorno in cui i musulmani festeggiano la fine del digiuno del ramadan. Tutte le scuole sono chiuse, e così gli uffici pubblici. È una bella mattinata di sole, che ti mette di buon umore. Decido di uscire senza una meta precisa, col solo scopo di passeggiare ed osservare la vita albanese trascorrere intorno a me. È presto e l’aria è ancora fredda, ma come sempre le ragazze albanesi sembrano non sentire freddo o gelo, e passeggiano con pance scoperte, scollature vertiginose, jeans strettissimi calati sul fondo schiena e tacchi a spillo. L’ossessione delle ragazze albanesi di essere supersexy è davvero curiosa, e mi fa sentire sempre come fossimo in primavera, anche quando io, invece, indosso sciarpa, guanti e cappotto.
Mi dirigo subito ai giardinetti vicino a casa mia, di fronte allo Stadio Dinamo. Mi piace osservare gli anziani che chiacchierano tranquilli, tutti con cappello, vestito, camicia e gilet, seduti sulle panchine verdi e gialle. Mi da’ un senso di pace. Noto che alcuni di loro, mentre parlano, sgranano il rosario islamico. Chissà cosa significa… forse fa’ sentire loro che non sono soli, che Dio c’è, e che loro non se ne dimenticano.
Il rumore del generatore acceso del panificio nell’altro lato della strada, che insieme a molti altri fa un rumore infeale, mi ricorda che la luce non è ancora tornata, e che probabilmente staremo al buio ancora per molte ore, come ormai sta accadendo da circa un mese. Fortunatamente sono riuscita a trovare il lato positivo dello stare senza luce. Il bagliore dolce e tiepido della candela mi porta sempre a riflettere su alcune cose di me e della mia vita che, in condizioni normali, non trovo il tempo (o la voglia) di fare. Mi piace il silenzio ovattato creato dalla mancanza di musica, televisione ed altri rumori, e la penombra che si crea in casa mi ha aiutata in più di un’occasione a capire cose che, presa dalla frenesia di tutti i giorni, non avrei compreso altrimenti. E poi, i sette piani di scale a piedi che faccio ogni giorno quando manca la luce, è un’ottima ginnastica rassodante!
Dopo i giardinetti, decido di fare una passeggiata sul lungo Lana, ed è tutto un incontro di persone intente a svolgere le loro attività quotidiane: uomini che giocano a scacchi, con l’immancabile sigaretta accesa, donne che arrostiscono le caldarroste o le pannocchie sui carboni ardenti, uomini che vendono i pop-co o lo zucchero filato rosa, negozietti piccoli, ricavati nel muro, che vendono scarpe da ginnastica di tutte le marche – simili alle originali nell’aspetto, ma molto meno nella qualità dei materiali -, anziani che mi chiedono di pesarmi, e si stupiscono perché scatto loro una fotografia (spiegando ogni volta che, in Italia, noi ci pesiamo solo dentro le mura di casa), infiniti negozi di cellulari, ragazzini che vendono semi di girasole – le scale del mio palazzo sono ricoperte da mesi da un tappeto di semi sputati, immondizia che straripa dai bidoni, e cani randagi che vagano per le strade in branco o solitari.
Passo il ponte per entrare al block, le vie della capitale straripanti di giovani e di locali alla moda, di profumerie, negozi di abbigliamento e di cd musicali rigorosamente copiati. Rimango, come sempre, senza parole di fronte alle richieste insistenti di quei bambini sporchi, coi capelli arruffati, che vagano per le vie e si attaccano alle mani dei passanti, chiedendo soldi o qualcosa da mangiare. L’istinto è sempre quello di prenderli e portarli via con me. Semplicemente, vorrei stringerli, baciarli, accarezzarli. Vorrei che andassero a scuola; il diritto all’istruzione, al gioco, alla spensieratezza dell’infanzia, troppo spesso non è riconosciuto a tutti i bambini, specie se appartenenti all’etnia rom.
I bar, come sempre, sono pieni di giovani seduti che fumano e bevono un caffè (un albanese potrebbe anche metterci un’ora a sorseggiare un caffè).
Sono le 13 e comincio ad essere stanca, così mi incammino verso la fermata dell’autobus per tornare a casa. Mi piace che i giovani, sugli autobus, si alzino per lasciare il posto ai più anziani. Salgo sul «Tirana e Re» e mi seggo su un sedile vuoto. Subito la mia attenzione è catturata da una donna sulla sessantina seduta di fronte a me, tutta vestita di nero, con un foulard in testa, che mi guarda e sorride. Accanto a me, una giovane ragazza vestita all’ultima moda, con i capelli raccolti, gli occhiali da sole firmati e il trucco perfetto, fa scoppiettare un chewing-gum sotto i denti. Due immagini di donna all’apparenza contrastanti, la vecchia e la nuova Albania, chi ha vissuto i tempi del regime e chi li ha solo sentiti raccontare, chi ha la sopportazione scritta negli occhi scuri e chi il desiderio di cambiare tutto.

La luce manca da ore
Nel momento in cui giro nella via che porta al mio palazzo, lo sguardo mi cade sul fondo dei miei jeans: sono sporchi di fango fino ai polpacci, per non dire delle scarpe, tutte imbrattate anche loro come i miei pantaloni. Mentre mi chiedo come sia possibile, invece, che gli albanesi non siano mai sporchi di fango quanto me praticamente tutti i giorni, mi dirigo con disinvoltura verso la grossa pozzanghera che sta di fianco al mio palazzo e, senza pensarci, vi immergo le scarpe finché il fango non si scioglie, poi mi infilo nel portone e raggiungo l’ascensore. Sorrido alla vista di un cucciolo di cane, biondo e col muso lungo, rannicchiato all’interno dell’ascensore, in un angolo, tutto tremante e di una tenerezza disarmante. Non mi chiedo come sia finito lì. In Albania, in fondo, possono succedere cose sulle quali ho rinunciato da tempo a chiedermi il perché. E poi, che fastidio mi dà? L’ascensore è inutilizzabile: la luce, dopo 7 ore, non è ancora tornata.

Elisabetta Borda




Essere donna in Albania

Una sera d’autunno, lo scorso ottobre, stavo rincasando dopo una cena in pizzeria con un’amica albanese. Lo facevamo almeno una volta ogni quindici giorni. Ci incontravamo come vecchie amiche, anche se in realtà la conoscevo da appena un anno, e ci confidavamo giornie e frustrazioni. Dopo esserci salutate ad un semaforo sul lungo Lana, il fiume che attraversa Tirana, camminavo da sola a lato della strada, cercando di non cadere in un tombino aperto (qualche ladro davvero originale ha sottratto molti coperchi dei tombini della città). L’aria era tiepida e la solitudine del momento mi faceva rimuginare, come sempre prima che l’inverno, che in Albania tarda sempre ad arrivare, mi gelasse in qualche modo il pensiero.

Subordinazione femminile
Le storie sofferenti di tutte le ragazze e le donne incontrate in questi anni stavano diventando, per me, la normalità, come se fosse normale anche per me accettare che il loro destino fosse uno: rassegnarsi ad una violenza sottile di subordinazione della donna all’uomo, senza possibilità di cambiare le cose. Per uomo non intendo solo il marito, ma anche il padre ed i fratelli, i quali, in mancanza di quest’ultimo, ne prendono il posto a tutti gli effetti.
Tale subordinazione, però, sottintende ulteriori tacite sottomissioni della donna: alla famiglia del marito, ai doveri della brava donna di casa, e soprattutto all’opinione della gente. Quest’ultima è come una gabbia con la porta aperta: si potrebbe uscire, ma qualcosa lo impedisce. E quel qualcosa è insito nell’animo di ogni donna, non solo albanese, che, moglie e madre, fa di tutto per salvaguardare la sua famiglia. Per proteggerla, soccorrerla, difenderla, come solo una donna può fare. Quando gli uomini hanno cominciato ad emigrare per poter sopravvivere, le donne hanno continuato da sole a svolgere il duro lavoro nei campi, senza l’ausilio di alcun macchinario. Questa è la situazione dell’Albania di oggi, dell’Albania dei villaggi, in cui le donne, oltre al lavoro rurale, si occupano dell’educazione dei figli, mentre accudiscono i genitori anziani e pensano a come non far loro mancare il pane. Il tutto con poche ore di luce, ed a volte anche di acqua, al giorno.
Freddo, preoccupazioni e drammi interiori che non possono essere sfogati, portano la donna albanese a dimostrare quasi sempre molti anni in più rispetto alla sua età. Le rughe di espressione sono spesso forti, marcate, le sopracciglia prendono una piega particolare, le mani sono quelle di chi conosce il lavoro duro.
Nei villaggi, così come nella capitale, il controllo sulle donne è ancora molto forte. In molte famiglie, quelle più tradizionaliste, è il padre che deve dare il consenso alla moglie o alle figlie di parlare, soprattutto quando ci sono ospiti in casa, ed ha l’autorità di zittirle quando il loro parere non è desiderato. Capita che il padre, o i fratelli, impediscano alle sorelle minori di continuare gli studi in un’altra città dopo la scuola media, per paura che la ragazza faccia qualcosa di immorale. Anche il trasferimento a Tirana per lavoro è spesso impedito dai genitori della ragazza, perché non c’è fiducia.

Il matrimonio
La maggior parte dei matrimoni non sono d’amore ma combinati dai genitori o dai parenti del ragazzo e della ragazza, ed il fidanzamento ufficiale è d’obbligo per chi vuole vedersi con il proprio ragazzo. Non è possibile, dunque, stare un po’ insieme per vedere se si va d’accordo. Qualora la ragazza si recasse in altre città da sola o con un’amica, senza essere accompagnata da un cugino o un fratello, spesso verrebbe considerata poco seria dalla gente e dai vicini, dunque non più degna di rispetto. Alla stregua di una prostituta. Da qui, sarà difficile trovare un marito, e così la tipologia di uomo che la prenderà in considerazione andrà in ribasso a seconda della gravità della «colpa» commessa: uscire da sola, far tardi all’imbrunire, aver perduto la verginità, aver rotto un fidanzamento, aver divorziato. In questi casi, ci si potrà unire con uomini che hanno già rotto un fidanzamento, divorziati, alcolizzati, ex carcerati, o con un difetto fisico. Neanche a parlarne di fidanzarsi con un «intellettuale», termine che in Albania si usa per riferirsi alle persone laureate, colte.
In un paese in cui viene praticata la cucitura dell’imene per «ricostruire» l’illibatezza della ragazza, in caso di perdita della verginità prima del matrimonio, essere donne è stato ed è tutt’oggi molto difficile.
La ragazza che sposa il minore di più fratelli, per tradizione dovrà andare a vivere nella casa dei genitori di lui. E la convivenza con la suocera spesso mette a dura prova la coppia. Anche perché il ragazzo, abituato in precedenza a non avere doveri in casa, continuerà esattamente a perpetuare il comportamento maschilista appreso dal padre. Mentre la ragazza dovrà letteralmente sottostare agli obblighi nei confronti della suocera. Succede spesso che la coppia viva con i genitori del marito non solo per tradizione, ma anche perché il costo di una casa è troppo alto da sostenere quando si è solo in due.

Le illusioni televisive
Nei villaggi come in città, le strade si svuotano alle cinque della sera, ora in cui viene trasmessa una nota telenovela sudamericana. Anche «Amici» di Maria de Filippi resta un programma seguitissimo grazie alle parabole satellitari, insieme ad altre fiction italiane, che aiutano le ragazze a sognare un amore ed una vita diversi. È difficile convincere i giovani che le immagini foite dalla televisione non coincidono con la realtà. I loro occhi sono ancora troppo pieni di immagini della nostra Tv degli anni ‘80, delle ragazze di «Non è la Rai», dei college americani. L’abbigliamento delle ragazze di Tirana rispecchia molto quello delle nostre show-girl televisive: tacchi a spillo altissimi fin dal mattino, minigonna vertiginosa o pantaloni strettissimi a vita bassa, spesso si vestono per andare al lavoro come le ragazze italiane si abbigliano per andare, la sera, in discoteca. Non hanno compreso che noi ci vestiamo in maniera molto più semplice, che il mondo della televisione è, appunto, una «fiction». Ma a loro piace così: mettere in mostra la femminilità, e sentirsi estremamente alla moda, quella italiana naturalmente, anche se poi i loro vestiti sono spesso di qualità scadente. Una pura imitazione in tutto e per tutto delle tendenze d’oltremare.
Questo sfoggio della propria femminilità sembrerebbe cozzare contro le restrizioni imposte dalle famiglie. In realtà, sembra che questo non crei alcun disturbo, anzi, agli uomini ed ai ragazzi per strada o nei bar piace soffermare lo sguardo e fare apprezzamenti alle passanti che camminano, praticamente tutte, muovendo sensualmente le anche. Perché l’importante è salvare l’apparenza, non dar modo agli altri di sparlare di te. Ovvero salvare la facciata.

Un maschilismo duro da vincere
La famosa giornalista e scrittrice albanese Diana Çuli, una dei fondatori ed oggi presidente del «Forum indipendente delle donne albanesi», che lavora per la difesa dei diritti delle donne a tutti i livelli, scrivendo della donna albanese tra passato e presente, afferma che «l’identità si crea dentro la collettività, e spesso questo comporta anche dolore per quelli o quelle che vorrebbero cambiare le sorti e rompere i comportamenti rituali, cercando di non ferire il potere della morale della famiglia, del marito, padre e fratello – soggetti imbarazzanti – attraverso la ricerca di una soluzione morale. Si sta passando con fatica da un sistema chiuso ad un sistema aperto, in un percorso di ristrutturazione mentale».
Far sentire la propria voce è oggi più che mai urgente, in una società che continua a schiacciare le donne in nome di un maschilismo duro a morire.

Elisabetta Borda




QUALI SPERANZE PER L’ALBANIA?

Quando Madre Teresa, nel 1979, ricevette il Premio Nobel, si espresse così: «Ho sempre nel cuore il mio popolo albanese e prego Dio affinché la Sua pace ed il Suo amore siano nei nostri cuori, in ogni famiglia».
Madre Teresa era albanese. Se si segue l’evolversi della sua opera, si comprende che se non fosse stata albanese non sarebbe stata Madre Teresa, senza nulla togliere al valore dell’opera di Dio nelle vicende umane. Anzi, si potrebbe dire che Dio affidò questa sua opera proprio ad una albanese, perché ne conosceva bene le caratteristiche: la determinazione, la testardaggine nel perseguire quanto prefissato e deciso, l’instancabilità di fronte alle difficoltà di qualsiasi genere.
Madre Teresa era una donna albanese. Da quando misi piede la prima volta nel paese, nel luglio 1991, mi sono convinto che la speranza dell’Albania passerà attraverso la donna. Dalla catastrofe del comunismo feudale di Enver Hoxha, il quale, volendo proporre «l’uomo nuovo socialista» in realtà gli ha negato qualsiasi dimensione spirituale, la donna albanese è uscita molto più integra ed affidabile del suo compagno. Essa riesce ad essere più attenta all’essenziale e ad avere una visione meno dispersiva e più definita nel perseguire uno scopo. Questo sembrerà un’eresia a tanti uomini albanesi, convinti che solo l’uomo sia capace di prendere buone decisioni. Parlo delle convinzioni che mi sono fatto in questi anni e parlo soprattutto di un paese che ha il suo futuro solo nell’integrazione europea. Ad accompagnarlo su questa strada, penso che le donne albanesi avranno più successo degli uomini.
Madre Teresa era una donna albanese «emigrante». La valorizzazione dell’esperienza migratoria albanese è un elemento determinante, sia per fondare su basi sicure e solide la definitiva rinascita del paese, sia nel facilitargli il percorso dell’integrazione.
Ora toccherebbe alla politica intervenire per prima sul fenomeno migratorio, con misure che ne contrastino, nel medio termine, i risvolti negativi che pure esistono. Innanzitutto nel valutare la capacità del paese a «rincorrere» il cammino dell’Europa. Bisogna non dimenticare mai che l’emigrazione ha interessato il 20% della popolazione albanese (dato ufficiale del censimento del 2001), cui va aggiunta l’alta percentuale di famiglie della migrazione intea, non inferiore al 12-13%. Ora bisognerebbe immaginare cosa potrebbe succedere in Italia se emigrassero 11 milioni e mezzo di abitanti ed allo stesso tempo altri 7 milioni abbandonassero la campagna per la città…
Oltre a questi dati, poi, occorre considerare anche che il 56% degli emigrati albanesi ha il diploma di scuola media superiore ed il 12% la laurea universitaria. Il paese, cioè, deve anche fare i conti con una disponibilità di energie e di competenze limitata e con la mancanza di stabilità sociale intea.
Il ritorno degli emigrati sarà un elemento di grande importanza per lo sviluppo del paese, perché potranno mettere a disposizione le competenze acquisite, il valore delle relazioni intessute, i loro capitali e dare un impulso definitivo e stabile alla crescita economica e sociale. Di estrema importanza, inoltre, è il loro patrimonio di esperienza nei diversi paesi in cui operano normalmente le forme organizzate della cosiddetta società civile.
La speranza di domani, infine, non può non tener conto anche della necessità che le istituzioni inteazionali assumano un atteggiamento meno superficiale nei confronti di popoli poco conosciuti (e per questo spesso anche poco apprezzati) come gli albanesi. Mustafà Nano, stimato opinionista albanese, sinteticamente dice: « …il dilemma è che noi vogliamo entrare in Europa, ma non siamo capiti dall’Europa».

Pier Paolo Ambrosi




Le pietre scartateL’esperienza della cooperativa Agape (2)

Una società malata di competitività sfoa sempre più persone con disagi affettivi e di comportamento. Troppe sono le «pietre scartate» verso le quali deve andare la solidarietà del credente. Occorre agire affinché, in terra, il «paradiso» non sia accessibile sempre e soltanto ai soliti fortunati.
«La pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo, ecco l’opera del Signore» (Salmo 118, 22-23).
Le parole del salmista, che si ritrovano anche nel vangelo di Marco (12, 11-12) sono fondamentali per chi, come i missionari in qualsiasi momento e in qualsiasi situazione, desiderano proclamare il «Regno di Dio», non solo a parole ma soprattutto con i fatti, incominciando dagli ultimi.
Le pietre scartate non sono «privilegio» del Sud del mondo; chi osserva con occhio attento e vigile può facilmente constatare che la loro presenza è ovunque nella nostra quotidianità.
Papa Giovanni XXIII ci ha spiegato nella «Pacem in terris» che i segni dei tempi non sono segni posti da Dio nel cielo, ma cose compiute dagli uomini sulla terra. In questa enciclica il Santo padre elencava tanti aspetti positivi del momento storico che si viveva; ma c’è anche il retro della medaglia, ci sono gli eventi negativi compiuti dagli uomini, da noi tutti, che seminano abbandono, disprezzo, segregazione. Sono segni presenti nella nostra società che continuamente provoca «pietre scartate» verso le quali siamo chiamati ad annunciare, con interventi di accoglienza, la Buona notizia del vangelo.
Le case di frateità «Agape, Madre dell’accoglienza» sono luoghi in cui si concentrano le più diversificate storie di disagio e dissocialità: situazioni precarie, che producono marginalità e disturbi di comportamento e di personalità. Sono povertà estreme dove l’affetto e l’accoglienza sono state bandite. Sono storie frutto di una società sempre più egoista ed edonista dove vale solo il bello, il vincente, il tornaconto economico. In questa piramide, in negativo, sono tanti gli esclusi che popolano il nostro quotidiano, il cristianesimo si è ridotto ad una etichetta invece di un coinvolgimento con il cuore e un impegno di vita. Davanti a questa urgenza dilagante c’è bisogno di persone che sappiano «curvarsi» davanti al fratello ferito e abbandonato ai cigli delle strade. L’evangelista Luca attraverso la parabola del «Buon samaritano» ci presenta l’essenzialità del vangelo con le parole finali della parabola: «Va’ e anche tu fa lo stesso» (Lc 10,37).
Don Milani, il priore della Barbiana, davanti ai suoi ragazzi «montanari», segregati ed esclusi dalla scuola ufficiale e senza possibilità di inserimento nella vita sociale, aveva coniato il motto «I care» (mi interessa!). Gli interessava la vita di quei singoli ragazzi che vivevano nell’abbandono e nell’esclusione, ne fece la sua forza profetica con una adesione e un compromesso personale e rispondendo ad una sfida del suo tempo.
S. Giuseppe Cafasso, patrono dei carcerati e «perla del clero italiano», definisce le pietre scartate, (i condannati a morte) «i miei santi impiccati». Il suo eroico ministero e la sua vicinanza fisica a questi assassini incalliti, a questi derelitti della società, donò a ciascuno di loro, l’esperienza della solidarietà iniettando nei loro cuori la speranza evangelica che Gesù ci ha donato dalla croce: «Oggi sarai con me in paradiso». La gratuità della salvezza è di tutti. Il Cafasso ha sempre insistito, nella formazione del clero del suo tempo, affinché ogni azione di preghiera, di studio, di impegno del vissuto nella semplicità dell’ordinario senza cercare lo straordinario, formassero la vita e coniassero lo spirito dei futuri pastori in profondità! Bisogna avere sempre come obiettivo i bisogni del tempo, del luogo e soprattutto delle persone. Nella carità non c’è spazio per sfaccendati e accidiosi; la forza dei santi e dei profeti è soprattutto di «dire e fare». Davanti al pericolo di tante parole… «Signore, Signore», S. Giacomo ci allerta: «Come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta» (Gs 2,26).
Ad ogni cristiano dovrebbe interessare la vita dei fratelli dimenticati che il vangelo mette ai primi posti. La società, malata di primi posti per emergere e di competitività sfrenata per ingordigia, sfoa continuamente e sempre più forme di disagio affettivo e disturbi comportamentali, il «paradiso terrestre» promesso a tutti è accessibile solo ai soliti fortunati. La solidarietà senza misura, traboccante e continua per gli ultimi della terra, gli amici di Dio, è la risposta e l’impegno di tutti coloro che hanno cercato il Signore con cuore sincero.
«Agape, Madre dell’accoglienza» è un impegno, un tentativo di risposta a chi si trova in difficoltà psichiche vivendo esclusioni e segregazioni. Persone che gridano il loro dolore e che sono definite disturbate e pericolose, sono messe al bando il più delle volte anche dalle proprie famiglie.
Desideriamo dire a questo mondo isolato, calpestato ed escluso che ci «interessa, ci sta a cuore» la loro dignità di esseri umani fragili e bisognosi di accoglienza. Una fragilità che si incontra con la nostra fragilità fatta di paure, di prevenzioni, di fughe e di trascuratezza. Il vangelo di Marco nel capitolo 5, 1-20, ci parla di Gesù che incontra il «folle»; un uomo aggressivo, isolato dagli altri, che provoca paura… Gesù si avvicina, lo incontra, lo sguarisce, lo libera, lo riabilita… rompe il cerchio della solitudine e dell’esclusione nello stargli accanto ascoltando il suo grido, accogliendo il suo bisogno e rispondendo alle necessità di affetto.
La vita umana vale più di ogni altro bene, lo scriviamo sui muri, nei libri, sulle magliette, negli slogan pubblicitari, lo sosteniamo anche con il referendum, ma davanti al fratello bisognoso, che chiama e grida rispondiamo come Caino: «Sono forse io custode di mio fratello?» Gn 4,9. La sopravvivenza di chi si trova nella difficoltà non fa parte del nostro impegno di vita e deleghiamo ad altri le responsabilità. Molte volte la ricerca smodata di rituali eccessivi, inebriata dal fumo dell’incenso, da canti sofisticati, perfino con l’eccessiva abbondanza di suppellettili liturgiche… può appagare il nostro ego e il nostro contatto con Dio che costruiamo a immagine e somiglianza di noi stessi, facendoci dimenticare il fratello bisognoso, abbandonandolo proprio sul sagrato del tempio in cui ci rifugiamo.
Il nodo della questione è il nostro coinvolgimento personale, «metterci del proprio», non tanto in soldi o intenzioni, ma mettendoci del proprio tempo e del proprio cuore. «Mettersi in gioco» per difendere la sacralità di ogni vita umana soprattutto quella debole, quella che da sola non si regge, quella che più riflette l’amore e la fragilità di Dio incarnato in mezzo a noi nelle sembianze e nei cuori di questi fratelli «speciali». Molte volte la paura ci paralizza, l’egoismo ci frena e la nostra arroganza ci fa cambiare strada perché percorrere la strada di Gerico porterebbe a cambiare l’itinerario della nostra stessa vita, questo disturba troppo il nostro quieto vivere che difendiamo ad oltranza.
Nelle frateità «Agape» si cerca di celebrare la fragilità della vita così com’è davanti alla mensa quotidiana con le giornie e dolori di tutti e davanti all’Eucaristia domenicale avvolta dalla ragnatela di tanti nostri dubbi ma soprattutto vissuta come evento ci rinnova la forza della solidarietà con la certezza che Dio continua a camminare con noi nei sentirneri dubbiosi della vita come fece con i discepoli di Emmaus.
È un lavoro impari per le nostre forze e le tante debolezze che accompagnano gli operatori, i volontari, i professionali, ma tutti desiderosi di fare, di buttarsi sporcandosi le mani e purificando il cuore, tutto questo con la certezza che Dio ama ogni vita e aiuta i cuori generosi. È un lavoro non facile per nessuno; ogni giorno bisogna ricostruire quello che si è tentato di realizzare il giorno prima. È come la tela di Penelope che di giorno si fa e di notte si disfa. Ogni mattina c’è l’impegno di ricominciare! Proprio come fa il Signore con ciascuno di noi.
San Vincenzo de’ Paoli ha detto: «Donare fa bene, soprattutto a colui che dona». Intraprendiamo questa gara a fare del bene. Ne usciremo più ricchi davanti a Dio, soddisfatti con noi stessi, utili e necessari a chi ne ha bisogno.

Orazio Anselmi




Ma che missione è lavorare con i «matti»?

Questa domanda mi viene rivolta spesse volte da molti colleghi e da tanti amici. Domanda che spesso mi pongo e a cui rispondo semplicemente: «… e perché no?». Certamente non sempre è facile lasciare situazioni ed organizzazioni scontate come varie attività di animazione missionaria in parrocchie o nelle scuole, uscire da strutture protette come gli oratori e le case religiose. Può sembrare non logico, certamente «non è normale». La vera pazzia è proprio questo cambiamento: «Mettersi in gioco», 24 ore al giorno. È un ritmo che ti cambia la vita, i programmi, le abitudini. Certamente erano ritmi incalzanti anche quando si lavorava nelle «favelas brasiliane»; però, ogni tanto, esisteva qualche parentesi, momenti per sé. Interagire con la «pazzia» ti prende a tempo pieno, a tutto raggio, a 360 gradi.
Ad ogni momento fatti e situazioni «provvidenziali» possono bussare alla tua porta con tutta la loro drammacità e repentinità ed hanno il sopravvento su tutto. Si cambia continuamente scenario: la notte si trasforma in giorno; una festa in dramma da pronto soccorso; l’euforia di momenti felici in una caduta libera d’angosce senza precedenti.
Le giornate sono piene d’imprevisti e di non soluzioni che ci avvicinano, in parte, ai tempi di stare con i poveri delle periferie del mondo; il tuo tempo, le tue cose cessano di esistere, ci si trova davanti al grande vortice dell’immediato, si nuota in balia del necessario, si interviene nella necessità di «tutti per uno». Il lavoro quotidiano con i «nostri amici», membri esclusi della nostra società, dove anche le proprie famiglie abdicano davanti ad un impegno troppo eccessivo, diventa un lavoro continuo, di giorno si costruisce e di notte il più si disfa. L’unica certezza è che ogni giorno c’è da ricominciare… Ogni mattino non si sa come sarà la sera. Ogni sera non si coglie quasi mai i segni di come sarà il risveglio.
«Tutto è grazia», diceva Beanos nel suo romanzo «Il curato di campagna». Questo lo possiamo sostenere anche noi! Possiamo dire che «tutto diventa provvidenziale«, in cui esistono pochi «distinguo», dove non c’è spazio per «ripudi o delazioni«. Di fatto, tutto è possibile, in ogni momento e a qualsiasi ora, proprio come la «provvidenza«.
Madre Teresa di Calcutta ci invita a sentirci delle «piccole matite« nella mano di Dio, possiamo scrivere perfino qualcosa di interessante, ma è sempre il Signore che ci guida. Don Tonino Bello pone l’accento dicendo che: «Vivere non è trascinare… strappare… rosicchiare la Vita. Vivere è aver la certezza di avere un partner grande come Dio».
Con queste certezze possiamo rilevare che è il Signore colui che ci dona i poveri, i pazzi, gli ultimi. Tutto questo ci è stato dato probabilmente per incanalarci nell’unica via della salvezza attraverso la carità, vissuta e servita nell’umiltà e nella mitezza di cuore, senza trascurare la perseveranza quotidiana.
In ogni momento, in ogni situazione, in ogni luogo geografico il Signore ci attende e ci fa passare per la « via di Gerico». A noi rimane la scelta di fuggire, cambiare strada… o l’impegno di fermarci e chinarci presso il fratello bisognoso che ci immette nel progetto della salvezza trovando il senso della nostra vita e quella degli altri.
Per un missionario è sempre l’ora della «carità». Credo che sia una delle cose più belle e significative riuscire a mescolare la propria vita con quelle dei fratelli bisognosi; sono tante «pietre scartate« che il Signore pone sul nostro cammino.

Orazio Anselmi




Matti come loro o come noi?

Quando McMurphy domanda all’amico Harding quale sia lo scopo della terapia con l’elettroshock, questi gli risponde: «Ma per il bene del paziente, si capisce. Tutto quello che fanno qui è per il bene del paziente. (…) Non sempre si ricorre all’Est (Elettro-shock-terapia, ndr) a titolo punitivo, come è solita fare la nostra infermiera, e nemmeno si tratta di puro sadismo da parte del personale. Numerosi malati ritenuti inguaribili sono stati riportati in contatto con la realtà grazie all’elettroshock, così come altri hanno fatto progressi con la lobotomia e la leucotomia. L’elettroshock terapia presenta alcuni vantaggi: è poco costosa, rapida, del tutto indolore. Causa soltanto una sorta di attacco epilettico».
Sono righe tratte da Qualcuno volò sul nido del cuculo, romanzo (1) ambientato in un ospedale psichiatrico dell’Oregon, ma è dall’Italia che conviene partire quando si parla di disagio mentale. La psichiatria italiana è infatti nota a livello internazionale per le innovazioni introdotte con la riforma della legge 180 del 1978, anche nota come «legge Basaglia», dal nome del suo ideatore.
Diceva lo psichiatra veneziano (2): «La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere». E ancora: «Il manicomio è nato storicamente a difesa dei sani. Le mura servivano, quando l’assenza di terapie rendeva impossibile la guarigione, ad escludere, isolare la follia perché non invadesse il nostro spazio» (3).
Quella di Franco Basaglia è stata una riforma rivoluzionaria e, come tale, anche oggetto di critiche. Ma quasi sempre non a causa dei suoi contenuti, bensì per la sua inadeguata applicazione (4).
«Scrivo ancora contro la legge 180. Quando finirà questa pagliacciata della libertà obbligatoria? I matti non li vuole nessuno e, abbandonati a se stessi, si stanno estinguendo. Sì, estinguendo, ma per suicidio o ricovero in manicomio giudiziario. E soprattutto quello che fa schifo è che vogliono far passare questa situazione per liberatoria. Il sottoscritto, dopo 9 ricoveri “volontari”, non sa più dove sbattere la testa. E così tanta gente che conosco e che non fa altro che ripresentarsi tutte le settimane ai centri di igiene mentale. Vi piace la libertà? Tenetevela, ma per piacere ridateci la possibilità di difenderci da voi normali, di mettere un muro tra noi e voi».
Non sappiamo se questa lettera, apparsa sul quotidiano la Repubblica nel 1988, sia stata effettivamente scritta da un paziente o invece sia soltanto il prodotto di un oppositore della legge Basaglia. Ciò non toglie che essa, nella sua crudezza, descriva un problema possibile, che di norma nasce quando la 180 è applicata male.
«La malattia psichiatrica – scrive Benedetto Saraceno, direttore del Dipartimento salute mentale e tossicodipendenze dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms/Who) – ha caratteristiche che la rendono diversa dalla maggior parte delle altre malattie e, dunque, l’uguaglianza tra i cittadini (e tra i cittadini malati) va ricercata nella uguaglianza di diritti e opportunità, ma non nella uguaglianza delle risposte assistenziali. Un malato psichiatrico non ha bisogno di “letti in ospedale”, ma di opportunità di vita alternative all’ospedale e spesso anche alla famiglia di origine; ha bisogno di residenzialità, di lavoro, di presa in carico, di affetto, di autonomia».

L e patologie mentali sono correlabili al contesto sociale ed economico nel quale si vive? La risposta pare affermativa. Ad esempio, si è visto che le psicosi migliorano più facilmente nei paesi in via di sviluppo, ove il contesto comunitario è più accogliente e i meccanismi di esclusione meno rigidi (5).
Secondo lo psichiatra statunitense Richard Waer (6), il cambiamento di ruolo, la perdita di status e l’incertezza occupazionale possono accrescere il rischio di sviluppare la schizofrenia. In particolare, per alcuni gruppi, come gli «scolarizzati disoccupati» nei paesi industrializzati, i «poveri urbanizzati» nei paesi in via di sviluppo.
Nei paesi ricchi si è trovata una possibile, parziale soluzione con gli psicofarmaci (si veda la tabella di pagina 31). Ad essi si fa sempre più ricorso, a volte perché sono utili, a volte perché fortissima è la pressione delle multinazionali farmaceutiche.
Nel gennaio del 2003 la «Food and Drug Administration» (Fda), l’agenzia federale che vigila sulla salute degli statunitensi, ha dato il via libera alla somministrazione del Prozac, il più famoso dei farmaci antidepressivi, a bambini e adolescenti dai 7 anni in su (7). Molti specialisti hanno messo in guardia sugli effetti collaterali (tra cui una diminuzione della crescita) derivanti dall’assunzione dell’antidepressivo. Altri hanno applaudito alla novità. Altri ancora hanno trovato una risposta certamente più banale ma senz’altro molto vera: la Eli Lilly, l’azienda statunitense produttrice del Prozac, aveva necessità di allargare i confini di un mercato ormai saturo.

S ono passati più di duemila anni da quando Aristotele e Galeno spiegavano la follia a partire dallo squilibrio dei quattro umori presenti nel corpo umano: sangue, flegma, bile gialla e bile nera. L’eccesso di uno di questi umori veniva considerato la «causa» della follia.
Oggi, a guardare il mondo che ci circonda, nella dialettica normalità-pazzia vale la saggezza di Bertoldo (8). Quando il re gli chiede: «Qual è la più grande pazzia dell’uomo?», Bertoldo risponde: «Il reputarsi savio».

Paolo Moiola