Un dono da custodire

PIEMONTE/ ACQUA IN RISICOLTURA

Ci sono punti di partenza diametralmente opposti per l’utilizzo dell’acqua nelle pratiche agricole. Prendiamo ad esempio la coltivazione del riso, la principale attività agricola del Piemonte orientale.
L’utilizzo dell’acqua e del territorio visti come una risorsa da sfruttare hanno prodotto guasti che sono destinati a continuare nel tempo e, in ultima analisi, hanno prodotto costi aggiuntivi per la bonifica dell’acqua ed il recupero del territorio.
Infatti l’impiego per più di trent’anni dei diserbanti chimici in un sistema idrico complesso che ha le acque di superficie in equilibrio con le falde sottostanti ha prodotto una contaminazione delle falde profonde costringendo ad attingere l’acqua potabile in falde sempre più profonde.
Inoltre, la non corretta cura degli alvei dei fiumi che nella parte montana sono stati costretti in argini che ne hanno fatto aumentare la velocità di deflusso a valle dove i letti dei fiumi non più opportunamente dragati favoriscono dannose, periodiche e sempre più frequenti esondazioni. Ora di fronte a questa realtà fatta di contaminazioni ed alluvioni che fare?
L’ottimizzazione del terreno di risaia porta ad un risparmio dell’acqua necessaria per la sommersione, la ricerca sui diserbanti si è sicuramente affinata e si dovrà operare alla luce delle vicende trascorse. Così, ad esempio, la vicenda del bentazone, composto impiegato massicciamente per il diserbo può sicuramente insegnare qualcosa per il futuro.
Il bentazone, prodotto a bassa tossicità ma ad alta stabilità, ha contaminato praticamente tutte le falde più o meno profonde a seconda della compattezza degli strati di argilla presenti nella nostra piana risicola. A completare il danno è sopravvenuto il rimescolamento delle falde con l’impiego di pozzi che attingono acqua da tutte le falde poste in collegamento tra loro e l’escavazione in profondità di ghiaia dai terreni risicoli. L’impiego del bentazone in risicoltura è vietato dal 1986 ma a tutt’oggi lo si ritrova nelle acque emergenti del vercellese ed in pozzi di bassa profondità.
L’auspicio è che il controllo dell’impiego di nuove molecole sia puntuale e continuo per evitare altre contaminazioni che recano danno economico per la bonifica e danno, difficilmente sanabile in tempi brevi, al sistema idrico nel suo insieme.
Noi non siamo solamente fruitori dell’acqua ma, essendo essa un dono di Dio creatore, dobbiamo diventae anche custodi attenti e previdenti.
Il sistema idrico della terra da riso è delicato ed importante per tutto l’ecosistema e non può solamente essere «usato» ma si deve avere cura di non alterarlo, non solo in superficie ma anche nelle falde profonde. Non solo per avere l’acqua necessaria per le risaie ma perché i nostri figli e nipoti possano trovare un ambiente non esaurito e non devastato.
Allora l’acqua per le risaie non è un problema solo degli agricoltori, non è un problema di produttività, ma è attenzione per un dono che rischia di rompersi per imprevidenza, disinteresse e cupidigia.

Luciano Vietti

Luciano Vietti




Acqua per tutti? Sì, basta che paghiamo

L’acqua è un bisogno e un diritto umano. Sembra un’ovvietà, eppure gli organismi inteazionali, come dimostra il recente Forum di Città del Messico, non la pensano così. Perché mai? Come sempre dietro questioni di questa portata ci sono le multinazionali e dietro queste, come sempre, la ricerca del profitto privato. A tutti i costi.

Il 2006 si è aperto con una grave carestia in Africa orientale: in Kenya, Somalia, Etiopia, Eritrea, Gibuti milioni di persone stanno affrontando una grave carenza di cibo. La situazione è stata provocata dall’ennesima siccità.
Siccità ed alluvioni, in entrambi i casi il risultato è lo stesso: sofferenze, vittime, danni.
Qualcuno ribatte: questo è sempre avvenuto, ma un tempo le notizie non si conoscevano come si conoscono oggi nell’era della comunicazione in tempo reale. Non è così: in tutto il mondo, i cambiamenti climatici e l’alterazione del ciclo dell’acqua stanno provocando la cronicizzazione dei fenomeni estremi, con un sempre più frequente alternarsi di periodi di siccità e di alluvioni. E con l’aggravarsi dei processi di desertificazione (1).

LE RESPONSABILITÀ UMANE

Non tutti sono d’accordo sulla drammaticità dei problemi ambientali e soprattutto sulle responsabilità umane. Ad esempio, l’amministrazione Bush, (che però si è in parte ricreduta dopo i disastri dell’uragano Katrina) o ACQUA DIRITTO UMANO?
SÌ, FORSE, MEGLIO NO

In marzo si è svolto a Città del Messico il IV «Forum mondiale dell’acqua». A prima vista, viene da dire: bello, giusto, importante. Ma poi, quando si legge dietro gli slogan, le cose cambiano e di molto.
Tra gli organizzatori del Forum c’erano i membri di «AquaFed», che è l’associazione degli operatori privati dell’acqua, comprendente più di 200 soggetti, tra cui le grandi multinazionali del settore. Dunque, è importante mettere assieme i tasselli del quadro: il Forum è stato finanziato da quelle stesse imprese che cercano di impadronirsi dell’acqua per fae mercato! Ma le multinazionali non sono mai mosse da slanci filantropici, bensì dalla ricerca dell’utile e dal suo continuo incremento (si chiama «massimizzazione del profitto»).
L’alleanza tra i rappresentanti degli interessi neoliberisti (Banca mondiale, Fondo monetario internazionale, Banca interamericana di sviluppo, ecc.) e di quelli privatistici (le imprese multinazionali) ha pesantemente condizionato il Forum e le sue conclusioni. Nella dichiarazione conclusiva firmata dai delegati di 148 paesi si legge che «l’acqua è una garanzia di vita», ma non si fa cenno al concetto di «diritto».
Presagendo questa conclusione, in contemporanea al Forum ufficiale, a Città del Messico si è anche svolto un forum alternativo dei «Movimenti in difesa dell’acqua» al quale hanno partecipato 300 organizzazioni non governative di 40 paesi. Nella loro dichiarazione finale i movimenti hanno affermato che «l’acqua in tutte le sue forme è un bene comune e il suo accesso è un diritto umano fondamentale e inalienabile».
Bisogno o diritto umano? Non è una banale scelta terminologica. Un bisogno può essere soddisfatto in molti modi, soprattutto da chi ha i soldi. Un diritto umano, invece, appartiene per definizione ad ogni persona e non può essere venduto, non può divenire oggetto di mercato, non ha prezzo. Insomma, una bella differenza.
Ci piace citare l’appello del «Forum italiano dei movimenti per l’acqua»: «L’acqua è fonte di vita. Senza acqua non c’è vita. L’acqua costituisce pertanto un bene comune dell’umanità, un bene irrinunciabile che appartiene a tutti. Il diritto all’acqua è un diritto inalienabile: dunque l’acqua non può essere di proprietà di nessuno, ma deve essere condivisa equamente da tutti».

DISCUTIBILI ALLEANZE

Come si è arrivati a mettere in discussione un bene comune come l’acqua?
In un’epoca di neoliberismo e di fondamentalismo del mercato («più impresa, meno stato», è uno dei tanti slogan), si è celebrata l’alleanza tra istituzioni inteazionali ed imprese multinazionali, un’alleanza forte, che gode di protezioni politiche e di una macchina propagandistica formidabile.
«La Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale – scrive Francesco Martone – operano in base all’assioma secondo il quale la dismissione delle imprese di proprietà dello stato in favore di compagnie private può aumentare l’efficienza economica della gestione delle risorse idriche con conseguente riduzione del debito pubblico ed una migliore gestione del bilancio nazionale. I governi prevedono così di ridurre il loro deficit attraverso la privatizzazione. Tuttavia la volontà delle imprese ad investire dipende principalmente dalla loro capacità di massimizzare il ritorno sull’investimento stesso. Quest’ultima dipende a sua volta dal livello di tariffe imposte agli utenti».
Riassumendo, ecco la sequenza degli eventi che produce la privatizzazione dell’acqua: aumento dei prezzi, impossibilità per le classi più povere di accedere al servizio, incremento dei problemi di salute pubblica (diarrea, colera, gastroenteriti, eccetera), investimenti concentrati nelle zone a reddito certo, escludendo pertanto le zone rurali e le periferie degradate (come sono la maggior parte delle baraccopoli).

L’ACQUA IN UN MONDO
PRIVATIZZATO

Secondo Maude Barlow e Tony Clarke (4), «la mercificazione dell’acqua è sbagliata dal punto di vista etico, ambientale e sociale».
«L’antidoto alla mercificazione dell’acqua – continuano i due studiosi ed attivisti canadesi – è la sua demercificazione. L’acqua deve essere dichiarata e concepita come proprietà di tutti. In un mondo dove tutto viene privatizzato, i cittadini devono stabilire chiari perimetri intorno a quelle aree che sono sacre per la vita e necessarie alla sopravvivenza del pianeta. I governi dovrebbero semplicemente dichiarare che l’acqua appartiene alla terra e a tutte le specie ed è un diritto umano fondamentale. Nessuno ha il diritto di impadronirsene a fini di lucro».
Barlow e Clarke non hanno fiducia né nei governi né nelle istituzioni globali. Le loro speranze sono riposte nella società civile. Ma basterà?

Paolo Moiola


(4) Maude Barlow e Tony Clarke, I padroni dell’acqua, The Nation (Usa), ripreso dal settimanale Internazionale del 30 agosto 2002. Maude Barlow e Tony Clarke sono autori di vari studi sui problemi dell’acqua.

Paolo Moiola




Alcuni dati sull’acqua

SEMPRE MENO ACQUA

• acqua sul pianeta:
– 97,5% di acqua salata
– 2,5% di acqua dolce
– 0,5% di acqua dolce accessibile

• disponibilità (potenziale) di acqua dolce a testa all’anno:
– nel 1950: 17.000 metri cubi
– nel 2002: 6.600 metri cubi
– nel 2025: 4.800 metri cubi

Fonti: Nazioni Unite, rapporto Legambiente 2003, Quotidiano responsabile (Emi), Internazionale.

DATI DA BRIVIDI

• persone senza accesso all’acqua potabile:
più di 1 miliardo di persone (da 1,1 a 1,4 miliardi); l’88% dell’acqua potabile mondiale viene consumata solo dall’11% della popolazione.

• consumo (domestico) di acqua dolce a testa:
– uno statunitense: 700 litri di acqua al giorno
– un europeo: 200 litri
– un palestinese: 70 litri
– un haitiano: 20 litri
Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) al di sotto della soglia di 50 litri al giorno per abitante si può parlare di «sofferenza per mancanza d’acqua».

• morti a causa dell’acqua insalubre:
30.000 morti al giorno, soprattutto bambini e anziani.

• consumi (domestici) di acqua in Italia:
– ogni italiano consuma 250-300 litri di acqua al giorno (ma – secondo Legambiente – il prelievo alla fonte è di 387 litri: la differenza si perde per strada!); siamo primi in Europa e terzi nel mondo, dopo gli Stati Uniti e il Canada.
Come consumano i loro 250-300 litri d’acqua gli italiani? In maniera sorprendente: 39% per bagno o doccia, 20% per i sanitari (gabinetto), 12% per il bucato (lavatrice), 10% per il lavaggio delle stoviglie, 6% per l’uso in cucina, 6% per il lavaggio dell’auto e per il giardino, 6% per altri usi e soltanto l’1% per bere.
Sono esclusi da questo computo i quantitativi di acqua utilizzati per l’agricoltura (di gran lunga la prima consumatrice), per l’industria e per la produzione di energia.

• consumi di acqua in bottiglia in Italia:
– ogni italiano consuma 184 (!) litri di acqua in bottiglia all’anno, un primato mondiale.

Fonti: Nazioni Unite, rapporto Legambiente 2003, Quotidiano responsabile (Emi, 2004), Internazionale, Earth Policy Institute.

Paolo Moiola




Acqua del rubinetto? Si, grazie!

Lo scandalo dell’acqua (3): l’acqua di casa

La strategia è chiara: diffondere diffidenza verso l’acqua del rubinetto, un tempo foita da società pubbliche. Un tempo, perché da qualche anno è in corso il tentativo di vendere le infrastrutture idriche pubbliche a società private. La scelta di privatizzare anche l’acqua del rubinetto si inserisce nel consueto schema neoliberista. Ma è una scelta inaccettabile, a cui molti movimenti nati dalla società civile, a Sud come a Nord, si stanno opponendo strenuamente, pur tra mille difficoltà.

L’acqua che scorre dal rubinetto di casa non è un fatto scontato. Al contrario: solo 16 persone su 100 possono aprire un rubinetto e veder scorrere acqua potabile. Nella maggioranza dei paesi del Sud del mondo, soprattutto in Africa, l’acqua non arriva in casa, ma occorre procurarsela ai pozzi, alle sorgenti, ai fiumi, ai laghi. Si calcola che 18 milioni di bambine e bambini sono costretti a fare i portatori d’acqua a causa della mancanza o dell’inaccessibilità degli acquedotti.
Precisato questo, cosa sta avvenendo dove esiste un sistema di distribuzione, nei paesi del Sud come in quelli del Nord? Si assiste al tentativo di privatizzare gli acquedotti, sottraendoli cioè alla gestione pubblica.
Il tutto accade senza fare troppo rumore, per evitare l’opposizione delle popolazioni. Per fortuna, l’operazione non sempre riesce.

RUBINETTI… D’ORO

Come a Cochabamba ed El Alto, ma anche a Napoli, Caserta, Arezzo: due città boliviane ed alcune città italiane idealmente unite nel combattere contro la privatizzazione dei loro acquedotti.
A Cochabamba e ad El Alto hanno combattuto e vinto, sconfiggendo niente di meno che due multinazionali del calibro della statunitense Bechtel e della francese Suez. Nelle città della Campania e della Toscana si sta ancora discutendo, dopo che la decisa opposizione dei movimenti civici per l’acqua ha fermato la macchina della politica e del business.
A Cochabamba l’eroe della prima «guerra dell’acqua» (la seconda è stata quella di El Alto, sempre in Bolivia) è stato Oscar Olivera, operaio e sindacalista.
A Napoli la rivolta è capeggiata da padre Alex Zanotelli, missionario comboniano molto noto per le sue battaglie a fianco della società civile, prima in Kenya, ora in Italia.
A Sud come a Nord la motivazione addotta per giustificare la privatizzazione dei servizi idrici è sempre la solita: l’inefficienza della gestione pubblica. Invece di correggere il pubblico si pensa subito al privato, facendo finta di non ricordare che il privato ha come primo obiettivo il guadagno e per ottenerlo subito è disposto a tutto, indipendentemente dal consenso della clientela.
A Cochabamba, prima della vittoriosa rivolta, le tariffe della Bechtel-Aguas del Tunari, erano aumentate del 68 per cento! Identicamente sono aumentate le tariffe nei comuni italiani che hanno rinunciato ad una gestione pubblica dei servizi idrici. Ad Arezzo, ad esempio, le bollette sono aumentate del 200 per cento.
L’ordinamento italiano prevede 3 modalità di affidamento dei servizi pubblici locali: la gestione interamente pubblica (definita in house providing), la gestione mista (cioè con capitale pubblico e capitale privato) e la gestione interamente privata. Dopo l’elettricità, il gas, i rifiuti, i trasporti urbani, adesso si è giunti alla privatizzazione dell’acqua e dei servizi ad essa collegati (captazione, depurazione, distribuzione, eccetera).
Ma l’acqua non è un bene come un altro; è un bene vitale a cui tutti debbono avere accesso. Data la sua natura di diritto umano fondamentale, la sua gestione dovrebbe sempre essere esclusivamente ed interamente pubblica. Escludendo dunque realtà come l’Acea di Roma, che è una società pubblico-privata, dove tra i soci di minoranza c’è il gruppo Caltagirone (cioè un pezzo da novanta del capitalismo privato).
Questo chiedono i movimenti civici per l’acqua sorti in tutta Italia. Questo chiede la legge di iniziativa popolare per la quale si stanno raccogliendo le firme.
Sta ottenendo molte attenzioni l’esperienza dell’acquedotto pugliese, società a capitale interamente pubblico, il cui presidente è addirittura il professor Riccardo Petrella, notissimo per le sue battaglie in favore dell’acqua come diritto, nonché presidente dell’«Università del bene comune» (che ha una facoltà dell’acqua).
In Italia ogni persona consuma mediamente 250-300 litri al giorno, ma i litri prelevati sono molti di più a causa delle perdite (tabella 4). Un buon governo pubblico dell’acqua dovrebbe avere come obiettivo anche un uso sostenibile della risorsa, riducendo i consumi e gli sprechi.

L’INDIA E LE DONNE
DELL’ACQUA

In Italia si spreca, in altri luoghi del mondo per avere l’acqua si deve combattere. In India due donne, due personalità come Arundhati Roy e Vandana Shiva, si sono messe alla guida di movimenti popolari che contestano le autorità per le loro scelte in materia di acqua.
La scrittrice Arundhati Roy (famosa soprattutto per il romanzo Il Dio delle piccole cose) sta combattendo a fianco delle popolazioni che si oppongono alla costruzione di un’enorme diga sul fiume Narmada, una diga che sommergerà 91 mila ettari di terra, 249 villaggi e la città di Harsud.
La scienziata Vandana Shiva è al fianco delle popolazioni indiane che stanno battendosi (in Kerala, Rajahstan, Utar Pradesh) contro lo scriteriato pompaggio delle falde acquifere da parte della Coca Cola, che nel paese possiede decine di stabilimenti. Si calcola che per produrre un litro di Coca Cola siano necessari ben 9 (!) litri di acqua potabile.
In India, considerata una potenza economica emergente, 500 milioni di persone non sanno cosa sia l’acqua potabile.

Paolo Moiola


ACQUA-DIRITTO O ACQUA-MERCE?

• l’acqua come diritto
L’acqua è un diritto umano essenziale e pertanto inalienabile. Trarre profitto (privato) dall’acqua dovrebbe essere vietato.

• l’acqua come merce
Come sempre accade quando un bene o un servizio sono gestiti da privati, il beneficio di quel bene o di quel servizio andrà soltanto a chi può permetterselo. Ma allora l’acqua smette di essere un «diritto umano» per diventare una «merce».

• le conseguenze dell’acqua come merce
Abbiamo visto che alla lunga dalle ingiustizie derivano sempre conseguenze negative per le società (si veda quanto accaduto dopo la privatizzazione dell’acqua in Bolivia) e l’intera collettività umana. Per questo la mercificazione dell’acqua va fermata subito.

Pa.Mo.

Paolo Moiola




Acqua in bottiglia? No, grazie!

Lo scandalo dell’acqua (4): l’acqua in bottiglia (di plastica

Abbagliati da una pubblicità ossessiva ed invadente, gli italiani sono i primi consumatori mondiali di acqua in bottiglia: 184 litri a testa! Eppure la logica direbbe di non comprare o almeno di limitare l’acquisto di questo prodotto. Che costa uno sproposito, impoverisce lo stato, inquina il mondo e da ultimo non è proprio detto che faccia così bene…

Un famoso calciatore e una giovane miss Italia: sono loro i testimonial più utilizzati in questi mesi del 2006. La pubblicità, invero simpatica, è quella di due note marche di acqua minerale.
I produttori di acque minerali spendono cifre da capogiro sui media e in particolare in televisione per pubblicizzare i loro taumaturgici prodotti: 300 milioni di euro nel 2004, 600 miliardi di vecchie lire (fonte Nielsen).
Dato che gli introiti della pubblicità sono sacri e spesso fondamentali è difficile leggere o vedere qualcosa contro le acque minerali (1). Trovare qualche notizia libera da condizionamenti è un’impresa, soprattutto sui media importanti, come riconosce, con amarezza, Giuseppe Altamore nel suo libro Qualcuno vuol darcela da bere.
«È (…) un tema – si legge – dai risvolti oscuri tale da suscitare una certa indignazione in chi pensa che la libertà di stampa sia un diritto inderogabile. Purtroppo, l’informazione economica è sottoposta a pressioni e contaminazioni il più delle volte ignorate dai lettori. Nel campo delle acque minerali prevalgono gli interessi dei grandi gruppi del comparto alimentare che aderiscono a Mineracqua, organizzazione aderente a Confindustria. (…) i produttori di minerale fanno parlare di sé a ogni spot televisivo, invadono le pagine dei giornali, rimpinguano gli esausti bilanci delle case editrici che accettano ben volentieri milioni di euro di pubblicità in cambio di un tacito silenzio».
Anche la rivista Altroconsumo vive senza pubblicità ed infatti sul numero 126 dell’aprile 2000 si legge: «“Coccola i reni”, rende la vita leggera, aiuta a fare ping! ping!, reintegra il giusto equilibrio di minerali… le teste d’uovo della pubblicità usano tutta la loro fantasia per convincerci che l’acqua minerale è poco meno di una panacea. Dato che in Italia se ne bevono fiumi, c’è da stupirsi che ci sia ancora in giro qualche malato.
La verità è diversa. L’acqua in bottiglia fa bene, sì, esattamente come quella di rubinetto. Non ci sono motivi fondati per aspettarsi chissà quale vantaggi per la salute dall’acqua minerale, così come non ce ne sono neanche per diffidare sistematicamente di quella foita dagli acquedotti (…). In linea di massima, l’unico motivo per preferire l’acqua minerale è il gusto: vi piace di più di quella che passa il rubinetto di casa».
La conclusione dell’inchiesta di Altroconsumo è ironica: «È proprio vero che l’acqua minerale rende più leggeri, soprattutto i nostri portafogli».

ITALIANI: SORDI E CIECHI

Nel 2003 un rapporto di Legambiente (2) scriveva: «In Italia si consuma più acqua minerale che in qualsiasi altro paese del mondo: circa 172 litri l’anno pro-capite, con un giro d’affari attorno ai 3 miliardi di euro (6.000 miliardi di vecchie lire). Nella sola ristorazione si utilizza il 35% del mercato totale nazionale, settore in crescita per effetto dell’aumento dei pasti fuori casa.
Ma l’iperconsumo di acqua minerale in bottiglia non è proprio un comportamento virtuoso. L’impatto ambientale dell’acqua in bottiglia, per cominciare. Se ogni italiano consuma 172 litri di acqua minerale in un anno, vuol dire che consuma in media 90 bottiglie di plastica e una trentina di vetro. La popolazione italiana conta 55 milioni di abitanti. Dunque ci sono quasi 5 miliardi di bottiglie di plastica da smaltire ogni anno. Tenendo conto che la raccolta differenziata della plastica ne intercetta il 20% circa, almeno 4 miliardi di bottiglie finiscono in discarica. Ogni anno bere ci costa circa 1 milione di metri cubi di discariche. Oltre a questo c’è il problema dell’impatto ambientale dovuto al trasporto su gomma delle bottiglie, con spostamenti del tutto irrazionali che portano acque del sud al nord e viceversa».
Intanto, dopo questo rapporto di Legambiente, il consumo è ulteriormente aumentato. Nel 2004 il consumo di acqua in bottiglia sarebbe stato di 184 litri per italiano: un primato mondiale. Il dato proviene dal prestigioso Earth Policy Institute di Lester Brown (3).

VITA DA CONSUMATORE

Immaginiamo che il nostro consumatore vada al supermercato a comprare l’acqua. Il primo problema da affrontare sarà la scelta: le marche sono decine. Prendere quella che aiuta la digestione o quella che fa andare in bagno? Comunque sia, dalla più famosa alla meno cara, tutte regaleranno al nostro compratore un bel peso (difficile che si acquisti un solo litro) da trasportare, prima alla cassa del negozio, poi a casa (dove magari manca l’ascensore).
Arrivate a destinazione, le bottiglie di acqua saranno consumate. Senza certo soffermarsi sulla lettura dell’etichetta, tra l’altro di solito scritta con lettere minuscole. Residuo fisso a 180 gradi mg/l (milligrammi per litri) e poi una lista di sostanze disciolte in un litro d’acqua espresse in ioni e mg. Tra i pochi che leggeranno, quanti sapranno interpretare queste informazioni? La cosa più comprensibile sarà, probabilmente, il nome di quel dipartimento universitario o di quella Asl che hanno svolto l’analisi chimica e chimico-fisica. Quando? Il 22 marzo 2004. Siamo nel giugno 2006 e dunque sono passati più di 2 anni. Un periodo certo non breve in un mondo dove tutto cambia molto rapidamente. Ma, per una volta, cerchiamo di non essere troppo maligni: quella sorgente è sicura, al riparo da contaminazioni.
Il nostro consumatore ha terminato l’acqua. Che ne farà della bottiglia in Pet? Se rientra nel gruppo del 20% degli italiani che fa regolarmente la raccolta differenziata, cercherà un contenitore per depositare le bottiglie vuote (magari dopo averle accartocciate per non occupare spazio inutilmente). Se invece rientra nel gruppo, purtroppo ben più consistente, di coloro che non fa la raccolta differenziata, getterà le bottiglie nel contenitore della spazzatura (magari anche lamentandosi del servizio di nettezza urbana e dei suoi costi crescenti).
Il nostro consumatore è convinto del prodotto acquistato. Televisioni, radio, giornali gli ricordano in continuazione che l’acqua minerale è più sana, più controllata, più salutare dell’acqua del rubinetto.
Non è vero. Svariate inchieste (ad esempio, Altroconsumo n. 160 del maggio 2003) hanno dimostrato che l’acqua del rubinetto è sottoposta a severi controlli e nella maggioranza dei casi è più garantita di quella in bottiglia. Certamente occorrerebbe investire soldi pubblici negli acquedotti, nel trattamento delle acque reflue, nei controlli sugli scarichi industriali ed agricoli. Costi elevati per casse pubbliche sempre più vuote. Ma siamo certi che non sarebbero soldi ben spesi?

PROFITTI PRIVATI,
PERDITE PUBBLICHE

Già, i soldi. Toiamo al nostro consumatore per capire quanto gli costa comprare quei litri di acqua diuretica, leggera, frizzante, briosa, quasi senza sodio, eccetera eccetera. Il prezzo varia dai 20 ai 50 centesimi al litro. Moltiplicate questo per 184 litri all’anno a persona e otterrete un bel costo. E l’acqua che sgorga dal rubinetto di casa? Costa circa un euro. Però non al litro, ma al metro cubo, cioè per 1.000 litri!
Ma l’argomento costi non si esaurisce qui. La bottiglia in plastica (che in Italia è il 77 per cento del totale) (4) fa risparmiare le imprese ma grava – tanto per cambiare – sulle casse pubbliche. Il costo di una bottiglia in Pet è di circa un centesimo contro i 25 centesimi per una bottiglia di vetro. I costi dello smaltimento del le bottiglie in plastica ricadono però sulle regioni che spendono molto di più di quanto incassino dai canoni delle concessioni per lo sfruttamento delle fonti. Per capire l’entità della questione: su un giro d’affari delle aziende produttrici pari a 2,8 miliardi di euro (5.500 miliardi di vecchie lire) il canone di concessione arriva a circa 5,16 milioni di euro (un miliardo di lire) (5). In sintesi: profitto per le imprese, costi per lo stato e la collettività.
L’Earth Policy Institute ha calcolato l’ammontare di plastica usata ogni anno per produrre le bottiglie per l’acqua: 2,7 milioni di tonnellate! Consumata l’acqua, le bottiglie vengono riciclate in minima parte (le percentuali variano molto da paese a paese); le restanti vanno ad incrementare le discariche o, qualora siano incenerite, ad aumentare le scorie tossiche.
Insomma, ogni volta che andiamo al supermercato, prima di comprare dell’acqua minerale, pensiamo un attimo se ne valga veramente la pena.

Paolo Moiola

Note:
(1) Informazione libera si può trovare sui giornali delle associazioni ambientaliste (Legambiente, Wwf, eccetera), altromondiste (Mani Tese, Unimondo, ecc.) o dell’economia equa e solidale (Altreconomia, Valori, ecc.).
(2) Legambiente, H2Zero. L’acqua negata in Italia e nel mondo, giugno 2003.
(3) Emily Aold, Bottled Water: Pouring Resources Down the Drain, Earth Policy Institute, febbraio 2006.
(4) Anche in questo l’Italia è in ritardo. In Germania, sono in Pet soltanto il 24 per cento delle bottiglie; ben il 75 per cento sono in vetro.
(5) Si veda il Dossier Acque minerali (2005), curato dal «Comitato italiano per il contratto mondiale sull’acqua».


ACQUA DEL RUBINETTO O ACQUA IN BOTTIGLIA?

• il costo
L’acqua del rubinetto costa molto (molto) di meno di quella in bottiglia.

• la salubrità
Non è affatto detto che l’acqua del rubinetto sia qualitativamente inferiore all’acqua in bottiglia. Anzi…

• i costi per la collettività
A fronte di ricavi collettivi molto esigui (le concessioni di sfruttamento vengono rilasciate alle imprese private per pochi spiccioli) ci sono enormi e crescenti costi collettivi, a cominciare dallo smaltimento delle bottiglie di plastica.

• i costi per il pianeta
L’impatto ecologico dell’acqua in bottiglia di plastica è incalcolabile. Non va, inoltre, dimenticato l’impatto sociale che nasce dal diffondersi dell’idea dell’acqua come merce e non come diritto umano.

• la scala dei valori
Bere acqua del rubinetto sottende anche una scelta valoriale. Bere acqua in bottiglia è infatti una risposta individualistica, un comportamento questo che si traduce nella rinuncia alla ricerca dell’acqua come «bene comune» fornito dal servizio pubblico (*).

Pa.Mo.

(*) Si legga il Dossier Acque minerali curato dal «Comitato italiano per il Contratto mondiale sull’acqua».

Paolo Moiola




Per approfondire

BIBLIOGRAFIA

a) per conoscere:

• Giuseppe Altamore, I predoni dell’acqua, Edizioni San Paolo 2004.
• Giuseppe Altamore, Qualcuno vuol darcela da bere, Fratelli Frilli Editori, 2003.
• Vandana Shiva, Le guerre dell’acqua, Feltrinelli 2004.
• Oscar Olivera, Cochabamba! Water war in Bolivia, Usa 2005.
• Luca Mercalli – Chiara Sasso, Le mucche non mangiano cemento, Sms 2005.
• Aa.Vv., L’acqua come cittadinanza attiva, Emi 2003.
• Andrea Palladino e Astrid Lima, L’acqua invisibile, Boker Media e Associazione Liblab 2005 (un film sulla privatizzazione dell’acqua a Manaus).

b) per agire:

• Andreas Schlumberger, 50 piccole cose da fare per salvare il mondo e risparmiare denaro, Apogeo 2005.
• Ugo Biggeri – Valeria Pecchioni – Anne Rasch, Quotidiano responsabile. Guida per iniziare giorno per giorno a prendersi cura del mondo e degli altri, Emi 2004.
• Marinella Correggia, Manuale pratico di ecologia quotidiana, Mondadori 2000.

c) per tenersi aggioati:

• «Altreconomia», L’informazione per agire, rivista mensile, racconta in maniera facile i problemi dell’economia, proponendo vie alternative alle attuali.
• «Valori», rivista mensile di economia sociale e finanza etica; è più specialistica di «Altreconomia», rivolta a chi non crede alle pagine finanziarie ed economiche dei giornali.
• «Altroconsumo», rivista mensile per i consumatori; si riceve per abbonamento e costa abbastanza cara ma per un’ottima ragione: non contiene una sola riga di pubblicità e, di conseguenza, non è da questa condizionata.

SITI INTERNET

a) siti di informazione critica:

• www.contrattornacqua.it – con accurati dossier in formato Pdf
• www.legambiente.com – un sito ricco di informazioni ed idee
• www.acquabenecomune.org – con le principali leggi in materia
• www.waterobservatory.org – un sito internazionale
• www.worldwater.org – un sito internazionale

b) siti commerciali:

• www.aquafed.org – il sito delle multinazionali dell’acqua
• www.mineracqua.it – il sito italiano dei produttori di acqua in bottiglia: molta autopromozione (e, ovviamente, nessuna autocritica)

PaMo




INTRODUZIONE

Isola di santi e di giganti, di miti e di leggende; patria di scrittori straordinari e di musica travolgente, di gente cordiale… L’Irlanda è tutto questo e altro ancora. Qui nasce la Guinness, qui vivono fate e folletti, qui la storia fa capolino a ogni angolo.
Si dice pure che gli irlandesi assomigliano agli italiani, o viceversa. È certo che gli irlandesi sono stati un popolo di migranti e, come gli italiani, sono sparsi in tutto il mondo.
Soprattutto, l’Irlanda è patria di tanti missionari, che hanno contribuito alla prima evangelizzazione del continente, dal Belgio all’Italia, dalla Francia alla Polonia, contribuendo alla costruzione dell’Europa cristiana. Ancora oggi migliaia di suoi missionari continuano l’evangelizzazione in tutti i continenti.
«La storia dell’Irlanda è stata ed è fonte d’ispirazione umana e spirituale per le popolazioni di ogni continente. Essa ha ereditato una nobile missione cristiana e umana; il suo contributo per il benessere del mondo e per la nascita di una nuova Europa può essere oggi tanto grande quanto lo è stato nei giorni più luminosi della sua storia. È questa la missione e la sfida lanciata all’Irlanda in questa generazione» (Giovanni Paolo ii).
Ora che sono entrati a far parte dell’Unione europea, gli irlandesi sembrano aver smarrito una delle loro caratteristiche storiche: la solidarietà. Ma non tutti. Oltre alla chiesa, Bono e la sua U2 continuano a schierarsi a fianco dei più poveri del mondo.

Benedetto Bellesi




Verso il futuro senza memoria?

Bere una pinta di Guinness in Irlanda, più che un rito è una vera e propria arte: dopo la prima spillatura, la birra viene lasciata decantare diversi minuti, in modo da permettere a tutte le minuscole bollicine di risalire faticosamente in superficie. Poi, ecco l’oste rabboccare di nuovo il bicchiere, sino a che il liquido maltoso e scuro è sovrastato da un centimetro di densa schiuma bianca tendente al beige. Solo a questo punto la Guinness è pronta per essere gustata in tutta la pastosità che la contraddistingue.
Capire l’Irlanda è un po’ come bere la Guinness. Occorre tempo, pazienza; bisogna abbandonare la frenesia del «veder tutto», lasciandosi trasportare dalle piccole cose, dai particolari, in modo da permettere ai nostri sensi di abituarsi al retrogusto amarognolo che l’Irlanda, quella vera, può infliggere al primo impatto.

l’Irlanda che non c’è più

Sì, l’Irlanda può lasciare l’amaro in bocca alla maggior parte dei turisti che giungono qui con l’impeto e la sana cecità fanciullesca di chi vuole a tutti i costi scoprire il paese delle favole abitato da Leprecaro. Turisti in cerca di una cultura celtica che, nella realtà, viene celata nell’anima modea irlandese. Anche uno scrittore alternativo come Joseph O’Connor, fratello della famosa cantante Sinead, dice che «la tragedia centrale dell’Irlanda è – e lo è sempre stata – il conflitto fra la vita privata e la fantasia pubblica».
E di fantasia pubblica si è assorbita Agnese, la ragazza che mi è accanto sull’aereo della Aer Lingus, che da Dublino mi riporta a Bergamo: «Pensavo di trovare un paese tradizionale, più legato al proprio passato, ma mi sono trovata immersa in una nazione proiettata verso il futuro».
Le fa eco Riccardo, ricercatore all’Università di Venezia, che sta scrivendo un libro sulle origini delle culture nordeuropee: «I giovani irlandesi non sanno nulla della cultura celtica e della mitologia; e il fatto è che non ne sono neppure interessati».
Ciò di cui si sono accorti Riccardo e Agnese, 70 anni fa lo aveva scritto un grande poeta come William Butler Yeats, il più irlandese dei poeti (vedi riquadro a p. 34) e, forse proprio per questo, il meno capito e letto tra gli irlandesi:
«L’Irlanda romantica è morta
e scomparsa. È con O’Leary nella sua tomba».
E se lo ha scritto Yeats, perché non crederci? Perché ostinarsi a cercare ciò che il tempo e la rivoluzione repubblicana d’indipendenza hanno sempre combattuto e cercato di estirpare?
«Udii i vecchi, molto vecchi, dire:
Tutto ciò che è bello trascorre come le acque» scrive ancora Yeats.
Ed è proprio sulle orme di questo sommo poeta, Premio Nobel della Letteratura nel 1923, che vado alla scoperta dell’isola, o meglio, di quella parte dell’isola che il 6 dicembre 1921 si emancipò dall’occupazione britannica dando vita alla Repubblica Irlandese.
«Tutto ciò che è bello trascorre»; ricordiamoci dunque queste parole quando andiamo in Eire, perché anche l’Irlanda mitologica, quella rincorsa dai turisti in cerca dei «valori autentici e ancestrali» non abita più qui. Cercatela da un’altra parte!

Tra mitologia e religione

Ciò che si troverà in Irlanda sono i paesaggi bucolici alla Tuer; i cieli immensi, variopinti e un po’ malinconici, che contrastano magnificamente con il verde dei prati; le scogliere contro cui si frangono le onde dell’Atlantico; il vento persistente, che spruzza contro il viso minuscole goccioline di pioggia; i pubs in cui si riuniscono vecchi e giovani per parlare di calcio, hurling, donne e lavoro e politica.
E non è un caso che molti dei personaggi che più si sono interessati all’Irlanda, siano stranieri. Straniero era san Patrizio, il patrono del paese a cui è dedicata la festa nazionale del 17 marzo; straniero era anche Tolkien, il più grande studioso di culture e lingue celtiche, autore de Il Signore degli anelli. Il suo capolavoro è forse l’epopea più completa della mitologia celtica e la sua lettura è senz’altro il miglior modo per entrare in contatto con l’Irlanda.
E chi legge Il Signore degli anelli non può fare a meno di accorgersi che tutto il libro rimanda all’Antico Testamento: la lotta tra la Luce e le Tenebre; il Male (Gollum) che diventa mezzo per far trionfare il Bene. La forte solidarietà che regna tra la Compagnia (partita da Gran Burrone il 25 dicembre) permette a Frodo di completare la sua missione (la quale viene portata a termine il 25 marzo, giorno dell’Annunciazione di Maria). L’anello, simbolo del Male e del Potere, viene distrutto nel giorno in cui l’Arcangelo Gabriele annuncia a Maria il suo concepimento. Il Male viene distrutto nel momento stesso in cui la salvezza viene tra l’uomo.
Ecco, l’Irlanda è anche questo, una terra in cui mitologia e religione si confondono. Ma per capie la mitologia, occorre passare attraverso la religione. E l’Irlanda è la terra, assieme alla Spagna e all’Italia, dove il cattolicesimo è più incisivo nella vita quotidiana e pubblica.
Il conflitto in atto nelle Sei Contee (nome con cui i repubblicani definiscono l’Ulster, l’Irlanda del Nord), pur non essendo esclusivamente di natura religiosa, ha profonde radici attinenti alla religione: repubblicani cattolici contro monarchici protestanti.
Gli innumerevoli monasteri e le famose torri circolari, che si innalzano dalle verdi praterie come dita a indicare il cielo, sono state le casseforti in cui si sono conservati preziosi manoscritti e documenti storici, oltre che sicuri rifugi popolari contro le incursioni estee.
Pensiamo, ad esempio, a cosa avrebbe perso il mondo se i monaci di Iona non avessero scritto e salvato nell’806 il Libro di Kells, contenente i quattro vangeli in latino e considerato il codice miniato fra i più belli al mondo.
Nell’Irlanda di oggi si ravvisa ancora tutto questo misticismo. È vivo, lampante, chiaro. Non bisogna neppure cercarlo, perché è sempre dinnanzi al visitatore.
E non sorprende, dunque, che nel paese l’aborto sia illegale, che in corrispondenza dei cimiteri ci si faccia il segno della croce o che in alcune stazioni radio si osservi un minuto di silenzio per la preghiera serale e che da un saldo demografico negativo negli anni 1950-70, oggi la nazione è tra le più prolifiche d’Europa, con un tasso d’incremento annuo dell’1,16%.

E’ cambiato l’irlandese

Ma in che cosa sta cambiando l’Irlanda?
«Vai nei pubs per accorgerti di come stia cambiando l’irlandese – afferma Brid O’Nelly, giovane attivista del Fine Gael, la seconda organizzazione politica del paese dopo il Fianna Fáil -. Fino a qualche decennio fa parlare gaelico era indice di sano nazionalismo, di solidarietà con i nostri fratelli delle Sei Contee. Oggi in alcune regioni attorno a Dublino e alle grandi città ci si vergogna a parlare la lingua dei nostri avi. Ci si sente provinciali, esclusi dal mondo globale».
Girovagando per l’Irlanda, mi accorgo di quanto sia vera l’affermazione di Brid: nelle scuole stanno sorgendo un po’ ovunque comitati di genitori che chiedono la riduzione delle ore di insegnamento del gaelico per far posto a una seconda lingua europea, mentre i corsi di gaelico organizzati dai circoli culturali o dai movimenti nati per non far morire questa lingua, sono frequentati soprattutto da stranieri.
E se nelle città il gaelico non lo parla più nessuno, anche nelle campagne sta scomparendo. I Gaeltacht, le zone dell’Irlanda dove la lingua celtica continua a essere parlata, si restringono sempre più, divenendo isole nell’isola. Solo l’11% dei 4 milioni di irlandesi conosce la lingua dei propri avi; ma solo il 3%, la quasi totalità dei quali al di sopra dei 50 anni e concentrati nel Donegal, lo parla quotidianamente. E se gli irlandesi si commuovono a cantare Amhràn na bhFiann, «La canzone del soldato», l’inno nazionale che ricorda i moti rivoluzionari degli anni Venti, quando la nazionale Irlandese batté l’Italia ai mondiali di calcio del 1994 negli Stati Uniti, ci si accorse che molti giovani non conoscevano le parole dell’inno in gaelico.
«Cosa mi serve imparare una lingua che nessuno parla neppure nel mio paese?» chiede perplesso Fergus, nome gaelico, ma lingua inglese.

Irlanda in europa

L’entrata dell’Irlanda in Europa, oltre che a innestare l’isola nel mondo culturale del continente, ha permesso al governo di ricevere stanziamenti miliardari per il rilancio dell’esausta economia.
Dublino è riuscito a comprendere l’importanza dell’industria turistica, destinando una quota considerevole del suo budget al potenziamento degli uffici turistici all’estero, che oggi sono tra i più efficienti al mondo. E grazie a un’interessante e intelligente politica di recupero architettonico, accompagnata da un’opera di grande pubblicità, gli irlandesi sono anche riusciti a rendere monumenti e paesaggi, che in altri luoghi apparirebbero di poco interesse, mete turistiche d’eccellenza.
Penso ad esempio a Galway, cittadina della costa atlantica, presa d’assalto e devastata da orde di turisti, o Powerscourt, una villa ottocentesca con parco annesso, che in Italia non meriterebbe menzione particolare tra le guide turistiche… «Gli irlandesi dovrebbero insegnare a noi italiani a come valorizzare il nostro patrimonio» sentenzia una coppia di italiani di fronte alla Kylemore Abbey.
Ma l’entrata in Europa dell’Eire, ha portato anche allo sviluppo dell’economia produttiva: «Sono riuscita a portare l’Irlanda da paese trainato a paese trainante dell’Europa» dice orgogliosa la presidente Mary McAleese, alla guida della nazione dal 1997, quando sconfisse con il 44,8% dei voti la rivale Mary Canotti.
I numeri che oggi sfoa l’economia irlandese si avvicinano più a valori asiatici che europei: tra il 1995 e il 2004 è aumentata del 7%, mentre la produzione industriale nel solo 2005 è cresciuta del 3%.

Solidarietà smarrita

Tutto questo, però è costato enormi sacrifici agli irlandesi: l’agricoltura, voce trainante del sistema fino a qualche lustro fa, ha subito un vero e proprio tracollo, contribuendo, oggi, solo per un mero 5% del Pil e occupando l’8% della forza lavoro. L’industria, per contro, partecipa per il 46% al Pil, occupando il 29% della forza lavoro.
Lo spostamento degli investimenti dalle zone rurali a quelle industriali ha causato il dislocamento di migliaia di persone, le quali non tutte hanno trovato sistemazioni adeguate. A Dublino e a Limerick si stanno ingrossando i sobborghi popolari, in cui si concentra la maggioranza del 4,2% della popolazione disoccupata e il 10% di chi vive al di sotto del limite della povertà.
Già, perché l’Irlanda, quella vera, quella non toccata dal turismo, quella che i «cercatori» di druidi e folletti non vedono, è anche questa: povertà, emarginazione, sfruttamento. «La globalizzazione e la Comunità europea hanno impoverito i lavoratori. Si chiudono scuole, asili, centri comunitari lasciando alle singole famiglie il compito di provvedere a trovare soluzioni che dovrebbero essere compito delle amministrazioni pubbliche» dice Sean Garland, segretario generale del Workers’ Party (partito dei lavoratori).
Così ci si affida sempre meno allo stato e sempre più alle organizzazioni religiose, alle cornoperative o all’autogestione. Nei Ballymun Flats, un quartiere popolare alla periferia di Dublino, la povertà e la criminalità è tra le più alte dell’intera isola. Padre McCarthy vi lavora da anni con una comunità di recupero per drogati: «L’uso di stupefacenti non ha ancora raggiunto i livelli che si riscontrano in Gran Bretagna e nelle città-ghetto britanniche, ma questo potrebbe ben presto cambiare. Lo stato sta gettando la spugna, preferendo occuparsi dei cittadini “modello” che non danno problemi. I diseredati, gli emarginati, i disoccupati, i poveri possono essere sacrificati. Tocca a noi occuparci di loro».
L’Irlanda sta davvero cambiando: l’Europa economica di Maastricht ha prevalso sulla solidarietà, che ha salvato milioni di vite durante le innumerevoli carestie del passato. E allora come non dare ragione a Joseph O’Connor, quando afferma «il fatto che, a parte Yeats, tutti i più importanti scrittori irlandesi degli ultimi 150 anni siano stati socialisti rivoluzionari, è stato dimenticato da coloro che insegnano storia nelle scuole».

La storia irlandese sta cambiando. L’Irlanda sta cambiando.
E in questa Irlanda che sta cambiando, ma di cui nessun turista sembra o voglia accorgersene, leggo l’epitaffio che Yeats stesso scrisse per la sua tomba a Drumcliff:
«Sotto la vetta spoglia
del Ben Bulben,
nel cimitero di Drumcliff
è sepolto Yeats.
Uno dei suoi antenati
ne fu parroco,
anni e anni fa;
una chiesa si erge lì vicino;
presso la strada
v’è un’antica croce.
E niente marmo,
niente frasi convenzionali;
sul calcare scavato
in quello stesso luogo
queste parole sono state incise
per sua volontà:
Getta uno sguardo freddo
sulla vita e sulla morte.
Cavaliere,
prosegui il tuo cammino!».
Leggo… e proseguo il mio cammino.

Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




Scheda Storica

IV millennio a.C.: popolazioni stanziali agricoltori e pastori. Costruiscono Newgrange (2.500 a.C.).
L’isola inizia a essere divisa in circa 100 regni federati, governati dal re supremo residente a Tara.
432 d.C.: arriva san Patrizio.
455: san Patrizio fonda la chiesa di Armagh.
563: san Colombano è il primo missionario irlandese.
795: iniziano le incursioni dei vichinghi.
967: inizia la campagna militare contro i vichinghi.
999: il re supremo di Muster, Brian Boru, sconfigge il re vichingo di Dublino, Sitric Silkenbeard.
1100: viene fondato il monastero di Glendalough.
1169: Richard de Clare, detto Strongbow, capo delle truppe anglo-normanne, invade l’Irlanda su richiesta del re di Leinster, Dermot McMurrough. Enrico ii d’Inghilterra si dichiara «Signore d’Irlanda».
1172: Enrico ii d’Inghilterra lascia l’Irlanda, dopo che il papa lo ha confermato sovrano d’Irlanda.
1224: i domenicani arrivano in Irlanda.
1366: Statuto di Kilkenny, che vieta il matrimonio tra irlandesi e anglo-normanni.
1532: Enrico viii si distacca dalla chiesa cattolica: l’Irlanda è teatro di scontri tra cattolici e protestanti.
1539: Enrico viii abolisce i monasteri.
1541: Enrico viii è proclamato re d’Irlanda dal Parlamento irlandese.
1557: Maria i riorganizza l’intero territorio d’Irlanda con il sistema delle plantations, espropriando la terra agli irlandesi e assegnandola agli anglo-normanni.
1592: viene fondato il Trinity College.
1649-1652: Cromwell si vendica degli assalti irlandesi contro i protestanti in modo spietato.
1688: Giacomo ii viene deposto dal trono d’Inghilterra e si rifugia in Irlanda per organizzare la resistenza.
1690: Giacomo ii è battuto da Guglielmo d’Orange nella battaglia di Boyne e l’Inghilterra conquista l’intera Irlanda.
1731: nasce il Belfast Newsletter, il più antico quotidiano al mondo.
1800: Act of Union: l’Irlanda viene ufficialmente unita alla Gran Bretagna.
1828: Daniel O’Connell riesce a far approvare il Catholic Emancipation Act, che concede il diritto di voto a un numero limitato di cattolici.
1845-48: «Grande Carestia»: più di 2 milioni di persone muoiono. Altri 2 milioni emigrano.
Nascono le prime organizzazioni per i diritti degli affittuari, poi diventate organizzazioni indipendentiste.
1905: nasce il Sinn Fein (noi soli).
1913: nasce l’Ulster Volunteer Force contro la Home Rule.
1916: nasce l’Esercito repubblicano irlandese (Irish Republican Army, Ira). L’insurrezione di Pasqua, che doveva estendersi in tutta l’Irlanda, si limita alla sola Dublino, dove 2.500 persone occupano per 5 giorni il Gpo (Ufficio postale generale).
I 14 capi dell’insurrezione vengono tutti fucilati.
1920: Govement of Ireland Act: l’isola è divisa in due parti. Il sud è chiamato Stato Libero d’Irlanda.
1921: guerra anglo-irlandese nell’Irlanda meridionale.
1926: Eamon De Valera lascia il Sinn Fein e fonda il Fianna Fáil (soldati del destino).
1932: il Fianna Fáil vince le elezioni e De Valera diviene Taioseach (primo ministro).
1936: l’Ira è messa al bando nello Stato Libero d’Irlanda.
1937: lo Stato Libero d’Irlanda è indipendente. Le Sei contee del nord rimangono alla Gran Bretagna.
1949: l’Eire prende il nome di Repubblica d’Irlanda ed esce dal Commonwealth.
1959: Eamon De Valera è eletto presidente.
1972: Bloody Sunday a Derry: 13 dimostranti uccisi.
1973: l’Eire aderisce alla Comunità europea.
1976: Mairead Corrigan e Betty Williams, dell’Ulster Peace Movement vengono insignite del premio Nobel per la Pace.
1991: Mary Robinson è eletta presidente della Repubblica d’Irlanda.
1992: il 62% degli elettori irlandesi si dice favorevole a dare alle donne la possibilità di abortire all’estero.
1997: Mary McAleese diviene presidente della Repubblica, succedendo a Mary Robinson.
1998: processo di pace in Nord Irlanda con gli Accordi del Good Friday.
2001: Mary McAleese viene confermata presidente dell’Eire senza elezioni per mancanza di candidati in alternativa al suo nome.
2005: l’Ira annuncia l’inizio del processo di disarmo.

Benedetto Bellesi




William Butler Yeats

William Butler Yeats nasce il 13 giugno 1865 a Sandymount da John Butler, un pastore protestante, e dalla cattolica Susan Pollexfen, figlia di una ricca famiglia di Sligo.
Nel 1882 comincia a comporre le prime poesie. E due anni dopo inizia a frequentare la Metropolitan School of Art di Dublino, dove incontra George Russell, che lo appassiona all’esoterismo, una materia che accompagnerà il poeta per tutto il resto della sua vita. Dopo un periodo trascorso a Londra, torna a Dublino, dove nel 1892 fonda l’Irish Literary Society.
La vita sentimentale di Yeats ha una svolta il 30 gennaio 1889, quando conosce Maud Gonne, figlia di un ufficiale irlandese e lei stessa votata alla causa indipendentista. Se ne innamora, non ricambiato, e anche il poeta si vota alla causa nazionalista, più per amore per Maud che per convinzione ideologica. Le sue speranze di sposare Maud vengono spente nel 1903, quando l’amata sposa John MacBride. Anche dopo il 1916, anno in cui MacBride viene fucilato, per essere stato uno dei capi della «Rivolta di Pasqua», Maud Gonne rifiuta di concedersi a Yeats.
Nel 1896, l’incontro con la signora Augusta Gregory permette a Yeats di dedicarsi alla letteratura e, nel 1904, di fondare l’Abbey Theatre di Dublino, che diverrà uno dei più importanti teatri d’Europa fino al 17 luglio 1951, quando un incendio mise fine alle rappresentazioni.
Nel 1909 il poeta irlandese incontra Ezra Pound, che 4 anni più tardi diverrà suo segretario. Nel 1917 sposa Gorge Hyde-Lees, da cui avrà una figlia, Anne, e un figlio, William Michael.

Nel 1922, dopo la costituzione del Libero Stato d’Irlanda, Yeats viene invitato a far parte del Senato. L’anno dopo, 1923, gli viene conferito il Premio Nobel della Letteratura. Durante la premiazione, Yeats afferma: «Il mio lavoro è stato sostenuto dall’entusiasmo e dalla gioia di una tradizione ritrovata; e dicendo queste parole sento quanto profondamente dovremmo scavare, per scoprire al di sotto di tutto ciò che è individuabile, moderno e instabile, le fondamenta di una Irlanda la cui esistenza non si potrà realizzare, se non in un’Europa che per il momento resta ancora un sogno».
Ma l’Irlanda di Yeats non è l’Irlanda che vogliono i politici e i rivoluzionari: l’Irlanda di Yeats, quella mitologica, quella del passato, contrastava con l’idea di un paese secolare e proiettato verso il futuro.
Il suo disprezzo verso questi politici è evidente nei suoi versi:
«Poeti irlandesi, apprendete il mestiere,
cantate ogni cosa ben fatta,
disprezzate la razza che ora cresce,
tutta difforme dalla testa ai piedi,
i loro cuori, le loro teste senza memoria…
così che nei giorni a venire si possa
essere ancora gli indomabili irlandesi».
Deluso dalla politica del suo paese, nel 1928 si rifiuta di candidarsi di nuovo per il Senato. Soggioando a Rapallo viene a contatto con l’idea fascista, che per un certo periodo lo affascina pur senza farsene promotore.
Continua, invece a dedicarsi agli studi esoterici e teosofici fino alla sua morte, avvenuta il 28 gennaio 1939 in Francia. Le sue spoglie vennero trasferite a Drumcliff solo nel 1948.

Benedetto Bellesi