Promesse da «marines»

Perché, a cinque anni dalla cacciata da Kabul, i taleban sono ancora presenti in buona parte del territorio afghano? È evidente che essi trovano appoggio e collaborazioni nelle popolazioni locali, sfinite da 20 anni di guerra e deluse dalle promesse "da marinai" dei liberatori di tuo.

Nel luglio e agosto 2001, poche settimane prima che il mondo intero venisse scosso dall’abbattimento delle Torri Gemelle a New York, ho visitato l’Afghanistan. Allora il 15% del territorio era occupato dall’Alleanza Nazionale, un gruppo eterogeneo, che comprendeva essenzialmente etnie di tagike, uzbeke e hazare guidate da Massud, mentre il restante 85% era saldamente in mano ai taleban di etnia pashtun.

KABUL: FINESTRA SULL’ISLAM

Il mio reportage è iniziato a Kabul che mostrava (e mostra tuttora) tutte le tremende ferite di una guerra civile costata 30 mila vittime. La capitale, dopo la conquista da parte dei taleban, era stata teatro del più radicale stravolgimento socio-religioso a cui il mondo aveva assistito negli ultimi decenni.
Tutto, dai proclami del Ministero della promozione e della virtù ai discorsi della gente nei bazar, era finalizzato ad assecondare e giustificare ogni parola scritta nel Corano. Il milione di abitanti, dopo aver finalmente ritrovato la pace sociale e salutato entusiasticamente l’arrivo dei carri armati taleban, si erano ritrovati a essere in prima linea nella battaglia ideologica che il governo del mullah Mohammad Omar aveva intrapreso contro gli infedeli.
E Kabul, in quanto unica finestra aperta sul mondo esterno, era stata allestita a immensa vetrina del nuovo Emirato Islamico per chiunque visitasse l’Afghanistan dei taleban. La vita che si fermava 5 volte al giorno per le preghiere, l’assoluta predominanza maschile in ogni aspetto delle attività sociali, le lunghe file davanti ai centri di distribuzione del pane, l’anonimato della componente femminile, obbligata a restare separata fisicamente e psicologicamente dal resto della comunità, non erano che gli aspetti esteriori più evidenti di questo archetipo sociale.
Ma vangando più a fondo, ascoltando testimonianze di chi rifiutava di accettare questo stato di cose, si trovavano elementi nascosti particolarmente inquietanti. Come il progetto, per fortuna mai portato a termine, di uniformare la componente etnica di Kabul, allontanando dalla città la popolazione di origine tagika, uzbeka, hazara, sostituendola con famiglie pashtun, di cui i taleban sono l’espressione politica e religiosa e, soprattutto, sociale. "È più semplice, per il governo, modellare le proprie idee su una capitale abitata da cittadini a lui rigorosamente fedeli" affermava un afghano che si autodefiniva "politicamente neutralista".

"PAX TALEBANA" NEL SUD

Ma, come recita un detto locale, "Kabul è Kabul, l’Afghanistan è l’Afghanistan". Così, se dalla capitale del paese venivano mostrati al mondo intero il modo in cui sarebbero dovuti essere interpretati gli insegnamenti del Corano, nelle campagne, specialmente quelle meridionali abitate dai pashtun (38% della popolazione afghana), i taleban si sono sempre mostrati ben più tolleranti, a cominciare dall’educazione scolastica, aperta anche alle donne. In queste aree è ancora il pashtunwali, l’antichissimo codice d’onore che per secoli ha regolato la vita giuridica e sociale delle tribù afghane, a sostituirsi alla sharija; indossare il burqa non è sentito come un obbligo per le donne al di sopra dei 15 anni, ma un dovere dettato dalla tradizione, una sorta di rito di iniziazione dall’età adolescenziale a quella adulta.
L’arrivo dei taleban, a Ghazni come a Herat, a Kandahar come a Farah, aveva solo riportato quello che la popolazione voleva dagli anni Ottanta e che, fino al 1996 non aveva mai ottenuto: pace e tradizione. Come mi disse un contadino della regione di Kalat, al quale avevo chiesto per quale motivo appoggiasse il governo dei taleban: "Perché appoggio i taleban? I mujahedeen ci hanno detto che per ottenere la pace dovevamo combattere i sovietici. Poi è arrivato Hekmatyar, dicendoci che dovevamo scacciare Massud da Kabul e avremmo ottenuto la pace. Poi sono arrivati i taleban, che combattevano sia Massud che Hekmatyar. Ma loro, i taleban, hanno mantenuto la loro promessa. Oggi viviamo in pace, coltiviamo i nostri campi e possiamo vivere secondo le nostre tradizioni. Ecco perché appoggio i taleban".
La raggiunta stabilità sociale al sud aveva permesso di poter sviluppare colture cerealicole, sfruttando gli impianti di irrigazione costruiti dai sovietici, mentre la vicinanza con il Pakistan, che assieme ad Arabia Saudita e Emirati Arabi è stato il solo stato a riconoscere il governo taleban, aveva sviluppato un fiorente commercio facendo rinascere la classe mercantile pashtun, quasi completamente annientata dalla guerra civile.
Proprio questa stretta relazione tra il movimento taleban e il Pakistan, ha condotto l’Alleanza Settentrionale di Massud-Dostum-Rabbani a evidenziare il coinvolgimento diretto di Islamabad nella guerra afghana, giungendo a denunciare un piano di annessione militare in atto, in base al quale i taleban rappresenterebbero la quinta colonna del governo di Islamabad.

BUDDHA… DECAPITATO

Seguendo questo copione, i mass media ci hanno sempre mostrato i taleban come un’accozzaglia di invasati integralisti islamici dediti alla coltivazione dell’oppio che si divertono, di tanto in tanto, a distruggere statue.
Eppure, secondo il rapporto dell’UN Drug Control Programme del 2000, i taleban avevano interrotto quasi completamente la coltivazione d’oppiacei, rassicurati anche dalla promessa fatta nel 1998 dall’allora sottosegretario al Dipartimento di stato Usa, Karl Inderfurth, di alleggerire le sanzioni contro Kabul, assieme a un pacchetto di aiuti di 3 miliardi di dollari per i contadini che avrebbero acconsentito di trasformare i loro campi d’oppio in coltivazioni alternative.
"I taleban hanno mantenuto i loro impegni, ma non hanno mai visto un solo dollaro promesso, ricevendo in cambio un inasprimento delle sanzioni Onu" ha confessato in seguito un alto funzionario europeo dell’Onu a Kabul.
È in questo contesto che è venuta a inserirsi la vicenda dei Buddha di Bamiyan, distrutti solo dopo che una delegazione dell’Unesco era giunta nella capitale afghana, offrendo al governo milioni di dollari per evitare la distruzione delle statue. "I taleban saranno criminali, ma quando qualcuno prima nega dei soldi promessi, che sarebbero serviti a scopi umanitari, poi offre quegli stessi soldi per salvare delle pietre, anche il governo più razionale di questa terra può perdere la pazienza" spiegò allora desolato un diplomatico di un paese occidentale in visita a Kabul.

Piergiorgio Pescali

Taleban del Waziristan (Pakistan)

GUERRA CONTRO I FANTASMI

Arroccate tra le montagne, le popolazioni del Waziristan sono state una spina nel fianco del governo coloniale inglese. Gelose delle proprie tradizioni tribali e religiose,
continuano ad essere tartassate dall’esercito pakistano,
perché sospettate di dare rifugio al Mullah Omar e Osama bin Laden.

Dal villaggio di Tormandi si innalzano le voci delle donne che intonano i noha (lamenti) in onore ai parenti uccisi durante gli attacchi pakistani nel Waziristan. È un brutto giorno per incontrare Arianfar, il pathani conosciuto 15 anni fa.
Allora era un mujahedeen che, declamando i versi dell’eretico mistico Bayazid Ansari, combatteva per liberare i fratelli afghani dall’occupazione sovietica; oggi è un malik, uno dei capivillaggio più influenti della regione, come dimostra anche la lunga barba tinta di rosso che porta con fierezza.
E continua a combattere, Arianfar; la sua jihad non conosce tregua, ma i vecchi alleati di un tempo si sono trasformati nei nemici di oggi. Il nuovo satana da esorcizzare per purificare il dar al-islam (casa dell’islam) non è più l’ateismo comunista, bensì il capitalismo occidentale. "Non è la vostra fede che rifiutiamo, ma i valori su cui fondate la società" mi dice.
Non siamo d’accordo quasi in nulla, Arianfar e io; ma la lontananza geografica e ideologica non ci ha impedito di continuare a coltivare la nostra sacra amicizia. È stato lui, nel 1989, a rischiare la propria vita per guidarmi attraverso i villaggi della regione, eludendo un accerchiamento sovietico che stava stritolando il gruppo di mujahedeen a cui mi ero aggregato.
E ancora, è stato Arianfar a scorazzarmi attraverso l’Afghanistan dei taleban poche settimane prima dell’11 settembre 2001. E subito dopo i primi attacchi statunitensi, Arianfar mi ha accolto nella sua casa, tappezzata di manifesti di La Mecca, bin Laden e Abd ul-Ghaffar Khan, il fondatore del Khuda-i-Khidmatgar (Partito dei servi di Dio), che negli anni Trenta lottava perché il Pashtunistan fosse annesso all’Afghanistan.

Sin dal 1996 il panchayat (consiglio di villaggio) di Tormandi si era schierato a favore del governo del Mullah Omar, così come avevano fatto tutti gli altri villaggi della Federally Administered Tribal Area (Fata), una regione di 27.200 kmq, formalmente appartenente al Pakistan, ma dove Islamabad non ha mai potuto esercitare alcun controllo effettivo.
I 6 milioni di tribali che abitano la Fata, hanno in comune con i pashtun afghani la storia, letteratura, commercio, etnia e, soprattutto, il pashtunwali, il ferreo codice di regole sociali, la cui trasgressione porta alla morte, ma che, al tempo stesso, garantisce la completa solidarietà dell’intera comunità. Grazie a esso l’ospite, è sacro e intoccabile, sia esso un occidentale miscredente o un militante di al-Qa’ida.

Tutto questo ha permesso di creare una sorta di stato cuscinetto talebanizzato, dove la dirigenza islamica afghana e quella di al-Qa’ida, protette dai malik pathani, si sono potute rifugiare sin dalle prime fasi della guerra innescata dalla coalizione guidata dagli Stati Uniti.
Aiutati e difesi dalla popolazione, i membri di diverse formazioni terroristiche facenti capo all’organizzazione di bin Laden, hanno trovato tra i villaggi del Waziristan ripari sicuri, sino a quando l’esercito pakistano, pressato dalle insistenze degli Stati Uniti, ha deciso di rompere gli indugi e attaccare massicciamente l’intera zona.
Ma gli stessi soldati pakistani hanno più volte lamentato la completa inaffidabilità delle informazioni raccolte tra la popolazione.
"Stiamo combattendo contro delle ombre" è la frase più ricorrente tra i militari di Islamabad. Nulla di più normale tra queste montagne, dove il nome del presidente Musharraf viene storpiato in Busharraf, e dove domina il Muttahida Majilis-e-Amal, una coalizione di sei partiti islamici ortodossi, fortemente critica verso il presidente pakistano, che nelle elezioni del 2002 ha conquistato 45 seggi all’Assemblea nazionale, divenendo il terzo partito del paese.

L’ambasciatore statunitense in Pakistan ha dichiarato che i principali dirigenti taleban si muovono senza problemi all’interno del suolo pakistano, organizzando gli attacchi contro i soldati della coalizione. Gli stessi servizi segreti pakistani, lungi dall’essere stati epurati degli elementi pro-taleban, giocherebbero una carta determinante in questa partita. Le loro infiltrazioni nelle forze armate, vedono malvolentieri un Pakistan troppo remissivo nei confronti dell’Occidente e dell’India.
I recenti accordi sulla questione del Kashmir avrebbero indotto i jihadisti a innescare una nuova offensiva contro un governo considerato secolare. Quattro tentativi di assassinare Musharraf in nove mesi, l’arresto del padre della bomba atomica pakistana e la forte opposizione dei pathani all’offensiva del Waziristan dimostrano quanto convulsa sia l’atmosfera nella nazione.

P.P.

Piergiorgio Pescali




Così Parlarono

Esclusivo: interviste al mullah Omar e al comandante Massud
così parlarono

Protagonisti di quattro anni di guerra civile, Omar e Massud sono stati intervistati pochi giorni prima degli attacchi terroristici di al-Qa’ida contro gli Stati Uniti.
Le loro affermazioni aiutano a comprendere perché, a 5 anni dalla fine della guerra civile, la pace in Afghanistan sia ancora un miraggio
.

Due settimane prima dell’attentato dell’11 settembre, ho avuto l’occasione, unico tra i giornalisti occidentali non islamici, di intervistare il leader del taleban, il mullah Omar, nella sua villa di Kandahar, nel sud dell’Afghanistan. L’allora trentanovenne, Omar è uno dei personaggi più misteriosi dell’Afghanistan assieme a suo cognato, Osama bin Laden.
Per i suoi oppositori è tuttora un pupazzo nelle mani dei servizi segreti pakistani, per i suoi sostenitori è un eroe della guerra antisovietica e il suo unico occhio, le quattro ferite in diverse parti del corpo ne sono la migliore testimonianza. La sua voce, durante l’intervista, è pacata, le parole misurate con cautela.

COSÌ PARLò OMAR

Il governo taleban di Kabul è riconosciuto solo da tre stati: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Pakistan. Come spiega questo isolamento politico?
Ciò che a noi importa è seguire la parola di Allah e modellare il nostro stato in una società islamica.

L’opposizione afferma che senza l’appoggio militare e finanziario del Pakistan, voi non esistereste neppure. Non le chiedo se questa affermazione sia vera o no, penso di conoscere già la risposta, ma quanto conta il Pakistan per voi?
Le rispondo comunque: è vero, senza il Pakistan noi non esisteremmo. Ma neppure Rabbani, Massud, Ismail Khan esisterebbero. Sono loro che debbono ringraziare il Pakistan se i russi se ne sono andati dall’Afghanistan. Cosa sarebbe Rabbani se non avesse avuto l’appoggio del Pakistan? Abbiamo combattuto assieme il diavolo comunista e l’abbiamo vinto. Poi loro si sono ubriacati di potere e hanno portato solo morte e distruzione per 4 anni in Afghanistan. Noi, i taleban, ispirati dalla parola di Allah, abbiamo riportato la pace e la stabilità nel paese.

Le concedo che in gran parte dell’Afghanistan, almeno nelle regioni meridionali, oggi c’è una pace e un benessere relativo, ma non mi ha risposto quanto conta il Pakistan per voi.
Il Pakistan è un paese fratello che vuole aiutare l’Afghanistan a ritrovare la pace nella fede di Allah.

Alcune vostre decisioni sono state criticate dalla comunità internazionale. Posso convenire con lei che la distruzione dei Buddha sia stata dettata dal tentativo dell’Unesco e di una commissione europea di offrire milioni di dollari per salvare delle statue, mentre attorno ad esse milioni di contadini lottano per la sopravvivenza; posso capire che l’imposizione del burqa sia, di fatto, coercitiva solo per le donne di Kabul e posso anche condividere la censura televisiva in una società tradizionalista come la vostra. Ma non credete che tutto questo leda la vostra posizione agli occhi del mondo proprio nel momento in cui avete bisogno del suo sostegno?
Noi abbiamo i nostri principi e intendiamo rispettarli. Se questo è un peccato agli occhi del mondo, ebbene, siamo pronti a subie le conseguenze qui in terra per raccogliere i frutti nel paradiso di Allah. Voi occidentali ci considerate pazzi, lo sappiamo bene; ma noi seguiamo solo ciò che dice il Corano. Noi consideriamo decadente il vostro sistema di vita, eppure non interferiamo sulle vostre decisioni.

Solo perché non ne avete la possibilità.
Probabilmente ha ragione.

Nel mondo condividete la fede con un miliardo di musulmani, eppure solo tre stati, per un totale di 140-150 milioni di islamici riconosce il vostro governo. Le chiedo: gli altri 800-900 milioni di correligionari sono tutti corrotti?
Lei mischia la fede con il governo di pochi uomini. Non tiene conto degli interessi economici, delle strategie geografiche, delle alleanze militari e politiche.

Un altro punto a vostro sfavore è l’ospitalità che concedete a Osama bin Laden.
Osama è già stato processato da una corte islamica che non ha trovato alcuna prova a suo carico. Nel caso trovassimo prove convincenti che lo condannino, siamo pronti a consegnare Osama bin Laden a un tribunale che comprenda membri graditi anche all’Occidente.

Perché non accettate di formare un governo di coalizione con l’Alleanza del Nord?
Non è vero che non accettiamo. Vogliamo solo sapere quali sono le loro condizioni e su quali parametri si basa la discussione. A queste semplici domande Massud e Rabbani non hanno mai risposto.

Nel mondo siete conosciuti più per le vostre leggi contro le donne che per la vostra reale politica intea.
Non abbiamo mai emanato leggi contro le donne.

Beh, il divieto di lavorare, studiare, circolare liberamente per le strade. Come le chiama queste?
Tradizioni. Deve capire che l’Afghanistan è un paese che cammina molto lentamente. Cambiare radicalmente le tradizioni significa sconvolgere completamente la società e perdee il controllo.

Quindi non esiste libertà di scelta per la donna afghana. Volente o nolente deve rimanere dietro quel burqa che la estranea dalla società?
Vede, voi siete abituati a utilizzare le donne come bei fronzoli che allietano la vostra vita. Per noi invece la donna deve essere parte integrante della società e cuore della famiglia. Inoltre non è vero che la donna afghana è emarginata: chieda allo Sca (Swedish Committee for Afghanistan) quanta è la percentuale di donne che frequenta le scuole nel paese. Non voglio dirglielo io, lo chieda allo Sca. Vada all’Università di Kabul. In alcune facoltà, come quella di medicina, la percentuale di donne iscritte supera quella dei maschi.

Quale soluzione quindi per l’Afghanistan?
Jihad.

COSÌ PARLò MASSUD

Comandante Massud, 20 anni di conflitti hanno dimostrato che non può esserci una soluzione militare al problema afghano. Cosa propone la sua coalizione?
Un governo ad interim che, in un lasso di tempo tra i 6 e i 18 mesi, disegni una nuova Costituzione che garantisca una rappresentanza di tutti i gruppi etnici afghani nel governo e elezioni generali democratiche con la formazione di partiti politici.

C’è una personalità afghana che potrebbe divenire un leader del paese accettato da tutte le fazioni in lotta?
Non vedo una specifica persona che possa godere della fiducia del popolo afghano. E credo che sia molto più importante avere dei principi che una persona. Più che un leader, all’Afghanistan servono idee, principi su cui basare il futuro stato.

I taleban hanno recentemente annunciato che conquisteranno tutto l’Afghanistan entro la fine dell’anno. Quale è la sua previsione?
Non credo che ciò corrisponda alla verità che sta sul campo. Abbiamo già detto in passato e lo ribadisco ora che non c’è soluzione militare per l’Afghanistan.

È servito il suo viaggio in Europa?
Da un punto di vista politico è stato buono. Speriamo di assistere a un arrivo di aiuti umanitari.

Perché gli europei dovrebbero appoggiare l’Unifsa?
Perché questa parte del fronte ha un chiaro messaggio: lasciateci avere elezioni generali in Afghanistan; lasciate che la Comunità Internazionale, l’Onu, il gruppo dei 6+2, supervisioni le elezioni in Afghanistan; lasciate che il popolo dell’Afghanistan scelga il proprio destino. Inoltre noi lottiamo contro ogni forma di terrorismo, qualunque sia il suo scopo e sia che esso operi dentro o fuori l’Afghanistan. Ho detto che Osama bin Laden è un criminale e non è facile per me, che ho dedicato la mia vita alla jihad, affermare questo.
Noi crediamo nella democrazia, mentre i taleban no. Noi siamo contro il terrorismo, mentre loro lo appoggiano. Noi vogliamo che l’Afghanistan abbia una coesistenza pacifica e buone relazioni con tutti i paesi; i taleban vogliono invece esportare le loro idee creando ancor più problemi per l’Afghanistan. Noi consideriamo uomini e donne come esseri umani aventi gli stessi diritti; i taleban li hanno resi differenti, contrariamente alle intenzioni di Dio, che li ha creati come esseri umani uguali.
Questo è, ciò in cui noi crediamo. A seconda delle circostanze, noi avremo successo o no, ma questa è un’altra questione.

Dopo oltre 20 anni di combattimenti, quale è, secondo lei, la cosa più importante nella vita di un uomo?
La decisione. Credo che quando uno prende una decisione ed è determinato a portare a termine quello che ha iniziato, tutto diviene più semplice e facile. Per esempio, abbiamo combattuto i sovietici, ma per me non era importante vincere la guerra contro di loro. La mia decisione era stata quella di combattere i russi comunque, sia che noi vincessimo, perdessimo, sia che la lotta durasse 10 anni, 20 anni o più. E oggi io prego Dio perché ci aiuti nelle nostre decisioni e determinazione nel combattere i taleban. Non è importante quanta terra perderemo, quanto soffriremo. Noi conosciamo i nostri nemici e la nostra decisione è resistere contro di essi.

Qual è la maggiore difficoltà che incontra oggi?
Quando i sovietici sono giunti in Afghanistan, il popolo sapeva quale era il loro fine. Oggi al posto dell’Urss siamo invasi dal Pakistan, che si è servito della copertura dell’islam, della religione e dei taleban. Il popolo afghano ha impiegato diverso tempo a scoprire il vero volto del Pakistan. È stato molto difficile creare un motivo per combattere tutto questo e solo dopo molto tempo il popolo afghano ha capito la verità. Ora le cose sono molto più facili, perché la gente sa quello che sta accadendo.

Quale è stato il più grande errore che ha commesso nel passato?
La natura umana non è infallibile. Chi opera, chi decide, commette anche degli errori. E ancora mi è difficile identificare quale sia stato l’errore più grosso. Probabilmente dall’esterno è più semplice individuarli. Del resto, se non avessimo fatto degli errori, come avrebbero fatto i taleban a nascere e conquistare il potere?

Lei sembra una persona molto religiosa, ma al tempo stesso è anche un combattente. Non sente alcun rimorso nell’uccidere, seppur indirettamente, uomini e per di più afghani?
Noi combattiamo una guerra per una giusta causa. Abbiamo il diritto di difenderci e difendere il nostro popolo. Non siamo noi che attacchiamo. Noi ci difendiamo.

L’Unifsa è composta da fazioni che in passato si sono combattute l’una contro l’altra. Che garanzie ci possono essere nel caso la sua coalizione andasse al potere, che non si ripeta il disastro avvenuto tra il 1992 e il 1996?
Uno dei problemi che esiste in Afghanistan è la mancanza di fiducia. Si ha paura del futuro e ciò che questo può riservare. Ora abbiamo concluso un accordo con il generale Dostum, Ismail Khadir e con Ismail Khan sui principi che garantiranno il loro futuro nel governo afghano. Il punto cardine dell’accordo è la continuazione della resistenza contro i taleban per indurli a sedersi al tavolo dei negoziati e formare un governo ad interim che dovrebbe funzionare da 6 a 18 mesi.

Quindi è pronto a fare un governo di coalizione con i taleban?
Solo per un periodo di transizione dalla guerra alla pace. Se accettiamo questo governo di coalizione, è solo per fermare questa guerra e l’intervento del Pakistan.
Inoltre, il governo di coalizione dovrà lavorare per preparare le elezioni generali. I taleban mi hanno già offerto il posto di primo ministro e al tempo stesso di mantenere il mio esercito nella zona settentrionale, creando una regione autonoma. Ma ho rifiutato. L’Onu e il Gruppo 6+2 dovrebbero supervisionare il processo di transizione che porterà alle elezioni.

Ma il ruolo dell’Onu in Afghanistan è sempre stato perdente. Ci sarebbe secondo lei un’altra organizzazione internazionale in grado di ricoprire il ruolo oggi occupato dalle Nazioni Unite?
L’Onu è perdente se non ha l’appoggio delle grandi potenze. Solo con un forte sostegno delle grandi potenze, il Pakistan non sarebbe più in grado di appoggiare i taleban. E questi, allora, non avrebbero più di 6 mesi di vita. Anche Osama bin Laden non potrebbe sopravvivere.

Lei ha detto che la soluzione del conflitto afghano si potrà raggiungere solo dopo aver indetto elezioni generali. Sembra, però, che lei dimentichi anche i fattori estei che condizionano la situazione afghana: interessi economici, geopolitici, strategici. L’Afghanistan è solo una delle pedine che giocano una partita ben più grande nello scacchiere internazionale. Come fa a non tenere conto di questi problemi?
Penso che i problemi estei siano tali solo fino a quando riusciremo ad avere elezioni generali nel nostro paese. Penso che la resistenza contro i taleban e contro chi li sostiene (Pakistan, ndr) accelererà la soluzione afghana.

Se lei pensa che le elezioni generali siano davvero la soluzione del problema Afghanistan, perché non le ha indette quando era lei stesso al potere, tra il 1992 e il 1996?
La richiesta di elezioni, non è una posizione che abbiamo adottato solo ora. Siamo sempre stati favorevoli affinché il popolo afghano potesse esprimere il proprio parere tramite il voto, anche durante il periodo in cui eravamo al potere a Kabul. Ma allora eravamo in guerra e nessuno dei nostri oppositori accettava le consultazioni. Le abbiamo proposte a Hekmatyar, prima, e ai taleban, dopo, ma loro non hanno accolto le nostre richieste.

Pensa che un governo democratico che ricalchi quelli occidentali possa accordarsi con la storia, tradizioni, religione degli afghani?
Quando parliamo di democrazia, non intendiamo dire di trasferire tale e quale lo stile occidentale in Afghanistan. Non pensiamo che la democrazia in Afghanistan possa essere paragonabile a quella francese o italiana. Il punto importante è lasciare che sia la gente a decidere quale sarà il primo gradino da intraprendere per la realizzazione di uno stato afghano moderno. Le crisi possono essere risolte solo se si dà una possibilità alla gente di scegliere.

E pensa che il popolo afghano potrà avere una possibilità di scelta e, se sì, quando?
È questo il motivo per cui lottiamo.

Chi è Massud secondo Massud?
Scelga lei; io mi considero una persona che ha dedicato la sua vita per la liberazione del suo paese e del suo popolo. È per questo che stiamo combattendo. o

A cura di Piergiorgio Pescali

Biografia del Mullah Omar

Una delle caratteristiche che stupiscono riguardo i taleban è la giovanissima età dei suoi leaders e la scarsa reperibilità di biografie. Del capo supremo del movimento, il mullah Muhammad Omar, non è sicura neppure la provincia natale: alcune fonti riconducono la nascita da una povera famiglia di contadini nella provincia di Uruzgan nel 1962, mentre altre affermano che sia venuto alla luce nella provincia di Kandahar. Di lui non esistono fotografie ufficiali. Avrebbe iniziato la carriera religiosa nelle madrase di Quetta, in Pakistan per poi unirsi all’Harakat-i-Inqilab-i-Islami di Mohammad Nabi Mohammadi per combattere i sovietici.
Durante questa fase Muhammad Omar avrebbe raggiunto il grado di vice comandante militare, guadagnandosi la stima dei suoi commilitoni, perdendo un occhio durante un combattimento e rimanendo ferito altre quattro volte.
Secondo le fonti ufficiali sarebbe stato lo stesso profeta Muhammad a investirlo del compito di riportare la pace in Afghanistan, combattendo la triade governativa di Rabbani-Massud-Hekmatyar.
Più prosaicamente i taleban sarebbero nati grazie agli aiuti dei Servizi segreti pakistani e degli Stati Uniti, ai quali ben presto sarebbe sfuggito il controllo del movimento.
L’investitura ufficiale di Omar come leader supremo religioso e politico avvenne con l’apposizione dell’appellativo amir-ul-momineen (comandante della fede), da parte di un convegno a cui parteciparono 1.500 mullah.
Molti teologi islamici negano, però, la validità stessa del termine mullah nei confronti di Omar. Secondo la tradizione islamica, infatti, solo chi ha compiuto un ciclo di studi di 12 anni presso le scuole islamiche può fregiarsi di tale titolo.

Piergiorgio Pescali




Forum Sociale Mondiale 2006: da Bamako a Nairobi

INTRODUZIONE
AFRICANI ED EUROPEI: TUTTI INSIEME PER CINQUE GIORNI

Bamako, polverosa e caotica capitale saheliana. Stretta tra l’altopiano mandingo e il fiume Niger, che scorre tranquillo, in questa stagione, lontana dalle piogge. Città prescelta per ospitare il primo Forum sociale mondiale (Fsm) in terra africana. Forse per la vivacità della sua società civile e dell’associazionismo maliano in genere.
Molti non ci credevano, neppure gli stessi organizzatori. Eppure ce l’hanno fatta: hanno messo in piedi un evento mondiale. Per la prima volta il Consiglio internazionale del Fsm ha deciso per la formula «policentrica». Tre eventi, in tre continenti, quasi contemporaneamente: Bamako (Mali), Caracas (Venezuela) e Karachi (Pakistan). Il primo si è svolto tra il 19 e il 23 gennaio, il secondo la settimana successiva, mentre l’asiatico si è tenuto a fine marzo a causa del terremoto che ha colpito il paese.
Il Fsm è nato a Porto Alegre (Brasile) dove si è svolto nella prima edizione 2001, e nelle successive 2002, 2003 e 2005. Mentre nel 2004 si è tentata la carta asiatica, con il grande successo di Mumbai (India). E ora l’Africa. Ma questa tappa si completerà a gennaio 2007 quando il Fsm – questa volta non policentrico – si svolgerà a Nairobi (Kenya). Ed è infatti un percorso che gli organizzatori africani seguono, da ovest a est, per coinvolgere più popoli africani possibile.
Ai precedenti Forum mondiali la delegazione dall’Africa è stata sempre presente, ma ridotta a causa dei costi. Difficile quindi un coinvolgimento e una ricaduta significativa. Ed è proprio questo uno degli obiettivi dell’evento: raggiungere una più larga fetta di popolazione anche di questi paesi.
Leader contadini, responsabili di associazioni di donne, giovani, sindacati, semplici cittadini venuti da tutto il Mali, ma anche molti dai paesi vicini e alcuni dalle altre aree africane. Tutti hanno riportato nei loro paesi, città, villaggi qualcosa di quanto ascoltato e costruito a Bamako. Al loro fianco molti europei. Bassa invece la partecipazione di asiatici e latino e nord americani, convogliati, piuttosto sugli altri due Forum policentrici.
Quest’anno i problemi non sono stati pochi. Soprattutto logistici e organizzativi. Ma anche finanziari. Gli organizzatori lo ammettono, se ne scusano chiamando in causa il Consiglio internazionale. È stato l’inizio di un cammino, dicono e promettono «a Nairobi sarà tutto migliorato».
La ricchezza tematica invece è stata grande. Come sempre. Molto importante è stato lo spazio preso
dall’immigrazione, migranti e clandestini. Problematica che tocca il nervo scoperto di molte famiglie africane, e segna la grande differenza tra chi sogna la vita in un paese ricco e chi invece già ci sta. Anche tra i partecipanti.

STRADE AFRICANE PER IL FSM

Quasi 20mila persone da 213 paesi. Per incontrarsi in oltre 800 attività tematiche. E progettare insieme, nella diversità, un mondo più equo. Problemi logistici, mancanza di fondi. A Bamako, Mali, sulla strada per Nairobi.

«Il Forum sociale mondiale policentrico di Bamako è stato realizzato, nonostante tutte le paure nutrite dagli stessi attori. Abbiamo dimostrato non solo che siamo capaci di organizzare l’evento ma anche di contribuire sul piano politico nella decisione per il prossimo Forum che si terrà a Nairobi».
Taoufik ben Abdallah, dell’Ong (organizzazione non governativa) Enda Senegal, è tra gli organizzatori del Forum. «Siamo riusciti nella sfida di far crescere la presa di coscienza dei nostri cittadini e della nostra società civile sull’impatto reale del sistema mondiale sulle società africane. Una spinta ad organizzarsi meglio e capire i problemi ai quali siamo confrontati».

Quest’anno il Forum è stato «policentrico» in quanto si è deciso di suddividere le attività in tre luoghi diversi del mondo: Caracas (Venezuela), Karachi (Pakistan) e Bamako (Mali) dal 19 al 23 gennaio. E non si tratta di Forum «regionali», come quello europeo, che si è tenuto ad Atene lo scorso marzo. È stato importante per gli africani, che agli altri Forum hanno sempre partecipato con delegazioni ridotte, soprattutto per difficoltà economiche, dimostrare che la società civile del continente è viva e capace di realizzare un incontro di questo livello.

Yaya Diakité, tra i principali organizzatori assieme a Mamadou Goita, spiega le dimensioni dell’evento. Sono 325 le strutture della società civile maliana che hanno fatto parte del comitato nazionale di organizzazione. Dal movimento contadino, ai sindacati, ong (organizzazioni non governative) nazionali, artigiani, associazioni culturali e sportive. Le attività tematiche previste superano le 800 mentre i partecipanti si valutano tra i 15 e i 20 mila, provenienti da 213 paesi.

«I costi affrontati sono di circa 700 milioni di franchi cfa (oltre un milione di euro, ndr.) e cercheremo di non lasciare debiti» dichiara Yaya parlando del finanziamento dei Forum. Le difficoltà ci sono state, e pochi mesi prima del previsto inizio non c’erano ancora i fondi necessari. La situazione si è sbloccata grazie ad alcuni finanziatori. In particolare la potente Ong Oxfam Olanda (con 230 mila euro) e il governo del Venezuela. Anche lo stato del Mali ha fornito infrastrutture e fondi. Ma «occorre ripensare la strategia di fund raising (raccolta fondi, ndr.) dei Forum» insistono i rappresentanti del comitato.

«Le associazioni maliane che si sono riunite intorno a questo progetto hanno avuto l’audacia di “prendere la coda del leone”. Ma questo non è che l’inizio perché, da noi si dice: “Occorre prendere la gola del leone per vincerlo”. E il popolo maliano ci ha aiutato in questo» continua Yaya.
Una delle questioni fondamentali di questi Forum in Africa, Bamako 2006 e il prossimo Nairobi 2007 è di permettere alle popolazioni africane di conoscere meglio il movimento: «Toiamo a casa dopo aver vissuto un’esperienza nuova ed esaltante. Abbiamo discusso con i popoli dei cinque continenti di tutte le questioni scottanti del momento. Oggi possiamo dire: siamo del mondo» sostiene l’organizzatore.

I POVERI HANNO PARLATO?

Non la pensa proprio così Daoda, venuto a dorso di cammello da Tombouctou. Un viaggio durato sei giorni e finanziato da un’associazione europea per il commercio equo. «Nel Forum si parla di tanta teoria, non della pratica, per i poveri. Tra i maliani ho visto sempre i soliti “ricchi” parlare». Lui, venditore di artigianato nel Nord del paese, ricco non è, ma sembra molto critico sull’evento. Si tratta della questione della reale partecipazione della massa povera, legata alla rappresentatività dei movimenti sociali e le associazioni della loro base.

Mentre a Mumbai (Fsm 2004 in India) importante è stata la partecipazione degli «intoccabili», a Bamako, ampio spazio è stato preso dai migranti e dai rimpatriati da Ceuta e Melilla. I paesi dell’Africa dell’Ovest e in particolare in Mali sono molto toccati dalla questione dell’emigrazione. Le associazioni europee e africane che lavorano sui flussi migratori hanno creato qui una piattaforma Europa – Africa. «Bamako è una tappa importante per la partecipazione: i candidati all’emigrazione, gli espulsi e i sans papier (clandestini nei paesi europei, ndr.) si sono potuti esprimere. Questo è stato già un ottimo risultato – sostiene Aminata Traoré – una pagina che continuerà fino a Nairobi. Mentre i paesi europei stanno elaborando nuove politiche, sempre più restrittive, noi abbiamo 12 mesi per dare voce all’Africa e analizzarle per tentare di influenzare le decisioni, almeno dal lato africano. Occorre una posizione dell’Africa, attualmente inesistente, rispetto ai flussi migratori».

Oltre all’immigrazione molti sono stati i temi trattati: debito e riforma delle istituzioni inteazionali, mass media in Africa e digital devide (divario tecnologico tra paesi ricchi e poveri), sovranità alimentare, cooperazione, acqua, commercio internazionale, guerre e militarizzazioni, ecc. Un importante spazio è stato consacrato alle attività delle donne, mentre il Campo Thomas Sankarà (dal nome del rivoluzionario presidente del Burkina Faso) ha accolto i giovani.

LOGISTICA…COMPLICATA

Purtroppo, non pochi sono stati i disagi dei partecipanti, causati da una organizzazione logistica approssimativa. Scarsa comunicazione sui frequenti cambiamenti di programma, dispersione dei siti, talvolta cattiva assegnazione delle sale, hanno creato frustrazioni. A sopperire alle deficienze della macchina organizzativa maliana è stata la buona volontà delle singole associazioni che hanno preparato gli incontri tematici, alcuni dei quali con successo.

«Ci siamo sentiti soli», si difende Mamdou Goita. «Questo è un Forum mondiale, non regionale. Abbiamo avuto difficoltà enormi a mobilitare gli altri livelli e ci siamo trovati noi comitato nazionale con il Forum sociale africano (Fsa) a preparare un evento mondiale». Goita rimprovera un mancato appoggio del segretariato internazionale del Fsm e un malfunzionamento della struttura di mobilitazione delle risorse economiche, che non ha funzionato. «È una responsabilità collettiva. Se non c’è un impegno di tutti, il Forum scomparirà» minaccia. «A Nairobi organizzeremo un evento molto più grande (non sarà un Forum policentrico, ma sarà unico per tutti i continenti come le passate edizioni, ndr.), e dovremo arrivarci avendo risolto queste contraddizioni».

UN PROCESSO COLLETTIVO …
PERMANENTE

Sull’approccio per il futuro l’intervento di Sergio Haddah, brasiliano, membro del Consiglio internazionale del Forum sociale mondiale: «Siamo troppo concentrati sulla resistenza, ora dobbiamo portarci di più sulle proposte, sulla costruzione della lotta collettiva». E continua: «Stiamo costruendo una nuova maniera di far politica, a partire dalla società civile. Innovativa per la grande diversità della base e per l’approccio non piramidale. Trasformiamo la diversità in reti di contatto, per moltiplicare l’energia nella lotta politica. Il Fsm è uno spazio forte di analisi della realtà per la ricerca di alternative».
Haddah sostiene che il Fsm deve radicalizzare la sua metodologia: «Dobbiamo costruire le tematiche a partire dagli attori sociali: i temi principali sono quelli delle lotte concrete dei movimenti». E suggerisce anche un metodo pratico, per cui i gruppi di lavoro si costituirebbero e lavorerebbero prima del Forum, a distanza, per poi incontrarsi in un momento di rafforzamento e continuare il lavoro in seguito. In modo che «il processo di costruzione collettiva diventi permanente».

Importante è anche rendere visibile questa lotta. Per questo occorre migliorare la comunicazione e gli strumenti interni per scambiare più informazioni tra i movimenti, lavorare con la stampa a diversi livelli.

L’ITALIA A BAMAKO

Andrea Micconi, cornordinatore del Consorzio Ong piemontesi, presente al Forum legge così la partecipazione italiana: «In un Forum africano uno degli obiettivi è promuovere il dialogo tra società civile e autorità istituzionali locali. L’apporto italiano in termini di esperienze di dialogo tra queste parti può essere significativo. Interessante, ad esempio, che la regione Toscana sia al Forum insieme a componenti della propria società civile e, in particolare associazioni di immigrati. Oppure la partecipazione della Rete dei comuni solidali (Recosol, che raggruppa 100 comuni italiani, con sede a Carmagnola) che ha progetti di cooperazione in Mali. Importanti anche le partecipazioni dei sindacati italiani e dell’Arci, sulla tematica dell’immigrazione».

«Il Fsm ha come sfida di creare agenti di trasformazione sociale. E questi non sono una manifestazione di quelli che ne parlano o ne scrivono ma di coloro che vivono nella realtà – urla l’energica Wahu Kaara, tra gli organizzatori del prossimo Fsm – Porteremo questa sfida a Nairobi per recuperare la sovranità della gente, perché quella degli stati non sta più funzionando».

DI MARCO BELLO


Marco Bello




Alla ricerca della sovranità alimentare

Fsm e mondo contadino

E’ il diritto dei popoli definire cosa mangiano, chi lo produce e come. L’Africa è al 70% agricola, ma i governi non ascoltano i contadini. E le istituzioni inteazionali aprono i mercati africani mentre proteggono quelli dei paesi ricchi. Ma i produttori agricoli si organizzano, a livello mondiale.

BAMAKO. L’aula della Biblioteca Nazionale del Mali è gremita di folla. L’ampio palazzo è sede degli incontri sul tema «Questioni agrarie e contadine». Uno dei più frequentati a vedere il movimento di personaggi in grand boubou e di donne avvolte in panni colorati. L’Africa, e in particolare questa regione, conta tra il 65 e il 70% della popolazione come produttori agricoli. Ma, racconta Njogou Fall alla platea «noi contadini non siamo importanti nelle decisioni sulle politiche agricole, almeno questo è quello che pensano i nostri governi». E continua «dobbiamo interrogarci prima di tutto a livello nazionale nei nostri paesi e rispetto ai nostri governi, sulla maniera con cui portano avanti gli interessi degli africani». Fall, senegalese, corpulento ma gentile, è il presidente del Roppa (la maggiore rete di organizzazioni contadine e di base dell’Africa dell’Ovest). «In secondo luogo, chi decide per noi sono le istituzioni inteazionali». Fall dice che il movimento contadino non è contro l’integrazione regionale, ma che troppo spesso gli organi sovra nazionali (ad esempio Uemoa e Cdeao in Africa dell’Ovest), prendono il sopravvento sulla sovranità dei paesi e foiscono facili alibi ai governi su certe mosse impopolari.
Queste decisioni, prese in sede Omc (Organizzazione mondiale del commercio) fanno gli interessi dei paesi sviluppati: «Si chiede agli africani di aprire i propri mercati mentre ci si protegge il più possibile nei paesi ricchi e si danno pure sovvenzioni. A questo ci dobbiamo opporre, ed è qui che devono intervenire i nostri governi» continua Fall. L’Omc e i ministeri, inoltre, spingono verso l’agricoltura industriale di prodotti per esportazione verso mercati estei, mentre il Roppa promuove l’agricoltura familiare, orientata al soddisfacimento dei bisogni interni.

Assumersi le responsabilità

«Siamo la maggioranza della popolazione in Africa dell’Ovest, perché lasciamo decidere una minoranza delle nostre sorti senza reagire? Dobbiamo capire che la nostra inazione, disorganizzazione e fatalismo giocano contro di noi. La maggior parte delle volte qui in Africa siamo credenti e diamo la responsabilità a Dio di quello che ci capita, ma i problemi sono nostra responsabilità». Il presidente spiega che i contadini costituiscono la maggioranza dell’elettorato di queste nazioni e sono quindi in grado di fare pressioni.

L’Europa e gli Usa proteggono e sovvenzionano le loro agricolture. Perché in Africa Occidentale non si deve proteggere il riso, filiera ad alto potenziale per l’autosufficienza alimentare di questi paesi? «Non potremo competere con l’agricoltura americana o europea, abbiamo bisogno di orientare la nostra produzione verso la domanda intea, i bisogni di sviluppo e di vita migliore degli africani». Concetto, questo, che si riassume nel termine «sovranità alimentare».

Dal locale al globale

Paul Nicholson, rappresenta Via Campesina, la più grossa organizzazione contadina mondiale. «Il nostro è un movimento internazionale nato dal basso, che unisce una molteplicità di anime diverse, per dare una voce ai contadini e ai pescatori, con un carattere politico orizzontale, al contrario di alcune organizzazioni tradizionali gerarchiche o ad altre che ci trattano in modo patealistico». Nicholson spiega che la loro visione e proposta per la società è la sovranità alimentare. Si tratta di un diritto di cittadinanza – non solo contadino quindi – e principio sul quale tutti gli accordi inteazionali dovrebbero basarsi. Il diritto dei popoli a definire queste politiche di accesso alle risorse della terra, acqua, sementi. Il diritto del consumatore a definire cosa mangia, chi lo produce e come lo produce. Tutto questo, ricorda Nicholson, si contrappone alla sempre più forte aggressione al mondo rurale e alle risorse naturali.

Ecco perché sono in aumento le lotte locali che hanno influenza sul globale, magari poco conosciute ma sempre molto criminalizzate, alle quali occorre dare maggiore visibilità. Come ad esempio la lotta sugli Ogm (organismi geneticamente modificati). «Il nostro movimento vuole dare una prospettiva alternativa al modello neoliberista» conclude Nicholson.

Di Marco Bello

PARLA José Bové

José Bové ha lo sguardo soione e fuma la pipa sotto i folti baffi biondi. Si muove da prima donna il leader contadino francese, consapevole di essere uno dei personaggi più noti del Forum. Tranquillo e sempre disponibile, ci racconta i preparativi del Forum sulla sovranità alimentare che Via Campesina sta organizzando, proprio a Bamako per il 2007.

«Per la prima volta che il tema della sovranità alimentare sarà dibattuto a livello mondiale, e non solo, si parlerà dell’alternativa che pone Via Campesina all’Omc. Quando diciamo: l’agricoltura deve uscire dall’Omc è la questione della sovranità alimentare che si pone e il ruolo del mercato rispetto ad essa. Non deve essere il mercato che detta le politiche agricole dei paesi, ma esso deve essere organizzato nel rispetto all’obiettivo centrale dell’agricoltura che è l’alimentazione». Ma perché in Africa? «Perché no? È il continente più attaccato dal dumping (ribasso artificiale dei prezzi per penetrare un mercato, ndr.) dei paesi ricchi. Questo dibattito è più concreto se fatto qui. Il movimento contadino è ben organizzato e porta avanti una lotta importante».

Parlando del Forum sociale di Bamako Bové sottolinea come le organizzazioni africane non sono mai state assenti da queste iniziative, ma andare a Porto Alegre o in India sia molto costoso. Mentre questo incontro ha dimostrato che c’è una vera vitalità dei movimenti sociali africani, di tutta l’Africa. «Questo Forum ha messo in particolare risalto il fatto che il movimento sociale esiste, è forte, capace e agisce concretamente. Le rappresentazioni della società civile devono coalizzarsi per affermare bene la nozione di contropotere che devono avere di fronte a questo processo».

Ad ascoltare tutti questi discorsi, seppur di leader contadini, ma talvolta anche di teorici, nasce spontaneo il dubbio sull’impatto per il contadino africano medio. «La ricaduta concreta è l’insieme dei propositi delle organizzazioni contadine che sono presenti. A partire da questi costruiremo il Forum sulla sovranità alimentare. È un processo in divenire e per raggiungere l’obiettivo di sovranità occorre la riconquista dei mercati locali da parte dei contadini, far uscire l’agricoltura dal sistema dell’Omc e allo stesso tempo la riforma agraria, il controllo delle sementi da parte degli agricoltori. Tutti aspetti che interessano il produttore».

E a chi gli chiede quale spiritualità ha il Forum sociale risponde: «Oggi quello che ci anima qui, è portare avanti dei valori che permettano a ognuno di riconoscersi a partire dalla propria identità per cercare di costruire un mondo più giusto e più solidale».

Marco Bello




Onorevoli di tutto il mondo unitevi!

Acqua e politica

Dall’Africa e dall’Europa. Parlamentari ed eletti di enti locali. Si riuniscono per dare voce ai cittadini. No alla mercificazione dei «servizi alla cittadinanza»: acqua, educazione, sanità, trasporti, energia.

Bamako. Sono tra quelli meglio organizzati gli incontri del Contratto mondiale sull’acqua, e sempre gremiti di gente. Ma la sala del Museo nazionale di Bamako dove si tengono è troppo piccola e gli aspiranti partecipanti si accalcano fuori.

Riccardo Petrella e il suo gruppo sono riusciti a coinvolgere parlamentari africani (Mali, Burkina Faso, Togo), belgi, francesi ed europarlamentari nell’idea di costruire una rete di onorevoli di tutto il mondo in grado di rappresentare realmente i desideri della popolazione. Soprattutto per quanto riguarda i «servizi alla cittadinanza», ovvero acqua, educazione, sanità, trasporti, energia.
Si deve creare un «Collegamento dei parlamentari tra loro e parlamentari e società civile» sostiene Soumane Touré, deputato del Burkina Faso, per poter fare in modo strutturato «pressioni sulla regolamentazione per la gestione dell’acqua. Perché l’insieme dei cittadini deve farsi ascoltare. Che siano i parlamentari o gli eletti degli enti locali, devono prestare attenzione ai problemi della popolazione per poi cercare di risolverli. Un deputato eletto deve poter introdurre leggi in questo senso».

Padroni dell’acqua

Presente all’incontro anche Danielle Mitterand (moglie del defunto presidente francese François Mitterand), presidente della Fondazione France et Liberté. Nel suo intervento sottolinea che le preoccupazioni sull’acqua non sono solo relative a quella potabile, ma, in senso più largo «intesa come bene dell’umanità, per la sopravvivenza stessa della specie umana». La constatazione della Mitterand è che siamo il risultato di un sistema, per cui ogni stato non può portare avanti la propria politica, ma sono tutti sottomessi a una dittatura mondiale economica e finanziaria.
Il pensiero unico, che ci è stato imposto da molti anni, predica il profitto come motivazione di tutto, senza alcuna considerazione per l’essere umano. E la corsa al potere per controllare il mondo passerà dall’acqua: «Chi sarà il padrone delle risorse in acqua (falde acquifere, sorgenti, fiumi) sarà il padrone del mondo. Questo ci porterà alla guerra dell’acqua».

Ma la Mitterand vede una reazione positiva nelle società civili, anche africane «esistono molte associazioni portatrici di progetti e composte da persone responsabili verso l’ambiente che stanno costruendo un’altra politica per un mondo con solidarietà popolare. Le associazioni – continua – sono coscienti della possibilità di riuscire a convincere gli eletti, coloro che hanno potere di decisione affinché agiscano in questo senso». È quanto è successo in Belgio, spiega il deputato Pierre Galan, dove grazie a pressioni del parlamento, il governo di quel paese è stato l’unico ad opporsi, nel marzo 2005, alla liberalizzazione del mercato dei servizi in sede Ue.

Un impegno comune

Un deputato verde francese chiede ai rappresentanti dei paesi presenti di intensificare la comunicazione, affinché in Europa si conoscano quali imprese europee stanno tentando di privatizzare l’acqua in Africa. Avranno così gli elementi per interpellanze e inchieste parlamentari.

I partecipanti, parlamentari e rappresentanti di associazioni, sottoscrivono la Dichiarazione di Bamako, nella quale si impegnano su tre punti fondamentali. Primo: il Fsm considera l’accesso gratuito all’acqua in termini di 40 litri al giorno per persona come uno degli obiettivi per i prossimi 10 anni. Per questo è prioritario creare delle reti continentali di «difensori dell’acqua» (movimenti, cittadini, sindacati, ecc.) contro la mercificazione e la privatizzazione di questa risorsa. Secondo: i parlamentari presenti si impegnano a creare associazioni nazionali, continentali e inteazionali di eletti con lo scopo di favorire l’accesso all’acqua per tutti. Spingeranno, inoltre, affinché il Parlamento panafricano faccia di una nuova politica dell’acqua una delle sue priorità. Terzo: organizzazioni e imprese pubbliche dell’acqua dei vari paesi si impegnano a creare un’alleanza mondiale delle società pubbliche per promuovere la proprietà e la gestione pubblica di questo bene comune e controbilanciare le azioni delle compagnie multinazionali (1), che hanno creato la FederAcqua (Federazione internazionale degli operatori privati).

Di Marco Bello

(1) Si veda il dossier «Le mani sull’acqua», MC giugno 2006.

PARLA RICCARDO PETRELLA:

VERSO L’ASSEMBLEA MONDIALE

Il segretario generale del Comitato internazionale per il Contratto mondiale sull’acqua ci spiega le priorità delle battaglie per i prossimi mesi. Per una vasta mobilitazione di cittadini, enti locali e parlamentari.

In primo luogo bisogna rigettare la direttiva europea Bolkestein (direttiva sui servizi nel mercato unico dell’Ue in iter di approvazione, ndr). Per riaffermare il carattere pubblico dei servizi di cittadinanza, che questa direttiva vuole trasformare in merce: l’acqua, l’educazione, il trasporto, il solare nell’energia. L’attuale testo, anche modificato, è chiaramente una specie di abbandono di ogni senso di vivere insieme gestito con meccanismi pubblici collettivi, rappresentativi, non burocratici e non corrotti. Non vogliamo che questi servizi ubbidiscano alla semplice logica del prezzo minore, quindi più competitività, che pretenderebbe anche miglior qualità. Anche se fosse vero, come si può accettare che la logica del mercato governi l’accesso ai servizi di base per la cittadinanza? Questo significa aver completamente mercificato la vita e la società: è uno degli attacchi più feroci che la logica della società capitalista sta portando alla civiltà.
Attualmente ogni stato ha le sue leggi in materia. In alcuni paesi i servizi sono totalmente pubblici, in altri sono stati privatizzati. La direttiva Bolkestein, dietro alla scusa del mercato unico europeo, vuole applicare il principio della liberalizzazione, deregolamentazione quindi privatizzazione dei servizi alla cittadinanza.

Secondo. Vogliamo riaffermare il concetto dell’acqua pubblica sia sul piano di proprietà, sia su quello della gestione. Si vuole evitare questa distinzione, che molta gente fa, sostenendo che la proprietà della rete deve restare pubblica, mentre la gestione del servizio può essere data al privato. Dietro al principio assai strambo, non confermato dalla realtà, che il privato necessariamente deve essere più efficiente, efficace ed economico del pubblico.

Terzo. A settembre ci saranno gli stati generali dell’acqua delle regioni meridionali (italiane, ndr), per tentare di definire e far mettere in opera una visione e una politica dell’acqua pubblica. Per evitare che nei prossimi anni le pressioni verso le tendenze delle politiche regionalistiche di tipo nazionalista anche sull’acqua si rinforzino, invece di andare verso una visione più cornoperativa, solidale ed efficace a livello dei bacini del meridione. E, inoltre, l’utilizzo del territorio e dell’acqua per una politica di ristabilimento del sistema idro-geologico oggi completamente dissestato in queste regioni. Far sì che i servizi idrici di distribuzione, depurazione e fognatura possano sempre rispondere a elementi di qualità elevati attraverso un intervento di governo pubblico dell’acqua.

Quarto. Stiamo organizzando dal 3 al 6 dicembre, a Bruxelles, la prima Assemblea mondiale dei cittadini per l’acqua, alla quale tenteremo di far venire i responsabili di città, villaggi, associazioni e parlamenti locali. L’obiettivo è che si prenda l’impegno a far sì che nessuno, almeno nella propria città, sia sprovvisto di accesso all’acqua potabile entro i prossimi 15 anni. Affinché la gente si impegni non solo a dichiarare che l’acqua è un bene comune o un diritto, ma a concretizzare questi due principi. Inviteremo le città del Sud e del Nord, dall’Africa e dall’America Latina. Come finanziarci? La provvidenza è chiamata a intervenire.

Per tutto questo il Forum sociale è un luogo di concertazione dove, a partire dallo scambio di interessi, analisi, critiche e valutazioni su ciò che è stato fatto o deve essere fatto, si elaborano strategie comuni per raggiungere in maniera più efficace gli obiettivi per i quali ci battiamo da tanti anni.
a cura di M.B.

(1) Riccardo Petrella è già stato intervistato sulle pagine di MC di settembre 2001.

Marco Bello




Quale futuro per il Forum Sociale?

Il personaggio (1): François Houtart

François Houtart, sacerdote, è presidente del Centre Tricontinental di Louvain-la-Neuve, in Belgio e membro del Consiglio internazionale del Forum sociale mondiale.

«È estremamente importante riflettere sulla memoria, la storia dei Forum e la loro evoluzione, per porsi il problema delle sfide del futuro» sostiene François Houtart (1).
«Si è sviluppato a causa dell’allargamento della logica del capitale all’insieme dei gruppi umani, che ha originato la convergenza di movimenti di protesta e resistenza. Gruppi che non avevano nulla a che fare l’uno con l’altro. Luogo di incontro e scambio, con obiettivi comuni definiti dalla Carta del Fsm, la lotta al neoliberismo, contro l’egemonia mondiale del capitale e la ricerca di alternative. È un soggetto pluralista sotto vari aspetti: diversità di provenienza geografica, di settore sociale, genere, di tipologia (movimenti sociali, Ong, intellettuali, ecc.) e pluralità ideologica. Si, perché c’è chi pensa che si possa umanizzare il sistema capitalista, chi invece vuole cambiarlo radicalmente.
Importante è restare insieme. Il fatto di poter resistere in una convergenza sta progressivamente costruendo un nuovo rapporto di forza con l’altro polo, quello mondializzato, fortemente costituito».

Quali sono i principali risultati dei Forum?
Primo: c’è stata una crescita di coscienza collettiva mondiale alla quale noi abbiamo realmente contribuito. Secondo: i Forum sono stati luoghi di formazione e di appoggio di reti, alcune sono nate nei Forum, altre si sono rinforzate.
Terzo: l’esistenza dei Forum è un fatto politico in sé.

In che senso il Forum è politico? Che potere ha di influenzare le decisioni dei governi?
Non so se abbiamo già influenzato, ma conosco alcuni partiti politici in Europa i cui dirigenti vengono ai Forum perché si rendono conto che aumenta la loro credibilità politica. Non dico che abbiano sempre le migliori intenzioni. Ma stimano che non è più possibile non tenere conto di questi eventi e che i temi dibattuti sono importanti dal punto di vista politico. Organismi come la Bm, l’Fmi o la riunione di Davos, è vero che non li abbiamo cambiati, ma sono stati obbligati a modificare i loro discorsi. Sentiamo che è una forza che si costruisce. È un processo, dobbiamo continuare. Quello che succede in Venezuela oggi, non voglio dire sia frutto dei Forum, ma è un cambiamento. Bisogna poter arrivare in molti luoghi per attuare dei cambiamenti di quel tipo.

Quali sono le sfide attuali?
Si deve passare dall’elaborazione di una coscienza collettiva, alla costruzione di attori politici. Che esistono già ma devono essere rinforzati se vogliamo avere un’efficacia contro il sistema e la sua organizzazione. Questo per costruire poco alla volta un nuovo soggetto storico. Se la classe operaia lo è stata durante il XIX e XX secolo, oggi credo che il soggetto che si costruisce progressivamente è più largo perché non c’è un gruppo sociale al mondo, che siano i popoli autoctoni, oppure i contadini, che non sia sottomesso alla logica del capitale.
Ma attenzione, i Forum devono restare unicamente dei punti di incontro e di scambio, non luogo di decisione collettiva. In questo modo è possibile restare non gerarchici, e ascoltare tutte le diversità di sensibilità di organizzazioni diverse.
Importante sarà incontrare la strategia dell’avversario, che sta cercando di cornoptarci, riutilizza i nostri concetti e lo stesso nostro linguaggio ma dandogli un altro senso, come ad esempio la lotta contro la povertà. Ma finalmente mette in marcia il suo apparato repressivo, poliziesco o militare, per criminalizzare soprattutto i movimenti sociali nel Sud.

Quando parla di nuovi attori collettivi, a cosa pensa?
Penso ad esempio al movimento della pace, all’opposizione alla guerra in Afghanistan e Iraq. Se riusciamo a far sì che in mille città del mondo ci siano manifestazioni contro la guerra, eventualmente ampliando le prospettive, come la distruzione di tutte le atomiche o la soppressione di tutte le basi militari all’estero, avremo creato un attore collettivo in un settore. Possiamo fare la stessa cosa contro la privatizzazione dell’acqua. Se in ogni settore si creano degli attori collettivi, poco a poco questi possono costituire un nuovo soggetto storico pluralista.

Come far rientrare gli esclusi nei Forum? Ad esempio l’Africa della città è molto diversa da quella dei villaggi, e questa seconda qui a Bamako non sembra molto rappresentata.
È una sfida intea, che necessita di una lunga preparazione del Forum con un intervento locale nei villaggi. Occorre avere un contatto reale con la gente, e poi bisogna far venire, alloggiare, essere presenti fisicamente un certo numero di persone della base, in modo che non si dimentichi che si discute di loro. In India c’era stato un grande sforzo da quel punto di vista (il Fsm del 2004 si è tenuto in India, ndr.). C’erano 20.000 «intoccabili». Questo aveva creato una certa atmosfera: non si potevano dimenticare. In India tutto era sullo stesso sito, mentre qui c’è una certa dispersione, quindi è molto più difficile organizzare una presenza. E non basta parlare a nome loro, bisogna averli presenti in modo tale che si possano trasformare in attori.

Come possono i Forum avere una buona visibilità e non essere criminalizzati?
La visibilità dipende essenzialmente dai media. Ci sono giornalisti dei media tradizionali che sono qui con noi e poi ci sono tutti i media alternativi. È una nostra preoccupazione. Poi dipende anche dal fatto che ci siano ogni tanto atti realmente visibili, ad esempio la manifestazione di apertura del Forum. Oppure far sì che molti parlamenti votino la Tobin Tax (proposta di tassa sulle transizioni finanziarie inteazionali, ndr.): non sarà questo che distrugge il capitalismo ma va contro il sistema mondiale ed è visibile.

DI MARCO BELLO


(1) MC aveva già intervistato François Houtart sul numero di aprile 2002.

Marco Bello




Orgoglio africano

Il personaggio (2): Aminata Traoré

Aminata Traoré è uno dei personaggi storici del Forum Sociale Mondiale. Da Porto Alegre a Mumbai e finalmente qui, nel «suo» Mali. Donna, africana, ex ministro della cultura, Aminata sprigiona una grande energia, e allo stesso tempo ispira saggezza e rispetto. Con la sua associazione Foram, si batte da anni per un’alternativa tutta africana alla globalizzazione e anche per questo è tra gli organizzatori del Fsm policentrico di Bamako. Le abbiamo posto qualche domanda.

Qual è la sua impressione su questo Forum e che lezioni si possono dedurre per la preparazione di quello di Nairobi?
Penso che abbia il merito di essersi svolto, il che è una buona cosa per l’Africa. Ha mostrato che i problemi africani non hanno nulla di così specifico all’Africa nell’epoca della globalizzazione. Il fatto che centinaia di organizzazioni si siano incontrate a Bamako per constatare la stessa devastazione del sistema neoliberale, è una maniera di interpretare la storia e i problemi africani senza discriminazione. Questa porta a far credere che gli africani siano responsabili di tutto quello che viviamo in Africa, e che sia essenzialmente dovuto alla povertà, come se questa fosse generata in modo spontaneo, senza delle precise cause. Possiamo, ad esempio, constatare che i flussi migratori sono le conseguenze degli stati liberali in Europa e del Nord in generale. Penso che il gioco politico debba avere altri contenuti, non solo la questione delle elezioni organizzate bene o male, ma l’occasione di dire che il mondo intero è in fase di ristrutturazione e questo si fa sovente con l’esclusione e a scapito dei popoli.

Pensa che potrete influenzare i decisori africani?
I dirigenti africani sono gli allievi, ma bisogna chiamare in causa i loro maestri. Localmente noi ci battiamo nelle elezioni per i nostri governanti, ma qualsiasi essi siano, hanno sempre una potenza internazionale dietro che chiede loro di mettere in opera una certa politica economica. Dobbiamo quindi batterci su due punti: all’interno per dire ai nostri governi che si sbagliano sulla scelta delle priorità, all’esterno per dire ai dirigenti dei paesi ricchi di agire in modo diverso rispetto ai governi africani altrimenti sono inevitabili questi flussi migratori, causati dalla sofferenza per la miseria nei nostri paesi, creata dalle loro politiche.

Quali sono stati i temi principali di questo Forum?
Tutti i temi. Perché, come un rullo compressore, la globalizzazione ha toccato tutto: agricoltura, commercio, educazione, donne, giovani. Su tutte queste questioni si è discusso. Compresa l’immigrazione. Il Mali è un paese di origine di migranti, e come gli altri paesi limitrofi, è particolarmente toccato dalle politiche migratorie scelte dall’Unione europea. È quindi legittimo che ci appropriamo di questa problematica e la interpretiamo in maniera che non ha nulla a che vedere con l’approccio dell’Europa.

Qualcuno dice che i Forum sono per le élite africane, per i ricchi. Secondo lei è vero?
Mi faccia vedere i ricchi. Io sono originaria di una famiglia povera. Non è perché io scrivo libri o mi esprimo correttamente in francese che sono parte di un’élite. Questo è un approccio miserabilistico all’Africa: si preferisce che gli africani che non sono in grado di esprimersi siano presi in carico dalle istituzioni del Nord, ma quando c’è un africano che sembra conoscere quello di cui parla, lo si chiama ricco.
Abbiamo fatto tutto il possibile per coinvolgere la popolazione: i contadini sono rappresentati, hanno uno spazio tutto per loro, i sindacati pure, i giovani hanno il campo dei giovani, le donne sono mobilitate. È la prima volta che un Forum di questo tipo ha avuto luogo e ha innanzitutto il merito di essere stato realizzato, nonostante le difficoltà. Le persone che sono venute divulgheranno quanto si è detto, e continueremo a batterci. Se si vuole vedere in questo un approccio d’élite, posso dire lo stesso per il movimento del Nord.

Ma chi sono stati i partecipanti?
Molti sono arrivati dall’interno del Mali. L’appoggio dello stato ci ha permesso di far venire delegazioni da tutte le regioni del paese. Altri sono venuti via terra da Niger, Burkina Faso, Guinea, Senegal, Mauritania. Gli occidentali vorrebbero che prendessimo i loro soldi e non quelli dei nostri stati. Ma questi sono i soldi dei contribuenti che pagano le tasse, preferisco prendere queste risorse piuttosto che continuare a dire «grazie» al Nord.
L’apporto dello stato maliano è stato molto importante: 150 milioni di franchi cfa (circa 230 mila euro, ndr.) e tutte le infrastrutture. Senza di esso non ci saremmo riusciti. Le risorse che i partner estei hanno fornito ci hanno permesso di far venire partecipanti da diversi paesi, come dall’Africa dell’Est. L’importanza è anche politica, perché vuol dire che non siamo combattuti, sono pronti ad ascoltarci. In effetti oggi, più che in passato, hanno capito che le nostre critiche sono fondate.

Di Marco Bello

Marco Bello




Verso Nairobi

La signora Wahu Kaara è una delle principali organizzatrici del Fsm
che si terrà a Nairobi (Kenya) a gennaio 2007.
A Bamako ha preso il testimone. Di seguito fa il punto per MC sull’organizzazione.

L’obiettivo del Fsm è quello di mostrare la forza delle organizzazioni di base che sono i veri agenti di trasformazione sociale. Questo non può essere distorto perché i movimenti hanno la loro storia e un impegno per mutare la realtà affinché ci sia giustiza per tutti. Sarà l’occasione per mostrare le nostre lotte globali e celebrarle tra cittadini di tutto il mondo. Mostreremo che non esiste una forza in grado di cambiare il percorso della storia.
L’unicità dell’Africa farà la differenza. Non un continente senza speranza, dilaniato dalle guerre, povero e perso. L’Africa è viva! Rifiutiamo la vittimizzazione. Demistificheremo miti e differenze sulla gente africana.
Mostreremo anche che non siamo solo noi ad avere a che fare con le esigenze della globalizzazione ma siamo tutti cittadini globali.
Con la nostra elasticità e le strade innovative che percorriamo per controbattere le strutture dominanti mostreremo che la questione principale che tutti dobbiamo affrontare è una: distribuzione e gestione delle risorse in equità. Abbiamo quindi bisogno di organizzarci come cittadini utilizzando la nostra diversità come una forza.
A livello pratico stiamo seguendo il modello delle passate edizioni, in termini di pianificazione orizzontale. Cerchiamo di raggiungere più possibili gruppi organizzati e associazioni a livello nazionale e regionale, ma anche di coinvolgere singoli individui impegnati nel cambiamento politico.
La più grossa difficoltà è la ricerca dei fondi. Riceviamo molte offerte e promesse, ma in termini reali stiamo ancora aspettando. Questo rallenta molto il processo e la nostra paura è che i partner vogliano liberare le risorse solo a fine anno, a ridosso del Fsm. Ma sarà tardi, perché molto del lavoro organizzativo va fatto prima. Noi abbiamo già il budget e la pianificazione pronta. Il rischio è che così anche lo spirito dei volontari che animano questa struttura si affievolisca perché non si riescono a realizzare le azioni previste.
La gente e le organizzazioni di base sono la manifestazione dello spirito del Fsm. Questo sarà effettivo se saremo capaci di stimolare continuamente le azioni di queste gruppi inducendoli a fare le loro richieste e a prendere il loro spazio nel Fsm. Le condizioni sono mature.

Di Wahu Kaara da Nairobi

Wahu Kaara




Sorella acqua

Siccità, sprechi, business

Qualche anno fa il presidente statunitense Bill Clinton dichiarò che un quarto della popolazione mondiale non ha mai tenuto in mano un bicchiere d’acqua potabile. I dati sembrano dargli ragione: il 97 per cento dell’acqua del pianeta si trova negli oceani e nei mari salati e solo il rimanente 3 per cento è adatto al consumo umano, ed esso è di difficile accesso, le riserve d’acqua dolce infatti sono costituite in gran parte dalle calotte polari e dai ghiacciai e solo il 20 per cento da riserve e correnti sotterranee. Questi semplici dati confermano che l’acqua è un bene prezioso, dall’equilibrio fragile e delicato, ma se visto sotto l’aspetto economico il tutto diventa un grande affare. L’idea economica legata all’utilizzo delle acque sta prendendo sempre più piede, tant’è che nel mondo attualmente già 10 grandi multinazionali sfruttano, gestiscono e commerciano acqua a pagamento. Grazie al controllo dei mezzi di informazione sempre più si instilla nell’opinione pubblica l’idea che l’acqua dovrebbe essere privatizzata al fine di rendere più agibile e fruibile un bene che in realtà è destinato a tutti e non può essere consegnato nelle mani di pochi. Questo è il nodo della questione, non possiamo permettere che l’acqua venga da una parte inquinata e dispersa e dall’altra accaparrata da pochi potentati economici in grado di aprire i rubinetti a loro piacimento, ovviamente dietro pagamento di bollette sempre più salate.

In teoria tutti i paesi membri delle Nazioni Unite, concordano sul principio che l’acqua non va considerata come una risorsa economica, bensì come un bene sociale, nella pratica invece essa è una merce come un’altra e ultimamente sta diventando una sorta di «gallina dalle uova d’oro». Molti di quegli stessi paesi che riconoscono all’acqua un valore sociale, nelle ovattate stanze dove si trattano i problemi inteazionali fanno di tutto per privatizzarla e questo sarebbe una sventura proprio per quei paesi del Sud del mondo più deboli di fronte alle pressioni politiche dei grandi di tuo e meno preparati all’assalto delle multinazionali.
Un problema di questo genere non è molto di casa in ambito ecclesiale, se non nella variopinta nicchia dei missionari, ma – come dice la «Gaudium et spes» – ogni problema legato all’ambiente è un problema dell’uomo e quindi è un problema della chiesa.
Mons. Feando Charrier, vescovo di Alessandria, concludendo i lavori di un convegno organizzato a Mortara (1), affermava come siano importanti i valori che mettono al centro l’uomo e non invece gli antivalori che vengono spacciati oggi da una visione economicista e liberista della vita. Dove al primo posto viene messo il profitto e lo sfruttamento irrazionale del Creato.

Mario Bandera

Mario Bandera




Se vince il mercato

Lo scandalo dell’acqua (1): neoliberisti all’attacco

Due miliardi di persone non hanno accesso all’acqua. Milioni muoiono per malattie trasmesse dall’acqua. Mentre si moltiplicano i conflitti per l’«oro blu», governi neoliberisti e multinazionali alla ricerca di nuovi profitti si attrezzano per rendere l’acqua una merce con un prezzo e un mercato. Morale: avrà l’acqua chi potrà pagarla…

Nel mondo ci sono attualmente circa cinquanta conflitti (fortunatamente non necessariamente armati) tra stati, per cause legate all’accesso, all’utilizzo e alla proprietà di risorse idriche.
Ben di più che per il controllo delle fonti di petrolio. Del resto Mark Twain scriveva: «Il whisky è per bere, l’acqua per combattersi».
Ci deve essere una qualche forma di giustizia riparatrice, se è vero che alcuni tra i Paesi produttori di petrolio figurano però agli ultimi posti nella graduatoria mondiale per disponibilità di acqua potabile: in Kuwait 10 metri cubi l’anno pro capite, negli Emirati Arabi 58 metri cubi… contro la Guyana francese, in vetta all’hit parade dell’acqua, con 812.121 metri cubi pro capite l’anno.
Giuseppe Altamore, nell’introduzione al suo libro I predoni dell’acqua, scrive: «Oro blu, un’espressione suggestiva, forse esagerata. Ma dopo aver letto questo libro, probabilmente non riuscirete a trovare una definizione migliore per un affare da 400 miliardi di dollari».
Solo per l’Italia, il Comitato per la vigilanza sull’uso delle risorse idriche, nella Relazione annuale al Parlamento sullo stato dei servizi idrici, ha valutato che l’ammontare del giro di affari nel settore del ciclo dell’acqua (acquedotti, fognature e depurazione) sfiora i 4 miliardi di euro. Notevole anche l’occupazione del comparto: 63.374 addetti.
Che l’acqua sia davvero «l’oro blu», lo hanno ben intuito alcune grandi multinazionali, che si sono prontamente buttate sul mercato dell’acqua potabile.
Nel 1980 solo 12 milioni di persone nel mondo erano rifoite da imprese private; nel 2000 si era già arrivati a 300 milioni, e si prevede che entro il 2015 tale cifra crescerà fino a quota 1 miliardo e 600 milioni.
Il mercato mondiale dell’acqua è dominato da due grandi multinazionali francesi, la «Vivendi» (che ha inglobato la General des Eaux) e la «Suez» (che ha inglobato la Lyonaise des Eaux), che da sole detengono il 40 per cento del mercato planetario dell’acqua.
Un altro ambito è particolarmente attento a fiutare dove si nascondano i possibili «affari»: è quello della criminalità organizzata.

IN SICILIA,
L’ACQUA È… «COSA NOSTRA»

La prima vera guerra di mafia – secondo gli storici di Cosa nostra – inizia nel 1874, a Monreale, quando viene ucciso il guardiano dell’acqua Felice Marchesi. Il delitto si inserisce nel conflitto tra due organizzazioni mafiose rivali, i Giardinieri e gli Stoppaglieri, che è appunto la prima guerra di mafia documentata.
La mafia siciliana fa affari su tutto il ciclo dell’acqua, grandi lavori compresi. Se non esistessero interessi criminali dietro il controllo delle risorse idriche, difficilmente si capirebbero alcune incredibili contraddizioni della realtà siciliana. In Sicilia piovono normalmente 7 miliardi di metri cubi d’acqua l’anno. Il fabbisogno agricolo, civile e industriale è calcolato in 2 miliardi e 482 milioni di metri cubi. La Sicilia, insomma, potrebbe addirittura esportare acqua, invece alcune province (Agrigento, Caltanissetta ed Enna) soffrono di una sete endemica. Nonostante di acqua in Sicilia si occupino in molti, forse troppi: 3 enti regionali, 3 aziende municipalizzate, 2 società miste, 19 società private, 11 consorzi di bonifica, 284 gestioni comunali, 413 consorzi.
Risultato? Una rete idrica-colabrodo. Anche per lavori fatti male, e sui cui appalti la mafia ha sempre detto la sua. Così come nei lavori di costruzione delle dighe e gli invasi, molti mai iniziati, molti mai finiti. E così i proprietari dei pozzi (spesso controllati dalle famiglie mafiose) vendono l’acqua a caro prezzo.

LE PROSSIME GUERRE

Di fronte ai dati allarmanti sullo stato delle risorse idriche del pianeta, molti esperti concordano nel prevedere che le guerre del XXI secolo scoppieranno proprio a causa delle dispute sull’accesso alle risorse idriche.
Non stiamo parlando di uno scenario futuribile, ma della stringente attualità. Non stiamo facendo della fantascienza, ma della cronaca.
Prendiamo la Turchia, che con risorse idriche pro capite superiori a quelle italiane, è da anni ai ferri corti con Siria e Iraq per il controllo di Tigri ed Eufrate. Ma quello turco non è il solo esempio.
Basti pensare alle dispute che oppongono l’Egitto a Etiopia e Sudan per il controllo delle acque del Nilo (un fiume, tra l’altro, che attraversa ben 9 diversi paesi africani). O alla crisi che, sempre per il controllo delle acque, oppone Israele ai suoi vicini arabi.
E proprio il caso israelo-palestinese è forse il più eloquente. Come testimonia la differenza tra coloni israeliani e popolazione araba che, pur vivendo negli stessi territori, usufruiscono di differenti possibilità di accesso e di utilizzazione delle risorse idriche.
Il consumo medio palestinese, in Cisgiordania e a Gaza, è di circa 150 metri cubi pro capite all’anno, mentre quello dei coloni israeliani dei territori occupati si aggira intorno ai 700-800 metri cubi.
E non è un caso se in Israele la gestione delle risorse idriche fa capo al ministero dell’Agricoltura, mentre l’Autorità palestinese ha affidato la stessa competenza al ministero della Difesa…
Toando alla Turchia, poi, l’attuazione di un gigantesco progetto che prevede la realizzazione di 22 dighe e 19 centrali idroelettriche è diventato un tassello importante della strategia geopolitica nell’area.
La Turchia, con questo progetto, punta a due obiettivi: ribadire la sua supremazia rispetto a Siria e Iraq e controllare militarmente (con l’alibi di proteggere i cantieri dagli attentati) i territori dell’Anatolia sudorientale, che da sempre sono la roccaforte dei curdi.
Sul piano mondiale, dei 263 bacini idrici la cui estensione interessa più di un paese, circa un terzo attraversa più di 2 stati e 10 ne coinvolgono 5 o più.
Più della metà delle risorse idriche di gran parte dei Paesi dell’Africa e del Medio Oriente ha origine fuori dei loro confini; altrettanto succede nell’America Latina.
Negli ultimi cinquant’anni le controversie tra stati per il controllo delle risorse idriche sono state 1.831, in gran parte risolte con la firma di 200 trattati di condivisione dell’acqua o la costruzione di nuove dighe o bacini artificiali; 507 casi invece sono stati conflittuali, in 37 casi hanno comportato scontri violenti, in 21 vere e proprie guerre con l’intervento degli eserciti.

MILIARDI DI PERSONE
SENZA ACCESSO ALL’ACQUA

L’acqua è oggi il bene più prezioso per l’umanità, quello che decide della vita e della morte, del benessere e della povertà.
A livello mondiale, 1 miliardo e 400 milioni di persone non hanno praticamente accesso all’acqua potabile; 1 miliardo beve acqua non sicura; 3 milioni e 400 mila persone muoiono ogni anno per malattie trasmesse dall’acqua.
Si prevede che entro il 2025 vi saranno almeno 3 miliardi di persone che soffriranno per la scarsità di acqua potabile. L’80 per cento delle malattie nei paesi in via di sviluppo sono provocate dall’impiego e dal consumo di acqua insalubre. Ogni giorno 6.000 bambini di età inferiore a 5 anni muoiono in seguito al consumo di acqua non potabile.
E l’Onu ci avverte: «In meno di 25 anni due terzi della popolazione mondiale sarà colpita dalla crisi idrica».
Il futuro, dunque, non è roseo. Le necessità di risorse idriche sono destinate a salire in proporzione alla crescita della popolazione: secondo l’Unesco in tutto il pianeta ci saranno 8 miliardi e 300 milioni di persone nel 2025 e tra i 10 e i 12 miliardi entro il 2050. Ma se la popolazione aumenta, le risorse idriche potabili, tendono invece a diminuire.

IO SPRECO, NOI SPRECHIAMO

Il consumo di acqua nel mondo, dal 1960 ad oggi è aumentato del 60 per cento. Abbiamo parlato di consumo, ma occorre parlare anche di spreco, dei singoli consumatori e delle industrie. Qualche dato è più eloquente di tante parole: per un bagno in vasca si consumano fra i 120 e i 160 litri, ma questa quantità d’acqua corrisponde a quella disponibile gioalmente per 12 o 16 abitanti del Madagascar!
E ancora: per produrre un chilogrammo di carta sono necessari 325 litri di acqua, 95 litri per un chilo di acciaio, 10 litri per un litro di benzina. Per costruire un’auto del peso di una tonnellata, di litri di acqua se ne consumano addirittura 150 mila.
Senza una radicale svolta nella politica idrica e con gli attuali investimenti, l’acqua non inquinata potrà raggiungere l’intera popolazione africana non prima del 2050, quella latinoamericana non prima del 2040 e quella asiatica non prima del 2025. Nel frattempo, milioni di persone moriranno in questa strage silenziosa.

SEMPRE MENO ACQUA

La situazione è allarmante. Perché il 97,5 per cento dell’acqua della terra è salata e del rimanente 2,5 per cento, soltanto lo 0,007 per cento è a disposizione dell’uomo. E le riserve d’acqua stanno diminuendo (sempre fonte Unesco): tra vent’anni ognuno di noi disporrà mediamente di un terzo di acqua in meno.
La maggior parte dell’acqua dolce viene utilizzata per uso agricolo. Più precisamente, l’agricoltura utilizza il 70 per cento delle risorse, l’industria il 20 per cento, e il restante 10 per cento viene indirizzato verso altri usi.
Tuttavia – tornando all’agricoltura – la gran parte dei sistemi di irrigazione è inefficiente, dal momento che essi perdono circa il 60 per cento dell’acqua a causa dell’evaporazione o di flussi di ritorno verso i fiumi e le falde freatiche sotterranee. L’irrigazione inefficiente non determina solamente uno spreco di acqua, ma causa anche dei rischi ambientali e sanitari, fra i quali la perdita di terreni agricoli produttivi a causa dell’acquitrinizzazione dei suoli, un fenomeno che rappresenta un importante problema in alcune zone dell’Asia meridionale, e del fatto che la superficie delle acque stagnanti facilita la trasmissione della malaria.
In alcune zone del mondo il consumo idrico ha comportato degli impatti ambientali impressionanti. In alcune aree degli Stati Uniti, della Cina e dell’India, le falde freatiche vengono consumate più rapidamente di quanto non riescano a ricostituirsi, e le superfici delle stesse si stanno riducendo costantemente. Alcuni fiumi, come il Fiume Colorado negli Stati Uniti occidentali e il Fiume Giallo in Cina, spesso si prosciugano prima di raggiungere il mare.
Un altro problema considerevole è quello delle dighe, che drenano l’acqua, spesso alterando il corretto equilibrio ecologico. Si calcola che nel mondo ci siano più di 800 mila dighe di varie dimensioni, che immagazzinano 6.000 chilometri cubi di acqua, pari al 15 per cento circa della riserva rinnovabile del pianeta.
Quasi la metà dei maggiori fiumi è stata in qualche modo alterata dalla costruzione di questi sbarramenti artificiali.
In Italia sono state censite circa 11 mila dighe, solo 800 delle quali controllate dal Servizio nazionale dighe. Le altre 10.000 sfuggono alle verifiche del Servizio nazionale per il semplice fatto che non rientrano nei parametri previsti per il controllo obbligatorio: un’altezza superiore ai 15 metri o un invaso della capacità di almeno 1 milione di metri cubi d’acqua.

LA DESERTIFICAZIONE
AVANZA

C’è poi l’incubo della desertificazione. Anche qui qualche dato:
• il 39% circa della superficie terrestre è «affetta» da desertificazione
• 250 milioni di persone sono direttamente a contatto con la degradazione della terra nelle regioni aride
• più di 100 paesi nel mondo sono interessati dal fenomeno
• la perdita di reddito imputabile alla desertificazione è di circa 45 miliardi di dollari ogni anno
• il 70% dei terreni aridi utilizzati in agricoltura sono già degradati
• la desertificazione impoverisce le possibilità di produzione alimentare: ogni anno 12 milioni di ettari vengono così persi
• la desertificazione impoverisce la biodiversità.

ITALIA: INQUINAMENTO,
PERDITE, CONSUMI ECCESSIVI

Il fenomeno della desertificazione riguarda anche l’Italia. Le zone italiane più interessate dal processo di desertificazione sono soprattutto le isole, grandi e piccole, e le coste del Sud: la Sicilia e la Sardegna, le isole Pelage (Lampedusa, Linosa e Lampione), Pantelleria, le Egadi, Ustica e parte delle coste di Puglia, Calabria e Basilicata per un totale di 5 regioni, 13 province per 16.100 chilometri quadrati di territorio pari al 5,35% dell’Italia.
La regione dove più alto è il rischio di terre «aride e desolate» è la Sicilia con il 36,6% del suo territorio sensibile alla desertificazione e 5 province (Siracusa, Enna, Ragusa, Trapani e Agrigento). Segue la Puglia con il 18,9% del territorio ed anche una zona non costiera (l’interno del Gargano); la Sardegna con il 10,8%.
Secondo le previsioni di Legambiente, infatti, la temperatura nel nostro Meridione è destinata a salire di 2-3 gradi nel giro di un secolo, facendo calare le risorse idriche da 6,3 miliardi di metri cubi a 5,1 miliardi.
Secondo le stime del Wwf, ciascun italiano ha una disponibilità teorica annua di 2.700 metri cubi d’acqua, ma la quantità realmente disponibile crolla a 1.100 metri cubi a causa dell’inquinamento delle falde e dei fiumi e della rete idrica vecchia e inadeguata, con una significativa percentuale delle riserve sprecata per via delle perdite e degli allacciamenti abusivi.
I consumi domestici nel nostro paese rimangono a livelli eccessivi, se si pensa che l’italiano medio consuma 250 litri d’acqua potabile al giorno, mentre i nostri vicini svizzeri ne consumano 159 litri e gli svedesi 119.
Le perdite della rete di distribuzione continuano a superare mediamente il 35 per cento, ma raggiungono il 60 per cento in alcune regioni meridionali. In Svizzera e in Svezia la percentuale di tali perdite si attesta attorno al 9 per cento.

ITALIA: EVASIONE FISCALE
E TARIFFE

L’abusivismo è poi diffuso. Siamo di fronte a un vero e proprio «furto d’acqua». Mentre l’uso dell’acqua cosiddetta «produttiva» (cioè per usi agricoli, industriali, energetici e in altre attività del settore terziario) rappresenta il 75 per cento dei prelievi, essa costituisce solo il 10 per cento dell’acqua fatturata. Abbiamo dunque un’evasione pari al 90 per cento del prelievo.
Un’altra anomalia italiana riguarda le tariffe. Le nostre tariffe per la foitura idrica sono tra le più basse in Europa: il costo può variare da 0,15 a 1,55 euro, a seconda delle zone. Questo ha fatto diventare gli italiani i maggiori consumatori europei di acqua per uso domestico, con 250 litri al giorno prelevati da ogni cittadino. Ma, indagando sull’impiego dell’acqua, si scopre che il 39% se ne va in igiene personale, il 20 per il Wc, il 12 per la lavatrice. Appena l’1% è utilizzato per bere.

IL «CONTRATTO MONDIALE SULL’ACQUA»

L’acqua non è una risorsa inesauribile. Sull’acqua, come ricorda Giuseppe Altamore nel suo libro, incombono molti pericoli: la desertificazione di vaste aree, anche nel nostro paese, la salinizzazione delle falde costiere, l’inquinamento e lo spreco stanno compromettendo sia la qualità che la quantità delle nostre risorse.
Si fa dunque indilazionabile una proposta di «governo dell’acqua» che risponda a precisi criteri: garanzia del diritto fondamentale all’acqua concepita non come un mero prodotto commerciale, ma come un servizio pubblico essenziale, e trattato dunque come altri beni fondamentali (l’istruzione, la sanità, l’assistenza sociale) nel quale l’efficacia e l’efficienza si misurano sulla capacità di coniugare la sostenibilità economica e la qualità e diffusione del servizio.
Concretamente ciò significa «rigenerare il bene acqua attraverso un cambiamento strutturale degli usi». Non sono parole mie, le traggo dal Manifesto italiano dell’acqua 2005, stilato dal «Comitato italiano del Contratto mondiale sull’acqua».
La richiesta di un «governo delle risorse idriche» vale su scala nazionale, ma anche tra stati.
Nel Manifesto leggiamo infatti: «Vi sono grandi bacini, come quello del Guaranì, che essendo corpi idrici a valenza globale, dovrebbero essere governati in modo congiunto dai paesi sui quali si estende il bacino. È inaccettabile che il mar Morto stia scomparendo (ha già perso il 30 per cento della sua superficie), come è quasi scomparso il lago Baikal. I grandi laghi dell’America del Nord, come i grandi fiumi dell’Amazzonia, dell’Africa e dell’Asia che attraversano più paesi, costituiscono degli “ecosistemi maggiori” d’importanza vitale per il funzionamento del ciclo integrale dell’acqua e della vita sul pianeta terra».
Per l’Italia, il Manifesto, annota: «Dopo il disastro che è stato fatto in questi anni in Italia del bene acqua, è necessario puntare alla rigenerazione del capitale idrico nazionale adottando severe misure di riduzione drastica delle fonti di inquinamento e di contaminazione, tra le quali restano determinanti i pesticidi, i nitrati, gli idrocarburi, i metalli pesanti e, in maniera crescente le sostanze tossiche di origine umana legate all’alta medicalizzazione delle nostre popolazioni».
Per raggiungere questi obiettivi, il Manifesto suggerisce alcune misure concrete:
• riduzione di almeno il 40 per cento delle perdite in irrigazione legate al metodo di polverizzazione. L’irrigazione rappresenta in Italia il 55 per cento dei prelievi di acqua dolce. Di questi, il 40 per cento si perdono per evapotraspirazione;
• portare al 12-15 per cento i livelli di perdita delle reti di distribuzione;
• effettuare un censimento generale dei pozzi. Si stima che in Italia ci siano circa 1,5 milioni di pozzi illegali, che prelevano acqua dolce dove vogliono, senza nessun controllo;
• riduzione dei flussi negli usi domestici a livello di bagni, tornilette, grazie a sistemi di riciclaggio delle acque reflue.
Naturalmente si tratta solo di alcune indicazioni, tra le tante possibili. Ma il problema è soprattutto politico e di educazione dei consumatori.

IL «CODICE DELL’AMBIENTE»

A febbraio c’è stata la Delega ambientale, chiamata anche Codice dell’ambiente. Che dedica molti dei suoi articoli proprio alla gestione delle risorse idriche.
Mi limito a citare quanto prevede l’articolo 144 (tutela e uso delle risorse idriche), che potremmo definire come un «Manifesto delle risorse idriche»:
• Tutte le acque superficiali e sotterranee ancorché non estratte dal sottosuolo, appartengono al demanio dello Stato.
• Le acque costituiscono una risorsa che va tutelata ed utilizzata secondo criteri di solidarietà; qualsiasi loro uso è effettuato salvaguardando le aspettative e i diritti delle generazioni future a fruire di un integro patrimonio ambientale.
• La disciplina degli usi delle acque è finalizzata alla loro razionalizzazione, allo scopo di evitare gli sprechi e di favorire il rinnovo delle risorse, di non pregiudicare il patrimonio idrico, la vivibilità dell’ambiente, l’agricoltura, la piscicoltura, la fauna e la flora acquatiche, i processi geomorfologici e gli equilibri idrogeologici.
Sulla carta sembrano principi ampiamente condivisibili, ma sull’impianto complessivo della delega ambientale le polemiche non mancano (da Legambiente, ad es.).
Il Codice dell’ambiente, all’articolo 159, istituisce anche l’«Autorità di vigilanza sulle risorse idriche», con il compito di vigilare perché le norme dettate dalla legge siano rispettate.

L’ACQUA DI SAN FRANCESCO

Il documento della Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace, dal titolo «Frutto della terra e del lavoro dell’uomo», al paragrafo 25 recita: «Al riguardo (dell’acqua) ci sembra opportuno ribadire alcune convinzioni e orientamenti. L’acqua, anzitutto, è un bene di tutti e per tutti. Il suo valore impareggiabile è ben avvertito dal cuore di san Francesco, per il quale l’acqua “è molto utile et humile et pretiosa et casta”. Essa non va sprecata ma custodita con uno stile di vita sobrio, a cominciare dalle famiglie. È necessario fare adeguati investimenti per salvaguardare tale bene».
Siamo così al punto di partenza. L’acqua è la vita, là dove c’è in misura adeguata e con qualità garantita. L’acqua può diventare la morte, dove manca o è inquinata.
Come tutto il creato, è affidata da Dio alle nostre mani. Possiamo attingere alle sorgenti e fare del nostro pianeta l’Eden tra i grandi fiumi. Oppure trasformarlo in un pianeta devastato, desertificato, un Eden perduto.
Il futuro è, più che mai, nelle nostre mani.

Maurizio De Paoli

Maurizio De Paoli