L’impegno sociale…«è rock»

Intervista a Bono, leader del gruppo musicale «U2»

Folgorato dal successo, la rockstar Paul Hewson, meglio conosciuto come Bono, non ha mai dimenticato le sue umili origini. Da molti anni, la sua forte coscienza sociale lo ha portato a schierarsi in difesa dei più poveri del mondo, mettendo a loro servizio le sue due grandi passioni, tipicamente irlandesi: religione e musica.

A Dublino, in Earl Street North, c’è un negozio di articoli acustici: il Bonavox Hearing Aid Store. Un giorno, Derek Hanvey detto «Guggi», del gruppo punckettaro The Villane, e Paul Hewson voce solista degli Hype, passarono di fronte alla piccola vetrina in cui erano esposti coetti acustici. Guggi guardò l’insegna ed ebbe una folgorazione: ricordando che bonavox in latino significa «bella voce» scelse di affibbiare questo soprannome al suo amico Paul. Il giovane Paul Hewson, gradì il nomignolo, abbreviandolo in Bono, pseudonimo con cui, di lì a pochi anni, diverrà famoso in tutto il mondo.
Pochi mesi dopo la passeggiata in Earl Street North, il cantante dei Radiators, Steve Rapid, propose agli Hype di cambiare il nome del loro gruppo, scegliendo un nuovo sostantivo dal doppio significato: U2. U2 erano gli aerei spia americani, utilizzati nella Seconda guerra mondiale; ma la fonetica inglese, «iu tu» può essere interpretata anche come «you too», «anche tu».
Anche tu sei partecipe di tutto quello che sta accadendo; anche tu porti le responsabilità delle catastrofi che attanagliano il mondo; anche tu hai la possibilità e il dovere di combattere per un mondo più giusto e dignitoso… Anche tu non ti devi tirare indietro…
Il binomio U2-Bono è oramai consolidato sia nel mondo musicale che in quello dell’impegno umanitario. Abbiamo incontrato Bono durante una pausa nella touée mondiale dell’ultimo album pubblicato, How to dismantle an atomic bomb (Come smantellare una bomba atomica).

Lei si dice contrario al mondo delle corporazioni e multinazionali, ma il suo gruppo nel 2004 ha sponsorizzato l’uscita dell’iPod della Apple. Non c’è una contraddizione di fondo?
La musica deve andare al passo con la tecnologia e non rimanere al palo, pena la sua sclerotizzazione. Inoltre, noi non sponsorizziamo l’iPod in sé, ma l’U2-iPod, che è anche un nostro prodotto perché contiene le nostre canzoni.

Cosa rappresenta la musica per lei?
La musica è il mio modo di parlare al mondo, ai giovani. Non dimenticherò mai le mie origini: il buco in cui a 17-18 anni suonavamo, il fatto che al di là degli stadi, del mondo in cui vivo ora, c’è un altro mondo fatto di povertà, miseria, disperazione.

Lei è ricco, famoso, ma al tempo stesso non dimentica le sue umili origini. Chi vuole rappresentare?
Rappresento quei paesi che, per pagare gli interessi dei loro debiti, non possono finanziare scuole, ospedali, istituti di ricerca. Rappresento quei milioni di persone che sono malate di Aids e che muoiono di fame.

Perché, secondo lei, gli Usa e gli stati più ricchi dovrebbero finanziare la ricerca sul vaccino dell’Aids e appoggiare le aziende farmaceutiche che producono farmaci inibitori del virus a prezzo inferiore?
Perché è una questione di sicurezza mondiale e perché combattendo questa battaglia, che a differenza di altre può essere vinta, l’immagine dell’Occidente può venire riabilitata agli occhi del terzo mondo. Viviamo in un mondo dove ogni giorno 6.500 africani muoiono a causa di una malattia che potrebbe essere debellata. Riportare un minimo di giustizia: è questo il risultato che mi prefiggo di ottenere.

Ha fiducia nei politici?
Sono cresciuto in un mondo che odiava e non aveva fiducia nei politici. Quando cresci in una famiglia povera, in un quartiere emarginato e dimenticato, non credi più alla politica. Vorresti distruggere tutto. Ma oggi ho in loro maggiore fiducia, perché la facilità delle comunicazioni, i mass media meno ossequiosi costringono i politici a mostrare i fatti, oltre che le parole.

Questo è il suo parere; quello dell’opinione pubblica forse è meno ottimistico…
Ed è qui che dobbiamo lavorare: la gente non ti darà un centesimo se non è sicura che i soldi che elargirà vadano a buon fine. Oppure te li darà una volta, ma poi chiuderà la sua borsa. La gente sa che la corruzione è un grande problema in Africa. È per questo che non chiediamo soldi se non siamo sicuri dove vadano a finire. Sono sicuro che la gente è generosa. Prendiamo gli esempi di interventi che hanno avuto successo, come in Senegal, Mozambico, Tanzania: qui i governi hanno accolto con favore le richieste di aiuto e si sono prodigati per creare servizi utili alla popolazione.

Eppure molti governi africani, come quello etiopico, sudanese, ugandese, rwandese, non dimostrano certo di voler ripristinare la democrazia o combattere la corruzione.
Il governo britannico ha bloccato ogni aiuto ad alcuni di questi governi. Ma sono anche dell’opinione che gli aiuti umanitari non debbano essere subordinati allo stabilimento delle regole democratiche in uno stato. Chi è in difficoltà deve avere la possibilità di essere salvato e questo è il nostro compito.

In che modo il suo impegno umanitario si è radicato in lei divenendo la sua filosofia di vita?
È la disperazione di un padre etiope, che mi ha supplicato di prendere con me la sua bambina di pochi mesi, affinché sopravvivesse alla carestia, che mi ha convinto di dedicarmi alla causa umanitaria. In lui ho visto Gesù Cristo.

Chi pensa sia Gesù?
Penso che sia il figlio di Dio. Lo penso, per strano che possa sembrare.

Come si sviluppa il suo rapporto con la religione?
Per ogni uomo arriva il periodo di vita in cui inizia a riflettere su se stesso, sul fatto che un terzo della popolazione soffre la fame e che tu sei un cantante di un gruppo superpagato. Sono contraddizioni, come forse lo è la nostra sponsorizzazione all’U2-iPod o la mia amicizia con Soros o Bill Gates. Ma sono queste contraddizioni che generano nuova vita. E allora mi affido a Dio. Penso che Dio non è definibile dall’uomo. È più grande, più vasto, più profondo di qualunque pensiero l’uomo possa avere su di lui. Se cerchi Dio, cercalo tra i più poveri, lì lo troverai. Sono credente e voglio portare un po’ di paradiso su questa terra.

Lei ha incontrato Giovanni Paolo ii. Cosa ricorda di quell’incontro?
Grande uomo, grande religioso. Non sono d’accordo con le sue posizioni sulla contraccezione e lui lo sapeva, ma abbiamo parlato delle cose che più ci univano che di quelle che ci dividevano. Abbiamo parlato dell’impegno umanitario, del debito pubblico, della guerra in Iraq e in Afghanistan. Lui si è fatto fotografare con gli occhiali che gli ho regalato ed io porto la copia del suo rosario; quella originale l’ha voluta tenere mia moglie Ali. Mi ha anche fatto i complimenti per i nomi dei miei figli, tutti nomi biblici: Eva, Giordano, Elia e Giovanni.

Come le è venuta l’idea di sventolare la bandiera bianca al Live Aid del 1985?
Sono irlandese e nell’Irlanda del Nord si sta combattendo un vero e proprio conflitto che ha causato migliaia di morti. So cosa significa vivere in un paese diviso e in guerra. La bandiera bianca, drenata da ogni colore, simbolo di purezza e di resa, cioè di pace perfetta, mi ha permesso di esprimere ciò che volevo dire con le mie canzoni in altro modo, forse più plateale e visibile a chiunque.

Lei si reputa un politico, un musicista, un operatore umanitario o semplicemente un idealista?
Mi piacerebbe considerarmi un operatore umanitario che fa della musica. A destra mi criticano perché mi considerano di sinistra; viceversa, a sinistra mi criticano perché «flirto» con politici di destra, come Bush o con i repubblicani americani. Ma io non mi interesso di politica. Mi interessa aiutare chi soffre, gli ultimi, per dirla con parole cristiane. Quello che è accaduto negli anni ‘80, è stato disastroso, perché tutto si muoveva in base alle ideologie, sia di destra che di sinistra. Oggi non hanno più senso. È chiaro che il marxismo-leninismo, nato sull’onda della rivoluzione industriale dell’Ottocento, non può più essere applicata al mondo odierno, anche se questa idea venisse rivisitata. Ma anche il liberalismo, con l’economia capitalista, è ormai desueta e sorpassata.

Allora cosa ci rimane?
La religione. Nella bibbia ci sono più di 2.100 versetti che parlano della povertà. Le folle che papa Giovanni Paolo ii portava ogni volta che si muoveva erano ben più numerose di quelle che possono mobilitare i concerti degli U2 o di qualsiasi gruppo musicale sulla scena mondiale.

Cosa pensa di Bush? Di recente l’ha elogiata, dicendo che in lei apprezza il fatto di utilizzare la sua celebrità per compiere opere buone.
Bush è un politico intelligente e, sorprendentemente, molto spiritoso. Ha accettato di aiutare la causa per cui si batte l’organizzazione da me co-fondata, la Data, facendo approvare al Congresso americano una legge che stanziava 485 milioni di dollari per la lotta all’Aids. È stato il programma di cura e prevenzione dell’Aids mai lanciato prima in Africa e ha avuto un successo straordinario; ma è solo l’inizio. I governi occidentali non stanziano sufficienti fondi per la lotta a quella che chiamo la nuova lebbra del xx secolo, l’Aids, o non stanziano fondi per finanziare l’acquisto di zanzariere per evitare il propagarsi della malaria. Tutto questo Dio non l’accetterebbe. E se per combattere l’Aids, la malaria, la fame debbo farmi fotografare con Bush, ebbene, io mi faccio fotografare con Bush.

Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




Col bastone a piedi scalzi

Gigantesca figura di uomo e missionario, ha sfidato il mito dell’impenetrabilità dell’Africa, avviando l’evangelizzazione delle regioni più intee e inaccessibili dell’Etiopia. I 35 anni della sua epica impresa, troncata bruscamente dall’esilio e dalla persecuzione delle comunità da lui formate, è stata continuata dai missionari della Consolata, che ancora oggi scoprono famiglie discendenti dall’attività dello Abuna Messias. Da una di esse proviene l’Abuna Brahane Jesus, attuale arcivescovo di Addis Abeba.

Un lembo di terra dell’astigiano, ai confini con la provincia di Torino, è diventato famoso in tutto il mondo per la straordinaria fioritura di santi che vi ebbero i natali nel giro di mezzo secolo. A Piovà d’Asti (oggi Piovà Massaia) nel 1809 nasceva Lorenzo Massaia, poi diventato fra’ Guglielmo da Piovà, infine conosciuto come Abuna Messias in Etiopia e cardinal Massaia in Europa.
A 7 km di distanza, a Castelnuovo d’Asti (oggi Castelnuovo Don Bosco) nascevano san Giuseppe Cafasso (1811), san Giovanni Bosco (1815), il beato Giuseppe Allamano (1851) e personalità eccellenti, come il card. Giovanni Battista Cagliero, mons. Giovanni Battista Bertagna, mons. Matteo Filippello, mons. Francesco Cagliero.
Trasferitisi dalla provincia alla capitale, Torino, si sono trovati uniti quasi fisicamente attorno a un altro lembo di terra, il santuario della Consolata. Uomini dall’orecchio sensibilissimo, essi si sono sentiti ripetere dalla Madre di Dio: «Fate quello che egli vi dirà». E si sono ritrovati catapultati nelle più svariate e complesse attività sociali in patria e in tutto il mondo.
L’amore per la Madonna Consolata ha unito due di essi, il Massaia e l’Allamano, in un profondo legame ideale e spirituale, tradotto nell’evangelizzazione dell’Etiopia.

PREPARAZIONE PER L’ETIOPIA

Ordinato sacerdote a Vercelli nell’anno1832, ultimata la sua formazione scolastica e religiosa nel convento di Moncalieri-Testona, fra’ Guglielmo da Piovà ricoprì per due anni (1834-1836) l’ufficio di cappellano dell’ospedale Mauriziano di Torino. Quindi, per 10 anni insegnò filosofia e teologia nel convento di Moncalieri e poi in quello del Monte dei Cappuccini (1836-1846).
Fu un periodo di profonde esperienze, che tornarono utili nella sua missione in Etiopia. Strinse amicizie con altri santi piemontesi e importanti personalità del tempo. Prima di tutto con Giuseppe Benedetto Cottolengo, di cui fu saltuariamente consigliere e confessore. Un’amicizia mai dimenticata; nelle sue memorie parlando di «certi tipi apostolici d’Europa», ricorda con ammirazione: «Il Cottolengo in Torino da me conosciuto».
La funzione di cappellano estivo di casa Savoia gli permise di conoscere la regina Maria Teresa, suo marito Carlo Alberto, i principi Vittorio Emanuele ii, futuro re d’Italia, e Ferdinando duca di Genova. Fu direttore spirituale di Silvio Pellico, reduce dallo Spilberg; segretario e bibliotecario della marchesa Giulia Colbert di Barolo. Nello stesso periodo incontrò Gaspare Boccardo, padre del beato Giovanni Maria e del canonico Luigi Boccardo.
Le conoscenze di medicina acquistate al Mauriziano gli permetteranno di preparare lui stesso il vaccino del vaiolo e di salvare molta gente. I contatti, poi, con la casa reale di Savoia risulteranno utili quando il re Menelik ii gli richiederà il servizio di segretario e intermediario con il re d’Italia.
Il 26 aprile 1846 Gregorio xvi istituì il Vicariato apostolico degli Oromo in Alta Etiopia, sancito con un breve del 4 maggio seguente; sei giorni dopo, con altri due brevi, affida il vicariato al Massaia, che, il 24 dello stesso mese, fu consacrato vescovo a Roma in San Carlo al Corso.
Lasciò l’Italia il 4 giugno 1846, intraprendendo un’avventura missionaria segnata da croci e sofferenze inaudite: 8 traversate del Mediterraneo, 12 del Mar Rosso, 4 pellegrinaggi in Terra Santa; 4 assalti all’impenetrabile fortezza abissina dal Mar Rosso, dall’Oceano Indiano e dal Sudan; 4 esili, altrettante prigionie e 18 rischi di morte costituirono il bilancio della sua leggendaria missione, che lo annovera fra i più grandi apostoli della chiesa.
Sbarcato a Massaua dopo quattro mesi di viaggio, il Massaia fu costretto a una sosta forzata nella prefettura dell’Abissinia, che comprendeva l’attuale Eritrea e il Nord Tigray. La strada verso l’interno era sbarrata dalle guerre tra il principe del Tigray, Ubié e il ras Aly, principe dell’Asmara. In una coice di fuoco e sangue, la notte del 7 gennaio 1849, a Massaua, il Massaia consacrò segretamente Giustino De Jacobis vescovo e vicario apostolico dell’Abissinia.
Poi fu incalzato dalla persecuzione del vescovo ortodosso Abuna Salama ii, che con sprezzo lo battezzò profeticamente «Abuna Messias». Con il pretesto che in Abissinia doveva esserci solo un vescovo cristiano, Salama scomunicò il Massaia e convinse Ubié a cacciarlo dall’Abissinia. Dopo lungo vagare per i litorali del Mar Rosso e del Golfo Arabico in cerca di un passaggio per entrare nella sua missione, il Massaia decise di affrontare di petto la situazione, presentandosi personalmente al principe Ubié. Lo racconta lui stesso in una lettera scritta da Gondar il 25 luglio 1849 e indirizzata a don Luigi Sturla, missionario apostolico a Aden.

TRAVESTITO DA MERCANTE

L’impresa poteva compromettere non solo la vita fisica del missionario, ma l’esistenza del vicariato dell’Abissinia. De Jacobis cercò di sconsigliarlo in tutti i modi, come racconta lo stesso Massaia: «Sono partito da Massaua alla volta di Gondar non senza forti ostacoli da parte di tutti gli amici, i quali fecero ogni sforzo per trattenermi, presentandomi i pericoli della persecuzione non ancora finita. Monsignor De Jacobis credeva sicura la morte mia; e volendo far da profeta, disse che sarei andato al martirio».
Ma il Massaia aveva fatto i suoi calcoli: il «martirio», scriveva, è «cosa per altro impossibile, stante certe circostanze, ch’io solo coram Deo posso conoscere». Per evitare rischi alla missione di De Jacobis, prese tutte le precauzioni necessarie, partendo senza salutare nessuno e viaggiando sotto false spoglie. «Tagliatami la barba e deposto ogni distintivo di persona ecclesiastica, partii a piedi, colla sola compagnia di due servi fidi e di un prete indigeno, a cui potessi confessarmi in ogni occorrenza».
Il rischio del viaggio era motivato dal fatto che il Massaia era stato esiliato da quei territori dal principe Ubié 18 mesi prima. D’altra parte sarebbe stato impossibile attraversare il suo territorio, che richiedeva 20 giorni di cammino, senza essere notato. Era indispensabile il suo permesso. Da qui la decisione di affrontare direttamente e di petto l’ostacolo. «Però io m’appigliai a un partito al tutto straordinario e fu presentarmi improvviso al re stesso in qualità di semplice viaggiatore e chiedergli la sua assistenza nel viaggio».
L’accoglienza fu fredda, come racconta il missionario: «Penetrai dunque in abito di meschino europeo, accompagnato dai miei servitori, nel territorio di Ubié; e vi fui accolto come usano colle persone ordinarie… Il cuore mi batteva più che mai, non per paura dei mali che potessi incontrare io, ma di tutti quelli che potevano cogliere alla nostra santa causa, di cui io era come in signum contradictionis».
Per avere un appuntamento con Ubié prese contatto con un suo parente. Fu sottoposto a mille domande; preso dallo scrupolo di non mentire, «cercai di tacere una parte del vero che più mi premeva». Per mettere «fine alla catena di tante interrogazioni molto pericolose per me» si appellò direttamente all’autorità superiore. «Se in me era qualche cosa di misterioso, l’avrei a voce o per iscritto svelato al solo Ubié».
Il travestimento da mercante si rivelò inefficace. Ma sapeva che Ubié non era contrario alla sua presenza e alla sua missione; ma a corte c’erano «molti nostri giurati nemici – continua nella sua lettera – Ubié disse all’uomo che più frequentavami e che gli aveva recata la mia ultima risposta: “Bada di non fiatare… Il meschino viaggiatore, che chiede udienza, è il celebre abuna Massaia, ch’io credeva già ritornato a Roma… Prima che vengano alla corte i grandi impiegati (era di mattino, poco dopo la levata del sole; ed io era giunto al campo la sera prima), corri a chiamarlo all’udienza”».
Il ritorno del messaggero, che non era riuscito a scoprire la vera identità del forestiero, lo rinfrancò alquanto, senza eliminare totalmente la tensione: «Dopo che ebbi preso da un servo il picciol regalo destinato al principe, c’incamminammo alla tenda reale; benché sapessi ogni cosa avere, per misericordia di Dio, cambiato aspetto, pure le mie gambe non volevano reggermi».
L’udienza fu cordiale e positiva. «Preso pertanto commiato, e tornato a casa, gli feci spiegare la mia assoluta volontà di partire; e dopo molte ambasciate, in una delle quali Ubié mi fece dire che aveva dato ordine per un’altra casa e un altro genere di trattamento per me, mi lasciò finalmente in libertà, pregandomi di compartire a lui e al suo regno la mia benedizione e assicurandomi che avrebbe prese tutte le precauzioni per fare sì che il mio viaggio fosse felice. Colla benedizione gli mandai i miei dovuti ringraziamenti».
«Mi fu data per scorta del viaggio una persona della casa di Ubié, a cui vennero fatte le più vive e gelose raccomandazioni e dati ordini più pressanti. L’amico volle accompagnarmi un’ora di strada; nel qual tempo mi disse molte cose intese da Ubié a riguardo mio e di monsignor De Jacobis, a cui portava un affezione incredibile».
In questa situazione difficile il Massaia annota: «Oh quanto differente dalla mia entrata nel campo del principe fu la uscita! Era il 20 giugno, giorno dedicato alla Vergine santissima della Consolata di Torino e giorno in cui ella volle porgermi l’ineffabile contentezza di fare il tanto sospirato viaggio alla mia missione e raggiungere i miei amati compagni».
La fede in Dio e la protezione della Vergine Consolata diedero al Massaia coraggio di sfidare l’impossibile. E conclude: «Ecco, caro amico, come terminò il mio esilio dall’Abissinia. Avrebbe durato ancora chi sa quanto, se non avessi preso ardimento di fare il passo, che feci oltre ogni previdenza. L’opera di Dio, eminentemente sublime, cammina per vie a prima vista impraticabili, ma piane, perché opera di Dio, il quale suole, nel tempo stesso, agir forte e disporre soavemente delle cose di quaggiù».

LA GRANDE EPOPEA

Dal Tigray passò nello Scioa, al di là del quale si estendeva il paese degli oromo. Ma un manipolo di sgherri lo catturò e, tra umiliazioni di ogni genere, lo portò davanti al ras Aly, che costrinse il missionario a recarsi in Francia per chiedere la protezione dei francesi per il suo regno contro la minaccia di aggressione da parte dell’Egitto.
Il 3 giugno 1850 il Massaia salpò da Aden per l’Europa. Compiuta la missione diplomatica, il 4 aprile dell’anno seguente era di nuovo in viaggio. Questa volta tentò di entrare nel suo vicariato risalendo il Nilo, in veste di mercante, bastone in mano, piedi scalzi e passaporto intestato a Giorgio Bartorelli.
Alla fine di avventure drammatiche e rocambolesche riuscì a guadare il Nilo azzurro e mettere piede nella terra degli oromo: era il 21 novembre del 1852, giorno della presentazione della Vergine Maria. Dimesse le vesti da mercante, indossò quella di monaco etiopico: finalmente tutti seppero che il dottor Bartorelli era l’Abuna Messias ricercato da 6 anni in tutta l’Etiopia.
Per 27 anni il Massaia lavorò indefessamente tra gli oromo (1852-63) e nello Scioa (1867-1879), salvo un breve periodo di esilio in Europa (1864-1866). Ad attività esclusivamente di avanguardia (formazione della gioventù e dei catechisti, costituzione del clero indigeno, compilazioni di catechismi in oromo e amarico), egli seppe unire iniziative altamente umanitarie, come: profilassi contro malattie endemiche, vaccinazioni contro il vaiolo, creazione della prima grammatica della lingua oromo, allora solo parlata, trascritta con caratteri latini, compilazione di manuali scolastici, creazione di centri assistenziali per le vittime di guerre e carestie, incremento e sviluppo dell’agricoltura, sostegno a varie spedizioni scientifiche; senza trascurare iniziative diplomatiche, tanto da essere nominato dal governo italiano «ministro plenipotenziario» nel trattato d’amicizia e commercio tra l’Italia e lo Scioa (1° marzo 1879).
Abuna Messias era diventato troppo famoso, tanto da scatenare l’invidia del clero copto, che forzarono l’imperatore Yohannes iv a esiliare definitivamente il missionario (3 ottobre 1879).
Tornato in Italia, con il suo inseparabile bastone, testimone delle sue epiche imprese, Leone xiii lo nominò cardinale (1884) e gli impose di scrivere le sue memorie. Fu la sua ultima fatica: morì il 6 agosto 1889, mentre stava completando I miei 35 anni di missione nell’Alta Etiopia.

PASSAGGIO DEL TESTIMONE

Era ancora un ragazzo quando Giuseppe Allamano vide per la prima volta il Massaia, in visita all’Oratorio di don Bosco. Più tardi, quel vago ricordo si tradusse in ammirazione, diventata uno dei motivi che ispirarono l’Allamano a fondare i missionari della Consolata.
Nel dicembre 1887, a Roma, egli ebbe un lungo colloquio con il grande missionario. Quattro anni dopo in una lettera a Propaganda Fide, chiese per i suoi futuri missionari il territorio dell’Etiopia meridionale. Nei primi documenti il nome del Massaia non appare mai. Solo più tardi, a fondazione avvenuta, quando si tratta di stabilire i confini della costituenda Prefettura apostolica del Kaffa, da affidare ai missionari della Consolata, l’Allamano riafferma la volontà delle origini. «L’istituto della Consolata per le missioni estere – scrive in una lettera a Propaganda Fide nel 1912 – nell’intenzione del sottoscritto e dei più insigni benefattori, si propose, fin dal suo nascere, di ripigliare l’opera di evangelizzazione del compianto card. Massaia nel Kaffa, tra quelle stesse popolazioni oromo, ove fu più fruttuoso il suo mirabile apostolato».
Il sogno dell’Allamano, a causa degli intrighi politici di quella regione e inteazionali, cominciarono a realizzarsi solo nel 1916, quando padre Gaudenzio Barlassina, anche lui spacciandosi per mercante, riuscì a entrare in Etiopia.
Nel gennaio del 1919, a 40 anni dall’espulsione del Massaia, lo stesso Barlassina, in un viaggio nel territorio del Kaffa, ebbe la fortuna di incontrare presso Geren ultimo sacerdote indigeno ordinato dal Massaia, Abba Mattheos. «La sua abitazione era al centro di un gruppo di capanne abitate da famiglie cristiane – racconta padre Barlassina -. Aveva 87 anni. Da due anni, per la completa cecità non poteva celebrare la messa se non a pasqua, per comunicare i cristiani del suo villaggio… In due ore di conversazione con il vecchio sacerdote potei apprendere altre notizie sulla persecuzione mosse contro i sacerdoti e i fedeli dopo l’espulsione del Massaia, e sulla loro eroica resistenza: notizie che in seguito facilitarono la ricerca delle pecorelle abbandonate e disperse. Nel cuore della notte gli portai in segreto il viatico: fu l’ultima comunione del santo martire».
Per 24 anni i missionari della Consolata evangelizzarono la terra dissodata dal Massaia, fondando una quarantina di missioni, fino a quando, nel 1943, furono espulsi dall’Etiopia, occupata dagli inglesi.

ABUNA MESSIAS VIVE

I missionari della Consolata sono ritornati in Etiopia nel 1971. Anche se il territorio loro assegnato non è più quello in cui avevano continuato il lavoro del Massaia, il legame con il grande missionario è ancora forte. Nella missione di Minne e Waragu per esempio, dove ho lavorato fin dal 1985, ci sono varie famiglie discendenti dalle comunità formate dal Massaia.
Alcuni cristiani mi hanno raccontato le loro storie. «I nostri anziani – afferma Tadesse – raccontavano che i loro genitori erano originari di Ankober, una missione nello Scioa fondata da Abuna Messias. Ma quando questi fu espulso dall’imperatore Yohannes, il clero ortodosso cominciò a perseguitare i preti cattolici».
«Nella missione di Finfinni, dove poi Menelik fondò Addis Abeba – incalza Ghirma -, un prete rimase nascosto per qualche tempo, ma quando fu scoperto dovette fuggire. Lo stesso fecero altri preti. Fu allora che i nostri padri decisero di lasciare le loro proprietà e seguire i missionari. Alcuni raggiunsero Gibuti, altri si rifugiarono tra le montagne dell’Arsi. Le nostre famiglie seguirono padre Ambrosios e si stabilirono qui a Waragu».
Nelle loro memorie si intrecciano nomi di missioni distrutte e di luoghi di rifugio: Lume, Tedde Maryam, San Giorgio, Daka Bora, Lafto, Garafanissa, Alila… Grazie a tali racconti è stato possibile iniziare la ricerca dei cristiani rimasti per un secolo nelle «catacombe».
È il caso di Daka Bora, nella parrocchia di Modjo. Dopo attente ricerche si è riusciti a incontrare le poche famiglie cattoliche sopravvissute alla persecuzione e a localizzare il luogo dove sorgeva la missione di San Giorgio. L’arcivescovo di Addis Abeba, Abuna Brahane Jesus, si affrettò a comperare quel terreno e lo affidò ai missionari della Consolata, che hanno incominciato a costruirvi una piccola scuola e una cappella.
Lo stesso arcivescovo è la testimonianza più significativa che l’opera del Massaia è ancora viva: egli è originario di Lafto, discendente da una di quelle famiglie cristiane perseguitate nello Scioa e rifugiatesi a suo tempo nella regione di Waragu. •

Edoardo Rasera

Edoardo Rasera




Consegnata al clero locale

Asella: missione compiuta

Il 22 dicembre del 2004 è stata consegnata al clero locale la missione di Asella, fondata 25 anni fa da padre Silvio Sordella. Vi ho lavorato anch’io, dal 1991 al 2003: sono stati gli anni più belli della mia vita.
Nata con una «casa-famiglia» per orfani e disabili, la missione di Asella è diventata presto famosa anche per la sua squadra di calcio Nyala, vincitrice di diversi campionati regionali; in essa è maturato Tesfay Tadesse, diventato giocatore della nazionale etiopica.
In questi 25 anni centinaia di giovani sono stati aiutati a uscire dalla condizione di precarietà. Molti di essi, dopo un lungo cammino di educazione fisica, intellettuale, civile e religiosa, sono riusciti a farsi largo nella società etiopica e nel mondo. Due ex-allievi sono stati campioni di maratona: Kasa Tadesse in Inghilterra e Molla Demmeke in Belgio. Demmeke Syum e Sintayo Mulugeta sono veterinari. Markos Raggasa si è laureato in economia ed è emigrato negli Stati Uniti; Barisso Dekama e Shemelles Alemu hanno trovato lavoro in Canada, Haylu e Bereket Resson in Europa. Mulugheta Woldegabriel è proprietario e direttore di una fabbrica di mobili in Addis Abeba. Fayissa Kusa è autista nell’ambasciata spagnola e suo fratello Yohannes dirige il laboratorio ortopedico dell’ospedale di Asella. Getachew Abera è capo meccanico della Compagnia Vaero, mentre Yohannes Gizachew e Birru Shibiru hanno aperto un’officina in proprio. Salomon Fikade è insegnante di musica e Tezera Dejene artista e insegnante di pittura nella capitale. Musa Husen sta finendo il conservatorio di musica e suo fratello scolpisce le tradizionali icone in legno.
La lista potrebbe continuare. Molti giovani sono insegnanti nelle scuole statali e cattoliche; altri stanno finendo gli studi universitari, i più hanno trovato lavoro in imprese locali o hanno avviato attività in proprio.

Il mio compito ad Asella è stato quello di continuare la formazione integrale degli orfani e disabili, attraverso la scuola di base per i più piccoli e quella di arti e mestieri per i più grandi, come falegnameria, muratura, meccanica, agricoltura. Al tempo stesso ho potuto portare qualcosa di nuovo e molto personale: scuola di musica, pittura, taglio e cucito. Tutte attività che hanno permesso, soprattutto ai disabili, di sviluppare la loro creatività. Assistiti professionalmente e individualmente, si sono perfezionati nell’arte etiopica, producendo quadri, icone, sculture, indumenti sacri e profani molto richiesti nel paese e all’estero. In questo modo anch’essi possono sperare in un futuro autonomo e migliore.
La presenza di fratel Mark Waweru ha portato un’altra divertente novità: il circo, con relativi giochi acrobatici, accompagnati da musica e danza. Il circo è diventato così popolare, da essere chiamato a esibirsi negli stadi, davanti alle autorità, in occasioni di particolari eventi e feste.
Oltre a divertire, il circo aiuta gli orfani e disabili a scoprire le proprie abilità latenti, vincere l’insicurezza e riacquistare alla stima di se stessi.
La collaborazione di fratel Mark mi ha permesso di avviare e cornordinare vari progetti e iniziative a favore della comunità cristiana. Il più importante realizzato è la costruzione del nuovo centro parrocchiale con chiesa, casa canonica, casa per le suore, dispensario, asilo e scuole elementari. Strutture che hanno portato la missione di Asella a maturità, pronta per essere consegnata al clero locale e continuare il suo cammino con le proprie gambe.

Renato Saudelli

Renato Saudelli




INTRODUZIONE

In nessun paese cristiano al mondo è mai stata concepita una così grande quantità di tipi e fogge di croci come in Etiopia. Fin dal momento della conversione del paese al cristianesimo, la presenza della croce appare quasi universale, non solo quale strumento liturgico in chiese e monasteri, ma anche nella devozione comune e nella vita di tutti i giorni. Il segno della croce trionfò.
Ogni regione ha sviluppato una sua forma tipica, con differenti arricchimenti stilistici e simbolici: la croce di Aksum, di Gondar, di Lalibela… La forma complessiva della croce, la conformazione dei bracci, il ricco tessuto geometrico, gli elementi naturalistici oamentali, la ripetizione dei motivi cruciformi… distinguono i vari stili e fogge.
Ad arricchire la varietà delle croci etiopiche contribuisce anche il loro scopo: ci sono croci astili per le processioni, croci manuali e pettorali, forgiate rispettivamente per funzioni liturgiche, o quale marchio di distinzione del clero, o come connotative della personale espressione di fede di un popolo, addirittura tatuate sul corpo.
In tutte, però, soggiace un identico messaggio teologico: la croce rappresenta l’Albero della vita.

La croce, nel suo significato fondamentale di morte e risurrezione, ha segnato anche la storia del cristianesimo in Etiopia. Nel corso dei secoli il vangelo di Cristo è penetrato nelle istituzioni familiari, sociali e politiche, facendo dell’Etiopia un’«isola cristiana» pressata da tutti i lati da popolazioni pagane e musulmane.
A epoche di rigoglioso cristianesimo si sono succedute epoche di feroci persecuzioni, di lotte per il potere, di confusione, di cristiani contro altri cristiani, in cui la croce è stata usata come spada.
Ne è un esempio l’epica impresa missionaria del cardinal Massaia: nei suoi 35 anni di missione si sono intrecciate entrambi i significati della croce: persecuzioni e vittorie.
Le comunità da lui formate sono state perseguitate e disperse, eppure sono sopravvissute fino a oggi, restando fedeli al mistero della croce.
La stessa sorte è toccata ai missionari che hanno continuato e continuano l’opera del Massaia. eppure, tra difficoltà di vario genere, la chiesa continua a crescere a diventare sempre più matura e responsabile del proprio futuro.

Altre croci, però, continuano a crocifiggere le popolazioni dell’Etiopia: si chiamano guerra, siccità, carestie, fame.
È soprattutto la tensione persistente tra Etiopia ed Eritrea la croce più pesante, che la popolazione non riesce a scrollarsi di dosso, per mancanza di vera democrazia.

Benedetto Bellesi




L’albero della vita

Nell’ala destra del presbiterio dell’abbazia benedettina di Santa Maria in Sylvis a Sesto al Reghena, vicino a Portogruaro, vi è un grande affresco del xiv secolo, probabile opera di artisti formatisi durante l’attività padovana di Giotto. L’opera rappresenta Cristo crocifisso su un grande albero di melograno. Il melograno è l’«albero della vita», sul quale è stato crocifisso il Figlio di Dio, contrapposto all’«albero della morte» di Adamo.
Cristo è il nuovo Adamo, il Figlio di Dio fatto uomo, che ha donato la vita per il riscatto dell’umanità e per farci ritrovare la via del paradiso e la vita eterna, che la colpa di Adamo ci aveva tolto.

L’ immagine dell’«albero della vita» richiama alla mente gli elaborati disegni delle croci etiopiche, sulle quali viene rappresentato in maniera simbolica il mistero della salvezza dell’umanità. Su tutte le croci manuali etiopiche, all’estremità del braccio inferiore, vi è obbligatoriamente una tavoletta che rappresenta il sepolcro di Adamo, il che ci riporta alla leggendaria tomba di Adamo sotto la croce di Cristo sul Golgota.
Il braccio inferiore della croce, il fusto nelle croci processionali, è Adamo, che stende le braccia verso l’albero del paradiso, rappresentato dai motivi floreali.
Il simbolismo di Adamo sulle croci etiopiche è duplice: vi è l’Adamo che, col suo peccato, ci ha fatto perdere il paradiso, e vi è Cristo, il nuovo Adamo, che distende le braccia per abbracciare tutti coloro che credono in lui. Nello stesso gesto Cristo stende le braccia sul legno della croce nell’atto della crocifissione.
In Etiopia l’albero del paradiso torna a essere l’«albero della vita». La vita eterna, perduta con il peccato di Adamo, ci viene restituita con il sacrificio del nuovo Adamo.
Cristo, il nuovo Adamo diventa l’«albero della vita». Con questa allegoria i cristiani d’Etiopia rappresentano la natura umana di Cristo.

I cristiani d’Etiopia riconoscono i primi tre concili ecumenici: quello di Nicea, convocato da Costantino nel 325, nel quale con semplici e chiare parole fu formulato il credo, che contiene i principali dogmi del cristianesimo; quello di Costantinopoli del 381, nel quale fu definita la divinità dello Spirito Santo; quello di Efeso del 431, in cui venne dichiarato che Cristo è una sola persona, perfetto Dio e perfetto uomo, e che la sempre vergine Maria è la madre di Dio.
Arroccati sulle loro aspre montagne, «isola cristiana in un mare di pagani», gli abissini hanno conservato la fede antica dei primi secoli del cristianesimo, la fede di Atanasio e di Cirillo. Essi riconoscono i sette sacramenti, anche se li amministrano con modalità differenti dai cattolici.
È talmente lontana la loro dottrina dall’eresia monofisita di Eutiche, che negava la natura umana di Cristo, che non è sostenibile l’accusa di monofisismo che ancora oggi viene loro rivolta.
Essi non vogliono essere chiamati né monofisiti né copti, tanto meno eutichiani. Nella persona di Cristo riconoscono una natura nella quale la divinità e l’umanità si sono unite, ciascuna conservando la propria individualità, senza mescolanza e senza confusione.
Come nelle altre chiese orientali, preferiscono dare più risalto alla divinità piuttosto che all’umanità di Cristo; e sulle loro croci raramente viene raffigurato il corpo di Cristo. Tuttavia, l’umanità di Cristo viene affermata con la figura simbolica del nuovo Adamo espressa nelle loro croci.
Essi appartengono alla chiesa ortodossa teuahdò d’Etiopia. Con il termine teuahdò essi indicano l’unione della natura divina e della natura umana nella persona di Cristo. Con l’incarnazione Cristo ha assunto una natura composita di umanità e di divinità, Cristo è allo stesso tempo vero Dio e vero uomo.
L’unione della natura umana con la divina ha fatto di Gesù l’uomo-Dio, il primogenito della nuova generazione. Mediante l’unzione dello Spirito Santo, avvenuta con l’unione delle due nature, Cristo ha ricevuto la dignità che aveva Adamo prima del peccato originale, diventando perciò il secondo Adamo: l’Adamo obbediente che si sacrificherà sulla croce per la salvezza del mondo.

Q uesta dottrina è perfettamente in sintonia con quella cattolica. L’ortodossia dei cristiani d’Etiopia è stata riconosciuta da papa Pio xii che, nell’enciclica Sempiteum rex Christus del 1951, confermando la sostanziale identità tra la dottrina etiopica e quella cattolica, afferma che il monofisismo etiopico è un monofisismo puramente verbale, e che il dissidio fra cristiani d’Etiopia e cattolici è dovuto unicamente ad una insignificante diversità di termini.
Alberto VasconN ell’ala destra del presbiterio dell’abbazia benedettina di Santa Maria in Sylvis a Sesto al Reghena, vicino a Portogruaro, vi è un grande affresco del xiv secolo, probabile opera di artisti formatisi durante l’attività padovana di Giotto. L’opera rappresenta Cristo crocifisso su un grande albero di melograno. Il melograno è l’«albero della vita», sul quale è stato crocifisso il Figlio di Dio, contrapposto all’«albero della morte» di Adamo.
Cristo è il nuovo Adamo, il Figlio di Dio fatto uomo, che ha donato la vita per il riscatto dell’umanità e per farci ritrovare la via del paradiso e la vita eterna, che la colpa di Adamo ci aveva tolto.

L’ immagine dell’«albero della vita» richiama alla mente gli elaborati disegni delle croci etiopiche, sulle quali viene rappresentato in maniera simbolica il mistero della salvezza dell’umanità. Su tutte le croci manuali etiopiche, all’estremità del braccio inferiore, vi è obbligatoriamente una tavoletta che rappresenta il sepolcro di Adamo, il che ci riporta alla leggendaria tomba di Adamo sotto la croce di Cristo sul Golgota.
Il braccio inferiore della croce, il fusto nelle croci processionali, è Adamo, che stende le braccia verso l’albero del paradiso, rappresentato dai motivi floreali.
Il simbolismo di Adamo sulle croci etiopiche è duplice: vi è l’Adamo che, col suo peccato, ci ha fatto perdere il paradiso, e vi è Cristo, il nuovo Adamo, che distende le braccia per abbracciare tutti coloro che credono in lui. Nello stesso gesto Cristo stende le braccia sul legno della croce nell’atto della crocifissione.
In Etiopia l’albero del paradiso torna a essere l’«albero della vita». La vita eterna, perduta con il peccato di Adamo, ci viene restituita con il sacrificio del nuovo Adamo.
Cristo, il nuovo Adamo diventa l’«albero della vita». Con questa allegoria i cristiani d’Etiopia rappresentano la natura umana di Cristo.

I cristiani d’Etiopia riconoscono i primi tre concili ecumenici: quello di Nicea, convocato da Costantino nel 325, nel quale con semplici e chiare parole fu formulato il credo, che contiene i principali dogmi del cristianesimo; quello di Costantinopoli del 381, nel quale fu definita la divinità dello Spirito Santo; quello di Efeso del 431, in cui venne dichiarato che Cristo è una sola persona, perfetto Dio e perfetto uomo, e che la sempre vergine Maria è la madre di Dio.
Arroccati sulle loro aspre montagne, «isola cristiana in un mare di pagani», gli abissini hanno conservato la fede antica dei primi secoli del cristianesimo, la fede di Atanasio e di Cirillo. Essi riconoscono i sette sacramenti, anche se li amministrano con modalità differenti dai cattolici.
È talmente lontana la loro dottrina dall’eresia monofisita di Eutiche, che negava la natura umana di Cristo, che non è sostenibile l’accusa di monofisismo che ancora oggi viene loro rivolta.
Essi non vogliono essere chiamati né monofisiti né copti, tanto meno eutichiani. Nella persona di Cristo riconoscono una natura nella quale la divinità e l’umanità si sono unite, ciascuna conservando la propria individualità, senza mescolanza e senza confusione.
Come nelle altre chiese orientali, preferiscono dare più risalto alla divinità piuttosto che all’umanità di Cristo; e sulle loro croci raramente viene raffigurato il corpo di Cristo. Tuttavia, l’umanità di Cristo viene affermata con la figura simbolica del nuovo Adamo espressa nelle loro croci.
Essi appartengono alla chiesa ortodossa teuahdò d’Etiopia. Con il termine teuahdò essi indicano l’unione della natura divina e della natura umana nella persona di Cristo. Con l’incarnazione Cristo ha assunto una natura composita di umanità e di divinità, Cristo è allo stesso tempo vero Dio e vero uomo.
L’unione della natura umana con la divina ha fatto di Gesù l’uomo-Dio, il primogenito della nuova generazione. Mediante l’unzione dello Spirito Santo, avvenuta con l’unione delle due nature, Cristo ha ricevuto la dignità che aveva Adamo prima del peccato originale, diventando perciò il secondo Adamo: l’Adamo obbediente che si sacrificherà sulla croce per la salvezza del mondo.

Q uesta dottrina è perfettamente in sintonia con quella cattolica. L’ortodossia dei cristiani d’Etiopia è stata riconosciuta da papa Pio xii che, nell’enciclica Sempiteum rex Christus del 1951, confermando la sostanziale identità tra la dottrina etiopica e quella cattolica, afferma che il monofisismo etiopico è un monofisismo puramente verbale, e che il dissidio fra cristiani d’Etiopia e cattolici è dovuto unicamente ad una insignificante diversità di termini.

Alberto Vascon

Alberto Vascon




«Isola cristiana in un oceano di pagani»

Per 17 secoli il cristianesimo ha forgiato la storia dell’Etiopia, facendone l’unica nazione cristiana del continente africano. Esso è penetrato così profondamente nelle istituzioni familiari, sociali e politiche del paese, che i cristiani etiopi hanno resistito a pressioni e persecuzioni estee ed intee, fino a quella scatenata per 17 anni (1974-1991) dalla dittatura marxista.

L’inizio del cristianesimo in Etiopia risale alla prima metà del secolo iv, quando, come racconta lo scrittore Rufino di Aquileia (345-411) nella sua Historia ecclesiastica, fu convertito il regno di Aksum. La testimonianza fu raccolta dalla bocca di Edesio, uno dei protagonisti di tale conversione.
La storia di Rufino fu ripresa e talvolta raccontata con diverse varianti, alcune delle quali hanno stravolto in modo significativo il racconto. Ma ascoltiamo l’originale.
«Un certo Meropio di Tiro, filosofo, si recò in India per un viaggio d’istruzione, accompagnato da due suoi giovani parenti, Edesio e Frumenzio, che lui stesso istruiva nelle arti liberali. Sulla via del ritorno, la nave si fermò per foirsi di acqua sulla costa africana del Mar Rosso, dove fu attaccata dalla gente del luogo in lotta contro l’impero dei romani. Tutto l’equipaggio e i passeggeri furono uccisi: si salvarono solo i due giovani, che furono catturati e offerti in dono al re degli etiopi.
Impressionato dalla loro intelligenza, il re nominò Frumenzio suo segretario e tesoriere, Edesio suo coppiere. Al momento della sua morte, il re liberò i due giovani. Ma la regina, alla quale incombeva la reggenza in attesa della maggiore età del piccolo Ezanà, pregò Frumenzio di assisterla nel governo dello stato.
Approfittando della sua elevata posizione, Frumenzio accolse i cristiani, ne facilitò la predicazione e concesse loro luoghi per pregare.
Giunto il principe alla maggiore età, i due fratelli presero congedo dalla corte: Edesio ritoò a Tiro, dove ricevette gli ordini sacri; Frumenzio si recò ad Alessandria a informare il patriarca Atanasio della diffusione del cristianesimo nel regno di Aksum, esortandolo a mandarvi un vescovo, che si prendesse cura di quelle prime comunità di fedeli. Radunati i suoi sacerdoti, Atanasio discusse la questione e rispose a Frumenzio: “Quale altro uomo potremmo trovare, in cui sia lo spirito di Dio come è in te, e che possa attendere a tale compito?”. E lo consacrò vescovo, inviandolo ad Aksum».

IL COSTANTINO ETIOPICO

Dalla scaa narrazione di Rufino non è facile stabilire la datazione esatta dell’inizio del cristianesimo in Etiopia. Sapendo con certezza che Atanasio fu eletto patriarca di Alessandria nel 228, il primo sbarco di Frumenzio sulla costa etiopica avvenne parecchi anni prima e la sua ordinazione episcopale dopo il 330.
Rufino riferisce ancora che Frumenzio predicò il vangelo nel regno di Aksum per 20 anni, convertendo «un numero infinito» di etiopi. A parte l’espressione iperbolica, è certo che, verso il 345, il re Ezanà, sua madre, battezzata col nome di Sofia, la famiglia reale e la sua corte si convertirono al cristianesimo. Grandemente stimato dal popolo aksumita, Frumenzio passò alla storia col nome di Abba Salama, (Padre Pace), e con l’appellativo di Chesatiè Brhan (rivelatore della luce). I due fratelli Ezanà e Sezanà diventarono nella tradizione etiopica Abrahà (illuminò) e Atsbhà (fece sorgere il sole». Essi sono l’alba e la luce della nuova Etiopia, l’Etiopia cristiana.
Questi eventi si realizzarono nell’epoca di Costantino il grande che, secondo la tradizione, illuminato dalla visione della croce, decretò la libertà del cristianesimo nell’impero romano; il parallelo è d’obbligo: Ezanà è considerato il Costantino di Etiopia e sua madre Sofia è paragonata a Elena, madre dell’imperatore romano.

FIGLIA DI ALESSANDRIA

Essendo l’Etiopia una diocesi della chiesa d’Egitto, il suo vescovo era nominato dal patriarca di Alessandria e doveva essere un egiziano; questi assumeva il nome di abuna (nostro padre) e aveva il potere di nominare i vescovi locali.
Fin dai racconti dei primi esploratori europei la chiesa etiopica, figlia della chiesa egiziana, fu chiamata «copta monofisita» e i cristiani d’Etiopia «copti»; ma tali termini non hanno alcun senso, dato che «copto» è un termine divulgato dagli arabi dopo la conquista dell’Egitto e significa «egiziano».
I primi passi della chiesa in Etiopia coincisero con un periodo di aspre contese nel resto della chiesa universale: Alessandria era uno dei centri principali delle polemiche teologiche.
All’inizio del v secolo si diffuse in Oriente, per opera di Eutiche, monaco greco considerato il capo morale dei religiosi di Costantinopoli, la dottrina monofisita, secondo la quale la natura umana di Cristo era stata assorbita dalla natura divina, e solo quest’ultima vi sussisteva.
Nel 451 il concilio di Calcedonia dichiarò Eutiche eretico e stabilì che in Cristo sussistevano sia la natura umana che la divina. Alcune chiese orientali, fra cui quella egiziana, non accettarono le conclusioni del concilio e si separarono da Roma.
È necessario chiarire che nessuna di queste chiese riconosce la dottrina strettamente monofisita di Eutiche, ma ritiene che in Cristo vi sia una sola natura, divina e umana allo stesso tempo. Viene affermato un monofisismo meno rigido di quello di Eutiche, che ha molti punti in comune con il duofisismo delle chiese calcedonesi. L’Etiopia, in quanto diocesi di Alessandria, ne seguì le sorti e rimase separata da Roma.
Nel v secolo il cristianesimo continuò a propagarsi anche nelle campagne, soprattutto per opera di monaci venuti dall’oriente cristiano. In Etiopia sono venerati i «Nove Santi»; mentre l’attuale Eritrea sarebbe stata evangelizzata dagli Tsaddecàn, i giusti, alcuni resti dei quali si trovano nella chiesa di Baracnahà.
Il cristianesimo etiopico sarebbe quindi diventato monofisita già nel v secolo ad opera di questi evangelizzatori. Alcuni studiosi tuttavia ritengono che il monofisismo sia entrato in Etiopia molto più tardi, e a riprova di ciò portano, oltre ad altre argomentazioni, il fatto che re Calèb, che regnò su Aksum nella prima metà del vi secolo, è festeggiato come santo dalla chiesa cattolica il 27 ottobre.
Verso la fine del vi secolo Aksum entrò in declino e l’Etiopia fu ben presto accerchiata dall’espansione islamica. «Attorniati da ogni parte da nemici della loro religione, gli etiopi dormirono per un migliaio di anni, dimentichi del mondo che a sua volta li dimenticò» scrive lo storico Gibbon.

DISPUTE TEOLOGICHE

L’arrivo dei missionari gesuiti in Etiopia, nei sec. xvi-xvii, portò alla conversione al cattolicesimo, seppur per breve tempo, degli imperatori Ze-Dinghìl e Sussinios. Ma il loro arrivo innescò anche nel clero etiopico dispute interminabili sull’unzione e sulla natura di Cristo, controversie che sfociarono talvolta in lotte feroci e sanguinose, con guerre, massacri e distruzione di interi monasteri.
Le discussioni dei religiosi etiopici con i gesuiti provocarono la nascita di due correnti teologiche: l’una sostenuta nei monasteri del Goggiam, la regione racchiusa dalla grande ansa del Nilo Azzurro a sud del lago Tana; l’altra nel monastero di Debra Libanos, nello Scioa. La corrente dei goggiamesi si estese poi al Tigray e al monastero del Bizen, nell’estremo nord dell’Etiopia.
I goggiamesi sostenevano che Cristo non era unto dallo Spirito Santo, ma da se stesso, e che, nell’unione col Verbo, la sua natura umana era stata assorbita da quella divina. Era questa una posizione di rigido monofisismo di tipo eutichiano. Questa corrente prese il nome di carrà (coltello), ma fu chiamata anche qebàt (unzione) e hulèt liddèt (due nascite), perché riconosceva in Cristo la generazione eterna e la nascita dalla Vergine.
I debralibanesi, invece, sostenevano che Cristo era stato unto dal Padre per mezzo dello Spirito Santo. Questa dottrina implicitamente riconosce, nell’unzione, la natura umana di Cristo. Essa fu chiamata sost liddèt (tre nascite), perché opponeva ai goggiamesi anche una terza nascita mediante l’unzione.
Questa dottrina fu anche chiamata teuahdò, che significa «divenuto uno», perché sostiene che la natura umana e la natura divina si sono unite, con l’incarnazione, in una natura composita di umanità e divinità. Fu pure chiamata tseggà ligg, figlio di grazia, perché con l’unzione la natura umana di Cristo viene santificata dalla grazia dello Spirito Santo.
Nel corso della storia prevalse ora l’uno ora l’altro partito, con rivolte che furono sedate nel sangue. Sotto il regno di David iii, per esempio, nel primo quarto del xviii secolo, furono sterminati tutti i monaci di Debra Libanos. Con la salita al trono di Teodoro ii (1855) la teoria dei goggiamesi venne proclamata religione di stato, e fu riconfermata e imposta con la forza da Giovanni iv nel sinodo di Boru Mieda (1878).
Pochi anni dopo, l’ascesa al trono imperiale di Menelik segnò la fine delle contese religiose: Menelik fu molto tollerante e lasciò a ognuno libertà di scelta e la dottrina di Debra Libanos diventò la dottrina ufficiale della chiesa etiopica.
Oggi la chiesa etiopica, al pari delle altre chiese orientali non-calcedonesi, e cioè la siriana e l’armena, rifiuta il monofisismo e si dichiara miafisita, intendendo con questo termine l’unione delle due nature di Cristo in un’unica natura composita. La denominazione ufficiale della chiesa etiopica è «chiesa ortodossa teuahdò d’Etiopia. Teuahdò significa «divenuto uno», ed equivale al greco «miafisita».
Inoltre, da poco più di mezzo secolo la chiesa etiopica è diventata un patriarcato indipendente da Alessandria: nel 1951, dopo 10 anni di trattative condotte dall’imperatore, fu possibile eleggere per la prima volta un patriarca etiopico, nella persona dell’Abuna Basilios.
L’Eritrea ha sempre seguito le sorti della chiesa etiopica e professa il Teuahdò. Ma nel 1994 ha ottenuto dal patriarca di Alessandria la nomina di sei vescovi eritrei, che nel 1996 hanno nominato il proprio patriarca.

LITURGIA ETIOPICA

Nei suoi 17 secoli di vita, la chiesa etiopica si è dovuta difendere da minacce e invasioni estee, ma ha conservato intatto il cristianesimo dei primi secoli. Secondo una definizione cara agli etiopici, l’Etiopia è «un’isola cristiana in un mare di pagani». Scrisse padre Giulio Barsotti nel 1939: «In poche nazioni al mondo, il pensiero religioso ha avuto tanta forza di penetrazione e di potenza come in Etiopia… Dal secolo iv, in cui il vangelo penetrò nel regno di Aksum, fino a oggi, tutta la vita degli abissini è stata dominata dal pensiero e dalla dottrina di Gesù Cristo».
La liturgia etiopica si è sviluppata da quella della chiesa copta, ma ha introdotto forme che sono tipiche dell’animo etiopico. Le danze dei debterà imitano le danze di Davide, i loro canti sono i salmi di Davide, la musica liturgica, inventata da San Iarèd nel vi secolo, commuove i credenti.
Durante la celebrazione i canti vengono accompagnati dal battere di grandi tamburi di forma ovale, i caberò, e dal tintinnio dei sistri, strumenti metallici di origine egiziana.
I santi sono celebrati con poesie che descrivono le loro parti del corpo, vengono recitati i qeniè, distici a doppio senso improvvisati sul posto, che solo gli amara riescono a decifrare.
Le messe iniziano alle 7 del mattino e durano 3 ore; i preti salgono tutti i giorni sulle vette dei colli dove sorgono le chiese e rientrano a casa dopo le 9 di sera. Tutti coloro che non sono impediti dal lavoro, da malattie o dall’età, devono andare a messa ogni giorno. Nelle grandi solennità la celebrazione inizia a mezzanotte e dura nove ore. Nelle processioni i suonatori di masinqò, i violini a una corda, accompagnano i versi dei qeniè.
Nella messa viene recitato il credo, che ripete gli stessi dogmi della chiesa di Roma. Viene celebrata l’eucaristia con la somministrazione del pane e del vino; i preti fanno tre volte il giro della chiesa alla lettura del vangelo e dei Miracoli di Maria (vedi pag. 40).
I fedeli si raccolgono nel recinto esterno della chiesa dove danzano i debterà, gli uomini a destra le donne a sinistra. Nel recinto intermedio viene amministrata la comunione; in quello interno, il sancta sanctorum, il cui ingresso è permesso solo al sacerdote, viene conservato il tabòt, rappresentazione delle tavole della legge, che rende sacra la chiesa.
Il tabòt viene portato a una fonte nella celebrazione del Timchèt, la festa dell’epifania, il battesimo di Gesù secondo il rito orientale. In tempo di guerra viene portato al seguito dell’esercito per la celebrazione della messa.
In Etiopia vi sono 25.000 chiese, in genere povere capanne di fango decorate con immagini sacre. All’esterno di ognuna vi è la bietelehèm, la casa del pane, dove viene preparato il pane per l’eucaristia. Alla sommità della chiesa vi è la croce greca adoata di sette uova di struzzo, simbolo della passione e della morte di Cristo. Numerose sono le chiese rupestri, celebri quelle di Lalibela e Gheralta.
Nelle chiese più importanti sono conservati antichi manoscritti fatti con pelli di capra, libri che raccontano la vita dei santi, vangeli e bibbie. Fin dai primi secoli, i libri sacri del cristianesimo sono stati tradotti in gheez, l’antica lingua etiopica, sopravvissuta oggi solo nella liturgia. Nei testi etiopici è stato rintracciato il Libro di Enoc, che è andato perduto nella lingua originale e nella versione greca.
I più antichi manoscritti rimasti sembrano risalire al xv secolo. Nel monastero del Bizen, in Eritrea, vi è un vangelo della misura di un metro e talmente pesante che deve essere trasportato a dorso di mulo.
Alcune chiese storiche conservano stupendi affreschi murali, dipinti con colori semplici (giallo, blu, rosso, verde e nero), ricavati da piante o minerali. I disegni sono bizantineggianti: i buoni di fronte i cattivi di profilo. Il nome di Maria, la più eccelsa delle creature dell’universo, è scritto sempre in rosso.

NEL SEGNO DELLA CROCE

Quando un etiopico passa davanti a una chiesa, china la testa e fa il segno della croce; le donne si fermano a baciae la porta. Se incontrano un prete si inchinano in segno di rispetto, baciano la croce e si fanno benedire.
Eredità della tradizione copta sono le croci etiopiche, processionali, manuali o da collana, disegnate in centinaia di forme. Derivano dalla prima croce cristiana, la croce di san Pacomio. La croce processionale è utilizzata nelle processioni e nelle grandi ricorrenze, come festa della croce, natale, epifania; la croce manuale viene portata sotto la tunica da ogni prete o monaco e fatta baciare dai fedeli.
Esiste una grande varietà di forme: la croce di Gondar, di Aksum, Lalibelà, di Malta, la stella di Davide o sigillo di Salomone e altre. Le donne tigrine portano sulla fronte una croce dipinta con l’henna. Nelle croci etiopiche raramente è rappresentato il corpo di Cristo, perché la spiritualità orientale dà più risalto alla divinità piuttosto che all’umanità di Cristo. Tuttavia, sull’altare maggiore della cattedrale di Addis Abeba vi è un crocifisso con la figura del corpo di Cristo, identico ai crocifissi cattolici.

CLERO, DIGIUNO, MATRIMONIO

La chiesa etiopica ha mantenuto alcune tradizioni giudaiche, come il tabòt o arca dell’alleanza, la distinzione di carne pura e impura, la circoncisione maschile a 8 giorni dalla nascita, le danze dei debterà con i tamburi, la forma delle chiese con il sancta sanctorum al centro, la bietelehèm, il sabbath, ecc. Alcune di queste, come la circoncisione, sono semplici usanze e non prescrizioni religiose.
Un elemento diventato fondamentale nella cultura del paese è il digiuno, il più lungo e austero di tutto il mondo cristiano: 56 giorni prima di pasqua, 40 giorni per la festa degli apostoli, 16 per l’assunzione, 40 giorni prima di natale, tutti i mercoledì e venerdì della settimana, per un totale di circa 250 giorni all’anno, dei quali solo 180 strettamente obbligatori.
Il digiuno consiste nell’astenersi da cibo e bevande da mezzanotte fino al primo pomeriggio o sera, in cui è permesso un pasto; in ogni caso è richiesta l’astinenza da cai, grassi, uova, pesce e latticini.
Preti e diaconi si possono sposare, ma ciò deve avvenire prima di essere ordinati. Vescovi e arcivescovi, ai quali è affidata l’amministrazione della chiesa nelle varie province, non possono essere sposati. Il patriarca è necessariamente un monaco. Il monachesimo ha sempre avuto un ruolo fondamentale nella vita della chiesa fin dall’arrivo in Etiopia dei «Nove Santi» e degli tsaddecàn, i quali, da eremiti solitari sono diventati fondatori di comunità, ispirandosi a san Pacomio e alle sue le regole monastiche.
Sono sorti così i grandi monasteri, alcuni dei quali sono arrivati a ospitare fino a 5 mila monaci: Debra Libanos, Debra Bizen, Debra Damo, Gunda Gundè, Zuquala e centinaia di altri minori, tutti arroccati in luoghi impervi e di difficile accesso. I monaci fanno tre professioni di fede, con le quali ricevono la cintura, il cappuccio e la tunica.
I monaci non si sposano e devono condurre una vita ascetica e austera, con frequenti mortificazioni corporali. La tradizione di Debra Libanos racconta che il suo fondatore rimase in una grotta per 7 anni in piedi su un piede solo, finché gli si staccò una gamba. Il priore del monastero di Debra Libanos è l’ecceghiè, il capo dei monaci. •

Alberto Vascon




Pace incerta e fame alle porte

Etiopia – Eritrea: continua la tensione

Due anni di guerra tra Eritrea ed Etiopia (1998-2000), per una incomprensibile questione di confine, ha provocato la morte di oltre 80 mila soldati, centinaia di migliaia di espulsioni e conseguenze economiche che hanno aggravato la povertà delle popolazioni dei due paesi.
Dopo il trattato di Algeri (maggio 2000) le armi tacciono, separate da una forza di intermediazione Onu di 4.200 caschi blu, e la soluzione della contesa è stata affidata al Tribunale arbitrale dell’Aia, che nel 2003 ha tracciato i nuovi confini tra i due paesi in maniera «definitiva e irrevocabile: Balme, la località simbolo, è stata assegnata all’Eritrea; i confini devono essere resi certi e verificabili con pilastri in cemento.
Ma l’Etiopia continua a non riconoscere tale decisione, ritenuta troppo sbilanciata a favore di Asmara, e finora si è opposta all’erezione di pietre militari. L’Eritrea si rifiuta di rimettere nuovamente in discussione la decisione e ha deciso di colpire con una serie di restrizioni la missione Onu, incaricata di presidiare la zona cuscinetto che divide i due paesi.
Mentre il capo missione Onu in Etiopia ed Eritrea (Unmee) e i paesi garanti del trattato di Algeri continuano a lanciare appelli ai governi di Asmara e Addis Abeba, affinché accettino senza riserve la demarcazione, la tensione tra i due paesi continua a crescere: lo stato di allerta permanente e i movimenti di truppe da ambo le parti degli ultimi mesi rischiano di sfociare nella ripresa delle ostilità.
La situazione di tensione e ambiguità, intanto, viene usata dai leaders dei due paesi per giustificare i loro comportamenti autoritari. In Eritrea, il presidente Afwerki imprigiona semplici cittadini e giornalisti che osano criticare il suo potere e l’arruolamento forzato di giovanissimi per prestare servizio militare nell’esercito, composto da 300 mila soldati. In Etiopia, il primo ministro Zenawi continua a governare con la repressione.
Nelle elezioni del maggio 2005 gruppi di opposizione hanno ottenuto un successo sorprendente, mettendo a repentaglio l’egemonia del partito di Zenawi. Alle manifestazioni di protesta per presunti brogli elettorali il governo ha risposto con violenza, lasciando sul terreno 36 morti, arrestando migliaia di oppositori, chiudendo giornali indipendenti, imprigionando editori e giornalisti, deportando esponenti delle associazioni per i diritti umani.
Da quando l’Onu ha mandato il contingente di pace a dividere i contendenti, la comunità internazionale sembra si sia dimenticata del problema dei confini con l’Etiopia. In cinque anni nessuna autorità si è occupata di fare pressione su Addis Abeba perché dia piena esecuzione agli accordi di Algeri. Eppure, a detta di vari osservatori politici, una soluzione ci sarebbe, poiché la questione dei confini è solo strumentale: l’Etiopia vuole uno sbocco sul Mar Rosso. Tale aspirazione può essere concretizzata in maniera incruenta mediante la garanzia internazionale, l’unica capace di riportare i due paesi in un clima di pace e collaborazione.

Intanto sull’Etiopia (e su tutto il Coo d’Africa) si abbatte un’altra piaga ciclica: siccità, carestia e fame. Nelle regioni meridionali del paese, ai confini con il Kenya, fiumi e pozzi sono quasi secchi e i pascoli stanno sparendo: si vedono carcasse di animali sul bordo delle strade.
Già in situazioni di «normalità» nella Somali Region l’acqua costituisce un problema cronico. Ora si è aggravato enormemente, perché la stagione delle piogge tra ottobre e novembre è stata particolarmente scarsa. A soffrie maggiormente sono i bambini, che vengono portati ai centri sanitari in stato di estrema debolezza a causa della malnutrizione e disidratazione.
Il governo di Addis Abeba ha ordinato di fare dei sopralluoghi per verificare il livello di gravità della situazione ed eventualmente dichiarare lo «stato di emergenza»; in questo caso dovrebbero arrivare aiuti dal governo centrale. Ma non è chiaro quando saranno prese tali misure di soccorso e in che cosa consisteranno. Tali aiuti dipendono, soprattutto, dalla solidarietà internazionale, che non sempre arriva con quella tempestività e generosità richieste dalla gravità della situazione. B. B.

Benedetto Bellesi




Chidane Meherèt

Racconta una leggenda che la sacra famiglia di Gesù, di ritorno dall’Egitto, accompagnata da Salomè e dagli angeli Michele e Gabriele, passò per Debra Sina (Eritrea) e si fermò per tre anni in varie località dell’Etiopia, tra cui il monte Bizen, Aksum e l’isola di Tsanà. Per ricompensare gli abitanti dell’ospitalità offerta, Gesù donò l’Etiopia a sua Madre come feudo, Resta Mariam, in perpetuo retaggio. Maria divenne così padrona, feudataria e regina del paese. A loro volta, gli abissini divennero servi di Maria e la chiamarono Imebietaccìn: nostra padrona di casa. L’Abissinia è il paese della Madre di Dio; gli abissini, suoi servi, popolo eletto fra gli eletti.
Un’altra leggenda racconta che Maria, recatasi un giorno sul Calvario, dove era solita recarsi dopo la morte di Gesù, supplicò il Figlio di salvare ognuno che le avesse chiesto la sua intercessione. E Gesù esaudì il desiderio della Madre.
Per questo gli abissini chiamarono Maria con l’appellativo Chidane Meherèt (patto di misericordia). Patto che, nella loro fede, è come un terzo testamento per la salvezza del genere umano.
La devozione degli abissini verso Maria è espressa con una infinità di immagini e attributi: Madre misericordiosa, vergine pura nel corpo e nello spirito, colei che apre la via al paradiso, maestra di fede, speranza e carità, la più santa tra i santi, al di sotto di Dio, ma al di sopra degli angeli; Madre del Verbo incarnato, porta della Trinità, Madre dell’Emmanuele, della Vita, della Luce, del vero Sole; la casa dello Spirito Santo, colomba di Salomone, tempio santo di Gerusalemme, nuova Sion, arca dell’alleanza, nuova dimora di Dio.
A lei è dedicata la prima chiesa etiopica, la cattedrale di Mariam Tsion ad Aksum; molte delle 25 mila chiese in Etiopia portano il nome di Maria. Nomi di luoghi e persone spesso ricordano la Madonna: Haile Mariam (forza di Maria), Ghebre Mariam (servo di Maria), Uolde Mariam (figlio di Maria) e tanti altri ancora.
Come discendente di Davide, Maria è ritenuta imparentata con Menelik, figlio di Salomone e della regina di Saba. Maria, la più splendente delle creature dell’universo, è sorella di sangue degli abissini.

Nel xv sec. il santo imperatore Zera Iacòb prescrisse, sotto pena di scomunica, la lettura del libro etiopico dei Miracoli di Maria (libro scritto nella prima metà del xiv secolo) tutte le domeniche e nelle feste mariane.
Nella liturgia etiopica, oltre alla domenica, Maria è celebrata con inni, lodi e cantici in 33 feste mariane durante l’anno e quattro volte al mese: il 1° del mese si celebra la natività, il giorno 3 la presentazione al tempio, il 16 il patto di misericordia, il 21 «Maria arca dell’alleanza».
La più solenne festa mariana è quella di Hiddàr Tsion, il 21 del mese di hiddàr (28 novembre), in cui sono ricordati tre eventi: in tale giorno Menelik portò l’arca dell’alleanza ad Aksum; gli imperatori Abrehà e Atsbehà fondarono la prima chiesa ad Aksum e decretarono il cristianesimo la religione ufficiale dell’Etiopia; l’arca ritoò dal lago Zuai, dove era stata nascosta per sfuggire alle distruzioni di Gudit nel x secolo. In questa festa Maria è identificata con l’arca.

In tutte le feste mariane, oltre al vangelo, viene letto il libro etiopico dei Miracoli di Maria. Tale lettura viene fatta con la stessa solennità riservata a quella del vangelo: canto dell’alleluia prima della lettura, triplice processione attorno alla chiesa col libro, venerazione con incenso e prostrazioni.
Ci sono poi le preghiere per tutti i giorni della settimana e per ogni giorno dell’anno, un carme per ognuna delle 193 lettere dell’alfabeto etiopico, e innumerevoli scritti e cantici. Significative sono pure le bellissime Armonie mariane, preghiere per i giorni della settimana. Nella pratica devozionale è molto diffuso, sia tra il clero che tra i fedeli, l’uso di leggere quotidianamente i Miracoli di Maria.
Come esempio di purezza del corpo e dello spirito, Maria è venerata in particolar modo dai monaci, che usano il libro dei Miracoli tutti i giorni. Il suo nome è sempre scritto in rosso nei testi sacri.

Alberto Vascon

Alberto Vascon




UN POPOLO DI PASTORI

L’errore comune quando si incontra un popolo diverso è di dare un giudizio morale a comportamenti che di morale non hanno nulla. Questo capita un po’ a tutti, anche a persone buone e generose, come sono le tante persone che, per motivi diversi, si sono offerte di aiutare gli albanesi, in Italia o in Albania, nelle varie vicissitudini che hanno caratterizzato questo paese negli ultimi 15 anni.
Gli albanesi sono ritenuti i diretti discendenti degli illiri, il popolo che abitava la regione balcanica ai tempi dei romani. A scuola si studiava che una volta gli illiri sconfissero i romani guidati dal loro re Pirro e «Pirro» è un nome comune ancor oggi in Albania. Con l’arrivo degli slavi nella regione balcanica, gli illiri videro ridursi progressivamente il loro territorio. Oggi popolazioni di origine albanese si trovano in Albania ed in tutti i territori di confine: la parte meridionale del Montenegro, il Kosovo, la parte occidentale della Macedonia ed il nord della Grecia, anche se le autorità di questo paese contestano questo fatto.
Gli illiri erano un popolo di pastori e la cultura albanese ha questa base, diversa sostanzialmente dalla base culturale di tanti popoli europei, molto più agricola che pastorale. La vita di un pastore e la sua sopravvivenza sono garantiti dalla «rotazione» da un pascolo all’altro, ripetendo in continuazione il medesimo cammino. Egli non si ferma a seminare, a curare poi la pianta che nasce, in attesa di raccogliere un prodotto. Quindi, la vita ed il tempo sono più un ripetersi periodico dei medesimi atti, che un cammino verso qualcosa di sempre nuovo. Ecco quindi che proprietà, tempo, progresso, società, sono parole che culturalmente hanno avuto un significato non proprio uguale a quello che noi comunemente intendiamo. E se pensiamo quale importanza pratica hanno nella nostra vita di tutti i giorni questi concetti, possiamo cominciare a renderci conto quanto e perché è stato lontano il comportamento degli albanesi da quello di altri popoli.
Su questa base culturale hanno costruito quel senso dell’onore che sembra quasi genetico, ed è tanto presente anche nei gesti quotidiani più comuni, da sembrare una forma di permalosità. Da questo senso dell’onore, poi, discende una specie di intolleranza a ciò che è piccolo e la loro ammirazione per ciò che è grande e maestoso. Non a caso, un famoso proverbio albanese recita: «me mire mut se i vogel», cioè «meglio merda che piccolo»! E così magari ci rendiamo conto come mai un ragazzo sempre tranquillo, un bel giorno reagisce in maniera in apparenza spropositata ad un fatto che noi riteniamo banale.

Pier Paolo Ambrosi




UN POPOLO DI MIGRANTI

Il «paese delle Aquile» ha una caratteristica pressoché unica: la popolazione che vive al di fuori dei confini è quasi uguale al numero di coloro che vi vivono dentro – 3 milioni contro 3.3 -, un terzo dei quali concentrati nella capitale Tirana, luogo dove ogni giorno si vede abbattere una casa di solidi mattoni, costruita dal regime fascista negli anni ’30, per far posto ad un frettoloso palazzo di almeno 15 piani, spesso costruito con denaro ripulito da qualche traffico illecito. Teatro del conflitto italo-greco durante la seconda guerra mondiale, sotto il dominio dittatoriale del partito comunista guidato da Enver Hoxha per oltre mezzo secolo, solo nel 1989 l’Albania avvia una parziale ristrutturazione dell’economia e, abolendo i divieti d’ingresso per i turisti, riprende i rapporti con gli Usa e con l’Urss, autorizza la professione religiosa, riduce il numero di reati punibili con la pena di morte e concede il diritto alla proprietà dell’abitazione. Dal 3 luglio 2005, dopo otto anni all’opposizione di Fatos Nano, il primo ministro è nuovamente Sali Berisha, costretto a lasciare il potere nel 1997, quando il paese piombò nel caos più totale – durante il quale la popolazione perse circa 1.2 miliardi di dollari con lo scandalo delle piramidi finanziarie – e i disordini causarono quasi 3.000 morti.
L’urbanizzazione e la sovrappopolazione sono le principali sfide del governo locale: il flusso migratorio dalla campagna alla capitale trova ragione nella povertà economica e sociale che interessa oltre l’80% della popolazione, spesso privata della tutela dei diritti fondamentali e, dal 1990, si trasforma in un’emigrazione verso l’estero – ritenuta il modo più sicuro per assicurarsi un futuro -, influenzata più da forze di avversione per il proprio paese, che da forze attrattive dei paesi di destinazione. Con promesse di matrimonio o prospettive di un’occupazione lavorativa, migliaia di ragazze sono finite sulle nostre strade, prigioniere dei loro aguzzini ma anche della situazione, essendo il rientro in famiglia difficilissimo, sia per la cultura albanese che non accetta la prostituzione, sia per il fatto che spesso sono le famiglie stesse complici ignare dell’espatrio.
Qualcosa sta lentamente cambiando ed i giovani – la fascia d’età 0-19 anni rappresenta oltre il 40% della popolazione – che arrivano nelle città per conseguire un titolo di studio, chiedono a gran voce riforme sociali, trasparenza e lotta ad una corruzione che, per troppi anni, ha tacitamente accontentato le generazioni precedenti. Cinquant’anni di dittatura hanno spolpato il sapere di un popolo che guardando nell’ultimo decennio il mondo con la parabola, ha cercato «Lamerica» oltre l’Adriatico scoprendo che, alla fine, si sta meglio a casa propria. Ed i fratelli minori dei primi migranti scelgono oggi sempre più di restare… per cambiare le cose, per tingere di colore – come sta metaforicamente succedendo sui muri della capitale – un futuro vittima di un passato che troppo spesso ha rinnegato se stesso.

Paolo Rossi