Il kif del rif

Coltivazione e commercio della cannabis

Sono semplici coltivatori. Raccolgono i frutti della terra e li vendono in Europa. Con quello che guadagnano mantengono figli e famiglie. Sono i circa 500 mila agricoltori che vivono nel Rif e che oggi si oppongono alla distruzione delle loro coltivazioni, ordinata dal governo marocchino. Ma perché il regno alawita vuole impedire ai contadini di lavorare la terra? Perché quello che producono è marijuana. Droga, per chi non la conoscesse.

Il caldo inizia a farsi insopportabile e gli animali diventano nervosi, ma i mercanti del souq di Mizan el Harara non si muovono dai loro banchetti. Nell’arco di un’intera mattinata non hanno venduto quasi nulla: frutta e verdura sono rimaste a marcire sotto il sole.
I clienti abituali di questo paesino, incastrato nelle montagne tra Ouezzane e Ksar el Kebir, nella regione di Larache, non si sono fatti vedere: la loro unica fonte di reddito è stata distrutta dai militari marocchini e oggi non hanno più denaro per fare acquisti. “L’anno scorso – spiegano amareggiati gli uomini del mercato – aerei carichi di agenti chimici e quasi 100 trattori agli ordini dei gendarmes hanno raso al suolo tutte le coltivazioni di cannabis e sono entrati nelle case dei contadini per distruggere le riserve di hashish”.
L’operazione è stata ordinata dall’inflessibile governatore di Larache, Maoulainine Ben Khellihenna, che negli ultimi due anni ha fatto distruggere oltre 4 mila ettari di kif, nome locale della cannabis, nel quadro della campagna contro il narcotraffico, voluta dal governo marocchino, in accordo con le autorità europee e statunitensi.
“Il progetto di sradicamento delle colture di cannabis è stato fatto in accordo con i contadini – ha puntualizzato Khellihenna in una conferenza stampa – e oggi i locali hanno ritrovato la pace e la dignità. I coltivatori, inoltre, non hanno subito alcun danno, perché con i fondi del governo marocchino abbiamo compensato le perdite, facendo piantare oltre 50 mila olivi. Abbiamo anche donato 523 capre e 200 alveari per dare impulso all’apicoltura”.

Il successo della hamla, l’operazione di sradicamento, è stato anche lodato dall’ultimo congresso delle Nazioni Unite sul traffico di droga, che ha messo in luce come in meno di due anni la produzione nazionale di hashish sia diminuita sensibilmente.
A sentire i contadini del luogo, però, le cose sono andate diversamente: il governatore non avrebbe preso alcun accordo; anzi, avrebbe imposto la distruzione delle coltivazioni con la forza. “Gli imam e i funzionari pubblici hanno iniziato a dire che la coltivazione della cannabis era proibita – dice un contadino della zona -, ma noi pensavamo fosse l’ennesimo trucco per spillarci denaro”. “Invece questa volta i militari sono arrivati davvero – aggiunge un altro – e in 60 giorni hanno distrutto le riserve e incendiato le coltivazioni. Ci hanno anche costretto a fornire il cibo per gli operai che stavano devastando i campi e chi si rifiutava veniva minacciato con le armi”.
Per il momento i risultati dell’operazione “Larache région sans cannabis”, sono una campagna non coltivabile e sinistrata, incapace di attirare le centinaia di stagionali che nei mesi autunnali venivano a dare una mano per la raccolta. “Il governatore parla di dignità – dice un contadino che fino all’anno scorso coltivava cannabis -, ma non capisco che dignità possa avere uno che non ha più un dirham in tasca”.
Non avendo ricevuto compensazioni sufficienti, molti coltivatori sono emigrati nelle periferie delle città, dove vivono in condizioni di povertà e sono più soggetti al richiamo delle ideologie islamiche estremiste: alcuni addirittura hanno smesso di mandare i figli a scuola, perché non sono in grado di far fronte alla retta o perché non sono riusciti a saldare i debiti che avevano contratto durante il periodo della semina.
“La hamla contro la droga così come è stata organizzata è l’ennesima ipocrisia – scrive secco sul settimanale marocchino Tel Quel Driss Bennani -. Si è deciso di colpire i contadini, che sono l’anello più debole della catena del narcotraffico e il resto è rimasto invariato: nessun accenno ai consumatori europei e i processi contro i trafficanti vanno a rilento”.
Bennani non ha tutti i torti. Anzi. Dei proventi del commercio di cannabis, infatti, ai contadini arrivano poco più delle briciole: i passaggi dell’hashish arricchiscono ogni giorno molti ufficiali della gendarmeria e alti funzionari dell’amministrazione pubblica, i cui nomi appaiono all’inizio dei processi per poi sparire nel dimenticatornio.
“Ogni famiglia – dice senza mezzi termini Mohammed, che ha una piccola coltivazione vicino ad Akchur – scrive sui pani di hashish le proprie iniziali così la polizia sa a chi appartiene la droga e la fa passare alla dogana solo se i contadini hanno pagato il pizzo”.

Nei recenti processi ai trafficanti, però, per la prima volta le autorità marocchine hanno ammesso che esiste un legame tra il commercio di droga e il mondo politico. Tra il 2005 e il 2006 sono stati indagati l’ex capo della Securité Royale, Abdelaziz Izzou, e l’ex capo della sicurezza del palazzo reale, Mohamed Mediouri. Nei processi sono anche spuntati i nomi del figlio di Meyer Michel Azeroual, ricchissimo magnate degli acciai, legato alla corte del precedente sovrano, Hassan ii, e di altri importanti protagonisti della vita economica e politica di Tangeri.
Recentemente, inoltre, le indagini della polizia parigina hanno rivelato che alti funzionari del governo marocchino sono attivi nel riciclaggio del denaro sporco, proveniente dalla vendita di hashish e che alcuni uomini d’affari in vista nel regno alawita traggono dalla droga la maggior parte dei loro guadagni.
Tra i meglio organizzati ci sarebbero i membri della famiglia Chaabani, che fanno la spola tra il Nord del Marocco e Parigi. Originari di Nador, hanno il loro quartier generale in una stazione di servizio e usano alcuni negozi di tessuti e cybercafé come appoggio. Nel retro delle loro botteghe i Chaabani danno istruzioni ai loro intermediari europei e franco-marocchini nel vecchio continente su come piazzare l’hashish e trasportarlo a bordo di 4×4, camionette e autobus diretti in Belgio, Germania e Olanda. Al ritorno gli stessi mezzi portano denaro o addirittura lingotti d’oro. Parte dei soldi vengono poi investiti nel settore immobiliare in Marocco e in Europa e ovviamente in nuove colture di kif.

Eppure, almeno ufficialmente, il governo marocchino appare molto impegnato nella lotta alla produzione di cannabis, ed è il solo paese produttore che ha finora apparentemente collaborato con l’Ufficio sulla droga e il crimine delle Nazioni Unite (Unodc), stilando statistiche e censimenti sullo stato delle coltivazioni in Marocco.
Questa generale volontà nazionale che sta dietro all’operazione antidroga di Larache risulta però quantomeno ambigua, se si pensa che nella dirimpettaia regione di Chefchaouen, peraltro la zona di produzione del kif per antonomasia, si continua a coltivare cannabis senza troppe preoccupazioni.
Secondo l’Unodc, Larache fornisce solo il 12% del kif marocchino, contro il 62% di Chefchaouen. Inoltre, la qualità è quasi sempre nettamente inferiore e per questo il kif di Larache entra in scena solo quando i coltivatori di Chefchaouen e del resto delle montagne del Rif non riescono a far fronte da soli alle richieste del mercato interno e internazionale.
Secondo le autorità marocchine, però, la hamla di Larache è una campagna preliminare, alla quale ne seguiranno molte altre. La scelta di cominciare da qui nascerebbe dal fatto che la coltivazione di cannabis è stata introdotta più recentemente e ha avuto meno tempo per radicarsi, “anche se è noto a tutti – aggiunge un militante di un’associazione anti-hamla – che in queste zone ci venivano i Rolling Stones negli anni ‘60, perché c’erano grandi musicisti e erba a volontà”.
Il problema è che sono milioni le persone che vivono di questo tipo di coltivazioni e nessun paese al mondo può permettersi di togliere il lavoro a così tanti cittadini. Qualunque sia la fonte di reddito.

A una manciata di chilometri da Larache, infatti, nella zona di Chefchaouen, il commercio del fumo continua fiorente e i clienti europei non mancano. “Ho pakistano, cioccolato e caramello – dice uno dei tanti che cercano di piazzare i loro prodotti in giro per la città di Ketama, vero e proprio cuore pulsante del narcotraffico -. Se non fumi non è un problema: tanti italiani comprano un po’ di hashish per rivenderlo una volta tornati a casa e rientrare delle spese della vacanza”.
Non bisogna aspettare molto perché qualche capetto della malavita locale si avvicini per proporre un affare. “Questi – afferma Jean, un francese che viene in vacanza nel Rif da una ventina d’anni – è uno di quelli che non coltivano. Vendono e basta, come si vede dalle macchine di lusso con cui vanno in giro. Non stanno certamente in campagna a zappare la terra”.
Quelli che stanno nei campi a curare le piante di kif, i coltivatori veri e propri, sono lontani anni luce dai giochi di potere e dalle partnership tra lo stato marocchino e le Nazioni Unite. Lavorano la terra esattamente come se stessero coltivando patate, barbabietole o pomodori, come Youssef, che con il kif mantiene la sua famiglia. Non ha i fuoristrada di lusso dei trafficanti, ma una vecchia auto e, con i guadagni dello scorso raccolto, ha fatto piastrellare la sua veranda e montare i sanitari nel bagno.
Youssef fa questo lavoro da 30 anni; suo padre lo faceva prima di lui e i suoi figli stanno imparando il mestiere. Quando parla di tossicodipendenza si riferisce alla sua ossessione per il caffè, che ha imparato ad apprezzare grazie ad alcuni amici italiani che gli hanno regalato una moka. Non parla né di hashish né di marijuana. Qui fumano tutti nella pipa tradizionale, la sebsa.
Sebbene la hamla non sia arrivata fin qui, le cose stanno cambiando anche per i coltivatori come Youssef. La continua richiesta di droga da parte dei giovani europei ha fatto espandere il mercato e i trafficanti si sono fatti più aggressivi e meglio organizzati. Insomma, sempre più malavitosi con la macchina di lusso che hanno altre priorità e altri metodi rispetto ai contadini.
Non solo. Da un paio di anni a questa parte i trafficanti usano gli stessi canali dell’hashish per distribuire la cocaina: nel porto di Agadir o in Mauritania, infatti, i due prodotti si incontrano e viaggiano insieme attraverso la Galizia per invadere il mercato europeo.
E la polvere bianca ha fatto il suo ingresso anche in Marocco, dove ha cominciato a diffondersi tra i giovani che, stando alle analisi dei sociologi marocchini, sono sempre meno inclini a rispettare il divieto coranico di assumere alcol e droghe.

Alessio Antonini e Chiara Giovetti

Alessio Antonini e Chiara Giovetti




Le nostre Afriche

Giro dell’Africa su due ruote

Un viaggio di oltre due anni attraverso mezza Africa, due passaporti, una moto arancione, una macchina fotografica, un telefonino e migliaia di occhi africani: sono gli ingredienti per raccontare il “Continente nero”, il cui futuro per forza nero non è.
Nei prossimi mesi raccoglieremo le storie e le immagini delle mille afriche che popolano i confini zeppi di militari corrotti, i palazzi governativi delle capitali, gli Inteet point della foresta pluviale, le montagne e i villaggi dove un dollaro al giorno non serve, perché non si usa il denaro.
Cercheremo persone disposte a raccontarsi, si tratti di africani – in primo luogo -, di missionari, operatori umanitari, uomini d’affari o semplici viaggiatori.
Non ci concentreremo solo sulle cattive notizie: l’Africa è spesso trattata dai media italiani solo per i suoi drammi e le sue tragedie, ma c’è molto più di questo. Ci sono università dove studiano i leader di domani, progetti di sviluppo ben riusciti, artisti, cantastorie, popoli antichi e meraviglie naturali. Anche di questo vale la pena parlare; e chissà che non aiuti a spazzare via qualche luogo comune su quell’Africa che, sempre di più, è in mezzo a noi, vicina come non mai.
Non saremo sempre sulla notizia. Non correremo dietro le guerre, le catastrofi umanitarie e le conferenze inteazionali che decidono i destini del continente. Per fare la cronaca in tempo reale ci vogliono aerei, telefoni satellitari e jeep ben equipaggiate. Noi abbiamo una moto. Mezzo con tanti difetti, ma ideale per andare in profondità e per prendersi il tempo necessario a guardare con attenzione.
Di più. La moto costringe ad avere bisogno degli altri: per un riparo dalla pioggia, per trovare acqua da bere, per aggiustare un pneumatico che si buca. E questo bisogno favorisce lo scambio, lo studio o anche solo l’inizio di una chiacchierata, in cui ci si rivela e si guarda rivelarsi. Oppure si discute e ci si scontra, non ci si capisce e si ricomincia tutto daccapo.
È il tempo, in fondo, la chiave per cercare di capire l’Africa: nel Continente nero non è mai tardi, non c’è mai fretta e nessuno ti dice quello che pensa, se non hai tempo da dedicargli, per raccontargli da dove vieni e come sei arrivato fin lì.
Senza la pretesa di capire tutto, perché dall’Africa si torna quasi sempre con alcune risposte e con molte nuove domande, proveremo a spiegare quello che vediamo con le parole di chi lo vive tutti i giorni, ma anche con un occhio sempre vigile sull’attualità e sul più ampio contesto nazionale e internazionale.

In questa puntata vi racconteremo, tanto per fare un esempio, la storia della farmacista marocchina che ha aperto il suo negozio in un villaggio sperduto e antico sulle montagne dell’Atlante, ma vi mostreremo un assaggio di com’è il Marocco moderno del 2006, di cui la farmacia è una delle innumerevoli sfaccettature.
Nel corso del viaggio, ci avvarremo della collaborazione e della disponibilità dei missionari, del personale delle organizzazioni inteazionali e non governative e di tutti gli amici e conoscenti che ci ospiteranno e ci metteranno a disposizione la loro esperienza e le loro informazioni.
In particolare, l’inizio di questo viaggio è stato possibile grazie all’appoggio dei Missionari della Consolata e al sostegno del Caaf – Cgil del Nordest.

Alessio Antonini
Chiara Giovetti
www.afriscope.net

Alessio Antonini e Chiara Govetti




Sessanta chilometri a piedi per un antidepressivo

Un mondo contrapposto: modeità e arretratezza secolare

Le donne non escono di casa senza marito. È la tradizione rurale che le confina nelle loro abitazioni mentre tutto intorno il Marocco cambia e si modeizza. La campagna è ferma a 100 anni fa e la gente va ancora dal farmacista a piedi o a dorso d’asino. E non compra antibiotici. Va a comprare antidepressivi. Perché il mal di vivere non è solo un lusso europeo.

Il sole rosso sparisce dietro le montagne e decine di fari si accendono all’improvviso, illuminando l’imponente lama di cemento che taglia a metà le acque del fiume Za raccolte in un enorme lago artificiale. Poco lontano dalla diga, la luce mette in risalto la scritta “Allah, Al Watan, Al Malik” ( Dio, Patria e Re), costruita con i sassi bianchi provenienti dalle montagne del Medio Atlante.
Oltre il lago, più nulla: le acque dello Za, affluente principale dell’oued Moulouya, sono sparite dal letto del fiume, per essere incanalate nei tubi che portano i rifoimenti idrici a tutta la regione orientale del Marocco, al confine con l’Algeria. Inaugurata da re Mohammed vi nel 2000, la diga è solo una delle tante opere pubbliche volute dall’attuale sovrano e da suo padre, re Hassan ii, per portare acqua e elettricità nelle città e tenere il Marocco al passo con la vicina Europa.

LA MODERNIZZAZIONE

“Negli ultimi cinque anni sono cambiate molte cose – spiega Mounir, attore e regista teatrale di Oujda, capoluogo della regione – e la distribuzione capillare di elettricità e acqua in tutta la città ha permesso la nascita di nuove attività commerciali”. Gli internet café sono sempre più numerosi e frequentati, e il viale Mohammed v di Oujda, con i suoi palazzi modei ricostruiti dopo le tante distruzioni dovute alla guerra con l’Algeria, è costellato da tavolini dei caffè, insegne al neon e maxi-schermi, dove gli uomini guardano le partite di calcio, sorseggiando l’immancabile tè alla menta molto zuccherato.
Poco più in là, davanti alle moschee, la gente si ferma a chiacchierare sotto le luci dei lampioni. “Le téléboutiques – continua Mounir – sono l’esempio più lampante di questa ondata di modeità, perché hanno anche profonde conseguenze sul tessuto sociale: per la maggior parte, infatti, sono gestiti da donne che, per la prima volta, sono uscite dalle case e hanno intrapreso attività commerciali senza nulla da invidiare a quelle dei mariti”.
L’energia elettrica e la progressiva modeizzazione hanno chiamato investimenti stranieri e in quasi tutto il paese sono comparsi i callcenter delle compagnie telefoniche francesi, che sfruttano i costi più bassi della manodopera senza bisogno di fare corsi di formazione linguistica, visto che qui il francese si parla per eredità coloniale.
“Il regno alawita ospita centri assistenza, clienti di tante aziende – spiega il professor Said Belghazi, docente di economia dell’Istituto nazionale di statistica di Rabat -, ma non solo. Grazie alle riforme degli ultimi 10 anni il mercato del lavoro si sta trasformando e richiede sempre di più manodopera qualificata. Questo dà impulso anche alla crescita e al miglioramento dei servizi scolastici e universitari perché sono le aziende stesse ad investire nella formazione”.

VERSO IL 2010

La sensazione costante è che tutto sia in movimento: il nuovissimo porto internazionale di Tangeri, la tratta ferroviaria Oujda-Tangeri, la ristrutturazione urbanistica di Rabat, la tratta autostradale Casablanca-El Jadida, il ramo Fés-Rabat e la gigantesca centrale elettrica di Afourer sono solo alcune delle grandi opere che danno lavoro a migliaia di marocchini.
“Le infrastrutture stanno cambiando il volto del paese – scrive Abdelwahed Rmiche sul quotidiano marocchino Le Matin -. Attualmente la rete autostradale conta 611 chilometri percorribili, ma se si considerano i cantieri aperti sarà possibile raggiungere la meta dei 1.420 chilometri per il 2010”.
Il 2010 sarà una data importante anche per il turismo: secondo le stime del governo, infatti, i visitatori richiamati dalle bellezze del regno alawita saranno più di 10 milioni. “C’è tanto da fare qui da noi – aggiunge Hassan che fa l’apicoltore di Séfrou, vicino alla città imperiale di Fès -. Non si tratta solo dei cantieri delle grandi opere pubbliche: le associazioni e le cornoperative per la valorizzazione del territorio e dei prodotti agricoli stanno sorgendo come funghi, ma abbiamo bisogno di investitori stranieri che sostengano le nostre iniziative e ci permettano di fare il salto di qualità, da un’economia rurale informale a quella d’impresa secondo gli standard europei”.

DOVE LA STORIA SI è FERMATA

“Il Marocco non è solo questo – interviene padre Joseph Lepine, parroco diocesano di Oujda -. A sud di Oujda ci sono zone dove l’acqua e l’elettricità faticano ad arrivare e le scuole sono a volte troppo distanti per essere raggiunte dagli studenti”.
Ne è un esempio Sidi Lahcen, comune rurale a pochi chilometri a sud della diga Hassan ii. La costruzione dello sbarramento l’ha isolato, rendendo la sua terra ancora più arida e quindi difficilmente coltivabile. La sua piazza principale si anima solo il giorno di mercato, quando gli abitanti delle zone isolate arrivano per acquistare e vendere le loro merci, disposte ordinatamente sulle bancarelle.
“Molti partono di notte – spiega Nadia, giovane farmacista del villaggio – e percorrono fino a 60 chilometri a piedi o a dorso d’asino per arrivare qui di mattina. Approfittano del souq per andare anche in comune, dal medico e in farmacia. Poi toeranno a casa e resteranno isolati di nuovo per un’altra settimana”.
A Sidi Lahcen si ha l’impressione che la storia abbia già deciso. Il paesaggio e l’atmosfera della campagna, rimasti identici per secoli, non sopravvivranno al moltiplicarsi delle costruzioni quasi avveniristiche disseminate nel paese: gli abitanti di questa zona sono rimasti isolati e le iniziative modeizzatrici del governo faticano a far sentire i loro effetti. Spesso sono berberi che non sanno né il francese né lo spagnolo e alcuni non parlano nemmeno l’arabo.
“È difficile anche comunicare con questa gente – scuote la testa il medico del villaggio -. Alcune volte mi scontro con credenze popolari perse nel passato e non riesco nemmeno a visitare i pazienti: basti pensare che le donne di qui vogliono partorire in piedi e più di una volta i neonati sono caduti battendo la testa”.
“Molti vengono da me senza una ricetta medica – aggiunge Nadia – ed è davvero difficile capire di quale medicinale hanno bisogno. Gli uomini vengono a comprare farmaci per le loro sorelle o per le madri che, come vuole la tradizione contadina, escono raramente di casa se non sono accompagnate dal marito. Spesso sono io che devo fare le domande per capire di che malattia si tratta e, quando non sono sicura di aver indovinato, finisce che non ci dormo la notte”.

MEDICINE PIù RICHIESTE:
GLI ANTIDEPRESSIVI

Il senso di esclusione dal futuro è ormai talmente radicato nella testa degli abitanti di Sidi Lahcen che oltre al diabete e alle complicazioni cardiache, dovute alle frequenti riproduzioni tra consanguinei, nella maggior parte dei casi i farmaci più richiesti dai pazienti sono antidepressivi.
“In una zona dove le prospettive sono così limitate – continua Nadia, mentre dispensa scatole di medicinali ai clienti accalcati al bancone – l’emigrazione verso la Spagna ha portato via gran parte dei giovani, lasciando nei villaggi qui intorno vecchi, donne e bambini. E finisce che le donne si chiudono in casa e i ragazzini si dedicano alla pastorizia”.
Non stupisce, dunque, che il cosiddetto mal di vivere sia così diffuso. Perfino l’autista dell’unica ambulanza a disposizione della zona, che si estende su più di 800 chilometri quadrati di montagna insidiata dal deserto, ha lasciato il volante e la sirena per correre in Spagna a cercare lavoro.

E alla fine del mercato, anche per i clienti della farmacia è ora di tornare nelle loro case e sparire nel buio. In pochi attimi arriva la sera e il sole tramonta di nuovo per lasciare posto, qualche chilometro più a nord, ai fari della diga, che si riaccendono per illuminare il progresso. La luce mette di nuovo in risalto la scritta “Allah, Al Watan, Al Malik” (Dio, Patria, Re), ma in questa zona saranno pochi a saperlo leggere.

Alessio Antonini e Chiara Giovetti

Alessio Antonini e Chiara Giovetti




Rientro da superstar

Quando gli espatriati marocchini tornano in patria

Arrivano a migliaia, con le Mercedes targate Spagna, Francia o Italia, gli occhiali da sole ultimo grido e le camicie firmate. Vanno nelle case che si sono fatti costruire con i soldi che hanno guadagnato lavorando in Europa, oppure tornano al paese a trovare mammà. Sono i marocchini che ce l’hanno fatta: gli ammiratissimi e invidiatissimi “zmagria” (espatriati), il cui mito si contrappone alla disperazione di chi ci sta ancora provando e che non ha nulla da perdere.

L’alba fresca di Sidi Lahcen trova i mercanti berberi pronti ad aspettarla. Sono arrivati nella notte percorrendo decine di chilometri a piedi o a dorso d’asino. Sui loro vestiti c’è ancora la polvere ocra che il vento solleva dalle piste ghiaiose delle montagne dell’Atlante. È giorno di souq, di mercato: l’unico avvenimento che anima questo villaggio tra le montagne marocchine, strappato al deserto, dove tutto è silenzio.
Le donne avvolte nei loro veli colorati devono ancora arrivare. Poi saranno le voci delle contrattazioni a invadere la piazza del paese. Solo un rumore rompe la quiete e fa innervosire le bestie: il crepitio dei pneumatici di una grossa berlina grigia con targa spagnola che avanza sui sassi della sterrata. “Macchine così da queste parti se ne vedono solo in luglio e agosto – dice Omar, il medico del villaggio, indicando l’auto parcheggiata accanto ai muli – sono quelle dei marocchini residenti all’estero che tornano qui in ferie a trovare le famiglie”.
Dalla vettura scende un uomo sui quaranta, ben vestito. Ha una camicia di marca, perfettamente stirata, occhiali da sole e jeans in netto contrasto con le tuniche tradizionali dei contadini, che lo guardano di sfuggita. Attraversa velocemente le bancarelle del souq, scambiando qualche rapido saluto con i più anziani. Gli altri li ignora. È venuto a comprare solo le sigarette e non si sofferma sui cesti di spezie o sui servizi da tè esposti al mercato. Lui, la spesa, la fa al Marjane: “Il primo centro commerciale del Marocco”, come recita lo slogan pubblicitario. Esattamente come farebbe un europeo in Europa. E come fanno i quasi due milioni di marocchini che ogni estate invadono i lungomare della costa atlantica e mediterranea con in tasca un salario da occidentale.

Il rientro dei marocchini vacanzieri inizia a partire dalla seconda metà di giugno. I porti di Tangeri e Nador e l’aeroporto Mohammed v di Casablanca vengono presi d’assalto e gli zmagria (termine dispregiativo che indica gli espatriati) diventano l’oggetto preferito di discussione dei giornali e delle televisioni locali.
L’amministrazione li chiama Mre: Marocchini residenti all’estero. Il loro contributo all’economia del paese è a dir poco determinante. Secondo le statistiche dell’Office des changes, nel 2005 gli emigrati hanno inviato rimesse per 4 miliardi di euro; con le vacanze estive, poi, nelle casse dello stato e dei commercianti locali arriva un’altra pioggia di dirham, la moneta marocchina.
Anche per questo re Mohammed vi, sovrano del Marocco, ha voluto creare un ministero per i residenti all’estero, con il compito di agevolare i rientri estivi e facilitare eventuali ritorni definitivi. “Mohammed vi – spiega Hussein El Bouziani, aggiustandosi la sua cravatta sul vestito grigio da banchiere – sta mettendo a punto una strategia per recuperare competenze ed euro sulla base dell’esperienza delle tre “i”: Italia, Irlanda e Israele, paesi che si sono sviluppati proprio grazie alle loro diaspore”.
Ma se il governo considera gli Mre elemento fondamentale della ripresa economica, i marocchini continuano a descriverli come “persone senza educazione, che sono scappati dalle zone più povere del paese e oggi cercano la rivalsa”. “Quando senti una macchina che sgomma e uno stereo a tutto volume – commenta caustico Ahmed, sorseggiando una coca ai tavolini del Jour et Nuit di Agadir – non c’è nemmeno bisogno di guardare: è sicuramente uno zmagria. In Europa rispettano la legge, perché hanno paura e non sono nessuno, qui fanno le superstar, perché sanno che con un euro di bakshish (mancia) la polizia lascia correre. Chi ha già un lavoro qualificato preferisce stare in Marocco, dove è qualcuno tutto l’anno, non soltanto in agosto”.

Il giudizio dei marocchini sui loro connazionali espatriati, però, è raramente oggettivo: o è viziato dall’invidia di chi vorrebbe partire, ma non ci è ancora riuscito, oppure dal disprezzo di chi non ha bisogno di emigrare per mantenere la famiglia perché ha un reddito più che adeguato per vivere nel suo paese. Che si tratti di immigrati di prima generazione, come quelli arrivati negli ultimi anni in Italia e Spagna, o di figli di espatriati di vecchia data, come i franco-marocchini, l’effetto sugli zmagria è sempre lo stesso: quello di sentirsi isolati.
Come tutte le superstar, sono al tempo stesso amati e ammirati o odiati e incompresi. “Ogni estate è la stessa storia – sbuffa accaldato uno dei passeggeri in attesa di varcare i cancelli del porto di Nador -. La realtà è che i nostri connazionali ci invidiano perché vorrebbero essere al nostro posto e, quando non ci odiano, ci considerano vacche da mungere. Il problema è che siamo marocchini in Europa e turisti a casa nostra”.
L’amarezza del primo impatto, però, è presto dimenticata: basta una passeggiata sul lungomare di Saidia, Essaouira o Agadir, o più semplicemente il tajin preparato dalla mamma alla maniera tradizionale per riportare il buonumore. E per le loro serate, i turisti marocchini possono scegliere tra decine di festival, concerti e spettacoli che animano le grandi città, eventi capaci di radunare centinaia di migliaia di persone intorno a un palcoscenico, su cui si alternano artisti di fama internazionale, come Khaled, Yossou N’Dour e Shaggy.
Spesso, dopo il concerto, la festa continua in spiaggia, con il classico falò e le chitarre intorno al fuoco, o in una delle tante discoteche della costa. “Quest’anno ho deciso di rimanere in Marocco tutta l’estate – sorride Abdul, giocando con il suo lettore mp3 appeso al collo -. Mi piace tornare a casa perché qui tutto costa meno e posso andare al mare senza che la polizia mi fermi per la strada perché sono un arabo. Non mi importa se mi chiamano zmagria; io qui sto bene e le ragazze non sono arroganti come le francesi”.  

Di fatto, l’emigrazione viene ancora considerata una prova di virilità. “Chi parla male degli zmagria non ha abbastanza fegato per lasciare tutto e partire – dice Mounir in uno spagnolo elementare imparato per la strada -. Io sono stato due anni a Ibiza senza documenti e posso dire di essermi messo alla prova. Mi sono anche divertito parecchio in giro per le discoteche dell’isola, a bere con gli amici e a guardare le ragazze. Adesso mi sono sposato e sto qui in Marocco, ma domani chissà”.
Racconti come questo contribuiscono ad alimentare il mito dell’emigrato di successo e della bella vita al di là dello stretto di Gibilterra. Nessuno parla di quanto ha sofferto per attraversare il mare e fare l’operaio in Europa, nessuno accenna alle umiliazioni e alla fatica.
“Nella regione di Beni Mellal – spiega Khalid Zerouali, portavoce della Afvic, l’Associazione dei familiari delle vittime dell’immigrazione clandestina – quasi tutti hanno un amico, un parente o fidanzato morto affogato nel tentativo di superare lo stretto o in quello di attraversare a piedi il deserto libico. Nonostante ciò, tutte le iniziative intraprese per scoraggiare l’immigrazione clandestina si infrangono sulla leggenda di chi ce l’ha fatta e sul fatto che le famiglie degli espatriati considerano i loro figli o fratelli degli eroi, perché mandano i soldi a casa”.
Tuttavia, grazie alla tv satellitare che ha portato nelle case le immagini degli scontri nella banlieue parigina, degli scioperi sindacali e del dibattito sulle vignette su Maometto, tra i giovani marocchini istruiti il mito dell’Europa si sta ridimensionando e con esso anche l’amore-odio per gli zmagria.
Le politiche miranti alla selezione degli immigrati, come quelle proposte dal ministro degli esteri francese Sarkozy, suonano ai marocchini come un tentativo deliberato dell’Europa di privare i paesi in via di sviluppo delle loro risorse più qualificate. “L’Europa vuole i nostri cervelli e le nostre braccia migliori a prezzo scontato – racconta Hafid, che ha passato in Francia sei mesi di stage come studente di agronomia -. Quello che non capisce la gran parte di quelli che vogliono emigrare è che anche qui si può avere un futuro”.

A giudicare dalle centinaia di cantieri aperti e dagli investimenti delle imprese marocchine, europee e americane in tutto il regno, il futuro di cui parla Hafid non è più così lontano.
Lo scorso luglio, alla conferenza di Rabat sull’immigrazione le autorità europee non hanno quasi parlato di espatriati marocchini, mentre hanno discusso a lungo del ruolo tampone del Marocco come paese di transito degli emigranti sub-sahariani, che aspettano il momento propizio per passare lo stretto di Gibilterra. “Intoo a Oujda, al confine con l’Algeria – racconta Araj Jalloul, dell’associazione umanitaria marocchina Homme et Environnement -, centinaia di africani sub-sahariani hanno fatto della foresta la propria casa. Vivono come animali, in condizioni igieniche e alimentari tremende, volutamente ignorati dal governo marocchino e dalle autorità europee. Con fiducia cieca, restano ad aspettare che la mafia ghanese che li ha fatti arrivare fin qui vada a stanarli sulle montagne per dire che è arrivato il loro tuo di saltare le barriere di Melilla o di imbarcarsi su due assi inchiodate per attraversare il Mediterraneo. Non c’è modo di convincerli a tornare a casa: sarebbe troppa la vergogna nei confronti della famiglia che ha scommesso su di loro”.

Sono questi gli immigrati delle immagini trasmesse dai telegiornali: il carico dei barconi di disperati che durante l’estate arrivano sulle spiagge della costa mediterranea o sulle isole italiane e spagnole.
Visto l’intensificarsi dei controlli dei militari locali e delle guardie costiere di tutta Europa, il breve tratto che separa la città marocchina di Laayoune dalle Canarie è stato di fatto bloccato e le nuove direttrici della disperazione partono dalla Mauritania attraverso l’oceano Atlantico, solcando oltre mille miglia di acque impetuose che travolgono un terzo delle barche di passaggio e i loro occupanti. Ma la speranza di aiutare la propria famiglia, il sogno di comprare un auto di lusso, di indossare vestiti firmati e occhiali da sole valgono evidentemente una vita intera.
La reazione di chi queste cose le ha già sono sempre le stesse e sfiorano il paradosso: oggi in Marocco, gli immigrati dell’Africa nera sono oggetto dello stesso astio subito dai marocchini appena arrivati in Europa: “Non ci si può fidare di questi negri. Sono qui solo per rubare e creare problemi” avverte il gestore di un caffè nella medina di Casablanca, mentre un avventore si rivolge a due giovani del Mali gridando: “Rentrez chez vous, tornatevene a casa vostra: qui non c’è posto per voi”.
Ma a casa, insegnano gli zmagria, ci torna solo chi può farlo da vincitore.

Alessio Antonini e Chiara Giovetti

Alessio Antonini e Chiara Giovetti




GIOCHI DI GUERRA …PERMANENTE

INTRODUZIONE

"Al passaggio dei marines le donne si toglieranno il burqa e gli uomini si taglieranno la barba" si diceva quando il presidente degli Stati Uniti lanciò contro il regime dei taleban la campagna militare "giustizia infinita", poi ribattezzata "libertà duratura".
A 5 anni dalla fine della guerra, in Afghanistan si continua a combattere e morire; il terrorista Osama bin Laden non è stato catturato; il Mullah Omar è diventato una primula rossa; il paese è diviso in zone di influenza, controllate dai "signori della guerra" delle varie etnie; la libertà religiosa è apostasia condannata con la pena capitale; la pace un miraggio… Le donne continuano a indossare il burqa e gli uomini a coltivare le loro barbe.
Dopo 10 anni di guerra contro i russi e altrettanti di guerra civile tra le varie fazioni religiose ed etniche, l’Afghanistan continua a essere uno dei paesi più poveri del mondo, che sopravvive solo grazie agli aiuti inteazionali; la popolazione non sa più in chi sperare e, le donne soprattutto, continuano ad essere discriminate e vittime di ogni tipo di violenza.
Quale futuro per l’Afghanistan? Con questo dossier non intendiamo dare risposte risolutive, anche perché non ne abbiamo. Vogliamo offrire alcune testimonianze, raccolte prima del famigerato 11 settembre, per aiutare a comprendere il groviglio di "giochi" strategici e geopolitici, economici e finanziari che, sommati alle componenti storiche, etniche e religiose della società afghana, continuano ad alimentare nel paese un clima di paura.

Giochi di guerra … permanente

Uno dei paesi più poveri al mondo: 652 mila chilometri quadrati di aridi deserti, intervallati da aspre montagne che raggiungono i 7.500 metri, nessuno sbocco al mare. I suoi 26 milioni di abitanti rappresentano un mosaico di una decina di diverse etnie tra cui prevalgono i pashtun (38% della popolazione), i tagiki (25%), gli hazari (19%) e gli uzbeki (6%). Quattro bambini su cento non raggiungono l’anno di vita e, se la fame, le malattie, la guerra, le mine antiuomo permetteranno loro di superare i 45 anni, si possono considerare fortunati, perché vuol dire che hanno già superato il limite medio di vita nel loro paese (in Italia possiamo sperare di vivere fino a 78 anni).

DI GUERRA IN GUERRA

Questi semplici dati mostrano quanto l’Afghanistan sia marginale nella vita economica della regione centroasiatica. Eppure la sua posizione geografica, posta strategicamente al centro di una rete di passaggi obbligati, che dall’Asia sudorientale si dirigono in Medio Oriente e poi in Europa, ha imposto il controllo di questo stato per garantire la stabilità di un’intera regione che, espandendosi dall’India, raggiunge le coste mediterranee dell’Asia occidentale passando per le regioni turcofone del Centro Asia, un tempo appartenenti all’Unione Sovietica e ancora oggi considerate sotto l’influsso politico ed economico di Mosca.
Gran Bretagna e Russia zarista combatterono per tutto il xix secolo una guerra per il controllo del territorio afghano, conclusasi con il ritiro degli eserciti di entrambe le potenze, incapaci di fronteggiare le tribù che difendevano i loro territori. Nel gennaio 1842, il comandante delle truppe afghane, Akbar Khan, sterminò un’intera divisione di 28.500 soldati della Corona, lasciando in vita solo un soldato di sua maestà perché riferisse alla regina la terribile sconfitta.
Ma anche l’Afghanistan, da quel conflitto, ironicamente chiamato "grande gioco", uscì menomato: dopo aver perso Peshawar nel 1834 a opera dei Sikh, nel 1859 anche il Belucistan, l’unica regione che permetteva allo stato di avere uno sbocco al mare, passò sotto controllo britannico.
L’indipendenza, avvenuta nel 1919 e la successiva ascesa al trono del re Zahir Shah nel 1933 permise al paese di ritrovare una relativa stabilità, scoprendo una nuova fonte di guadagno economico: il turismo alternativo. Negli anni Sessanta, dall’Europa e dagli Stati Uniti giungevano a migliaia i "figli dei fiori", attirati dal commercio semilegalizzato di oppiacei e marijuana, comprati nei bazar di qualsiasi villaggio a prezzi irrisori.

GLI INTRIGHI DELLA GUERRA FREDDA

La situazione afghana, così come oggi la stiamo vivendo, comincia a delinearsi nel 1973, quando Daud, cugino del re, compie un colpo di stato e proclama la repubblica. Il progressivo avvicinamento di Kabul a Teheran, allora filoamericana, convince Mosca che Daud deve essere sostituito: nel 1978 il comunista Taraki prende il potere.
I successivi mesi vedono il rapido deterioramento della situazione: le lotte intee tra le fazioni del Partito comunista afghano, l’uccisione di Taraki, la crescente espansione islamica che minacciava, anche dal suo interno, le repubbliche centroasiatiche sovietiche, indussero l’Armata rossa a varcare, il 27 dicembre 1979, il fiume Amur Dharya, portando una nazione, sino ad allora semisconosciuta all’opinione pubblica europea, al centro dell’attenzione mondiale.
Il territorio afghano si trasformò, in breve tempo in un grande campo di azioni militari nel contesto della guerra fredda. I due giocatori, Usa e Urss, manovravano le pedine (i mujahedeen e il governo di Kabul) a seconda delle loro convenienze.
È in questo periodo che Osama bin Laden, un miliardario saudita di origine yemenita, aderisce al movimento dei mujahedeen afghani contro l’Armata rossa. Con la consulenza militare e l’appoggio finanziario degli Stati Uniti, della Cia e del Pakistan, costituisce una formazione militare composta esclusivamente da arabi che lottano in nome della jihad. Ad addestrare questi volontari, chiamati arabi afghani, sono i Sas britannici. È il primo nucleo di quello che, anni dopo, diventerà il gruppo noto come al-Qa’ida.
Il 15 febbraio 1989, a seguito degli accordi di pace, l’Armata rossa abbandona l’Afghanistan, lasciandosi alle spalle 40-50.000 propri soldati morti, ma portando con sé il germe della dissoluzione dell’Unione Sovietica, che giungerà nel giro di un paio d’anni.

DAI MUJAHEDEEN AI TALEBANI

Appare subito chiaro che la forte divisione all’interno della guerriglia afghana farà ripiombare la nazione in una nuova, sanguinosa, guerra civile. E così è. Sparito il nemico esterno, ora le fazioni si combattono tra loro e solo il 15 aprile 1992 i mujahedeen raggiungono Kabul, destituendo il governo comunista di Najibullah e innalzando a presidente Burhannudin Rabbani, leader della Jamiat-i-Islami. Accanto a lui c’è Ahmed Shah Massud, il "leone del Panshir". I due sono legati da un rapporto di parentela, il miglior sigillo per rendere un’alleanza tra afghani indistruttibile: Rabbani, infatti, ha sposato la sorella di Massud.
Il governo non ha l’appoggio dell’etnia maggioritaria afghana, quella dei pashtun, e neppure del Pakistan, che non ha mai accettato Massud, e tantomeno degli Usa, dove il presidente Bush padre è particolarmente sensibile alle questioni petrolifere. Nel 1991, un anno prima della presa di Kabul da parte di Massud, Bush aveva lanciato la guerra contro l’Iraq, camuffandola come conflitto morale e definendola più volte una "crociata".
Ed è proprio il petrolio la causa prima della nascita dei taleban. I giacimenti del Mar Caspio, tra i più ricchi al mondo, fanno gola a molti; ma sono inutilizzabili se non si porta il greggio al mare, dove può essere stivato nelle superpetroliere. Non solo, ma gli oleodotti, passando in uno stato piuttosto che in un altro, possono determinare il peso geopolitico dei singoli governi.
L’Iran degli ayatollah rappresentava la soluzione più ovvia e meno costosa, ma la profonda avversione statunitense verso il governo di Teheran, faceva preferire l’opzione afghana. C’era un solo problema: il governo Rabbani-Massud, rifiutando ogni accordo con le fazioni dei mujahedeen, manteneva il paese in uno stato di guerra permanente, che impediva alle compagnie petrolifere di mettere in pratica i loro progetti.
Kabul, che durante il periodo sovietico era stata risparmiata dai bombardamenti, nonostante fosse ora ridotta a un ammasso di macerie dagli attacchi di Gulbuddin Hekmatyar, armato dal Pakistan e dagli Usa, resisteva. Occorreva trovare un’altra soluzione, che non si fece attendere.
Nel sud del paese esisteva da tempo un movimento di studenti delle madrase islamiche, i cosiddetti taleban (da taleb, studente), di etnia pashtun, che avevano già dato prova di abilità militare, conquistando la città di Kandahar alla fine del 1994. Per il Pakistan rappresentavano una valida alternativa all’impasse della lotta intea dei mujahedeen, mentre la Casa Bianca li allevava in funzione antiRabbani.
Una delegazione taleban giunse anche negli Stati Uniti per discutere sul futuro governo afghano e i loro rappresentanti ebbero colloqui con i dirigenti della Unocal, la compagnia petrolifera Usa che aveva vinto l’appalto per l’oleodotto, sconfiggendo i concorrenti argentini della Bribas.
Dapprima il principale finanziatore dei taleban fu il petroliere saudita Turki bin Faisal (in ottimi rapporti con Osama bin Laden), attratto dalla prospettiva dell’oleodotto; ma verso la metà del 1996, l’impasse militare cui Massud costrinse gli studenti islamici, convinse bin Faisal a chiudere i rubinetti verso l’Afghanistan. E nell’agosto 1996 a Faisal subentrò Osama bin Laden, che accettò di prendersi cura del movimento, il quale, da quel momento, non ebbe più l’appoggio della Casa Bianca.
Il 27 settembre 1996, i 3 milioni di dollari concessi da bin Laden ottennero i loro frutti: Kabul, oramai distrutta da 4 anni di guerra civile, cadde nelle mani degli studenti islamici. Massud e Rabbani si ritirarono al nord, dove vive la maggioranza dell’etnia tajika, controllando il 15% del territorio.
I taleban, dal canto loro, ricostruirono la società modellandola su leggi coraniche. La vita degli afghani venne scandita dai proclami del Ministero della Promozione e della Virtù, il quale si assicurava che tutti gli aspetti del vivere quotidiano fossero coerenti con le affermazioni del Corano.

"BUONI" E "CATTIVI"

Al tempo stesso questo stereotipo che dipingeva i taleban come dei rozzi trogloditi invasati di Dio (o "drogati" di religione, riferendo la famosa frase di Marx), veniva a cadere una volta che ci si allontanava dalla città. Come accade nei regimi assolutistici, la capitale rappresenta la vetrina dell’ideologia di regime che si vuole offrire al mondo e il dogmatismo teocratico dell’Emirato islamico, a Kabul, diviene legge assoluta.
Eppure, almeno al sud, tra le popolazioni pashtun gli studenti trovavano ampi consensi e, ancora oggi, la conquista di Kabul da parte delle forze dell’Alleanza, non ha risolto le questioni aperte da anni: la profonda divisione etnica che separa le varie componenti della nazione, la facilità con cui i diversi comandanti militari cambiano campo da un giorno all’altro, il vivo ricordo delle violazioni dei diritti umani e degli stupri commessi dai militari di Massud su donne e bambine, pende come una spada di Damocle sulla pax afghana.
I media hanno mostrato una guerra i cui contendenti sono sempre stati divisi da una linea netta: da una parte i "buoni" (l’Alleanza settentrionale), dall’altra i "cattivi" (i taleban), conniventi col terrorismo, odiati dal popolo e dalle donne, barbari incivili che hanno riportato la società ai tempi del medioevo.
La realtà è assai diversa; non esistono "buoni", non esistono "cattivi". Ci sono solo afghani che devono fare i conti con la loro storia, la loro cultura, la loro tradizione. Ed è anche per questo che le donne, pur nella loro libertà, continueranno a portare il burqa.

Piergiorgio Pescali

Scheda storica

II millennio a.C.: il territorio dell’Afghanistan diventa un "carosello" di popoli migratori, soprattutto ariani.
VI secolo a.C: buona parte del territorio è annesso all’impero persiano di Ciro il Grande.
328 a.C: Alessandro Magno conquista Bactria (attuale Balkh); alla sua morte passa alla dinastia seleucide.
250-180 a.C: nasce e si espande il regno greco-bactriano, poi passato all’impero nord-indiano Maurya.
I-III secolo d.C: tribù scite creano il regno di Kusana, con importanti centri culturali; la "via della seta" favorisce il commercio tra Roma, India e Cina.
240-VIII sec.: Kusana sotto l’impero persiano sassanide.
642-1747: conquista araba e islamizzazione dell’Afghanistan, governato da varie dinastie locali.
1219-1227: invasione e distruzioni di Gengis Khan.
1360: l’Afghanistan è conquistato da Tamerlano.
XVI-XVIII sec.: Afghanistan diviso in tre parti: nord sotto i discendenti uzbeki di Tamerlano; ovest sotto la Persia; est sotto l’impero Moghul.
1719-1729: Khan Nasher, dei pashtun ghilzai, sconfigge i persiani e controllano l’intera Persia.
1730: afghani ricacciati dal persiano Nadir Shah; i pashtun durrani principali dominatori dell’Afghanistan.
1747: re Ahmed Durrani unifica il paese, che comprende anche Kashmir, Belucistan e Panjab.
1808: trattato anglo-afghano; inizia il "grande gioco" tra la Russia zarista e la Gran Bretagna in Asia Centrale.
1839-1842: prima guerra anglo-afghana, conlusa con la distruzione di un’intera armata britannica.
1844-1901: regno dell’emiro Abdur Rahman Khan.
1878-1880: seconda guerra anglo-afghana, conclusa con il trattato di Gandomak: Abdur si occupa di affari interni; l’Inghilterra controlla la politica estera.
1880-1901: russi e britannici fissano i confini del moderno Afghanistan; metà dei pashtun rimangono nell’attuale Pakistan. Abdur Rahman è assassinato; gli succede il figlio Habibullah.
1919: assassinio di Habibullah (troppo filo-britannico); il successore Amanullah scatena la terza guerra anglo-afghana; nel trattato di Rawalpindi, l’Afghanistan ottiene l’indipendenza e esce dall’isolamento.
1927: Amanullah introduce riforme sociali per modeizzare il paese, sull’esempio di Ataturk in Turchia.
1929: capi tribali e religiosi conservatori costringono il re ad abdicare. Il cugino Muhammed Nadir Shah avvia riforme più graduali; ma è assassinato nel 1933.
1933-1973: regno di Mohammed Zahir Shah, 19ne figlio di Nadir, che concede alcune libertà politiche e promulga una costituzione più liberale e democratica (1964). Nasce il Pdpa (Partito democratico popolare dell’Afghanistan), comunista e legato all’Urss.
1973: colpo di stato di Mohammed Daud (cugino e cognato del re), abolizione della monarchia e proclamazione della repubblica. Re Zahir si rifugia in Italia.
1978: Daud è deposto e assassinato; il Pdpa instaura un regime militare-socialista, che scatena la rivolta popolare.
1979: intervento russo occupa militarmente tutto il territorio e installa un nuovo governo. Inizia l’opposizione armata dell’Unione islamica, composta da varie fazioni di guerriglieri islamici (mujahedeen), sostenuti da Usa, Pakistan, Cina, Iran, Arabia Saudita.
1988: accordi di pace tra Afghanistan, Usa, Urss e Pakistan. Osama bin Laden organizza al-Qa’ida.
1989: l’Armata rossa si ritira; ma continua la guerra civile dei mujahedeen contro Najibullah.
1992: Abdul Rashid Dostum si allea con Ahmad Shah Massud e proclamata la Repubblica Islamica, presieduta dal moderato Burhanuddin Rabbani, rifiutato dagli integralisti guidati da Gulbuddin Hekmatyar.
1994-1996: i Taleban (studenti islamici) insorgono contro l’anarchia e assenza di pashtun nel governo; in pochi anni controllano il 90% del paese e instaurano un governo integralista: una vera dittatura islamica.
1998: Rabbani e il generale Massud si ritirano nella valle del Panjshir e danno vita all’Alleanza del Nord (An), riconosciuta dall’Onu come governo legittimo.
2001: 3 settembre, Massud è assassinato; 11 settembre attacco terroristico alle Torri Gemelle a New York; 7 ottobre Usa e coalizione di alleati invadono l’Afghanistan; 13 novembre l’An entra a Kabul e pone fine al regime Taleban.
27 nov.- 5 dic., conferenza interafghana a Bonn, affida ad Hamid Karzai la presidenza dell’amministrazione provvisoria.
2002: l’ex re Zahir Shah convoca una Loya Jirga, che elegge presidente Karzai, non riconosciuto dai "signori della guerra" che controllano quasi tutto il paese.
2004: approvazione della nuova Costituzione (gennaio); prime elezioni dirette della storia dell’Afghanistan (ottobre): Karzai è riconfermato capo dello stato, ma controlla appena la capitale; il resto del paese è diviso in zone di influenza dei vari "signori della guerra".

Piergiorgio Pescali




Solo cattivi «studenti»?

Presentati all’opinione pubblica come l’incarnazione del "male", i taleban sono cresciuti grazie all’addestramento dei servizi segreti pakistani, agli armamenti americani e ai finanziamenti sauditi.


Nella seconda metà degli anni Novanta, dalle zone meridionali dell’Afghanistan, cominciò a farsi conoscere un movimento chiamato con il nome di taleban, forma plurale della parola persiana taleb, studente. Secondo molti osservatori questi guerriglieri, armati oltre che di kalashnikov anche di una ferrea fede islamica, nacquero all’improvviso, senza avere un apparente background storico e senza possedere una profonda cultura politica.
Questa tesi, sposata dalla maggior parte dei media occidentali e che ha indotto la maggior parte dei commentatori a dipingere il gruppo islamico come una banda di terroristi senza arte né parte, viene smentita da alcuni documenti resi noti recentemente dalla Cia e dai servizi segreti russi, nonché da testimonianze di ex agenti dell’Isi, i servizi segreti pakistani.
In base alle prove raccolte, l’origine dei taleban si dovrebbe far risalire ai primi anni Ottanta, quando Sultan "Imam" Amir, un agente dell’Isi addestrato dai Berretti Verdi statunitensi a Fort Bragg, nella Carolina del Nord, iniziò a organizzare, con i finanziamenti della Cia, la resistenza ai sovietici. Per assoldare il maggior numero di guerriglieri, Amir attinse anche studenti di teologia islamica nelle madrase, ottenendo immediatamente la loro incondizionata fedeltà e garantendosi quell’appellativo di imam, che lo elevava a un rango di rispettabilità assoluta.
I cospicui aiuti militari e finanziari da parte dell’Occidente, che per l’intero decennio degli anni Ottanta fecero rifiorire l’economia pakistana, cessarono quasi completamente nel 1989, anno in cui Mosca concluse il ritiro delle proprie truppe dal territorio afghano.
L’allora presidente del Pakistan, Benazir Bhutto, al fine di evitare un tracollo economico che avrebbe inevitabilmente portato il caos sociale e politico nel paese, cercò di inventarsi la carta della riapertura della Via della Seta che, dal Pakistan collegasse le repubbliche dell’Asia Centrale attraverso l’Afghanistan.

Il primo convoglio di trenta camions, carichi di medicinali e di alimenti, partì il 29 ottobre 1994 dal Pakistan diretto alla volta del Turkmenistan. Lo guidava Sultan "Imam" Amir, ma una volta entrato in territorio afghano, un signore della guerra locale, Niyaz Wayand, attaccò la carovana catturando Amir. Fu questa la svolta che fece scatenare la reazione a catena che portò, quattro anni più tardi i taleban a scacciare il governo Rabbani da Kabul.
Per liberare il loro protettore, gli studenti si organizzarono sotto la direzione di un veterano della guerra contro i sovietici: il mullah Omar. In pochi giorni riuscirono a sconfiggere Niyaz Wayand e a liberare Amir. L’esaltazione del successo e la convinzione di lottare per una giusta causa, il ripristino della legge islamica in un paese devastato dalla guerra civile, convinsero i taleban a non abbassare le armi.
Kandahar fu la prima vera prova del fuoco e la città cadde ben presto nelle loro mani. Il Pakistan, che fino ad allora sovvenzionava senza grossi risultati Hekmatyar contro le forze di Massud e Rabbani, si accorse che questi studentelli, se adeguatamente appoggiati e addestrati, avrebbero potuto risolvere la questione afghana a suo favore.
Infatti, la dirigenza del presidente Rabbani al potere a Kabul, era formata principalmente da funzionari di etnia tagika (Massud stesso è tagiko) e questo, sommato allo stato di perenne conflitto in cui versava l’Afghanistan, impediva alle classi pashtun di commercializzare le loro merci con i coetnici oltrefrontiera, paralizzando l’economia del Pashtunistan pakistano.
Al tempo stesso, la compagnia multinazionale petrolifera statunitense Unocal, che dal 1992 cercava di convincere il riluttante Rabbani a concedere il passaggio sul territorio afghano dell’oleodotto per trasportare il petrolio dal Mar Caspio ai porti pakistani, vide nel nuovo movimento studentesco una valida alternativa per raggirare l’impasse frapposta da Kabul.
La Casa Bianca, allettata dalla prospettiva di ridurre l’importanza geopolitica dell’Iran nella regione, diede il pieno appoggio affinché mullah Omar riuscisse a potenziare il suo esercito. Islamabad spedì Sultan Amir a Herat sotto la copertura diplomatica di console generale. In realtà Amir aveva il compito di fungere da tramite tra l’Isi, governo pakistano e Unocal.

Perché Rabbani non abbia espulso Amir dal paese, quando i taleban non erano ancora quel movimento di massa che avrebbe conquistato il potere a Kabul, non è ancora chiaro.
In una recente intervista Massud mi ha dato una sua spiegazione, a sette anni di distanza: "Avevo più volte suggerito a Ismail Khan (allora comandante della regione di Herat, ndr) di espellere Amir da Herat, ma lui non mi ha mai ascoltato, credendo fino alla fine che Sultan Amir fosse un sant’uomo, dedito alla causa dell’islam. Non credette a una sola parola di ciò che gli dicevo".
L’ubriacatura di successi ottenuti dai taleban, convinsero la dirigenza, nel marzo 1995, che fosse giunto il momento di sferrare l’attacco finale a Kabul, ignorando i consigli dell’Isi, che non considerava maturi i tempi. La disubbidienza di Omar costò al movimento degli studenti il loro quasi totale annientamento: le truppe di Massud distrussero le avanguardie taleban a Kabul (8 e 16 marzo 1995) e successivamente a Herat (23 marzo 1995).

Fu in questa fase che entrarono in gioco Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti (Eau). Dapprima il principale nuovo finanziatore dei taleban fu il petroliere saudita Turki bin Faisal, attratto dalla prospettiva dell’oleodotto, ma verso la metà del 1996, l’impasse militare convinse bin Faisal a chiudere i rubinetti verso l’Afghanistan.
I taleban si trovarono, per la seconda volta nel giro di poco più di un anno, a lottare per la loro stessa sussistenza. Fu solo nell’agosto 1996 che Osama bin Laden accettò di prendersi cura del movimento, il quale, da quel momento, non ebbe più l’appoggio della Casa Bianca.
Il 27 settembre 1996, i 3 milioni di dollari concessi da bin Laden ottennero i loro frutti: Kabul, oramai distrutta da quattro anni di guerra civile, cadde nelle mani degli studenti islamici. Pakistan, Emirati Arabi Uniti e la stessa Arabia Saudita furono i soli paesi che riconobbero il nuovo governo afghano.
Ironia della sorte, l’Arabia Saudita si è trovata per 5 anni ad appoggiare un governo che ospitava Osama bin Laden, un cittadino saudita a cui Ryad ha tolto il passaporto. Giochi afghani.

Piergiorgio Pescali

Osama bin Laden

Osama bin Laden è nato nel 1957 in Arabia Saudita. La sua carriera militare inizia nel 1979, quando aderisce al movimento dei mujahedeen afghani contro l’Armata rossa. Con l’aiuto degli Stati Uniti, della Cia e del Pakistan, costituisce una formazione militare composta esclusivamente da arabi che lottano in nome della jihad. È il primo nucleo di quella che, anni dopo, diventerà il gruppo noto come al-Qa’ida (la base), responsabile secondo Washington degli attentati a obiettivi militari e diplomatici in Africa e Medio Oriente.
Dopo una serie di successi militari contro i sovietici, Osama bin Laden torna in Arabia Saudita, dove inizia a denunciare la corruzione politica, finanziaria e religiosa della casa reale. La definitiva rottura con il mondo occidentale e con il regime di re Fahd, avviene nel 1990, quando Riyad acconsente alle truppe alleate di stanziarsi in Arabia Saudita per lanciare i loro attacchi contro l’Iraq.
Non che bin Laden appoggiasse Saddam Hussein, che, anzi, annovera come uno dei suoi nemici, ma il dispiegamento di una forza militare straniera in territorio islamico per attaccare altre popolazioni musulmane, viene visto come un tradimento religioso imperdonabile.
Così, nel 1991, è costretto a fuggire in Sudan assieme a un gruppo di fedelissimi reduci dalla guerra dell’Afghanistan, i cosiddetti "arabi afghani". In Sudan riorganizza il suo impero economico, commercia con paesi europei, tra cui l’Italia. Per la sua inflessibile denuncia alla famiglia reale saudita, perde il passaporto e, nel maggio 1996, dopo essere stato il principale artefice finanziario della vittoria taleban, si trasferisce in Afghanistan da dove lancia la sua fatwa antiamericana.
In Afghanistan Osama gestisce diversi campi di addestramento interdetti perfino ai taleban, in cui vengono istruiti elementi destinati chi a combattere contro l’opposizione afghana di Massud, chi a esportare la jihad nel mondo. Da questi "non luoghi", veri e propri stati nello stato, sarebbero stati organizzati i più spettacolari attacchi contro basi militari e diplomatiche americane: le esplosioni alle ambasciate Usa di Kenya e Tanzania nel 1998, che causarono 224 morti, l’attacco del 12 ottobre 2000 contro la nave da guerra Cole nello Yemen e, naturalmente, gli attacchi simultanei dell’11 settembre 2001.
Nonostante l’Fbi abbia posto sulla testa di bin Laden una taglia plurimilionaria e il Pentagono abbia condotto diverse incursioni aeree in territorio afghano con la speranza di colpirlo, Osama rimane una primula rossa. La sua inafferrabilità contribuisce a creare un alone di mistero "religioso" attorno alla sua figura.
C’è chi dice che sia già morto da anni, a causa delle sue precarie condizioni di salute; c’è chi invece afferma che continua a nascondersi tra le montagne pakistane; e chi, infine, afferma che bin Laden abbia un accordo con il governo statunitense.

Piergiorgio Pescali




Promesse da «marines»

Perché, a cinque anni dalla cacciata da Kabul, i taleban sono ancora presenti in buona parte del territorio afghano? È evidente che essi trovano appoggio e collaborazioni nelle popolazioni locali, sfinite da 20 anni di guerra e deluse dalle promesse "da marinai" dei liberatori di tuo.

Nel luglio e agosto 2001, poche settimane prima che il mondo intero venisse scosso dall’abbattimento delle Torri Gemelle a New York, ho visitato l’Afghanistan. Allora il 15% del territorio era occupato dall’Alleanza Nazionale, un gruppo eterogeneo, che comprendeva essenzialmente etnie di tagike, uzbeke e hazare guidate da Massud, mentre il restante 85% era saldamente in mano ai taleban di etnia pashtun.

KABUL: FINESTRA SULL’ISLAM

Il mio reportage è iniziato a Kabul che mostrava (e mostra tuttora) tutte le tremende ferite di una guerra civile costata 30 mila vittime. La capitale, dopo la conquista da parte dei taleban, era stata teatro del più radicale stravolgimento socio-religioso a cui il mondo aveva assistito negli ultimi decenni.
Tutto, dai proclami del Ministero della promozione e della virtù ai discorsi della gente nei bazar, era finalizzato ad assecondare e giustificare ogni parola scritta nel Corano. Il milione di abitanti, dopo aver finalmente ritrovato la pace sociale e salutato entusiasticamente l’arrivo dei carri armati taleban, si erano ritrovati a essere in prima linea nella battaglia ideologica che il governo del mullah Mohammad Omar aveva intrapreso contro gli infedeli.
E Kabul, in quanto unica finestra aperta sul mondo esterno, era stata allestita a immensa vetrina del nuovo Emirato Islamico per chiunque visitasse l’Afghanistan dei taleban. La vita che si fermava 5 volte al giorno per le preghiere, l’assoluta predominanza maschile in ogni aspetto delle attività sociali, le lunghe file davanti ai centri di distribuzione del pane, l’anonimato della componente femminile, obbligata a restare separata fisicamente e psicologicamente dal resto della comunità, non erano che gli aspetti esteriori più evidenti di questo archetipo sociale.
Ma vangando più a fondo, ascoltando testimonianze di chi rifiutava di accettare questo stato di cose, si trovavano elementi nascosti particolarmente inquietanti. Come il progetto, per fortuna mai portato a termine, di uniformare la componente etnica di Kabul, allontanando dalla città la popolazione di origine tagika, uzbeka, hazara, sostituendola con famiglie pashtun, di cui i taleban sono l’espressione politica e religiosa e, soprattutto, sociale. "È più semplice, per il governo, modellare le proprie idee su una capitale abitata da cittadini a lui rigorosamente fedeli" affermava un afghano che si autodefiniva "politicamente neutralista".

"PAX TALEBANA" NEL SUD

Ma, come recita un detto locale, "Kabul è Kabul, l’Afghanistan è l’Afghanistan". Così, se dalla capitale del paese venivano mostrati al mondo intero il modo in cui sarebbero dovuti essere interpretati gli insegnamenti del Corano, nelle campagne, specialmente quelle meridionali abitate dai pashtun (38% della popolazione afghana), i taleban si sono sempre mostrati ben più tolleranti, a cominciare dall’educazione scolastica, aperta anche alle donne. In queste aree è ancora il pashtunwali, l’antichissimo codice d’onore che per secoli ha regolato la vita giuridica e sociale delle tribù afghane, a sostituirsi alla sharija; indossare il burqa non è sentito come un obbligo per le donne al di sopra dei 15 anni, ma un dovere dettato dalla tradizione, una sorta di rito di iniziazione dall’età adolescenziale a quella adulta.
L’arrivo dei taleban, a Ghazni come a Herat, a Kandahar come a Farah, aveva solo riportato quello che la popolazione voleva dagli anni Ottanta e che, fino al 1996 non aveva mai ottenuto: pace e tradizione. Come mi disse un contadino della regione di Kalat, al quale avevo chiesto per quale motivo appoggiasse il governo dei taleban: "Perché appoggio i taleban? I mujahedeen ci hanno detto che per ottenere la pace dovevamo combattere i sovietici. Poi è arrivato Hekmatyar, dicendoci che dovevamo scacciare Massud da Kabul e avremmo ottenuto la pace. Poi sono arrivati i taleban, che combattevano sia Massud che Hekmatyar. Ma loro, i taleban, hanno mantenuto la loro promessa. Oggi viviamo in pace, coltiviamo i nostri campi e possiamo vivere secondo le nostre tradizioni. Ecco perché appoggio i taleban".
La raggiunta stabilità sociale al sud aveva permesso di poter sviluppare colture cerealicole, sfruttando gli impianti di irrigazione costruiti dai sovietici, mentre la vicinanza con il Pakistan, che assieme ad Arabia Saudita e Emirati Arabi è stato il solo stato a riconoscere il governo taleban, aveva sviluppato un fiorente commercio facendo rinascere la classe mercantile pashtun, quasi completamente annientata dalla guerra civile.
Proprio questa stretta relazione tra il movimento taleban e il Pakistan, ha condotto l’Alleanza Settentrionale di Massud-Dostum-Rabbani a evidenziare il coinvolgimento diretto di Islamabad nella guerra afghana, giungendo a denunciare un piano di annessione militare in atto, in base al quale i taleban rappresenterebbero la quinta colonna del governo di Islamabad.

BUDDHA… DECAPITATO

Seguendo questo copione, i mass media ci hanno sempre mostrato i taleban come un’accozzaglia di invasati integralisti islamici dediti alla coltivazione dell’oppio che si divertono, di tanto in tanto, a distruggere statue.
Eppure, secondo il rapporto dell’UN Drug Control Programme del 2000, i taleban avevano interrotto quasi completamente la coltivazione d’oppiacei, rassicurati anche dalla promessa fatta nel 1998 dall’allora sottosegretario al Dipartimento di stato Usa, Karl Inderfurth, di alleggerire le sanzioni contro Kabul, assieme a un pacchetto di aiuti di 3 miliardi di dollari per i contadini che avrebbero acconsentito di trasformare i loro campi d’oppio in coltivazioni alternative.
"I taleban hanno mantenuto i loro impegni, ma non hanno mai visto un solo dollaro promesso, ricevendo in cambio un inasprimento delle sanzioni Onu" ha confessato in seguito un alto funzionario europeo dell’Onu a Kabul.
È in questo contesto che è venuta a inserirsi la vicenda dei Buddha di Bamiyan, distrutti solo dopo che una delegazione dell’Unesco era giunta nella capitale afghana, offrendo al governo milioni di dollari per evitare la distruzione delle statue. "I taleban saranno criminali, ma quando qualcuno prima nega dei soldi promessi, che sarebbero serviti a scopi umanitari, poi offre quegli stessi soldi per salvare delle pietre, anche il governo più razionale di questa terra può perdere la pazienza" spiegò allora desolato un diplomatico di un paese occidentale in visita a Kabul.

Piergiorgio Pescali

Taleban del Waziristan (Pakistan)

GUERRA CONTRO I FANTASMI

Arroccate tra le montagne, le popolazioni del Waziristan sono state una spina nel fianco del governo coloniale inglese. Gelose delle proprie tradizioni tribali e religiose,
continuano ad essere tartassate dall’esercito pakistano,
perché sospettate di dare rifugio al Mullah Omar e Osama bin Laden.

Dal villaggio di Tormandi si innalzano le voci delle donne che intonano i noha (lamenti) in onore ai parenti uccisi durante gli attacchi pakistani nel Waziristan. È un brutto giorno per incontrare Arianfar, il pathani conosciuto 15 anni fa.
Allora era un mujahedeen che, declamando i versi dell’eretico mistico Bayazid Ansari, combatteva per liberare i fratelli afghani dall’occupazione sovietica; oggi è un malik, uno dei capivillaggio più influenti della regione, come dimostra anche la lunga barba tinta di rosso che porta con fierezza.
E continua a combattere, Arianfar; la sua jihad non conosce tregua, ma i vecchi alleati di un tempo si sono trasformati nei nemici di oggi. Il nuovo satana da esorcizzare per purificare il dar al-islam (casa dell’islam) non è più l’ateismo comunista, bensì il capitalismo occidentale. "Non è la vostra fede che rifiutiamo, ma i valori su cui fondate la società" mi dice.
Non siamo d’accordo quasi in nulla, Arianfar e io; ma la lontananza geografica e ideologica non ci ha impedito di continuare a coltivare la nostra sacra amicizia. È stato lui, nel 1989, a rischiare la propria vita per guidarmi attraverso i villaggi della regione, eludendo un accerchiamento sovietico che stava stritolando il gruppo di mujahedeen a cui mi ero aggregato.
E ancora, è stato Arianfar a scorazzarmi attraverso l’Afghanistan dei taleban poche settimane prima dell’11 settembre 2001. E subito dopo i primi attacchi statunitensi, Arianfar mi ha accolto nella sua casa, tappezzata di manifesti di La Mecca, bin Laden e Abd ul-Ghaffar Khan, il fondatore del Khuda-i-Khidmatgar (Partito dei servi di Dio), che negli anni Trenta lottava perché il Pashtunistan fosse annesso all’Afghanistan.

Sin dal 1996 il panchayat (consiglio di villaggio) di Tormandi si era schierato a favore del governo del Mullah Omar, così come avevano fatto tutti gli altri villaggi della Federally Administered Tribal Area (Fata), una regione di 27.200 kmq, formalmente appartenente al Pakistan, ma dove Islamabad non ha mai potuto esercitare alcun controllo effettivo.
I 6 milioni di tribali che abitano la Fata, hanno in comune con i pashtun afghani la storia, letteratura, commercio, etnia e, soprattutto, il pashtunwali, il ferreo codice di regole sociali, la cui trasgressione porta alla morte, ma che, al tempo stesso, garantisce la completa solidarietà dell’intera comunità. Grazie a esso l’ospite, è sacro e intoccabile, sia esso un occidentale miscredente o un militante di al-Qa’ida.

Tutto questo ha permesso di creare una sorta di stato cuscinetto talebanizzato, dove la dirigenza islamica afghana e quella di al-Qa’ida, protette dai malik pathani, si sono potute rifugiare sin dalle prime fasi della guerra innescata dalla coalizione guidata dagli Stati Uniti.
Aiutati e difesi dalla popolazione, i membri di diverse formazioni terroristiche facenti capo all’organizzazione di bin Laden, hanno trovato tra i villaggi del Waziristan ripari sicuri, sino a quando l’esercito pakistano, pressato dalle insistenze degli Stati Uniti, ha deciso di rompere gli indugi e attaccare massicciamente l’intera zona.
Ma gli stessi soldati pakistani hanno più volte lamentato la completa inaffidabilità delle informazioni raccolte tra la popolazione.
"Stiamo combattendo contro delle ombre" è la frase più ricorrente tra i militari di Islamabad. Nulla di più normale tra queste montagne, dove il nome del presidente Musharraf viene storpiato in Busharraf, e dove domina il Muttahida Majilis-e-Amal, una coalizione di sei partiti islamici ortodossi, fortemente critica verso il presidente pakistano, che nelle elezioni del 2002 ha conquistato 45 seggi all’Assemblea nazionale, divenendo il terzo partito del paese.

L’ambasciatore statunitense in Pakistan ha dichiarato che i principali dirigenti taleban si muovono senza problemi all’interno del suolo pakistano, organizzando gli attacchi contro i soldati della coalizione. Gli stessi servizi segreti pakistani, lungi dall’essere stati epurati degli elementi pro-taleban, giocherebbero una carta determinante in questa partita. Le loro infiltrazioni nelle forze armate, vedono malvolentieri un Pakistan troppo remissivo nei confronti dell’Occidente e dell’India.
I recenti accordi sulla questione del Kashmir avrebbero indotto i jihadisti a innescare una nuova offensiva contro un governo considerato secolare. Quattro tentativi di assassinare Musharraf in nove mesi, l’arresto del padre della bomba atomica pakistana e la forte opposizione dei pathani all’offensiva del Waziristan dimostrano quanto convulsa sia l’atmosfera nella nazione.

P.P.

Piergiorgio Pescali




Così Parlarono

Esclusivo: interviste al mullah Omar e al comandante Massud
così parlarono

Protagonisti di quattro anni di guerra civile, Omar e Massud sono stati intervistati pochi giorni prima degli attacchi terroristici di al-Qa’ida contro gli Stati Uniti.
Le loro affermazioni aiutano a comprendere perché, a 5 anni dalla fine della guerra civile, la pace in Afghanistan sia ancora un miraggio
.

Due settimane prima dell’attentato dell’11 settembre, ho avuto l’occasione, unico tra i giornalisti occidentali non islamici, di intervistare il leader del taleban, il mullah Omar, nella sua villa di Kandahar, nel sud dell’Afghanistan. L’allora trentanovenne, Omar è uno dei personaggi più misteriosi dell’Afghanistan assieme a suo cognato, Osama bin Laden.
Per i suoi oppositori è tuttora un pupazzo nelle mani dei servizi segreti pakistani, per i suoi sostenitori è un eroe della guerra antisovietica e il suo unico occhio, le quattro ferite in diverse parti del corpo ne sono la migliore testimonianza. La sua voce, durante l’intervista, è pacata, le parole misurate con cautela.

COSÌ PARLò OMAR

Il governo taleban di Kabul è riconosciuto solo da tre stati: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Pakistan. Come spiega questo isolamento politico?
Ciò che a noi importa è seguire la parola di Allah e modellare il nostro stato in una società islamica.

L’opposizione afferma che senza l’appoggio militare e finanziario del Pakistan, voi non esistereste neppure. Non le chiedo se questa affermazione sia vera o no, penso di conoscere già la risposta, ma quanto conta il Pakistan per voi?
Le rispondo comunque: è vero, senza il Pakistan noi non esisteremmo. Ma neppure Rabbani, Massud, Ismail Khan esisterebbero. Sono loro che debbono ringraziare il Pakistan se i russi se ne sono andati dall’Afghanistan. Cosa sarebbe Rabbani se non avesse avuto l’appoggio del Pakistan? Abbiamo combattuto assieme il diavolo comunista e l’abbiamo vinto. Poi loro si sono ubriacati di potere e hanno portato solo morte e distruzione per 4 anni in Afghanistan. Noi, i taleban, ispirati dalla parola di Allah, abbiamo riportato la pace e la stabilità nel paese.

Le concedo che in gran parte dell’Afghanistan, almeno nelle regioni meridionali, oggi c’è una pace e un benessere relativo, ma non mi ha risposto quanto conta il Pakistan per voi.
Il Pakistan è un paese fratello che vuole aiutare l’Afghanistan a ritrovare la pace nella fede di Allah.

Alcune vostre decisioni sono state criticate dalla comunità internazionale. Posso convenire con lei che la distruzione dei Buddha sia stata dettata dal tentativo dell’Unesco e di una commissione europea di offrire milioni di dollari per salvare delle statue, mentre attorno ad esse milioni di contadini lottano per la sopravvivenza; posso capire che l’imposizione del burqa sia, di fatto, coercitiva solo per le donne di Kabul e posso anche condividere la censura televisiva in una società tradizionalista come la vostra. Ma non credete che tutto questo leda la vostra posizione agli occhi del mondo proprio nel momento in cui avete bisogno del suo sostegno?
Noi abbiamo i nostri principi e intendiamo rispettarli. Se questo è un peccato agli occhi del mondo, ebbene, siamo pronti a subie le conseguenze qui in terra per raccogliere i frutti nel paradiso di Allah. Voi occidentali ci considerate pazzi, lo sappiamo bene; ma noi seguiamo solo ciò che dice il Corano. Noi consideriamo decadente il vostro sistema di vita, eppure non interferiamo sulle vostre decisioni.

Solo perché non ne avete la possibilità.
Probabilmente ha ragione.

Nel mondo condividete la fede con un miliardo di musulmani, eppure solo tre stati, per un totale di 140-150 milioni di islamici riconosce il vostro governo. Le chiedo: gli altri 800-900 milioni di correligionari sono tutti corrotti?
Lei mischia la fede con il governo di pochi uomini. Non tiene conto degli interessi economici, delle strategie geografiche, delle alleanze militari e politiche.

Un altro punto a vostro sfavore è l’ospitalità che concedete a Osama bin Laden.
Osama è già stato processato da una corte islamica che non ha trovato alcuna prova a suo carico. Nel caso trovassimo prove convincenti che lo condannino, siamo pronti a consegnare Osama bin Laden a un tribunale che comprenda membri graditi anche all’Occidente.

Perché non accettate di formare un governo di coalizione con l’Alleanza del Nord?
Non è vero che non accettiamo. Vogliamo solo sapere quali sono le loro condizioni e su quali parametri si basa la discussione. A queste semplici domande Massud e Rabbani non hanno mai risposto.

Nel mondo siete conosciuti più per le vostre leggi contro le donne che per la vostra reale politica intea.
Non abbiamo mai emanato leggi contro le donne.

Beh, il divieto di lavorare, studiare, circolare liberamente per le strade. Come le chiama queste?
Tradizioni. Deve capire che l’Afghanistan è un paese che cammina molto lentamente. Cambiare radicalmente le tradizioni significa sconvolgere completamente la società e perdee il controllo.

Quindi non esiste libertà di scelta per la donna afghana. Volente o nolente deve rimanere dietro quel burqa che la estranea dalla società?
Vede, voi siete abituati a utilizzare le donne come bei fronzoli che allietano la vostra vita. Per noi invece la donna deve essere parte integrante della società e cuore della famiglia. Inoltre non è vero che la donna afghana è emarginata: chieda allo Sca (Swedish Committee for Afghanistan) quanta è la percentuale di donne che frequenta le scuole nel paese. Non voglio dirglielo io, lo chieda allo Sca. Vada all’Università di Kabul. In alcune facoltà, come quella di medicina, la percentuale di donne iscritte supera quella dei maschi.

Quale soluzione quindi per l’Afghanistan?
Jihad.

COSÌ PARLò MASSUD

Comandante Massud, 20 anni di conflitti hanno dimostrato che non può esserci una soluzione militare al problema afghano. Cosa propone la sua coalizione?
Un governo ad interim che, in un lasso di tempo tra i 6 e i 18 mesi, disegni una nuova Costituzione che garantisca una rappresentanza di tutti i gruppi etnici afghani nel governo e elezioni generali democratiche con la formazione di partiti politici.

C’è una personalità afghana che potrebbe divenire un leader del paese accettato da tutte le fazioni in lotta?
Non vedo una specifica persona che possa godere della fiducia del popolo afghano. E credo che sia molto più importante avere dei principi che una persona. Più che un leader, all’Afghanistan servono idee, principi su cui basare il futuro stato.

I taleban hanno recentemente annunciato che conquisteranno tutto l’Afghanistan entro la fine dell’anno. Quale è la sua previsione?
Non credo che ciò corrisponda alla verità che sta sul campo. Abbiamo già detto in passato e lo ribadisco ora che non c’è soluzione militare per l’Afghanistan.

È servito il suo viaggio in Europa?
Da un punto di vista politico è stato buono. Speriamo di assistere a un arrivo di aiuti umanitari.

Perché gli europei dovrebbero appoggiare l’Unifsa?
Perché questa parte del fronte ha un chiaro messaggio: lasciateci avere elezioni generali in Afghanistan; lasciate che la Comunità Internazionale, l’Onu, il gruppo dei 6+2, supervisioni le elezioni in Afghanistan; lasciate che il popolo dell’Afghanistan scelga il proprio destino. Inoltre noi lottiamo contro ogni forma di terrorismo, qualunque sia il suo scopo e sia che esso operi dentro o fuori l’Afghanistan. Ho detto che Osama bin Laden è un criminale e non è facile per me, che ho dedicato la mia vita alla jihad, affermare questo.
Noi crediamo nella democrazia, mentre i taleban no. Noi siamo contro il terrorismo, mentre loro lo appoggiano. Noi vogliamo che l’Afghanistan abbia una coesistenza pacifica e buone relazioni con tutti i paesi; i taleban vogliono invece esportare le loro idee creando ancor più problemi per l’Afghanistan. Noi consideriamo uomini e donne come esseri umani aventi gli stessi diritti; i taleban li hanno resi differenti, contrariamente alle intenzioni di Dio, che li ha creati come esseri umani uguali.
Questo è, ciò in cui noi crediamo. A seconda delle circostanze, noi avremo successo o no, ma questa è un’altra questione.

Dopo oltre 20 anni di combattimenti, quale è, secondo lei, la cosa più importante nella vita di un uomo?
La decisione. Credo che quando uno prende una decisione ed è determinato a portare a termine quello che ha iniziato, tutto diviene più semplice e facile. Per esempio, abbiamo combattuto i sovietici, ma per me non era importante vincere la guerra contro di loro. La mia decisione era stata quella di combattere i russi comunque, sia che noi vincessimo, perdessimo, sia che la lotta durasse 10 anni, 20 anni o più. E oggi io prego Dio perché ci aiuti nelle nostre decisioni e determinazione nel combattere i taleban. Non è importante quanta terra perderemo, quanto soffriremo. Noi conosciamo i nostri nemici e la nostra decisione è resistere contro di essi.

Qual è la maggiore difficoltà che incontra oggi?
Quando i sovietici sono giunti in Afghanistan, il popolo sapeva quale era il loro fine. Oggi al posto dell’Urss siamo invasi dal Pakistan, che si è servito della copertura dell’islam, della religione e dei taleban. Il popolo afghano ha impiegato diverso tempo a scoprire il vero volto del Pakistan. È stato molto difficile creare un motivo per combattere tutto questo e solo dopo molto tempo il popolo afghano ha capito la verità. Ora le cose sono molto più facili, perché la gente sa quello che sta accadendo.

Quale è stato il più grande errore che ha commesso nel passato?
La natura umana non è infallibile. Chi opera, chi decide, commette anche degli errori. E ancora mi è difficile identificare quale sia stato l’errore più grosso. Probabilmente dall’esterno è più semplice individuarli. Del resto, se non avessimo fatto degli errori, come avrebbero fatto i taleban a nascere e conquistare il potere?

Lei sembra una persona molto religiosa, ma al tempo stesso è anche un combattente. Non sente alcun rimorso nell’uccidere, seppur indirettamente, uomini e per di più afghani?
Noi combattiamo una guerra per una giusta causa. Abbiamo il diritto di difenderci e difendere il nostro popolo. Non siamo noi che attacchiamo. Noi ci difendiamo.

L’Unifsa è composta da fazioni che in passato si sono combattute l’una contro l’altra. Che garanzie ci possono essere nel caso la sua coalizione andasse al potere, che non si ripeta il disastro avvenuto tra il 1992 e il 1996?
Uno dei problemi che esiste in Afghanistan è la mancanza di fiducia. Si ha paura del futuro e ciò che questo può riservare. Ora abbiamo concluso un accordo con il generale Dostum, Ismail Khadir e con Ismail Khan sui principi che garantiranno il loro futuro nel governo afghano. Il punto cardine dell’accordo è la continuazione della resistenza contro i taleban per indurli a sedersi al tavolo dei negoziati e formare un governo ad interim che dovrebbe funzionare da 6 a 18 mesi.

Quindi è pronto a fare un governo di coalizione con i taleban?
Solo per un periodo di transizione dalla guerra alla pace. Se accettiamo questo governo di coalizione, è solo per fermare questa guerra e l’intervento del Pakistan.
Inoltre, il governo di coalizione dovrà lavorare per preparare le elezioni generali. I taleban mi hanno già offerto il posto di primo ministro e al tempo stesso di mantenere il mio esercito nella zona settentrionale, creando una regione autonoma. Ma ho rifiutato. L’Onu e il Gruppo 6+2 dovrebbero supervisionare il processo di transizione che porterà alle elezioni.

Ma il ruolo dell’Onu in Afghanistan è sempre stato perdente. Ci sarebbe secondo lei un’altra organizzazione internazionale in grado di ricoprire il ruolo oggi occupato dalle Nazioni Unite?
L’Onu è perdente se non ha l’appoggio delle grandi potenze. Solo con un forte sostegno delle grandi potenze, il Pakistan non sarebbe più in grado di appoggiare i taleban. E questi, allora, non avrebbero più di 6 mesi di vita. Anche Osama bin Laden non potrebbe sopravvivere.

Lei ha detto che la soluzione del conflitto afghano si potrà raggiungere solo dopo aver indetto elezioni generali. Sembra, però, che lei dimentichi anche i fattori estei che condizionano la situazione afghana: interessi economici, geopolitici, strategici. L’Afghanistan è solo una delle pedine che giocano una partita ben più grande nello scacchiere internazionale. Come fa a non tenere conto di questi problemi?
Penso che i problemi estei siano tali solo fino a quando riusciremo ad avere elezioni generali nel nostro paese. Penso che la resistenza contro i taleban e contro chi li sostiene (Pakistan, ndr) accelererà la soluzione afghana.

Se lei pensa che le elezioni generali siano davvero la soluzione del problema Afghanistan, perché non le ha indette quando era lei stesso al potere, tra il 1992 e il 1996?
La richiesta di elezioni, non è una posizione che abbiamo adottato solo ora. Siamo sempre stati favorevoli affinché il popolo afghano potesse esprimere il proprio parere tramite il voto, anche durante il periodo in cui eravamo al potere a Kabul. Ma allora eravamo in guerra e nessuno dei nostri oppositori accettava le consultazioni. Le abbiamo proposte a Hekmatyar, prima, e ai taleban, dopo, ma loro non hanno accolto le nostre richieste.

Pensa che un governo democratico che ricalchi quelli occidentali possa accordarsi con la storia, tradizioni, religione degli afghani?
Quando parliamo di democrazia, non intendiamo dire di trasferire tale e quale lo stile occidentale in Afghanistan. Non pensiamo che la democrazia in Afghanistan possa essere paragonabile a quella francese o italiana. Il punto importante è lasciare che sia la gente a decidere quale sarà il primo gradino da intraprendere per la realizzazione di uno stato afghano moderno. Le crisi possono essere risolte solo se si dà una possibilità alla gente di scegliere.

E pensa che il popolo afghano potrà avere una possibilità di scelta e, se sì, quando?
È questo il motivo per cui lottiamo.

Chi è Massud secondo Massud?
Scelga lei; io mi considero una persona che ha dedicato la sua vita per la liberazione del suo paese e del suo popolo. È per questo che stiamo combattendo. o

A cura di Piergiorgio Pescali

Biografia del Mullah Omar

Una delle caratteristiche che stupiscono riguardo i taleban è la giovanissima età dei suoi leaders e la scarsa reperibilità di biografie. Del capo supremo del movimento, il mullah Muhammad Omar, non è sicura neppure la provincia natale: alcune fonti riconducono la nascita da una povera famiglia di contadini nella provincia di Uruzgan nel 1962, mentre altre affermano che sia venuto alla luce nella provincia di Kandahar. Di lui non esistono fotografie ufficiali. Avrebbe iniziato la carriera religiosa nelle madrase di Quetta, in Pakistan per poi unirsi all’Harakat-i-Inqilab-i-Islami di Mohammad Nabi Mohammadi per combattere i sovietici.
Durante questa fase Muhammad Omar avrebbe raggiunto il grado di vice comandante militare, guadagnandosi la stima dei suoi commilitoni, perdendo un occhio durante un combattimento e rimanendo ferito altre quattro volte.
Secondo le fonti ufficiali sarebbe stato lo stesso profeta Muhammad a investirlo del compito di riportare la pace in Afghanistan, combattendo la triade governativa di Rabbani-Massud-Hekmatyar.
Più prosaicamente i taleban sarebbero nati grazie agli aiuti dei Servizi segreti pakistani e degli Stati Uniti, ai quali ben presto sarebbe sfuggito il controllo del movimento.
L’investitura ufficiale di Omar come leader supremo religioso e politico avvenne con l’apposizione dell’appellativo amir-ul-momineen (comandante della fede), da parte di un convegno a cui parteciparono 1.500 mullah.
Molti teologi islamici negano, però, la validità stessa del termine mullah nei confronti di Omar. Secondo la tradizione islamica, infatti, solo chi ha compiuto un ciclo di studi di 12 anni presso le scuole islamiche può fregiarsi di tale titolo.

Piergiorgio Pescali




Forum Sociale Mondiale 2006: da Bamako a Nairobi

INTRODUZIONE
AFRICANI ED EUROPEI: TUTTI INSIEME PER CINQUE GIORNI

Bamako, polverosa e caotica capitale saheliana. Stretta tra l’altopiano mandingo e il fiume Niger, che scorre tranquillo, in questa stagione, lontana dalle piogge. Città prescelta per ospitare il primo Forum sociale mondiale (Fsm) in terra africana. Forse per la vivacità della sua società civile e dell’associazionismo maliano in genere.
Molti non ci credevano, neppure gli stessi organizzatori. Eppure ce l’hanno fatta: hanno messo in piedi un evento mondiale. Per la prima volta il Consiglio internazionale del Fsm ha deciso per la formula «policentrica». Tre eventi, in tre continenti, quasi contemporaneamente: Bamako (Mali), Caracas (Venezuela) e Karachi (Pakistan). Il primo si è svolto tra il 19 e il 23 gennaio, il secondo la settimana successiva, mentre l’asiatico si è tenuto a fine marzo a causa del terremoto che ha colpito il paese.
Il Fsm è nato a Porto Alegre (Brasile) dove si è svolto nella prima edizione 2001, e nelle successive 2002, 2003 e 2005. Mentre nel 2004 si è tentata la carta asiatica, con il grande successo di Mumbai (India). E ora l’Africa. Ma questa tappa si completerà a gennaio 2007 quando il Fsm – questa volta non policentrico – si svolgerà a Nairobi (Kenya). Ed è infatti un percorso che gli organizzatori africani seguono, da ovest a est, per coinvolgere più popoli africani possibile.
Ai precedenti Forum mondiali la delegazione dall’Africa è stata sempre presente, ma ridotta a causa dei costi. Difficile quindi un coinvolgimento e una ricaduta significativa. Ed è proprio questo uno degli obiettivi dell’evento: raggiungere una più larga fetta di popolazione anche di questi paesi.
Leader contadini, responsabili di associazioni di donne, giovani, sindacati, semplici cittadini venuti da tutto il Mali, ma anche molti dai paesi vicini e alcuni dalle altre aree africane. Tutti hanno riportato nei loro paesi, città, villaggi qualcosa di quanto ascoltato e costruito a Bamako. Al loro fianco molti europei. Bassa invece la partecipazione di asiatici e latino e nord americani, convogliati, piuttosto sugli altri due Forum policentrici.
Quest’anno i problemi non sono stati pochi. Soprattutto logistici e organizzativi. Ma anche finanziari. Gli organizzatori lo ammettono, se ne scusano chiamando in causa il Consiglio internazionale. È stato l’inizio di un cammino, dicono e promettono «a Nairobi sarà tutto migliorato».
La ricchezza tematica invece è stata grande. Come sempre. Molto importante è stato lo spazio preso
dall’immigrazione, migranti e clandestini. Problematica che tocca il nervo scoperto di molte famiglie africane, e segna la grande differenza tra chi sogna la vita in un paese ricco e chi invece già ci sta. Anche tra i partecipanti.

STRADE AFRICANE PER IL FSM

Quasi 20mila persone da 213 paesi. Per incontrarsi in oltre 800 attività tematiche. E progettare insieme, nella diversità, un mondo più equo. Problemi logistici, mancanza di fondi. A Bamako, Mali, sulla strada per Nairobi.

«Il Forum sociale mondiale policentrico di Bamako è stato realizzato, nonostante tutte le paure nutrite dagli stessi attori. Abbiamo dimostrato non solo che siamo capaci di organizzare l’evento ma anche di contribuire sul piano politico nella decisione per il prossimo Forum che si terrà a Nairobi».
Taoufik ben Abdallah, dell’Ong (organizzazione non governativa) Enda Senegal, è tra gli organizzatori del Forum. «Siamo riusciti nella sfida di far crescere la presa di coscienza dei nostri cittadini e della nostra società civile sull’impatto reale del sistema mondiale sulle società africane. Una spinta ad organizzarsi meglio e capire i problemi ai quali siamo confrontati».

Quest’anno il Forum è stato «policentrico» in quanto si è deciso di suddividere le attività in tre luoghi diversi del mondo: Caracas (Venezuela), Karachi (Pakistan) e Bamako (Mali) dal 19 al 23 gennaio. E non si tratta di Forum «regionali», come quello europeo, che si è tenuto ad Atene lo scorso marzo. È stato importante per gli africani, che agli altri Forum hanno sempre partecipato con delegazioni ridotte, soprattutto per difficoltà economiche, dimostrare che la società civile del continente è viva e capace di realizzare un incontro di questo livello.

Yaya Diakité, tra i principali organizzatori assieme a Mamadou Goita, spiega le dimensioni dell’evento. Sono 325 le strutture della società civile maliana che hanno fatto parte del comitato nazionale di organizzazione. Dal movimento contadino, ai sindacati, ong (organizzazioni non governative) nazionali, artigiani, associazioni culturali e sportive. Le attività tematiche previste superano le 800 mentre i partecipanti si valutano tra i 15 e i 20 mila, provenienti da 213 paesi.

«I costi affrontati sono di circa 700 milioni di franchi cfa (oltre un milione di euro, ndr.) e cercheremo di non lasciare debiti» dichiara Yaya parlando del finanziamento dei Forum. Le difficoltà ci sono state, e pochi mesi prima del previsto inizio non c’erano ancora i fondi necessari. La situazione si è sbloccata grazie ad alcuni finanziatori. In particolare la potente Ong Oxfam Olanda (con 230 mila euro) e il governo del Venezuela. Anche lo stato del Mali ha fornito infrastrutture e fondi. Ma «occorre ripensare la strategia di fund raising (raccolta fondi, ndr.) dei Forum» insistono i rappresentanti del comitato.

«Le associazioni maliane che si sono riunite intorno a questo progetto hanno avuto l’audacia di “prendere la coda del leone”. Ma questo non è che l’inizio perché, da noi si dice: “Occorre prendere la gola del leone per vincerlo”. E il popolo maliano ci ha aiutato in questo» continua Yaya.
Una delle questioni fondamentali di questi Forum in Africa, Bamako 2006 e il prossimo Nairobi 2007 è di permettere alle popolazioni africane di conoscere meglio il movimento: «Toiamo a casa dopo aver vissuto un’esperienza nuova ed esaltante. Abbiamo discusso con i popoli dei cinque continenti di tutte le questioni scottanti del momento. Oggi possiamo dire: siamo del mondo» sostiene l’organizzatore.

I POVERI HANNO PARLATO?

Non la pensa proprio così Daoda, venuto a dorso di cammello da Tombouctou. Un viaggio durato sei giorni e finanziato da un’associazione europea per il commercio equo. «Nel Forum si parla di tanta teoria, non della pratica, per i poveri. Tra i maliani ho visto sempre i soliti “ricchi” parlare». Lui, venditore di artigianato nel Nord del paese, ricco non è, ma sembra molto critico sull’evento. Si tratta della questione della reale partecipazione della massa povera, legata alla rappresentatività dei movimenti sociali e le associazioni della loro base.

Mentre a Mumbai (Fsm 2004 in India) importante è stata la partecipazione degli «intoccabili», a Bamako, ampio spazio è stato preso dai migranti e dai rimpatriati da Ceuta e Melilla. I paesi dell’Africa dell’Ovest e in particolare in Mali sono molto toccati dalla questione dell’emigrazione. Le associazioni europee e africane che lavorano sui flussi migratori hanno creato qui una piattaforma Europa – Africa. «Bamako è una tappa importante per la partecipazione: i candidati all’emigrazione, gli espulsi e i sans papier (clandestini nei paesi europei, ndr.) si sono potuti esprimere. Questo è stato già un ottimo risultato – sostiene Aminata Traoré – una pagina che continuerà fino a Nairobi. Mentre i paesi europei stanno elaborando nuove politiche, sempre più restrittive, noi abbiamo 12 mesi per dare voce all’Africa e analizzarle per tentare di influenzare le decisioni, almeno dal lato africano. Occorre una posizione dell’Africa, attualmente inesistente, rispetto ai flussi migratori».

Oltre all’immigrazione molti sono stati i temi trattati: debito e riforma delle istituzioni inteazionali, mass media in Africa e digital devide (divario tecnologico tra paesi ricchi e poveri), sovranità alimentare, cooperazione, acqua, commercio internazionale, guerre e militarizzazioni, ecc. Un importante spazio è stato consacrato alle attività delle donne, mentre il Campo Thomas Sankarà (dal nome del rivoluzionario presidente del Burkina Faso) ha accolto i giovani.

LOGISTICA…COMPLICATA

Purtroppo, non pochi sono stati i disagi dei partecipanti, causati da una organizzazione logistica approssimativa. Scarsa comunicazione sui frequenti cambiamenti di programma, dispersione dei siti, talvolta cattiva assegnazione delle sale, hanno creato frustrazioni. A sopperire alle deficienze della macchina organizzativa maliana è stata la buona volontà delle singole associazioni che hanno preparato gli incontri tematici, alcuni dei quali con successo.

«Ci siamo sentiti soli», si difende Mamdou Goita. «Questo è un Forum mondiale, non regionale. Abbiamo avuto difficoltà enormi a mobilitare gli altri livelli e ci siamo trovati noi comitato nazionale con il Forum sociale africano (Fsa) a preparare un evento mondiale». Goita rimprovera un mancato appoggio del segretariato internazionale del Fsm e un malfunzionamento della struttura di mobilitazione delle risorse economiche, che non ha funzionato. «È una responsabilità collettiva. Se non c’è un impegno di tutti, il Forum scomparirà» minaccia. «A Nairobi organizzeremo un evento molto più grande (non sarà un Forum policentrico, ma sarà unico per tutti i continenti come le passate edizioni, ndr.), e dovremo arrivarci avendo risolto queste contraddizioni».

UN PROCESSO COLLETTIVO …
PERMANENTE

Sull’approccio per il futuro l’intervento di Sergio Haddah, brasiliano, membro del Consiglio internazionale del Forum sociale mondiale: «Siamo troppo concentrati sulla resistenza, ora dobbiamo portarci di più sulle proposte, sulla costruzione della lotta collettiva». E continua: «Stiamo costruendo una nuova maniera di far politica, a partire dalla società civile. Innovativa per la grande diversità della base e per l’approccio non piramidale. Trasformiamo la diversità in reti di contatto, per moltiplicare l’energia nella lotta politica. Il Fsm è uno spazio forte di analisi della realtà per la ricerca di alternative».
Haddah sostiene che il Fsm deve radicalizzare la sua metodologia: «Dobbiamo costruire le tematiche a partire dagli attori sociali: i temi principali sono quelli delle lotte concrete dei movimenti». E suggerisce anche un metodo pratico, per cui i gruppi di lavoro si costituirebbero e lavorerebbero prima del Forum, a distanza, per poi incontrarsi in un momento di rafforzamento e continuare il lavoro in seguito. In modo che «il processo di costruzione collettiva diventi permanente».

Importante è anche rendere visibile questa lotta. Per questo occorre migliorare la comunicazione e gli strumenti interni per scambiare più informazioni tra i movimenti, lavorare con la stampa a diversi livelli.

L’ITALIA A BAMAKO

Andrea Micconi, cornordinatore del Consorzio Ong piemontesi, presente al Forum legge così la partecipazione italiana: «In un Forum africano uno degli obiettivi è promuovere il dialogo tra società civile e autorità istituzionali locali. L’apporto italiano in termini di esperienze di dialogo tra queste parti può essere significativo. Interessante, ad esempio, che la regione Toscana sia al Forum insieme a componenti della propria società civile e, in particolare associazioni di immigrati. Oppure la partecipazione della Rete dei comuni solidali (Recosol, che raggruppa 100 comuni italiani, con sede a Carmagnola) che ha progetti di cooperazione in Mali. Importanti anche le partecipazioni dei sindacati italiani e dell’Arci, sulla tematica dell’immigrazione».

«Il Fsm ha come sfida di creare agenti di trasformazione sociale. E questi non sono una manifestazione di quelli che ne parlano o ne scrivono ma di coloro che vivono nella realtà – urla l’energica Wahu Kaara, tra gli organizzatori del prossimo Fsm – Porteremo questa sfida a Nairobi per recuperare la sovranità della gente, perché quella degli stati non sta più funzionando».

DI MARCO BELLO


Marco Bello




Alla ricerca della sovranità alimentare

Fsm e mondo contadino

E’ il diritto dei popoli definire cosa mangiano, chi lo produce e come. L’Africa è al 70% agricola, ma i governi non ascoltano i contadini. E le istituzioni inteazionali aprono i mercati africani mentre proteggono quelli dei paesi ricchi. Ma i produttori agricoli si organizzano, a livello mondiale.

BAMAKO. L’aula della Biblioteca Nazionale del Mali è gremita di folla. L’ampio palazzo è sede degli incontri sul tema «Questioni agrarie e contadine». Uno dei più frequentati a vedere il movimento di personaggi in grand boubou e di donne avvolte in panni colorati. L’Africa, e in particolare questa regione, conta tra il 65 e il 70% della popolazione come produttori agricoli. Ma, racconta Njogou Fall alla platea «noi contadini non siamo importanti nelle decisioni sulle politiche agricole, almeno questo è quello che pensano i nostri governi». E continua «dobbiamo interrogarci prima di tutto a livello nazionale nei nostri paesi e rispetto ai nostri governi, sulla maniera con cui portano avanti gli interessi degli africani». Fall, senegalese, corpulento ma gentile, è il presidente del Roppa (la maggiore rete di organizzazioni contadine e di base dell’Africa dell’Ovest). «In secondo luogo, chi decide per noi sono le istituzioni inteazionali». Fall dice che il movimento contadino non è contro l’integrazione regionale, ma che troppo spesso gli organi sovra nazionali (ad esempio Uemoa e Cdeao in Africa dell’Ovest), prendono il sopravvento sulla sovranità dei paesi e foiscono facili alibi ai governi su certe mosse impopolari.
Queste decisioni, prese in sede Omc (Organizzazione mondiale del commercio) fanno gli interessi dei paesi sviluppati: «Si chiede agli africani di aprire i propri mercati mentre ci si protegge il più possibile nei paesi ricchi e si danno pure sovvenzioni. A questo ci dobbiamo opporre, ed è qui che devono intervenire i nostri governi» continua Fall. L’Omc e i ministeri, inoltre, spingono verso l’agricoltura industriale di prodotti per esportazione verso mercati estei, mentre il Roppa promuove l’agricoltura familiare, orientata al soddisfacimento dei bisogni interni.

Assumersi le responsabilità

«Siamo la maggioranza della popolazione in Africa dell’Ovest, perché lasciamo decidere una minoranza delle nostre sorti senza reagire? Dobbiamo capire che la nostra inazione, disorganizzazione e fatalismo giocano contro di noi. La maggior parte delle volte qui in Africa siamo credenti e diamo la responsabilità a Dio di quello che ci capita, ma i problemi sono nostra responsabilità». Il presidente spiega che i contadini costituiscono la maggioranza dell’elettorato di queste nazioni e sono quindi in grado di fare pressioni.

L’Europa e gli Usa proteggono e sovvenzionano le loro agricolture. Perché in Africa Occidentale non si deve proteggere il riso, filiera ad alto potenziale per l’autosufficienza alimentare di questi paesi? «Non potremo competere con l’agricoltura americana o europea, abbiamo bisogno di orientare la nostra produzione verso la domanda intea, i bisogni di sviluppo e di vita migliore degli africani». Concetto, questo, che si riassume nel termine «sovranità alimentare».

Dal locale al globale

Paul Nicholson, rappresenta Via Campesina, la più grossa organizzazione contadina mondiale. «Il nostro è un movimento internazionale nato dal basso, che unisce una molteplicità di anime diverse, per dare una voce ai contadini e ai pescatori, con un carattere politico orizzontale, al contrario di alcune organizzazioni tradizionali gerarchiche o ad altre che ci trattano in modo patealistico». Nicholson spiega che la loro visione e proposta per la società è la sovranità alimentare. Si tratta di un diritto di cittadinanza – non solo contadino quindi – e principio sul quale tutti gli accordi inteazionali dovrebbero basarsi. Il diritto dei popoli a definire queste politiche di accesso alle risorse della terra, acqua, sementi. Il diritto del consumatore a definire cosa mangia, chi lo produce e come lo produce. Tutto questo, ricorda Nicholson, si contrappone alla sempre più forte aggressione al mondo rurale e alle risorse naturali.

Ecco perché sono in aumento le lotte locali che hanno influenza sul globale, magari poco conosciute ma sempre molto criminalizzate, alle quali occorre dare maggiore visibilità. Come ad esempio la lotta sugli Ogm (organismi geneticamente modificati). «Il nostro movimento vuole dare una prospettiva alternativa al modello neoliberista» conclude Nicholson.

Di Marco Bello

PARLA José Bové

José Bové ha lo sguardo soione e fuma la pipa sotto i folti baffi biondi. Si muove da prima donna il leader contadino francese, consapevole di essere uno dei personaggi più noti del Forum. Tranquillo e sempre disponibile, ci racconta i preparativi del Forum sulla sovranità alimentare che Via Campesina sta organizzando, proprio a Bamako per il 2007.

«Per la prima volta che il tema della sovranità alimentare sarà dibattuto a livello mondiale, e non solo, si parlerà dell’alternativa che pone Via Campesina all’Omc. Quando diciamo: l’agricoltura deve uscire dall’Omc è la questione della sovranità alimentare che si pone e il ruolo del mercato rispetto ad essa. Non deve essere il mercato che detta le politiche agricole dei paesi, ma esso deve essere organizzato nel rispetto all’obiettivo centrale dell’agricoltura che è l’alimentazione». Ma perché in Africa? «Perché no? È il continente più attaccato dal dumping (ribasso artificiale dei prezzi per penetrare un mercato, ndr.) dei paesi ricchi. Questo dibattito è più concreto se fatto qui. Il movimento contadino è ben organizzato e porta avanti una lotta importante».

Parlando del Forum sociale di Bamako Bové sottolinea come le organizzazioni africane non sono mai state assenti da queste iniziative, ma andare a Porto Alegre o in India sia molto costoso. Mentre questo incontro ha dimostrato che c’è una vera vitalità dei movimenti sociali africani, di tutta l’Africa. «Questo Forum ha messo in particolare risalto il fatto che il movimento sociale esiste, è forte, capace e agisce concretamente. Le rappresentazioni della società civile devono coalizzarsi per affermare bene la nozione di contropotere che devono avere di fronte a questo processo».

Ad ascoltare tutti questi discorsi, seppur di leader contadini, ma talvolta anche di teorici, nasce spontaneo il dubbio sull’impatto per il contadino africano medio. «La ricaduta concreta è l’insieme dei propositi delle organizzazioni contadine che sono presenti. A partire da questi costruiremo il Forum sulla sovranità alimentare. È un processo in divenire e per raggiungere l’obiettivo di sovranità occorre la riconquista dei mercati locali da parte dei contadini, far uscire l’agricoltura dal sistema dell’Omc e allo stesso tempo la riforma agraria, il controllo delle sementi da parte degli agricoltori. Tutti aspetti che interessano il produttore».

E a chi gli chiede quale spiritualità ha il Forum sociale risponde: «Oggi quello che ci anima qui, è portare avanti dei valori che permettano a ognuno di riconoscersi a partire dalla propria identità per cercare di costruire un mondo più giusto e più solidale».

Marco Bello